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La livella della morte e l’amore che redime
Clemente Sparaco
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Oggi la morte è divenuta un tabù. Sott ratt a allo sguardo pubblico, è occultata, come se fosse qualcosa di indecente. Ai ragazzi in un’età sempre più immatura si parla di sesso, di riproduzione, di prati che anti fecondati ve, mai di morte. E fi nanche la nostra scienza, che sa prolungare la vita dei malati oltre quello che sembrerebbe il limite naturale, ignora come prepararli a morire. La morte è relegata nei luoghi preposti al dolore: l’ospedale, il cimitero, luoghi interdetti alle prati che sociali. E chi muore è sempre più solo e sopporta un peso che altri non vuole condividere. Avendo fatt o dell’autodeterminazione il nostro dio, quando incontriamo la morte, facciamo esperienza di qualcosa che non solo restringe le nostre possibilità, ma che scandalosamente si sott rae al nostro arbitrio. A fronte di questa estrema incongruenza
abbiamo resuscitato il mito stoico del
suicidio. Lo abbiamo aggiornato ai nostri sofi sti cati strumenti ermeneuti ci e ai registri di una medicina che ha smarrito la sua prima fi nalità: guarire. Gli abbiamo dato il nome di eutanasia, ovverosia morte dolce.
Aff ermiamo che la libertà raggiunge il suo apice nell’ott enimento del diritt o di decidere della morte, ma non è che un modo per aggirare la vanifi cazione di tutt e le nostre strategie esistenziali.
Emerge in tutt o questo, infatti , l’incapacità di dare senso alla morte, che è poi incapacità di dare senso alla vita. Ma i fautori dell’eutanasia hanno bypassato il problema, perché fanno leva piutt osto sulla qualità della
Gustav Klimt, Morte e Vita, 1910, Vienna
Ci resta l’amore; e non è poco. La morte e l’amore, infatti , sono pari. La morte è uno scandalo, ma anche l’amore lo è. L’amore vince la morte perché nella vivezza della sua forza suscitatrice si rivela più forte.
vita, come se si potesse prescindere dal quale reale della vita, che sta proprio nella sua peribilità, nel suo essere esposta, nella sua indigenza ontologica.
La verità scevra di ogni retorica è che, oggi come ieri, l’uomo è impotente di fronte alla
morte. Pertanto, il rifi uto di riconoscere i limiti biologici nasce da un colossale fraintendimento, da una caduta di qualità del nostro sapere. Come vogliamo guidare i processi della generazione, così intendiamo programmare quelli della morte. Ma resta che la morte non è una nostra “facoltà”; anzi, nel suo essere imponderabile ed indisponibile, è un secco no alla nostra libertà. «Sai che è?», si chiedeva Totò in una sua nota poesia. E rispondeva: «La morte è una livella»! Il suo potere perequante è tale che essa non solo abbassa le presunzioni e le pretese, ma anche demiti zza ogni possibile sua ideologizzazione. Perché non esiste nessuna morte buona, in quanto la morte non è mai buona né, tantomeno, può essere dolce. Nessuna eufemizzazione è possibile: la morte è fi ne e basta, limite incomprimibile ed indigeribile, segno di quello che al fondo, zitti ta la retorica, siamo. Dura e refratt aria essa ammutolisce ogni discorso e lo trascende con il suo silenzio. Così anche la nostra cultura dell’autodeterminazione appare contrassegnata da un’incondizionata rassegnazione e resa di fronte alla morte, misti fi cazione a parte.
Piutt osto avremmo bisogno di sperare, ma abbiamo smarrito le fonti stesse della
speranza. Avremmo bisogno di fi ducia, ma siamo sovrastati da un’indolente superbia.
Ci resta l’amore; e non è poco.
La morte e l’amore, infatti , sono pari. La morte è uno scandalo, ma anche l’amore lo è. Ora, l’amore dichiara batt aglia alla morte e mostra di poter vincere, perché nella vivezza della sua forza suscitatrice si rivela più forte della morte. Sono forzati i confi ni dell’al di là nell’al di qua, perché l’amore fa sì che il mondo venga destato ad una vita nuova: vivifi cato. Nella sua gratuità mostra, infi ne, di non essere frutt o dei nostri conati o delle prescrizioni di una morale stanca, ma di venire da un altrove e, proprio per questo, di poterci di redimere dalla nostra solitudine.