Idea di anna farinella alias Opuntia Martirio
nzocchè circolo arci 21 dicembre 2013
l'amico impresentabile chi è che non ha almeno un amico di cui si vergogna? un amico a cui vuole bene a cui è legato per i più disparati motivi, ma quell'amico non è presentabile, non è condivisibile con gli altri amici e se salta fuori provi una vergogna infinita, imbarazzo, non vorresti mai essere accomunato a lui, eppure per qualche oscuro motivo è tuo amico e questa amicizia, è arrivato il momento, che va difesa raccontata esibita. anna farinella
antonio
antonio vende bibite in spiaggia...in estate "si fa la sabbia" in inverno fa il muratore, lo conosco da quattro anni e non so come o perché si è creata una strana amicizia, ci abbracciamo una volta l'anno, il primo incontro della stagione, e a fine estate non ci salutiamo mai perché capita improvvisamente di non andare più a mare quando il tempo cambia...antonio ha 39 anni un beddro picciotto, un bel ragazzo, normanno, biondo occhi chiari che nasconde dietro un paio di occhiali per proteggersi dal sole, gli occhi di antonio li avrò visti non più di tre volte...arriva con la ghiacciaia in spalla, acqua birra the, ceressssssss...si ferma si siede e stiamo a chiacchierare, la moglie i figli la concorrenza in spiaggia quante birre ha bevuto ieri la notte trascorsa in terrazzo per il caldo cosa ha mangiato... racconti di vita...c'è uno strano rapporto fatto di rispetto e confidenza, di ammiccamento e serietà, si alza e continua il giro, quando ripassa ci dice quante bibite ha venduto, ci chiede se
si è vista la concorrenza, a volte si ferma ad ogni passata a volte va di fretta perché deve superare gli altri bibitari o correre perché ci sono i vigili...antonio sa che lavoro più o meno faccio, l'altra mattina gli ho raccontato che in questo periodo lavoro nel locale di una mia amica, cucino, servo ai tavoli, e subito gli si sono illuminati gli occhi, ha voluto sapere dove per venirmi a trovare, ho cercato di spiegargli il tipo di posto, è un circolo culturale antonio, ci sono le signorine per bene...ho avuto un momento di panico all'idea che antonio venisse e poi mi sono messa a ridere, gli ho detto vieni quando vuoi e l'ho pensato davvero...
ieri sera antonio è venuto al locale, portandosi il cugino che vende pannocchie in spiaggia, li ho serviti io ed ero orgogliosa di farlo, si sono seduti nel giardinetto, fra intellettuali, musicisti, scrittori, ogni tanto andavo da loro a chiacchierare per farli sentire a proprio agio, per sentirmi a mio agio... che avranno pensato i clienti abituali, quasi tutti amici o conoscenti, quanto poco mi importava, era la
serata di antonio ...hanno pagato le birre, gli ho offerto le bruschette...andandosene mi ha detto che stava impazzendo perchĂŠ era la prima sera dall'inizio dell'estate che metteva le scarpe...
anna farinella
L’amico impresentabile... uno, due e tre.
Non lo sapeva fare. Non era capace di nascondere e di mentire. In vita sua non aveva sentito mai il bisogno di usare la menzogna per stare bene con gli altri. Forse proprio per questo era una persona tendenzialmente schiva e solitaria. Non sarebbe stato capace di travestire un sentimento così carnale e compulsivo con l’abbraccio, con lo sguardo o con il sorriso di una nuova amicizia, casuale ed inventata, cementata da affinità poco credibili ed improbabili. Glie lo disse chiaramente quando gli balenò la puerile idea di presentarlo alla moglie come amico, un goffo tentativo di placare i sensi di colpa del tradimento provando ad intersecare i piani delle sue vite parallele. Quel pomeriggio fu davvero strano, ne aveva avuto il sentore prima ancora di ricevere la sua chiamata, una premonizione chiara come una visione. Il telefono squillò - “andiamo in montagna tu ed io da soli?” -. Era autunno inoltrato, la casa in letargo da qualche mese
odorava già di chiuso e di umido. Cominciarono a strimpellare ed a bere whisky e più la bottiglia si svuotava e meno i loro freni prendevano. No, non si può stare così vicini, adagiati l’uno sull’altro con la pelle che si sfiora e non fare nulla... e dopo? Si conoscevano da troppo tempo per non dirsi le cose anche rimanendo in silenzio. Si alzò di scatto dal divano, barcollando leggermente prese la bottiglia di Jack Daniels e versò un altro po’ di whisky nei due bicchieri vuoti sul tavolino. Ripresero a strimpellare fino a quando fece buio. Fino a quando arrivò lei. Sara li raggiunge a casa di sera. La cena era già pronta ma non mangiarono. Avevano deciso di lasciarsi, ne avevano parlato prima, e glie lo comunicarono quella domenica. Una scelta di comune accordo, meditata, nessun grosso trauma emotivo per loro. Senza stravolgimenti avrebbero potuto continuare a vivere tutti e tre assieme nella stessa casa. Solo un cambio di stanza propose Sara: lei nella singola e loro due nella matrimoniale. Scesero al pub sotto casa a farsi un paio di birre, dopo quella discussione ci voleva una
sbornia e l’indomani si lavorava. Sara rimase a casa e non si unì a loro: ora bisognava costruire dei nuovi equilibri, a due a due. “L’idea di dormire assieme io e tu nella stessa stanza e nello stesso letto è improponibile, e sai bene perché” -. Annuì. Annuirono assieme per darsi conforto e complice la seconda pinta di birra piansero un po’, perché da quel momento tutto sarebbe stato un gran casino per loro. Quella notte pensarono ad un viaggio assieme e partirono per l’Islanda. Il solito giovedì pomeriggio, un dolce fatto con le sue mani, un paio di occhiali da sole per regalo ed avevano fatto l’amore su quel divano, come tante altre volte, ogni giovedì. Quello sarebbe stata l’ultimo però. Lo aveva programmato, perché era fermamente convinto che non esiste gesto d’amore più grande verso se stessi del mandare via chi ami ma non è libero d’amare. Mentre scendeva le scale per tornare a casa da sua moglie alzò la testa - ci sentiamo, ti chiamo io - disse col suo sorriso infantile fatto di incoscienza e di tristezza. Lui rispose al sorriso, alzò la mano per salutarlo e quando
chiuse la porta fece un lungo respiro e pianse. Come aveva programmato. Si sentirono poche altre volte, poi solo squilli telefonici di un pensiero che andava svanendo. L’anno dopo partì, per qualche anno. Fu lei a dire basta, lei che con poche parole segnò il suo territorio emotivo, ristabilendo un ordine che da circa un anno era stato stravolto. Quella vita a tre non era più gestibile, occorreva spezzare un legame. - “Ma tu sempre con noi?” - gli disse in cucina quando rimasero soli, mentre con una mano spostava i capelli che coprivano la metà di un volto severo. Lui accennò un sorriso imbarazzato - “Certo che no, certamente non sempre... cioè non più” -. Si faceva cacciare senza opporre alcuna resistenza, in fondo era quello che stava aspettando. Partì per Amsterdam e tra quei canali, con il tempo, avrebbe compreso il senso della sua libertà . Quella sera in soggiorno, la luce di una candela accesa e quella dei lampioni di Clapham Road che entrava dalla finestra, una bottiglia di mirto sardo ed una canna gustata lentamente. L’uno di fronte
all’altro sdraiati per terra, sulla moquette color carta da zucchero che faceva da pavimento in ogni stanza della casa, le loro gambe a contatto mentre la mano di uno stava appoggiata sul ginocchio dell’altro. Parlavano adagio, sparavano cazzate, ridevano con la leggerezza della buona marjiuana: era così che si amavano in quei momenti di separazione dalla realtà. Improvvisamente la porta del soggiorno si aprì e ne entrò un urlo strozzato. Sara era rientrata a casa e nella penombra della stanza aveva visto quello che non c’era. La rincorsero, la calmarono, lei si scusò per una scenata insensata ma dopo quello americano un altro ex fidanzato gay l’avrebbe disorientata. In quella notte interrotta l’amico impresentabile cominciò a prepararsi per andare via. Ancora una volta. Lo avrebbe fatto dopo poche settimane. Per l’ultima volta. Ritornò persempre e smise di fare l’amico impresentabile. Per sempre...
arturo morante
L'amico impresentabile Il Cugino
Sempre entusiasta di tutto e di tutti. Proprio per questo suo entusiasmo, che a volte arriva ad essere molesto, a chi lo incontra per la prima volta può sembrare strafottente. È apprezzato da pochi dei miei amici. Per conoscerlo hanno investito tempo, pazienza e una buona dose di forza di volontà. Tutto ciò grazie al fatto che siamo palesemente legati l'uno all'altra.
Non è quasi in grado di parlare a voce bassa o bisbigliare, se la situazione lo richiede bisogna ricordargli in continuazione di abbassare la voce. Quando ride lo si arriva a sentire da lontano. Un esempio che non dimenticherò mai: qualche anno fa una sua fragorosa risata ha spezzato il silenzio della notte e mi sono resa conto che era a casa di un amico che vive a due isolati da me. Ride in modo particolare, molto riconoscibile. Lasciando da parte il
volume, le sue risa sono caratterizzate dal distacco pronunciato tra una vocale e l'altra, quasi temesse che non si riesca a capire che si sta divertendo e lo volesse mettere in chiaro. Quando siamo in pubblico scherza quasi sempre e, anche se quando siamo soli o con amici stretti non cambia personalità, l'ho visto serio solo in contesti privati. Riesce a risultare ipocrita senza esserlo davvero. Capita che mi metta in posizioni scomode. L'ultima volta ha iniziato una relazione con l'ex ragazza di un nostro amico pochi giorni dopo che si erano presi una pausa di riflessione e mi ha chiesto di tenere la cosa nascosta il più a lungo possibile. In questo modo siamo riusciti a dare inizio ad una serie di situazioni tragicomiche. Dico siamo perché ovviamente io ho tenuto la cosa nascosta il più a lungo possibile, mettendo a repentaglio il rapporto con uno dei miei migliori amici e allo stesso tempo ferendolo profondamente. Per quanto possa mettermi in imbarazzo o in difficoltà quando siamo in compagnia, è a lui che penso ogni giorno. Quando mi accade qualcosa che mi rende felice è a lui che lo dico per primo. È
sempre lui che corre da me a qualunque ora se sto male, ho il cuore spezzato o semplicemente mi annoio. Da lui traggo quel tipo di forza che viene dal bisogno di proteggere qualcuno. Il nostro non è solo un legame di sangue, in parte l'ho cresciuto io, per quanto potessi sostenere la sua crescita mentre maturavo io stessa. Un periodo in particolare è stato l'apice del nostro affiatamento. Sia con cattivo che con bel tempo, mi capitava di pensare a lui durante una camminata, cambiare direzione e trovarlo ad attendermi esattamente dove mi aspettavo che fosse.
Se non andiamo d'accordo è solitamente a causa mia: riesco a leggergli dentro quando tutto quel che desidera è essere lasciato in pace. Decido arbitrariamente di non dargli tregua, di sottolineare i suoi sbagli e girare il coltello nella piaga perché gli rimanga impresso, sentendomi ed essendo essenzialmente crudele. Ecco, principalmente i nostri contrasti nascono da questo mio comportamento pseudo-materno non richiesto. Questi scontri ci
lasciano, nel migliore dei casi, entrambi esausti. Nonostante ciò, il giorno dopo siamo di nuovo insieme. Grazie ai suoi sforzi riesco ad uscire dal muro che periodicamente mi costruisco intorno senza neanche accorgermene. È una componente essenziale della mia vita. Purtroppo non ci vediamo spesso, perché raramente siamo nella stessa città, ma ci accorgiamo lo stesso quando uno di noi due è rimasto bloccato da qualcosa, quando si trova davanti un ostacolo difficile da superare. In questi casi l'altro lo aiuta ad estrarsi dal pantano senza introdursi bruscamente nella sua vita.
Un comportamento che con altri è difficile da attuare, ma che fra di noi risulta naturale.
marianna de clou
'U Muzzuni, ovvero l'amico impresentabile
'U Muzzuni lo puoi vedere arrivare in canottiera con un'andatura dinoccolata, una mano in tasca e l'altra dondolante a fendere l'aria. Di lui non puoi non accorgerti: il colore della pelle
come quello
della piccola brocca di terracotta detta "muzzuni", jeans e scarpe di marca cinese che alle prime piogge perdono le suole, occhiali da bancarellaro della domenica, capelli all'indietro intrisi di gel ad incorniciare un volto sornione. La sua macchina, un'utilitaria datata e d'un bleu che il tempo ha reso stantio, gli assomiglia, bardata com'è d'un cofano bianco recuperato in uno sfascio, come pure di recupero sono le altre parti della carrozzeria. Colpisce, soprattutto, lo specchietto retrovisore di destra, di certo decapitato, e del quale residua ormai un moncherino. Famoso per la sua impuntualità, dacché si è messo a fare il muratore, è anche l'allevatore di alcune capre e conigli. Inoltre possiede un cavallo che poche volte ha conosciuto l'onore e l'onere della sella.
Proprio quest'ultimo gli ha procurato parecchi guai, ultimo quello che, scavalcato il muro di cinta dello spezzone di terreno in cui restava confinato, e messosi a galoppare, è caduto nella piscina d'una villa adiacente che, ricolma d'acqua, era stata coperta con un telo che aveva ingannato la vista del povero cavallo, poi recuperato non senza difficoltà e con dispiego di adeguati mezzi. Orbene, d' 'U Muzzuni io ero un amico d'infanzia, di quelli con cui giocavo a "sciusciuni o a cuppuni" con le figurine dei giocatori o degli attori e mi scambiavo i fumetti di Blek Macigno, Capitan Miki, Gordon Flash, l'Intrepido e così via. Lo ricordo d'estate a piedi scalzi e d'inverno con le scarpe risuolate che crescevano con lui. La mia famiglia era d'estrazione borghese. 'U Muzzuni, invece, era povero e sua madre qualche volta veniva chiamata a fare il bucato a casa mia. Ne ricordo ancora le sue mani rovinate dall'artrosi, mentre il padre, quasi sempre disoccupato, tornava il più delle volte ubriaco dopo essersi recato a gozzovigliare all'osteria della
"Ridduciuta" . Io frequentavo le elementari dalle suore e lui presso la scuola comunale. Già allora, pur riconoscendogli delle capacità intellettive che non gli facevano difetto, provavo un senso di vergogna nel frequentarlo, sapendolo figlio d'un ubriacone e malvestito com'era. La madre non aveva mai osato portarlo con se a casa mia, forse ritenendo che la presenza del figlio avrebbe potuto urtare la sensibilità dei miei genitori. Io, che me ne vergognavo, non ebbi mai a reclamarne la presenza pur non dispiacendomi di giocare con lui. Poi l'orologio del tempo, che sempre va avanti, ci ha fatto rincontrare da adulti. Infatti, trascorsi molti anni, sono ritornato nei luoghi della mia infanzia in compagnia d'una dolce signora alla quale, avendolo incontrato, ho presentato con nome e cognome il mio "amico" inteso 'U Muzzuni, non vergognandomene più, e, anzi, affidandogli alcuni piccoli lavori di manutenzione della mia vecchia casa, pur sapendo che non sarà puntuale nell'assolverli. Lui non si è mai sposato, non ha figli e vive con la madre che, nonostante l'età
avanzata, continua ad accudirlo. Ora, quando l'incontro, mi parla sempre del suo cavallo, delle sue capre, dei suoi conigli, dei suoi lavori da muratore ed io, ormai suo amico e senza vergogna, provo tanta nostalgia nell'ascoltarlo, pensando che non ci sono più i ragazzini che giocano con le figurine, non si odono più le campane mosse dal sacrestano, non c'è più il "vardunaru", il barbiere è emigrato: chi mi taglierà i capelli?
vincenzo fiorenza
L’amico impresentabile
L’amico che mai e poi mai presenterei né ad altri amici né a parenti e affini, è una donna conosciuta casualmente oltre un anno fa al mare, per la precisione in un lido sugli scogli di Isola delle Femmine durante una mia noiosa domenica mattina di fine estate.
Mi ero recata presso questo luogo per i fatti miei perché stare in casa era ancora più noioso ed avrei corso il serio pericolo di imporrarmi per ore su facebook. Stavo seduta sullo scivolo di accesso al mare, per l’appunto quel giorno il mare era impraticabile per via di un vento di maestrale che ne impediva qualsiasi attività, pure lo stare ammollo come una papera e poi i bagnini erano stati tassativi: niente bagno c’è bandiera rossa!
Così seduta mi lasciavo bagnare dalle onde che arrivavano. Poco dopo mi si avvicinò una tipa bionda mia coetanea (cinquantenne) abbastanza formosa che sfoggiava un bikini giallo. Il suo bikini fu depistante poiché non mi disse assolutamente nulla di lei, a vederlo così pareva uno acquistato alla Oviesse quindi pensai che questa fosse una normale come me che abitualmente vesto a poco prezzo e dove capita, preferendo le bancarelle dell’usato nei mercatini che solitamente frequento, anche in compagnia di amiche malate dell’usato come me e come me con i soldi sempre contati.
Lei mi si sedette accanto e attaccò bottone circa il tempo instabile di fine agosto, e mi chiese se ero una frequentatrice abituale di quel posto. Risposi di no, che c’ero capitata per caso. All’inizio non avevo granché voglia di fare chiacchiere con una sconosciuta ma cosa avrei potuto dire o fare per evitare questo, così alla fine mi lasciai andare al mio destino. Era curiosa e affabile in maniera quasi simpatica così catturò un po’ della mia attenzione del resto mi
trovavo, a dispetto della mia misantropia, in una fase della vita nella quale mi piaceva discorrere con gente sconosciuta, preferibilmente femmine, con i maschi no, di quelli mi ero abbastanza scassata la minchia.
In realtà lei stava lì con un suo amico, uno un po’ strano, barbuto brizzolato con aria da professore, perso nella lettura del Giornale di Sicilia (orrore) e pure con le cuffiette alle orecchie, ragion per la quale lei, la bionda, mi si era avvicinata perché chiaramente le siddiava stare con lui così totalmente assente ed invece questa c’aveva voglia di parlare con qualcuno. Poco prima che i due andassero via, lei mi chiese il numero di cell, così entrai a fare parte della sua rubrica telefonica.
Qualche giorno dopo mi chiamò e così quando potevo o ne avevo voglia, ci si vedeva al mare per godere delle ultime domeniche di fine estate.
Finita quella, la frequentazione cambiò tipo di impostazione; così arrivarono le passeggiate e le andate a pranzo insieme, sempre nei fine settimana, e questo mi diede modo di vederla in abiti “civili”..
Ebbene: la guardai con più attenzione, cosa che di solito non mi piace fare, ma era evidente anche ad un bambino il fatto che avesse addosso migliaia di euro in gioielli, borsa, scarpe, abiti ecc. ecc. tutta roba griffata comprata nei negozi di lusso di via libertà e questo specie di stile ce l’ha sempre anche quando la vedi in tuta e scarpe da ginnastica, sempre piccioli iccati addosso e il brutto è che se ne compiace ma oggi lei sa benissimo che io me ne fotto del suo compiacersi e la lascio nel suo brodo. Io sono all’esatto suo opposto: la camicetta che mi aveva rubato il cuore presa a 50 cent, la borsa appartenuta chissà a chi trovata a colpo di culo a soli tre euro o appunto, la tuta da ginnastica presa nelle bancarelle dei cinesi. All’inizio lei da curiosa quale è, mi tartassava d domande su dove avevo preso questo o quello, in quale boutique mi rifornivo,
suppongo che un po’ le piacessero anche se devo ammettere di non esserne convinta e che mi prendesse per il culo, comunque sia inizialmente non si era sgamata del tutto che fossero cose comprate (per lei) a due soldi. Chiaramente glielo dissi e lei finse di non fare una piega.
Per non parlare della sua auto (non chiedetemi la marca perché di queste cose non ne capisco un cazzo): si vedeva che era di lusso, di prima mano e tutta accessoriata, grigia metallizzata come la mia…ma la mia è un’utilitaria, vecchia, tutta ammaccata e così fitusa che ci sta crescendo u’ petrusino. Insomma il confronto strideva fortemente ma ci si frequentava lo stesso.
La frequento ancora oggi, da sola e solo quando ne ho voglia, così evito che possa interferire nel mio mondo fatto di gente totalmente al suo opposto, non voglio che il lusso nel quale essa vive, possa rompere i coglioni a terzi, io sono ancora coriacea e me lo accollo solo quando sono in odore di santità. Ecco, la definisco un’amica,
non la mia amica e penso che questo faccia la differenza. Però, nonostante tutto nel mio cuore c’e’ un posticino anche per lei sebbene ogni tanto posto su facebook qualcosa che fa uscire il diavoletto che c’e’ in me: il lusso di Bruno Munari.
evelina abbate
Un’amica importante Il titolo di quest’evento è “un amico impresentabile” di cui uno si vergogna pure a stargli accanto in pubblico ma che, per qualche oscura ragione, non riesce a smettere di volergli bene. Secondo i soliti stereotipi questo potrebbe essere uno “strano” che, magari con le sue battute sceme fa ridere la gente ma il modo in cui lo fa ti mette in imbarazzo, uno scapestrato, uno, beh si, anche violento, uno che veste in modo strambo, che, magari, quando lo porti in giro la gente guarda anche gli strani atteggiamenti che uno ha e che quindi non presenteresti mai alla tua famiglia o ai tuoi più cari amici.
Secondo me, però, c’è anche un altro tipo di “amico impresentabile”, in questo caso un’amica che è sempre cupa, triste, malinconica, che quando la si presenta ad altre persone
tiene sempre la testa bassa e non ti guarda mai negli occhi, chi quando sta in compagnia o si isola, o sta muta come un baccalà e con la mente viaggia nei meandri del suo cervello, o se spiccica qualche parola, dice cose senza senso o interviene con toni un po’ arroganti. Avanti signori e signore mie chi vorrebbe presentare ai suoi amici o alla propria famiglia una persona così negativa, irascibile, suscettibile, permalosa, presuntuosa, vinciusa lagnosa, piagnona e chi più ne ha più ne metta, nonostante all’apparenza possa sembrare una persona timida, riservata mite e tranquilla? Non vi verrebbe di prenderla a timpulate, farle i peggiori cazziatoni dicendole: “Oh, arripigghiati, tutti abbiamo i nostri problemi, chi più chi meno, non sei solo tu. Smettila di piangerti sempre addosso e reagisci e che cazzo…” etc. etc.
Eppure, nonostante tutti i suoi innumerevoli difetti, se la si conosce bene e la si sa prendere, è una buona amica, leale e sincera, pronta sempre a darti una mano …. Come per esempio ci fu una volta, circa un mese fa… ma questa è un’altra storia e ve la racconterò una prossima volta…
fulvia migliorino
“L’AMICA IMPRESENTABILE SONO IO” CAPITOLO I: IL TENTATIVO DELLA COSTRUZIONE DEL RACCONTO
Da giorni si sforzava di scegliere il suo “amico impresentabile”. Quando era stata lanciata, l’idea l’aveva attratta parecchio. Aveva promesso ad un’amica che avrebbe scritto qualcosa e, in effetti, così nell’immediatezza, le erano venute in mente alcune figure ... amiche? care? … Storie del passato su persone con cui aveva stabilito una consuetudine fatta di scambi utilitaristici e non. Alcuni di loro riteneva che li poteva definire impresentabili. Ma poi si chiedeva: “in che senso? Per chi? Rispetto a che cosa? Nei diversi tentativi, aveva realizzato alcuni incipit di racconto, ma non aveva concluso nulla.
Si trattava di racconti di vissuti in cui, di volta in volta, qualcuno a lei caro in un dato momento o per tempi più duraturi, assumeva i caratteri dell’”impresentabilità”. Rispetto a che cosa? L’età? Un contesto? Parametri estetici o comportamentali condivisi dal gruppo di appartenenza?. Passati in rassegna una serie di volti e vicende desisteva e resettava tutto. Ogni volta che mentalmente costruiva la tela di una storia tirando le somme, dopo una più attenta riflessione, “l’impresentabile”, ai suoi occhi, appariva proprio lei. CAPITOLO II: L’IMPROVVISA CONTINUITA’ DEI PENSIERI
Una sera, a casa, mentre al piano di sotto si accingeva per la terza volta a tentare “l’impresa” (una piccola battaglia personale, di questo si trattava), la sua … Compagna?
Fidanzata? Amica? Collega? (in effetti dipende dall’ambito e dai contesti a cui riferivano le loro due vite, ormai da tempo strettamente intrecciate), la chiameremo per conformità al titolo del racconto: “l’amica”, dal piano di sopra, aprendo un discorso che magicamente seguiva il filo dei suoi pensieri non ancora palesati, dichiarò inaspettatamente: “Se dovessi scrivere di un amico impresentabile parlerei “di me allo specchio””. “In che senso?” rispose lei, facendo finta di non capire. “Parlerei, in terza persona, delle mie paturnie e delle mie fissazioni sulla pulizia e sull’ordine per cui faccio ridere un po’ tutti”. Lei sapeva benissimo a cosa si riferisse. Molto spesso capitava che, per scherzo e con un po’ di ironia, chi la conosceva un po’ più approfonditamente (il che è piuttosto difficile) raccontava
delle sue smanie igieniste. Anche lei era solita farlo. Era manifestamente appurato che si trattasse di manie,
che
l’amica rappresentava all’esterno, per gli altri, con levità e senso dell’umorismo quasi come se fossero dei vezzi. Ma lei, in verità, di fronte a certe esagerazioni spesso aveva sbottato con frasi del tipo: “ma è proprio una malattia!!!”. CAPITOLO III: LEI, LEI E LA REGOLA DEI DUE REGNI
Ciò accadeva quando, prima di entrare a casa, la trovava a disinfettare la borsa che aveva toccato terra; quando consigliava, con tono suadente, a tutti coloro che entravano a casa (un’elite assolutamente ristretta) che sarebbe stato meglio lavare le mani prima di entrare in contatto con tutto ciò che riguardava lei e la SUA casa, e in particolare: aprire il frigo, toccare un bicchiere, entrare in cucina; quando
preparando la valigia per l’ennesimo viaggio di lavoro si accaniva ad incellofanare abiti puliti al suo interno, maniacalmente attenta a che non toccassero magliette, o altro, messo solo appena una volta; oppure quando perdeva ore a lavare bottiglie, scatolette, bagno schiuma, shampoo, ma anche sacchi della spesa, mollette per la biancheria, ceste di vimini, contenitori e quant’altro. Regola base: disinfettare, con particolare cura, “tutto ciò che va sopra”, nel suo regno. Sì proprio così, perché la loro casa era divisa in due regni: ciò che è sotto, il regno di lei, e ciò che è sopra, il regno dell’altra. Tanto che anche lei quando compiva il passaggio fra sotto e sopra, doveva affrontare una sorta di rito catartico, di purificazione.
Su questa stranezza, impresentabile sicuramente ai più,
col
tempo era stato costruito un sistema: di fatto si raccontavano agli altri e a loro stesse come l’esempio di un’armonia quasi perfetta, di due mondi che si incastrano magicamente lasciando sotto ciò che fa male. L’amica un’assoluta igienista, DENTRO. E con la parola “DENTRO” s’intende che tutto ciò che cade sotto il suo controllo, nel suo habitat (identificato nella SUA casa), DEVE ESSERE, ai suoi occhi e nella sua mente, STERILIZZATO (è inutile trovare altre parole che possano rendere la cosa). E’ la donna dei riti di passaggio: il suo ordine, non è tale per natura (di fatto, fortunatamente, è per natura disordinata), esso è la necessaria conseguenza di questo modello mentale: “tutto ciò che entra in casa ha un suo posto, solo e solo se passa il percorso di STERILIZZAZIONE e perde tutte le impurità,
pericolose, che porta con sé il mondo che è fuori. In caso contrario non entra”. A casa praticamente non poteva entrare niente o quasi niente e, si aggiunge, nessuno o quasi nessuno, che potesse incrinare una sorta di equilibrio mentale e di vita. Lei si chiese: “Ma forse che è proprio lei l’amico/a impresentabile?”. Mentre tentava di scrivere un racconto sugli ultimi anni della sua vita le si chiariva un’idea: “Ciò ha significato e significa che, visto che le procedure per il “passaggio” dal FUORI al DENTRO, hanno fasi e tempi, dal punto di vista dell’amica è bene far entrare le cose DENTRO lentamente, tanto lentamente che col tempo ha rinunciato, quasi, al passaggio.” Il passaggio, in effetti, era troppo angusto (lei l’aveva provato), si sarebbe rischiato un intasamento, come se si bloccasse il sale di una clessidra ed il tempo non potesse più
scorrere. Per l’amica, quindi, era meglio, alla fine dei conti, rimanere chiusi DENTRO senza che DA FUORI nulla potesse penetrare. Una barriera protettiva formidabile che rendeva non penetrabili e quindi non presenti o presentabili agli altri, senza che la cosa costituisse un problema imbarazzante da risolvere. “E’ un sistema di vita”, dichiarava l’amica in alcuni momenti, “e si lascia correre, in fondo, se si scherza sulle piccole manie!” Anche lei, tuttavia, è contraddistinta da una sorta di ansia di fronte a tutto ciò che cadeva al di fuori della sua capacità di prevedere. Tutto ciò che, per natura o per caso, non può essere organizzato da lei, che si trova al di là dell’ambito strettamente privato, intimo ed a lei familiare o che in questo stesso ambito si manifesta al di là di ogni possibile previsione,
costituisce per lei una minaccia, un “oggetto” oscuro, pericoloso, da “maneggiare con precauzione” o “da aggredire attraverso analitica osservazione e conoscenza” (cosa altrettanto
pericolosa
per
una
persona
come
lei,
estremamente maldestra con le cose e con le persone). E l’amica, per un certo aspetto, era la manifestazione di questa pericolosità fatta di perdita del controllo. CAPITOLO IV: UN’UNIONE NON RAPPRESENTABILE RIAZZERA IL RACCONTO
Entrambe in fondo si conobbero grazie al loro non sano rapporto con l’imprevedibile/imprevisto. E se lo dicevano ridendo e prendendosi in giro, mentre qualcosa accadeva fra loro per un formidabile scherzo del destino. Lei, la persona che aveva deciso che nessuno e niente di imprevedibile avrebbe ulteriormente scalfito la sua
vita, che preferiva guardare al futuro come l’eterno ripetersi dell’idem, in un cerchio in cui nulla può e deve cambiare, che amava rappresentarsi come una sorta di roccia, pietrosa; lei era entrata, con tutta la sua pesantezza ed invadenza (aveva correttamente ed opportunamente avvertito di non essere un peso leggero, al di là del peso fisico reale), in pieno contatto con l’amica, che si era assuefatta ad allontanarsi, pian piano, da tutto e da tutti, e che si concedeva per ridere e far sorridere appena della parvenza di sé (tutto il resto era impresentabile perché non voleva che lo fosse). Lei era entrata dentro quella casa accettando di buon grado (di fatto non costituivano un problema e per certi aspetti li comprendeva) meccanismi, riti e procedure di purificazione per il passaggio. Ma assieme a lei ed indipendentemente dalla sua volontà (ne avrebbe fatto a meno e non lo aveva
preventivato), malgrado i riti a cui si era sottoposta, tutta la impura fragilità di una realtà insalubre e caotica che era FUORI era entrata DENTRO. Ed a tutt’oggi entrava così com’è, con il suo disordine, con margini poco chiari, incertezze e caducità, assolutamente inaccessibili agli altri, e non del tutto chiari neanche a loro che, da questa relazione avevano tratto reciproca forza. In mezzo a tutte queste elucubrazioni, si apriva, forse, la via del racconto: scarno, breve, senza possibili riflessioni aggiunte. Dal loro compromesso, in verità un po’ nevrotico, di equilibri precari e rischiosi, non detto e non dicibile, non rappresentato
all’esterno
come
non
rappresentabile
seriamente neanche a loro stesse (o almeno così era, poiché sempre pervaso da un alone da macchietta con cui amavano parlare di loro), nasceva un’armonia quasi perfetta, tanto che
col tempo il meccanismo rigido che sembrava regolare i rapporti con l’esterno si attenuava e si distendeva, risultando più morbido e flessibile per entrambe, integrandosi con una routine di vita
sicura e stabile, gradevolmente vivibile,
appagabile e con tutti i tratti della desiderabilità. A questo punto, però, lei riteneva che il racconto di questa storia non avrebbe avuto più ragione di essere, come del resto razionalmente accade che due negazioni affermano. La questione era risolta: per l’ennesima volta non aveva nulla da scrivere in questa storia. CAPITOLO V: LA SCOPERTA DELL’IMPRESENTABILE CLANDESTINA
No, c’era ancora uno spazio su cui forse si poteva riflettere, un anello debole nel meccanismo collaudato. Davanti al foglio word ancora bianco lei si rendeva conto che un anello di
questa catena che si era formata esisteva clandestinamente all’interno della casa (la perfezione, si sa, non è di questo mondo). Lei col tempo aveva portato il disordine e la caducità, accettandola attraverso quell’insolito amore per la sua amica; messaggera fra il dentro ed il fuori, aveva rotto la sterilità di un meccanismo per entrambi inceppato e chiuso al mondo e alla vita. Lei tuttavia rimaneva clandestina. L’amica non voleva che “si sapesse” che lei vivesse proprio lì, un luogo che adesso le sembrava profanato. Lei doveva rimanere, ancora e pur sempre, impresentabile ai più (faceva eccezione, naturalmente, la ridottissima cerchia di chi parallelamente vive percorrendo strade, ahimè, forse, parallele). Conclusione? Ebbene,
nel desiderio di cimentarsi nella
costruzione di un racconto, adesso era sicura: non aveva più
bisogno di sprofondare la mente nei ricordi e sforzare eccessivamente la memoria. Era proprio lei che tentava di scrivere, in quel luogo ed in quel momento, in una casa che amava, al sicuro, all’interno dei suoi spazi, accanto agli oggetti cari o comunque consueti, dove viveva, dove viveva veramente. Presenza indelebile e costante, a casa sua, era lei “l’amica impresentabile”, negata, clandestina. I segni erano evidenti: senza un’ufficiale residenza in quella sua casa, che quasi non respirava quando squillava un telefono, che si muoveva in silenzio, formalmente residente in un luogo in cui aveva dormito solo poche notti negli ultimi dieci anni. Lei che tirava il fiato per minuti davanti al citofono incerta se fosse il caso di rispondere o meno. Quando l’amica partiva, dopo aver tirato un respiro di sollievo per essere passata indenne nelle manovre militari della
composizione della valigia ventiquattro ore, si ritrovava, sola ed invisibile, a vivere per giorni come un fantasma. Da fantasma solitario che abita la sua casa, si chiedeva: “di quanti strati di false rappresentazioni ricopro la mia vera vita?”. Quanto tempo e quante energie butto al vento per costruire, per gli altri (che altri rimangono, praticamente poco o nulla) un mondo presentabile, ma non mio?”. Abbassava quindi lo sguardo sui tasti del pc e scriveva il titolo del suo racconto “ L’amica impresentabile sono io”.
Lucia
Dodici per sempre dodici
Premesso che in questo momento mi sto sentendo un verme e che spero che il protagonista di questa storia non si appassioni mai alla lettura dei racconti di Nz, dovete sapere che per tre quarti della mia vita sono stata un'assidua frequentatrice di sale giochi: le sale giochi sono state il mio non luogo preferito, e lo sarebbero ancora se i flipper e i videogiochi veri non fossero stati rimpiazzati da quella schifezza di slot machines.
Va da sĂŠ che se hai trascorso la tua vita dai dieci anni in poi a seminare fantasmi ingurgitando pillole dentro un labirinto, o a difendere la Terra dagli invasori asserragliata dietro barricate di pallini tutte sbrindellate e a incenerire alieni con l'acido molecolare al posto del sangue imbracciando il lanciafiamme di Ellen Ripley, non puoi semplicemente sederti come una femminuccia davanti a una stupida macchinetta nella speranza di allineare lingotti d'oro,
mele e banane o combinazioni di assi e donne...Santi Numi, nei panni di Martina ho annientato Steffi Graf, io!
Insomma, ho maturato una certa esperienza nelle sale giochi e, se anche per vostra sfortuna non ci aveste mai messo piede, potete senza sforzo immaginare i singolari personaggi che ci si possono incontrare.
Orbene, avevo giusto quindici anni quando in una sala giochi ho incontrato il mio amico impresentabile e ho iniziato la mia vita da verme.
All'inizio la sua impresentabilitĂ non era molto chiara: quando ti trovi in mezzo al frastuono assordante di duemila giochi, sotto il fuoco incrociato delle noci di cocco, intenta a schivare asteroidi, scalare hamburger, ingozzarti di spinaci, spostare blocchi di ghiaccio travestita da pinguino o correre i cento metri con un paio di tappine
ai piedi, non sei particolarmente incline a sindacare sulla sanitĂ mentale di quelli che ti circondano.
Lui però era uno sbaciucchiatore seriale, pessima predisposizione che conserva tuttora, aveva diciassette anni e ne dimostrava dodici, che poi è l'età mentale standard di ogni videogiocatore che si rispetti e quindi non fa testo, parlava col tono di voce che si usa per farsi sentire dal vicino sotto il palco di un concerto rock e soprattutto, soprattutto mi chiamava bambolina.
Mettetevi per un istante nei miei panni e immaginate che significhi passeggiare belli belli con i vostri amici e sentire urlare dall'altro lato della strada BAMBOLINA, mentre un pazzo si agita sbracciandosi per attirare la vostra attenzione. Mentre il mondo attorno a voi si ferma e tutti si girano a guardarlo, la faccia vi si deforma in una smorfia pietosa che significa vorrei fare finta di sorridere con disinvoltura ma accetterei volentieri una visita guidata della voragine che in questo momento vorrei mi si spalancasse
sotto i piedi. Nel frattempo riuscite a balbettare qualcosa per tranquillizzare gli amici scioccati, notando al contempo gli sguardi di condiscendenza dei passanti.
Non starò qui a menarvela, vista l'occasione, con tutte le considerazioni che potete facilmente immaginare su come e quanto io gli sia affezionata, lo conosco da una vita e gli voglio bene come a un fratello minore, nonostante che trent'anni dopo lui abbia sempre dodici anni e io tenti vigliaccamente di ridurre al minimo indispensabile le occasioni in cui ci vediamo perché poche cose mi mettono più in imbarazzo e mi danno più fastidio di quelle che fa lui tutte contemporaneamente ogni volta che ci vediamo.
Per accennarvi dei livelli di stress che raggiungo tutte le volte che lo incontro, sappiate che:
1.
nello stesso istante in cui si accorge della mia presenza urla
aleee oppure, nei casi più drammatici come quello appena
accennato, bambolinaaa; 2.
perdo l'uso della mano destra o sinistra a seconda di quella
che gli sta pi첫 vicina, la mano viene sequestrata nella sua qualunque cosa io stia facendo, non ha importanza se stiamo camminando, mangiando o se io sto guidando (lui, avendo dodici anni, naturalmente non guida), nei casi pi첫 gravi riesce a sequestrarle tutte e due contemporaneamente, il che generalmente provoca in me una reazione immediata che me ne restituisce miracolosamente l'uso; 3.
alla riappropriazione degli arti vengo istantaneamente stretta
in una abbraccio mortale, perdo qualunque autonomia motoria e mi trasformo in una specie di salame, stretto compresso e strizzato dal suo braccio attorno alle mie spalle; 4.
nelle occasioni sociali, cerca di attirare l'attenzione dei
presenti
con
ogni
mezzo
lecito
e
illecito, generalmente
intromettendosi a sproposito in ogni conversazione e sviando il discorso sul suo argomento preferito: il calcio;
5.
tenta ripetutamente di spacciarmi per la sua fidanzata,
generalmente a mia insaputa. A questa scoperta segue di solito una mia sintetica spiegazione sui principi di base che regolano il fidanzamento, tipo non basta convincere il mondo che sei fidanzato con una perchĂŠ tu ci sia fidanzato sul serio. L'incidente si chiude e amici come prima. Capirete bene come la qualitĂ del tempo che passiamo insieme sia irrimediabilmente minata da tutto questo precisare, divincolarsi, acchiappare, sfuggire e essere riacchiappati. Se non sei un Budda, apprendere davanti a perfetti sconosciuti di essere fidanzata ufficialmente richiede una notevole dose di calma olimpica che non sempre ci si ritrova a portata di mano e la somma di tutte queste cose effettivamente riduce notevolmente la mia voglia di vederlo in occasioni diverse da quelle ormai istituzionalizzate.
L'occasione istituzionale per eccellenza, l'appuntamento annuale a cui non ci si può sottrarre, è il suo compleanno.
Il compleanno veramente sarebbe a novembre, ma qualche mese prima per sicurezza, diciamo a partire da aprile, inizia a chiamarmi con una certa regolarità per ricordarmelo: per eliminare la remota possibilità che, dopo avermelo ricordato una ventina di volte, io me lo dimentichi e sbadatamente prenda qualche altro impegno per quella data, nelle settimane che lo precedono le telefonate si intensificano e diventano molto operative.
Il luogo dei festeggiamenti viene spostato quasi quotidianamente prima di arrivare ad una soluzione soddisfacente, vengono meticolosamente passati in rassegna metà dei ristoranti e delle pizzerie della città e la destinazione viene spostata di giorno in giorno. Quando questo logorante punto è finalmente consolidato, fermi tutti, c'è ancora la scelta degli invitati, il cui punto cruciale è se estendere l'invito anche a uno dei suoi amici storici, una vera carogna che contribuirà ad elevare il livello di stress della serata continuando a insistere sul fatto che tu e il festeggiato siete fatti
uno per l'altro e che dovreste fissare la data delle nozze, gongolando mentre assiste a tutti i tuoi divincolamenti.
Alla fine, dopo una decina di interlocuzioni telefoniche, quando tutto sarà stato deciso, apprenderai, con stupore e incredibile sorpresa, che anche quest'anno, ma dai, sono invitate esattamente quelle stesse cinque o sei persone con cui hai condiviso il suo compleanno negli ultimi trent'anni, compresa naturalmente la carogna, destinata come l'araba fenice ad essere incenerita più e più volte dal tuo sguardo nel corso della serata.
Comunque devo dire che quest'anno si è preso di coraggio, all'alba del suo quarantanovesimo dodicesimo compleanno, l'ha presa un po' alla larga ma si è finalmente fatto avanti.
Mentre andavamo alla focacceria a ricevere la carogna e gli altri, a tappo mi spara un invito a cena in un circolo cittadino di cui la sua famiglia è socia da sempre.
Però c'è un problema...non sei socia e possono entrare solo
i soci.
E va bé, non ti preoccupare, vuol dire che mi inviti da
qualche altra parte.
Veramente la soluzione c'è...
Ah, hai qualche amico lì che mi farebbe entrare lo stesso.
No, Ale, basta che ci sposiamo! Se diventi mia moglie,
AUTOMATICAMENTE diventi socia pure tu e non ti possono dire niente!
Non mi ci vedo socia di stu circolo, andiamo alla focacceria
che è tardi e ancora dobbiamo comprare la torta.
alessia arena