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Uccide più il Covid o la fame?

A cura della Redazione

Abbiamo raccolto delle testimonianze che vengono dal Kenya. Quello che ci riferiscono alcuni missionari sulla situazione conseguente alle restrizioni per il Covid ci fa rabbrividire: per fermare il contagio si è creata povertà e fame in un Paese ricco come l’Italia, possiamo immaginare cosa accade in un Paese come il Kenya?

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Abbiamo ricevuto una testimonianza diretta dalla Missione Holy Cross che conferma quanto scrive l’Agenzia Fides e l’Osservatorio sulla Sicurezza Internazionale della Luiss. Dal mese di marzo il Kenya è sprofondato nella crisi. Milioni di persone hanno perso il lavoro. In un Paese che conta le più grandi baraccopoli d’Africa, la vita, prima precaria, ora è diventata miserabile. La Missione Holy Cross, che si trova al confine di una di questi baraccopoli, da numerosi mesi aiuta centinaia di persone senza cibo e senza casa, organizzando distribuzioni di cibo settimanali per le madri indigenti e le famiglie bisognose. In poco tempo, le persone non sono state più in grado di pagare l’affitto. All’inizio i proprietari hanno aspettato, ma dopo due o tre mesi, hanno messo un lucchetto alle serrature per impedire agli inquilini di tornare a casa e di prendere le loro cose, a meno che non paghino i canoni arretrati. La Missione ha aiutato diverse madri sole, con quattro o cinque bambini, anche pagando il loro affitto. La situazione in Kenya non può che peggiorare: la prima fonte di ricchezza è il turismo, gli alberghi e i ristoranti. Tutti chiusi a causa del Covid e i turisti non ci sono più. Tutte le scuole sono chiuse dal mese di marzo e lo saranno fino a tutto questo mese di gennaio. Addirittura molte scuole si sono trasformate in fattorie per sopravvivere, ma gran parte dei professori non riceve un centesimo da mesi. Per gli studenti, poi, andare a scuola significava avere almeno un pasto assicurato al giorno. Pure i professori della scuola della Missione non possono più essere pagati (anche se la Missione fa del suo meglio per sostenerli). Dall’inizio di questo disastro, father James distribuisce più di 100 chili di farina di mais a settimana per aiutare le povere famiglie. Le persone cucinano questa farina nell’acqua per ottenere una sorta di polenta chiamata ugali, il cibo principale in Kenya. Questo cibo non costa molto ed è molto nutriente. Un pacchetto da due chili costa circa un euro. Le famiglie che vivono nelle baraccopoli di Nairobi stanno vivendo giorni drammatici. Centinaia di migliaia di persone sono costrette a “restare in casa” nel degrado, in baracche di pochi metri quadrati, senza risorse alimentari,

né acqua, né elettricità. Manca il cibo, la tensione sociale è alle stelle. Ancora una volta i bambini sono le prime vittime di questo inferno. Di fronte alle proteste popolari, la polizia kenyota non ha esitato a usare le maniere forti. Ci sono stati diversi morti e diverse denunce all’Autorità indipendente di controllo della polizia (IPOA). Un poliziotto, in particolare, è stato accusato dell’omicidio di un ragazzo di 13 anni mentre era in servizio per eseguire l’ordine del coprifuoco imposto dal governo. La morte di Moyo ha causato proteste diffuse in tutto il Kenya, dove i cittadini hanno chiesto a gran voce la fine delle brutalità commesse dalla polizia. Gli attivisti per i diritti umani sostengono che sono 19 le persone, tra cui Moyo, tutte provenienti da zone a basso reddito, morte in seguito alla repressione attuata dalla polizia per far rispettare il coprifuoco. Human Rights Watch aveva accusato la polizia keniota di imporre il coprifuoco in modo caotico e violento, fin dall’inizio del lockdown, maltrattando, picchiando o usando gas lacrimogeni contro le persone per costringerle a lasciare le strade. Anche il ministro degli Interni, Fred Matiangi, ha criticato gli eccessi della polizia, ma ha altresì specificato che bisogna fare attenzione nel «dipingere l’intero servizio con lo stesso pennello». Tutto questo è avvenuto e sta ancora avvenendo perché in Kenya vi sono stati da inizio gennaio 2020 fino ad ora circa 70.000 casi di Covid con 1200 morti, secondo i dati dell’Oms. Questo su una popolazione di oltre 50 milioni di persone vuol dire che sono stati ufficialmente contagiati lo 0,14% della popolazione; e sono morti l’1,7% dei casi Covid registrati. In un Paese con tanti e tali problemi economici e sociali, siamo certi che l’epidemia di coronavirus sia una emergenza di carattere prioritario? Eppure il Ministero della Salute del Kenya ha seguito le indicazioni dell’Oms (lo dimostrano i comunicati stampa pubblicati sul sito istituzionale, health.go.ke). D’altro canto l’Oms è anche intervenuta direttamente in Kenya con due milioni e mezzo di euro (stanziati dall’Unione Europea) per sostenere gli sforzi del governo per controllare la diffusione del virus, per formare gli operatori sanitari, per supportare la comunicazione mediatica del rischio su radio, TV, e piattaforme digitali al fine di coinvolgere i leader della comunità e il pubblico nel promuovere la politica del distanziamento sociale, della sanificazione delle mani e dei luoghi e dei tamponi. Un sondaggio del Kenya Bureau of Standards ha rilevato che il 100% della popolazione del Paese aveva sentito parlare del Covid. L’anziano Masai Julius Oloiboni ha mobilitato la sua comunità semi-nomade per istituire stazioni di lavaggio delle mani nel loro villaggio improvvisato, impedire ai membri della famiglia di interagire tra loro e fermare tutti i movimenti fuori dai villaggi tranne quelli dei mandriani. Sono state chiuse tutte le frontiere. Ma chi si occupa di dare da mangiare alla gente? 

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