Serena Campi, Gardlen - una storia bolognese

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Serena Campi

GARDLÉN una storia bolognese


Nonostante i personaggi del romanzo corrispondano a persone effettivamente vissute a Bologna nella prima metà del Novecento, essi sono puramente funzionali alla narrazione e non rispondono ad alcun valore documentario. Qualsiasi riferimento a situazioni o eventi reali è da considerarsi quindi puramente casuale.

Per la grafia dialettale bolognese si è consultato il dizionario bolognese - italiano / italiano - bolognese di Luigi Lepri e Daniele Vitali, edito da Pendragon.

Immagine di copertina di Emilia Maria Chiara Petri © 2017 tutti i diritti riservati - riproduzione vietata Nuova S1 s.n.c. di Pietro Cimmino Gibellini & C. via Albertazzi 6/5 - 40137 Bologna www.nuovas1.it - info@nuovas1.it Prima edizione: settembre 2017 Numero ISBN: 9788889262986




Una volta ho domandato a una signora che stimo, sposata da una quarantina d’anni: «Qual è il segreto per un matrimonio longevo?» Occhiata. Mezzo sorriso. Risposta: «Tanta pazienza...» Questo romanzo è dedicato a tutte le donne che ogni giorno applicano quella pazienza. E, tra tutte, è dedicato a mia nonna, Irma, il Gardlén di Santa Croce.



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In certe strade a Bologna non si abitava, si campava. Santa Croce era una di queste, strade di gente qualsiasi, dove si parlava dialetto. Era il maggio del 1911 quando ci andammo ad abitare, per la precisione l’8 di maggio, al dé di Sanmichêl, il giorno dei traslochi a Bologna. Le strade brulicavano di carretti, di biroccini stipati di mobili legati con lo spago, di bagagli trascinati, gente che andava e veniva. Se si poteva scegliere si andava via in quella data. Prima di Santa Croce abitavamo in Senzanome, in cinque in una stanza. Poi il babbo l’avevano preso a lavorare come capomastro in un cantiere che sarebbe durato a lungo e la mamma aveva deciso che potevamo spostarci almeno in camera e cucina. A traslocare ci volle poco. Il babbo tirava un biroccino su cui aveva legato alla meglio quel che avevamo da portare via. La mamma spingeva da dietro o voleva farlo, ma il babbo le diceva di no, che faceva da solo, che per lei era troppo pesante. Davanti camminava Peppino, mio fratello, che a sei anni si credeva grande e voleva portare i pesi e ai lati noi due sorelle, Carmen che era la maggiore e io, di quattro anni, che non portavo niente se non la mia bambola di pezza. Santa Croce cominciava dalla piazzetta di via del Pratello, andava avanti diritta per un centinaio di metri e finiva in niente, nei prati incolti ai margini del canale di Reno. Al principio, per qualche metro oltre la piazza, era lastricata di sanpietrini, per darsi un tono da stradina per bene, poi, all’improvviso, a percorrerla ancora si finiva nel battuto, polvere bianca e ghiaia, che entrava nelle scarpe e le impolverava tutte. Le case venivano su dalla strada senza marciapiede, tutte in fila, un unico muro di portoni e finestre, senza balconi, ogni tanto un portico, ma basso, come le case, così basso che se uno era alto, molto alto magari, a momenti poteva sbattere la testa nel soffitto. Lungo il battuto della via correvano i bambini, con le brache corte e le ginocchia sempre sbucciate, calciando scalzi un pallone fatto di stracci; i vecchi trascinavano una scranna davanti ai portoni e sedevano a guardare, mentre le donne, in piedi, cicalavano da una porta all’altra i loro fatti e quelli di tutti, nell’attesa che passasse qualcuno di cui sparlare. Botteghe in Santa Croce non ce n’erano, a parte il chioschetto della giornalaia, ma quello stava al principio della via e si poteva quasi dire che era ancora Pratello e non già Santa Croce. Perciò chi passava per Santa Croce ci voleva proprio venire, come la nipote della mamma che faceva la cuoca presso una famiglia di signori e una volta alla settimana, quando aveva il giorno libero, ci veniva a trovare. La mamma le offriva il caffè che però non lo era davvero, era cicoria, e del caffè manteneva giusto un ricordo. La ragazza però, per riguardo alla mamma che di più non le poteva offrire, fingeva di apprezzarlo, senza confessare come in casa dei signori, dove aveva pattuito vitto e alloggio, mentre preparava il caffè per loro, di quello pregiato, ne disponesse in abbondanza pure per sé. 9


La nipote della mamma, che si chiamava Maria, era una ragazzona florida e allegra, contenta del mestiere, della paga, del gruzzolo che a poco a poco era andata guadagnando. Per anni aveva risparmiato, senza comprarsi niente, senza cedere neppure a una piccola voglia, a uno di quei desideri di ragazza nubile che può ancora pensare solo a se stessa. Il denaro Maria lo metteva da parte per il futuro. Per quando mi sposo, diceva. Ma dato che il fidanzato ancora non ce l’aveva una volta si stancò di risparmiare e venne a trovarci un pomeriggio d’inverno con una magnifica stola di volpe argentata buttata sul collo del cappotto. «Non sembro una signora?» esclamò entrando in casa, tutta fiera, con un portamento che credeva regale. La mamma non se la sentì di contraddirla. Sorrise, mite, fece cenno di sì con la testa. E invece Maria ce l’aveva cucito addosso il suo essere cuoca, nel lieve sentore di cibo che emanava sempre la sua persona, anche quando non stava in cucina, anche se si lavava, e nelle forme piene, il colorito acceso, le mani sbruciacchiate di fornelli, quelle mani, forme, faccia che le signore non hanno. Le signore hanno le facce da signore. Non si sa il perché, che una nasce così, non lo diventa. Nemmeno coi soldi, nemmeno con una stola di volpe gettata sul collo, nemmeno se invece di volpe la si chiama renard, in francese, come fanno le signore, quelle vere. Mentre Maria si dava arie da signora e la mamma l’assecondava, io stavo sotto il tavolo di cucina e giocavo in silenzio con la mia bambola di pezza. Il renard non mi piaceva, l’avevo capito subito, non appena era entrato in casa. Stava fermo su quel collo che lo indossava con orgoglio, la coda molle, le zampe quiete, la bocca un poco aperta, a mostrare appena una fila di dentini aguzzi, teneva gli occhi fissi, sembravano di vetro. Eppure, ci avrei giurato, da lassù, allacciato a quel collo, ogni tanto un’occhiata me la lanciava. E non era amichevole. Lo studiai da sotto il tavolo. C’era da scommetterlo che fosse una bestia cattiva. A malincuore Maria se lo sfilò dal collo, lo adagiò sul letto, in camera, poi tornò in cucina, si sedette al tavolo, prese a chiacchierare con la mamma. Da sotto il tavolo le vedevo le gambe, e attraverso esse, là, dal letto, la bestia d’argento mi fissava. Strisciai piano fino alla soglia della stanza. Le due donne non mi fecero caso. La bestia stava immobile, sotto la finestra. Una luce bianca, il cielo degli inverni a Bologna, le spioveva sul pelo che luccicava appena, bagliori d’argento. Presi coraggio, il cuore mi batteva forte, mi avvicinai al letto. Fissai la bestia, lei fissò me. Qualcuno avrebbe perso e qualcuno vinto quella silenziosa battaglia di sguardi. Il primo, tra noi, che avesse osato una mossa, un gesto fulmineo. Con un balzo serrai tra le braccia il renard. Non si divincolò. Lo sentivo tra le dita quel pelo caldo e folto, credeva di confondermi nel mantenersi remissivo. Dovevo liberarmene. In un attimo, mentre la mamma e la sua ospite non mi guardavano, mentre ridevano e bevevano la cicoria che sapeva di caffè, infilai la porta con la volpe in braccio, a precipizio scesi le scale, spalancai il portone. 10


Ecco. Ero fuori. Crepuscolo. Levai lo sguardo al cielo. Bianco. L’aria mi pizzicava la faccia, sapeva di neve. A breve sarebbe venuta giù, fiocchi come punture di spillo sulle guance. Santa Croce si andava spegnendo. Nessuno per strada, alla finestra. Gettai la bestia dietro una colonna del portico, là dove si usava buttare i rifiuti. Lei non disse niente, lasciò fare. Per un attimo la guardai. Mi parve che passasse un’ombra dentro quegli occhietti di vetro confusi tra le immondizie. Esitai, poi scrollai le spalle. Faceva freddo. E avevo vinto io. La bestia non ci avrebbe più fatto del male. Salii le scale tutta raggiante. Prese dai loro discorsi le due donne non si accorsero del mio ritorno. Mi rannicchiai di nuovo sotto il tavolo e ricominciai a giocare, da dove avevo interrotto. Ogni tanto pensavo alla bestia, là sotto, dietro la colonna. Annuivo, tra me, compiaciuta. Quando Maria disse che doveva andare e si avviò in camera da letto per infilarsi il cappotto e la stola mi preparai a ricevere i complimenti per il mio operato. Invece il tono della ragazza si fece un poco angustiato mentre domandava alla mamma dove fosse la pelliccia, come mai non la si trovasse dove era stata lasciata. «Eppure era qui» dicevano entrambe, perplesse. Si misero a cercare, anche in luoghi improbabili, come si fa quando quel che si cerca è perduto davvero. La casa non era grande, stanza e cucina, ma fu setacciata tutta. La stola non si trovò. Le due donne ebbero un sospetto e impallidirono. «Irma, sei stata tu?» domandò la mamma, mantenendo un tono quieto, perché non mi mettessi in allarme e mi venisse voglia di rispondere con una bugia. Invece feci cenno di sì da sotto il tavolo. Certo che ero stata io. Le avevo salvate. «Hai nascosto la stola? Dove l’hai messa?» chiese Maria con un filo di voce. «Per strada. Dietro la colonna!» risposi gonfiando il petto con orgoglio. Con un grido le due donne volarono giù, per le scale; sentivo i tonfi delle loro scarpe lungo le rampe, mentre i vicini cacciavano fuori la testa dagli usci a udire il trambusto di un correre tanto veloce. Fuori aveva preso a nevicare. Grossi fiocchi sgarbati. Santa Croce cominciava a imbiancare. Nessuna impronta nella neve, persiane sprangate davanti alle finestre, solo un lampione a tremolare lontano. Silenzio. E nessuna stola dietro la colonna. Le due donne la cercarono a lungo, finché non fece buio davvero, quel buio abbacinante delle notti di neve. Maria se ne andò via camminando piano, il bavero del cappotto sguarnito, i fiocchi che le pungevano il collo. Era Santa Croce. Che viveva di niente, dove si mangiava solo quando ce n’era e un renard non si restituiva. Santa Croce, onesta e corrotta, dove si campava e non si abitava. 11


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Del renard se ne parlò a lungo; si chiedevano tutti chi lo avesse preso. Qualcuno lo sapeva. Qualcuno della via, che adesso ce l’aveva in casa e stava zitto. Magari lo teneva nascosto nell’armadio, dentro un sacco, perché nessuno lo vedesse. Il renard sarebbe stato venduto alla prima occasione, ma in segreto, perché in verità tutti sapevano che apparteneva alla nipote della mamma. Quel pomeriggio, quando Maria aveva attraversato la via tutta orgogliosa della sua pelliccia, tutti gli occhi delle femmine di Santa Croce si erano posati su quel collo d’argento. A Santa Croce non sfuggiva niente. Adesso per strada le donne, quando s’incontravano, finivano sempre per domandare: «Chissà chi l’ha preso il renard?». E intanto sospettavano una dell’altra. Lo chiamavano in francese, anche loro, perché l’avevano sentito chiamare così e faceva elegante, faceva signora dire renard invece di volpe. E tutte, ma senza confessarlo, chissà che avrebbero dato per trovarsi a passare davanti alla colonna, quella sera di neve, proprio in quel momento lì, quando l’avevo gettato e me n’ero andata. Tutte, in segreto, se lo immaginavano al collo, così soffice, a rimirarsi davanti ai pezzetti di specchio appesi nelle stanze stipate di figli e cianfrusaglie. Qualcuna di quelle che la lingua ce l’avevano lunga s’azzardava a dire: «È stata la Dalcisa dal fazultén!». Oppure: «Macché! L’ha preso la Desdemona!». E giù a scommettere se ce l’avesse questa o quella. La Desdemona faceva la vita di notte in una delle case d’appuntamento di via San Marcellino. Abitava l’appartamento di fronte al nostro. Non aveva ancora vent’anni ed era bella, ma così bella che tutti, nella via, dicevano che sembrava una bambola, una di quelle dei negozi costosi, con quelle bocche a cuore e le ciglia lunghe e la pelle così liscia come porcellana. Io non ci credevo che l’avesse preso lei il renard perché a quell’ora, quando l’avevo buttato, lei dormiva ancora. Si doveva riposare perché il suo lavoro era faticoso e tornava a casa molto stanca. Lo diceva sempre la mamma che la Desdemona era tanto stanca perché lavorava molto la notte e noi bambini, quando lei dormiva, non dovevamo fare rumore sul pianerottolo, perché l’uscio del suo appartamento era sottile e si sentiva tutto. Che genere di lavoro fosse fare la vita di notte non ce l’avevano spiegato, ma non importava, l’importante era non fare rumore di giorno. 12


Alla Desdemona piacevo molto. Quando era sveglia, prima di andare a lavorare, mi lasciava entrare in casa sua a guardarla mentre si vestiva. Possedeva degli abiti tutti colorati, con molti fiocchi, parecchio scollati, proprio quel genere di vestiti che avrei voluto da grande. E si truccava persino. Occhi neri, labbra e guance rosse, forse un po’ troppo rosse, stava meglio senza, senza era più bella perché lo sguardo, senza tutto quel nero intorno agli occhi, era più buono. Lei però diceva che a lavorare era meglio andarci così. Una volta glielo dissi che da grande avrei voluto diventare come lei. Lei, a sentirlo, aveva sorriso, ma non era stato un sorriso allegro, giusto un increspare di labbra, appena, in un certo modo che quasi sembrava triste. Sottovoce aveva risposto: «Spero di no, bambina». Ci ero rimasta male. Lei diceva che avevo ancora il mondo in mano e non lo dovevo sprecare. Io quel mondo dentro le mani, anche se me le guardavo a lungo, non ce lo vedevo mai e mi sembrava strana quando me lo diceva. Comunque ero sicura che il renard non l’avesse preso lei. Piuttosto poteva essere stata la Dalcisa dal fazultén; lei sì, lei poteva essere il tipo che trovava un renard e non lo restituiva. La Dalcisa dal fazultén, l’Adalgisa dal fazzolettino, la chiamavano tutti così perché non la si era mai vista in giro senza un fazzoletto in testa. Lo portava sempre, persino in casa, persino a letto. Nessuno sapeva perché. Sotto il fazzoletto i capelli ce li aveva, neri neri, come certi peli che le crescevano sulle braccia e sulle gambe e persino, un’ombra, ma c’erano, sopra le labbra. Camminava ancheggiando, florida di petto e di sedere, e i bambini, certi maschi tra i più svegli, per la strada, dietro, quando passava, senza che se ne accorgesse, le facevano il verso. Lei sì che era convinta di essere bella, più di quanto gli altri pensavano fosse, ma si dava un tono da modesta e diceva: «Mé an sån brîṡa bèla. A sån discrêta!». «Non si può dire che io sia proprio bella, piuttosto sono discreta!». E così la chiamavano anche: «La bèla discrêta» «La bella discreta». Nelle giornate soleggiate, quando stendeva il bucato a sventolare dal davanzale, la si udiva canterellare a voce alta: «Quand al såul al rispland la bèla la stand». «Quando il sole risplende la bella stende». Aveva un marito di regola alticcio e spesso ubriaco, che da anni si lamentava di non trovare lavoro e di fatto non lo cercava più, e una cinquina di figli che tutto il giorno facevano a sassate contro i monelli di via San Rocco. La Dalcisa dal fazultén riceveva ogni giorno due visite, una la mattina e l’altra il pomeriggio. La mattina, prima di aprire il negozio, il fornaio di via del Pratello le portava di persona un sacchetto di pane bianco fresco e mezzo chilo di farina. 13


L’uomo le faceva un fischio dalla strada; lei si affacciava, il petto generoso proteso sul davanzale, lo salutava con un cenno. Era il segnale che il fornaio poteva salire. Una mezz’ora dopo l’uomo discendeva con l’aria soddisfatta di chi si alza da tavola dopo aver mangiato bene. Nel pomeriggio, mentre il marito dormiva, la Dalcisa riceveva uno di quei tuttofare avanti in età a cui ci si rivolge quando in casa c’è bisogno di qualche riparazione che non è di pertinenza specifica di nessun artigiano. L’uomo si presentava alla porta con un bidoncino di colla garavella, la gelatina ottenuta dai cascami degli animali, e un pennello, per darsi contegno di lavoratore. Le vicine stavano attente all’orario e si affacciavano apposta alle finestre in tempo per vederlo arrivare. Quando il vecchio compariva al principio della via le donne si mettevano a sghignazzare, tutto un fischio, un sollazzo di allusioni sguaiate. Si divertivano perché l’uomo si imbarazzava. Non faceva come il fornaio che arrivava fischiettando, le salutava con un cenno, certe con un bacio, l’occhiolino, come a dire sono pronto anche per voi se lo volete. Il tuttofare aveva l’aria furtiva, si dava arie da lavoratore, voleva far fessa Santa Croce. Santa Croce faceva fesso lui. L’uomo saliva a occhi bassi dalla Dalcisa, si sbrigava in una ventina di minuti, mezz’ora al massimo, poi discendeva, il bidoncino ancora pieno di colla, il pennello intatto, la Dalcisa che lo salutava dal davanzale contando con un’occhiata le monete lasciate sul tavolo. Quando era in buona, parlando con le vicine, soddisfatta del servizio che rendeva alla famiglia, la Dalcisa si batteva il petto con il pugno e proclamava con orgoglio: «L’é la mi pèl ch’la và avanti!». «Si va avanti grazie alla mia pelle!». Ero sicura che il renard l’avesse trovato lei. Una volta lo dissi alla mamma, ma lei rispose che non dovevo pensare male. Maria, la nipote della mamma, dopo l’avventura del renard tornò ancora a trovarci, ma più di rado. A vederla, nei modi, verso la nostra famiglia, non sembrava risentita, eppure avevo colto la mamma, sottovoce, constatare con il babbo che Maria non era più quella. Si trattava di sfumature, un sorriso più tirato, uno sguardo meno garbato di prima, nei miei confronti e verso tutti, che quando si è offesi con qualcuno della famiglia va a finire che lo si è con tutti. Nel vedere indosso alla nipote quel cappotto scarno, dal collo sguarnito, la mamma, ogni volta, si vergognava. Il babbo, che all’onore ci teneva, si offrì di risarcire la ragazza per la perdita della pelliccia, ma lei non accettò. Il babbo emise appena un sospiro quando Maria rifiutò, un respiro impercettibile, che colse solo la mamma. Denaro in casa ne avevamo poco. Lo si capiva da quello che la mamma metteva in tavola ai pasti. Carne mai. In compenso non mancavano i fagioli, la polenta, le patate, il pancotto. Tutte cose che non mi piacevano, che mangiavo a stento. Avrei desiderato di meglio, qualcosa di più appetitoso, un po’ di mortadella, qualche fetta di salamino, ma la mamma diceva che con quelle non si riempiva la pancia. Al termine della cena, prima di sparecchiare, la mamma ogni sera mormorava: «Sgnåur a v a ringrazi che anc pr’incû avän magnè!» «Signore, vi ringrazio che anche per oggi abbiamo mangiato!». 14


Non lo diceva per dire, ma per davvero, perché la certezza di un pasto non c’era mai. Quando era giorno di paga la mamma poteva comprare uova e farina e preparava la sfoglia, tagliatelle e tagliatelline, da asciutto e da brodo. Allora sì che si mangiava bene, che ci si saziava con più gusto, anche se il brodo sapeva di ossa e per niente di carne. Succedeva di domenica, quando nostro padre pranzava a casa. Era l’unico giorno della settimana in cui la famiglia si riuniva. La mamma ci teneva che fossimo tutti composti, tutto ordinato, la tavola, la casa. Sulla finestra di cucina, dietro le tendine sempre pulite, aveva sistemato una pianta di garofani. Li aveva voluti rossi. Facevano allegria. Il babbo a tavola parlava poco, si mangiava in silenzio, gli piaceva così. La mamma lo accontentava perché era il babbo, noi figli per soggezione. Non era severo, ma era nostro padre, gli si dava del voi. «E vo’, Papà, a i n vlîv un pôc?». «Ne gradite voi, Papà?». Era la frase che si doveva dire, che ci era stata insegnata, per quella deferenza che si attribuiva ai padri nelle famiglie, prima di poter disporre di quel che rimaneva nel piatto di portata. Servirsi non si poteva. Prima andava chiesto al papà. Anche alla mamma veramente, ma lei rispondeva sempre di no, che non ne voleva. Per non privarcene. Con il papà, invece, non si sapeva mai, avrebbe anche potuto rispondere di sì e allora bisognava darglielo davvero. Come con la ciambella, il dolce che qualche volta la mamma preparava la domenica. La mamma la tagliava in sei fette, ne distribuiva una per ciascuno, lasciava apposta l’ultima nel piatto di portata. Carmen, che aveva sempre da ridire, sollevava controluce la sua fettina. «Sembra un velo» borbottava. Peppino in un boccone la mandava giù. A indugiare c’ero solo io che sbocconcellavo lentamente la mia parte perché durasse più a lungo. Ogni volta così. Tutti gli occhi su quella fettina che rimaneva nel piatto. Tutti a desiderarla. Tutti che sapevano a chi sarebbe spettata. Soltanto io non lo capivo. Ogni volta, da una domenica all’altra, me lo dimenticavo. Credevo sul serio che il papà me l’avrebbe mangiata. Lui me lo lasciava pensare, era il gioco della domenica. Tutta torva, gli offrivo il dolce con quella frase che non mi piaceva, mentre lui si lisciava i baffi, lentamente, come a rifletterci davvero se accettarlo o meno. Mi lasciava in attesa, secondi che mi sembravano ore, tutto il mio destino dentro una fettina di ciambella, felicità o delusione. Alla mia offerta il babbo finiva sempre per rispondere, serio: «Dammela pure». Io, sottovoce, delusa, mormoravo che preferivo la mamma perché rifiutava sempre. Allora si mettevano tutti a ridere, perché lo scherzo era finito e oltre sarebbe stato un dispiacere. Il babbo mi faceva una carezza, mi porgeva la ciambella. La mangiavo senza capire, ogni volta, che mai mio padre me l’avrebbe davvero portata via. 15


Dopo pranzo, qualche volta, nostro padre si lasciava convincere dalla mamma a fare una passeggiata per le vie del centro. «Compriamo il gelato?» chiedeva Peppino. «Andiamo a vederlo mangiare» rispondeva il babbo. «Oh, Papà, non è mica la stessa cosa». Ma si andava lo stesso con la speranza che, prima o poi, a forza di vederlo mangiare anche al papà venisse voglia di comprarcene uno. La mamma per uscire indossava il vestito della domenica, quello buono, delle occasioni speciali, della messa. Il babbo si metteva il cappello, senza non usciva mai, neppure per andare a lavorare, anche se faceva il capomastro. Ci teneva a presentarsi in ordine, alla pulizia. Ci aveva insegnato a lavare i denti, a tenere le unghie pulite, anche quelle dei piedi, perché non si dicesse che avevamo anche noi le unghie a lutto, listate di sporcizia nera, come quelle della maggior parte dei bambini di Santa Croce. La mamma le unghie non le aveva mai sporche perché le teneva nell’acqua tutto il giorno, dentro l’acqua del canale dove andava a lavare la biancheria delle famiglie importanti. Stavano in tante come lei sulla riva del canale, al lavatoio pubblico, le gambe nude immerse dentro l’acqua d’estate, d’inverno dentro una botte per sentire meno il freddo, a sbattere i panni sopra le assi di legno, le mani tutte rovinate dalla cenere, dalla candeggina che usavano per sbiancare il bucato. Però le mani della mamma erano belle lo stesso, lo diceva il papà, che ogni tanto gliene prendeva una e se la portava alla guancia. Lo pensavo anch’io che le mani della mamma erano belle, quando mi carezzava, la notte, per farmi dormire. La mamma sorrideva sempre, anche quando era stanca. Non lo so com’è che non strillava mai. Non come le altre mamme, quelle delle mie amiche, le bambine che stavano giù in strada con me a giocare. Le mamme delle mie amiche si affacciavano alle finestre e strillavano ordini. Vieni. Vai. Non fare. E insulti. Con i figli maschi soprattutto, ma anche con le femmine, meno però. Strillavano e picchiavano. A volte, quando le finestre erano aperte, si udivano dalla strada i suoni degli schiaffi che prendevano, in casa, i bambini. È uno schiocco netto. Ciaf. In Santa Croce era un suono che si udiva spesso, anche tra uomini e donne. Le donne le prendevano. Forse era per questo che quando diventavano madri le davano. La mamma no. Non mi ricordo che mi avesse mai picchiato. Nemmeno Carmen, neppure Peppino. Una volta sola la mamma l’aveva minacciato di prenderle. Era stato quando Peppino era tornato a casa, di nuovo, una volta di troppo, con i bisogni fatti dentro le mutande. Era tale la foga del gioco, insieme agli amici, che tempo per i bisogni Peppino diceva di non averlo. La mamma gliel’aveva ripetuto che la piantasse. Prima con le buone, poi un po’ meno. Ma lui niente. Il bisogno gli scappava, lui si tratteneva finché ne era in grado e poi lo mollava dentro le brache. Quella volta che tornò a casa tutto sporco di marrone, pantaloni e mutande e schiena, la mamma lo fece inginocchiare sotto il quadro della Madonnina che stava in camera da letto e gli fece giurare che non l’avrebbe fatto più. Peppino giurò, davanti alla Madonnina non si poteva mica mentire, e da quella volta tornò sempre a casa con le mutande intatte. 16


Della mamma, quando sorrideva, sorrideva tutto, gli occhi, le guance e certe pieghe che le si formavano intorno alla bocca, persino i denti, tutto luminoso, anche a guardarla da dietro. Carmen no. Lei somigliava al papà, sempre schiva. Parlava poco, stava dentro i pensieri suoi. Spesso si azzuffava con Peppino che si divertiva a tormentarla. Peppino in casa non c’era mai, andava chissà dove con gli altri bambini di Santa Croce. Tornava a casa, la sera, con le tasche piene di sassi, le gambe piene di graffi, le mani nere. A parte la domenica. La domenica veniva con noi a passeggio per la Bologna più bella, tutto impettito e pettinato si dava arie da signore. Diceva che eravamo una bella famiglia. Lo dicevano anche in Santa Croce. Io mi stimavo per questo. Le donne, quando passavo, per strada, mi facevano complimenti, mi dicevano di chiudere gli occhi per mostrare le ciglia. Erano folte e lunghe, così tanto da sfiorare gli zigomi. «Non canti, oggi?» mi chiedevano. Cantavo sempre. Per le scale, in strada, dappertutto. «L’é tótta pann e våuṡ!» «È tutta penne e voce!» dicevano. Come un uccellino. Ero magra. Tutta ossa e occhi e capelli. Per questo, in Santa Croce, mi chiamavano Gardlén, cardellino. A Carmen di complimenti non ne facevano tanti, solo qualche volta, per gentilezza verso mia madre che altrimenti rimaneva male a sentire elogiare una figlia e non l’altra. Carmen, scontrosa, teneva gli occhi bassi, sfuggiva gli sguardi, non si faceva amare. Non ce l’aveva quell’innata empatia che si guadagna un sorriso da chiunque. Anche di domenica, il giorno della passeggiata, forse il giorno del gelato, lei non sorrideva mai. Eppure le piaceva camminare per strada al braccio della mamma, con il fiocco nella treccia e gli stivaletti con un po’ di tacco, come le signorine. Aveva nove anni, ma era così alta che gliene si davano almeno due in più. Una domenica fu lei ad accorgersi del renard. Lo indicò con un dito. Carmen lo riconobbe anche se erano trascorsi molti mesi da quel pomeriggio in cui l’avevo abbandonato dietro la colonna. La pelliccia stava al collo di una donna, ferma di fronte al Caffé dei Cacciatori, il locale più frequentato di Bologna. Lo stesso pelo del renard perduto, lo stesso sguardo sornione degli occhietti di vetro. La donna era di spalle. Poi si voltò e fu chiaro a tutti chi, quella notte di neve, avesse trovato la pelliccia.

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Quando la donna si voltò la riconoscemmo. Apparteneva alla Famajja di Bî, la Famiglia dei Belli, che abitava a un paio di isolati da noi. In Santa Croce si dava un soprannome a tutti e non avrei saputo dire come la donna si chiamasse davvero. Sentendosi osservata incrociò lo sguardo di mia madre. D’istinto, per la colpa d’indossare quella pelliccia che non le apparteneva, la donna ebbe un sussulto, un’idea di fuga. Ma fu un attimo. Poi le passò negli occhi un lampo sfrontato e si accomodò con ostentazione la volpe al collo. «Ti piace, Ernesta?» chiese a mia madre che fissava il renard. «Perché non l’hai restituito?» disse la mamma, severa. «Restituito? A chi?». «Lo sai». L’altra inarcò le sopracciglia: «Eh, no che non lo so». E poi rivolta a me, che la osservavo dal basso, stretta alla gonna di mia madre: «Sei stata brava, Gardlén, ti ringrazio». Frastornata dal complimento, non compresi se la donna scherzasse. Lei sorrideva, ma la mamma si manteneva seria. Poi mia madre scrollò la testa. Dopo tutto ero stata proprio io a gettare il renard per strada. La donna, che lo sapeva, come lo sapevano tutti, allargò le braccia. «Che ci vuoi fare? Si sa come sono i bambini». Di restituire la volpe a Maria la donna della Famajja di Bî non aveva neppure pensato. «Non te la prendere, Ernesta, viviamo in Santa Croce» esclamò. Santa Croce ce la portavamo addosso tutti, non si poteva sfuggirle. Con il suo battuto polveroso, quell’unico lampione fiacco, le corde appese tra i davanzali curve di panni da asciugare, le grida dei bambini, l’odore di brodo d’ossa per le scale, stava dentro di noi. Santa Croce dove era ammesso tutto, non ci si meravigliava di niente, neppure che le guardie ogni sera venissero a prelevare qualcuno, ma senza fretta, tanto quello se l’aspettava, peccati da poco, confine sfuocato tra l’arrangiarsi e il delinquere. Che esistesse un altro modo di vivere lo si sapeva, ma per sentito dire. Lo si sapeva che in certe strade si mangiava carne a pranzo e cena, le donne avevano tutte il marito, nessuna stava in ginocchio in riva al canale a sbattere i panni sulle assi di legno; lo si sapeva che certi uomini portavano il fazzoletto di seta, le scarpe di vernice, avevano tutti le unghie pulite, le mani bianche. Lo si sapeva. Ma in Santa Croce, in Pietralata, lungo il Pratello quegli uomini e quelle donne non ci passavano, non si fermavano all’osteria Dal Tragg’, a mangiare i fagioli da Rommolo. Non ce l’avevano, loro, il riformatorio minorile a metà della via, non lo chiamavano I désscuel, i discoli, non avevano neppure 18


i discoli perché i bambini, in quelle strade di signori, i sassi non li tiravano, i vetri non li rompevano. Le dita dei piedi, a quei bambini, non scappavano fuori dalle scarpe a furia di giocare tra le pietre, calciare palle fatte di stracci nei prati incolti in fondo alla via. Erano i prati degli Urtlàn, gli ortolani, che abitavano a pianterreno nel nostro stabile. Dove non coltivavano a orto lasciavano la terra incolta, prati che si allungavano per qualche centinaio di metri fino al canale di Reno, deviazione artificiale del fiume che scorre alle porte di Bologna. Su quei prati giocavano i bambini di Santa Croce e tutto accadeva lì. S’imparava la vita, il proprio posto nel mondo, il proprio coraggio e le proprie debolezze, tutto tra quel terreno impolverato che era la strada e quell’erba incolta in cui razzolavano le galline degli Urtlàn. A volte ne spariva qualcuna di quelle galline e agli Urtlàn che se ne lamentavano le donne di Santa Croce rispondevano che forse erano cadute per sbaglio int al Raggn, nel Reno. Ma lo sapevano tutti, ortolani compresi, che le galline erano cadute in pentola piuttosto che in Reno. Però per sbaglio. Nessuno, in Santa Croce, se anche avesse visto, avrebbe parlato. Si stava sempre zitti tra Santa Croce e il Cruṡèl, il crocicchio tra Pietralata e Pratello. Conveniva così, per un reciproco accordo d’onore e omertà. Si stava zitti se qualche volta, per strada, si azzuffava qualcuno, se tiravano fuori il coltello; non si ascoltava, non ci si fermava. Si stava zitti se la Desdemona faceva la vita e Aldo il ladro. Di professione. Aldo diceva che rendeva abbastanza. Per strada, spesso, quando la sera lo si vedeva passare, gli si chiedeva com’era andata, quanti portafogli quel giorno. Per nominarlo, perché si capisse che si trattava proprio di lui e non di un certo altro Aldo che abitava qualche isolato più in là, la gente diceva: «Ma chi? Aldo, al lèder?». Aldo, il ladro. Così non ci si sbagliava. Negli anni Aldo si era scelto la sua zona di lavoro, la strada più elegante della città, la via Rizzoli. Era la strada dei bei palazzi dai portici ariosi, delle banche e delle boutique, dei circoli mondani e dei locali, delle pasticcerie, dei ristoranti, affollata a qualsiasi ora di un’umanità chiassosa, elegante, opulenta di buon cibo e di divertimenti; la strada che offriva la vista allo svettare delle due torri, Garisenda e Asinelli, simbolo e orgoglio della città. Aldo era contento di via Rizzoli. Ogni giorno rientrava a casa con due o tre portafogli. Presi ai signori, non ai poveretti, perché, diceva, non si mangia in due dove non ce n’è per uno. Il denaro che guadagnava Aldo non se lo teneva tutto. Lo prestava volentieri, senza interessi, se qualcuno, in Santa Croce, ne aveva bisogno. Qualcuno c’era sempre. Quando il lavoro, quello vero, non si trovava, o lo si perdeva, quando nasceva un figlio di troppo. E se il prestito non lo si restituiva pazienza, perché un portafoglio in più ad Aldo non costava fatica. Le guardie non lo venivano a cercare. Oppure, qualche volta, se lo incontravano a bere un bicchiere da Rommolo, se lo portavano via per una notte, ma solo se in galera c’era posto. Lungo la strada facevano conversazione, Aldo e le guardie, fumavano una sigaretta e se a qualcuno dei poliziotti serviva un prestito Aldo era contento di concederglielo mentre andava in galera. 19


A denunciarlo non ci si pensava, in Santa Croce non si denunciava nessuno. Neppure quelli della Famajja di Bî che i soldi li facevano in un modo che nessuno di preciso sapeva, ma che di sicuro non era limpido. Truffe, si diceva. E rapine. O altro. Domande, sulla Famajja di Bî, era meglio farne poche. Una volta, si diceva, ma erano voci, c’era scappato anche un morto. L’avevano trovato di mattina presto, steso lungo il Pratello ai piedi di una colonna. Forse una zuffa finita male. Rifiuti, morti e renard, tutti ai piedi delle colonne, per tutti lo stesso valore. Quelli della Famajja di Bî un coltello nelle tasche ce l’avevano sempre. Anche una rivoltella. La si vedeva spesso, in cintura ai maggiori tra i fratelli. Erano in cinque. Tutti belli, ma belli davvero, come attori, bruni e alti, coi denti bianchi; per questo li chiamavano i Bî. Piacevano a tutte in Santa Croce. Padri e mariti vigilavano stretto. Eppure qualcuna ci cascava sempre. Durava un po’, finiva in niente. Di legami i maschi della Famajja di Bî non ne volevano sapere. Il fratello minore non aveva ancora quindici anni, era forse il più bello tra tutti. Sapeva di piacere, occasioni non ne perdeva; per strada si atteggiava a grande, una sigaretta tra le labbra, i capelli impomatati di brillantina, un coltellino a serramanico tra le dita. Lo apriva e chiudeva, apriva e chiudeva, ascoltando il breve scatto metallico con pigro compiacimento. Quando passava lungo la via le bambine, quelle più grandi, si davano di gomito. Stavamo tutte a sedere sopra un muricciolo nei pressi di casa mia, le grandi e le piccole, le piccole ad ascoltare i discorsi delle grandi senza capirli. Certe parlavano già di maschi, goffa imitazione delle parole rubate agli adulti, credevano di sapere tutto, si atteggiavano a donne. Il minore della Famajja di Bî ci guardava tutte, le grandi e le piccole, e dentro l’occhiata che ciascuna di noi gli ricambiava c’era già tutto ciò che saremmo diventate una volta donne. Eravamo bambine di tutte le età, bambine magre senza forme, ma c’era tra noi qualcuna nel cui corpo un cambiamento era già in atto, o forse il preludio di questo, nonostante la malizia non fosse ancora che una vaga sfumatura, ma una sfumatura che giungeva in fretta, perché eravamo bambine del popolo, figlie di Santa Croce. Si diventa grandi prima, per strada. Una sera d’estate, verso il tramonto, invece che fissarci da lontano il figlio della Famajja di Bî si avvicinò. Si piantò di fronte a noi col suo bel sorriso e il coltellino luccicante. Qualcuna ridacchiò, arrossì, nascose il volto tra i capelli di un’altra, frastornata da quegli occhi neri che la fissavano. Scambiammo frasi sciocche, lui fece il galante con qualcuna. All’improvviso estrasse dalla giacchetta una rivoltella. Si levò un coro di grida. Una pistola non l’avevamo mai vista da vicino. Lui se la rigirò tra le dita, l’aria da esperto; noi, impressionate, lo fissammo in silenzio. Il figlio della Famajja di Bî puntò l’arma verso il fondo della strada, verso i prati degli Urtlàn su cui scoloriva il sole del tramonto, e simulò di colpire qualcuno. Poi, inaspettatamente, ruotò il braccio verso di noi, fissò la mira su di me. «Ti sparo, Gardlén!». Sorrideva. Sorrisi anch’io. Sorrisero tutte le bambine, sottosopra per l’emozione. «Di’, Gardlén, hai paura?» chiese lui. 20


«Io no!» risposi, spavalda. «Neppure un po’? È una pistola vera, sai!». «Non ho paura! Ormai sono grande.». «Ma davvero. E quanti anni hai?». «Sei». Gli scappò da ridere e di colpo mi sbraitò in faccia: «Bang! Bang! Bang!» facendo l’atto di sparare. Per quel grido improvviso le compagne si sparpagliarono via con un balzo e stridule risate. Mi trovai sola di fronte a lui, la canna della pistola puntata al viso. Era un gioco che non mi piaceva tanto, ma rimasi immobile, a dimostrare a lui e a tutte che davvero non avevo paura. Le altre, mezze nascoste dietro le colonne dei portici, allungavano il collo per guardare, tutte eccitate. «Ti sparo, Gardlén!» ripeté lui. E rivolto a tutte: «Le sparo davvero!». Qualcuna ridacchiò. Lui mi guardò dritto negli occhi, mi piantò la canna sulla fronte. «Bang!» mi urlò sulla faccia. «Aiuto!» gridai. E d’istinto gli sgusciai tra le gambe. Cominciai a correre, senza sapere dove, come quando scappavo dalle sassate che si divertivano a tirare a noi femmine certi bambini di Santa Croce. Spiazzato, e poi divertito, il figlio della Famajja di Bî m’inseguì. Le bambine gridavano, lo incitavano a prendermi. Lui simulava il rumore dello sparo mentre m’inseguiva; intanto rideva e la sua risata si era fatta più eccitata. Quasi mi acchiappò, mancandomi di poco un braccio. Cacciai un urlo e corsi più forte. Le altre bambine rimasero nascoste dietro le colonne a godersi il gioco, a incitare a turno me e lui; qualcuna tra le più piccole invece era scappata in casa. Le madri, dalle finestre, cominciavano a chiamare, era l’ora di rientrare. Scappai verso gli orti degli Urtlàn, dove credevo di potermi nascondere. Il sole era sceso, dai prati saliva in fretta quella penombra stinta dell’imbrunire che non è notte e non è più giorno. Mi accucciai dietro una catasta di legna. Ma lui mi stanò. «Bang! Presa!» gridò. «No!» risposi. E mi precipitai di nuovo verso la strada, verso le amiche, gridando: «Però, dai, basta, non gioco più!». Ma Santa Croce si era fatta deserta. Allora mi venne paura e non mi sembrò più un gioco. M’infilai nel primo portone che trovai aperto, nell’angolo più buio del sottoscala. Nell’atrio non c’era lampione. Aspettai. Ascoltai. Nessun rumore. Forse il figlio della Famajja di Bî si era stancato d’inseguirmi, non aveva più voglia di giocare. Sperai che avesse lasciato perdere. Nel silenzio si udiva soltanto il mio respiro affannato dalla corsa. Poi vidi qualcosa brillare nell’oscurità.

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«In altalena mi dondolavo con forza, cantando a squarciagola come un cardellino, un gardlén. Mi spingevo in alto, fino al limite, fino a quel punto dove un poco più su ancora l’altalena si sarebbe rotta, sarei volata per terra. Ma paura non ce l’avevo. La velocità, il vento sulla faccia e tra i capelli, tutto quel vorticare del mondo intorno mentre me ne stavo in alto, avanti e indietro, mi metteva addosso la voglia di sentirmi contenta e di gridare forte, a nessuno, a tutti, così, senza ragione. Non lo sapevo che è quella lì la felicità. E dopo, da grandi, sparisce».

ISBN 978-88-8926-298-6

€ 18,00

9 788889 262986


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