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Narrativa
Una seconda vita
Un racconto breve, opera originale nata dalla fantasia e dalla sensibilità di un Autore giovane e poco conosciuto nel mondo, ma molto, molto, amato da tutti gli amici e i sostenitori di Pro Vita & Famiglia.
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Tutti gli esseri umani, in qualche misura, hanno paura della morte. Perfino quanti hanno il dono della fede. Perché in fondo, che ci attenda un premio o una punizione, il perdono o la condanna o il nulla eterno, l’ignoto inevitabilmente spaventa - a maggior ragione se non c’è ritorno. Ma forse c’è qualcosa di peggiore della morte. Qualcosa di devastante, che ti risucchia nelle profondità di un abisso senza fondo e senza fine, qualcosa che in qualche modo ti uccide mentre sei ancora in vita. È il restare imprigionati dentro il proprio corpo. Parlare, comunicare, gridare perfino - senza che nessuno di coloro che ti stanno intorno riesca a sentirti. A me è successo dopo l’incidente. Una costrizione lunga diciotto anni, dieci mesi e due giorni. Così ho sentito, almeno. Il tempo perde qualsiasi confine, qualsiasi significato mentre sei intrappolato in un eterno presente di ombre. Ombre. Ecco come mi apparivano coloro che mi gravitavano intorno. Spettri bianchi, in camice bianco, che andavano e venivano, parlavano, ridevano a volte - e sembravano convinti che io non sentissi, che non capissi cosa stavano dicendo. Qualche volta, perfino i miei genitori…
Mirko Ciminiello

mia moglie Angela… i miei figli Camilla e Leonardo sembravano dello stesso avviso… Li riconoscevo, loro, li riconoscevo sempre. E mi arrabbiavo quando parlavano di me come se non fossi lì, come se non udissero la mia voce. Come quella volta…
Quella volta che quel medico - me lo ricorderò sempre - aveva consigliato a mia moglie e ai miei genitori di staccare la spina. Per il mio interesse, aveva precisato, suggerendo loro di considerare almeno l’idea, prima di lasciarli nella stanza con me, a riflettere. Non potrò mai scordare l’espressione sul viso di Angela. Non ci starai pensando davvero?, gridavo. Lei mi aveva preso la mano, con delicatezza, con dolcezza - però aveva iniziato a parlare con i miei genitori, di me, ignorandomi totalmente! «Una volta aveva detto che non avrebbe voluto vivere in condizioni simili…», diceva. Ma era tanto per dire!, avevo sbottato io. Perché nessuno voleva starmi a sentire?! «Sono cose che si dicono», aveva replicato subito mia madre. Giusto! Grazie, mamma! «E se anche fosse», si era inserito mio padre, «come facciamo a sapere che lo vorrebbe anche ora? Ho sentito che parecchi hanno cambiato idea mentre si trovavano in coma, e ringraziamo il cielo che si sono potuti svegliare per dirlo». Avrei voluto replicare a tono, ribadire che non era ciò che volevo, alla faccia del mio interesse! Ma, d’un tratto, nella mia mente aveva fatto breccia e poi era esondata quella piccola parola di quattro lettere che mio padre
aveva pronunciato in tono così leggero. Coma. Che significava? Possibile che… Ma no, cosa andavo a pensare? Eppure, forse… non avrebbe spiegato tutto? Ma una cosa del genere… non me ne sarei accorto? Non me ne sarei ricordato? Non mi sarei ricordato di quando era successo? Mi sforzai, ma c’era come una gigantesca voragine nella mia mente. Un buco nero che aveva inghiottito ampi stralci del mio passato. Avevo solo… dei flash: non di immagini, però, di conversazioni. La mia famiglia, i dottori, gli infermieri. Avevano parlato di un’auto che era sbandata a causa della pioggia e dell’alta velocità… del conducente che era stato estratto vivo per miracolo prima che la macchina prendesse fuoco… ma aveva perso conoscenza… ed era in stato di minima coscienza… Ricordavo, ricordavo fin troppo bene. Ma non avevo mai messo insieme tutti i pezzi del puzzle… non avevo mai capito che… quei frammenti che avevo carpito… riguardavano… me…

Ero rimasto perplesso quando i medici mi avevano chiesto di pensare di giocare a tennis. Sapevo che avevano armeggiato con qualcosa - una specie di casco, credo - e potevo vedere un gran numero di cavi collegati a un computer. Che volevano da me? Cos’ero diventato, una cavia, una specie di scimmietta ammaestrata? Però Angela era lì, mi teneva la mano. Non sentivo il contatto, ma la vedevo mentre me la stringeva. Aveva un’aria speranzosa, così come i miei genitori dall’altra parte del letto. I miei figli invece non c’erano. Capitava spesso, in quel periodo… stavano attraversando l’adolescenza, perciò mi dicevo ogni volta che dovevano essere a scuola, o forse con gli amici. Temevo molto che non fosse realmente così…

Ok, mi dissi, facciamolo. Diritto, rovescio, volée. Non capivo il senso di questa cosa, ma d’improvviso vidi il viso di mia moglie illuminarsi. Guardava gli scienziati, che erano soddisfatti, e sorrideva, sorrideva come non la vedevo fare da tempo. Non potevo avere motivazione più forte. E così, anche pur non comprendendo, continuai. Servizio, risposta, smash. Sentivo i dottori parlare di cose strane… zone cerebrali per lo più. Una sembrava molto importante, dicevano che ha a che fare con i movimenti. La chiamavano “area motoria supplementare”, credo. Non che mi importasse granché. La gioia sul viso dei miei familiari era la mia sola gratificazione. Poi, di punto in bianco, qualcuno mi chiese di immaginare di essere a casa mia, e di spostarmi da una stanza all’altra. Sul serio? Ero decisamente confuso, per non dire scettico. Ma non volevo deludere coloro che amavo. Va bene… ecco la cucina… e poi attraverso il corridoio, fino al salone… e poi la nostra stanza da letto… e quella dei nostri ragazzi… Ed eccola di nuovo: quell’espressione di pura felicità sul volto di Angela. Gli scienziati usavano ancora quei termini assurdi… ippocampo… lobi parietali… ma lei era contenta. Era così contenta che le venne da piangere, e mi lasciò la mano per asciugarsi le lacrime. E in quel momento mia mamma mi si avvicinò, lo sguardo attonito. «Sta piangendo!», disse con la voce che le tremava. «Sta piangendo anche lui!». Non capii che stava parlando di me finché non accostò un fazzoletto alla mia guancia. Stavano, anzi stavamo piangendo tutti a quel punto - perfino mio padre. E io non comprendevo perché fossero tutti quanti così felici.
Mi fecero ripetere quegli assurdi esercizi mentali per giorni, sempre senza spiegarmi a
che servivano. Era esasperante. Anche se, da varie schegge di conversazione che avevo colto, mi era sembrato di capire che gli scienziati stessero replicando alcuni esperimenti svolti nel Regno Unito e negli U.S.A. Il che mi rendeva ufficialmente un insulso topolino da laboratorio. Poi, un giorno, uno dei medici disse che si poteva passare alla seconda fase. Fantastico: avevo problemi anche con la prima! Stavolta, però, mi spiegarono cosa avevano in mente. «Vorremmo stabilire se lei è consapevole di ciò che le accade intorno, ed eventualmente il grado di tale consapevolezza», mi disse qualche ignoto operatore sanitario. Ma certo che sono consapevole di quello che succede!, urlai. Ma perché diamine nessuno mi stava a sentire? «Abbiamo rilevato quali zone del suo cervello si attivano nel momento in cui pensa di giocare a tennis, e quali invece si attivano mentre immagina di muoversi all’interno della sua casa. Ora vorremmo condurre questo esperimento: le faremo delle domande e, se la risposta è “sì”, lei penserà di giocare a tennis; se la risposta è “no”, lei immaginerà di muoversi in casa sua». Non sembrava difficile. E comunque, per essere certi che io avessi compreso, me lo ripeterono altre tre o quattro volte. Mi dava sui nervi. Con chi pensavano di avere a che fare, con un completo imbecille? Mia moglie aveva uno sguardo diverso in questa occasione. Era in apprensione. Non mi era accanto, non mi teneva la mano. Qualcosa non mi tornava. Doveva esserci qualcosa che

non andava - o qualcosa di molto importante in ballo… «Prima domanda. Lei si chiama Alfredo De Vincenti?». Sì. Gioco a tennis. Sto servendo, realizzo un ace. «Seconda domanda. Sua moglie si chiama Viviana?». Che razza di sciocchezza! Sono in casa mia, in cucina, mi sto dirigendo verso il bagno. No. Di colpo, vidi la tensione sul viso di Angela e dei miei genitori sciogliersi in puro sollievo. Non sapevo perché, ma stavano piangendo. Di felicità. Di nuovo. Le domande continuavano. Riguardavano tutte la mia storia personale. Mi chiesero se i miei genitori si chiamavano Giuseppe e Aurora (sì, rovescio a una mano), se avevo un animale domestico (mai avuto, mi spostai verso il salone), se i nomi dei miei figli fossero Camilla e Leonardo (certo che sì, i miei bambini… i miei ragazzi… un uomo e una donna ormai fatti... risposta vincente a una prima poderosa). L’ultima, però, fu una questione diversa. «Lei vorrebbe che venisse staccata la spina?». Per un attimo, mi parve di sentire il grido di un silenzio opprimente. Forse era intorno a me, forse era dentro di me. Non lo saprò mai. Ma sapevo cosa implicava quella domanda, perché sapevo - sì, lo sapevo - di non essere un malato terminale. Quando parlavano di “staccare la spina”, loro intendevano qualcosa di ben preciso: intendevano che sarei dovuto morire di fame e di sete. E sapevo anche - sì, lo sapevo - che a qualche genio era venuto in mente di equiparare cibo e acqua a delle terapie: anzi, peggio, all’accanimento terapeutico.

«Lo sapete voi, geni, che cosa significa morire di fame e di sete?», avevo gridato la prima volta che ne avevo sentito parlare. Non è come spegnere una candela, un attimo e via, magari esprimendo pure un desiderio: è una morte lenta e dolorosa, un’agonia straziante che nessuno potrebbe mai augurare al suo peggior nemico! Avrei voluto urlare di nuovo. Ma non era il momento. Mi mossi verso la mia camera da letto. E, nella vera stanza in cui mi trovavo, vidi Angela, i miei genitori, e anche i miei adorati figli scoppiare in lacrime nello stesso momento.
Ero avvolto dalle tenebre, ma non avevo paura. In realtà, non provavo praticamente nulla, se non, forse, un senso di nostalgia. Tutto, però, sparì non appena vidi quella luce. O meglio, la figura di luce. Non me la ricordo granché, in realtà… non ricordo i dettagli, e neppure i contorni… ma ricordo perfettamente la sensazione che provai. Pace. Una pace infinita, e una gioia immensa, incontenibile. Tutto era perfetto. Ogni cosa era al suo posto. Dovevo solo allungare la mano… Ma c’era qualcos’altro… come un’ombra nella mia mente. Mi voltai indietro per un attimo. Ed ero là sotto. Beh, il mio corpo, almeno. I medici erano indaffarati, agitati. Non ne capivo il motivo. Stavo per andare in un
posto così bello… Ma poi spostai lo sguardo. E lì accanto, fuori dalla stanza credo, c’erano mia moglie, i miei figli, i miei genitori. In apprensione. In lacrime. E, in quel preciso istante, sentii come una voce echeggiarmi nello spirito. Non saprei come descriverla altrimenti: non erano parole normali, era come musica - e io la percepivo, non la ascoltavo. Note di luce che la figura di luce faceva vibrare nelle corde del mio essere. Mi chiedeva se ero sicuro. Lo ero stato, fino a pochi attimi prima. Ma poi, anche la disperazione della mia famiglia aveva iniziato a risuonare nella mia anima. Mi sentivo triste, in colpa. Avevo ancora qualcosa da fare. Percepii l’approvazione della luce. Mi rincuorò. Mi chiesi se ci saremmo rivisti. Se la figura mi rispose, non lo ricordo. E poi tornai a sentire, a provare sensazioni intendo: dolore, soprattutto, ma anche gioia - una gioia diversa, però, da quella che mi aveva avvinto fino a pochi attimi prima. E vidi gli operatori sanitari intorno a me, più vicini adesso - e sollevati. Sì, i loro volti erano tirati, ma felici. E vidi la mia stanza, e il sole che tramontava, e la notte e l’alba. E vidi i miei genitori, da soli, e poi Angela e i miei figli, anche loro da soli. Dopo un po’ Camilla si allontanò, e poi anche Leonardo. Mia moglie mi teneva la mano. Era stanca, lo vedevo dal suo sorriso. D’improvviso, venni travolto dal desiderio di consolarla. Era come un fiume che irrompeva oltre gli argini del mio spirito, pervadendo il mio intero essere, ogni fibra del mio corpo. Non essere triste… , le sussurrai. Vedrai, amore mio… andrà tutto bene… Le strinsi la mano. E Angela ebbe un sussulto. Mi fissò, strabuzzava gli occhi. Non capivo. Mi lasciò la mano, chiamò i medici, urlò loro di accorrere. E il suo grido mi esplose nella mente, vi rimbalzò come l’eco di un tuono che continuava a schiantarsi contro le pareti del mio cervello… e subito dopo anche la luce divampò, e poi tutto divenne bianco, di un chiarore abbagliante, accecante. E c’era il dolore, un dolore acuto come non lo provavo da tempo, come se avessi preso fuoco, come se un milione di lame stesse trafiggendo le mie viscere. In effetti, di quegli istanti, di quelle ore, di quei giorni quasi non ricordo altro che questa esplosione dei sensi - e i sorrisi: i sorrisi di sollievo, di riconoscenza, di pura felicità che illuminavano i volti di mia moglie, dei miei genitori. E sono loro grato per non essersi mai arresi, per aver sempre lottato per me. Ma sono grato anche a quel dolore, all’accecamento, alla sordità: perché erano segni che, come in un celebre film, profumavano di vittoria. I segni che mi avevano strappato dal tunnel di oscurità che mi aveva avvolto per quasi due decenni. Nessuno sa come sia stato possibile, nessuno potrà mai dire con assoluta certezza cosa sia successo, o perché proprio in quel momento. Ma per me non ha alcuna importanza. Perché è in quegli istanti, è proprio in quel modo così inatteso da far gridare al miracolo, che tutto si è compiuto: ed è iniziata, contro qualsiasi speranza o aspettativa, la mia seconda vita.