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Il peccato originale nella società odierna (parte II
Veronica Zanini
Nella prima parte di questa riflessione filo-politica si è indagato su alcuni principi sui quali si fonda l’ideologia futurista del transumanesimo. Oggi si ragiona sul fatto che il transumanesimo è uno dei frutti di un malessere ancestrale presente nell’uomo fin dai “tempi biblici”. I limiti dell’uomo
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Visti il mese scorso i principi transumanisti, vediamo oggi alcuni passi biblici, della Genesi, dai quali emerge una visione antropologica che include il limite, da contrapporsi alle derive ideologiche del transumanesimo e del postumanesimo.
«Nel giorno in cui il Signore Dio fece la terra e il cielo nessun cespuglio campestre era sulla terra, nessuna erba campestre era spuntata, perché il signore Dio non aveva fatto piovere sulla terra e non c’era uomo che lavorasse il suolo, ma una polla d’acqua sgorgava dalla terra e irrigava tutto il suolo. Allora il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente» (Gn. 2,5-7).
I termini utilizzati in questo racconto, adam, terrestre, e adamah, terra, mostrano il profondo legame tra l’uomo e la terra stessa; il materiale che Dio utilizza infatti per creare l’umano è la polvere del suolo, la parte più superficiale e delicata del terreno, facendo di questo una creatura fragile nella sua costituzione fisica. La correlazione tra l’uomo e la terra verrà confermata subito dopo anche dal comando divino rivolto alla nuova creatura di governare la terra nella quale si radica la sua vita: «Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden perché lo coltivasse e lo custodisse» (Gn 2, 15). Già dall’antichità dunque si riflette sulle condizioni antropologiche di limitatezza e fragilità, non concependo però queste caratteristiche in maniera avversa, ma solamente come costitutive della natura umana. Le nuove frontiere ideologiche
odierne invece attribuendo un significato negativo alla cagionevolezza e alla caducità dell’uomo si prodigano per oltrepassare i
limiti neuro- biologici dello stesso. La parola “limite” deriva dal latino limes che significa anche “confine”, quindi oggi si possono oltrepassare i confini fisici dell’uomo per esempio con delle estensioni meccaniche come i google glass o l’esoscheletro militare Ratnik e quelli neurologici come Neuralink di cui si è già scritto lo scorso mese.
Michelangelo, Il peccato originale, 1509, Musei Vaticani, Cappella Sistina.
Tornando al testo di Genesi, la pericope si conclude al capitolo 3 in cui la terra viene maledetta a causa del peccato dell’uomo:
«Poiché hai ascoltato la voce di tua moglie e hai mangiato dell’albero di cui ti avevo comandato: ‘non devi mangiarne’, maledetto il suolo per causa tua! Con dolore ne trarrai cibo per tutti i giorni della tua vita. Spine e cardi produrrà per te e mangerai l’erba dei campi. Con il sudore del tuo volto mangerai il pane, finché non ritornerai alla terra perché da essa sei stato tratto:polvere tu sei e in polvere ritornerai!» (Gn. 3, 17-19). Se prima dunque la terra era dotata di una connotazione materna ed era sottoposta alla tutela dell’uomo grazie ad un atto di fiducia di Dio nei suoi confronti, ora essa è il marchio della provenienza dell’uomo dalla polvere.
Il peccato originale
Dal testo appena analizzato emerge il limite ontologico esterno dell’uomo, il brano sul peccato originale invece tratta i limiti interiori dell’uomo che non gli hanno permesso di diventare realmente “come Dio”.
«Il serpente era il più astuto di tutti gli animali selvatici che Dio aveva creato e disse alla donna: “È vero che Dio ha detto: ‘Non dovete mangiare di alcun albero del giardino?’”. Rispose la donna al serpente: “Dei frutti degli alberi del giardino noi possiamo mangiare, ma del frutto dell’albero che sta in mezzo al giardino Dio ha detto: ‘Non dovete mangiarne e non lo dovete toccare, altrimenti morirete’”. Ma il serpente disse alla donna: “Non morirete affatto! Anzi, Dio sa che il giorno in cui voi ne mangiaste si aprirebbero i vostri occhi e sareste come Dio, conoscendo il bene e il male”» (Gn. 3, 1-5).
L’animale che tenta la donna è il serpente che non viene designato come una divinità superiore rispetto agli altri enti ma è descritto anch’esso come una creatura della quale però si riconosce la scaltrezza (arum). La Bibbia non dice chi ha posto lì l’animale, ma constata semplicemente la presenza del male e la sua concretezza. Da questo si dedurrà poi un’amara verità: ogni uomo che nasce entra
a far parte di un mondo in cui il male è già
presente, lo precede e da esso si fa sedurre. L’agiografo tuttavia intende focalizzare l’attenzione sulle parole del serpente anziché sulla sua natura. L’animale interloquisce con la donna riferendosi a Dio con un generico elohim invece di chiamarlo con il nome proprio Jhwh elohim; e ciò evidentemente per sminuire Dio stesso. Il serpente si concentra sull’unico divieto che Dio aveva dato all’uomo e alla donna senza tener conto di tutto ciò che Egli aveva donato loro; a questo segue la risposta della donna la quale, cadendo nel tranello del suo interlocutore, commette una serie di errori utilizzando per esempio anch’essa l’espressione più generica elohim. Aggiunge inoltre che, come da comando divino, non avrebbero nemmeno dovuto toccare i frutti dell’albero proibito altrimenti sarebbero morti; parole, queste, che Dio non aveva mai pronunciato. Il serpente agganciandosi a quest’ultima constatazione afferma che mangiando diventeranno come Dio «conoscendo il bene e il male». Qui, il verbo jada, conoscere, non indica solamente una conoscenza intellettuale e astratta ma si riferisce al “fare esperienza”, ossia un atto pratico: il serpente dunque non
promette onniscienza come avevano sperato Adamo ed Eva, ma la conoscenza del bene e del male tramite l’esperienza del male stesso.
L’astuzia di questo animale sta proprio nel non dire menzogne, ma mezze verità facendo così leva sulla psicologia dell’uomo. Sorgono spontanee, quindi, delle domande: che cosa ha spinto l’uomo a mangiare del frutto, se non gli mancava nulla? Quali sono le strutture psicologiche che lo hanno condotto a compiere un simile atto? Secondo Freud ciò che ha portato l’uomo ad accettare l’offerta del serpente è la consapevolezza della propria superfluità e il possesso della libertà che lo lascia in balìa di un futuro che non conosce e che non gli garantisce alcuna sicurezza. Certamente la libertà ontologica dell’uomo è stata la strada per compiere la trasgressione tuttavia
l’insicurezza è un dato antropologico odierno
post peccato originale poiché Adamo ed Eva vivevano nella “sicurezza” di essere ancorati al
fondamento, al senso del tutto. Discostandosi dalla psicanalisi freudiana dunque è più probabile che sia stata direzionata male la volontà di librarsi oltre il limite umano, intendendo però con questa espressione il germe presente in ogni uomo di migliorarsi conformemente al progetto divino sull’uomo stesso; il serpente ha giocato sull’interpretazione di “somiglianza” divina allontanandoli così dal disegno teologico e mostrando loro l’esistenza di un altro modo per ottenerla e di decodificarla.
Ancora oggi l’uomo vede nel limite il segno tangibile della sua inferiorità e ciò lo porta
a voler essere più di quello che è, come sostiene Eugen Drewermann: «Per paura di essere un animale egli deve essere un angelo, per paura di non essere alcunché deve essere un Dio». La volontà di potenziarsi è dovuta alla consapevolezza umana dei propri limiti e della propria finitezza e la libertà, intesa oramai solamente come autonomia, comporta l’utilizzo della scienza e della tecnologia senza etica pur di arrivare al proprio fine. La
mitologia greca utilizzava il termine hybris per indicare la volontà di diventare come
Dio e analogamente a Prometeo che ruba il fuoco agli dèi l’uomo moderno si sostituisce a Dio nelle derive dell’eugenetica o nel potenziamento di parti del corpo umano. La frase del serpente che allude ad una loro trasformazione in divinità ha deformato il concetto di limite presente in Adamo ed Eva insinuando loro la possibilità di andare oltre ad esso senza Dio. Dopo la consumazione del
peccato originale, l’uomo e la donna videro nella nudità il vestigio della propria vergogna,
sentimento che finora non avevano ancora sperimentato grazie all’intima amicizia che si era instaurata con Dio: l’uomo così scopre
che la vicinanza a Dio gli faceva percepire la propria finitezza come facente parte della sua natura. Le conseguenze del peccato originale sono, per esempio, la mutilazione delle capacità cognitive ovvero l’ingresso dell’errore nella vita spirituale. Con difficoltà l’uomo moderno sa distinguere il bene dal male e nella maggior parte dei casi il confine tra queste due entità è offuscato, non è nitido; basti pensare alle leggi sull’aborto o sull’eutanasia e quanto è sottile il confine tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato anche nelle singole situazioni. Il peccato originale ha defraudato l’uomo della sua capacità di cogliere il Bene, o meglio di farsi attrarre da esso allontanandosi così dal male. Altra conseguenza del peccato originale è la concupiscenza gnoseologica, cioè la capacità conoscitiva dell’uomo che non gli permette più come un tempo una comprensione immediata; la pluralità di linguaggi con cui si esprime il creato disorienta l’uomo non facendogli più cogliere la presenza di Dio in esso. Il desiderio dell’uomo dunque di conoscere non verrà mai soddisfatto dopo la perdita della vicinanza con Dio. Il desiderio di potenziare le proprie facoltà è sintomo di dominio ed è una connotazione tipica dell’umano, la Bibbia tratteggia ciò che è anche proprio dell’uomo contemporaneo con la bramosia di oltrepassare i suoi limiti. A ben vedere il frutto odierno è rappresentato dalla scienza e dalla tecnologia in grado di fornire all’uomo ciò che vuole, ma similmente all’umanità primitiva il rischio è quello di
scoprirsi nudi e soli e di aver fatto esperienza
di un’infelicità morale. Con questo concetto non si vuole assolutamente demonizzare il progresso, ma piuttosto mettere in guardia sulla scaltrezza di chi lo dirige e sull’uso che di esso si può fare. È sempre il brano genesiaco ad insegnare che
il limite, segno della fragilità dell’uomo, ha assunto un’accezione negativa solo dopo il peccato originale mentre prima era percepito come possibilità d’incontro, di apertura
all’altro e di completamento con l’altro.
Restano comunque aperti degli interrogativi a fronte di queste riflessioni: nella pluralità di linguaggi e di pensiero è possibile trovare un punto in comune in modo che l’intelligenza artificiale e il progresso siano realmente a servizio dell’uomo e non il contrario? Come invertire il processo decisionale basato solamente sui profitti economici? O ancora al livello psico- filosofico ci si chiede: come placare l’inquietudine morale dell’uomo?