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Nascere, morire e risuscitare

Francesco Agnoli

Storico, filosofo, apologeta, Agnoli offre ai nostri Lettori una serie di spunti di riflessione sulla vita oltre la morte. Ce ne parla anche con espliciti riferimenti alla filosofia e alla fede cattolica, certamente. Ma anche e soprattutto da un punto di vista “laico”, scientifico, squisitamente razionale.

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Cotidie morimur e cotidie nascimur: siamo esseri mortali e natali

Nella preistoria si seppellivano i morti come fossero addormentati, in cammino (verso l’aldilà), in posizione fetale (prima della rinascita)….

La morte e la nascita, due poli della nostra vita rispetto a cui l’uomo si è sempre interrogato. Siamo creature mortali, e del resto, se non

fossimo mortali non ci porremo alcuna

domanda: se fossimo sempre esistiti e destinati ad esistere per sempre, infatti, non ci chiederemmo da dove veniamo, dove andiamo, perché ci siamo: saremmo, punto e basta. La mortalità dunque è la condizione necessaria per la riflessione sul senso (origine e direzione) della nostra esistenza. La storia ci dice che le civiltà umane hanno sempre dedicato uno spazio, un luogo, alla sepoltura dei morti, alle necropoli, ai cimiteri: questa è una caratteristica tipicamente e solamente umana, e indica che l’uomo, a differenza degli animali, ha sempre ritenuto che vi fosse un aldilà, un’altra vita. «Vita mutatur, non tollitur»: con la morte la vita è mutata, non è tolta, recita il prefazio della Messa dei defunti, per esprimere questo concetto antico come l’uomo. Quindi: mortali sì, ma proiettati oltre, con un desiderio di vita che prosegua. San Tommaso d’Aquino diceva che l’uomo «sente il cocente desiderio di vivere sempre e di non morire mai»; mentre Soren Kierkegaard ricordava che «nulla di finito, nemmeno l’intero mondo, può soddisfare l’animo umano che sente il bisogno dell’eterno»; o, ancora, riflettendo sull’amore: «Che cosa ama l’amore? L’Infinito. Cosa teme? I limiti». In ogni esperienza del resto percepiamo il nostro limite, e desideriamo superarlo. Quindi esiste un contrasto fra la coscienza della nostra mortalità, che è tipicamente umana, e questo desiderio di vivere. Lucio Anneo Seneca scriveva, circa 2.000 anni orsono, «Cotidie morimur», cioè «Moriamo un poco ogni giorno», perché ogni istante che passa invecchiamo un po’ e quindi marciamo inesorabilmente verso il nostro decesso.

Mortali, ma natali

Si può ritenere però che l’uomo, nel suo complesso, non sia soltanto un essere mortale, ma anche, per usare un’espressione di Hannah Arendt, un «essere natale»: «Gli uomini», affermava, «anche se devono morire, non sono nati per morire ma per incominciare».

Ogni uomo è infatti «qualcosa di nuovo nella sua unicità», qualcosa di così unico da essere miracoloso: se rimaniamo sbigottiti riflettendo sul venire all’essere, circa 14 miliardi di anni fa, dal “nulla”, dell’Universo, quanto più dovremmo meravigliarci davanti alla nascita di ogni singolo uomo, essendo ogni singolo uomo ben più dell’Universo materiale stesso? Leggiamo ancora la Arendt: «Ogni uomo è

unico e con la nascita di ciascuno viene al mondo qualcosa di nuovo nella sua unicità

[...]. Con la parola e con l’agire ci inseriamo nel mondo umano, e questo inserimento è come una seconda nascita, in cui confermiamo e ci sobbarchiamo la nuda realtà della nostra apparenza fisica originale [...]. Il miracolo che salva il mondo, il dominio delle faccende umane, dalla sua normale, “naturale” rovina è in definitiva il fatto della natalità, in cui è ontologicamente radicata la facoltà dell’azione. È, in altre parole, la nascita di nuovi uomini e il nuovo inizio, l’azione di cui essi sono capaci in virtù dell’esser nati. Solo la piena esperienza di questa facoltà può conferire alle cose umane fede e speranza, le due essenziali caratteristiche dell’esperienza umana che l’antichità greca ignorò completamente. È questa fede e speranza nel mondo che trova forse la sua più gloriosa e stringata espressione nelle poche parole con cui il Vangelo annunciò la ‘lieta novella’ dell’Avvento: “Un bambino è nato per noi”». È proprio così: quando nasce un bambino si introduce qualcosa di nuovo in un mondo preesistente, viene all’essere molto di più dell’intero universo, poiché con l’uomo entra in scena la libertà («Dio ha creato l’uomo per introdurre nel mondo la facoltà di dare inizio: la libertà»); lo stesso mondo fisico si rinnova, acquista un senso, ospitando ciò che gli dà significato, perché senza l’uomo sarebbe vuoto di intelligenza, di parole, di azioni, di atti d’amore, di vita… Per questo i padri della Chiesa, grandi filosofi e teologi, insegnano che l’uomo è sia “figlio”

dell’universo creato - è fatto di terra e come tale appartiene alla “natura delle cose”, ad una riproduzione “automatica”, naturale - sia figlio diretto di Dio, essendo la sua anima (cioè ciò che lo rende unico, miracoloso) “infusa direttamente”, singolarmente, dal Creatore stesso.

Ma come si nasce?

Osserviamo il momento più evidentemente stupefacente della nostra vita. Come siamo venuti al mondo? Anzitutto nasciamo da una relazione tra un uomo e una donna; da un incontro, quando va come dovrebbe andare, tra le loro anime e i loro corpi. Tra due anime diverse, uniche, e organi complementari, ognuno dei quali fatto per funzionare solo in relazione con quello, corrispondente, del sesso opposto. In altre parole il nostro cuore funziona da solo; così i nostri reni; gli organi riproduttivi, invece, no. Come i gameti: ogni nostra cellula ha 46 cromosomi, solo ovulo e spermatozoo

«L'amore non verrà mai meno. Le profezie verranno abolite; le lingue cesseranno; e la conoscenza verrà abolita; poiché noi conosciamo in parte, e in parte profetizziamo; ma quando la perfezione sarà venuta, quello che è solo in parte, sarà abolito. Quando ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino; ma quando sono diventato uomo, ho smesso le cose da bambino. Poiché ora vediamo come in uno specchio, in modo oscuro; ma allora vedremo faccia a faccia; ora conosco in parte; ma allora conoscerò pienamente, come anche sono stato perfettamente conosciuto. Ora dunque queste tre cose durano: fede, speranza, amore; ma la più grande di esse è l’amore” (San Paolo, 1 Cor. 13, 8 - 13).

ne hanno la metà, 23... sono anch’essi

“incompleti” e complementari, come gli organi

da cui provengono. Come le persone che si sono unite. Lo spermatozoo è una cellula molto piccola, incapace di vita autonoma; la cellula uovo invece è la più grande cellula umana, ma anch’essa è incapace di vita autonoma, se non viene fecondata, infatti, degenera e muore. Ogni vita individuale nasce dunque dall’unione di due vite, due organi complementari, dal “matrimonio” (singamia) di due gameti.

Nasciamo e viviamo in relazione

La relazione è dunque costitutiva del nostro essere, sin dall’origine. Ed è triadica, trinitaria: due persone che diventano una “cosa sola”, generano una terza persona, che è nello stesso tempo la “somma” dei genitori, ma anche qualcosa di nuovo e diverso, anche geneticamente-materialmente parlando. L’embrione che si annida nell’utero materno infatti «è un individuo che è biologicamente (in parte, ndr) estraneo: geneticamente infatti è diverso dalla madre, posto che metà dei geni gli vengono dal padre. È un individuo geneticamente diverso, un estraneo, ma non viene rigettato», come invece accade per tutti gli altri corpi estranei. Autonomo geneticamente - «La sua costruzione è autonoma e guidata da una legge intrinseca che stabilisce l’esecuzione di un piano ben definito dal primo istante» - l’embrione umano rimane dipendente dalla madre per il nutrimento e mantiene con lei, dal primo giorno e per tutti i nove mesi, una relazione simbiotica di tipo biochimico e psichico: «Lontano dall’essere un ospite inerte, il feto svolge un ruolo attivo nell’andamento della gravidanza, controlla vari aspetti del suo sviluppo ed è capace di rispondere a vari stimoli uditivi, visivi e tattili provenienti dall’ambiente esterno. Alcuni psicologi parlano di “personalità” del feto prima della nascita. Queste supposizioni sono confortate da

vari racconti di individui in ipnosi che hanno ricordato esperienze vissute nel periodo prenatale o l’esperienza della nascita. In base quindi al presupposto che il feto possa essere cosciente, consapevole e capace di memoria, è anche stato ipotizzato che le esperienze che vive durante il periodo prenatale possano influire sullo sviluppo della sua emotività e sulla sua mente».

Nascere al mondo

Continuiamo a osservare: anche al momento della nascita siamo nudi, deboli, senza parola, dipendenti per la sopravvivenza, da chi ci ama. Dipendiamo dall’amore altrui tanto per esistere, quanto per crescere, per rimanere in vita. Tutto l’Universo, insegna sant’Agostino, viene alla luce “dal nulla” per amore di Dio, ed è mantenuto nell’esistenza dallo stesso Amore. Usciamo dal nulla per divenire una piccolissima cellula, viviamo nella pancia oscura della mamma, dove quasi non si sente e non si vede, dove gli altri non ci vedono, per venire, infine, alla luce. Questa nascita al mondo è un evento traumatico: per accedere al mondo, a un di più in cui vedremo finalmente i nostri genitori, e poi il cielo, i fiori, tutto ciò che era prima inaccessibile e impensabile, è necessaria una

fatica, un salto, una ferita: la luce del sole colpisce per la prima volta i nostri occhi, fatichiamo a respirare, percepiamo il dolore della separazione dal caldo nido materno… ma un universo nuovo si spalanca! Mentre

“moriamo alla vita uterina”, nasciamo ad una vita più ricca e completa.

Così al momento della nascita in senso proprio siamo già “nati” 3 volte: nell’amore, nel pensiero dei nostri genitori (concepimento deriva da concepire, anzitutto nella mente, nel cuore); nel corpo della nostra mamma (fecondazione); e poi, finalmente, al mondo. Finita qui? No, certamente. La nostra natura relazionale è evidentissima nel linguaggio, che impariamo però piano piano, e che ci permette di incontrare altre persone, altri mondi, arricchendo sempre di più il nostro linguaggio, le nostre esperienze. Scopriamo così l’amicizia, l’adolescenza, la musica, la letteratura, le scienze… spalancando davanti a noi sempre nuove porte, lungo l’avventura, per l’uomo infinita, della conoscenza. Così ogni mattina, per tutta la vita, quando ci risvegliamo, con la stessa luce del primo giorno a ferirci di nuovo gli occhi intorpiditi, affronteremo un nuovo giorno, che potrà

essere, se lo vogliamo, una nuova, piccola

nascita, altri mondi umani da conoscere, altre esperienze da vivere!

Tornare bambini

Un giorno forse incontreremo la persona della nostra vita, quella a cui promettere tutto, e allora ci accorgeremo ancora una volta quanto sia grande la forza innovatrice dell’amore: sorgeranno in noi nuovi progetti, il desiderio di una nuova casa, di un nuovo assetto per la nostra vita… finché arriverà, come un turbine, a spazzare via di nuovo ogni abitudine, ogni routine, ogni ripetitività, la nascita di un figlio: ci troveremo di nuovo bambini anche noi, bambini-adulti, grati per l’esperienza della genitorialità, per il dono ricevuto, carponi a osservare di nuovo una formica o una farfalla, a ridere per le cose semplici della vita, come un tempo. I figli non sono forse una nuova giovinezza? Una giovinezza ancora più bella, più consapevole, più gradita, nel suo riapparire, quasi inaspettata? Un grande poeta italiano, Giovanni Pascoli, diceva che dentro di noi continua a vivere, anche quando siamo adulti, un “fanciullino”: è lui che scopre nelle cose «la loro lacrima e il loro sorriso»; è lui che sa stupirsi come un «novello Adamo»; è lui che vede in un albero, in un ragno, in un’ape, in uno stelo «cose che han molti secoli, o un anno, o un’ora…».

«Se non ritornerete come bambini», diceva Gesù, «non entrerete mai»: Pascoli, poeta cristiano toccato dallo scetticismo, pensa che solo tornando bambini potremo fare della nostra vita non un’opera in prosa, noiosa, ripetitiva, banale, ma una poesia. Ogni uomo è dunque “un nuovo inizio”, il principio di una storia inedita; ogni uomo è “un iniziatore”: di una discendenza biologica, di gesti, azioni, imprese che solo lui compirà, che solo grazie a lui verranno all’esistenza, dal nulla. «Chi intraprende un’azione», è sempre la Arendt a parlare, «deve sapere di aver dato inizio a qualcosa di cui non potrà mai prevedere l’esito, se non altro perché con il proprio stesso atto ha già modificato ogni cosa, rendendo tutto più imprevedibile».

Ri-nascere con il perdono

Figlia del popolo ebraico, affascinata dal cattolicesimo del suo amato Agostino, che ritiene il padre della sua “filosofia della nascita”, la Arendt sa che esiste anche una “natalità” spirituale. Come ripartire, dopo la devastazione dell’Europa prodotta dal nazionalsocialismo e dal comunismo? Come superare il dolore per un caro ucciso? Ma anche, più semplicemente, come mantenere vitale e il più possibile felice il rapporto con il marito, con gli amici, con le persone care? La Arendt è allieva, negli anni venti, a Berlino, di Romano Guardini, filosofo italiano che dovrà lasciare la cattedra universitaria dopo l’avvento del nazismo, nel 1939. I due si incontreranno di nuovo negli anni Cinquanta, a guerra finita. Guardini, essendo un sacerdote, affronta anche il tema del perdono e del pentimento. Questo perché la preghiera fondamentale del cristianesimo, il Padre nostro, dà un’importanza, inesistente nel mondo antico, al perdono. Il cristianesimo è così incentrato sul perdono che un cristiano “rinasce dall’acqua”, con il battesimo (che è anche “perdono” del peccato originale); è perdonato, nel sacramento della confessione, e deve perdonare (secondo la già citata preghiera del Padre nostro). Perdono sta insieme a pentimento. Cos’è il pentimento? Il voler dar vita a qualcosa di nuovamente nuovo. È il desiderio di ripartire, di rinascere, magari dopo un “peccato mortale”, cioè dopo qualcosa che ha ucciso non il nostro corpo, ma la nostra anima. E il perdono? Ciò che può ridar vita ad un rapporto incrinato, ad una relazione in difficoltà, che può cancellare una ferita mortale all’anima… Pur in una prospettiva laica, la Arendt condivide questo pensiero, e lo analizza: il perdono è qualcosa di miracolosamente natale, nasce lì dove sembrava aleggiare la fine; fa rinascere ciò che era sul punto di perire: «[…] l’atto del perdonare non può mai essere previsto; è la

San Pietroburgo, abside della Chiesa della Resurrezione

sola reazione che agisca in maniera inaspettata e quindi ha in sé, pur essendo una reazione, qualcosa del carattere originale dell’azione. Perdonare, in altre parole, è la sola reazione, che non si limita a re-agire, ma che agisce in maniera nuova e inaspettata». (Hannah Arendt, Vita activa, La condizione umana). Il perdono, in altre parole, fa rinascere sia colui che lo concede, sia colui che lo riceve; risana il ferito e il feritore, cancellando il ricordo doloroso; permette di ripartire a ciò che si era fermato; fa nuovo ciò che stava per diventare troppo vecchio; lava ogni macchia e ridona freschezza alla relazione. Nel più bel film sulla nascita che conosca, October baby, alla protagonista sopravvissuta ad un aborto per avvelenamento e devastata interiormente dall’odio per sé e la madre che ha cercato di ucciderla, un sacerdote dice: «Capisco… san Paolo apostolo scrisse una lettera ai Colossesi in cui diceva: «Come il Signore vi ha perdonati, così fate anche voi». Cristo ti ha perdonata, e poiché Lui ti ha perdonata anche tu hai il potere di perdonare, di scegliere di perdonare. Liberati, l’odio è un peso, un peso che non devi più sopportare, solo nel perdono puoi essere libera, perdono che va ben oltre la tua comprensione, o la mia…».

«Fame di nascere del tutto»

Sempre nel Novecento un’altra filosofa, spagnola, Maria Zambrano, affronta il tema della nascita. Per lei ogni uomo più che essere nato, vive «una nascita interminabile»: «più che un nascere il suo è un andare nascendo». L’uomo infatti, a differenza dell’animale, porta in sé una “divina insoddisfazione”, un desiderio mai domo, e scopre che «non è mai nato del tutto», vuole «nascere di nuovo, resuscitare, e

non più una, ma tutte le volte che occorre, fino

a riuscire ad essere eternamente». L’uomo è dunque, annota la Zambrano, «una creatura non formata una volta per tutte e non terminata…». Ma quando, l’uomo - questo “mendicante dell’essere” che ha accettato la fatica e la gioia di rinascere tante volte, sostenuto dalla fede e dalla speranza, incalzato dall’amore; che ha portato la sua condizione di creatura, senza annichilire la propria dignità, né inseguire un illusorio “delirio di deificazione” - potrà “nascere davvero, nascere del tutto”? La Zambrano, cattolica, vi accenna, brevemente, quasi come conclusione inevitabile eppure misteriosa, nel suo Il Corpus Domini a Firenze: «Signore, sarà così? Finiremo di nascere del tutto nel tuo Paradiso?».

Piero della Francesca, La Resurrezione, 1460, Museo Civico di Sansepolcro (AR)

Un medico e le esperienze pre-morte

Proviamo a dare un’occhiata alle esperienze di pre-morte (Nde), studiate in medicina. Il medico Enrico Facco, autore di Esperienze pre-morte. Scienza e coscienza al confine tra fisica e metafisica (Altravista, 2010, Milano), riporta 20 testimonianze di pazienti che hanno vissuto un’esperienza di pre-morte. In esse ritornano i seguenti concetti: «Vedevo dei ritratti, come se tutta la vita mi passasse davanti in modo vorticoso… ad un certo punto ho visto una luce che mi dava chiarezza: quello che ho visto e sentito non si può raccontare con le parole che conosciamo, non riesco a descriverlo pienamente. C’era una luce, una comprensione profonda nel senso di chiarezza, cioè non era una luce come noi la intendiamo: era qualcosa di diverso, come se io conoscessi tutto…»; «Mi sentivo avvolta da questa luce, provavo una sensazione di pace, di benessere, di amore infinito…»; «Non avevo il corpo, ero coscienza. Poi arriva questo essere di luce, una luce bianca, speciale, non accecante, che era amore, amorevolezza…»; «Vedevo tutta la situazione attorno a me…»; «Riconoscevo me stessa e comprendevo che quello era il mio corpo, ma non avevo paura

«Coloro che muoiono nella grazia e nell'amicizia di Dio e che sono perfettamente purificati, vivono per sempre con Cristo. Sono per sempre simili a Dio, perché lo vedono “così come egli è” (1 Gv 3,2), “a faccia a faccia” (1 Cor 13,12)… Questa vita perfetta, questa comunione di vita e di amore con la Santissima Trinità, con la Vergine Maria, gli angeli e tutti i beati è chiamata “il Cielo”. Il Cielo è il fine ultimo dell’uomo e la realizzazione delle sue aspirazioni più profonde, lo stato di felicità suprema e definitiva» (Punti 10231024 del Catechismo della Chiesa cattolica).

«Questo mistero di comunione beata con Dio e con tutti coloro che sono in Cristo supera ogni possibilità di comprensione e di descrizione. La Scrittura ce ne parla con immagini: vita, luce, pace, banchetto di nozze, vino del Regno, casa del Padre, Gerusalemme celeste, paradiso: “Quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo, queste ha preparato Dio per coloro che lo amano” (1 Cor 2,9). A motivo della sua trascendenza, Dio non può essere visto quale è se non quando egli stesso apre il suo mistero alla contemplazione immediata dell’uomo e gliene dona la capacità. Questa contemplazione di Dio nella sua gloria celeste è chiamata dalla Chiesa “la visione beatifica”»(Punti 1027-1028 del Catechismo della Chiesa cattolica).

né voglia di tornare indietro… ma io durante l’esperienza non avevo avuto percezione del tempo»; «Ciò che ho sperimentato ha causato in me importanti cambiamenti esistenziali. Innanzitutto è cambiata la gerarchia dei valori intorno agli ambiti nei quali si svolge la vita: molti fattori prima fondamentali, come le ambizioni nel lavoro, la carriera e il successo, sono passati in secondo piano. Sono invece diventati prioritari il valore della persona in quanto tale e dell’altro, vicino o lontano che sia…»; «Mentre mi trovavo in quel luogo avevo l’impressione di conoscere ogni cosa: non so dire quanto tempo sia durata la permanenza in questa situazione perché il tempo aveva perso ogni significato». Osservando queste descrizioni, in perfetto accordo con mille altre raccolte negli anni da altri medici, si notano alcune costanti: l’esperienza è definita come ineffabile; fuori del corpo; segnata dalla luce; dalla conoscenza intuitiva e immediata e dall’amore; da un amore infinito e pervasivo. E cambia spesso la vita di chi l’ha sperimentata.

«Visioni dell’Aldilà»: intervista a Gloria Riva

Gloria Riva (Monza 1959), accanto alla sua passione per l’arte, coltiva lo studio della Sacra Scrittura, della Patristica e della spiritualità di Madre Maria Maddalena dell’Incarnazione. Ha pubblicato con la casa editrice san Paolo: Nell’arte lo stupore di una Presenza, Frammenti di Bellezza, Testimoni del Mistero. Quadri sul Vangelo di Luca; con Fabio Cavallari, Volti e Stupore, uomini feriti dalla bellezza. Dal febbraio del 2007 si è trasferita nella Diocesi di San Marino-Montefeltro, dove ha fondato una comunità Monastica.

Gloria Riva, lei ha avuto una esperienza di pre morte. Ce la può descrivere?

«A ventun anni ero fidanzata e stavo muovendo timidi passi verso la fede (abbandonata da qualche anno, in seguito a varie vicissitudini). Dopo un viaggio a Lourdes, dove ero rimasta colpita dal clima di preghiera, uscii un sabato sera con il mio fidanzato, diretta in discoteca. Giunti a un semaforo, disposto al verde, attraversammo l’incrocio e dall’altra parte della carreggiata vidi arrivare una vettura a velocità elevatissima. Ci fu lo schianto e poi, per me, il silenzio e il buio. Ebbi la percezione netta di essere alla fine della mia vita e mi abbandonai totalmente a questa drammatica eventualità. Immediatamente percepii, dentro quell’oscurità, una grande pace e una grande serenità. Si aprì allora al mio sguardo una piccola luce bianchissima che mi veniva incontro dilatandosi. La pulsione beatifica di quella luce era come un richiamo. Ebbi la certezza che Dio era là e che Dio era amore. Desiderai con tutte le forze raggiungere quella luce ma vidi scorrere la mia vita davanti a me come in un film, ed ebbi la totale chiarezza di giudizio su di essa. Quella luce era amore, gratuito e quella gratuità nella mia vita non c’era. Mi avvolsero, così, due sentimenti contrastanti. Da un lato un dolore grande: l’eternità mi si of-

friva in tutta la sua bellezza e io non la potevo

raggiungere; Dio non mi giudicava, semplicemente si mostrava a me con la sua verità, ero io a giudicarmi e a comprendere tutta la dissomiglianza. D’altro lato però provai una gioia indicibile: ero pensata, amata, voluta per questo tempo, per questa storia. Non siamo un gioco a dadi, un caso in balia di un destino capriccioso. Quando mi rianimarono provai la sensazione del rifiuto della vita: avevo sette fratture, trauma cranico, emorragia interna. Ero una specie di puzzle da ricomporre. Immobile. Il ricordo di quella luce però fu come la cartina di tornasole e avrei desiderato fin da subito gridare a tutti

che non si muore.

Mi sono ritrovata spesso a riflettere su ciò che mi era accaduto durante il mio stato di incoscienza. Mi sorpresi nel ricordare alcuni particolari che non riuscirei a ricollocare in ordine temporale, rispetto alla visione della luce. Dopo che mi liberarono dalle ferraglie dell’autovettura, vidi, riconobbi e salutai un caro amico che, in servizio

Hieronymus Bosch, Visioni dell’Aldilà, Venezia, Gallerie dell’Accademia

alla croce rossa, era giunto a soccorrermi. Lui mi disse, in seguito, di avermi trovata immobile, apparentemente morta. Vidi il mio corpo come dall’alto e inorridii nel vedere una gamba completamente rovesciata rispetto alla direzione naturale, e tutta la gente sopra il mio corpo. Vidi infine il mio ragazzo sul ciglio della strada, con le mani strette ai fianchi, mentre ansimava pesantemente e provai dolore per il suo stato, mentre per il mio non provai nulla. Non sentii invece molte cose che infastidirono alquanto il mio fidanzato, come ad esempio lo strillare delle sirene dei carabinieri, dell’ambulanza e dei vigili del fuoco. Sono giunta alla conclusione che i miei sensi erano sollecitati solo da relazioni affettive (l’amico, me stessa, il mio ragazzo)».

Spesso si legge che chi ha vissuto una simile esperienza, poi ha cambiato stile di vita. Cosa è successo nel suo caso?

«Rimasi in ospedale (tra uscite e rientri) sei mesi. Quei mesi cambiarono la mia vita. Come

scrisse un giorno Andrè Frossard: Dio era dietro di me; a volte anche davanti a me. Che la vita fosse un dono da non sprecare mi apparve chiarissimo e senza retorica. Non fui più la stessa e scoprii pian piano che il matrimonio non mi sarebbe bastato, sentivo l’urgenza di testimoniare a tutti quello che mi era accaduto. Vedevo con occhi nuovi cose e ambienti cui prima ero avvezza, misurandone tutta la grettezza. Tornai a Lourdes per avere chiarezza sulla vocazione. Ci tornai con il mio fidanzato. Un giorno sfumò un appuntamento che avevamo alla grotta della Vergine (io ero dama, lui barelliere. Avevamo turni diversi e, quindi, pochi momenti di incontro). Presi a camminare e mi ritrovai davanti alla cripta. Non lo sapevo ancora, ma lì si faceva, allora, l’adorazione perpetua. Entrai e percorsi un lungo corridoio con cappelle laterali. Mi ritrovai poi in una cappella circolare bianchissima e nella penombra. Due suore vestite di bianco facevano adorazione davanti a un ostensorio che aveva la forma di un ramo di spine. Immediatamente avvertii una presenza forte e vidi che l’Eucaristia era illuminata da dietro, la distinsi chiaramente come una piccola luce nel buio. Eccola, pensai, la luce che ho incontrato sulla strada. Non c’è bisogno di morire per vederla. La chiesa la nasconde nel segreto dell’altare ogni giorno, là dove si celebra, là dove si adora. Decisi, in quel giorno, che non mi sarei più separata dall’eucaristia. Entrai perciò tra le monache dell’adorazione perpetua di Monza, ove rimasi ventitré anni. In Monastero maturai gradatamente la consapevolezza che il tesoro dell’Eucaristia era calpestato dagli stessi cattolici. Che c’era una bellezza a tutti incomprensibile e che bisognava aumentare la forza del richiamo. Seguendo dei laici, per incarico dei superiori, mi accorsi che era scomparsa dalla nostra vita quotidiana la forza unificante del simbolo e iniziai così a spiegare la Scrittura e la fede attraverso l’arte. Questo si rivelò pian piano un carisma, perciò giunsi alla determinazione di fondare un Monastero che accanto all’adorazione eucaristica (e quindi, fermo restando la vita di preghiera e contemplazione), avesse una particolare attenzione alla bellezza in tutte le sue forme. Specie quelle legate alla liturgia. Cosa che ho realizzato nel 2007 nella diocesi di San Marino Montefeltro». «Spiegare una esperienza di pre morte come la mia è rischioso. Puoi essere compresa, ma puoi cadere nel banale, nell’occulto, nel new age. Ne ho fatto più volte esperienza. Dopo l’incidente mi imbattei, per caso, nel polittico di Bosch dal titolo Visioni dell’Aldilà. Lo avevo già incontrato tra i banchi di scuola, senza che mi facesse alcun effetto. Rivedere il pannello, chiamato dai critici empireo, suscitò in me una grande impressione. Compresi che soltanto

chi aveva fatto un’esperienza simile alla mia poteva dipingere in modo così puntuale ciò

che avevo visto. Nel pannello di Bosch una luce bianca circolare (simile a un’ostia) irrompe nel buio, pulsando. Ci sono anime che desiderano raggiungerla, ma alcune ne sono impedite dalla loro oscurità. Nella parte più bassa del pannello, angeli con ali nere frenano queste anime le quali hanno le mani in alto come inabilitate a muoversi. Il volto però è costantemente rivolto alla luce e questa tensione le purifica. Infatti un poco più in alto (più verso la luce) angeli dalle ali rosse (il fuoco purificatore) trattengono anime che ancora guardano la luce, ma che tengono le mani in preghiera. Il loro desiderio di Dio li purifica e così si elevano. Alla fine, in alto, proprio all’inizio del cono di luce bianchissima, ci sono anime accompagnate da angeli con ali bianche e con le mani tese verso l’abbraccio. Ho trovato questo dipinto perfettamente corrispondente a ciò che ho vissuto e mi ha confortato vedere come un autore del Cinquecento, che certo non poteva conoscere terapie intensive e accanimenti terapeutici, abbia dipinto qualcosa di molto vicino a quello che raccontano coloro i quali, per così dire, sono tornati indietro forse per avvertire il nostro mondo materialista che il Paradiso c’è».

Gli scienziati e la Risurrezione

Il grande matematico e fisico Blaise Pascal (1623-1662), padre della prima macchina calcolatrice, del concetto moderno di probabilità e molto altro, riflettendo sulla Risurrezione di Cristo, scriveva: «Con che ragione vengono a dirci che non si può resuscitare? Che cos’è più difficile: nascere o resuscitare? È più difficile che ciò che non è mai stato sia, o che ciò che è stato sia ancora? È più difficile essere o ritornare a essere? L’abitudine ci fa sembrare facile l’essere; la mancanza di abitudine ci fa sembrare impossibile il ritornare a essere. Che modo ingenuo, popolare di giudicare!» (Pensieri, 357). Pochi anni prima, Renato Cartesio (15961650), matematico e filosofo, nel suo celeberrimo Discorso sul metodo sosteneva che non vi è nulla di più assurdo che attribuire all’uomo lo stesso destino di morte eterna e definitiva che spetta agli animali. Infatti, «dopo l’errore di quelli che negano Dio, che penso di aver abbastanza confutato nelle pagine che precedono, non ve n’è altro che allontani di più gli uomini deboli dal diritto cammino della virtù che immaginare che l’anima delle bestie sia di natura uguale alla nostra e che, di conseguenza, noi non si abbia nulla da temere né da sperare, dopo questa vita, non più che le mosche e le formiche». Un altro dei padri della scienza moderna, il chimico Robert Boyle (1627-1661), riteneva che Dio, in quanto Creatore, non fosse vincolato in modo assoluto alle leggi da lui stesso create, e che quindi la resurrezione non potesse essere provata, dalla ragione umana, ma neppure negata. «Così la questione», scriveva in Holy Scriptures, «non dovrebbe essere formulata se possiamo o meno dimostrare la resurrezione con la semplice ragione, ma

Blaise Pascal (1623-1662)

se possa o meno, la resurrezione, essere confutata dall’irrefragabile ragione». Se rimaniamo in Inghilterra, sir George G. Stokes (1819-1903), già presidente della Royal Society, matematico e fisico di Cambridge, padre della dinamica dei fluidi e del teorema di Stokes, scriveva in una delle sue Gifford Lectures, argomentando sui miracoli e sulla Resurrezione di Cristo: «Sarebbe assurdo negare alla volontà creatrice le facoltà che posseggono gli esseri creati. Ora, c’è una facoltà del cui possesso siamo istintivamente persuasi, il libero arbitrio…». E aggiungeva: se pensiamo le leggi del creato, «come intese da una volontà superiore, bisogna pur supporre la possibilità di sospenderle in un particolare caso…». Un altro gigante, forse il massimo fisico dell’Ottocento, il padre dell’elettromagnetismo, James Clerk Maxwell (1831-1879), nel 1858, in una poesia a sua moglie, le scriveva che l’avrebbe voluta sempre vicina, e che il loro amore avrebbe sempre vissuto «in nome di Colui che ci amò entrambi».

Solo l’amore, purificato da peccati e preoccupazioni, oltre la tomba vivrà. Fortifica il nostro amore, o Signore, in modo che possiamo credere nel Tuo grande amore e che, aprendo a te tutta la nostra anima, possiamo ricevere il tuo dono generoso. Tutte le facoltà mentali, tutta la forza di volontà, giaceranno forse nella polvere quando saremo morti ma nostro è l’amore e tale sarà ancora quando terra e mari spariranno.” James Clerk Maxwell

«Non è vana la nostra fede, né le imprese dello spirito, perché Cristo è risorto. Nel fluire confuso degli eventi si è trovato un centro, è stato scoperto un punto d’appoggio: Cristo è risorto! Esiste una sola verità: Cristo è risorto. Se il Dio-Uomo non fosse risorto, allora tutto il mondo sarebbe divenuto completamente assurdo e Pilato avrebbe avuto ragione con la sua domanda sprezzante: cosa è la verità?» (Pavel Florenskij)

Facciamo un balzo temporale, e leggiamo questa breve riflessione del più grande logico matematico del Novecento, e per molti di sempre, Kurt Gödel (1906-1978). Secondo lui «il nostro mondo, con tutte le stelle e i pianeti che contiene, ha avuto un inizio e, con ogni probabilità, avrà una fine, diventerà, cioè, letteralmente, niente. Ma perchè allora ci sarebbe solo un mondo?» (Kurt Gödel, La prova matematica dell’esistenza di Dio, Bollati Boringhieri, Torino, 2006, p. 90). La conclusione logica di Gödel è la seguente: «In un mondo finito, Dio (infinito) esiste ed è unico». Leggiamo qualche altra considerazione dell’uomo che Albert Einstein considerava il genio più interessante del suo tempo: «L’affermazione che il nostro ego consista di molecole di proteine mi sembra una delle più ridicole mai enunciate»; «Poichè l’ego esiste indipendentemente dal cervello, possiamo avere altre fasi di esistenza nell’universo materiale o in un altro mondo…»; «Se il mondo è organizzato razionalmente e ha un senso» allora deve esistere un aldilà, «perché quale sarebbe il senso di formare un essere (l’uomo), che ha un tale ventaglio di possibilità per il suo sviluppo individuale e per le sue relazioni con gli altri, e non per-

René Descartes, detto Cartesio

mettergli di realizzarne un millesimo? È come se si costruissero le fondamenta di una casa, con molte difficoltà e molta spesa, per poi lasciar andare tutto in rovina».

«Quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo, queste ha preparato Dio per coloro che lo amano» (San Paolo, 1 Cor 2,9)

Un ingegnere e la Sindone: intervista attorno al mistero della Resurrezione di Gesù Cristo

Alessandro Paolo Bramanti si è laureato in ingegneria elettronica presso l’Università di Pavia, dove ha conseguito anche il dottorato di ricerca, e in fisica della materia presso l’Università del Salento. È ricercatore per una multinazionale dell’elettronica nel campo delle nanotecnologie, ed è autore di numerose pubblicazioni su riviste internazionali e inventore o coinventore di brevetti internazionali. Sulla Sindone ha scritto Sacra Sindone. Un mistero tra scienza e fede (Taranto, 2010).

Il miracolo del quale il cristianesimo non può fare assolutamente a meno, è soprattutto uno: la resurrezione di Cristo. E, guarda caso, proprio di questo miracolo esiste quella che molti considerano una prova: la Sindone. Cos’è per lei un miracolo? E perché la Sindone appare a moltissimi scienziati, oggi, un miracolo?

«Il miracolo è un’eccezione alle leggi della natura; e poiché tutto il mondo materiale deve sottostare alle leggi naturali senza possibilità di sospenderle o modificarle, il miracolo non può che venire da un intervento superiore, ossia direttamente dall’Autore delle leggi naturali stesse. Negare la possibilità assoluta di sospendere le leggi significa, in definitiva, negare l’esistenza del Legislatore; e questa posizione, oltre ad essere molto ristretta e limitante, certamente non può

essere sostenuta con argomenti scientifici.

La scienza è come un esploratore libero di muoversi in un paese - quello delle leggi naturali - che è sì, vasto, ma non infinito, ed è circondato da una muraglia che lui, da solo, non può scavalcare. Ma se l’esploratore, a causa di questa sua incapacità, affermasse che non esiste niente oltre il muro, terrebbe un comportamento irragionevole e, in fin dei conti, un po’ ridicolo. Consideriamo ora la Sindone. È un oggetto materiale e, come tale, senza dubbio ubbidisce alle leggi naturali - compresa quelle dell’invecchiamento e della sensibilità al calore, come purtroppo constatiamo dall’ingiallimento del lino e dalle bruciature degli incendi che l’hanno insidiata lungo i secoli. Eppure, essa porta anche il segno di un

intervento esterno; qualcosa che non

proviene dalla materia, anche se nella materia stessa ha lasciato una traccia profonda. Quella

doppia immagine insanguinata è inspiegabile alla luce di ogni fenomeno fisico noto.

Un corpo senza vita - e quello “fotografato” sulla Sindone lo è senza dubbio, perché mostra i segni del rigor mortis, escludendo così che si tratti di un caso di coma o morte apparente; è meglio specificarlo visto che qualcuno si è persino spinto su ipotesi del genere pur di escludere la morte e quindi la Risurrezione - un corpo senza vita, dicevo, non può lasciare impronte nemmeno vagamente simili a quella. E in generale, in natura non vi è nulla di assimilabile. Per questo, molti scienziati ammettono onestamente la inspiegabilità della Sindone. Mentre altri, che pure la negano a parole, non perdono occasione – soprattutto a pochi mesi

dalle ostensioni – di annunciare, con rulli di grancasse e squilli di fanfare, di essere riusciti a riprodurla e, perciò, di aver dimostrato che essa è un falso. E se fino ad ora ogni tentativo di imitazione

del Lenzuolo si è rivelato, anche solo ad un’analisi superficiale, un fiasco clamoroso,

è comunque molto interessante osservare l’accanimento di questi scettici. Deridono la credulità di chi ritiene la Sindone autentica, ma poi sprecano così tanto tempo e risorse nel cercare di fabbricarne una uguale, proprio per dimostrare che è falsa! Si direbbe che nel profondo siano rosi da un dubbio».

Entriamo più nel dettaglio. La Sindone vista dall’ingegnere elettronico.

«Partiamo da una semplice considerazione. Se la Sindone non è autentica deve ovviamente essere un manufatto fabbricato da un abilissimo falsario desideroso di arricchirsi con il commercio di finte reliquie. Ed è proprio questa, ovviamente, la teoria di chi nega l’autenticità del Sudario: un fantomatico fabbricante di reliquie medievale, rimasto per ovvie ragioni anonimo, avrebbe forgiato l’oggetto nella propria officina per venderlo poi, magari insieme a tanti altri, in una sorta di mercato nero del sacro, spacciandolo come autentico. Un simile personaggio, probabilmente, avrebbe considerato la Sindone il suo capolavoro, il coronamento della sua carriera di mistificatore sacrilego! Ora, l’ingegnere è una sorta di inventore specializzato: il suo atteggiamento è quello di chi progetta e costruisce, sfruttando le leggi naturali a proprio vantaggio. Davanti alla Sindone, quindi, tenta di immedesimarsi nel falsario, immaginando quale geniale metodo di fabbricazione possa aver escogitato per imprimere sul lino l’immagine del grande Crocifisso. E l’ingegnere elettronico in particolare, essendo legato al mondo del microscopico e nanoscopico – cioè dei fenomeni che interessano la materia a scale che vanno dal milionesimo giù fino al miliardesimo di metro – è particolarmente portato ad accendersi di curiosità. Perché

l’immagine sindonica è causata da una modifica fine nella struttura delle fibre tessili.

Ma con quale strumento, si chiede l’ingegnere, e sfruttando quali fenomeni fisici, si può imprimere una modifica simile? Nel secolo ormai abbondantemente trascorso dall’inizio degli studi scientifici della Sindone le ipotesi teoriche e i tentativi sperimentali per spiegare e, possibilmente, riprodurre la Sindone, sono stati numerosissimi: ma nessuno ha dato risultati soddisfacenti. È fallito l’esperimento del calore, nel quale si è tentato di impressionare un telo con un bassorilievo metallico riscaldato, perché l’immagine che ne è stata prodotta è penetrata nel lino molto più profondamente di quella della Sindone – che invece è superficialissima: ne è interessato solo il guscio cellulare esterno della fibrilla più esterna.

Dell’uso di coloranti, umidi o secchi,

nemmeno a parlarne: è accertato che tra le fibre di lino non vi siano pigmenti e nemmeno tracce di “pennellate”, neanche microscopiche. Non è stata una mano a disegnare l’immagine.

Molto interessanti i recenti esperimenti con il laser: gli impulsi luminosi ultravioletti hanno modificato la struttura di alcuni minuscoli campioni di lino, producendo una colorazione apparentemente simile a quella della Sindone. Ma le differenze rispetto all’originale sono ancora abissali, come gli stessi autori della ricerca onestamente riconoscono. Perché la colorazione è ancora troppo profonda. E poi è troppo uniforme, mentre nella Sindone sembra che qualcuno

dalla visione microscopica abbia scelto punto per punto quali fibrille colorare e quali no, e abbia ottenuto il chiaroscuro solo variando la percentuale di colorate e di bianche da zona

a zona. Un’altra caratteristica impressionante, questa. Per non dire che ci vorrebbe un laser di potenza inaudita a produrre un’immagine grande come quella del Telo di Torino. Aggiungiamo a tutto questo che dietro le

macchie di sangue della Sindone il lino non

«Negare la possibilità assoluta di sospendere le leggi significa, in definitiva, negare l’esistenza del Legislatore; e questa posizione, oltre ad essere molto ristretta e limitante, certamente non può essere sostenuta con argomenti scientifici»

è colorato, come se il falsario, con abilità da miniatore certosino e anche più, avesse prima deposto il sangue e poi colorato il lino girando accuratamente attorno ad ogni macchia, invece di produrre l’immagine e macchiarla successivamente, come sarebbe logico per un oggetto artificiale. Mettiamoci anche la precisione anatomica; la difficoltà di produrre un’immagine che da meno di un metro e mezzo di distanza diventa praticamente invisibile; la tridimensionalità; e varie altre sottigliezze.

La scienza si arrende. L’ingegnere elettronico, con lei.

Rimane una domanda. Se con le conoscenze di oggi fabbricare un oggetto così raffinato pare così inconcepibile, che chance avrebbe avuto un falsario medievale?».

Tuttavia, come obiettano alcuni, non siamo nemmeno capaci di riprodurre molti capolavori artistici del passato, e non per questo li consideriamo miracoli.

«Sì, ma c’è una profonda differenza. Di quelle opere d’arte, conosciamo bene la natura fisica: sono “semplicemente” strati di sostanze colorate deposte su tela, oppure “semplicemente” blocchi di pietra rotti, tagliati, forgiati. L’unicità di queste opere è di ordine artistico, non scientifico. Della Sindone, invece, non conosciamo proprio la natura fisica».

La Sindone vista dal fisico?

«Il fisico cerca una teoria scientifica che riesca a spiegare tutti i dati. Ma in questo caso, come già detto, la scienza brancola nel buio. A questo punto, due sono gli atteggiamenti possibili. Il primo. Il fisico fa propria la classica e ormai trita obiezione degli scettici: in futuro forse spiegheremo l’esistenza della Sindone in maniera scientifica. E troveremo che forse è nata da una combinazione molto improbabile - da cui l’unicità - ma del tutto naturale di vari elementi fisici. Forse. Un “forse” che nella mente di tanti scettici diventa un comodo “certamente”, con cui illudersi di aver liquidato il problema. Il secondo atteggiamento. Il fisico considera i dati nella loro globalità. E si rende conto che la Sindone è stata studiata più di ogni

altro oggetto al mondo, da un numero impressionante di esperti nelle discipline più

disparate. E che tutti i dati convergono verso il dire che sia l’autentico Sudario di Cristo – tranne, apparentemente, la famosa datazione al carbonio 14, che però, come ho dimostrato altrove, è a dir poco inattendibile. A questo punto, se la mente del fisico non basta, deve subentrare la mente dell’uomo, la cui capacità sorpassa di molto la pura e semplice scienza. E bisogna considerare veramente tutti i dati in gioco.

L’Uomo della Sindone è l’uomo dall’immagine in assoluto più riconoscibile della storia:

Gesù di Nazareth. Quell’Uomo è l’unico di cui si annuncia, da duemila anni a questa parte, la risurrezione definitiva dai morti. E di risurrezione, si badi bene, non si è parlato soltanto dopo la morte. L’annuncio era stato dato già prima. Tant’è che quella notte, al sepolcro, si montava di guardia per impedire resurrezioni simulate. Il Lenzuolo di Torino porta l’impronta di quell’Uomo, un’impronta che parla della sua morte ma anche di una misteriosa sottrazione alla morte. È l’immagine di un cadavere che

prima di corrompersi è sparito lasciando una

traccia indelebile. È un’immagine fisicamente unica, unica quanto quell’Uomo stesso.

Se davanti a questa coincidenza la mente rifiuta a priori anche solo la possibilità che la Sindone sia un muto Testimone della Risurrezione, lo fa per una scelta deliberata che non ha nulla a che vedere con la scienza.

Non è un pensiero antiscientifico, questo. Al contrario, un fisico conosce meglio di ogni altro i limiti della scienza. La muraglia. Per questo può essere tra i primi a spiccare il balzo e andare oltre».

Paradiso: «Sconosciuta realtà conosciuta»

Il Paradiso è fuori del tempo e dello spazio. In che senso, dunque, è un “luogo”? Scrive Benedetto XVI in Ultime conversazioni (Rcs, Milano, 2016): «Bisogna staccarsi da antiche concezioni spaziali, che non sono più applicabili non fosse che perché l'universo non è infinito nel senso stretto del termine, pur se è abbastanza grande perché noi uomini lo si possa definire come tale. Dio non può essere da qualche parte dentro o fuori di esso, la sua presenza è completamente diversa... Come esiste una presenza spirituale tra gli uomini - due persone possono essere vicine pur vivendo in continenti diversi perché questa dimensione di prossimità non si identifica con quella spaziale - così Dio non è "in qualche posto" ma è la realtà. La realtà fondamento di tutte le realtà. E per questa realtà non ho bisogno di "dove" perché "dove" è già una delimitazione, non è già più l'infinito, il creatore, che comprende ogni tempo e non è lui stesso tempo, ma lo crea ed è sempre presente».

Si dice, da parte degli atei, che l’uomo spera nell’aldilà perché immagina un domani migliore. Non è così. Se immaginassi soltanto un domani migliore, non lo chiamerei “paradiso”: lo chiamerei “casa di lusso”, “panfilo privato”, “villa con piscina zeppa di dobloni”… lo costituirei di cose che ho visto, che conosco, che esistono a questo mondo. Invece, tutti gli uomini sanno che “casa con piscina zeppa di dobloni” non è sinonimo di “felicità”. Perché? Può un fiore desiderare qualcosa di più dell’acqua e del sole? Un’ape qualcosa di meglio del polline? Una mucca del fieno fragrante? Può un pezzo di mera carne volere altro che il cibo, un buon letto, tutto ciò che serve per saziare i suoi appetiti materiali? No. La carne desidera carne, la materia vuole materia, la mucca agogna il suo fieno (neppure immagina l’esistenza della nutella o dei tortellini)… Solo l’uomo desidera qualcosa

che non sa descrivere, che non sa neppure immaginare, che non ha mai visto, né toccato,

né assaggiato con i suoi sensi. Perché? Semplicemente perché l’uomo non è solo carne, solo materia, solo sensi. È molto, molto di più, come denunciano chiaramente il suo desiderio, la sua perenne insoddisfazione e inquietudine. «Non siete di questo mondo», dice Cristo ai suoi discepoli: questo mondo, in altre parole, non ci basta (o ancora: «Che giova infatti all'uomo guadagnare il mondo intero, se poi perde la propria anima?», Mc 8, 36-37) Ci hanno provato Marx, Lenin, Stalin, Mao…

Una poverissima idea dell’uomo ha generato una miserrima idea di Paradiso ed una fedele copia dell’Inferno

a realizzare un mondo che non avesse più bisogno del Paradiso. Facciamolo qui, il paradiso, dicevano, sulla terra, così la religione, “oppio dei popoli”, morirà di inedia. L’uomo di domani, l’abitatore del mondo comunista, sarà felice, soddisfatto, non avrà più bisogno del Paradiso dei cristiani…Non è andata così: una poverissima idea

dell’uomo ha generato una miserrima idea di Paradiso e una fedele copia

dell’Inferno. E non va bene, mai, neppure nel ricco mondo capitalista. Certo, è meglio la casa con piscina, o anche senza, del gulag sovietico, ma neppure risulta che essere milionari significhi essere felici; accade più spesso che chi più ha, più cupamente desidera, mentre “chi si accontenta” più facilmente “gode”. Nel celebre romanzo di Giovanni Verga, I Malavoglia, il giovane protagonista, ‘Ntoni, vuole «diventare ricco, ricco…». Il nonno non capisce perché e gli chiede: «Ricco, ricco… e poi che farai?». ‘Ntoni ci pensa un attimo e non sa rispondere: il suo sogno rivela subito la sua pochezza. Allora cos’è questa felicità che i

credenti chiamano Paradiso?

Agostino, nella sua Lettera 130 a Proba, scriveva: «Forse a questo punto potresti domandarmi in che consista precisamente la vita beata. In questo problema molti filosofi hanno consumato il loro ingegno e il loro tempo, e tuttavia tanto meno sono riusciti a risolverlo, quanto meno hanno avuto in onore la vera sorgente della vita e le han reso grazie... C’è dunque in noi una, per così dire, dotta ignoranza, dotta in quanto illuminata dallo Spirito di Dio, che aiuta la nostra debolezza...». Così commenta Benedetto XVI nella Spe salvi: «Agostino, nella sua ampia lettera sulla preghiera indirizzata a Proba, una vedova romana benestante

La teologia cattolica afferma il Paradiso come “luogo” in cui «le anime dei santi vedono la divina essenza con visione intuitiva e anche facciale, non essendovi di mezzo alcuna creatura che funga in ragione di oggetto veduto, bensì mostrandosi la stessa divina essenza immediatamente, nudamente, chiaramente e apertamente» (Benedictus Deus di Benedetto XII); sostiene, a differenza di altre visioni religiose in cui la beatitudine consiste sostanzialmente in una estinzione nirvanica, in un annientamento totale dell’individuo, che in Paradiso si realizza la pienezza dell’essere, della singola persona, attraverso l’incontro con l’Amore stesso che mette in comunione con tutto. «Dalla visione di Dio», commenta un teologo del primo Novecento, «nasce l’amore; dall’amore, il possesso e il gaudio perfetto».

e madre di tre consoli, scrisse una volta: in fondo vogliamo una sola cosa, “la vita beata”, la vita che è semplicemente vita, semplicemente felicità. Non c’è, in fin dei conti, altro che chiediamo nella preghiera. Verso nient’altro ci siamo incamminati, di questo solo si tratta. Ma poi Agostino dice anche: guardando meglio, non sappiamo affatto che cosa in fondo desideriamo, che cosa vorremmo propriamente. Non conosciamo per nulla questa realtà; anche in quei momenti in cui pensiamo di toccarla non la raggiungiamo veramente. “Non sappiamo che cosa sia conveniente domandare”, egli confessa. Ciò che sappiamo è solo che non è questo. Tuttavia, nel non sapere sappiamo che questa realtà deve esistere. “C’è dunque in noi una, per così dire, dotta ignoranza (docta ignorantia)”, egli scrive. Non sappiamo che cosa vorremmo veramente; non conosciamo questa “vera vita”; e tuttavia sappiamo, che deve esistere un qualcosa che noi non conosciamo e verso la quale ci sentiamo spinti. Penso che Agostino descriva lì in modo molto preciso e sempre valido la situazione essenziale dell’uomo, la situazione da cui provengono tutte le sue contraddizioni e le sue speranze.

Desideriamo in qualche modo la vita stessa, quella vera, che non venga poi toccata

neppure dalla morte; ma allo stesso tempo non conosciamo ciò verso cui ci sentiamo spinti. Non possiamo cessare di protenderci verso di essa e tuttavia sappiamo che tutto ciò che possiamo sperimentare o realizzare non è ciò che bramiamo. Questa “cosa” ignota è la vera “speranza” che ci spinge e il suo essere ignota è, al contempo, la causa di tutte le disperazioni come pure di tutti gli slanci positivi o distruttivi verso il mondo autentico e l’autentico uomo. La parola “vita eterna” cerca di dare un nome a questa sconosciuta realtà conosciuta. Necessariamente è una parola insufficiente che crea confusione. “Eterno”, infatti, suscita in noi l’idea dell’interminabile, e questo ci fa paura; “vita” ci fa pensare alla vita da noi conosciuta, che amiamo e non vogliamo perdere e che, tuttavia, è spesso allo stesso tempo più fatica che appagamento, cosicché mentre per un verso la desideriamo, per l’altro non la vogliamo. Possiamo soltanto cercare di uscire col nostro pensiero dalla temporalità della quale siamo prigionieri e in qualche

modo presagire che l’eternità non sia un continuo susseguirsi di giorni del calendario, ma qualcosa come il momento colmo di appagamento, in cui la totalità ci abbraccia e noi abbracciamo la totalità. Sarebbe il momento dell’immergersi nell’oceano dell’infinito amore, nel quale il tempo - il prima e il dopo - non esiste più. Possiamo soltanto cercare di pensare che questo momento è la vita in senso pieno, un sempre nuovo immergersi nella vastità dell’essere, mentre siamo semplicemente sopraffatti dalla gioia...». Il Paradiso, la vita eterna, è una «sconosciuta realtà conosciuta»: conosciuta poiché in qualche modo la conosciamo, dal momento che il nostro spirito assaggia istanti di gioia, nel tempo, che trascendono il tempo stesso. Le grandi gioie interiori infatti “durano” magari pochi istanti, che però ci segnano più delle lunghe ore di noia o dolore. Quando proviamo una di queste grandi consolazioni spirituali, sentiamo che vale assai più di un piacere corporeo: è tanto più rara, quanto più preziosa. Sentiamo anche che essa, pur concentrata in un tempo preciso, lo sorpassa, dilatandosi in ogni direzione (posso sperare, oggi, anche per ciò che ho provato un anno fa). L’uomo del resto ha un corpo che vive solo il presente, ma nella sua mente il passato, il presente e il futuro possono convivere nel medesimo istante (possiamo cioè ricordare il passato che non c’è più e immaginare il futuro che non c’è ancora). Poiché afferrata, per qualche istante,

la felicità spirituale si rivela a noi come

esistente; per la sua precarietà ci appare quasi come un miraggio. Le oasi nel deserto, qua e là ci sono. Se non ci fossero, non le cercheremmo neppure. Eppure come sbiadisce presto, dopo tanto faticoso camminare, il ricordo di quella già sorpassata; eppure come è grande il desiderio di quella che verrà… Ma ci sarà, veramente? Certo, non può non esserci, da qualche parte, l’acqua di cui abbiamo sete e che, per quanto centellinata, abbiamo già avuto modo di gustare! Ci saranno la Bellezza, il Bene, la Giustizia, l’Amore, la Verità che il nostro cuore tanto desidera? Certamente, perché qui, sulla terra, li abbiamo già visti... sebbene, come scrive san Paolo, più riflessi, quasi in uno specchio, che nella loro piena realtà.

A 700 anni dalla morte Per Dante Alighieri (1265-1321) il Paradiso è il luogo che «solo Amore e Luce ha per confine». Per questo è “luogo” ineffabile: «Vidi cose che ridire/ né sa né può chi di là su discende» (Par. I, vv. 5-6). Qui troviamo la luce, presente continuamente in tutto il canto («Dio è l’alta luce che da sé è vera», Par. XXXIII, v. 54); la conoscenza universale immediata, totale: «Nel suo profondo vidi che s’interna,/ legato con amore in un volume,/ ciò che per l’universo si squaderna (Par. XXXIII, vv. 85-87); la pace e la serenità: «E io ch’al fine di tutt’i disii/ appropinquava, sì com’io dovea/ l’ardor del desiderio in me finii» (Par. XXXIII, vv. 46-47); e il suo parziale permanere: «E ancor mi distilla/ nel core il dolce che nacque da essa» (Par. XXXIII, vv. 62-63)

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