Storie di famiglia

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8 giugno 2013 nzocchè circolo arci

Storie di famiglia da una idea di teresa scozzari

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Dottor Geichill e Miss Haid Mio padre era un impiegato delle Ferrovie dello Stato. Vinse il concorso nel 1961, l’anno che nacque mio fratello maggiore. Prima di essere ferroviere lavorava come rivenditore di tessuti e giocava a poker. Non perse mai il suo amore e la sua dedizione per questo sport adrenalinico e sperperante, dove la mascella si contraeva fino allo spasimo e dove vincere o perdere non importava, perché era durante che ci si sentiva vivi. Mia madre all’inizio capitolava regolarmente di fronte a lui, che usava tecnica di vendita e seduzione affettiva per convincerla ad accompagnarlo in questa sua passione, spacciandola per cosa buona e giusta. Ma poi negli anni incominciò anche lei ad affinare tecniche di preservazione della specie, che nel caso particolare erano i picciuli che lui si giocava. Cominciò una contradanza dell’ammucciamento, una caccia al tesoro, dove il tesoro viaggiava tra borse, valigie, quadri, soprammobili cappotti, vestiti, tappeti e lampadari. Una volta mia madre nascose i suoi averi nella giacca interna di un paltò. Ogni tanto andava per controllare se qualità e soprattutto quantità fossero rimaste inalterate. Cento duecento trecento cinquecento unmilione. Mah… ricordavo che erano un milione e duecento. Cento duecento trecento quattrocento cinquecento unmilionecinquecento. Mah… ricordavo che erano un milione. Cento duecento trecento quattrocento novecento. Mah… ricordavo che erano un milione e cinquecento. Insospettita da questo altalenare di cambio valuta, cominciò a monitorare la situazione prendendo appunti e tessendo trappole. Mise cinquecentomila lire nel cappotto. Ne ritrovò ottocento, poi quattrocento e poi ancora un milione. 3


Quando raggiunse la cifra che considerò giusta per non rischiare oltre, tolse il malloppo e lasciò un biglietto al ladro gentiluomo, che nello specifico era suo marito. Immagino ancora adesso la faccia di mio padre quando, infilando la mano, invece dei soldi trovò un biglietto con la scritta: “a minna finiu”.

Di quella volta che dissi a mia madre che ero lesbica. Ho sempre pensato che mia madre sapesse che ero lesbica. Episodi vari me lo confermavano. Come quella volta che ero a pranzo con tutta la mia famiglia, davanti ad un programma con Mara Venier, e mia sorella mi chiede: “proprio non capisco cosa ti piace di questa qua, ma che ci vedi?”. Mia madre al volo: “u sacciu iu chi ci talia… i minni ci talia, i minni, ‘un si capisci?”. Un’altra volta, sempre durante un pranzo, sempre mia madre, sempre senza nessun preavviso: “senti… ta pozzu addumannari ‘na cuosa?” “Dimmi, ma’… ”, rispondo. “nna cammisa, ci sunnu acchietti e buttuna… m’u spieghi chi fannu ru acchietti e du buttuna insiemmula?” Insomma, ogni volta che pranzavamo m’addumannava cose strane, per me erano segni, conferme, certezze, tanto da non indurmi mai nella tentazione di doverglielo dire. Ma poi conobbi Marina, e allora tutto cambiò. Nella sua famiglia io ero la sua compagna, con tanto di certificato di nuora ad honorem. Un giorno in macchina, mentre guidava la sua Polo station wagon blu, all’improvviso mi fa: “ti piace il fratello di Marina?” Neanche il tempo di pensarlo che già l’avevo detto: “no mamma, mi piace Marina…” 4


“In che senso?”, chiese. “…nel senso che… che… mi piace proprio in quel senso, mamma” Chiantò freni e si fermò in mezzo alla strada. Io le chiesi “che ti è successo?!, lei senza guardarmi mormorò: “i ammi, m’mmuddraru i ammi.” Si accostò con fatica. Cominciò un dialogo serrato ma molto dolce. “Ma come, non lo sapevi?” “No.” “Non te lo eri immaginato?” “No.” “Ma quella volta che… nooooo, cazzo mamma, ma sono trent’anni che non mi vedi un uomo accanto! ti pari ca sugnu fatta ri lignu?!” “Ma che c’entra… - mi rispose - manco a mia mi piacinu i masculi… “ “Mamma, ma allora… - le dico felice - …allora anche tu sei lesbica!!” “Suca”. Mi ha risposto “suca”.

L’amministratrice di condomino Per anni mia madre ha amministrato quello strano circo che era il mio palazzo. Vi abitavano varie famiglie imparentate tra di loro, fratelli sorelle, zie, cugine e nonne. Siccome si sa che i parenti sono come le scarpe strette, questi qui a ogni pie’ sospinto i scarpi si tiravanu… Un giorno cominciò una guerra senza precedenti. Di solito si rompevano le cose tra di loro, ma un giorno trovammo la cassetta della posta della famiglia De Simone Umberto 5


distrutta. Seguirono la stessa sorte le cassette delle famiglie Zerbo Vincenzo e Stagno Benedetto. Mia madre già li sopportava a stento, ma questa storia delle cassette era davvero troppo. Scrisse una lettera nella quale rimandava al buon senso e all’educazione, che recitava pressappoco così: che esistessero famiglie incivili in questo condominio era cosa risaputa, ma addirittura che arrivassero a rumpirisi i cassietti ra puosta no… le cassette erano un bene di tutti, quindi i vastasi erano pregati di non romperle più. A suo modo cercava di mantenere la calma. La mattina dopo, scendendo da casa, trovammo la nostra cassetta della posta rotta. La vidi salire velocemente i gradini - quaranta per l’esattezza - e ridiscenderli con un mazzuolo nelle mani. La guardai atterrita. Lei, con la calma che le era propria quando elaborato istintivamente un piano lo metteva in pratica, cominciò a colpire meticolosamente tutte le cassette. Dava colpi di mazzuolo, cosciente del suo ruolo educativo… ad ogni colpo una lezione di bon ton. Il condomino Stagno Benedetto scese di gran corsa gridando “signora Nina!! Chi sta faciennu?!”. Lei si girò lentamente, lo guardò con il mazzuolo nelle mani e con il dito indice si toccò il naso… “zittu e mutu… assinnò ci’u rumpu ‘n tiesta… ora viriemu s’a finiti cu stu babbiu…” Il giorno dopo ricomprò le cassette belle e luccicanti, con tanto di targhetta con nome e cognome, e nessuno osò più romperle. Così finì la guerra delle bucalette, che durò meno di quella dei cento anni, ma rimase nella storia della mia famiglia e di tutto il palazzo impressa a imperitura memoria. teresa

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vecchie... stamattina c'è il sole...caldo...incontro vecchie, vecchie sorridenti, a coppie, al supermercato per strada in farmacia...chiacchierano e hanno una strana aria, mi ricordano le zie di mia madre, la zia pina e la zia pupa, signorine fino alla fine, con quegli occhi da ragazzina, maliziosi e sorridenti...vivevano in un giardino che non c'è piÚ, col vecchio padre, il mio bisnonno, nonno tano faceva il giardiniere e quando andò in pensione gli diedero una casa in un meraviglioso giardino nel cuore della città , c'era di tutto, limoni manderini arance nespole pomodori fichi verdurine...e un enorme pollaio, ogni giorno a una certa ora faceva uscire le galline che passeggiavano nel giardino seguite dal gallo, gallo cristallo, enorme e feroce...la zia pina ogni tanto ne prendeva una e le tirava il collo, la spennava su un tavolo di marmo dietro il pollaio...il nonno tano non diceva mai una parola, si infastidiva dei nipoti che scorazzavano nel suo giardino, passava le sue giornate seduto su una poltrona di vimini bianco con l'orecchio attaccato ad un'enorme radio e la televisione accesa...non capivo come facesse a seguire tutte e due...aveva una stanzino segreto in un angolo nascosto del giardino, divieto 7


assoluto di entrata, noi andavamo a curiosare, sbirciando dalle fessure della porta di legno con la paura che ci scoprisse, non si vedeva nulla buio assoluto...ci sono entrata quando è morto, c'erano le cose di una vita...mi ricordo una brandina militare e un manico di coltello di madreperla...la zia pina era quella a cui piacevano i bambini era sempre allegra cucinava da dio, conservava in un enorme armadio verde della cucina le ostie, credo le servissero per metterci le pillole dentro...mi piacevano quelle ostie rosa, cibo noncibo...che non sarebbero dovute stare in una dispensa ma in chiesa, mondo a me sconosciuto...nei pomeriggi d'estate preparava la limonata....si stava all'ombra di un glicine seduti sul sedile di pietra in fondo al giardino, la vedevo avanzare nel viale, col vassoio, i bicchieri e la caraffa con la limonata...il ghiaccio tintinnava ad ogni suo passo...non ho mai più bevuto una limonata così, dolce e aspra....la zia pupa era la bella della famiglia, aveva sempre storie di amori infelici che raccontava in segreto a mia madre incurante di noi bambini...nella sua camera da letto c'era una scatola verde di legno dipinto piena di trucchi, ombretti e rossetti, una scatola magica che teneva sul davanzale della finestra, aveva decine di scarpe con i tacchi alti che conservava in un camerino, non so perché ma quel camerino mi faceva venire in mente la stanza segreta di barbablù...non si sono mai sposate...ogni tanto la zia pina mi prendeva per mano e mi portava in segreto nell'altra stanza per regalarmi dei soldi e diceva di non dire niente alla zia pupa...dopo un po' succedeva la stessa storia con la zia pupa, identica...non capivo come mai capitava sempre lo stesso giorno ora so che probabilmente era il giorno in cui prendevano la pensione...stamattina c'è il sole... anna farinella 8


Non c'è mai stata una foto di famiglia, nella mia prima infanzia, in cui non avessil'aspetto di un animale vicino al macello. Eppure ero una creatura quieta, silenziosa ubbidiente. Una bambina timida. Solo di fronte alla macchina fotografica mi usciva da dentro una ribellione disperata. Non ci volevo stare nel quadro, e facevo di tutto per non esserne parte. Mio padre e mia madre sorridevano a oltranza. CosÏ rare erano le occasioni mondane che per nessun motivo si sarebbero mostrati inquieti. maria flavia vanni

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La zia Ignazia Il secondo fratello di mio padre si chiamava Ciccio. Distinto, impeccabile, sempre con i guanti, veniva da noi solo la domenica, e ad ora di pranzo. La conversazione non era mai brillante sia perché era balbuziente, sia perché non aveva affatto il senso dell’umorismo; da parte nostra, poi, era sempre molto cauta, perché lo zio Ciccio, qualche strale, acuminato e con la punta intrisa di curaro, lo lanciava spesso. Tanto che avevamo il sospetto che venisse solo per esercitarsi nel tiro con l’arco. Non manifestò mai molto trasporto per noi nipoti; ci sfiorava soltanto con lo sguardo, senza vederci e questo ci metteva a disagio al punto che non riuscivamo a gustare il rituale ragù e gli altrettanto rituali dolci. Era formidabile per prevedere il sesso dei nascituri: quando affermava cattedraticamente che sarebbe nato un maschio, si era certi che nasceva una femmina. Previde anche la nascita di due gemelli, gli ultimi nostri fratelli: sarebbero nati un maschio ed una femmina. Evidentemente nacquero una femmina ed un maschio. Aveva sposato giovanissimo, fra il tripudio dei suoi, una vedova con figli, di alcuni anni soltanto meno giovane ed il nonno, mi raccontava mio padre non era andato al matrimonio; e francamente era più che giustificato. La zia Ignazia, così si chiamava era una donna non comune: aveva un seno unico centrale – almeno così appariva – e lo zio Ciccio doveva essere di limitate pretese per accontentarsene. Quando in omaggio alla moda corrente si tagliò i capelli, ci accorgemmo che aveva accuratamente celati per anni, sotto lo chignon, due grains de beautè particolari color rosso vivo e delle dimensioni di due pomodori sammarzano. 10


Donna di classe e di una eleganza un po’ osé, indugiava talvolta in certe bizzarrie che pochissime altre donne si sarebbero permesse, come quando, ad esempio, portava gli stivaletti del marito e slacciati per giunta. In casa avevano pochi mobili, si, ma di sostanza e la maggior parte degli indumenti e delle suppellettili era accostata con raro senso d’arte, su sedie e bauli. Al centro della stanza da pranzo vi era un tavolo rotondo, antico, grande, posto in bilico su un perno centrale. Ad apparecchiare la tavola dovevano essere in due ed i piatti dovevano essere posati simultaneamente ed alla stessa distanza dal centro, esattamente lungo un diametro, per non provocare squilibri. La carne si doveva tagliare con lo stesso ritmo da tutti i commensali, ché, lo sforzo di uno poteva provocare un colpo al mento dell’antagonista. E se qualcuno lasciava la pasta, mettiamo, doveva lasciarla anche il suo dirimpettaio. Anche per questo nessuno osò mai mettere i gomiti sul tavolo. Chi assisteva al pasto, seduto lontano, su un baule o qualche mobiluccio, notava un gran lavorìo di gambe che venivano sollevate dall’uno o dall’altro, per sostenere il piano inferiore e poiché noi parenti non avevamo la loro tecnica, non fummo mai invitati a pranzo. Abitavano sopra il cinema Maqueda e poiché erano amici del proprietario, potevano entrare e uscire a loro piacimento. Per far stare buoni i nipotini, figli della figlia, la zia Ignazia li portava giù e li faceva assistere a due, tre spettacoli, e quando, come tutti i bambini, questi avanzavano qualche richiesta, la nonna era in grado di soddisfarli: con rara previdenza, infatti, portava con se pane, altri viveri, un fiasco d’acqua con i bicchieri ed un vaso da notte che però poi vuotava a casa. Oltre che per le pellicole, molta gente frequentava il cinema per andare a vedere la zia Ignazia. 11


Dopo aver sistemato la famiglia, come dirò in seguito, zia Ignazia fu assunta in pianta stabile nell’al di là. Per quello che ne so, dei parenti, l’unico a mettere la cravatta nera, per sollecitazione della moglie Pia, fu Nuccio, un nipote acquisito, il quale, anche a distanza di anni, quando gli si ricordava l’episodio faceva salti per la rabbia. eddy governale

L’occhio E’ da poco passata mezzanotte, il raffreddore imperversa. Svuotato l’ultimo barattolo di aspirine, ma non mi preoccupo, praticamente ne ho una scorta illimitata. Il mio orecchio destro piange: mi sembra di avere il vento lì dentro, ne sento pure il rumore, come quello di conchiglia. Quattro ore in acqua. Il torcicollo mi ha creato qualche problema, soprattutto dopo l’incontro, nelle entrate con spazi stretti, testate in tana. Sarebbe stato meglio aspettare sul gommone, perché ero “aggrippata” e non avrei dovuto scagliare la fiocina su quel mollusco: posizione impossibile. Perso un astice; troppo teneri, compressi nel pescato e il sagolino che si è trasformato in laser facendoli a fette. Alla prossima un retino, sacchetto di plastica bucherellato, per lasciare drenare l’acqua. La doccia bollente mi ha rimesso in sesto e aggiustato il collo. Sono elettrizzata, vorrei parlarne ancora, ma Franco dorme distrutto, allora scrivo. E’ l’alba : come al solito non parliamo, io seguo le sue direttive: la tanga della benzina, sì, l’attrezzatura, c’è tutto, i 12


giubbotti sì, il frigo sì, ( mento, nella ghiacciaia troverà solo l’acqua, che fa tanto male al cuore dice lui, ma a me la birra piace dopo, in relax). Carichiamo tutto in macchina, Ulisse, il nostro pastore belga, nero come la notte blu, ci scodinzola intorno, ad un mio cenno comincia a far strada verso il pontile. Arriviamo, sento freddo, carichiamo, lui molla gli ormeggi io ai remi, basta poco, siamo già fuori, in mare, lui va al motore. Ulisse è sul molo che ci guarda, lo ritroveremo al ritorno sullo scivolo del porticciolo. Dopo pochi minuti ci fermiamo. - Passami la maschera! Gli lancio la sua, sputo dentro la mia, la sciacquo, la calzo, bagno i capelli e mi sporgo dal gommone mettendo la testa in acqua. Perfetto, visibilità 15 metri almeno, anzi di più . Emergiamo sincronici e ci sorridiamo. Straordinaria giornata, quasi totale assenza di corrente. Siamo gasati. Raggiungiamo in pochi minuti lo scoglio della patella, ci spogliamo dei golf, teniamo i pigiami, poi la muta, finalmente in acqua. Vicini cominciamo la discesa, procediamo lentamente allontanandoci man mano,come sui fianchi di un triangolo scivoliamo uno a destra l’altro a sinistra verso la base. Arriviamo a nemmeno tre metri di profondità e a quattro l’uno dall’altro, quando vediamo delle occhiate schizzare via e la mangianza che si fa sempre più nervosa, come impazzita. All’improvviso sentiamo un rumore avvicinarsi , come fosse il motore di una barca sopra di noi, caz….i palloni! Si oscura tutto, è una nave penso, no, intravedo una sagoma, tante nere. Tonni! Il rumore è fortissimo, forse sta succedendo qualcosa, un’occasione buona. Facciamo appena in tempo a scambiarci un’occhiata, quando, tutto sparisce. 13


Non penso più, è solo buio, tra me e mio fratello una massa gigante, lenta tranquilla. Non ho niente su cui appiattirmi, offro il fianco, non pinneggio sospesa, ferma. Non capisco di che si tratta, la montagna rallenta l’andatura, il tempo si dilata, il mio cuore è impazzito; compenso, forse scoppierò io, no, calma sono calma. E’ allora che si mostra in tutta la sua bellezza, di fianco, un gigantesco siluro come d’acciaio blu, largo tozzo che brilla agli spigoli d’oro. Attimo di panico, mi sento piccolissima, ho paura, poi lo vedo… l’occhio, liquido grandissimo che mi fissa, il sinistro. Tutto finisce così d’un colpo. Bisogna riempire i polmoni, risaliamo in superficie. Non urliamo non commentiamo,respiriamo lentamente, ma Franco intuendo la mia paura e il mio desiderio di andare via, ( avremmo perso un’ottima giornata di pesca) mi si avvicina. - Non aver paura… è già stato. Lo guardo ridiscendere, ancora un respiro, lo seguo.

Il rolex Una sera, alto nervoso asciutto, Frank arrivò da una gara di pesca, con un sorriso tronfio sulla sua bella faccia da pugile. Sua sorella, il mozzo da lui preferito e nuotatrice perfetta, gli corse incontro festosa, saltandogli al collo. Lei lo invidiava, per la sua forza e soprattutto invidiava le sue storie, spesso lo aspettava su fino a tarda notte per sentirsele raccontare e lui era felice di farlo, perché era l’unica in famiglia che non se n’annoiava mai e bastava che lo guardasse con quei suoi occhi da cerbiatto aperti e luminosi, perché lui parlasse felice. - Contento? Cosa hai vinto? - Sì sì, contento, ho vinto un rolex, guarda! - Un role che? 14


- Un orologio - Un orologio - rispose delusa - è solo un orologio! - Scherzi? Questo è un rolex! - E allora? - L’orologio di riferimento per chi desidera esplorare il mondo marino con stile. - Ma come parli? Sembri uno della pubblicità. - Basta adesso, ti racconterò domani, i se i vecchi ci sentono se la prenderanno con me. Passarono i giorni, il ragazzo aveva molta cura del suo orologio e non se ne separava mai, neanche a letto. La piccola attratta dal nuovo giocattolo e curiosa, lo infastidiva con mille domande, perché voleva conoscerne i particolari. - Ma cos’ha di così prezioso? - Lo è! - Che vuol dire? - Scende tanto - Fino a quanti metri senza rovinarsi? - 100 - E quanti palazzi sono 100? - Un grattacielo, di più, una montagna - A che pressione resiste? - Tu che ne sai della pressione? - Lo so me lo hai spiegato, la pressione è come l’onda della musica che arriva all’orecchio con forza e fa male per questo mi dici di soffiare piano, allora che pressione può sopportare senza rompersi? - La pressione di una montagna ,300 - Fuori dall’acqua funziona bene? - Benissimo - Posso toccarlo? - No! 15


- Mi fai fare un giro? Un giro solo? - No, è solo per uomini! - Ah! - Un piccolo pensiero le passò fugace - Quanto è stupido! Poi, fatto curioso, finì di tormentarlo, quasi avesse scordato quell’insopportabile orologio, tenendo a bada pure i suoi occhi neri; questo perché mancavano solo pochi giorni prima di una loro uscita insieme, glielo aveva promesso. Finalmente arrivò la giornata senza vento e di acqua cristallina. Come al solito i due fratelli si svegliarono all’alba, lei ancora assonnata e stanca ubbidiva agli ordini e lo guardava come ipnotizzata. Insieme caricarono il gozzo, abituati l’uno all’altro presero il proprio posto in silenzio e si staccarono delicatamente dal pontile che si trovava sotto la loro casa sul fiume . La ragazza seduta a prua con le gambe penzoloni fuori dalla barca dava le spalle al fratello e gli indicava con piccoli gridolini le sporgenze dei sassi da evitare; lui ai remi calmo, avanzava piano, la barca filava placida dove volevano loro. Finalmente usciti dalla foce il ragazzo diede gas al motore e prese il timone. Con quel misero vecchio 10 cavalli, impiegarono quasi due ore per arrivare al punto stabilito. Spento il motore, Frank si mise in piedi e cominciò a scrutare la costa per verificare le mire alla ricerca del posto dove sapeva di trovare le sue prede (a quei tempi non avevano altro che i loro occhi e una felice memoria) di lì a poco, lei stufa di aspettare gli chiese: - Cì, che ore sono - Le sette rispose lui – mentre si sganciava l’orologio buttandolo a mare. - Che hai fatto? - Cazz… il rolex! - Però, è caduto con stile! 16


Il ragazzo rise, con quel suo modo così speciale che la travolse, non la finiva più. - Non ti tuffi? - No, ci aspettano le cernie. - E il rolex? - Chi se ne frega! Per questo l’amava,ce l’avrebbero fatta con o senza rolex, avevano tutto. annamaria tedesco da “Diari di un’altra vita, in mare”

“Andavamo dappresso” «Ti dispiace se fumo?» Me lo chiede ogni volta, mio nonno. «Mi dispiace per te, in effetti» Rispondo. «Ho 90 anni, fumo da quando ne avevo 16. Non pensi che se avesse dovuto farmi male, me ne avrebbe già fatto? La mia teoria, anzi, è che il fumo, ormai, faccia parte del mio equilibrio psicofisico. Probabilmente, se smettessi ora, sì che potrebbe farmi male» La sua tesi non fa una piega. «Fuma pure» Gli dico. Siede sulla stessa poltrona su cui lo trovo da un po’ di anni ogni volta che passo a fargli visita. È fatto gracilino, un po’ curvo, ma i suoi capelli, bianchissimi e a spazzola, sono rimasti, pelo più pelo meno, quelli di quando ero bambina. Solo che la brillantina verde al mentolo che associo alle domeniche mattina, prima della messa delle dieci, non la usa ormai da molti anni. 17


Aspira lentissime e brevi boccate di fumo, e continua a guardare davanti a sé, come se fosse in riva al mare. Poi, senza voltarsi verso di me, mi chiede: «Che si dice? Come va il lavoro?» «Alti e bassi, nonno. Sai com’è, si lavora tanto, si guadagna poco» «Che schifo. È che siete tanti, siete troppi. Quando mi sono laureato io, nel ‘46, eravamo in dieci nel mio anno. In dieci, capisci? Ho avuto la tessera 122 dell’albo degli ingegneri in città! » «Be’, sì nonno, ma c’era anche il boom economico, dopo la guerra» «Sì, ma non era solo una questione di soldi. Era un fatto di stile di vita. Non è che fossimo tutti ricchi, ma ci sentivamo ricchi con poco. Le donne volevano la lavatrice, gli uomini l’automobile. Fine. Mica c’erano tutta questa scelta e queste pretese» «Già» «Anche in fatto d’amore. Non è che uscissi la sera e conoscessi tutta questa gente. E ovviamente l’unico modo per conoscere qualcuno era trovartelo di fronte. Che poi, mica te lo trovavi davvero di fronte. C’andavi “dappresso”. » Fa una pausa, si gira finalmente a guardarmi, con un sorriso che ho visto infinite volte e che prelude a un aneddoto. «Sai che significa “dappresso”?» Lo so, ovvio, ma mio nonno ha piacere di raccontarmi ancora una volta come ha conosciuto la nonna, e io ho piacere di sentirlo, ancora una volta. «Cosa significa? » Chiedo. «Significa che un uomo notava una donna, ma mica notava il seno o il sedere, come oggi, che è tutto uno schifo. Poteva 18


intuirlo, ma il massimo che vedeva, allora, era un paio di caviglie» «E nonna aveva delle belle caviglie? » «No, tua nonna aveva un bel culo» «Ma hai appena finito di dire…» «Lascia stare quello che ho appena finito di dire. Si capiva, almeno io lo avevo capito. Comunque. Ti dicevo. Tu notavi una ragazza, ti piaceva, e allora iniziavi ad andarci dappresso. La seguivi, con un paio di amici, a una decina di metri di distanza, mentre lei era con qualche amica o, più probabilmente, con una familiare. Dopo un mesetto che le andavo dappresso, un giorno, mi trovai una riunione in casa. C’erano tutte le donne della famiglia: mia madre e le sue sorelle, quella sposata, quella vedova e quella zitella. E poi c’era mia nonna, pace all’anima sua, che portava ancora il lutto del nonno, malgrado fosse morto da una ventina d’anni. Quando vidi quella riunione inaspettata, in cucina, capii che la situazione era seria. “Ninì” mi disse mia madre “Siamo preoccupate”. Le chiesi di cosa. All’epoca avevo quasi trent’anni, ma la vita da scapolo mi piaceva ancora un bel po’. “Ti stai facendo grande, Ninì, dovresti trovarti una brava donna”. Devi sapere, cara nipote, che quando ero giovane io, i genitori li rispettavamo, mica come ora che gli dici in faccia quello che pensi e sono loro che si devono spaventare di come parlano. Così dissi a mia madre di stare tranquilla, di non preoccuparsi per me, che stavo andando dappresso a una brava ragazza, di buona famiglia, e che presto avrei chiesto la mano a suo padre. Mia madre sorrise, e dal nugolo di donne in consesso domestico si levò un tripudio di segni della croce e di “Gesugiuseppemmariasantissimi” di sollievo. 19


Qualche giorno dopo andai da tuo bisnonno a chiedere la mano di tua nonna. Di lei conoscevo giusto il nome e quel tanto della famiglia che mi consentiva di sapere che sarebbe stata una buona moglie e una buona madre. Il tuo bisnonno acconsentì, e a quel punto iniziammo a uscire insieme.» «Finalmente soli?» «Macché! Tua nonna, io e la zia Maria, la sorella zitella della madre di tua nonna. Devi sapere che le zie zitelle, a quel tempo, sembravano fatte a posta per fare il terzo incomodo. Le passeggiate le facevamo in tre, se andavamo a teatro, eravamo sempre in tre. Pensa che la prima volta che tua nonna ed io siamo stati da soli in vita nostra, è stata la sera delle nozze. Allora sì che aveva un senso sposarsi e fare la luna di miele! No ora che già avete fatto magari pure i figli prima di sposarvi! Che luna di miele è se già vi siete detti e dati tutto?» Finisce di parlare e guarda fisso davanti a sé, come se io non ci fossi più. La sigaretta, in realtà, si è fumata da sola. Spegne il mozzicone nel posacenere e torna a girarsi verso di me, sorridendo. «Ti ho raccontato di quella volta che mi cadde il biberon di tuo padre (a quel tempo erano in vetro, romperli era un attimo) e dovetti dargli il latte versandolo in una bottiglia di birra? » «No, nonno, questa non la sapevo» «Ora ti racconto» Prende un’altra sigaretta dal pacchetto, la avvicina alle labbra e mi chiede «Ti dispiace se fumo? » federica d’alessandro

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Storielle da una famiglia italiana figlia del boom economico

NONNO PIERINO Quanta paura mi faceva e quanto invidiavo mia sorella Patti che aveva un’intesa così perfetta con lui. Mi sembrava enorme, come accade a tutti i bambini: il mondo fuori è sempre così grande rispetto a loro, minuti e dispersi, confusi con i dettagli, che solo loro riescono a distinguere, che solo per loro sono così importanti. Il suo vocione, poi, amplificava la percezione delle sue dimensioni. Un nonno un po’ orco, insomma. Ma lo spiavo spesso, di nascosto, dietro il mio rifugio preferito, “i cutìn” di sua moglie, nonna Maria. Ci portava al mare ogni giorno: è stato lui che mi ha costretta ad imparare a nuotare. Una questione di sopravvivenza direi: mi ha buttata in mare dagli scogli. 21


Beh, ci portava anche a pescare granchi sugli scogli e, orrore, una volta se ne è mangiato uno appena pescato, togliendogli unicamente le chele, proprio sotto lo sguardo impietrito mio e di mia sorella. I suoi occhi ridevano felici mentre lo faceva. Io mi sentivo Pollicino nella casa dell’orco e pensavo:- Meno male che c’è nonna -. Quando non aveva voglia di andare sugli scogli, forse perché il tempo non aiutava o non so più, sedeva su una panchina lungomare a chiacchierare con i suoi amici e ci invitava a raccogliere pietre preziose fra i sassi. Diceva di avere un amico olandese che ne faceva commercio e che ci avrebbe messo in contatto con lui per fare “affari”. Ricordo di avere trascorso interi pomeriggi di ricerca entusiasta fra quei sassi levigati dal mare, morbidi nelle loro curve, grigi e bianchi. Patti ed io avevamo un atteggiamento molto professionale, direi da ‘entomologhe’ ma anche da vere affariste: organizzatissime, catalogavamo i reperti in base alla loro rarità, naturalmente. I pezzi di vetro più comuni erano quelli marroni delle bottiglie di birra e quelli bianchi delle bottiglie di gazosa o di altre bibite. Abbiamo trovato pochissimi reperti blu scuro, ma quando ciò accadeva esultavamo di nascosto per non far sapere a nessuno che lì potevano essercene altri. Di tanto in tanto nonno Pierino annunciava l’arrivo dell’amico olandese, così noi gli sottoponevamo la nostra mercanzia, accuratamente classificata. Il compenso era, generalmente, non superiore alle 500 lire. Ad un certo punto l’amico del nonno non si fece più vedere e, poco a poco, noi smettemmo l’attività di ricerca. Trovai ancora delle scatole dell’imballaggio del dentifricio piene di cocci di bottiglia colorati, levigati, di varie misure in uno dei cassetti, durante uno dei numerosi traslochi della mia vita. Fu un bel momento: ricordo un liquido pastoso scorrere dentro di me 22


e mi parve di annusare ancora l’odore di quei sassi lungo il mare. Un altro momento topico con il nonno Pierino è il sassolino nelle scarpe: grande invenzione della mia adorata e mitizzata sorella maggiore Patti. Il ritorno a casa dalla spiaggia era sempre un po’ penoso: eravamo stanche per i giochi e non avevamo voglia di camminare. Quella volpicina di mia sorella, allora, ebbe un’idea: fingere di avere dei sassi nelle scarpe e di non poter più camminare, così da farci portare a casa in braccio entrambe dal nonno. Il piano si svolgeva nel seguente modo: chiedevamo al nonno di voltarci le spalle, ci mettevamo un sassolino nella scarpa, gli dicevamo di voltarsi di nuovo, facevamo qualche passo e poi cominciavamo a lagnarci, chiedendo di prenderci in braccio. Per una volta o due, il nonno ci accontentò. Forse ridacchiando fra sé e sé. Una volta, però, si rifiutò e, perentoriamente con quel suo vocione, ci fece fare tutto il tragitto con i sassolini nelle scarpe. Non lo facemmo più. Nonno Pierino parlava spesso della Grande Guerra: era un affabulatore che si immedesimava a tal punto in ciò che raccontava che non potevi smettere di ascoltare. Mimava con gesti e suoni i bozzetti della vita di trincea e a te pareva di esserci stata davvero, ma non come fanti: ti pareva di essere stato il Terzo Occhio che tutto vedeva dall’alto. La nonna, però, più di una volta interveniva per interrompere malamente:- Piantla lì cun ‘sta guera! -. Non so se la sua fosse un po’ di invidia per l’ interesse che il nonno suscitava in noi, oppure perché non voleva ricordare un periodo affatto felice della sua vita. Nonno Pierino aveva una cicatrice sulla fronte e la esibiva fiero di non essere morto, grazie all’elmetto che lo aveva protetto. Conosceva ancora 23


un po’ il tedesco: lo aveva imparato durante la sua prigionia in Germania. Di quel periodo parlava citando la fame che aveva patito: diceva di essere stato impiegato nei lavori in campagna. Spesso lo abbiamo visto parlare, d’estate, con i turisti tedeschi lungo la passeggiata. Non so cosa si dicessero: ricordo, però, che lo disgustava il loro odore di creme solari protettive. Un’occupazione d’altri tempi che svolgeva il nonno, era quella di rifornire la ghiacciaia di blocchi di ghiaccio. Andava in bicicletta a prenderlo, non ricordo dove né con quale frequenza: ho viva nella memoria l’immagine del nonno che smonta dalla bici e scarica una borsa di pelle marroncina da cui spunta un parallelepipedo biancastro, miracolosamente senza farlo gocciolare dappertutto. I miei ricordi di nonno Pierino si collegano spesso alla sua attività in cucina. Per esempio ricordo con orrore due dei suoi piatti forti: la gelatina e il bruss. D’inverno controllava spesso la gelatina messa a “farsi” sul balcone e rientrava soddisfatto leccando il cucchiaio con cui l’aveva smossa. Il barattolo del bruss, invece, aveva posto sotto il lavandino: io non mi ci sono mai avvicinata, perché papà sosteneva ci fossero i vermi. Solo dopo molto tempo capii che era il suo strano modo per denigrare un alimento che lui aborriva: il formaggio. A questo proposito, andavo volentieri dai nonni anche perché lì si poteva mangiare spesso la “giola”, ovvero il gorgonzola, che era quasi proibito a casa nostra, per il disgusto che provoca ancora adesso nel papà. Nessuno della mia famiglia scorderà mai, ne sono certa, il sapore delle pesche dell’orto, mangiate con la buccia, a gambe larghe, lasciando cadere a terra il succo, stando bene attenti perché “la pesca macchia”. 24


Chiudo con l’episodio del terremoto: io non capii nulla allora. Ricordo solo che nonno Pierino ci prese sottobracco come se fossimo dei pacchetti e ci portò con furia fuori casa, nel cortile antistante l’orto. Io strillavo perché avevo perduto gli zoccoletti. Restammo per qualche tempo lì fuori ad osservare la casa: rientrammo solo quando ci convincemmo che non si muoveva più.

NONNA MARIA Mi rassicurava quel suo essere massiccia per me che ero piccolina: lei avrebbe detto “teccia” Mi sembrava veramente tutta d’un pezzo, soprattutto grazie alle gambe tozze e pesanti: mi comunicavano stabilità e sicurezza. Per questo le ero sempre “tacà ai cutìn”. Mi piaceva quando mi dava i “consigli di bellezza”: spolveratina di borotalco in viso e sotto le ascelle e una passatina di saliva sulle sopracciglia. Mi parevano di una saggezza sopraffina. D’altra parte, però, mi annoiavano abbastanza i pomeriggi in chiesa per il rosario: mi consolavo un po’ solo quando mi lasciava metter il velo di pizzo in testa. Mi pareva che con quello in testa mi avessero accettata nel mondo degli adulti: la mamma, però, un giorno me lo proibì sostenendo che sembravo una peppia. La cucina di nonna Maria era insuperabile, ma il piatto che mi piaceva di più era il budino Elah! Una volta feci l’errore di confessare che la pellicola superficiale era la parte che mi piaceva di più: papà mi raggelò dicendomi che, allora, lui avrebbe mangiato il resto. Ogni sera nonna Maria veniva a rimboccarci le coperte e portava con sé un bicchiere con acqua, zucchero, caffè e ce 25


ne lasciava bere un cucchiaino prima di andarsene. Una vera prelibatezza, un regalo affettuoso per noi. Era una persona chiusa in se stessa e spesso categorica nei suoi giudizi: riteneva di essere sempre nel giusto, illuminata dalla luce della religione. Aveva, però, dei lati simpatici e buffi, di tanto in tanto. Per esempio, quando nonno Pierino esagerava, secondo lei, lo zittiva minacciandolo con il mestolo. Bisogna dire che i nonni erano famosi per i loro eterni battibecchi. Innocui, alla fine. Era molto brava – insieme al nonno - nel dare i soprannomi, individuando nelle persone l’elemento caratterizzante: spesso questo era, ahimè, un’imperfezione fisica del malcapitato. Un frequentatore della bocciofila, ricordo, era guercio e per questo era stato soprannominato “da un”. Un locandiere dell'Appennino ligure pareva un tantino effemminato e quindi era diventato il “mez'om”. Dopo pranzo non mancava mai la partitina a domino, a briscola, a rubamazzetto con tutti e due i nonni. La sera non lavava mai i piatti e non permetteva a nessuno di farlo: non ho mai capito perché. Li lavava, con lenta cura, la mattina seguente. Le sue pentole erano tutte luccicanti: l'alluminio strofinato con sapiente lentezza splendeva chiaro, quasi sfrontato e orgoglioso, nonostante le ammaccature o la mancanza di manici o i pomelli dei coperchi sostituiti da turaccioli di sughero da nonno Pierino. Ho voluto conservare in sua memoria un pentolino veramente minimo, quasi un giocattolo per le bambole: per me è un'icona della sua pacata attività in cucina. Allora, la sera, si sistemava sulla sua poltrona e curava l’eczema che aveva sui piedi e sulle gambe: massaggiava le parti malate con una pomata e ne spiegava con convinzione e atteggiamento un po' professorale, direi, le virtù 26


benefiche. Da giovane aveva lavorato in una farmacia e ne aveva idealizzato la figura del dottore. Non so se pensasse anche alla funzione di “aiuto”. Probabilmente, anche per questo, aveva fatto iscrivere mio padre all’istituto tecnico per chimici, avendolo ritenuto affine al mestiere del farmacista. Aveva, poi, metodi tutti suoi per la cura dei malanni: per esempio, si curava il mal di stomaco con una o due fette di salame. Sosteneva che le scaldasse lo stomaco. La trovavo irresistibile in queste sue certezze. Ricordo con un po’ di fastidio, la devozione insindacabile per il fratello Marco, che io non conobbi mai. Trattava, invece, con sufficienza e a volte mi pareva con un po’ di disprezzo e insofferenza la sorella minore Assunta. Questa prozia rimane nella mia memoria con il suo cagnetto, in una grande cucina spoglia, vestita poveramente di scuro, con lunghe gonne sempre coperte da un grembiule da cucina. La ricordo sdentata, ma forse non lo era. Non ho mai avuto grandi rapporti con lei, ma mi era simpatica, con quegli occhi che mi parevano chiari e buoni. Chissà perché a nonna Maria non piaceva, anzi, pareva vergognarsene. Termino i miei ricordi con il suo bel giardino davanti a casa. C'era un'aia comune alle altre abitazioni circostanti, si trattava di una zona di passaggio, attraverso la quale si accedeva, poi, all'orto di nonno Pierino. La nonna lo aveva circondato con dei bei massi tondeggianti che circolarmente proteggevano un'aiuola lussureggiante e molto curata. In mezzo ai suoi gerani svettavano delle magnifiche calle, che un po' mi intimorivano con la loro bellezza spudorata. Mi tranquillizzavano, invece i rossi gerani, le cui infiorescenze Patti ed io usavamo come anelli, quando giocavamo alle signore. Di sera sedevamo su un muretto di cemento addossato alla rete dell'orto a chiacchierare e a guardare le 27


belle di notte che si aprivano e ci chiedevano di raccogliere i loro semini neri. Quando torno da quelle parti, non manco mai di fare il mio personale pellegrinaggio alla cosiddetta “casavecchia” (per me è sempre stata una sola parola) dei nonni: decisamente, mi piace soffrire. L'abuso edilizio ha cancellato le tracce della mia infanzia, con la consueta brutalità di chi vive di profitto e non sa cosa sia la bellezza.

GLI ZII: ADRIANA E ALFREDO Sono la sorella di mio padre e suo marito: una coppia veramente simpatica, da cui mia sorella ed io andavamo sempre molto volentieri. In particolare mia zia era uno spasso, un’affabulatrice nata, come suo padre. Ci incantava con meravigliose storie inventate lì per lì, di cui noi chiedevamo il seguito non appena faceva qualche pausa per prendere fiato. Il protagonista assoluto, eroe indiscusso e amatissimo era il pappagallo Giacomino: gliene succedevano di tutti i colori, ma lui, impavido e testone, come Will Coyote (di cui, per me aveva le sembianze, nonostante fosse un pappagallo), risorgeva sempre dalle sue ceneri e tornava a cimentarsi in sfide veramente impossibili. Ciò che rendeva irresistibili le storie di zia Adriana era la sua straordinaria capacità di assumere una voce da cartone animato. Io vedevo ciò che lei raccontava, per davvero. Il pappagallo Giacomino ha continuato a divertire i figli e i nipoti di mia cugina Ivana, sua unica figlia, e anche Jacopo, mio figlio. La trovavo bellissima: adoravo quel suo chignon anni ’50-’60 e la sua eleganza leggera. Mi piaceva guardarla mentre si truccava: la trovavo irresistibilmente femminile, senza che questa dote mi spaventasse o mettesse in soggezione, come – invece - mi succedeva sempre con donne molto belle e 28


sofisticate. Il suo aspetto fisico non rispondeva al 100% ai canoni tradizionali: forse per me era così bella perché le volevo tanto bene, chissà? Aveva un modo di fare materno e seduttivo al tempo stesso e io cercavo di starle vicina il più possibile: mi faceva sentire importante, percepivo quasi fisicamente il suo affetto sincero. Gli zii erano (e sono) una coppia formidabile: sempre allegri e pieni di iniziativa. Li sapevamo sempre in compagnia, a cene e pranzi con amici e parenti. Lo zio, poi, conosceva tutto il mondo del canavesano: il suo mestiere di riparatore tv lo aiutava moltissimo in questo. Aveva una fama di seduttore impenitente, ma la zia pareva non darsene pena: probabilmente erano solo dicerie che a lui facevano piacere per un’immagine da vero maschio latino, di cui aveva, senza dubbio, l’aspetto. Io, comunque, li vedevo molto uniti e mi sembravano felici insieme, allora come adesso che hanno raggiunto la veneranda età di 95 e 87 anni. Mentre rivedo i miei appunti, purtroppo, lo zio Alfredo ha concluso il suo passaggio presso di noi: se ne è andato piano piano, curato con devozione dalla zia. Mi piaceva andare a casa loro e restarci anche qualche giorno, ma non da sola, con mia sorella. L’unica volta che fui mandata presso di loro da sola, mia sorella era andata dai nonni al mare: io fui presa da una nostalgia tale che, pur vergognandomi a morte, chiesi a mia madre di portarmi da mia sorella. Immagino che Patti non abbia fatto i salti di gioia nel sapere del mio arrivo. Le bambine sono strane, a volte. Il nostro amore per gli zii un giorno ci fece meritare una sonora sculacciata da parte di nonno Pierino. Eravamo a san Bartolomeo al mare (allora si chiamava ancora San Bartolomeo del Cervo), in vacanza dai nonni, nella loro 29


bellissima casa con giardino e orto. Stavamo aspettando che tornassero dalla spiaggia: eravamo impazienti e, ad un certo punto, non resistemmo più. Il capo della banda era, come al solito, mia sorella, che io seguivo ciecamente. Sempre. Mi parve subito un'ottima idea, la sua, naturalmente: saremmo andate loro incontro lungo la strada, per fare una sorpresa. Non dicemmo niente a nessuno e ci avviammo sulla strada che facevamo ogni giorno e che prevedeva l'attraversamento della ferrovia, protetto unicamente da una sbarra, che si poteva ignorare tranquillamente, passandoci sotto. Era un'azione che compiva una quantità di gente ogni giorno, anche con bici, motorette o passeggini. A noi non passò neppure per l'anticamera del cervello di fare una cosa del genere, perché ci è sempre stato proibito categoricamente: dunque ci nascondemmo dietro un mucchio di letame lungo la strada e aspettammo. Nel frattempo a casa si erano accorti della nostra assenza e ci stavano cercando: il nonno si rivelò il più intuitivo e ci venne a cercare lungo la strada. Ci vide nascoste dietro al mucchio di letame e ci sorprese alle spalle, prendendoci saldamente una per parte e suonandocele di santa ragione. Pianti e lacrime ci accompagnarono durante il ritorno a casa ed accolsero anche gli zii ignari, all'ora di pranzo. La zia Adriana dipinge: ha cominciato tardi, frequentando, mi pare, un corso di pittura pomeridiano presso l'Università della Terza età. Mi piacciono i suoi quadri: sono come le sue storie, come lei. E anche gli aneddoti della sua frequenza ai corsi pomeridiani sono in stile con la sua personalità. Ricordo che nonna Maria chiamava lei e suo marito “Nicolone”: era un personaggio che perdeva il treno alla stazione, secondo lei. Era un modo per definirli degli incorreggibili distratti. Un fatto citato a dimostrazione del loro essere così, direi, 30


“eterei” era quando hanno addirittura scavalcato le valigie che avevano posato poco prima sullo zerbino, proprio per non dimenticarle. A proposito del corso di pittura, invece, zia Adriana ci raccontò che aveva rischiato di essere denunciata per furto perché, molto distrattamente, aveva indossato la pelliccia di un'altra corsista, prelevandola dall'appendiabiti posto nel corridoio della scuola. Pur non avendo trovato nelle tasche le chiavi della sua Fiat 500, non le era sorto il dubbio di avere sbagliato giacca, anzi, aveva pensato di averle dimenticate a casa e tornò a piedi. Mi chiedo come si fosse spiegata la presenza dell'auto nel parcheggio della scuola. Solo pochi giorni dopo era stata individuata come la ladra di pellicce ed il caso fu risolto: allegramente, come di consueto per la zia, con risentimento da parte della signora che avrebbe voluto denunciarla.

NONNA ANTICZARINA E’ stata la nonna per antonomasia, per me. Conservo nella mia memoria olfattiva l’odore buono del suo alloggio di ringhiera a Torino ed ogni volta che mi fermo a pensare a lei mi commuovo. Tanto. Un personaggio epico, ma di un’epopea popolare, concreta, che si poteva toccare: pur ammirando la sua vita coraggiosa e difficile, non si potevano ignorare i suoi difetti e le sue derive un po’ bigotte: ecco ciò che la rendeva ‘umana’, un modello imitabile, dunque. Una partigiana comunista di cui sono sempre stata orgogliosissima: mi sembrava, da nipote, di avere il diritto di ammantarmi della sua scia coraggiosa e un po’ incosciente e gliene ero grata. Eppure quante volte l’abbiamo fatta ‘arrabbiare’, mia sorella ed io, la mamma e soprattutto la zia Isotta, l’altra sua figlia, 31


la vera ribelle, proprio per il nostro dissenso da quel partito che era stato la sua famiglia, la sua casa, la sua fede neanche tanto laica, la sua vita. Si dice che la nonna abbia conquistato quel suo nome così particolare perché suo padre, bisnonno Leopoldo, era un po’ fissato con i nomi ( della serie: nomen omen) e gli piaceva che risuonassero di Storia con la esse maiuscola. Per questo i suoi figli avevano ricevuto da lui nomi fantasiosi e impegnativi: Raffaello, Preziosa, Livia, Leonida, Anticzarina, Vanini, Lenin, Argentina, Aurora. Insomma, la nonna aveva accettato di buon grado da suo padre, ferroviere socialista pugliese, il compito di ricordare a tutti la rivoluzione bolscevica, essendo nata in ottobre. Sono cresciuta al suono delle canzoni partigiane e dei racconti di vita antifascista. Il tutto secondo una visuale rigorosamente bolscevica, anzi no, stalinista. La nonna apparteneva a quella stessa generazione di nonno Pierino: una generazione senza televisione, abituata ad ascoltare o a raccontare. Io vedevo nitide le immagini dei paesaggi antifascisti raccontati dalle canzoni militanti ed amavo quegli eroi così tutti di un pezzo, senza incertezze, indugi, dubbi. La canzone che ho amato più di tutte è ”La Comune di Parigi”: mi faceva sperare che si potessero evitare gli errori del passato. Allora mi illudevo che la storia fosse davvero ‘maestra di vita’. L’Internazionale mi faceva rimescolare il sangue nelle vene con quell’incedere lento in crescendo e l’immagine epica del popolo che spezza le catene. Quando la nonna raccontava episodi di vita clandestina da lei stessa vissuta, cambiavano gli scenari: le atmosfere erano più cupe, adeguate al clima cospirativo delle storie. Anche lei ci metteva a parte di quelle storie un po’ meditabonda, continuando a lavorare all’uncinetto. Raccontava e 32


raccontava come se avesse vissuto una vita normale, come se non avesse potuto né voluto fare diversamente. L’aiuto alle compagne operaie, riducendo i suoi veloci tempi di lavorazione per non far loro perdere la giornata da cottimiste. La perdita del lavoro per non essersi piegata a prendere la tessera del fascio. Quell’entrare e uscire di galera del marito, la sua libertà vigilata, il lavoro da pietire, le figlie da nutrire. Era comunista, ne andava fiera, non si sarebbe piegata per nessun motivo e ne accettava, quindi, le conseguenze con una dignità d'altri tempi. Tornava bambina e rideva di gusto, però, ogni volta che raccontava della sera in cui la mamma aveva fatto la pipì nella scarpa di non so quale compagno che stava seguendo una lezione politica del nonno, in clandestinità. Nonna aveva una natura allegra e socievole: penso si sentisse confortata dall’appartenenza ad un gruppo famigliare e amicale compatto, in cui si identificava pienamente, soprattutto grazie al Partito. Non avrebbe potuto innamorarsi che di un compagno, naturalmente. La sua attività di militante di base era infaticabile, dettata da un entusiasmo viscerale e senza condizioni. Nel suo alloggio di ringhiera, abitato ora da mio figlio universitario, numerosi sono gli attestati della sua militanza come partigiana, ma anche come agitprop e venditrice di copie de L'Unità. Gli aneddoti riguardanti la sua famiglia erano i più divertenti in assoluto: quella più presa di mira era la sua sorella maggiore Preziosa, soprannominata affettuosamente “la zia picchiatella”. Me la ricordo nell’alloggio torinese in cui viveva da sola, dopo la morte precoce del marito: lampadari a goccia, mobili anni ’50 laccati e terribili, copriletti di raso verdolino o rosa sormontati da bambole di plastica con sontuosi vestiti spagnoleggianti, distesi come corolle, in 33


pompa magna sul lettone. Anche sulle cause della brevità del suo matrimonio si raccontavano aneddoti piccanti per l'epoca, ormai mitizzati dal tempo. Si accompagnava spesso con la sorella Livia: insieme erano uno spasso per i loro continui battibecchi alla Stanlio e Ollio. Se si aggiungeva la nonna, poi, il cabaret era assicurato. La semplice preparazione degli gnocchi diventava uno scenario di guerra: non erano d’accordo su niente e, alla fine, un giorno sono risultati immangiabili per l’eccesso di farina. Lascio immaginare quanto tempo abbia preso nella conversazione, a tavola, la questione dell'attribuzione della responsabilità! Ricordo che erano venute a trovarci ad Alessandria tutte e tre, durante la mia convalescenza dopo l’operazione per l’appendicite. Zia Preziosa era letteralmente scatenata: sembrava quasi che volesse fare il pagliaccio e le altre due si accanivano nel riprenderla e nel correggerla. Ho dovuto pregarle più volte di smettere, perché i punti della cicatrice mi dolevano troppo per il gran ridere. La nonna Anticzarina soffriva terribilmente la rivalità con nonna Maria e per lungo tempo mi è sembrato che mio padre e mia madre provenissero da famiglie rivali alla stregua dei Montecchi e dei Capuleti: per anni non abbiamo trascorso con le famiglie riunite le festività canoniche: Natale e Pasqua. Spesso chiedeva che cosa ci avesse preparato da mangiare nonna Maria quando eravamo state da lei, solo per commentare che lei avrebbe fatto meglio. A me spiaceva tanto sentirla così competitiva: amavo entrambe, anche se per Anticzarina avevo un'autentica passione, perché lei era decisamente imprevedibile e molto più divertente. Nonna era, comunque, una bella testona: aveva deciso di chiamare la sua prima figlia Enea, nonostante suo padre le avesse fatto notare che si trattava di un nome maschile. La 34


sua risposta è stata la seguente:”Eh bìn, a mi’m piàs!”. Il nome della seconda figlia fu deciso dal nonno, che nel frattempo era riuscito a tornare dalla galera fascista. Le piaceva tanto fare lavoretti manuali, soprattutto all’uncinetto, ma confezionava anche quadri a mezzo punto. Generalmente si trattava di manufatti piuttosto kitsch: insuperabili fra tutti i cigni all’uncinetto inamidati con lo zucchero, ma neanche i cuscini da mettere sul ripiano del lunotto posteriore dell’auto e i quadri a mezzo punto scherzavano. La nonna si indispettiva molto per il disinteresse con il quale in famiglia accoglievamo le sue proposte da ‘Mani di fata’ o ‘Rakam’. Ripeteva come in una litania: gli altri mi portano tutti in palma di mano e voi, invece, niente. Eh sì, la nonna ha vissuto per qualche anno insieme a noi a Gassino, dal lunedì al venerdì, per badare a me e a mia sorella, mentre papà e mamma andavano al lavoro a Torino. Aveva una stanzetta minuscola, che credo fosse un grande sgabuzzino in origine. Mi piaceva andare da lei, perché mi piaceva il suo odore. E' stata un'infanzia deliziosa con lei, sulle colline, in campagna. Nel mio cuore c'è un grande spazio verde e profumato e si chiama Gassino. La nonna si occupava di noi con grande naturalezza: cucinava, ci aiutava nei compiti se ne avevamo bisogno e ci raccontava le sue bellissime storie sulla Resistenza. Ciononostante, non erano rari i momenti di conflitto fra noi: a dire la verità, non ricordo neppure perché e mi pare impossibile che ce ne fossero. Ed invece ci sono stati, eccome: il mio ricordo è nitido in proposito. Quando mamma e papà ritornavano dal lavoro, a sera, la nonna cominciava la lamentatio, che si riassumeva in questa frase, pressoché identica quasi tutte le sere: “Le bambine mi hanno fatto disperare!”. Ricordo 35


perfettamente che una sera, papà, forse perché particolarmente stanco, o semplicemente stufo le intimò di non riferirle più del nostro comportamento e basta. Non ricordo se ciò avvenne oppure no, da quella sera in poi. La nonna era famosa per le sue cadute cicliche. Ogni tanto tornava con un braccio o una gamba fratturata. Una volta si ruppe il polso, mi pare, scivolando in cucina su un chicco di riso, un'altra volta inciampando, a Torino, nelle rotaie del tram. Io pensavo che ciò accadesse perché aveva i piedi piccolini: portava il 34 e mezzo di scarpa. Non ho mai confessato a nessuno questo mio pensiero, prima d'ora. La nonna aveva uno stuolo di parenti “meridionali” che la mamma e il papà non frequentavano. Mi sono sempre chiesta perché non avessimo rapporti con quella fetta di parentado. Ancora adesso non so chi siano i miei parenti pugliesi e temo che non li conoscerò mai, perché manca l'unico collegamento fra noi e loro: la nonna, appunto. Erano personaggi mitici, per me: ne sentivo parlare dalla nonna e dalle sue sorelle, ma non avevo riferimenti visivi e non riuscivo ad immaginarli. La nonna scendeva in Puglia almeno una volta l'anno e vi restava per un bel po'. I parenti avevano un ristorante e lei, in cambio dell'ospitalità, li aiutava. Al suo ritorno ci raccontava miriadi di aneddoti su persone che io non sapevo chi fossero e concludeva sempre con il dispiacere causato dall fatto che noi non li frequentassimo. Mi pare di avere ereditato questo suo dispiacere dentro di me, ma di non essere in grado di superarlo. Quando è morta, ormai era già da tempo un po' nel suo mondo, lontana dalla realtà, ma anche ora che ne sto scrivendo sento salirmi le lacrime dalla gola, insinuarsi su per il naso ed arrivare agli occhi. Rivedo il suo corpicino nella 36


bara, mi rivedo mentre mi avvicino e cerco di conservare il suo odore, a me così caro e soffro ancora adesso per la sua mancanza. Accolgo con sollievo le lacrime che ancora in questo momento mi rigano il volto e mi sento un po' meglio. Un gran bel funerale, avrebbe detto: la banda, le bandiere rosse, il discorso di Diego Novelli, tanta gente. Riesco di nuovo a trovare un po' della sua leggerezza e penso che di lei ho ereditato anche gli acciacchi: come lei, anche io da qualche anno, dico spesso “Sun tuta reida”. Quando lo dico tra me e me, sorrido, penso a lei e cerco di rintracciare il buon odore. Nonna Anticzarina ha tenuto duro fino all'ultimo: molti anni prima di morire si era iscritta alla Cooperativa Astra (andava anche a fare le cosiddette gite con i soci: particolare che sapeva un po' di macabro a noi giovanette!) ed aveva predisposto le modalità del funerale, la cremazione, il tipo di bara, una rosa di peltro per la lapide e la fotografia. In merito a questi ultimi due particolari, non avevamo mancato di criticarla, naturalmente. Avevamo obbiettato che la fotografia non sarebbe stata veritiera, dal momento che si trattava di una foto di qualche anno prima, pure ritoccata. Ricordo perfettamente che lei ci rispose piccata e facendo spallucce:” A me piace così e poi so che voi non verrete a portarmi dei fiori e io non voglio stare senza!”. Impagabile Anticzarina, come ti voglio bene ancora adesso.

NONNO GAETA Non sono mai riuscita a pensarlo come nonno Giuseppe, mi è sempre venuto in bocca il cognome: chissà perché? Forse perché mi intimoriva molto più di nonno Pierino. Anzi no, in modo diverso, decisamente più spaventoso. Il timore che mi incuteva nonno Pierino veniva, poi, mitigato dalla 37


quotidianità estiva che si condivideva, dalle sue narrazioni, dagli episodi buffi e dai suoi gesti d'affetto, anche se un po' burbero. Con nonno Gaeta, invece, nulla di tutto questo. Lui era il comunista, il politico, l'intellettuale: là sul piedistallo, che indicava la via. Lui era colui che adorava la mamma e pareva che venisse solo per lei. Arrivava con la sua Fiat Seicento blu, mi pare, con le trombe della propaganda e dei comizi perennemente sui sedili posteriori. Arrivava sempre con il doppiopetto, d'estate e d'inverno e ci portava un enorme scatolone di finocchini di una pasticceria di Asti. Mi piacevano da morire quei biscotti. Ma poi non ricordo assolutamente nulla delle conversazioni con lui: forse erano troppo difficili per noi bambine. Insomma, mi sentivo insignificante per lui: mi pareva tutto così freddo e distante. Ho dei ricordi duri della sua presenza nella mia vita e ciononostante sono fiera di lui, orgogliosa di essere sua nipote, grata per ciò che ha fatto nella sua vita. Ricordo che un anno regalò una bicicletta a Patti; a me la regalarono gli zii Adriana e Alfredo: la vecchia Graziella di mia cugina Ivana. Mitica, con il contropedale. L'ho molto usata ed amata. Un'altra volta fummo informate che aveva intenzione di regalarci dei libri e che avremmo dovuto dargli dei titoli: Patti chiese “Arcipelago Gulag”, mi pare e un libro di Roberto Gervaso: incassò il colpo senza battere ciglio, ma era evidente che ne fu molto deluso. Un episodio di cui non ho mai smesso di pentirmi riguarda la mia dichiarazione di voto all'età di 15 anni, mi pare. Gli dissi che, se avessi potuto, avrei votato per Marco Pannella: un altro duro colpo per lui, che cercò di non contrapporsi nettamente, ma di spiegarmi come non fossero sufficienti le lotte per i diritti civili e come fosse necessaria un'analisi di 38


classe. Ma io non capii un bel niente all'epoca. Lui se ne rese conto e mi consigliò di frequentare un corso di economia politica: mi consigliò addirittura un libro di Eaton, mi pare “Economia politica”. Allora fui molto infastidita e mi rifiutai di seguirlo nei suoi ragionamenti. Oggi mi mordo le mani fino ai gomiti per la mia superficialità e ignoranza. Sul versante degli affetti, tout court, non andiamo molto meglio. Anche in questo campo, purtroppo, i miei ricordi sono abbastanza negativi. In particolare, quello che mi tormenta ancora adesso risale all'epoca in cui mia madre stette molto male e fu ricoverata in clinica per un certo periodo. Abitavamo ad Alessandria, allora, e mia nonna Anticzarina venne ad occuparsi di noi e di nostro padre. Mio nonno Gaeta aveva saputo del ricovero di mia madre e venne a casa nostra per avere notizie: lo accolsi sulle scale e feci l'errore di annunciargli la presenza di mia nonna Anticzarina. Lui si bloccò all'istante, rimase incerto qualche secondo e poi fece dietrofront salutandomi appena. Rimasi di stucco. Solo molti anni dopo compresi quel gesto così duro: prima di allora, mai nessuno mi aveva spiegato nulla della tormentata vicenda matrimoniale dei miei nonni. All'epoca mi fece molto male. Soprattutto perchè mia nonna lo seppe e ne soffrì. Credo di avere ereditato una buona parte della rigidità del carattere di mio nonno Gaeta, ma di questo non sono affatto fiera. Potei cominciare a conoscerlo un pochino di più solo dopo la sua morte, improvvisa: il 18 giugno 1976. Il suo funerale fu il suo ultimo comizio per il partito che era stato la sua ragione di vita. L'anno dell'avanzata della sinistra in Italia. Con la mamma e la zia Isotta andammo a svuotare il suo alloggio: provai una tenerezza infinita nel vedere quelle stanze per la 39


prima volta nella mia vita. Erano enormi e disadorne: unica presenza imponente, i libri e i volantini. Il lettino a una piazza aveva le lenzuola fissate con delle spille da balia (antesignane delle lenzuola con gli angoli). Mi fece impressione ritrovare in uno sgabuzzino adiacente alla cucina un bottiglione con la cosiddetta “acquamarcia”: mi sembrò di capire che avesse dei poteri curativi, ma non ne fui sicura e non indagai oltre. La rilevanza politica della sua persona mi fu chiara nei giorni immediatamente precedenti il funerale. La camera ardente allestita presso la Camera del Lavoro di Asti fu molto frequentata e i telegrammi di personalità -politiche e nonfurono numerosi, così come gli articoli apparsi sui giornali. Parve non bene accetto un articolo scritto su “Il manifesto” da parte di un suo allievo delle scuole di politica, organizzate dal partito nei tempi che furono, Eliseo Milani. Non capii perché e mi diede fastidio allora. Mi impressionò molto la partecipazione al funerale: mi riempì di orgoglio. Il nonno stava scrivendo le sue memorie e la zia Isotta assicurò che si sarebbe occupata lei di farle pubblicare, ma questo non avvenne fino a quando non se ne occuparono la mamma e il papà, a loro spese. Solo recentemente la zia Isotta riuscì a farlo pubblicare da una casa editrice dell'Arci milanese e a presentarlo nei luoghi dove il nonno era stato politicamente attivo durante la guerra e nell'immediato dopoguerra. Leggere le sue memorie mi ha aiutata a capire la distanza affettiva che ha caratterizzato il nostro rapporto. Ogni tanto le rileggo, per stare un po' con lui, per farmi confortare dal suo “ottimismo della volontà”. Un altro debito che ho con lui è la mia cultura: è stato grazie al suo interessamento che mio padre si è convinto ad iscrivere me e mia sorella ad un liceo piuttosto che ad un 40


istituto che si concludesse con un diploma ed è stato grazie a lui, quindi, che ho potuto iscrivermi all'Università. La mia tesi di laurea, anche se non è un granché, è stata dedicata anche a lui. Oltre che a i miei genitori.

ZIA ISOTTA E' la sorella maggiore della mia mamma, quella che mia nonna Anticzarina ha chiamato Enea Zamira Isotta. Aveva 82 anni quando è mancata nel dicembre del 2009 e non è una frase fatta sostenere che ha lasciato un vuoto dietro di sé. Non solo per me e per la sua famiglia: se si va a guardare il ricordo composto con affetto e dedizione da mia madre proprio quest'anno, lo si può notare dalla raccolta di necrologi apparsi su giornali di ogni orientamento, di telegrammi e degli articoli scritti in sua memoria. Certo, me lo aspettavo, sapevo quanto fosse popolare, ma leggere con i miei occhi tutte quelle testimonianze d'affetto, stima e riconoscenza mi fa ancora adesso impressione. E' stata un altro personaggio importante nella costruzione della mia persona, un faro nella nebbia della politica. L'eterna ragazza della Resistenza è stata chiamata nei ricordi da parte di amici, collaboratori e colleghi. E' un riconoscimento veramente toccante. Un altro filamento di DNA di cui essere orgogliosa, anche se so benissimo di non esserne degna: non si tratta di falsa modestia, semplicemente di consapevolezza dei propri limiti. Eh sì, la Resistenza, per me, è il mito che non è ancora crollato, che mi fortifica nei momenti di dubbio e di fatica. E si tratta anche di un pungolo potente a misurarmi con la purezza degli ideali di quei coraggiosi che hanno saputo dire no al fascismo, ma anche alla palude degli indecisi o dei codardi. Mia zia ha fatto parte della schiera dei nobili d'animo e puri 41


di cuore e, come amava ripetere, se ci fosse stato da rifarlo, lo avrebbe rifatto. Sono certa che non si trattasse di un vezzo. Ebbene, da piccola mi faceva una paura terribile: temevo anche quei rari incontri familiari e speravo di non essere mai interpellata da lei o dal suo compagno di allora. Un intellettuale di sinistra spaventosamente colto e raffinato che mi faceva sentire una povera ignorantella di provincia: lo ammiravo da lontano, di nascosto e non mi perdevo una sola parola delle sue disquisizioni. Giovanni parlava piuttosto a lungo, lasciando cadere le sue parole lentamente su chi lo ascoltava e mi pareva stesse a spiare l'effetto che facevano. Era sempre molto sicuro di tutto quello che diceva e, generalmente, criticava un po' tutti e tutto: quanto mi piaceva! Mia zia non era da meno, non lo è mai stata, fino alla fine e mi pareva che avesse sempre ragione lei su tutto. Da staffetta partigiana e inventrice di una rassegna stampa durante la lotta di liberazione era passata a lavorare per il Partito Comunista fino ai fatti di Ungheria del '56, mi pare. Aveva sposato un partigiano romano, ex soldato dell'esercito regio salito al Nord per combattere con i partigiani, senatore della Repubblica per il PCI. Non ho alcun ricordo di quel suo marito. Se ne era separata quando ero piccolina e non ci si era frequentati piÚ: alcune sporadiche notizie mi arrivavano da nonna Anticzarina, che era rimasta legata a quella famiglia. Per la nonna la separazione e poi il divorzio della figlia erano stati una tragedia e per questo fingeva che non fossero accaduti. Zia Isotta si era trasferita a Roma, dove lavorava, ma non so esattamente cosa facesse: certo è che ha fatto un po' di tutto. Operaia Michelin e funzionaria di partito a Torino, modista o sarta, infine giornalista. 42


Un anno si decise di andare a farle visita a Roma. I miei ricordi sono molto confusi in proposito; ho chiara in mente la stanza con il letto a due piazze dove dormimmo in quattro: mamma, papà, Patti ed io. Ricordo pure un invito a casa di amici, mi pare in campagna, dove -al termine di un lunga attesa- ci fu servito un piatto di spaghetti aglio olio e peperoncino... con la ricotta romana, decisamente non apprezzata da mio padre, che aborrisce il formaggio. Mi pare che la nostra famiglia viaggiasse su un binario parallelo alla vita della zia, così decisamente cosmopolita e, diciamo pure, “radical-chic”, in confronto alla quale noi si era decisamente provincialotti. Sicuramente felici, però. Non so più se fosse in occasione del ritorno da una nostra vacanza al Sud che si decise di spezzare il lungo viaggio in auto con una tappa: tornammo a fare visita alla zia, questa volta ad Anzio, nella sua villa al mare. Fu un'esperienza. Innanzitutto né la zia né il suo compagno erano in casa, non so se non fossero stati avvertiti o se la zia si fosse dimenticata del nostro arrivo. In buona sostanza, entrammo scavalcando il cancello o qualcosa del genere. Attorno alla villa c'era un giardino un poco selvaggio, dove erano stati piantati anche alcuni ortaggi. In un filmino di mio padre sono state immortalate alcune melanzane mostrate con fierezza da mio cugino Luciano. Anche in quell'occasione io mi sono sentita molto a disagio, fuori posto, stonata, totalmente inadeguata. L'arredamento della casa era informale, già allora “etnico”, differente da quello a cui ero abituata io: mi pareva così raffinato e inarrivabile. Batik, bambù, colori chiari, Linus e fumetti “politici” su Che Guevara: la trasgressione alla normalità in forma di oggetti concreti, insomma! Il tutto in un'atmosfera strana: mi sembrava che la cultura “alta” 43


impregnasse la quotidianità di quelle persone, che capivano tutto e tutto sapevano spiegare a tutti, con grande sicurezza. Mi sentivo un verme e li ammiravo con passione adolescenziale, ma speravo di non essere notata né interpellata su nessuna questione. Per un motivo preciso. Una volta mi chiesero che cosa volessi fare da grande ed io, tutta orgogliosa e convinta, risposi: l'insegnante di italiano! Ricordo nitidamente la scena: il salottino dell'alloggio di Torino al decimo piano, zona Mirafiori. Sorrisero, affermando che sarei stata una futura disoccupata. Da quel momento giurai a me stessa che non avrei mai e poi mai cercato di diventare un'insegnante. Tantomeno di italiano. Mi dissi che avrei fatto la giornalista: avrei imparato a capire cosa mi succedeva intorno per spiegarlo a chi mi avrebbe letta. Infatti... Fui interpellata in un'altra terribile occasione: una domanda difficilissima, che mi fece molto soffrire e che mi fece prendere un altro irrinunciabile impegno con me stessa. Questa volta, però, riuscii a tener fede a quella promessa. Mi si chiese cosa pensassi della politica. Anche in quell'occasione risposi con sicurezza: avrei sostenuto l'opinione della zia Adriana, che mi pareva una persona assennata a cui dare credito e che io approvavo a tutto tondo. Non potevo sbagliare, si trattava della posizione di un adulto, in fondo. Risposi che la politica non mi interessava e gelai l'uditorio. Non ricordo le parole che investirono la mia affermazione, ma non dimenticherò mai l'incredulità un po' sprezzante con cui furono pronunciate. Avevo di nuovo fallito: non sarei mai stata considerata una dei loro, se avessi continuato su quella strada. L'abbandonai per percorrere quella dell'impegno politico. 44


Insomma, un'infanzia e un'adolescenza con un rapporto decisamente infelice quello con la zia Isotta. Per fortuna sono cresciuta e con gli anni ho imparato a non avere più paura di lei, a riconoscerne i difetti, senza giudicarla, semplicemente per renderla umana ai miei occhi. Nel lungo periodo in cui si occupò della questione delle carceri, per la sua frequentazione dei cosiddetti compagni irriducibili e/o dissociati dall'esperienza della lotta armata prima, per la sua attività di controinformazione per il miglioramento della situazione carceraria in genere, non solo per quella dei detenuti politici, ecco, in quel periodo avemmo a che fare l'una con l'altra. All'epoca io militavo in Democrazia proletaria in provincia di Cuneo e lei aveva un amico detenuto politico al supercarcere di Cuneo. Andavo a prenderla in auto a Torino e la portavo al Cerialdo, aspettandola fuori dalle mura leggendo libretti che mi portava lei per passare il tempo. Approfittavo di quelle occasioni per assorbire esperienza ed informazioni sul tema e mi rendeva felice la sua considerazione per ciò che facevo io. Non mi sembrava vero che mi apprezzasse. La sua era un'attività instancabile e fu molto preziosa, soprattutto per le detenute di San Vittore. Venne anche ad un convegno, organizzato da noi, sulle tematiche della legislazione emergenziale a Cuneo. Ad un certo punto della sua vita decise di trasferirsi in Francia. Ci si telefonava spesso: decisi di installare Skype per poter fare lunghe conversazioni con lei a Nice. Ogniqualvolta avevo dei dubbi politici o avevo bisogno di testimonianze storiche sulla Resistenza o sulla politica degli anni 60 e 70, chiedevo a lei. La sua recente attività si era orientata sulla presenza della IV Armata in Francia durante l'ultimo conflitto mondiale, sul ruolo di aiuto agli ebrei di Saint Martin de 45


Vesubie e gli eventi correlati. Era molto orgogliosa dei riconoscimenti ufficiali che aveva ottenuto ed aveva ragione. Ultimamente si era lasciata un po' andare alla malinconia: la sua ultima telefonata riguardò un suo antico amore, che rimpiangeva di non avere coltivato. Mi parve si sentisse un po' sola.

PATRIZIA Chi è figlio unico non sa cosa si è perso. Chi è figlio maggiore non sa cosa si è perso. Io sono una sorella minore e non mi sono persa un bel niente! La ricchezza emotiva che mi ha dato avere una sorella come la mia è impagabile: penso di essere stata molto fortunata in questa mia vita. E pensare che una delle frasi ricorrenti della nonna Anticzarina era:” Ma come fate a bisticciare sempre così, voi due?”. Be', quella era la nostra cifra, credo. Raccontano numerosi aneddoti su di noi da piccole, io ne ricordo alcuni, ma i dettagli non coincidono. E' rimasta nella leggenda la mia reazione a una presa in giro da parte di mia sorella: si beffava di me, vantandosi di avere un triciclo “da grande”, mentre il mio era “da bambina piccola” quale ero. Il fatto mi irritò a tal punto che divelsi il piccolo schienale del mio triciclo e glielo diedi in testa. Fu portata all'ospedale. Un altro episodio che, a detta dei miei parenti, sottolineava la mia aggressività è quello in cui Patti finì nuovamente in ospedale: in realtà io ricordo che stavamo semplicemente saltando sul divano del salotto e che lei, ad un certo punto, cadde. Una delle molle del divano le si conficcò in testa. La leggenda vuole che io l'avessi spinta. Patrizia, per me, era un modello e quindi cercavo di fare tutto ciò che faceva lei. Quando tornava a casa da scuola, io 46


mi mettevo accanto a lei e copiavo i suoi gesti. In realtà, mi piacevano moltissimo dei bottoni verde brillante che lei usava per fare i compiti di aritmetica. I miei genitori si illusero che fossi pronta per iscrivermi alla prima elementare con lei. Mi fecero sostenere un esame a fine anno per accedere alla seconda, ma io non avevo capito cosa volessero da me. Una mattina mi accompagnarono a scuola e mi affidarono a una signora alta e magra; mi pare fosse vestita di nero, che avesse i capelli corti e grigi. Tutto mi sembrava smisuratamente grande: la maestra, i soffitti, gli armadi, i corridoi. Mi fece sedere in un banco di un'aula deserta e mi disse di copiare il disegno che aveva appena fatto su un foglio a quadretti e di fare una cornicetta. Io non avevo la più pallida idea di cosa fosse una cornicetta: riempii il foglio di quei disegnini e li colorai con grande impegno, poi consegnai il mio lavoro con un sorrisetto. La maestra lo guardò inorridita e io smisi di sorriderle. Non ricordo altro di quella giornata. Iniziò così la mia avventura scolastica Non so cosa pensasse mia sorella, ma io non potevo stare troppo a lungo lontana da lei: mi confortava la sua presenza, mi sentivo coraggiosa con lei al mio fianco. In particolare, ricordo quanto fossi contenta di andare con lei in colonia e non da sola. Soprattutto il primo anno mi appoggiai a lei in tutto e per tutto: ero terrorizzata dall'idea di stare lontana dai genitori insieme a degli sconosciuti e l'idea che Patti mi avrebbe accompagnata mi faceva accettare la situazione con meno ansia. Non capivo perché dovessimo allontanarci da mamma e papà per così tanto tempo, in luoghi mai visti prima e pensavo che avrebbe dovuto occuparsi di me proprio lei. Il primo anno si andò in Lombardia, forse in provincia di Varese e per me il viaggio in pullman fu memorabile: bevetti della Coca Cola, patii il pullman e la 47


vomitai, con orrore dei miei vicini. Da quel giorno non ho mai più bevuto quella bevanda, per mia fortuna. Alla colonia c'era un direttore che mi pareva gigantesco, portava occhiali neri, spessi come usava allora e pranzava in una saletta attigua allo stanzone della mensa dei bambini, insieme alle educatrici. Un giorno mi fece chiamare ed io mi sentii morire: avanzai verso il suo tavolo con le gambe che mi reggevano appena, sentendomi tradita da mia sorella che non mi aveva accompagnata. Lui mi prese per mano e mi mostrò alle signorine del tavolo, affermando:”Non vi sembra Cleopatra, questa bambina?”. Le signorine annuirono sorridendo e lui, soddisfatto, mi fece tornare al mio tavolo. Fu l'unico anno in cui non mi tagliarono i capelli, naturalmente. L'ultimo ricordo di quell'anno fu quando decidemmo di fare la marmellata di frutti di bosco, lamponi probabilmente. Riempimmo i nostri portasapone di frutti schiacciati con un po' di zucchero e li mettemmo sul davanzale della finestra al sole per qualche giorno, poi ce li mangiammo soddisfatte. Purtroppo, però, mi fecero un pessimo effetto e la notte non riuscii a controllare l'intestino, imbrattando le mutandine in modo irreparabile. Le nascosi nel portabiancheria, pensando di cavarmela a buon mercato. Naturalmente, le inservienti risalirono a me tramite il numerino che la nonna aveva cucito su tutti i nostri indumenti e mi intimarono di lavarmele da sola. Io andai in lacrime da mia sorella e la coinvolsi nella punizione. Lei, inspiegabilmente, non si rifiutò e ci trovammo tutte e due nei bagni a lavare, a turno, un po' l'una e un po' l'altra le mutandine lordate pesantemente dalle mie viscere ribelli. Entrambe svolgemmo quel compito piangendo abbondantemente. Non glielo dissi mai, ma le fui grata per non avermi abbandonata in quel frangente. 48


La colonia era un po' il mio terreno minato, una sorta di ”Hic sunt leones”. E la presenza di Patrizia mi confortava, al limite della spavalderia, a volte. Si andava alle colonie dei dipendenti R.A.I. E pareva fosse una vera fortuna all'epoca, ma a me non pareva proprio per niente. Inoltre, si andava insieme ai figli di un collega della mamma che a noi stavano piuttosto antipatici, perché ci erano portati a modello di precisione, intelligenza ed educazione. Odiosi, insomma. Non c'era interesse da nessuna delle due parti, del resto. I genitori potevano venire a trovare i propri figli una volta sola, tutti insieme, per non creare disparità. Un anno, mamma e papà vennero e controllarono i cassetti della nostra biancheria, che erano, ovviamente, disordinatissimi. Delusi, ci comunicarono che, invece, i cassetti di Enrico e Massimo erano perfetti. Non ricordo se l'umiliazione fu più cocente del rancore che provai per quei due. Penso che mia sorella mi ritenesse un po' una palla al piede, come tutte le sorelle minori, del resto. Un'altra costrizione che dovette subire pazientemente fu dovuta alla mia testardaggine nella scelta della lingua straniera alle scuole medie, il francese. Al contrario, lei avrebbe preferito l'inglese. Dal momento che in famiglia non c'erano molti quattrini, mamma e papà decisero di acquistare un solo libro di testo per ogni materia: questo significava anche la stessa lingua straniera. Si tirò a sorte e studiammo francese. Patti è sempre stata più brava di me a scuola ed io mi sono sempre appoggiata molto a lei, a tal punto che, un giorno, la maestra decise di separarci nel banco. Mi sentii perduta, soprattutto perché mi misero nel banco con una tale Bacilieri o qualcosa del genere, che mi sbeffeggiava in continuazione ed io mi offendevo da morire. 49


Un giorno organizzammo una vera e propria spedizione. Erano comparse delle scritte sul muretto della scuola che, a pensarci ora, fanno sorridere per il gioco di parole:”Le gallo sono due asine”. Noi, invece, ci rimanemmo molto male e decidemmo di apportare una piccola correzione con il gessetto e cancellammo la parola “asine”, ma non ricordo più con cosa la sostituimmo. In effetti, probabilmente, eravamo forse le cosiddette “cocche” della maestra, ma Patti era decisamente la più in gamba e spesso in casa me lo si faceva notare, con grande mio fastidio. Per me, in realtà, è stato piuttosto faticoso mantenere il ritmo, mi sembrava sempre di arrancare dietro a lei e mi sembrava ingiusto pretendere le stesse prestazioni da me che avevo un anno in meno. Soprattutto quel maledetto voto di condotta mi tormentava: accanto al mio 10 la maestra aggiungeva sempre un “meno”, di cui a casa mi si chiedeva conto e su cui non sapevo proprio cosa rispondere. Il sabato era il mio giorno preferito, perché la maestra ci leggeva ad alta voce un libro su Florence Nightingale, di cui non ricordo assolutamente nulla, solo che mi piaceva tanto. Chissà a Patti che effetto fece, visto che è diventata infermiera? Iscriverci alle scuole superiori deve essere stata una vera e propria liberazione per lei: finalmente una di qua (allo scientifico) e una di là (al classico). Ci trasferimmo ad Alessandria nell'estate, non conoscevamo nessuno e così la mamma accompagnò Patrizia il primo giorno di scuola e la nonna Anticzarina accompagnò me. Mi sentii la piccola fiammiferaia e già da quel giorno cominciai a pensare di avere sbagliato a staccarmi da lei. Il liceo scientifico era talmente grande da avere bisogno di una succursale e gli 50


studenti più politicizzati pareva fossero riuniti tutti là. Mi sentivo relegata in un mondo stantio e molto esclusivo, a cui non avevo avuto accesso, peraltro. L'architettura stessa ne era un chiaro esempio: provare per credere, ancora adesso. Ma questa è un'altra storia. E' stato grazie a Patrizia che cominciai, finalmente, ad avere anche io il fatidico “gruppo”: una sua compagna di classe ci invitò a festeggiare il capodanno con lei al suo paese. Lì ho incontrato il mio primo grande amore e mi si sono aperte le porte della militanza politica extraparlamentare. Insieme a Patrizia trascorsi le mie prime vacanze senza genitori, con il gruppo, in tenda. Con lei e qualcun altro, lasciammo il gruppo e andammo a zonzo per la Toscana, con grande curiosità e molta allegria. Sempre con lei dormimmo alla stazione di Venezia nel sacco a pelo, quando ancora si poteva: ricordo che nel cuore della notte mi svegliai per uno strano rumore, un “wiffwiff” nelle orecchie, veramente fastidioso. La stavano portando via, trascinandola nel sacco a pelo, mentre lei continuava a dormire! Me la ripresi accanto. La mattina ci lavammo i denti sui lavandini esterni, accanto ai binari. Iniziammo insieme l'Università a Torino e, per la prima volta, fui io ad andarmene di casa, prima di lei. La nostra vita cominciò a differenziarsi sempre di più: io con l'animo rurale e lei cittadina fino al midollo. So che un giorno torneremo a farci compagnia come da bambine. Lorella Gallo

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La strana signora Ding dong. Claudio, molla tutto, chi bussa alla porta? Bambini (questa è la mamma), vedete chi è! Chi è, chi è? (mi raccomando, si chiede sempre chi è) Chi è? Sono un'amica della mamma, bambini, aprite. (c'è una vocina stridula dietro la porta) Chi è l'amica della mamma? Boh? Non ha molte amiche la mamma. Forza Claudio, guardiamo com'è l'amica della mamma... (dallo spioncino deforma tutto l'amica della mamma non si capisce...apriamo la porta) 52


Oooooooh, non l'ho mai vista una signora così strana e alta e magra. Viene dentro tutta traballante sui tacchi, il vestito le sta malissimo e ha i capelli tutti storti sul trucco pesante. Buonasera, bambini (quella vocina stridula che ghiaccia il sangue nelle vene) è in casa la mamma? La fisso affascinata. Non può esistere una donna così brutta. (e non accarezzare la testa di mio fratello...lui è piccolo e tra poco si metterà a piangere: quando hai cinque anni non la reggi tanta bruttezza) Spunta la mamma. Lei e l'amica si guardano, la signora le sorride... (…mmmmm, amica della mamma, c'hai un che di conoscente...) Claudio, non piangere: è papà!!!

Zia Angelina Per anni, anni, anni e anni, ho creduto la zia Angelina una zitella incallita. Viveva da sempre a Vittoria con sua sorella, la zia Marietta, e Ziamarietteziangelina era a casa mia praticamente una parola sola. Nel mio immaginario infantile Ziamarietteziangelina, che andavano per l'ottantina e conducevano una vita molto ritirata, erano due artiste della cotognata, buonissima, che preparavano in quantità industriali per tutta la famiglia in quelle formine di terracotta da cui usciva trasformata in santi, cuori sacri di Gesù, pesci, fiori e frutta, e la loro vita una successione infinita di cicli gastronomici e stagionali in cui alla cotognata si alternavano le ciappe (gli strepitosi pomodori secchi), la mostarda e tutti i tipi di conserve del mondo. 53


In effetti, la zia Angelina era una dei numerosissimi zii e zie (tipo diciassette) di mio padre, quindi mia prozia, e i fatti che seguono risalgono a un'epoca remota in cui io non ero nata e miei nemmeno fidanzati. La vita delle zie procedeva tranquilla tra ciappe e cotognata, quando, all'età di cinquant'anni, la zia Angelina ricevette per procura una proposta di matrimonio. Il pretendente era un facoltoso italo-americano, proprietario a Chicago di una fabbrica di macchine per il pane, che, rimasto vedovo e con i figli già grandi, voleva risposarsi e naturalmente voleva farlo con una compaesana, di aspetto non sgradevole (la zia Angelina non era male) e più giovane di lui. Così i due si conobbero per lettera e per foto, si piacquero come ci si può piacere per lettera e per foto, e la zia Angelina, donna positiva e di grande senso pratico, non ci pensò troppo su e accettò la proposta di matrimonio. Da lì a poco fu fissata la data delle nozze e la zia, fatti i bagagli per l'America, salutò tutti e partì. Il matrimonio andava bene, tra i due novelli coniugi c'era stata un'immediata simpatia, e il fatto che la zia fosse già fuori tempo massimo per procreare andava bene a tutti, compresi i figli di primo letto dello sposo, all'inizio un po' ansiosi per bieche questioni di future eredità. Erano quindi trascorsi due anni spensierati, in cui la zia Angelina viveva contenta a Chicago in compagnia di un marito ricco e premuroso che la copriva di regali e la portava a destra e a manca, quando il poveraccio morì all'improvviso. Che dispiacere! Andava tutto così bene! Povera zia Angelina, pensavano tutti, ora che si era sposata e aveva un marito così tenero, caro e pure danaroso! E va be'. La zia Angelina 54


fece armi e bagagli, ritenendo inutile una sua ulteriore permanenza a Chicago, e tornò a Vittoria a confezionare cotognata e ciappe. Trascorsero così una decina d'anni tranquilli e sonnolenti, quand'ecco: un'altra proposta di matrimonio! ...non ci si poteva credere...un vedovo italo-americano, un altro, Campo si chiamava, proprietario di ristoranti in America... Zì Angelina of the States. E allora che fa la zia Angelina, accetta? E perché no, in America c'è già stata. Ciao a tutti, la zia Angelina si sposa di nuovo, va di nuovo in America. Buona fortuna, zia Angelina, in bocca al lupo e salutaci l'America. Ciao...ciao...ciaoooooo... Tre mesi dopo la zia Angelina è vedova per la seconda volta. Che dispiacere...la notizia corre come il vento tra i parenti...ma come è stato...così, all'improvviso...povero marito e povera zia Angelina...già il primo, dopo due anni...ma questo, nemmeno il tempo...ma povera zia Angelina, non se la meritava proprio una cosa così...nessuno si capacita della cosa...certo però, pensano tutti zitti zitti, non è che la zia Angelina porta un po' di attasso?

Le nozze improvvisate I miei genitori non sono sposati in chiesa. Per loro scelta (credente nessuno dei due, anche se non gliel'ho scippato mai dalla bocca), si sono sposati solo in municipio. Tra l'altro le nozze le hanno fissate in fretta e furia: dopo essere stati fidanzati per più di dieci anni hanno deciso di sposarsi nel giro di un mese. Due giorni prima delle nozze hanno litigato come i cani per un motivo che nessuno dei due si ricorda (tipo basta è finita sei un bruto e tu una cosa inutile), e la 55


sera prima al telefono, del tutto riappacificati, hanno scoperto che nessuno dei due aveva comprato le fedi. Mio padre era convinto che ci avesse pensato mia madre e mia madre, conoscendo mio padre come uomo sportivo, disinvolto e anticonformista, aveva dato per scontato che lui le ritenesse un vezzo inutile e antiquato. Senonché, evidentemente mio padre non era così anticonformista, perché questo causò un ulteriore litigio a poche ore dallo sposalizio. Alla fine comunque si vede che fecero pace, perché l'indomani erano in municipio, felici e contenti, anche senza il tradizionale scambio di fedi. La mancanza degli anelli però, se ai giovani sposi non fregava alla fine più di tanto, causava malumori alle falangi più integraliste della famiglia. Va bene che siete una coppia moderna, che vi siete sposati al Comune e non in chiesa e pure senza le fedi, ma che tu vada in giro col pancione e senza anello, disse un giorno a mia madre la zia Maria quando lei già aspettava me, è veramente troppo. E così le regalò una fede, e a mio padre, che aveva smaltito l'incazzatura da un pezzo ma la fede comunque non se la sarebbe messa manco morto, mai. alessia

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TRUVATURA In memoria di Gianni che avrà sempre diciotto anni.

- A ‘mmia tiri? tu t’ anserti! Tiri a me? tu ti colpisci! Finivano così, con questa espressione dell’anziano padre, tutte le discussioni tra Peppe, giovane contadino di Bolognetta che sarebbe diventato mio bisnonno, ed i suoi genitori. Che non ne volevano assolutamente sapere della scelta del figlio di lasciare il paese e andare a farsi monaco. - Voglio andare al convento di Ciminna - diceva l’aspirante frate magnificando la vita comunitaria e la bellezza dei luoghi. Il padre voleva invece che Peppe, il secondo dei suoi tre maschi, lo aiutasse nei lavori agricoli che di braccia avevano tanto bisogno. - E’ il migliore della provincia, e poi è vicino - sosteneva il giovanotto per non allarmare la madre, che di lui non si voleva dispisare e aveva già un figlio a Padova a fare il servizio militare. - Posso venire quando voglio e quando ce n’è bisogno: a Natale, a Pasqua, per la festa di sant’Antonino… Ma lei non credeva fosse così facile e al vecchio non bastava avere il figlio nelle feste comandate. - I nostri compaesani vengono trattati sempre bene, perché fu il barone Marco Mancino, che fondò il nostro paese, a dare i soldi ai frati Cappuccini per costruire quel monastero, tanti e tanti anni fa… A questo aspetto i due non erano interessati: molto più pressante era il bisogno di aiuto per spietrare, zappare, arare, seminare i pochi ettari di terreno a frumento e a vigna alla Filaccina e a Roccabianca. 57


I due punti di vista erano difficilmente conciliabili. Alle frasi dette a voce sempre più alta seguivano regolarmente le imbronciature e alcuni giorni di silenzio. Era successo decine di volte, e la scena sembrava doversi ripetere chissà quante altre volte. Un giorno d’autunno del 1887, inaspettatamente, Peppe pensò fosse giunto il momento. Alle prime luci dell’alba, si vestì di tutto punto, mise ai piedi le scarpe chiodate con cui andava in campagna, in un sacco qualche capo di biancheria, sulle spalle lo scappularu, il gabbano nero con cappuccio, per ripararsi dal freddo. Tutto questo senza accendere la lucerna ad olio e cercando di non far rumore. Scese dal solaio per andare alla pagliera dell’ultima strada (così tutti chiamavano la via Marineo) e prendere il fardello preparato la sera prima, con mezzo pane, due cipolle e un po’ di formaggio. Gli sarebbe piaciuto abbracciare la madre, ma se lo avesse fatto avrebbe svegliato il padre e allora, addio partenza! Nonostante i suoi venticinque anni era sempre un ragazzino per lui, e, conoscendolo, sapeva che il genitore gli avrebbe impedito di partire, con le buone o con le cattive. Così, salutò nella stalla la mula Angelina che lo conosceva da quando era piccolo e con cui aveva percorso tante strade e viottoli impolverati d’estate e fangosi in inverno per andare all’antu nelle contrade del Mulinazzo, al piano delle Vecchie, a Gurreri o a Dagariato. A cinque anni aveva cominciato ad accompagnare il padre o i fratelli in campagna: allora solo per compagnia, ma un mese dopo conosceva bene la strada per arrivare al podere di Cugnu Lagnusu, dallo zio Vincenzo, quello che non aveva avuto figli, e l’anno seguente era capace di camminare sotto il sole per tre chilometri all’andata e tre al ritorno per prendere alla sorgiva l’acqua per gli uomini impegnati nella 58


mietitura. Aveva poi imparato a mungere la capretta che dava il latte a tutta la famiglia, a strappare le erbacce dalle favate e a raccogliere le olive con i grandi, da ottobre a Natale. A dodici anni sapeva guidare l’aratro nei terreni pianeggianti e tagliare l’avena con la fullana... Ora voleva diventare frate cappuccino, di quelli che venivano a Bolognetta il venerdì santo di ogni anno a fare la predica prima del precetto pasquale, quando tutti gli uomini andavano in chiesa, alla matrice. Padre Alfonso attaccava dal pulpito con piglio deciso chi non perdeva l’abitudine di bestemmiare a ogni piè sospinto, quelli che dicevano di essere cristiani ma a messa tutte le domeniche non ci andavano e poi volevano fare da padrini nelle cresime o nei battesimi, tizio filano e martino che i dieci comandamenti non li rispettavano per niente ma erano in prima fila a portare l’abitino nelle processioni del santo protettore… Aveva deciso di scegliere questa vita per allontanarsi dal paese e conoscere facce nuove, dimenticare la delusione amorosa provata per colpa di Annicchia, la figlia di mastro Andrea il calzolaio. E poi non voleva finire a quarant’anni come lo zio e il nonno, piegati a novanta gradi dal lavoro di tutti i giorni con zappa, zappudda e zappuni. Avrebbe finalmente imparato a leggere e scrivere, lui che non sapeva neanche fare la o col bicchiere e diventava rosso se qualche anziano gli chiedeva di leggere una lettera. Mentre le femminucce andavano tutte a scuola, per lui e per gli altri maschi non c’era stato verso di convincere gnir pa’ a lasciarli andare alla scuola comunale, tenuta nelle case di Luminato Malleo dal maestro Di Pisa che veniva ogni mattina col carretto da Misilmeri o dalla signorina Ugdulena che arrivava da Palermo il lunedì e se ne tornava a casa il sabato. 59


Pensando a queste cose, Peppe percorse le strade e le piazze ancora deserte, evitando di correre per non fare troppo rumore. Non vide nessuno, neanche i carrettieri partiti qualche ora prima per andare a vendere verdura e ortaggi allo scaro di Villabate. Si avviò alla trazzera per attraversare il ponte di Passo Grande: il torrente Milicia, là sotto, era asciutto, perché dal mese di aprile non pioveva. Ci andava spesso in primavera, a prendere anguille seguendo il corso del fiume e andando a fare poi il bagno alla naca Lo Brutto con i fratelli o con il cugino Vanni, quando non andava alle acque calde di Cefalà Diana. Molti anni prima, mentre si asciugava al sole, aveva sentito da Japico, un pastore magro magro dai capelli a cespuglio, la leggenda della grotta di San Nicola nel Monte di Cane. Si diceva che ci fossero dentro tanti lingotti d’oro, ma erano riservati a chi avesse vinto una partita a bocce con gli spirdi che abitavano la caverna. Perdere, significava restare per sempre là dentro, vittime dell’incantesimo. Peppe ricordava come fosse ieri il racconto della truvatura e dei berretti rossi, ascoltato a bocca aperta e ad occhi spalancati molti anni prima. “Perciò: una volta c’erano sette fratelli, chiamati i Berretti rossi, sette briganti che vivevano alla macchia tra la Bacarìa e Villafrati. Tra le altre cose, avevano rubato un sacco di monete d’oro splendenti. Volevano nasconderle in un posto sicuro, al riparo da ladri e curiosi. Dopo aver fatto tante prove, andarono dietro un enorme masso alla timpa di Grassorelli, vicino a Bolognetta. Scavarono nottetempo un grande fosso e vi misero quel sacco pieno d’oro. Per non far capire che quel terreno era stato smosso, ammazzarono un giovane che stava andando in campagna, lo seppellirono lì e vi misero sopra una croce. Per avere la certezza assoluta che nessuno arrivasse al tesoro, fecero un incantesimo col 60


sangue di un rospo. Mentre lo facevano, il capo dei Berretti rossi disse a voce alta: - Questa truvatura la sbancherà chi sacrificherà sette maschi nati da una sola femmina. Ma chi era questo padre di famiglia che uccideva sette figli? Nessuno poteva avere il coraggio di farlo, e il tesoro rimaneva sempre là, a disposizione dei briganti. Loro erano convinti che nessuno li ascoltasse, ma non fu così. Dopo tanto tempo, ci fu il contadino Ciccu Peppi che aspettò che dalle uova di una stessa gallina nascessero sette galli. Li fece crescere, poi gli stirò il collo. La moglie Maranunzia, vedendo questa malaminnitta, lo prese a male parole. Perché ammazzarli tutti, se non c’era bisogno di mangiarli tutti in una volta? Il marito le parlò deciso: - O stai zitta, o ti prendo a nerbate. So io dove mi dorme la lepre… Guai a te se ne fai parola alle tue comari, altrimenti... Così l’indomani, nel silenzio dell’alba, l’uomo senza avvertire nessuno si alzò, si vestì, prese i galletti e uscì per la campagna diretto a Grassorelli. La moglie aveva il sonno leggero: aveva sentito tutto facendo finta di dormire e andò appresso a Ciccu senza farsi vedere. Voleva capire i suoi progetti e rendersene conto di persona. Cammina l’uno e cammina l’altro… Quando arrivò al ponte di Passo Grande, però, la donna al buio scivolò tra le pietre e il fango e senza volerlo gettò una voce. L’altro, sentendola gridare, tornò indietro e invece di prestarle aiuto, le diede una bella passata di legnate e la lasciò mezza viva e mezza morta. Anzi, no, non la lasciò: per evitare che lei lo seguisse ancora, la legò al tronco di un albero con la corda e la minacciò parlando a bassa voce: 61


- Se vuoi salvarti la pelle, statti dove sei e non muoverti. Al ritorno, passo io e ti sciolgo. Arrivato al grande masso bianco di Grassorelli, Ciccu, guardandosi attorno, andò per lasciare i galletti e prendere la travatura nel posto dove i briganti l’avevano seppellita. Appena si avvicinò, sentì una voce terribile: - Come ti chiami? E lui subito: - Ciccu Peppi! - Come, siete venuti in due? - Sono solo, mia moglie l’ho legata all’ulivo, vicino al ponte. La voce era interessata ad altre cose: - Li hai portati sette? Al che, l’uomo rispose con la formula magica che avrebbe sbancato la truvatura: - Da una femmina nascenti-sette veglianti-sette dormienti. La voce ribattè con ammirazione: – Tu sentisti-tu facesti-presto e lesto-riuscisti. Uscirono allora i briganti dal nascondiglio, lo abbracciarono e diedero a Ciccu il loro berretto. Poi gli dissero: - Vieni con noi, e sarai ricco! E la povera moglie è ancora lì che aspetta il marito”. Ricordando quella storia, Peppe aveva percorso soprappensiero qualche chilometro costeggiando il bosco degli Ulivi. Proseguì verso Baucina e Ventimiglia, attraversando colline punteggiate di pietroni bianchi pieni di muschio verdechiaro. Ad un certo punto si fermò, si tastò le spalle, si accorse di non avere più sulle spalle lo scappularu nero. Pensò di averlo perduto lungo il cammino e tornò indietro, avendo cura di rifare, senza sbagliare, la stessa strada. Non ricordava più se aveva sempre fatto la strada normale, più larga, con pochi sassi e pochi cespugli, o preso 62


la scorciatoia, piena di spine e roveti pieni di more, per evitare i tornanti. Non trovò il soprabito: era sparito nel nulla, come volatilizzato. Fu così che arrivò in paese, anzi davanti casa. Entrò, e non andò più in convento. La voce della sua partenza si era sparsa in poche ore, e poi si sparse altrettanto rapidamente quella del suo ritorno. Mastro Mario, il fabbro ferraio che parlava sempre in rima e inventava versi e canzoncine per ogni evento in qualche modo memorabile, non si fece scappare l’occasione, e coniò per il mio bisnonno la ‘nciuria, il soprannome. Da allora in poi, per tutta la vita e oltre, il mio avo fu per tutti Peppi ‘u monacu… Non c’era nulla da fare. Il mancato cappuccino dovette rassegnarsi a quel nomignolo, riferimento nostalgico a ciò che avrebbe voluto essere e non fu, ad un sogno finito per caso lungo i viottoli del bosco degli Ulivi. In fondo gli era finita bene: potevano appioppargli epiteti più cattivi e, l’intenzione degli autori, infamanti. Chessoio, fimminedda, oppure farfanti, tignusu, porcu ‘i Casachedda, o peggio. Bastava un gesto, una frase detta in un particolare momento, che eri bollato per sempre ed eri costretto a trasmettere agli eredi, oltre alla casa il materasso il baule le bisacce ed il cognome, anche il soprannome come ai tempi degli antichi Romani. A volte quest’aggiunta nasceva dal bisogno d’una distinzione tra consanguinei, come per esempio tra i nipoti di uno stesso nonno, tutti regolarmente omonimi e a volte con lo stesso anno di nascita, perché i padri e le madri avevano voluto onorare gli avi tramandandone col battesimo l’intero patrimonio anagrafico. Così se quattro cugini di età molto vicina si chiamavano Stefano Pantelleria, bisognava pur distinguerli l’uno dall’altro: uno veniva soprannominato ‘u 63


surdu, un altro negghia, uno non proprio altissimo menza razioni, e così via. C’era chi conosceva l’appellativo malizioso con cui lo chiamavano in paese, e lo accettava, scherzandoci su o facendo magari finta di non saperne nulla; c’era chi non lo accettava per niente e si offendeva a morte se gli altri lo usavano, cosa che capitava quando un bambino o un ragazzo lo pronunciava in presenza dell’interessato, scambiandolo ingenuamente col vero cognome. Altri nomignoli venivano dati dal vicinato o dai compagni di lavoro in base al carattere o a certi comportamenti: nascevano così vrurusu, filici, tosta, cadormi, battarìa, pauredda, calabrisi, birbanti, simmuluni, ballunaru. Un difetto o un pregio fisico anche minimo non passava inosservato agli occhi degli altri, e subito veniva applicato al portatore: patata, manuzza, iriteddu, manchetta, cacacavusi, perichiummu, nivuru, sanguignu, curidda, tistuni, testavascia, cudduzzu, vrazzeferru, surdu, beddu, funcidda, funciazza, taliancelu, pupiddu, arrobbapani. Chi la voce popolare accusava di aver millantato cariche ed onori si trovava a ricevere gratuitamente e vita natural durante dalla stessa titoli nobiliari honoris causa, come conte, marchisi, colonnellu, cavaleri, regina, lorsignori, menzasignura, muschitteri o veniva riconosciuto con termini presi a prestito dalla storia e dalla politica: menzu fascista, mussulinu, giummiddu, bixio, profuga, sinnacheddu. Ti scappava un balbettamento, un intercalare, un verso onomatopeico? Ed ecco che ti affibbiavano zichi-zichi, cheli-cheli, lallà, vevè, torololò, ‘nguarà, cipi-ciapi, lollò, dipò, papà, percui. Non mancava poi il ricorso alla botanica era per indicare donne o uomini (ciuriddu, piparedda, fraschi ri pisedda, viticedda, reppumaroru, vrocculu, pitrusinu), né era trascurato il regno animale. Ecco allora iaddazzu, , pecora, spinnacardiddu, 64


scursuneddu, schirpiuneddu, lupu, voi, vuiceddu, corna di crapa, papuzzana... Ma non c’era solo l’abitudine di che rinominare le persone. Qualche anno prima del viaggio di Peppe era stato cambiato il nome al paese. Era già successo in Basilicata, dove il comune di Salvia fu costretto nel 1878 a cambiare denominazione. Un anarchico del luogo, Nunzio Passannante, aveva attentato alla vita di Umberto I senza riuscire nell’intento omicida: fu punita l’intera comunità di origine, costretta a rinominarsi Savoia di Lucania per risarcire con sacrificio collettivo e permanente l’onore di sua maestà regnante. Anche Santa Maria dell’Ogliastro dal primo gennaio 1883 fu ribattezzata, certo meno poeticamente, Bolognetta. “Il fatto è - scrisse pressappoco il segretario nel verbale della riunione del Consiglio comunale riferendo quanto proferito con maggiore e altisonante dovizia di particolari dal sindaco pro-tempore Vincenzo Benanti - che ci sono in Sicilia ed in Italia troppi luoghi il cui nome richiama l’olivo selvatico. C’è in Sardegna l’Ogliastra, nel Cilento il comune di Ogliastro, tale e quale, mentre in Sicilia cinque feudi portano questo toponimo”. Una grande confusione, in cui erano coinvolti impiegati postali e comunali, commissari e luogotenenti, pretori e vicepretori, ufficiali esattori e agrimensori che equivocando tra un Ogliastro e l’altro producevano frequenti e continuativi smarrimenti epistolari, ritardi danni omissioni qui pro quo a non finire. Così annotò il funzionario, ma gli abitanti del paese e dei comuni limitrofi contermini e viciniori, e Peppe con loro, erano convinti che il motivo del cambio di pelle operato non si sa quanto spontaneamente e quanto volentieri dalle autorità andasse cercato in ben altra ragione, un peccato originale di massa molto più grave e terribile del mancato attentato al sovrano d’Italia: il sette e mezzo. 65


Il gioco con le carte che si fa durante le feste di fine anno, direte voi. Invece, non era stato affatto un gioco. Sei anni dopo la venuta di Garibaldi in Sicilia, a metà settembre del 1866, migliaia di regnicoli dei paesi intorno a Palermo e della città, in primis come sempre Monreale e Bacarìa, si erano lanciati all’assalto dei municipi, delle caserme, del catasto e delle esattorie. C’era stanchezza per gli ordini dei piemontesi venuti a comandare, con lingua e leggi poco comprensibili, in casa dei siciliani: il condottiero stesso, come i suoi accompagnatori e precursori La Masa Bixio Crispi Pilo Corrao, avevano promesso la terra ai contadini, più giustizia per tutti, istruzione e libertà. Ma, cacciati i Borboni, la situazione era rimasta invariata e i possidenti continuavano a tenere il boccino in mano. La leva obbligatoria, le tasse, il diritto di voto solo per i ricchi avevano fatto il resto. Anche ad Ogliastro furono giorni di sfogo, di rabbia, di rabbia sfogata contro i rappresentanti dello Stato fondato col plebiscito. Vi fu anche chi disse che qualche carabiniere aveva infastidito una donna del paese: ma è il solito pretesto e depistaggio, mettere in ballo questioni di donne per non dire la verità. La folla uccise nel corso di una sommossa tre militi a cavallo e poi diede l’assalto alla caserma, a due passi dal campanile della Chiesa madre. Un militare cercò di sfuggire ai rivoltosi indossando abiti femminili ma o per sua imperizia nel travestimento o per astuzia degli osservatori, o per entrambe le cause, fu scoperto e picchiato a morte. Altri due militi, nella regia stazione, si spararono per paura di finire torturati e massacrati. Nacque allora il canto popolare: O chi m’abbinni lària l’annu sissantasei! La mula juncìu a lu funnacu, juncemu a li nuvei. 66


Il mio bisnonno era troppo piccolo a quel tempo, ma gli avevano raccontato dell’arrivo delle truppe col fucile spianato, che venivano a mettere in tempi brevi le cose a posto, ad arrestare spesso a casaccio le persone note come più facili all’arrabbiatura. Tanti furono portati al carcere di Misilmeri, una decina alla Vicaria di Palermo. Peppe aveva saputo di quegli eventi quando crescendo aveva chiesto perché un angolo della piazza principale veniva chiamato vanedda ‘a furca, cantoniera della forca. In quel posto, qualche mese dopo il sette e mezzo, sedati gli animi e conclusa con una sentenza di morte l’opera del tribunale militare speciale all’uopo apprestato, furono impiccati due fratelli, di professione macellai, condannati per alto tradimento, saccheggio e assassinio. L’esecuzione avvenne vicino al malasenu, il magazzino grande quanto cinque case, dove c’erano le grandi botti di vino dei più grossi proprietari del paese. Non solo vino, ma olio, accatastamenti di frumento, carrube e fave dei signori Monachelli, avvocati, medici, notai, che dopo la caduta del feudatari principi di Trabia e Torrebruna avevano preso il loro posto nella vita del paesino. Peppe li conosceva bene, perché erano vicini di casa. I Monachelli avevano un palazzo a due piani con un portone che nessuno in paese aveva, con scale in marmo delle cave di Chipari, vicino ai ruderi di Chiarastella, marmo rosso con venature bianche come le balaustre della matrice. Alla sommità dell’edificio un bovindo, osservatorio in muratura con ringhiera in ferro dove si poteva prendere il sole da maggio a ottobre e da dove, col cannocchiale, i signori controllavano i braccianti che lavoravano al loro servizio nelle terre di Catalano, Lordica e Giampaolo, Pirainazzo e Cozzo rosso. 67


Peppe andava una settimana sì e una no, all’alba, nella piazza più grande del paese, e ci trovava i cugini e compare Gimì, che gli aveva battezzato il figlio Santo. Pure quest’ultimo, quindici anni dopo, si presentava ogni mattina in piazza aspettando l’ingaggio. Passavano di lì i soprastanti, gli amministratori che curavano gli interessi dei possidenti. Con la lanterna osservavano le facce degli aspiranti braccianti, che conoscevano bene, e decidevano chi portare in campagna per quella giornata, scartando gli invalidi, i vecchi, i rompiscatole ed i lagnusi. A fine giornata, si potevano portare a casa due pani e un po’ di verdura per sfamare la famiglia. Si lavorava per dodici ore e qualcuna in più nella bella stagione. Il curatolo o soprastante, che controllava i braccianti per conto dei Monachelli, dei Di Salvo di Tumminìa o dei Malleo, non era mai contento e non diceva mai di sua spontanea volontà che fosse ora di smetterla con la fatica e di tornare alle case. Per mettere in evidenza tale consuetudine, il solito mastro Mario o chi per lui aveva ambientato nei campi, all’ora del tramonto, un dialogo tra un bracciante e il curatolo. Il primo, prendendo il coraggio a quattro mani, incita un compagno: - U suli è ‘ntinni ‘ntinni chiama u curatulu e iamuninni. L’amministratore rispondeva con un altro distico: - U suli è mura mura, zappa, curnutu, ca ‘unn’è ura! Un altro poeta popolare aveva inventato la quartina da declamare nel febbraio 1918, durante il corteo di nonno Carnevale, pupazzo di paglia destinato ad essere bruciato in piazza alla fine della sfilata per le strade del paese: Millenovecentudiciottu, meti Masi ca lu tempu è asciuttu. 68


Cu av’a gghiri a travagghiari nni Lo Bruttu su po’ pinsari di matina mortu. Mio nonno Santo conosceva i metodi usati dagli amministratori dei feudi per far produrre di più i jurnateri: “Il soprastante la sera prima del lavoro – mi raccontava chiamava a solo ogni bracciante e gli prometteva un uovo come ricompensa particolare ed eccezionale se avesse messo grande impegno nel lavoro, per esempio nella mietitura. Poi, durante la giornata, quando la stanchezza e il caldo si facevano sentire, il soprastante gridava a squarciagola: - Attìa di l’ovu! Oh tu dell’uovo! Ognuno, a sentire quel richiamo, ricordava quanto aveva promesso e cercava di impegnarsi il più possibile per tirare la volata a tutti gli altri, facendo aumentare il ritmo di lavoro. E siccome erano stati tutti parlati, alla fine si assommava tanto lavoro e la resa della giornata era buona, con grande gioia del proprietario terriero”. Mio nonno o non volle partire per l’America né per l’Americargentina né per l’Americazuela, come fecero tanti in quel periodo. Prese la nave, invece, Carmelo, padre di mia madre, nel 1913, per tornare due anni dopo, allo scoppio della guerra. Nel giro di trent’anni, a cavallo tra ‘800 e ‘900, partirono da Bolognetta, che contava a censimenti non più di duemila anime, mille e ottocento tra uomini donne e bambini, a cercare fortuna e lavoro nella terra del dollaro. Se ne guadagnavano tre al giorno tra New York, la Pennsylvania e il New Jersey. Si usava fare il giro del paese la sera prima della partenza. Strada per strada, casa per casa, chi emigrava salutava tutti, e da quasi tutti ricevevano a voce o per iscritto l’indirizzo di un parente da andare a salutare, a Mobili strit o a Bruccolino, oppure un pacchettino con 69


qualcosa da regalare agli sposini o ad una neonata a ottomila chilometri di distanza, al di là dell’Atlantico. Il viaggio sul bastimento durava un mese, e si stava ammassati sottocoperta, spesso senza vedere mai la luce del sole o respirare l’aria dell’oceano da Palermo al molo 24 di New York. Mio nonno Carmelo tornò presto, perché non gli era piaciuta tanto, l’America. Si lavorava senza respiro e si spendevano tanti soldi per l’affitto, per il mangiare, per lavare la biancheria. Poi fu richiamato alle armi, allo scoppio della Grande guerra, e tornarono dall’America tanti suoi amici e coetanei. Come Benedetto Fiumefreddo, che fece ottomila chilometri, ma fu arrestato per renitenza alla leva: era arrivato con qualche settimana di ritardo, e la legge è legge. Mio nonno Santo partì soldato e lo portarono sull’Isonzo a tagliare filo spinato con la cesoia, assieme agli arditi che affrontavano la morte. Quarantadue bolognettesi caddero nell’inutile carneficina, mentre mio nonno tornò a casa in congedo permanente. Una bomba austriaca lo colpì, e ci rimise la mano destra. Da allora dovette imparare a zappare con la sinistra. Dopo il fatto, anche a lui fu dato dai concittadini un soprannome. Forse, chissà, anche per distinguerlo dal cugino con lo stesso nome e lo stesso cognome, soldato del decimo fanteria, morto un mese prima che finisse la guerra. Tutti in paese lo chiamarono ‘u zu Santu cu-na-manu. Santo Lombino

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Ancilina Ho trascorso buona parte della mia infanzia a casa dei nonni materni. Mio padre all'epoca faceva lunghe trasferte. Soldi ne giravano pochini, per cui ,mio nonno, tassativamente voleva che abitassimo da loro. Quando vedevo mio padre andar via, l'unico posto in cui volevo piangere era il collo di mia nonna. Dire che l'amavo è una cosa riduttiva. Avevamo un legame viscerale che andava oltre. Ho dei ricordi bellissimi fatti di odori, voci, sensazioni e racconti in cui non esistevano filtri. Vita, morte e miracoli si intrecciavano in un rituale squisitamente profano. La morte era un fatto naturale che non aveva senso nascondere. Anche se mia madre non era assolutamente d'accordo con “queste cose”. Eravamo lontani dai tempi della parola “Traumatizzare”. Fortunatamente non ha dovuto sorbirsi l'ingresso di questo vocabolo in quasi tutte le conversazioni attinenti ai bambini. 71


Non lo avrebbe sopportato. Per lei la vita era stata fatica, sudore, sacrificio. Quand'era piccola la sua buona dose di bastonate l'aveva presa. Era cresciuta sana, e aveva perfino sognato come tutti. “Per chi ha conosciuto la miseria -dicevai sogni sono come i vestiti: scuci gli orli, allunghi le maniche e se è il caso rivolti il tessuto per farli sembrare più nuovi. Man mano che crescevi te li adattavi addosso facendo mille rinunce. Forse non c'era poesia, ma dovevamo sopravvivere.” Altro che traumi e depressioni. Cadevi e ti rialzavi. Una delle sue abitudini predilette era quella di accendere candele. “Ogni tanto qualcuno si perde, ed allora accendo una candela. Una luce che illumini la strada. Che dia una risposta. O semplicemente un omaggio. Il senso del ricordo nel calore di quella fiammella che brucia.”. Guardavo con infinita meraviglia la cera che, colando, creava strani ghirigori. Si raccomandava sempre di non spegnerla. Doveva farlo da sola. In qualunque istante. Quando la candela si spense per casa si diffuse un odore strano. Ricordo che esclamai tutta priata: “Nonna! C'è odore di primavera. Lo senti?” Lei, con le lacrime agli occhi, mi rispose che era odore di ginestre. “Oggi è passata Ancilina.” Non feci in tempo a chiederle chi fosse perché squillò il telefono. Mio zio, dopo anni che non si faceva vivo, comunicava che il giorno dopo sarebbe venuto a pranzo. In vita mia lo avrò visto complessivamente quattro volte. La moglie la odiava profondamente, e lei, per quieto vivere del figlio, aveva accettato questa perdita prematura con un dolore immenso. Ricordo la faccia di mia madre con la cornetta nera in mano e le lacrime di mia nonna mentre tagliava patate e distendeva 72


sul tavolo gli straccetti di carne per farne involtini. In casa, il cibo, era un rituale importantissimo. La pura rappresentazione del “prendersi cura dell'altro”. La sera,venne da me e mi disse: “Lo so che mi aspettavi. Ora ti racconto chi è Ancilina”. Mia nonna e Ancilina si conobbero dentro ad un ricovero, poco prima che finisse la guerra. Durante quella serie di bombardamenti che distrussero Palermo. Era spuntata da un giorno all'altro insieme al suo fagottino cencioso di stracci. Aveva uno sguardo impastato di fame e disperazione. Diventarono subito amiche nonostante la “parracia”. Una donna sola, a quei tempi, dava adito a qualche commento poco rispettoso. Ma siccome a lei non importava, le spalancò le braccia e si spartirono fame, miseria e pidocchi. Mi raccontò che la guerra toglie tutto. Potevi sopravvivere solo se conservavi la dignità. Non essendo bravi a fregare il prossimo, non erano ricchi, ma un boccone per lei c'era sempre. Mio nonno, che dopo mesi era tornato dalla guerra, preferiva digiunare piuttosto che lasciarla a pancia vuota. Un giorno Ancilina si ammalò. Cercarono di curarla come potevano e con quello che trovarono. Ma non fu abbastanza. Mentre stava per morire chiese ripetutamente un prete per l'estrema unzione. Girarono e rigirarono ma non fecero in tempo. Per cui, la poveretta, morì senza i sacramenti. Per mia nonna cominciò un periodo fatto di incubi, digiuni e febbri continue. Era sempre inquieta. Il giorno in cui si riprese decise di impegnarsi la fede, le lenzuola e perfino la medaglia di mio nonno, per comprare delle candele. “Chi nuvità è?”- chiese lui. “Ha bisogno di luce per trovare la strada. Me lo sento nelle ossa e nel naso. C'è puzza di morte.” 73


Sorrise. Nell'arco della sua esistenza fu sempre dalla parte della moglie. Aspettava e pregava. Dopo che si furono consumate non so quante candele, accadde che l'ultima si spense da sola senza finire di consumarsi. Si sentì un fortissimo profumo di ginestre. Il fiore preferito di Ancilina. In quel momento mia nonna scoppiò a piangere e capì che la sua amata amica aveva ritrovato la strada. A grandi linee, questo è quello che ricordo di quella lunghissima storia, che serve a spiegare gli eventi caddero quel giorno a casa. “Ancilina mi pensa ancora. E ha voluto farmi questo regalo.” erika

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Bimbo/a è bello/a Nella mia memoria ho cercato racconti della vita familiare, ci sono molti aneddoti più o meno divertenti e anche no, ma non so perché quelli più prepotenti riguardano il sadismo che nei bambini è una componente non indifferente, proverò a buttare giù qualcosa. Problemi di spazio non mi permettono di raccontare tutto ma forse un giorno ci sarà il seguito

La stufa e il coltello Era pomeriggio forse del 1964, uno dei tanti in cui si condivideva il tavolo rotondo che occupava quasi tutta la stanza e che a seconda dell’orario assolveva a diverse funzioni, tavolo da pranzo informale, perché la stanza dei ricevimenti di adulti serotini era un’altra, con mobili più importanti e librerie con libri di giurisprudenza dal 700 in 75


poi, forse mai consultati da nessuno ricordo di un’antica famiglia di giuristi di Cianciana , quella paterna. Tornando al tavolo che a quell’ora serviva per il nostro studio più o meno affrettato, io ero assorta nelle mie frasi di latino quando lui mi guardò con un sorriso sospetto e mise una lama di coltello sul fuoco della stufa a gas e da lì la spostò sulla mia mano destra , io lo guardai attonita e ripetei il suo gesto senza proferire parola.

Il portone di campagna Il mese di settembre si passava in campagna a Castellaccio, distese di grano e vigne, senza altra vegetazione, a pochi chilometri da Ficuzza;, alla mia famiglia era rimasta solo una piccola casa délabrée ma per noi bambini era bellissima anche perché alcuni cugini materni trascorrevano parte delle loro vacanze con noi e spesso mio fratello ed io ci ritrovavamo a dormire nello stesso letto testa e piedi, adoravo la sera perché eravamo tutti insieme, il nostro soggiorno in campagna non contemplava adulti, i genitori ci lasciavano lì con l’amata Vincenzina e con Tania nostra 76


sorella maggiore, che avevano 10 / 12 anni più di noi . I giochi all’aperto sono sempre stati i più affascinanti perché la curiosità infantile porta sempre a cercare di divertirsi con quello che la terra offre. Ci si buttava nelle montagne di grano, che non ci apparteneva, tutto era du baruni , mio zio, il vecchio mulo Nino, la iumenta Julia e altro ancora, ma a noi non importava perché potevamo godere di questi beni mentre a barunissa e la sua famiglia non c’erano, in verità anche quando venivano in campagna; io sentivo però che Gnazio e Caterina, i mezzadri, cambiavano atteggiamento nei nostri confronti e che ovviamente le loro attenzioni erano tutte per i figghi du baruni. Ritorniamo comunque ai giochi creativi e ricreativi, esisteva un grande portone con in cima le iniziali arrugginite del bisnonno F. A., in origine rappresentava l’ingresso principale per entrare nella tenuta, ma quando noi eravamo piccoli restava sempre aperto e non sembrava ci fossero confini, per noi era comunque un punto di attrazione, sembrava altissimo e forse non lo era, anche le dimensioni da bambini si dilatano. Salivamo su una delle barre di ferro che lo rendevano più resistente e che seguivano il tradizionale disegno delle porte, dietro il portone c’era ancora una parvenza di muro bitorzoluto che separava la terra di nessuno dal cortile di famiglia. Era divertentissimo tenersi alla spessa barra di ferro che costituiva la chiusura del portone e farsi spingere avanti e indietro con un movimento altalenante, ma un giorno mentre era il mio turno di godere di questo dondolio, il portone non fu più accompagnato dal bambino che mi spingeva, lui decise di lasciarlo libero in questo movimento, la mia testa sbattè sul muro e il sangue cominciò a scorrere…. flora arcuri 77


"fate giocare questa bambina" ' ragazzini fate giocare questa bambina' questa frase, apparentemente banale, mi ha accompagnato e dato forza per tutta la mia lunga vita. A quei tempi, erano gli anni trenta, si abitava spesso in case d'affitto ed era divertente per noi bambini la novità della casa nuova. Mia madre era riuscita a tornare nel quartiere Notarbartolo che amava e che allora era un quartiere giardino periferico. La casa era a pianoterra con un piccolo giardino. I miei fratelli e sorelle grandi erano sempre fuori casa, per la scuola, l'università o a casa delle compagne, a studiare. Io restavo sola a casa con mia madre. Ricordo la sensazione di solitudine e la casa diventava silenziosa e quasi buia. Ma quel giorno di primavera,mia madre spalanca il balcone ed entra tanta luce. Ci sono tanti bambini che giocano per strada, mia madre si rivolge a loro e mi butta per strada, rendendomi felice. Per quei tempi era impensabile che una bambina giocasse per strada, ma l'alternativa per me sarebbe stata restare a casa pressoché sola e triste. Ricordo che ero consapevole che mia madre aveva compiuto nei miei confronti un grande gesto d'amore. Lei, in famiglia era forte e battagliera, ma con le persone estranee non parlava mai. Mia madre era sorda. Aveva perso l'udito in circostanze drammatiche, così come avrei capito più in là negli anni, perché lei non amava parlare della sua 'disgrazia', tant'è che io non avevo consapevolezza della sua'diversità'. Non era giovane, ma era bella con i bei capelli tutti bianchi. Se abbiamo cominciato a capire le nostre madri è, io credo, merito del femminismo. Per me, è stato così. 78


Sino ad allora, non avevo chiara la storia di mia madre, addirittura non mi interessava, sembravano tutte uguali spesso rompiscatole,ma non ci chiedevamo come mai i padri non ci fossero mai e toccasse a loro educarci. E' stato il bisogno di capire noi, che ci ha portato a volere capire anche le nostre madri e quanto fosse importante la 'genealogia femminile'. Agli inizi del novecento, a Palermo,esisteva un movimento emancipazionista, erano un numero ristretto di donne che frequentavano l'Università, ne faceva parte anche mia madre che ne 1904, si era diplomata all'Accademia di Belle Arti. Aveva iniziato a insegnare, perché reputavano importante l'autonomia economica. Ma le nostre donne sapevano che, con il matrimonio tutto sarebbe stato difficile. Mia madre ebbe tre bambini a distanza ravvicinata e dovette abbandonare l'insegnamento, sperava temporaneamente. Ma una fatalità le impedì per sempre di realizzare il suo progetto di vita. Per una banale caduta dal letto muore, a soli due anni, il più piccolo dei bambini. Questa triste storia l'ho appresa dalla maggiore delle mie sorelle, perché mia madre non ne aveva mai parlato (più tardi lo avrei capito benissimo). Seppi che era caduta in depressione e il medico di famiglia suggerì che sarebbe stato opportuno che riprendesse l'insegnamento. Il destino volle che avesse la Cattedra nel paese di Lentini, in una zona allora paludosa. Si ammalò di malaria che le fu curata con dosi massicce di chinino che la resero sorda. Con la sordità finì anche il suo sogno di insegnare e di autonomia. In seguito siamo nate noi tre figlie femmine (io ero la minore). Su di noi mia madre proiettò tutto il suo sogno negato di autonomia. Con grandi sacrifici anche economici, 79


volle che frequentassimo l'Università e ci laureassimo, ma, per me, il ricordo più bello di mia madre rimane quel giorno di primavera quando decise che la sua bambina doveva giocare con altri bambini e non stare da sola con una mamma sorda. beatrice mortillaro

NELLA FOLLA, ALESSANDRO Un fratello ce l’ho, si chiama Alessandro. Lui porta le bretelle, si taglia i capelli da sé, e ha una vespa e un cavatappi. Con quello ci stappa le birre, e beve. Cammina come i maschi, e si mette vecchi maglioni del padre. Suo padre non è mio padre, ma ci assomigliamo assai lo stesso, in umorismo e lacrime. C’era un tempo in cui abitava qui vicino, in via Venezia. Mi bastava poco per arrivarci, e salendo le scale, trovavo la porta aperta. Lì c’era un divano, un liquore al caffè e un piano. Mio fratello scrive canzoni, come me. Mi ha insegnato a mettere più parole e più armonie. Lui solleva la mia energia e abbassa la mia pigrizia. Dice che lo stesso vorrebbe farlo per sé, ma per quello lo aiuto io. Una volta gli ho detto che ha un cognome bellissimo, e che avrei voluto fosse anche il mio. 80


Lui ride a queste scemenze, ma da piccolo voleva il buffo cognome della madre. Sua madre non è mia madre, ma per somigliarci ci somigliamo, in pensieri e illuminazioni. In via Venezia ne abbiamo avute tante; là batteva un sole speciale. Una volta mi ha detto il perché io non sento il bisogno di credere in dio. Era un motivo strano, adatto a me, e stetti ad ascoltarlo a lungo. Nella sua casa, quell’inverno, stava accesa una stufa molto piccola, ma di un calore immenso. E una sera, lì, ascoltammo La foule, di Édith Piaf. Il pregiato stereo di Ale riempì via Venezia di voce e valzer. Io conoscevo bene le parole, e gliele raccontai. – Questa canzone parla di una coincidenza – dissi parlando forte assieme alla musica – c’è una piazza con una grande, grande folla di sconosciuti, e la folla strattona e trascina due che stanno lì in mezzo, come fa la vita. E a un certo punto li fa incontrare, ed unire. Ma la folla non sa niente di loro, e per come li avvicina, poi li trascina ancora e li divide, come la vita – Ascoltammo La foule qualche tempo prima che partisse. Taa - ta ta, taa - ta ta, fa la canzone; si presenta in punta di piedi e poi diventa un’orchestra. Ad Alessandro han dato una cattedra via da qui, e già da tempo è lontano da via Venezia, da me e dal resto della larga famiglia. Da Giorgio, Ciccio, Mauro e Flavia. E Michele, Pietro, Viola, Andrea e Vicé. Ma i maestri d’estate tornano, e come l’anno scorso, quest’estate chiederò a mio fratello di passare un po’ di tempo con me, ché è tanto che non lo vedo, e Alessandro, no, non è un tipo che è lo stesso parlargli al telefono. 81


Lui dice – Abbracciamoci… – poi mi carezza la testa e torna a bere la birra.

CHE FINE HAI FATTO, LEONARDO? Avevamo un miliardario come amico di famiglia. Non lo so che cosa gli si mosse dentro, giacché non ci si vedeva quasi mai, ma c'invitò ad andare con lui su Marte. Il surriscaldamento della Terra, nel giro di un lustro, era arrivato a picchi insopportabili, e le uniche popolazioni ancora vive erano quelle dei paesi vicini ai poli. Fra esse c’era anche la mia famiglia, sempre più accalorata. Si camminava in mutande persino in strada e se negli ascensori si discuteva di clima – un tempo noioso argomento di circostanza – ora lo si faceva battendosi il petto. I tg non parlavano più di spread e altre simili ridicolezze, ma solo dei viaggi in massa che ogni fine settimana depositavano i sopravvissuti verso il Polo Nord e il Polo Sud. Si diceva che i due poli rappresentassero una ragionevole soluzione per riuscire a vivere altri dieci anni. A fare quel conto elementare, impiegai stranamente qualche secondo più del dovuto. Io sarei dunque morto a trent’anni; i miei genitori a circa sessanta. Mio padre diceva che il clima era impazzito nella mia generazione, e che i suoi anni migliori, alla fin fine, se li era fatti. Anche il miliardario se li era fatti: era un suo vecchio compagno di scuola. La differenza fra loro era che mio padre era un addetto agli spala-neve e il miliardario era il proprietario di enormi imprese di spala-neve. Giacché la parola neve non veniva più pronunciata neanche dagli eschimesi, mio padre era riuscito ad ottenere una pensione minima detta “pensione climatica”, mentre il miliardario si godeva gli interessi 82


fruttati dai soldi che la neve gli aveva fatto accumulare. Questi risiedevano nelle stupide banche del paese. Le banche avevano indugiato un bel po’ nel concedere agli impiegati di togliersi camicie, cravatte e pantaloni a favore di canotte e calzoncini. Per quei disgraziati m’ero mosso anch’io manifestando a fatica sotto i brucianti raggi solari. Il destino di noi tutti ad ogni modo ero lo stesso: affollare l'ultima parte di pianeta che sarebbe comunque diventata brace da lì a dieci anni o morire più presto nella propria. Oppure, sì, andare su Marte. Lì dei ricchissimi potenti avevano fatto costruire una gigantesca cupola climatica sotto la quale vivere al meglio, ma partiva soltanto chi possedeva le colossali cifre per il viaggio spaziale. – Che stagione avranno scelto sotto la cupola? – chiesi a mio padre. – Quella che è diventata la nostra chimera: l'inverno – mi disse. – Chissà se quel volpone di un miliardario è già in viaggio – si chiese mia madre. – Per la prima volta tutti i suoi soldi gli sarebbero davvero utili a qualcosa! – esclamò mio padre. Ci mettemmo a ridere dopo queste parole, perché pensammo al suo vecchio compagno di scuola, da sempre un miserabile. Si trattava di un miliardario abbastanza banale: grossolano nei modi, pieno di un sé ignorante, che utilizzava la maggior parte delle sue energie nel guardare dall'alto in basso. Il cliché veniva completato da una vita pressoché triste, giostrata dai tipici opportunismi vari: falsi amici ricchi quanto lui, donne adornanti i loro yacht, piscine e via dicendo. 83


Ne parlammo per un po’ facendo le solite considerazioni, ma questa volta la sua vita triste sembrava avere un chiaro vantaggio su quella di gente come noi: lui avrebbe potuto salvaguardarla molto più a lungo, noi no. – È andata così – disse mio padre – la salvaguardia dei miliardari marziani! – ironizzò. – Magari fra qualche tempo ci saranno viaggi low cost anche per noi – rise mia madre – tutto viene sempre svalutato, prima o poi! Di contro a quello bollente che tanto deprimeva, questo fresco clima familiare ci dava ancora da tirare avanti. In quel momento squillò il telefono. Era giusto il miliardario. Trovandosi dalle nostre parti, chiedeva di venire a farci visita. Mio padre arrossì un istante con l’orecchio alla cornetta, e chiuso il telefono non rinunciò a dire che, di certo prossimo a diventare marziano, il miliardario aveva già acquistato importanti poteri sensoriali. Non lo vedevamo da una vita, e quando si trovò davanti a noi, sembrò impacciato per via del suo aspetto di gran lunga peggiorato. Guardava sempre dall’alto in basso, ma c’era da chiedergli quanto riuscisse a vedere, data tutta quella pancia. Ciò nonostante, il suo approccio fu molto diverso. L’insopportabile caldo in qualche modo aveva cambiato tutti; non saprei dire se in meglio o in peggio: di certo era un meccanismo a togliere. Si ottimizzavano le energie, ognuno lo faceva a suo modo. Lui ne aveva tolte a quegli atteggiamenti da grande ricco, da sempre mantenuti e coltivati con passione. Il terribile clima gli aveva dunque giovato, si potrebbe dire. Molto sorridente, andò subito al punto. In una delle sette navicelle in partenza per Marte avrebbe viaggiato anche lui. 84


Descrisse a lungo le varie dinamiche: il luogo del lancio, la durata del viaggio, i nomi degli altri miliardari, grandezza e grandiosità della cupola, ma il tutto col nuovo e paradossale tono che lo caratterizzava, e cioè da normale uomo in terra, opposto a quello vecchio, proprio ora che andava su Marte. Il viaggio costava una cifra da capogiro, le sette navicelle erano grandi, ricche di confort e via dicendo. Avrebbe viaggiato col suo cane, il cui biglietto valeva mezzo capogiro. Mio padre finalmente intervenne: – Bene. I pochi che possono, che lo facciano. È la soluzione più strana, e insieme la più affascinate. Ti auguro buon viaggio! Forse stava ottimizzando il fiato: lo usò per poche parole ma buone, risparmiandone su quelle cattive. Oppure, intanto, pensava al perché dovesse dirne di brutte: il suo vecchio compagno di scuola s’era fatto i miliardi e andava su Marte; noi no e restavamo sulla Terra. Non c’era da battere ciglio, ma a una cosa poteva appigliarsi: in una situazione terrestre così disperata, l’indelicatezza di venircelo a comunicare. Fu mia madre ad afferrare la zattera della legittima lamentela, ottimizzando lo sprezzo in ancor meno parole: È bello tu vada su Marte. Giacché sei venuto a parteciparlo, immagino ci manderai una cartolina! Il tono parve trionfale e si alzò persino dalla sedia, come a chiudere il discorso marziano. Fu allora che il miliardario svelò la reale natura della visita. Per quanto cambiato, s’era naturalmente voluto godere una prima reazione comprensibilmente stizzita da parte nostra. Non lo biasimo per questo: visto quello che aveva da offrire, anch’io, al suo posto, avrei scelto il momento migliore per un colpo da teatro. 85


Ci disse che era sua intenzione portarci con lui. Tutto a sue spese, tutto lui, tutto questo e tutto quello. – Siamo ancora giovani – finì col dire – e Leonardo, poi, è un ragazzino! Io non ho famiglia, e voi siete i miei unici amici! Siete le persone migliori che conosco, siete tutto per me! – tirò un sospirò e proclamò – Siete voi la mia famiglia! Il sentirmi nominato mi mise in confusione. Guardai i miei genitori e notai che non erano affatto a disagio: s’erano già illuminati, impassibili all’imbarazzante patetismo del grasso riccone. Lo guardavano fisso negli occhi come in un improvviso incontro di anime. Eravamo tutto per lui? Eravamo la sua famiglia? Io dovetti abbassare la testa, ma bisogna ammettere che della famiglia, la mia, ero sempre stato il meno pratico. Nonostante tutto, ebbi, sì, il bisogno d’imbarazzarmi per tutto quel fuori luogo che mi stava venendo a favore. Da lì a pochi istanti ascoltai i miei genitori chiedere a bassa voce altre informazioni: – In che data si partirebbe? – sussurrò mio padre. – Che tipo di vita si farebbe su Marte? – quasi bisbigliò mia madre. Parlavano in modo impersonale, non ancora di loro stessi, e ciò mi piacque. Scorsi un minimo di piedi per terra, sulla nostra terra. Ma mi sentii cattivo ad osservare le cose nel modo in cui stavo facendo: la loro reazione era, certo, comprensibile. Era la salvezza. Scrollai la testa e dissi che uscivo a fare due passi. Togliti la maglietta! – disse mia madre, riconsegnando subito l’attenzione al miliardario. 86


In ciabatte di corda, boxer blu e torso nudo, guadagnai il supermercato calcando il sentiero che lo separava da casa mia, e comprai un ghiacciolo all’arancia. Mentre lo gustavo - e mi toccò farlo in fretta, perché uscito dal frigo gocciolò subito copiosamente - ripresi a camminare sudando verso casa. Fino a cinque anni prima, su quel sentiero cadeva ancora un po’ di neve, e io lo percorrevo mangiando calde patate dolci con i miei amici. Loro si erano trasferiti al Polo Nord, con le loro famiglie, già da un mese; la mia diceva li avremmo raggiunti da lì a poco. Là avremmo continuato a mangiare ghiaccioli, e mai più calde patate. Pensai ai cambiamenti. Poi alla vecchia legge del tutto che cambia ma che niente ha mai una fine. Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma, diceva. Una legge rassicurante. La legge del tutto. La trovai la legge salvaguardante per eccellenza, ben oltre la salvaguardia dei miliardari. Guardando nel vuoto, però, mi vennero in mente tutte le cose che alla bella regola avrebbero fatto eccezione. La terra, i liquidi, flora e fauna, tutto ciò che finora era vissuto ed era morto s’era rimesso in circolo nel tutto. La questione del concime, via. Ed era tutta materia: quella legge consolatoria valeva soltanto per la materia. Quel giorno mi chiesi dunque dove sarebbero finite tutte le cose che materia non erano. Filosofia, musica, pittura, letteratura. Ma non pensai a libri, spartiti o quadri. Quasi tutta la roba di questo tipo era già bruciata sulle terre colpite per prime dal surriscaldamento. 87


La Gioconda, ad esempio, non esisteva più, e la si poteva persino immaginare tornata nel circolo: tela e olio da concime; ma l’idea che ancora ne si aveva? Quella, dove sarebbe finita? Noi islandesi sapevamo e apprendevamo ancora cosa fosse la Gioconda; la si continuava a studiare nelle scuole. Roba intramontabile, importante, da sapere. E io mi chiamavo Leonardo. Mia madre coltivava da sempre un amore viscerale per l’arte italiana e mi aveva chiamato col nome di uno dei suoi più grandi maestri. Pensai che ciò che i grandi maestri avevano da sempre rappresentato, s’era mantenuto vivo grazie a una legge molto simile a quella che riguardava la materia. Una legge per Platone, Beethoven, Shakespeare, Leonardo. La loro grandezza aveva trovato in noi i mezzi attraverso cui resistere nei secoli, e succedeva ancora, anche dopo il surriscaldamento. Poesie, romanzi, trattati filosofici, sculture, quadri e sinfonie rappresentavano ancora una certezza al di là della loro scomparsa; le figure dei loro creatori si mantenevano punti di riferimento assodati. Nel pianeta non c’era dunque soltanto materia che non si crea, non si distrugge ma si trasforma, ma anche tanto altro di ugualmente tangibile, di certo, che ancora si divulgava. La si poteva chiamare…Legge della divulgazione certa. Ebbene, l’unica certezza che sentii quel giorno fu che il nostro pianeta, fedele alla sua di legge, si sarebbe trasformato in una palla di fuoco, diventando il qualcos’altro di ciò che era stato prima. Con ancor dentro tutti noi, trasformati. 88


Le certezze letterarie, artistiche, musicali, invece, che fine avrebbero fatto? Senza più coloro che le avevano in mente, si sarebbero azzerate. La loro legge, da sola, non le avrebbe salvaguardate. Che la bella e misteriosa Gioconda fosse da sempre uno dei classici della pittura era un fatto della Terra. Ma per quanto indiscusso, innegabile, indubbio, non si sarebbe distrutto e trasformato: avrebbe semplicemente smesso di essere un fatto. Pensai che su Marte, i miliardari sotto la cupola, con le loro grasse pance e la loro pazza lotta per la vita, non si sarebbero preoccupati anche di Leonardo. Mi fermai un istante, e pensai a lui. Leonardo, con la sua morte, aveva concimato il pianeta che chi poteva si stava preparando ad abbandonare. Di concime ne era stato anche da vivo: concime per le menti e via dicendo, ma il punto era proprio quell’altro. Evidentemente, era la legge della materia a risultare quella eterna. Io ero un ragazzo di vent’anni, ammetterei sveglio e riflessivo, a detta dei miei amici divertente, e che sapeva dire una parola in più la maggior parte delle volte. Sveglio, riflessivo, divertente e con una parola in più come miliardi di altri ragazzi morti prima di me anche quando il sole aveva per secoli scaldato piacevolmente e da noi c’era ancora tanta neve, e su Marte non c’erano cupole. E non amavo particolarmente viaggiare. E cos’era che spaventava tanto i ricconi che se la davano a gambe verso Marte? La certezza della morte sulla Terra? Ma la certezza, non aveva da sempre rappresentato qualcosa di rassicurante? 89


E la morte non era da sempre naturale? La legge parlava chiaro: l’idea che di Leonardo e degli altri come lui s’era così a lungo mantenuta avrebbe avuto fine, ma il suo corpo era già diventato buon concime della terra che lo aveva generato. La casa lo aveva riaccolto e lo aveva trasformato. E così avrei fatto io. Sarei restato a diventare concime della palla di fuoco, la mia casa. Gettai sul terreno la stecca di legno che aveva tenuto il ghiacciolo e tornai dai miei genitori. Stavano ancora ottimizzando col miliardario il numero di valigie da portare dentro la navicella. Noi, naturalmente, le meno possibili. Mia madre avrebbe dunque coscienziosamente lasciato a bruciare i suoi amati libri d’arte, per far posto alle necessarie priorità. Avrebbero fatto a modo loro; erano liberi di scegliere, come me. Picchiettai la spalla di mio padre, aspettai l’attenzione di tutti, e con voce ferma e certa dissi – Io non vengo. annalù pusateri

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La Cappella di Mazzarino Dove sono Vincenzo, Domitilla, Mariolina, Ignazio, Giacomo, Angioletta, Maria Antonia, Carletto, Giovanni, Ercole, Michele, Filippa e Ippolito; ovvero: Banchiere, Sonnambula, Ribelle, Iattura, Superman, Achepensi, Disìo, Money, Sua Eminenza, Potenza, Finocchio, Madunnuzza e Accavallo? Tutti, tutti dormono nella Cappella. A metà del viale, prima che inizi la discesa, dopo un susseguirsi più o meno armonico, di certo monumentale, di tombe, lapidi e templi ferali e gentilizi, attorniata da cipressi, la Cappella De Bortoli occupa un largo spazio. Quello che si conviene al rango stesso della famiglia. Perché è così che funziona: se sei potente in vita, almeno un po’ di quel potere, o piuttosto l’importanza del nome, lo vuoi mantenere pure da morto. Erano Principi di Resuttana e Marchesi di Buonfornello. I viddani, i braccianti – voglio dire –, molti dei quali avevano lavorato per la Famiglia, li avevano soprannominati principi delle mie sottane e marchesi del fornello. Pare che la ’ngiuria risalisse al capostipite, gran fimminaro e buona forchetta. Lo stemma aveva tre stelle e una sigla: FSB. Pare significasse: fulgida, semper benefica. I viddani tradussero: fanno sempre baccano. Che fine fecero? Uno morì in un incidente aereo. Una trapassò nel sonno. Una finì dopo l’estrema unzione. Uno si ammazzò. 91


Uno fu ammazzato. Una spirò che era ancora troppo giovane. Una inseguendo l’amante a Londra. Uno di crepacuore perdendo al gioco. Uno in Tailandia dopo un massaggio. Uno di raggia, sconfitto alle elezioni. Uno di infarto, che gli si era rotto uno specchio. Una quando l’Angelo bussò. Uno quando Bacco e Tabacco lo fregarono. All’interno della cappella, lapidi di marmo grigio, pregiato marmo siciliano, recano un’epigrafe.

Vincenzo De Bortoli Fondò una banca e fu per sempre il Banchiere. Molte femmine del paese lo vollero, ma nessuna corrispose al suo modello. Soleva dire che non è tutto oro ciò che luccica e rimase povero d’amore. Bruciò in aereo.

Domitilla De Bortoli Malaparte La Famiglia la diede in moglie al Conte Malaparte che aveva diciassette anni più di lei. Si sposò che era signorina ranni e, tra che lei era grande e lui più di lei e sappiamo come funziona – o, meglio, non funziona –, non ebbe figli. La servitù diceva che la notte vagava come una sonnambula. La verità è che soffriva di insonnia. Rimase vedova e continuò a non dormire. E a non copulare. Si spense nel suo letto mentre dormiva.

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Mariolina De Bortoli La vocazione le venne in soccorso quando le dissero che doveva andare in sposa all’ultimo dei fratelli Pensabene, il più scimunito e pure senza titolo. Che non gli spettava. Non si adattò alla vita claustrale. Ogni scusa era buona per tornare dai parenti. La chiamarono la Ribelle disgraziata. Che poi disgraziata lo fu davvero, tranne che alla morte. Si era appena confessata e morì senza peccato.

Ignazio Camilleri De Bortoli Mamma Rosina lo aveva cresciuto con tutto l’amore di cui era capace. E Rosina ne ebbe molto, anche perché per lei l’amore era l’unica risorsa per sopravvivere. Il padre lo riconobbe solo alla morte e gli lascio pure l’eredità. La sua vita fu comunque un incubo e nel paese lo chiamarono Iattura. Lo trovarono appeso a una trave di legno.

Giacomo De Bortoli Già quand’era ragazzino stupiva tutti per le misure. E a chi non gli credeva glielo dimostrava con il metro. Quello da sarta, che poi arrotolava e rimetteva nella tasca. I compagni lo chiamavano Superman, le ragazzine mostro. Più tardi le signore lo chiamarono anch’esse Superman. E per questo fece molti sgarbi in paese. Pure a Cecco Frangipane, marito della cugina Maria Antonia. Che non lo sopportò. Lo evirò quando tornò dal viaggio a Londra. Morì dissanguato.

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Angioletta De Bortoli Nei pochi anni che durò la sua vita, cercò sempre di essere la prima in tutto. Madre Natura, che l’aveva dotata di una bellezza fuori dal comune, non fu altrettanto generosa con l’intelletto. Achepensi, così era ‘ntisa, non poté mai coronare il suo sogno. La madre disse che non ne ebbe il tempo. Aveva diciannove anni quando attraversò la strada senza guardare. Qualcuno disse che era appena passato Iattura.

Maria Antonia De Bortoli A vent’anni sposò Cecco Frangipane ed ebbe otto figli. Nel paese si diceva che dal marito ne avesse avuti solo due. Gli altri erano del cugino Giacomo. La sua brama era tale che Disìo, questa la ‘ngiuria, lo seguì pure nel Regno Unito. La porta della metropolitana la stritolò mentre inseguiva Superman che ne era sceso. Troppo tardi ne aveva varcato la soglia.

Carletto Frangipane Di furbo era furbo. E la furbizia non gli veniva certo dal padre che si faceva fare cornuto da Maria Antonia, detta Disìo. Riuscì a farsi una posizione, quella che il padre aveva invece sperperato. Per Money i soldi erano la vita. Una sera, per ingordigia, perse tutto al gioco. Un malore lo stramazzò sul tavolo verde. Perse anche la vita.

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Giovanni De Bortoli Fu sindaco di Mazzarino, deputato del Parlamento siciliano e Ministro degli Esteri per la Repubblica Italiana. Sua Eminenza in paese non ci stava mai e che fosse pazzo di femmine lo sapevano tutti. Zio Vincenzo Banchiere glielo disse sempre di andarci piano e che le donne sono pericolose. Andò con una delegazione in Tailandia. Fu accolto con troppi onori. Un massaggio erotico, anziché ringalluzzirlo, gli fu fatale.

Ercole De Bortoli Fratello di Sua Eminenza, voleva calcarne la strada costellata di successi. A suo dire era il Padre eterno. Per questo lo chiamavano Potenza. Quando perse le elezioni a sindaco, per la raggia e il disonore, scappò a Capo Nord. Si dice che si fece il bagno e si ammalò. Morì di polmonite anche se non ci muore più nessuno.

Michele De Bortoli Di bastardo era bastarda e, Superman, non lo riconobbe. Il nome della Famiglia gli spettava lo stesso per via di Disìo, la madre. Si sentì sempre sfortunato. E tutta la vita pensò al malocchio. Disìo un giorno lo scoprì agghindato a rimirarsi. Si disse che era il castigo di Nostro Signore. Presto in paese si seppe. E per tutti divenne Finocchio. Conobbe un olandese, Raymond, bello come il sole. Lo seguì. 95


Fu l’ultima barba della sua vita quando gli cadde lo specchio e assantumò. Non superò il trauma.

Filippa De Bortoli Reccavallo Sin da bambina si seppe che offriva fioretti alla Madonna. Per questo fu ‘ntisa Madunnuzza. Maritò il Cavaliere Reccavallo di Vittoria. Che non le diede figli, ma tanti pensieri. Rimase vedova a quarant’anni. E, sia che era troppo buona, sia che fece un fioretto per l’anima di suo marito, a Desiré, che non veniva figlia a lei ma al marito sì, le fece il corredo, la casa e la maritò. Quando il Signore se la chiamò, Desirè disse che un Angelo aveva bussato alla porta.

Cavaliere Ippolito Reccavallo Andò in sposo a Filippa De Bortoli Madunnuzza. Fu molto conosciuto fra le meretrici; la sua ‘ngiuria fu Accavallo. Pina ‘a stracchiulara gli diede una figlia, Desiré, e lui l’amò e la rispettò. Prima di esalare, gliela raccomandò pure a Madunnuzza. Bevve e fumò che il suo motto fu Bacco, Tabacco e Venere. Gli venne l’enfisema e morì di cirrosi. E alla fine resto io, ‘a megghiu. Che nella Cappella non ci potrò andare. Che spetta solo ai maschi e alle loro femmine. O sennò quelle, della famiglia, mai maritate. Che resta il nome e la dote. E questo conta più del sangue e dell’amore. 96


Di morire non ne voglio sapere e campari mi piaci assai. Che m’addiverto cu l’amici e cui parenti. Che, pure che non me li scelsi, ci vogghiu bene. A famiglia è famiglia e gli estranei è n’atra cosa. Nun vi dico chi mi fu patri e manco ‘a matri, che di parlare poco mi fu insegnato e l’ordine non ho mai violato. ‘Nca picciò? Così è. Se vi pare, oppure no. antonella bartoli

Ma perché invitavi tutti a pranzo la domenica? Di norma cominciava tutto prima delle 8, quando per ogni bambina normale in vacanza estiva dalla scuola era praticamente l’alba. - “Simooneee! Gianfrancoooo! Stefaniaaaaa, Stefààààà!!! Alzatevi!… Fraaaanco la vuoi fare alzare a tua figlia??” Radio a tutto volume, mai sintonizzata su un tranquillo canale di musica classica, ma sempre e solo sul radiogiornale, forse a ricordarti che nel mondo accadevano cose ben più gravi della giornata che ti accingevi a vivere e lei che vagava dentro e fuori casa, già freneticamente attiva, sveglia da ore, ripetendo in stile litania: - “Io già sugnu stanca ri prima matina. Nuddu ca m’aiuta! Sugnu stanca, stanca, stanca!!”. 97


Mentre lei sbraitava così io mi alzavo a fatica, i capelli scombinati, gli occhi cisposi che si aprivano su una domenica già assolata e fragorosamente pervasa dal frinire dei grilli. Prendevo a poco a poco coscienza che lo strepito, le urla, l’isterismo di prima mattina, erano tutti chiari segnali che quella era una di QUELLE domeniche, quelle domeniche estive in cui mia madre aveva invitato i parenti in campagna. Erano domeniche, in verità quasi tutte le domeniche, in cui mia madre aveva previsto non due o tre invitati - una coppia di zii senza figli o la cugina zitella – ma sempre e solo rigorosamente tutta la sua famiglia: lo zio Enzo e la zia Maria con Mariella, Antonella, Cinzia e Patrizia; la zia Maria e lo zio Mimmo; la zia Anna e lo zio Mariano con Sara, Paolo, Mariella e Pippo; la zia Gina; lo zio Salvino con la zia Erina, Mirella e Rossella; il nonno. A questi venti invitati di rito, a volte, non contenta, lei, nell’arco della settimana precedente, si era sentita in dovere di aggiungere qualche cognato/cognata e famiglia dal lato paterno (parenti mai tanto amati come i suoi), in modo da raggiungere la modica cifra totale di 30-35 persone per il pranzo domenicale. Avevo 9 o 10 anni, erano le 8 del mattino, e sapevo già che stava cominciando l’incubo: la struttura della giornata la conoscevo già, e sapevo che quantomeno fino alle 2, fino a che non ci saremmo seduti a tavola, sarebbe stato l’equivalente di una mattina in un campo di lavoro siberiano. Ho detto Siberiano? No scusate, mi correggo: in un campo di lavoro hitleriano. In Siberia non esistono i gulag, Stalin ha salvato il mondo dal nazismo e nell’URSS si vive benissimo. Che volete ci troviamo comunque nella casa di campagna di una famiglia di comunisti incalliti, siamo negli anni ‘70, e il mito dell’Unione Sovietica è ancora del tutto intatto. Papà era sindacalista e aveva fondato la Camera del Lavoro del 98


paese, lo zio Mimmo segretario della Federbraccianti, e via via giù a scendere fino al nonno ultraottantenne che era stato trasformato in elettore di sinistra dopo la seconda guerra mondiale, convincendolo che mettere una croce nella scheda elettorale sulla falce e il martello significava votare per la monarchia. Solo lo zio Salvino era sempre stato democristiano, non si sa bene perché: papà e lo zio Mimmo avevano provato a redimerlo parecchie volte ma con scarsi, scarsissimi, risultati. Lui così era sempre un po’ l’elemento estraneo della famiglia: accettato perché quantomeno non era diventato juventino ed era rimasto interista, ma guardato con sospetto e anche con strafottenza, come chi ha ceduto alla tentazione democristiana per pura debolezza di carattere, o per bisogno familiare, magari semplicemente per trovare lavoro. Redenzione o non redenzione una cosa era certa: lo zio Salvino la domenica mattina sarebbe arrivato in ritardo perché lui la Domenica andava a messa, “è amico ru parrino…”, e giù altri sorrisi di strafottenza e battute sul suo essere democristiano per debolezza. Nel campo di lavoro, in attesa degli invitati, il clima alle 8 e un quarto era già rovente. Per mia madre, alle 8 e un quarto, dovevi avere già bevuto il latte ed esserti lavata e vestita per la fase successiva: la sistemazione della casa. Era da quel momento in poi che io, come quasi ogni domenica mattina estiva, cominciavo a vagare per casa in attesa di istruzioni, chiedendomi “ma perché invita tutti a pranzo la domenica?”. Già dalle otto e un quarto intanto lei ti ricordava che, nonostante la famiglia fosse comunista e quindi apparentemente moderna e avanzata nelle questioni riguardanti i ruoli e i sessi, a casa sua valeva la sana tradizione meridionale: le pulizie le fanno le femmine. Mentre, a dire il vero, i miei fratelli venivano schiavizzati dal 99


papà per lavori agricoli, “perché le piante e la terra non conoscono domenica”, quali zappare-estirpare erbaraccogliere e via dicendo, lei trattava me e mia sorella peggio delle serve ordinandoci di iniziare immediatamente a spolverare, sistemare, lavare per terra. Su livello, qualità, meticolosità delle pulizie, di fatto partiva infatti la fase B del delirio materno: la preoccupazione di fare capire alle sue figlie che stavano arrivando 30-35 persone, che le stanze dovevano essere ordinate e accoglienti, che non dovesse mai dirsi, soprattutto da parte delle cognate paterne ovviamente, che lei non era capace di gestire una casa. Io, nella mia congenita pigrizia che mi valeva in famiglia la fama di “lagnusa” di casa, in silenzio obbedivo, per lo più per amore di una mamma che già alle 8 e 32 mi pareva sulla soglia di una crisi isterica, ma quello che mi appariva come l’unico, inspiegabile, inaccettabile sopruso era quando sentivo lei passarmi velocemente vicino, dicendo “va facci u letto a tò frate”…. Eh no! Quello no! Quello può farselo lui, è nella sua sfera di influenza, non è un bene comune, non siamo in acque internazionali, lui l’ha sconzato e lui se lo deve rifare. Era il mio unico momento di ribellione. Ed era a quel punto della mattinata che io mi chiedevo per la seconda volta “ma perché invita tutti a pranzo la domenica?”. La fase C era la fase della vera e propria preparazione del pranzo. In accordo a strane pianificazioni dei tempi che aveva in testa solo lei, cominciava alle 11e02 – 11e04 ed era sempre, regolarmente, aperta dal suo slogan di incoraggiamento, il suo cavallo di battaglia: “E’ mezzogiorno e siamo ancora a niente!!”. Io lì peccavo di ingenuità perché a 10 anni ancora pensavo che la scansione del tempo in oreminuti-secondi, fosse universale o quantomeno riconosciuta a livello mondiale, e, credendo di consolarla, mi permettevo 100


di sottolineare che le 11e05 (a quel punto era passato un altro inutile e vuoto minuto della mattina di lavori forzati) potevano dirsi praticamente le 11, solo per sentirmi rispondere “tu zittuti e va facci u lettu a to frate ca è menziooornooo!!!”. Lì finiva la mia ribellione e mogia mogia risistemavo il peggio possibile le lenzuola di quell’odiato maschio, ripetendo a me stessa, che era meglio d’ora in poi imparare a stare al proprio posto di femmina, di famiglia moderna comunista, ma pur sempre di femmina. Mentre rassegnata risistemavo quell’odiato letto, lei riversava sul tavolo la farina e cominciava a forza di braccia ad impastarla con l’acqua, perché il pranzo della domenica con i parenti, soprattutto se estivo e fatto in campagna, non poteva che prevedere, credo in questo caso sì per convenzione internazionale, la preparazione della pasta fatta IN CASA. Le menti malate delle mamme siciliane degli anni Settanta, in primis ovviamente la mia, consideravano infatti addirittura indecente l’idea di comprare le tagliatelle al supermercato: la pasta doveva essere fresca, con sugo di pomodoro fresco, ricotta salata fresca e melanzane fritte calde. Era però un’operazione che, nonostante coinvolgesse anch’essa me in qualità di schiava-bambina, quasi mi divertiva, visto che il mio ruolo nello specifico era quello di girare la manovella della macchinetta che stendeva la pasta e la tagliava in listarelle, ritrovato tecnologico recentissimo, portato a casa da papà subito dopo la sua commercializzazione e accolto quasi con le lacrime agli occhi da mia sorella di 12 anni più grande di me costretta da mia madre, nelle domeniche del decennio precedente, a trascorrere l’infanzia stendendo la pasta con il mattarello e tagliandola listarella per listarella col retro del coltello. Il mio divertimento era naturalmente mitigato dal fatto che nel 101


frattempo si faceva come per miracolo veramente mezzogiorno e lei ne approfittava per urlare, mentre stendeva la pasta ad asciugare: - “E’ l’uuuuna e siamo ancora a niente!!”. La temperatura nel frattempo era salita vertiginosamente sopra i 30-35 gradi mentre i grilli sfiniti continuavano ostinatamente a cantare, lei correva a preparare il secondo e l’insalata, io cominciavo abbondantemente a sudare preda di capogiri ma attaccata disperatamente alla manovella della macchinetta mentre, per la terza volta nella giornata, mi chiedevo “ma perché invita tutti a pranzo la domenica?”. Nei minuti successivi, di norma lei viveva sempre più profondamente nel suo fuso orario parallelo: divideva il tempo rimasto a disposizione perché tutto fosse pronto, elevava a potenza l’ansia per l’imminente arrivo degli invitati, aggiungeva pietanze su pietanze al menu prediligendo ricette fresche e digeribili in considerazione del clima estivo come antipasti di fritture e caponata, e moltiplicava la sua irrefrenabile frenesia quando si ricordava improvvisamente che in quella casa non c’era elettricità, non esisteva un frigorifero. A quel punto si passava alla fase D, quella in cui lei, consapevole dei drammatici livelli della colonnina di mercurio e del poco tempo rimasto a disposizione, imprecando contro mio padre che non aveva voluto comprare case dove tutto era presente (spazi ed attrezzature per i pranzi domenicali in primis) e contro quel posto e le sue inefficienze tutte che tramavano contro di lei, prendeva sotto il proprio carico psicologico già piuttosto precario, la questione REFRIGERAZIONE. Si trattava di dare un minimo di freschezza a vino, bibite, frutta e all’immancabile mulune. Un’operazione non del tutto semplice a dire il vero perché obbligava tutta la famiglia a 102


trasportare i suddetti giù fino al torrente e immergere bottiglie-frutta-mulune in una delle pozze d’acqua che il torrente stesso formava. Questa operazione di mero trasporto lungo un viottolo scosceso, capitanata dalla sua imprecante figura col mulune in spalla, otteneva il pregevole risultato di farmi formulare per la quarta volta la mia ossessiva domanda “ma perché invita tutti a pranzo la domenica?”. Giusto il tempo di riprendersi dagli innumerevoli ‘viaggi’ su e giù fino al torrente, ed era arrivato il momento di apparecchiare: la fase E consisteva nel trasporto sotto la pineta di tavoli, tovaglie, piatti e bicchieri, posate e tovaglioli, tutto col continuo sottofondo di lei che contava e ricontava il numero esatto dei presenti “allora 6 Enzo, 4 Salvino,….”, senza mai raggiungere lo stesso totale due volte. Nel frattempo la domanda ossessiva ritornava nella mia testa. Si arrivava così, col ventiduesimo conteggio dei posti a tavola, a ridosso del pranzo e all’arrivo in ordine sparso degli invitati: macchine cariche di dolci e bambini urlanti, baci e abbracci, benvenuti, domande di rito: ultimo ad arrivare ovviamente lo zio Salvino, reduce dalla messa e immancabilmente sfottuto: - “Salvì, cheffà ti cunfissasti? Per questo sei così in ritardo?”, - “Salvì mettici una buona parola pure per noi ca ‘nni manciamo i picciriddi, mi raccomando”. Quell’oretta di pranzo si presentava apparentemente come la parte più bella della giornata, anche se, per non perdere il clima di tensione faticosamente conquistato durante la mattina, di norma si discuteva animatamente di politica tra maschi (e lì le battute verso lo zio democristiano si trasformano in sferzante sarcasmo), o si approfondivano le 103


procedure di preparazione delle pietanze tra femmine (e lì la sua ostilità verso le cognate paterne incapaci di cucinare le cose a dovere era palese), o ci si rinfacciavano mancanze e colpe tra maschi e femmine quali la parsimonia dei mariti nel portare il pane a casa, l’incapacità delle mogli a stirare le camicie, il disordine dei mariti nell’abbandonare calzini sporchi per casa, e via dicendo. Di fatto la fase F era la consumazione famelica di un pranzo sempre abbondantissimo (“sinnò c’hannu a dire i cristiani…”, sussurrava lei), pesantissimo, dove personalmente mi sentivo costretta a mangiare oltre ogni limite visto che se osavo dire di essere sazia, lei immediatamente ti esortava a continuare, dicendoti: - “senza pane!”. D’altronde papà ne portava sempre troppo poco, come sottolineava lei, e l’esortazione mi sembrava coerente. Le discussioni nel frattempo si facevano più accese, le voci si accavallavo e nella confusione generale avevamo la peggio noi bambini, accusati di esserne la sola causa per le nostre risatine o le nostre sgomitate. Lei allora, nervosissima, poteva arrivare anche a mollarmi uno scappellotto nel cozzo ed io, ovviamente, mi chiedevo perché invitasse tutti a pranzo la domenica. Finito il pranzo, dopo il taglio e la consumazione del mulune ripescato dal torrente, il gruppone familiare si divideva in maniera rigorosa nei tre sottogruppi che già si erano in qualche modo delineati a tavola: maschi, femmine e bambini. I maschi cominciavano a studiare strategicamente gli spazi davanti casa e la pineta circostante per trovare il punto migliore (leggasi più adombrato, fresco, silenzioso, ventilato) dove collocare la sdraio per la pennica di rito, evitando di collocarsi vicino a quello che a quel punto era lo zio104


appestato: non più lo zio Salvino ma lo zio Mimmo che russava in maniera indegna. Si assisteva così alla danza di un gruppo di uomini siculi muniti di sdraio che si muoveva nello spazio per scegliere un posto ma che nello stesso tempo teneva sotto controllo con discrezione lo zio Mimmo per vedere dove si fosse collocato lui e mettere una certa distanza tra sé e la fonte di tanto sicuro disturbo. Noi bambini, non tanto per puro spirito altruistico ma in qualità di ulteriore possibile causa di rumori molesti, venivamo invece spediti ai confini della nostra proprietà, il più lontano possibile, per permetterci di giocare o, in altri termini, per lasciare dormire gli uomini. Il terzo gruppo, le femmine, sotto le direttive ovviamente di una per nulla rilassata padrona di casa, si dedicava allo sparecchiamento, al lavaggio dei piatti e alla sistemazione delle stoviglie. Fatica si aggiungeva a fatica, ma lei imperterrita rimaneva al centro del vortice: per nulla appagata dalla mattinata, dirigeva le operazioni e partecipava attivamente, nonostante le numerose profferte delle cognate - “Fraancaa, assettati cincu minuti!”. Al risveglio degli uomini, al ritorno stanco dei bambini, mentre le altre donne si sedevano stanche per godersi la prima frescura, lei inarrestabile caricava le caffettiere, contava le tazzine, chiedeva e memorizzava la quantità di zucchero per ognuna, apriva e distribuiva dolci, tovaglioli e caffè. Poi si dedicava all’esame dei resti e alla preparazione dei pacchetti che ognuno poteva portare a casa con sé, senza dimenticare mai, leggasi mai, che il contenitore andava restituito a costo della vita.

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Con la ripartenza alla spicciolata delle macchine, si chiudeva quella lunga giornata, che non prevedeva la cena ma il ricorso per direttissima al letto. Io, distesa nel mio letto a castello, ripercorrendo tutte le fasi dell’incubo, pensando a lei costantemente indaffarata, al centro delle operazioni, mai doma, sempre coi nervi a fior di pelle, mi rifacevo la stessa ossessiva domanda per l’ultima volta - “ma perché invita tutti a pranzo la domenica?” - e mi rispondevo ottimista: “bè forse sì effettivamente tutto questo sforzo vale la pena: gli zii che discutono di politica, le zie che chiacchierano, i miei cugini che ridono, i bimbi che giocano, le tagliatelle fresche, la contentezza e la soddisfazione degli invitati. Forse sì, effettivamente ci si stressa un po’ ma, a ben guardare, è bello avere tutta la famiglia riunita. E’ per questo che lei lo fa: per amore!”. E mentre mi convincevo che quella era la risposta alla mia domanda-ossessione, sentivo nella stanza accanto mia madre che si preparava ad andare a letto, la sentivo togliersi piano piano i vestiti, indossare la camicia da notte, aspirare l’aria sufficiente e proferire con tono risoluto quella frase, quella frase che chiudeva tutte le domeniche come quelle e che mi confermava che ce ne sarebbe stata presto un’altra, che mi confermava che avevo ragione, sempre la stessa: “Franco te lo sto dicendo: io ‘un mmito cchiù a nuddu!!!!!”. stefania zanna

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UNA DOMENICA IN BARCA Una domenica d’estate tutta la mia famiglia, composta da me, mio fratello e i miei genitori, si accinge a passare una giornata al mare. La sveglia fu molto presto poiché, prima di fare il bagno al largo di Isola delle femmine, noi tutti avremmo dovuto passare due/tre ore a pescare. Prima di prendere la barca al rimessaggio di Sferracavallo, ci fermavamo o in una pescheria a prendere del gambero da usare come esca, oppure entravamo in un negozio di Isola delle femmine a comprare delle esche vive (i vermi, per intenderci). Una volta fatto rifornimento anche di benzina per il motore della barca e il pranzo, partivamo alla volta del posto preferito dai miei genitori: al largo di Sferracavallo, vicino la Grotta dell’Olio, una piccola grotta dove molti turisti, con le loro imbarcazioni, andavano a fare il bagno. Una volta trovato il posto giusto mio padre spense il motore e, senza buttare l’ancora, cominciammo a prepararci. Io e mio fratello ci sistemiamo a prua con le nostre rispettive lenze di fondo, lui a sinistra ed io a destra, mentre i miei a poppa. Una volta sistemate le lenze con il gambero attaccato agli ami le buttiamo tutti e quattro in acqua facendole toccare il fondo. Aspettiamo qualche minuto fino a quando mia madre, con un gesto della mano, comincia a tirarla su’ dicendo: “E questo è il primo”. Faticò un po’ ma finalmente portò a bordo il primo pesce della giornata: una ‘tracina’. Come molti sanno questo tipo di pesce, nonostante abbia una carne molto pregiata e buona, se si viene punti da una delle sue spine velenose, si rischia di finire in ospedale. 107


Appena si accorse del pericolo, con tutta la lenza si posizionò vicino il motore della barca e con un coltello, tagliò il filo dov’era attaccato e lo lasciò cadere di nuovo in mare. Poco tempo dopo sentii un tremolio al dito. Feci lo stesso gesto di mia madre e cominciai a ritirare la lenza. Fu una grande sorpresa constatare di aver preso non un solo pesce, ma bensì due in un colpo solo. Fortunatamente nessuno dei due erano pesci velenosi, infatti si trattava di due pesciolini che si usano o per fare una piccola frittura, oppure per fare il brodo di pesce (qui da noi vengono chiamate “Viole” e “Serrane”, non so se è un tipico nome siciliano o italiano). A turno pian piano riempimmo quasi il secchio di pesci di tutte le dimensioni in tre ore e mezza di tempo, un vero record, perché il più delle volte siamo ritornati a casa anche a mani vuote. Era già passato mezzogiorno quando mio fratello cominciò a lamentarsi per smettere di pescare e andare a fare il bagno a Isola delle femmine, di fronte il Lido Sirenetta, dove l’aspettavano i suoi amici. A quei tempi i telefonini erano solo un sogno molto caro e quindi, gli appuntamenti venivano presi la sera prima a voce al posto degli odierni sms o messaggi su Facebook. Dopo le numerose insistenze di mio fratello, all’epoca sedicenne, mio padre l’accontentò e ci avviammo verso la nuova destinazione. Il mare quel giorno era davvero calmissimo. Non vi era vento e la traversata fu davvero molto piacevole. Io, come mio solito, mi ero messa distesa a prua a prendere il sole ed evitare che mi venisse il mal di mare. Mia madre era seduta a poppa mentre mio padre e mio fratello erano i comandanti che facevano a turno i timonieri. 108


Superato il porto di Isola, vediamo l’Isolotto stracolmo di barche attraccate lì. A quell’epoca non vi era ancora il divieto di approdare, quindi tutti coloro che aveva una piccola imbarcazione, quando il mare era abbastanza calmo, andavano a pranzare in quel piccolo spazio di mare a fare il bagno e a pranzare. Mio padre, mi ricordo ancora oggi, mi disse che quel posto era anche detto il cimitero delle ancore perché molte barche che vi attraccavano, immancabilmente erano costretti ad tagliare la corda dove era attaccata l’ancora perché s’incagliava sempre in qualche insenatura o tra le rocce e non c’era manovra o trucco che potesse farle disincagliare tra cui anche molte delle nostre. Superato l’isolotto ci vollero pochi minuti per arrivare di fronte il lido degli amici di mio fratello. Mio padre, conoscendo alcune regole basilari del mare e cioè che le barche dovevano stare ad almeno trecento metri dalla riva, si posizionò, mia madre buttò l’ancora e lui si tuffò immediatamente in acqua per raggiungere la riva. Io e i miei genitori, al contrario, restammo a fare lì il bagno in quell’acqua che, con il sole che vi si rifletteva dava un effetto incredibile, come se fosse il mare delle Maldive, avete presente? Un verde smeraldo intenso. Passò un’ora abbondante e mio fratello fu di ritorno chiedendo il permesso di poter restare a pranzo con i suoi amici allo stabilimento. Il piano dei miei genitori, invece, era quello di raggiungere dei loro amici all’isolotto per pranzare tutti insieme. Io, naturalmente, restai con i miei genitori, non mi andava di stare con mio fratello e i suoi amici. Trovammo a malapena il posto, dove inserirci. Quel giorno lì c’era il pienone di barche di tutti i generi e misure. 109


Insieme agli amici di mio padre e di mia madre unimmo i nostri viveri: tra panini, piatti di pasta, cucinata al momento e pezzi di rosticceria (in tutto in tre barche eravamo una quindicina) pranzammo da re tra chiacchiere, risate e quant’altro. Restammo lì fino alle sei del pomeriggio, quando ognuno delle tre barche, inclusa la nostra, si ritirò. Dopo aver prelevato mio fratello ci siamo ritirati a casa intorno alle 19:30 del pomeriggio esausti, ma soddisfatti e felici di aver passato una domenica spensierata, divertente insieme alla propria famiglia e agli amici. fulvia migliorino

“DI UNA POMELIA E ALTRO” Mi chiedo spesso che fine abbia fatto quella pianta di pomelia che nella terrazza del nostro palazzo, alla Zisa si stagliava fiera e superba con i suoi fiori carnosi e vellutati. Penso di averne scordato il profumo, o meglio, anche se ne odorassi uno adesso non avrebbe probabilmente la stessa intensa e ammaliante esalazione che da piccola mi faceva chiudere gli occhi e sognare di cieli tersi e terre infinite. Avevo poco più di cinque anni e non abitavo più in quel palazzo che era stato costruito da mio nonno, ma c’era 110


ancora un cordone ombelicale che mi teneva saldamente legata a quel posto, la zia Gianna. Era una delle sorelle di mio padre, con lei ho trascorso gran parte della mia infanzia ed è stata una delle persone che ho più amato nella mia vita, cuoca bravissima mi rimpinzava di cibo e non era possibile dirle di no…Ricordo ancora il gusto delle sue arancine, addentare quella palla di riso che celava al suo interno un ripieno di ragù mi colmava di un sapore forte e prepotente e mi lasciava sensazioni gustative che si prolungavano all’infinito. Come le persone veramente altruiste lei cucinava per gli altri, traeva energia nell’offrire ciò che era in grado di dare, le si leggeva negli occhi che se fosse dipeso da lei sarebbe stata lì per tutti noi, per sempre…Ma non in modo passivo o arrendevole, si batteva per questo suo modo di amare così, non si scoraggiava mai aveva in casa mia nonna, sua figlia e sua nipote e le accudiva tutte, con precisione e solerzia. Da sola. Il marito la lasciò ancora giovane, credo di non averlo mai conosciuto. Mi ricordo che un giorno la nostra Palermo degli scippi si avventò anche su di lei, eravamo alla vucciria, uno dei mercati molto famosi della nostra città, mia zia era bravissima a comprare in quei posti e questo decisamente non sono riuscita a ereditarlo da lei, nei mercati palermitani mi procura piacere e mi riesce bene solo di gironzolarci senza meta, respirarne colori e odori, guai se dovessi decidere di comprarci qualcosa poiché riuscirebbero di certo a vendermi anche ciò di cui non ho bisogno con la loro antica e disincantata maestria. Da lei ho invece ereditato il piacere che si prova nel dare, una delle mie gioie principali la traggo dando me stessa a chi amo e a ciò che più mi appassiona. 111


Mia zia, quel giorno, mi teneva per mano quando, con un attacco fulmineo un ragazzetto le tirò via la borsa, io rimasi interdetta, lei no. Gli corse dietro e tra lo stupore dei presenti ma soprattutto dello scippatore, si riprese la borsa, riprese anche me e tornammo tranquillamente a casa. Mi ricordo che io ero spaventata perché mi rendevo conto che ciò che aveva fatto avrebbe potuto metterla nei guai, se solo il ragazzetto non fosse rimasto impietrito e avesse reagito! Le dissi tutto questo e lei rideva, rideva di quella sua risata contagiosa e cristallina, era contenta di aver avuto la meglio su di lui, finii per scoppiare a ridere anch’io! Intanto io continuavo a frequentare le classi elementari ed essendo la mia scuola vicino alla nostra vecchia casa (quindi anche a quella di mia zia), passavo molto tempo con lei. Uscivo dalla scuola e trovavo ad aspettarmi un pranzo abbondante e prelibato. La cosa però che aspettavo con ansia pura era il rito della raccolta dei fiori della pomelia, avveniva nel tardo pomeriggio, quando lo splendente e impunito sole di Palermo dava un po’ di tregua e lasciava posto alla frescura. Già nell’istante in cui le sentivo prendere le chiavi della terrazza mi precipitavo su per le scale. Mia zia mi trovava lì, davanti a quel piccolo cancello verde di ferro, apriva e respiravamo l’aria che lassù al di sopra di tutto e tutti era limpida e pulita, ci dirigevamo verso la mia pianta preferita e lì sotto aspettavo che lei raccogliesse quei fiori adagiandoli sulle mie mani. Immediatamente venivo investita dal loro intenso profumo mentre li riponevo in piccoli cestini di vimini, pronti per essere disseminati in ogni stanza per diffonderne la fragranza… Questo splendido rito mi accompagnò per tutta la durata dei miei anni di scuola elementare, finiti quelli, per la scuola 112


media i miei genitori mi trasferirono in un istituto più vicino alla nostra nuova casa e la mia adorata zia riuscivo a vederla soltanto per pochi pomeriggi, in cui c’era giusto il tempo per un tè con i biscotti che puntualmente mi offriva, non potendo fare altro per me. Gli anni dell’adolescenza, oltre a tutte le mie illusioni, mi portarono via anche lei, ci vedevamo sempre meno e quando io avevo diciassette anni e lei cinquantotto, una malattia incurabile le tolse la vita. Ancora oggi camminando per le vie del centro di Palermo scorgere una pomelia è per me incontrare una parte di lei e della mia infanzia e sentire un po’ di nostalgia poiché come tutte le persone alle quali tieni veramente, se ne andò via prima che riuscissi a dirle quanto le volessi bene e quanto fosse stata importante per me. Ho pensato spesso di chiedere a mia cugina (sua figlia è l’unica dei nostri parenti rimasta ad abitare quel palazzo costruito da mio nonno) di quella pianta di pomelia, ma forse, in realtà, non voglio sapere che fine abbia fatto. Voglio ricordarla maestosa, con quel vaso enorme, quel fusto alto e forte e quei fiori vellutati e profumati… annalisa messina

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