micol martinez
QUANDO MUORI MI AVVISI?
Nuova S1
Micol Martinez
QUANDO MUORI MI AVVISI?
Ringrazio i tantissimi amici che hanno creduto in me, i professionisti che hanno contribuito e contribuiranno alla promozione di questo libro, la mia famiglia, la mia casa editrice, i due bambini della copertina e i loro genitori. Ringrazio tutti coloro che mi hanno ispirata e supportata.
Contatti autrice: qmma.martinez@gmail.com
Š 2016 tutti i diritti sono riservati - riproduzione vietata Nuova S1 s.n.c. di Pietro Cimmino Gibellini & C. via Albertazzi 6/5 - 40137 Bologna www.nuovas1.it - info@nuovas1.it Prima edizione: ottobre 2016 Numero ISBN: 9788889262955
– A mia madre –
«Sei morto?» «Non ancora. Ho vite quanto i gatti» «Quante?» «Tante. Non rompermi i coglioni» «Allora vado a farmi un giro. Senti ma... quando muori mi chiami?» «...»
«Sei ancora vivo?» «Si. Non rompermi i coglioni» «Guarda! Ora muori!» «Se muoio ed è colpa tua sono io che ammazzo te» «Allora vado a farmi un giro di nuovo» «Meglio. Sì»
«Ancora vivo? Io non so cosa fare in giro!» «Cazzi tuoi. Allora vuol dire che sei morta tu»
Ricordo solo questo di quella conversazione. Quelli furono i miei sette anni.
–1– TAVOLETTE BLU
La prima volta in cui tentai di morire fu in una caldissima giornata di agosto. La linea che separava l’ombra del patio e il giardino prosciugato dal sole sembrava segnare due mondi diversi in tutto e per tutto. Sedevo in veranda mentre mia nonna sparecchiava la tavola. Con i piedi non toccavo ancora perfettamente il pavimento in cotto ma le sedie erano abbastanza alte perché le mie braccia poggiassero sulla tovaglia ricamata che a sua volta poggiava sulla superficie di corde di paglia intrecciata del tavolo. Attaccata al braccio c’era la mia mano. Nella mia mano una penna blu la cui punta tracciava linee sottili e parole a riempire gli spazi bianchi. Amavo scrivere e quel giorno, invece di portare avanti i compiti di aritmetica, scelsi di fare quel che più mi appariva logico in una giornata così calda. Da lì a un paio d’ore sarei andata con la nonna in spiaggia e avrei incontrato le amichette del mare. Perché rovinarsi quelle due ore con tediosi e inutili esercizi di aritmetica? Non li capivo e mi annoiavano mortalmente. Mi buttai giù dalla sedia. I miei piedi scalzi provarono piacere nel sentire il fresco del cotto e a piccoli passi mi portarono in casa passando sopra a un tappeto gigante di mucca. Un’enorme mucca scuoiata di cui riconoscevi la linea della spina dorsale che terminava in una coda. Non capivo la scelta di un tappeto fatto di pelo di mucca, ancor più perché era ruvido, ma mi piacevano quelle grandi chiazze bianche e marroni. Nel salotto, oltre al tappeto, c’erano due divani, una poltrona in pelle, la tv, il tavolo in mogano che poteva essere tondo ma in quel momento era rettangolare perché le sue ali erano piegate all’ingiù. 9
Mentre attraversavo il salotto potevo scorgere mia nonna, di spalle, che lavava i piatti e rassettava la cucina. Mia nonna era altissima e aveva gli occhi più grandi del mondo, più grandi di lei, azzurri come il mare e nei quali, come nel mare visto dall’aereo, si potevano vedere minuscole isolette marroni. Superai il salotto, entrai nel corridoio che terminava con la porta di camera mia e di mio fratello e sentii dalla porta chiusa a sinistra il solito grugnito del nonno che dormiva. Era spaventoso. Non il nonno, ma il suo grugnito sì. La porta a destra invece, aperta, era quella del bagno. Entrai richiudendola alle mie spalle, aprii il rubinetto lasciando scorrere al massimo l’acqua fredda e mi lavai bene le mani con il sapone. Puzzavano di pesce e temevo che tutto ciò che avrei toccato avrebbe puzzato di pesce per sempre. Mentre sfregavo le mani con il cubotto giallo del sapone di Marsiglia, immaginavo l’inizio del nuovo anno in seconda elementare: il mio compagno che si alzava e cambiava banco, il vuoto intorno durante la ricreazione, mille occhi inchiodati su di me, appiccicati a facce che storcevano il naso in una manifestazione sprezzante e schifata contro l’odore di pesce emanato dalle mie mani, dalla mia penna blu, dal mio quaderno degli esercizi. Dovevo evitare. Mi dissi che mi sarei sempre lavata le mani dopo aver mangiato il pesce e prima di fare i compiti. Come nel caso di tante altre cose che usavo dirmi, il più delle volte non mantenevo la promessa. Uscii dal bagno annusandomi le dita. Mi fermai ad ascoltare il rantolo del nonno. Suonava musicale a volte, e altre spezzato da attimi di silenzio in cui mi domandavo se sarebbe tornato a respirare. Mi girai verso destra. La mia cameretta era più ordinata del solito. Probabilmente quella mattina nonna aveva pulito e messo 10
in ordine. Mi sedetti sul letto. Le Barbie guardavano me dalla mensola mentre io, a gambe incrociate, guardavo fiera la mia collezione di biglie riposta nell’angolo a sinistra della stanza. Un sacco in plastica smisurato e trasparente accoglieva centinaia e centinaia di biglie di vetro limpido con fili colorati all’interno. La maggior parte erano piccole ma io ne presi una grande. Ne osservai la trasparenza, era così liscia! Non esisteva niente nell’universo più liscio di quelle biglie. Certo anche il vetro lo era, ma la forma tonda conferiva maggior ordine, più possibilità di movimento e meno attrito con il mondo. Potevano scivolare e rotolare ovunque. Ne conclusi che le biglie erano sincere, schiette e irreprensibili. Nell’esaminare la biglia, però, provai la strana sensazione che il senso della vista non bastasse a capirne davvero l’essenza. Così me la infilai in bocca, e in bocca la portai a destra, poi a sinistra. Improvvisamente la biglia si spostò, come fosse lei a volermi esaminare e scendere più a fondo, dentro di me, verso la gola, finché in un istante mi accorsi di non riuscire a respirare. Mi protesi in avanti con un brusco movimento del corpo: la palla uscì dalla mia bocca, rimbalzò sul cotto ed io picchiai la testa per terra cadendo dal letto. Respirai, respirai più aria che potei. Sentii nonna riporre le padelle negli scaffali, nonno russare sempre più forte. Nessuno si accorse di nulla. Io vidi la morte in faccia per la prima volta e la ringraziai di avermi lasciata lì dov’ero, non tanto per me quanto per nonno e nonna: li immaginai arrivare in stanza e trovare il mio corpo giovanissimo e magro per terra e senza vita. Immaginai tutto: grida, lacrime, urla, la telefonata ai miei genitori, le telefonate a tutti i parenti, il funerale, e chiaramente il suicidio di tutta la mia famiglia perché, giustamente, nessuno avrebbe 11
sopportato il senso di colpa dell’aver permesso a una bambina di sette anni di ammazzarsi in un modo così idiota. Quella non fu esattamente la prima volta che tentai di morire. Mia madre mi raccontò che qualche anno prima, all’età di quattro anni, mi aveva trovato in salotto nascosta dietro a una poltrona. Dalla mia bocca masticante fuoriusciva un liquido blu e bolle blu – bolle, mille bolle blu. Pare che io avessi la faccia schifata. Probabilmente ero stata incuriosita dal colore delle tavolette di Vape Anti Zanzare che ricordavano il gelato puffo, ma fortunatamente non dovevo averne gradito il gusto. Mamma mi prese, mi portò in bagno, mi infilò due dita in gola e mi fece vomitare il mio stesso stomaco. Sapeva che la scatola di tavolette era nuova, ne aveva usata una la sera precedente, e da questa mancava solo quella di cui tenevo una parte tra le mani. Niente panico, quindi. E niente lavanda gastrica. L’estate dei miei sette anni fu costellata da brevi e intensi episodi catastrofici, di cui però non ero la sola protagonista: mio fratello aveva predisposizioni suicide anche più solide delle mie. La nostra dimora estiva era una villetta a schiera tipica dei Lidi ferraresi: casetta bianca con veranda, giardino sul retro, giardino di fronte delimitato da muretti bianchi ad altezza ombelico con cancelletti di solito verdi o marroni; e poi il paese con il lungo viale pedonale dove la sera si faceva la «vasca» avanti e indietro, le gelaterie colme di famiglie con bambini starnazzanti, le rosticcerie, i negozi di scarpe da mare con la merce esposta in strada, parrucchieri, alberghi, e l’odore dei pini. La villetta era dei miei nonni e noi passavamo ogni estate lì. Ben due mesi e mezzo. Noi arrivavamo con in faccia il grigio di Milano e i miei nonni con il verde della provincia di Ferrara. Verso metà 12
agosto i miei genitori venivano a prenderci al Lido per portarci in vacanza con loro per un paio di settimane, ogni anno in un posto diverso. Quella sera stessa i miei sarebbero arrivati e due giorni dopo saremmo partiti per Pantelleria. Quel pomeriggio, mio fratello Gerardo, due anni e mezzo più grande di me, mi chiamò: «Panda! Vieni nel giardino dietro casa che sto costruendo una casetta con le assi di legno!». Non avevo per nulla voglia di muovermi e avrei preferito restare a leggere Topolino nel giardino di fronte a casa, quello più curato e soprattutto meno assolato. «Dai Panda aiutami così facciamo vedere la casetta a mamma e papà quando arrivano! Dai!». «Non mi muovo se non la smetti di chiamarmi Panda». «Va bene Panda, andiamo!». Mugolando lo seguii fino alla camera dei nonni e attraverso una porta-finestra arrivai al giardino dissestato sul retro. Lui si mise subito a spostare delle grandi assi di legno accatastate sulla rete a rombi verdi del giardino. Detestavo sentirmi chiamare Panda. Sembrava uno scherzo del destino. Nonostante il mio aspetto da b.b.b. – bella bimba bionda – dalle gambe lunghe e sottili, i miei occhi erano costantemente circondati da due autostrade nere. D’estate si mimetizzavano con l’abbronzatura. D’inverno, invece, mi avrebbero chiamato Panda anche se non avessi avuto la grande sfiga di essere stata battezzata con il nome di Pandora. Pandora. Che razza di nome. L’aveva scelto mio padre, nobile «quasi» decaduto, appassionato di 13
storia e mitologia greca, senza pensare ai traumi che avrebbe potuto provocare in una bambina dai quattro ai venti anni, almeno. Guardai Gerardo. Io e Gerardo ci somigliavamo tanto e somigliavamo tanto ai miei genitori. Eravamo tutti biondi, tutti magri, tutti carini, e tutti molto occupati: mio padre nel suo lavoro di economista, mamma nel suo correre tra volontariato ed estetista sempre circondata dalle sue amiche, mio fratello ed io nel cercare di ammazzarci e simili ogni paio di giorni. Non passò nemmeno un minuto che sentii mio fratello, piegato su una delle aste di legno, urlare come un pazzo. Con la mano sinistra stringeva il polso destro, e dalla mano destra sgorgavano fiumi e fiumi di sangue. Inorridita alla vista di tutto quel sangue, urlai anche io. A vedere la scena da fuori eravamo la stessa persona allo specchio, due caschetti biondo albino, uno un poco più alto dell’altra, entrambi con la bocca spalancata in un urlo di dolore da parte sua e di spavento da parte mia. Quando finalmente lui smise di gridare smisi anche io, corsi dalla porta-finestra in casa, arrivai nel salotto e dissi al nonno steso sul divano a bestemmiare contro i politici nel televisore: «Nonno, Gerardo sta per morire dissanguato». Mio nonno sgranò gli occhi e corse, con il suo metro e ottantotto di altezza, nel giardino sul retro. Prese la mano di mio fratello e gli chiese come avesse fatto a farsi un buco che passava attraverso l’intero palmo. «Macché sta per morire, ‘sto pirla!». Mio fratello piangendo indicò una tavola di legno. Un chiodo enorme e arrugginito ne fuoriusciva coperto dal sangue di Gerardo. In quell’istante arrivò anche la nonna. Lo presero e lo portarono subito al Pronto Soccorso. Al loro ritorno mi dissero che la ferita si sarebbe rimarginata, l’antitetanica era stata fatta e si erano scongiurate infezioni. 14
Quella notte, nel mio letto prima di addormentarmi, ricordai la faccia di mio fratello con le lacrime agli occhi e la bocca spalancata senza un dente, l’incisivo sinistro. Due giorni prima, nonostante le raccomandazioni di mia nonna e a sua insaputa, Gerardo aveva fatto il bagno quando il mare era violento e tirava un gran vento. Prese dritto dritto di faccia il palo di ferro che reggeva la bandierina, chiaramente rossa. Si era fottuto un dente e con la faccenda della mano si era fottuto un mese intero di tuffi tra le onde del mare. Dalla porta accostata la luce entrava appena nella stanza. Guardai Gerardo dormire con la mano fasciata che penzolava fuori dal letto. Dalla fessura delle labbra si scorgeva il buco nero in cui immaginavo sventolare una minuscola bandiera rossa. Abbiamo visto bandiere rosse dappertutto. Per tutta la vita. Le abbiamo viste e siamo passati troppo spesso, inesorabilmente, oltre. Mio fratello fu sempre peggio di me in tutto e per tutto. Mi abituai sin da allora a guardarlo e preoccuparmene. Fu lui a costringermi ad essere sempre più matura della mia età. Io non potevo essere una bambina, mentre gli adulti, loro, continuavano a volerci vedere piccoli, belli, sani e senza problemi. Esattamente il contrario di quel che stavamo diventando. L’estate finì. Io e Gerardo ritornammo a scuola. I nonni a Ferrara. Papà al suo lavoro. Mamma a quelle abitudini quotidiane che poco tenevano conto dell’esistenza di noi marmocchi inquieti. Settembre era il mese peggiore. Settembre e dicembre erano i mesi peggiori. Il primo perché significava il ritorno a scuola. Il secondo perché segnava l’inizio della mia personalissima «settimana nera». I mesi che precedettero quell’ennesima settimana nera furono altrettanto neri. 15
A scuola andavo bene, studiavo senza esagerazione e avevo buoni voti. La maestra, durante gli incontri con i genitori, diceva a mia mamma «sua figlia è decisamente creativa ed è molto più intelligente della media, ma sceglie coscientemente come e in cosa applicarsi. È positivo sia già così indipendente ma essendo alle elementari, dovrebbe essere... diciamo... più elastica e meno selettiva. Non vorrei che questo andasse a influenzare esageratamente il suo percorso di studi». Amavo italiano, disegno, inglese, musica – materie nelle quali eccellevo – e amavo scrivere. Di fatto scrivevo sempre, in classe e al di fuori delle ore scolastiche, e scrivevo di tutto: pensieri, immagini come affreschi, brevi monologhi e dialoghi, racconti fantastici con grandi piante e fiori carnivori che si nutrivano di esseri umani, simil-poesie, dissertazioni sull’uomo, e tutto quel che una giovanissima mente ancora in formazione poteva concepire e poi spalmare su carta in modo caotico e incomprensibile anche a se stessa. Avrei amato anche storia, non fosse che era il maggior interesse di mio padre e una mia propensione alla materia mi avrebbe messo in relazione con lui. Non ero pronta. Mio padre era Dio ed io non ne ero all’altezza. Meglio, quindi, evitare in partenza il confronto. Di fatto, il mio problema a scuola non era lo studio ma la mia totale incapacità di socializzare con i compagni di classe. Avevo una sola amica, Loredana, che mi contendevo con un’altra compagnetta di classe, Susanna. Quest’ultima era ciò che più devastava la mia vita di bambina: la immaginavo cadere in un burrone, lei e i suoi occhiali rossi, e spiaccicarsi al suolo come un granchio in caduta libera, con la corazza che si frantuma in mille pezzi e la sostanza molliccia interna 16
che si sparge dappertutto per essere poi prosciugata dal sole, sparendo definitivamente dalla faccia della terra. Immaginavo la maestra arrivare in classe e dirci che la povera Susi era morta in un incidente e, agitando la mano che stringeva gli occhiali rossi, dirci sommessamente «questi sono la sola cosa che ci rimane di lei» mentre il mio viso ingannevole mostrava gli occhi più grandi, tristi, compassionevoli e menzogneri della storia dell’umanità. Lory era di mia proprietà. La reputavo l’unica persona intelligente e, a parte il quartetto di amiche del mare, era la sola con cui mi trovassi a mio agio. Le battute dei miei compagni non mi facevano ridere, i loro discorsi non suscitavano in me alcun interesse, i loro giochi non erano divertenti tanto meno stimolanti. Lory invece non faceva mai battute idiote: era acuta, calma, gentile, e aveva un tono di voce, nonostante la tenera età, cavernoso quanto il mio. Quest’ultima fu sempre una caratteristica fondamentale delle mie amicizie. Non ebbi mai amiche o amici con voci squillanti: non avrei potuto sopportarle. In realtà mi sentivo tremendamente sola e non ero così convinta che il motivo della distanza che gli altri bambini ponevano fra me e loro fosse il mio atteggiamento respingente. Mi ritrovavo frequentemente in quelle situazioni da film, nelle quali un bambino viene circondato in un cerchio chiuso di giro-giro-tondo sentendosi dire le peggio cose: «sembri un morto», «sei bianca come un cadavere», «Panda è antipaticaaaa». I miei intervalli erano deliziati quotidianamente da queste filastrocche. Non accadeva mai quando ero con Loredana, ma certe mattine Susanna arrivava a scuola prima di me e arrivare a scuola per prima significava dire, per prima, a Lory «Stai con me oggi». 17
Lo «stai con me oggi» di Occhiali Rossi segnava il tragico destino della mia giornata: avrei passato l’ennesima ricreazione seduta sul muretto del cortile della scuola a scrivere di mostri, soldati e fiori urlanti. Sarebbero stati loro i miei compagni di gioco. Quando mamma ci veniva a prendere a fine giornata e mi domandava «Come è andata oggi tesoro?» io rispondevo sempre e comunque «Bene». Non avrei osato distruggere quell’idea di famiglia b.b.f. – belli biondi e felici – a cui i miei genitori, soprattutto mia madre, tanto tenevano. Finalmente arrivò il Natale. Ero raggiante perché non sarei andata a scuola per due settimane, d’altro canto ero consapevole che saremmo presto partiti per la montagna e questo mi terrorizzava. Ricordavo, dall’anno precedente, le mie labbra livide e cadaveriche a causa del freddo a fine giornata, il gelo alle mani e ai piedi durante i lunghi pomeriggi sciistici, il mio sorriso forzato di fronte a manifestazioni di allegria famigliare nel porre gli sci sul tetto dell’auto, le curve nel risalire la montagna a causa delle quali dovevo far fermare mio padre per scendere dall’auto e vomitare l’intera colazione. L’incubo iniziava quel giorno. Alle 7 del mattino saremmo partiti per Ponte di Legno. Salimmo in macchina e ci avviammo. Gerardo blaterava. I miei guardavano avanti. Per la prima ora nessuno pronunciò la malefica frase che segnava l’inizio di uno degli appassionanti giochi di memoria introdotti da mio padre. Alla citazione «Nell’armadio della nonna c’è...?» doveva seguire un elenco infinito di sostantivi, con aggettivo corrispondente, aggiunti uno ad uno dai componenti della famiglia solo e unicamente dopo aver ripetuto i precedenti: arrivati al settimo giro, nonostante avessi una 18
buona memoria, finivo per confondere il ramarro marrone con il coleottero incagliato sugli scogli. Nell’armadio pensato da mamma c’era sempre un ramarro, in quello di mio fratello c’era sempre un coleottero. Mio padre giocava di fantasia e non ripeteva mai un sostantivo già utilizzato in qualche altro viaggio. Quella mattina, non ero ancora entrata pienamente nello stato di veglia, mi cullavo in De André e cantavo ogni canzone. In quell’auto si ascoltavano solo De André, Guccini, Fossati, De Gregori, Vecchioni e «sono solo canzonette» di Bennato. Conoscevo e ricordavo ogni singola parola e ogni melodia a memoria. Erano loro la mia salvezza. Rappresentavano la mia sola possibilità di estraneazione. Se cantavo e ponevo la mia attenzione sulle loro parole potevo volare via dal finestrino semiaperto dell’auto, volteggiare su case e prati, sorvolare le montagne, piroettare e librarmi sopra le nuvole, guardare il mondo dall’alto e vederlo finalmente in tutta la sua piccolezza. Ma soprattutto, riuscivo a non sorbirmi la replica di ciò che accadeva a scuola: essendo la più piccola della famiglia venivo presa in giro per ciò che non sapevo e sottoposta a mille domande riguardanti storia, geografia, e tutto quel che non avevo avuto voglia di memorizzare: perché «in macchina, come a tavola, il dialogo è fondamentale» diceva sorridente mio padre. Arrivati a destinazione, tempo di disfare le valigie, l’auto era già attrezzata per la giornata sugli sci. Data la tarda ora non andammo in alta montagna ma rimanemmo nei dintorni del paese. Raggiungemmo la pista vicina dove pidocchi umani rossi, blu, verdi e gialli, zigzagavano, a mio parere da perfetti imbecilli, su e giù dal pendio. Sciare era scomodo, implicava una serie di attrezzi, a 19
partire dagli scarponi che facevano male ai piedi e trattenevano solo un gran freddo. Poi c’erano le infinite code agli skilift, il metti e togli la mascherina, il metti e togli i guanti, lo slaccia e riallaccia gli sci, e soprattutto il gelo che mi attanagliava le mani e la faccia. Io e mamma eravamo a valle. Mamma mi stava mettendo la crema sul viso con la delicatezza di un alano: «ecco fatto» diceva spalmandomi grossolanamente la faccia di una densa crema che sapeva di coccoina mentre io strizzavo gli occhi per evitare di esserne accecata. Gerardo e papà erano già sullo skilift. Li guardammo scendere. Mio padre, elegante e armonioso, pareva quasi volasse sullo specchio bianco di neve candida. Mio fratello invece, partì in rettilineo. Io e la mamma restammo a guardare la scena. «Mamma, ma Gerardo le curve non le fa?». La mamma non rispose. Vidi soltanto la sua faccia diventare sempre più seria, paonazza. Cominciò a sbracciarsi allarmata avanzando nella neve e urlando il nome di mio padre seguito da «Gerardo non frena!» e poi ancora «Gerardo, dai, frena!». Io guardavo e seguivo mamma, sentivo la sua mano stringere la mia. Poi la lasciò per sbracciarsi con tutte e due le braccia. Gli sciatori intorno a noi, come di fronte ad una partita di tennis, guardavano mia madre e poi la pista, ancora mia madre e poi ancora la pista. Mia madre corse da un lato come un portiere che immagina in quale direzione verrà scagliato il pallone. Gerardo, con le braccia spalancate, sfrecciò ad una velocità cosmica a una ventina di metri da noi. La pista, dopo l’ultimo tratto piano, terminava con una piccola salita che finiva a sua volta sulla strada provinciale. Mio fratello si scaraventò sul guard-rail, gli sci volarono, mio fratello pure, mia madre corse forsennatamente nella sua direzione. Io, con gli scarponi, tentavo di correre senza riuscirvi. Quando li raggiunsi, mi accorsi che mio padre mi stava superando dal lato sinistro. 20
Mio fratello era in mezzo alla strada e proprio in quel momento non passarono automobili. Papà lo prese in braccio e lo portò al sicuro a lato della strada asfaltata. Fu meraviglioso. Fu ciò che di più bello ed esaltante potesse accadere. Mio fratello i giorni successivi non avrebbe sciato perché, nonostante non si fosse rotto nulla, restò indolenzito per giorni. Questa fu la scusa perché non andassi nemmeno io a sciare. Passai la settimana alla pista di pattinaggio. Quella sì che era una vacanza!
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INDICE
–1– –2– –3– –4– –5– –6– –7– –8– –9– – 10 – – 11 – – 12 –
Tavolette blu Doris L’ombrellino rosso Mi salvi tu mentre muori? Doris, un’isola Pilloline e polverine per tutti Sconcerto di famiglia Doris, Via Lontano n° 12 Panda, Pluto e il piccione Zio Tibia incontra la Sposa Cadavere Saturno al Km 17 Dopo le vertigini ci sono le nuvole
9 22 28 41 52 61 73 83 93 100 104 112
– 13 – – 14 – – 15 – – 16 – – 17 – – 18 –
Doris, il filo Io, neve Doris, chi sei? Le 10 mutazioni della libellula (meno una) Dove finisce la neve «Quando muori mi avvisi?»
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«Sei morto?» «Non ancora. Ho vite quanto i gatti.» «Quante?» «Tante. Non rompere.» «Allora vado a farmi un giro. Senti ma... quando muori mi chiami?» Quelli furono i miei sette anni.
ISBN 978-88-8926-295-5
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