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Notizie Pro Vita & Famiglia
La livella della morte e l’amore che redime Clemente Sparaco
la morte non è una nostra “facoltà”; anzi, nel suo essere imponderabile ed indisponibile, è un secco no alla nostra libertà. Oggi la morte è divenuta un tabù. Sottratta allo sguardo pubblico, è occultata, come se fosse qualcosa di indecente. Ai ragazzi in un’età sempre più immatura si parla di sesso, di riproduzione, di pratiche antifecondative, mai di morte. E finanche la nostra scienza, che sa prolungare la vita dei malati oltre quello che sembrerebbe il limite naturale, ignora come prepararli a morire. La morte è relegata nei luoghi preposti al dolore: l’ospedale, il cimitero, luoghi interdetti alle pratiche sociali. E chi muore è sempre più solo e sopporta un peso che altri non vuole condividere. Avendo fatto dell’autodeterminazione il nostro dio, quando incontriamo la morte, facciamo esperienza di qualcosa che non solo restringe le nostre possibilità, ma che
scandalosamente si sottrae al nostro arbitrio. A fronte di questa estrema incongruenza abbiamo resuscitato il mito stoico del suicidio. Lo abbiamo aggiornato ai nostri sofisticati strumenti ermeneutici e ai registri di una medicina che ha smarrito la sua prima finalità: guarire. Gli abbiamo dato il nome di eutanasia, ovverosia morte dolce. Affermiamo che la libertà raggiunge il suo apice nell’ottenimento del diritto di decidere della morte, ma non è che un modo per aggirare la vanificazione di tutte le nostre strategie esistenziali. Emerge in tutto questo, infatti, l’incapacità di dare senso alla morte, che è poi incapacità di dare senso alla vita. Ma i fautori dell’eutanasia hanno bypassato il problema, perché fanno leva piuttosto sulla qualità della
Avendo fatto dell’autodeterminazione il nostro dio, quando incontriamo la morte, facciamo esperienza di qualcosa che non solo restringe le nostre possibilità, ma che scandalosamente si sottrae al nostro arbitrio.