La prima volta che

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Idea di anna farinella e teresa scozzari

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nzocchè circolo arci 6 agosto 2013

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Quante prime volte nella vita di ognuno, ci sono quelle che rimangono nella memoria di quasi tutti e poi ci sono quelle che per chissà quale bizzarro motivo rimangono nel tempo, la tua prima volta, la prima volta che hai dato un bacio la prima volta che ti sei innamorato la prima volta che sei andato a scuola la prima volta che hai avuto paura la prima volta che hai fatto una recita la prima volta che hai mentito la prima volta che hai preso lo stipendio la prima volta che hai fatto un viaggio la prima volta che ti sei fatto la barba la prima volta che hai fatto la pipÏ fra i cespugli la prima volta che hai messo il reggiseno la prima volta che hai pianto per amore la prima volta che hai messo la cravatta la prima volta che hai letto un libro la prima volta che hai fatto un regalo la prima volta che hai sognato la prima volta che hai avuto paura la prima volta che ti sei sentita tradita la prima volta...ci sono prima volte a cui non seguirà mai una seconda volta e ci sono prime volte che daranno inizio a una catena prime volte preparatorie prime volte di rottura prime volte rivoluzionarie prime volte d'affetto prime volte che era meglio che non ci fossero state prime volte ricordate prime volte dimenticate prime volte che ti rendono orgogliosa prime volte che ti fanno vergognare prime volte che non avresti voluto affrontare...la prima volta è sempre una violenza è cambiamento la prima volta non ha età non ha tempo... La prima volta che mi sono depilata...col rasoio di mio padre, ho imparato guardandolo mentre si faceva la barba, era estate e avevo un bichini rosso. La prima volta che ho messo un paio di scarpe con i tacchi...avevano la zeppa di corda e il cinturino alla caviglia, sono arrivata all'angolo 4


della strada incespicando in continuazione sono tornata a casa le ho cambiate con un paio di zoccoli e sono riuscita, le indossavo ogni pomeriggio e passeggiavo per le stanze. La prima volta che ho visto un morto...nella camera mortuaria di un paese sperduto dell'entroterra siculo, era una stanzetta con l'intonaco scrostato muffa e umidità, aveva quel ridicolo vestito comprato alle pompe funebri, da vivo non lo avevo mai visto col vestito e la cravatta, e poi le scarpe, quelle scarpe dalla suola immacolata, scarpe che non hanno mai camminato, dritte a paletta, povero nino pensavo, perché ti hanno vestito così? C'era un velo di tulle a copertura della cassa, del cadavere, l'ho guardato per ore mentre i lineamenti cambiavano... E poi la prima volta che ho viaggiato da sola, avevo quindici anni e inseguivo un amore che non sarebbe mai stato ricambiato e lo sapevo, era un ballerino della compagnia di Bejart, lo avevo visto a Palermo per dieci giorni, dieci repliche, l'ultima sera dopo lo spettacolo gli portai un mazzo di ranuncoli gli porsi l'agenda e lui mi scrisse...mercie...dopo qualche mese la compagnia si esibiva all'arena di Verona...ogni sera ero lì, una ragazzina sola alla ricerca di un amore impossibile che non avrei mai dichiarato. Il primo bacio non lo ricordo ma ricordo la prima volta che ho fatto l'amore, quando ho perso la verginità...era giugno dopo qualche giorno avrei fatto il compleanno, diciotto anni, diciotto anni ed ero ancora vergine, dovevo fare qualcosa porre rimedio a questa condizione incresciosa, non avrei potuto farlo per amore la prima volta. I miei erano in campagna, aurelio mi propose di andare a 5


mondello, in spiaggia, in estate ogni sera si facevano i falò e molti rimanevano a dormire nei sacchi a pelo, attorno al falò di quella notte c'erano amici conoscenti compagni di fusione, vino e canne, un ragazzo sardo, non ricordo neanche il nome, mi prese per mano e mi portò dietro le capanne, buio il rumore del mare il suono delle chitarre...minchia pensai, ora o mai più...ma come glielo dico che sono vergine? E mentre tentava di entrarmi dentro...emh...io sarei...sono...sono vergine ma non ci fare caso...e mentre entrava entrava la sabbia mi sentivo raschiare e spingeva spingeva...mi faceva male e non ci riusciva, aveva fumato e bevuto troppo, basta ci rinuncio mi fa troppo male ma lui continuava, ti piace? Minchia era atroce no non mi piaceva...ma alla fine fu così che persi la mia verginità in un lago di sangue che mi macchiava la gonna sollevata...dormimmo stretti nel mio sacco a pelo e all'alba fummo svegliati dalle ruspe che pulivano la spiaggia...mi legai il maglione intorno alla vita per coprire quell'enorme macchia, gli regalai un anello d'argento che portavo al dito lui mi regalò un foulard di velo turchese con le paillettes, quei fulard indiani che si usavano negli anni settanta, andai a prendere l'autobus sapendo che non l'avrei mai più rivisto, mi sembrava che tutti sapessero che quella notte avevo perso la verginità che tutti vedessero il sangue sulla gonna, non mi sentivo diversa solo con un problema in meno, adesso mi sarei potuta innamorare avrei potuto scopare per il mio piacere... anna farinella

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La prima volta che ho fatto la comunione (e l'ultima).

La chiesa dove facevamo il catechismo aveva una piccionaia sul tetto, non ho mai seguito una lezione salivo una scala tortuosa e andavo a guardare i piccioni, ero profondamente ignorante in fatti di religione non conoscevo neanche le preghiere, dio non è mai esistito per me. Il giorno della confessione ero lÏ con tutte le mie compagne e le loro madri, mia madre non c'era, tutte a turno si inginocchiavano e sussurravano qualcosa al prete nascosto dalla tendina del confessionale, arrivato il mio turno non volevo andare, non mi piaceva questa cosa mi sembrava una violenza, una mamma mi spinse a forza...atterrita rimasi in silenzio...il prete mi chiese di confessare i miei peccati...peccati? Quali peccati? Non avevo alcun peccato e glielo dissi...non è possibile confessa...giuro che non ho 7


mai peccato...il prete incominciava a spazientirsi e mi fece un elenco di peccati che sicuramente avevo commesso...io a tutto rispondevo...no...no...no...fintanto che decisamente alterato mi urlò....almeno la marmellata l'avrai rubata? E a questo assurdo e ridicolo peccato profondamente offesa risposi sÏ...chiaramente la marmellata non l'avevo mai rubata. Mi disse di andare a pregare, tre avemarie e due paternostro, e io che non conoscevo le preghiere entrai in chiesa e finsi di pregare. E cosÏ, confessata pregata e assolta, mi misi in fila per la prima comunione, le mie compagne si fermavano davanti al prete per prendere l'ostia, mi accorsi che dicevano qualcosa nel riceverla, ma che cosa? Arrivò il mio turno, il prete mi porse l'ostia io lo guardai e dissi...grazie. anna farinella

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La prima volta che ho avuto otto anni

La prima volta che ho avuto otto anni era il 12 novembre 1977. ‘Anni di piombo’, li avrebbero definiti nei libri di storia. Ma nel mio sussidiario non eravamo arrivati alle pagine ancora da scrivere. Quindi, per me fino a quel momento, anni di bambagia, zucchero filato e bagnoschiuma prima di andare a letto. E vestaglie a scacchi e giorni assegnati per il possesso del telecomando. Tutto diviso in tre, tranne i regali di compleanno, magicamente per tre moltiplicati, per non scontentare nessuno. Impeccabili negoziatrici e ragioniere a cercare di evitare traumi e tristezze. Altro che partita doppia: tripla. Uni e trini eravamo e siamo sempre stati: non ho nemmeno un ricordo in solitario. Capro espiatorio: le ginocchia, solo le mie per una volta, sempre sbucciate dalla mia andatura incorreggibile. Otto anni. Da qualsiasi lato li guardassi, mi sembravano tanti ma non troppi. Otto. Gira: fa sempre otto. Un qb dell'etĂ . Dopo avrei scoperto che se l'avessi messo sdraiato, l'otto non sarebbe mai finito. Mai che le formule si facciano scoprire al momento e per il verso giusto. Bastava metterlo a dormire, quel santo numero. E io, invece, sempre a cercare di tirar tardi a, rimanere sveglia, a protestare 'non ho sonno' come a dire 'non mi avrete'. Otto anni. Per me erano un traguardo, l'unico che mi immaginassi, tanto che prima la formula di rito per l'inizio dei giochi era: 'facciamo che io avevo otto anni'. Otto anni e una banda di rapinatori al mio fianco, armata di mitra: per me questa per sette anni fu la rappresentazione dell'etĂ adulta.

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E quando otto anni li ebbi davvero, continuai a rapinare banche per un po', ma dentro di me cominciò a farsi strada il sospetto che questa decantata età adulta fosse una solenne, dannata fregatura. Intanto, a scuola dovevo continuare ad andarci, non si vedeva la fine del tunnel, mia nonna non mi metteva più i calzini mentre io gemevo: "ti prego, fammi dormire altri trenta secondi" e della promessa bicicletta ("quando sarai più grande" il subdolo mantra di mia madre) non si vedeva l'ombra. In definitiva, avrei dovuto smetterla con le rapine, sciogliere la banda e rigare dritto. Niente di buono. La prima volta che ho avuto otto anni è durata 365 giorni, 52 settimane, 12 mesi: un anno vissuto pericolosamente. Ho barattato il mio mitra con la consapevolezza della morte, ho imparato le frazioni e le capitali europee, ho bevuto mezzo bicchiere di vino e mi sono ritrovata ubriaca di una sbronza che mi escluse per sempre dal rischio di far parte degli alcoolisti anonimi. Peccato. Mi ci vedevo: ‘buona sera, sono Maria e sono un’alcoolista’. E giù applausi. Ma non si possono avere tutte le dipendenze, nella vita. Un concetto, però, l’ho capito. E credo di averlo afferrato la prima volta che ho avuto otto anni. Ho capito che desiderare qualcosa, avere otto anni, per esempio, è spesso meglio della cosa stessa. Perché il desiderio è perfetto, abbraccia le cose e non le scalfisce, le contempla senza trovarvi pecche, perché se le trovasse, svanirebbe il desiderio stesso.

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E siccome il desiderio vuole desiderare, a volte si fa cieco, muto e sordo, diventa tre scimmiette, che ammaestrano i difetti, affabulano i passanti e accennano una danza della pioggia. Amministrano con manica larga gli assi, le tre scimmiette. Ognuna di esse tiene una carta: quella cieca la guarda, quella muta la dichiara, quella sorda batte banco. I giochi sono fatti: il desiderio sta desiderando. Ed è terribile e fremente il momento dell'attesa, in cui quella cosa non è tua ma lo sarà, c'è un piccolissimo pezzetto di forse a pizzicarti, ma ti dici: ' è fatta'. La prima volta che ho avuto otto anni è stato il primo giorno dopo il giorno più bello della mia vita, quello in cui avevo 7 anni e 364 giorni ed ero immortale, onnipotente e piena, ebbra del desiderio di avere 8 anni.

maria gebbia

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Due colori

La mia prima volta avevo 5 anni. Era il 1978. Osservare da vicino quel rettangolo verde che avevo solamente visto in televisione mi diede un’emozione così forte che ancora oggi me la ricordo. In braccio a mio padre osservavo, mi stupivo, guardavo quegli uomini “in mutande” correre e sudare dietro ad una palla. Era un mondo completamente diverso, il calcio era passione e non business, le partite si guardavano solo allo stadio o si ascoltavano grazie a “Tutto il calcio minuto per minuto”, i giocatori non erano divi tatuati fidanzati con modelle, ma personaggi che vivevano la loro vita dopo allenamenti e partite in maniera tranquilla, senza clamori o scandali, non avevano stipendi da capogiro, non cambiavano squadra dopo pochi mesi annusando l’odore dei soldi, addirittura qualcuno giocò sempre nella stessa squadra, diventandone una bandiera. Lo stadio che allora mi emozionò si chiamava ancora “La Favorita” ed aveva un solo anello. Si riempiva interamente per tifare per la squadra della propria città, ci si emozionava per due colori che una leggenda racconta come nati casualmente per un lavaggio errato, il rosa e il nero, che sul campo per me rappresentarono immediatamente l’unione perfetta, gli unici colori possibili per quella maglia. Quando decidi quale sarà la tua squadra del cuore i suoi colori ti si tatuano nell’anima per sempre, indelebili, magici, sono loro, lo sai. Sai che li difenderai fino a perdere il fiato, sai che li amerai come se fossero persone. Sai che ti faranno soffrire, gioire, piangere, urlare. Quella domenica di quell’anno ormai lontano io ancora non sapevo tutto questo. Non sapevo quali emozioni avrei vissuto dietro a quei 12


colori. Ricordo che eravamo in tribuna, su una dura tavola di legno con braccioli di colore verde, ricordo di aver sentito per la prima volta qualcuno gridare “ghiaccioli!! u’ sapuri ru goal”, vedevo la gente bere il caldo caffè Borghetti in una piccola fialetta. Non ricordo molto della partita, ricordo però il contorno ma soprattutto i miei due colori. La mia prima volta è anche questo: una bimbetta che in braccio al papà, subito dopo il fischio iniziale dell’arbitro, comincia a muoversi agitata e nervosa sulle sue gambe, non curandosi della partita e guardando in su, in giù, a sinistra e a destra. Il papà le domanda: “Stefania, ma che hai? Non guardi la partita?”, la bimbetta risponde: “Ma papà, dov’è quello che parla?”.

stefania giambalvo

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La collana di Chéri

La prima volta che lessi Chéri avevo tredici anni. Piccolo e vecchio, stava nella libreria della stanza che a quei tempi si chiamava studio. Era delle edizioni dei libri del sabato, prezzato a trecentocinquanta lire. Nel dipinto della copertina c’era una donna di schiena, bionda e con un vestito azzurro ghiaccio. – Vediamo come comincia… – pensai, e le prime infallibili frasi, le lessi in piedi. Sì, io ho letto in piedi, la prima volta, la faccenda della collana di perle. Avevo tredici anni e mi fidavo solo degli inizi convincenti. Nessuna lunga premessa, nessuna snervante descrizione della natura, niente di tutto ciò per cominciare. Lì c’era un giovane ragazzo che giocava con una collana; c’era un gran letto e c’era Léa. C’era la pregiatissima penna di Colette che rivolgeva la sua perfezione alla più bella immagine che io abbia mai guardato. Se quel giorno Chéri avesse aperto la finestra di quella stanza ai campi, e ai merli, e agli alberi, e al cielo, lasciando perdere la collana, il libro l’avrei chiuso, e io credo che ad oggi sarei una persona diversa.

annalù pusateri

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Volontary

Negli ultimi due mesi di prime volte ce ne sono state tante: la prima volta che ho detto ad alta voce “Cazzo, sono lesbica”; la prima volta che ho letto davanti alla maggior parte di voi il mio racconto (chi mala fiura); la prima volta che mi sono sentita finalmente me stessa. La mia prima volta che vi voglio raccontare qui questa sera, invece, è: la mia prima esperienza da volontaria al Palermo Pride 2013. Non è stato facile, all’inizio, entrare a far parte dei volontari poiché, non conoscendo molte persone, non sapevo a chi rivolgermi. Poi, grazie ad una ragazza, conosciuta ad un aperitivo, vi riuscii. Ambientarsi non è stato facile per il mio carattere. All’inizio eseguivo ciò che mi si diceva: spostare sedie da un luogo all’altro (un po’ d’esercizio fisico ci voleva proprio); portare il merchandising del pride nei vari info point, etc…, senza quasi aprire bocca. Mi sentivo un po’ a disagio. È sempre stato un mio difetto, sembrare un pesce lesso quando non conosco bene le persone. Il secondo giorno, finito il turno, prima di tornare a casa, mi feci un giro per i vari stand e, allo spazio lesbicissima, ne trovai uno che, appena vi entrai, sentii di essere a casa. Un ambiente familiare con persone che già conoscevo e con cui mi sentivo a mio agio. Credetemi mi sono sentita rincuorata perché pensai: “Se non riesco ad integrarmi almeno ho un posto dove mi posso sentire bene”. Fortunatamente le cose andarono in maniera diversa. Nei giorni successivi cominciai a prendere un po’ più confidenza con gli altri volontari: a dialogare con loro; a ridere e scherzare, insomma a socializzare. Con alcuni di loro riuscii anche ad aprirmi più di quanto 15


potessi immaginare, come se li conoscessi da molto tempo. Queste persone mi hanno accolto e mi hanno dato tutto l’affetto di cui avevo bisogno in quel momento. Mi accorsi anche che il pride non era solo un modo per conoscere persone nuove o dare una mano, ma era soprattutto cultura, spettacoli, mostre di un mondo reale che molti ignorano o fanno finta che non esista. Una delle cose che mi sorprese fu vedere che a questa manifestazione partecipavano non solo gente del mondo LGBT ma anche intere famiglie con bambini di tutte le età. Ricordo un episodio che mi ha toccato profondamente. Un pomeriggio un bambino di circa 5/6 anni, insieme a suo padre, si avvicinò all’info point per osservare i gadget ufficiali del pride. A un certo punto domandò al padre: “Papà perché hanno scelto l’asterisco come simbolo?”. Il genitore, preso alla sprovvista, non seppe cosa rispondere. A quel punto il responsabile dell’info point spiegò, con parole semplici, in modo che il piccolo curioso potesse capire, il significato dell’asterisco e alla fine il bimbo, con quel faccino tenero e serio, soddisfatto di aver colmato la sua curiosità, comprò un piccolo ricordino e andò via. I giorni passarono inesorabili, fino a quando arrivò il tanto sospirato giorno della parata. All’inizio ero decisa a non parteciparvi prendendo come scusa il fatto sarebbe finita tardi la parata e che non avevo un passaggio per il ritorno. Il vero motivo, però, pera un altro. Nonostante mi fossi accettata, pensavo che se avessi partecipato alla parata, insieme a tutti gli altri, avrebbe significato uscire totalmente allo scoperto e, molto probabilmente, non mi sentivo pronta. Tutti i colleghi, con cui avevo instaurato un dialogo, cercarono in tutti i modi di farmi cambiare idea, dicendomi che non potevo 16


perdermi quest’esperienza e che se non fossi venuto, in futuro, avrei potuto pentirmene. Anche se sapevo che avevano perfettamente ragione, ero irremovibile. Avevo imparato a memoria il percorso del corteo e l’orario della partenza dei carri. Poco prima dell’orario ufficiale, mandai un messaggio ad uno dei ragazzi per augurare a lui e agli altri “Buon divertimento”. I minuti passarono velocemente e la mia mente era un miscuglio di pensieri. Avevo passato gli ultimi 15 anni ad accettare me stessa e ora che stavo per farcela, per colpa di stupide paure, stavo per mandare tutti i miei sforzi alle ortiche. Era veramente quello che volevo? Mi domandai. La risposta che mi diedi fu uno scatto di reni che mi fece alzare immediatamente dal letto. Mi vestii di gran corsa e uscii di casa per raggiungere i miei colleghi alla parata. Alla fine, arrivando lì, mi resi conto di aver fatto la scelta più giusta. Le sensazioni, le emozioni che provai stando in mezzo all’innumerevole folla di palermitani che ci applaudiva, che rideva, che ballava, sono state molto forti da farmi venire il magone che ho dovuto soffocare , visto ero stata assegnata al servizio d’ordine per impedire alla gente che si avvicinava troppo ai carri, di finire sotto le loro ruote. Mi sentivo fiera di essere lì e di quello che stavo facendo. Man mano che il corteo proseguiva la gente, in strada, era sempre più numerosa e, quando siamo arrivati in Via Roma ho visto qualcosa che non avrei mai creduto possibile: quasi un quarto di città di Palermo che si era riunita per sostenere il Palermo Pride. È vero alcuni ci guardavano con disprezzo, altri magari erano lì solo

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per vedere le madrine del corteo ma la maggior parte di loro era lì per sostenerci e questo mi ha riempito il cuore di orgoglio. L’emozione più forte in assoluto la provai quando ero sopra il carro che, guardandomi ai tre lati di esso, sentii dentro di me un senso di leggerezza. Tutte le paure e tutti i timori provati fino a qualche ora prima erano come svaniti nel nulla. Mi sentivo libera di essere finalmente me stessa ma soprattutto fiera della persona che sto diventando. Sapete cosa avrei voluto fare? Avete presente la scena del film “TITANIC” in cui Di Caprio si arrampica in cima della prua della nave gridando: “SONO IL RE DEL MONDO…” Beh io avrei voluto arrampicarmi sopra il tetto del camion e gridare: “Mi sento liberaaa…”. Le emozioni non erano finite. Dopo la fine della sfilata dei carri e il ricongiungimento al village, ai Cantieri Culturali della Zisa, uno dei coordinatori dei volontari ci fece riunire nel backstage del palco principale perché voleva far salire tutti i volontari che avevano dato una mano a realizzare la manifestazione. Io pensai subito: “Ma siamo matti? Noooo, io non salgo. M’affruntu troppo” e invece, quando la voce al microfono ci chiamò, sono stata una delle prime a salire. Forse proverò ancora questo tipo di emozioni, ma sicuramente non così intense come questa prima volta come volontaria al PALERMO PRIDE. Questa mi resterà impressa nella mente e nel cuore credo per tutta la vita.

fulvia migliorino

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Mia cara Sofia, una madre non dovrebbe scrivere alla propria figlia una lettera che parli di amore malato nel giorno del suo matrimonio; ma, figlia mia adorata, risulta proprio oggi il giorno più giusto per dirti ciò che mai hai saputo e da cui decisi di proteggerti fin da piccola. Vedi, noi donne crediamo che gli uomini ci amino come noi amiamo loro; non è così. Le donne amano praticamente in un solo modo: con tutte loro stesse. Gli uomini amano generalmente per loro stessi. Le loro mamme (quindi noi donne per prime), il resto della società poi, fanno in modo che tutto ciò si compia immutato. La prima volta che il tuo adorato papà (che Dio l’abbia in gloria) mi zittì con uno schiaffo io restai disorientata, come se mi avessero strappato via il cuore e continuassi a vivere, la seconda volta che glielo permisi capii che solo per il fatto di essere presente a quella seconda volta, non ne sarei più uscita. Lo faceva sempre quando tu non c’eri e quasi mai lasciava tracce, credevo potesse bastare. Un giorno, quando tornasti dalla lezione di danza e mi trovasti con un segno (inequivocabile) su un occhio ti dissi che sbadatamente avevo sbattuto su una porta; ancora oggi mi chiedo se tu mi credesti. La sera quando mi metteva la mano sulla bocca per prendersi ciò che voleva, non capiva neanche che avrebbe potuto anche non farlo: io non avrei proferito alcun suono…pur di non far sentire qualcosa a te, amore mio, e pur di non farti neanche immaginare l’inferno in cui vivevo. Tuo padre è morto prima di me, altre donne non hanno avuto questa fortuna e comunque anche se non ci facciamo uccidere dai 19


nostri mariti o fidanzati, noi donne sappiamo bene cosa significa la prevaricazione da parte degli uomini: quasi ognuna di noi, in un modo o nell’altro, ne ha conosciuto sapore e odore. Il tipo di violenza che arriva da un uomo che abbia significati nel tuo essere donna che sia essa nelle botte, nelle frasi per sminuirti, nel prendere il tuo sesso con possessività è una ferita molto diversa da tutti gli altri crimini che una donna possa subire. Quando subisci tutto ciò ti senti di brancolare nel buio di un lungo e interminabile calvario, uscirne è la cosa più difficile in assoluto. E l’uomo che la utilizza toglie tutto alla vittima, tranne il respiro automatico che la tiene in vita. E lo sa. Oggi che tu ti unisci a Riccardo voglio che tu sappia che sono convinta che lui sia un uomo onesto e amorevole…ricorda sempre però che gli uomini difficilmente si predispongono a capirci e ad accettarci diverse da come ci vorrebbero. E quindi qui, oggi, mia preziosissima figlia io ti imploro e ti chiedo che se mai ti dovesse accadere, al primo schiaffo, al primo spintone, alla prima derisione della tua persona…Vai via subito! Alla prima volta, non farti trovare lì per la seconda. annalisa m.

Mi sono sempre chiesta come si possa vivere senza il mare. Il mare per chi ci cresce accanto non è solo un elemento della natura…è una presenza come può esserlo quella di un parente, di un amante, di un amico… Il suo odore si fa la tana nelle tue narici, il suo suono ti culla e la sua visione ti calma: andare al mare per chi vive su un’isola non è solo la 20


stagione dei bagni, né solo quella del sole; al mare ci vai per pensare, per guardare la linea dell’orizzonte che promette infinito, per farti sedare un dolore, per abbracciare un amore. Nella nostra Sicilia così grande e piena di mille cose, a volte puoi dimenticartene; le sue piccole isole te lo ricordano. Prepotentemente. In particolare Lampedusa e Linosa fanno parte della mia storia, del mio Karma, si potrebbe dire… Sono cresciuta camminando a piedi nudi, già piccolina, sugli scogli di barcarello (a sferracavallo avevamo una casa), ma di imparare a nuotare non se parlò fino agli undici anni circa; non so perché non successe prima, forse perché le cose succedono quando è il momento che debbano accadere. Durante quegli anni, con la mia famiglia, per le vacanze andavamo a Lampedusa. Un giorno, in acqua col mio bel salvagente blu e turchese, mentre facevo finta di muovere le braccia, cominciai a sentire un sibilo sinistro: avevo quasi paura di abbassare lo sguardo e controllare la ciambella che mi teneva a galla perché ero certa che si stesse sgonfiando…poi arriva un momento in cui capisci che le cose le devi affrontare e guardai; era sgonfia, quasi completamente. Alzai gli occhi e lì sullo scoglio, vigile, c’era mia madre che mi guardava dall’alto: ero salva! Poi mi preoccupai un po’: se n’era accorta, ma stava ferma a guardarmi. Allora cominciai ad agitarmi un po’ per attirare la sua attenzione e fu allora che con un tono che io in quel momento reputai eccessivamente sereno mi disse: “stai tranquilla e nuota” . Come “nuota”, pensai, ma io non so nuotare!...E mentre lo pensavo, in realtà, stavo già nuotando…e lì mia madre mi disse un’altra cosa che sempre, ogni volta che entro in mare, mi ripeto: 21


l’importante è stare tranquilli e non contrastarlo, il mare, è lui che comanda, tu lo assecondi… La mia seconda “prima volta” col mare fa un salto di vita di circa 25 anni e questa volta lo scenario è dell’isola sulla quale c’è e ci resterà sempre un pezzetto del mio cuore, la sorella più piccola di Lampedusa, la selvaggia Linosa… Fino a quel luglio del 2006 io dentro il mare ci avevo nuotato solo in superficie; le rare volte in cui ci infilavo la testa lo facevo con gli occhi chiusi. Quell’estate un’altra persona importante della mia vita fu la testimone e l’artefice della mia prima volta coi pesci. Avevo comprato maschera e boccaglio, i miei primi arnesi, con i quali ero certa di non avere alcuna confidenza. Appena mi immersi e mi venne spiegato come usarli, davanti allo splendido tramonto della spiaggia di Pozzolana, me ne andai con naturalezza e scoprii il mondo di sotto. Più osservavo e più mi rendevo conto di quanto avevo vissuto solo una parte del mare: mi sentivo come se avessi abitato una grande e affascinante casa e non fossi entrata nella sua parte più bella! Anche in questo caso è superfluo chiedersi com’è che fino ai 36 anni io non avessi mai provato a farlo e perché capitò lì. Chiederselo non solo è inutile, ma anche senza senso: la nostra vita è fatta di momenti in cui solo in quel tempo e in quel posto devono accadere le cose…per la prima volta.

annalisa m.

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Ho ricevuto, tramite facebook, un invito a scrivere della " prima volta" che ho fatto qualcosa o è successo qualcosa. Chiarisco subito che non era certo un invito personale, ma solo un messaggio open, di quelli rivolti indistintamente a tutti. L'idea mi è sembrata bellissima, una condivisione concreta, una rete di prime volte da confrontare. Davanti alla tastiera del computer, pronta a scrivere, le dita hanno fatto da sole ed è venuto un elenco di prime volte: la prima volta che ho giocato con i sassolini bianchi dei vialetti in giardino ( avevo si e no due anni ed il mio primo ricordo), il primo giorno all'asilo, la prima sigaretta. il primo innamoramento, le prime calze di nailon, il primo successo, il primo fallimento…insomma, non continuo, è evidente che mi sono ritrovata a scorrere sessanta anni di vita, scivolatimi davanti per immagini, come diapositive di una presentazione Power Point. Mi sono resa conto che non ero capace di andare oltre, per timidezza, perchè non è alla mia portata raccontare; devo aggiungere che ho avuto paura di scadere in recuperi nostalgici, in difetto di doti autoironiche che scongiurassero il patetico. E' vero che anche l'elenco è una forma di narrazione, almeno così mi è stato detto, quando ad una serata di lettura anzi meglio lo dico in inglese di “reading” una scrittrice palermitana, più che noiosa direi soporifera, leggeva due sue pagine di un racconto, consistenti nella elencazione precisa e minuta di quello che c'era in una piazza di paese alle 3 del pomeriggio: c'era la fontana, c'era un'autovettura, c'era un ubriaco, c'erano due ragazzini, Caterina con le sue amiche …ed io mi sono detta "questa è la prima e l'ultima volta che vengo qui!". Certo il tema della prima volta è intrigante, mi è subito venuto in mente “ e la seconda, non è forse la prima volta dopo la prima? e la dopo-la prima-dopo-la prima viene dopo-la prima-dopo-la prima- dopo la 23


prima…”Oddio ancora un elenco! No, questo non è un elenco, è il tic-tac del tempo, dove tutto si ripete, attimo dopo attimo e ogni attimo è diverso da quello che l'ha preceduto: non c'è prima, né dopo, c'è solo c'è, allora, che senso ha un prima, che diventa tale solo perché lo rivivo ora? Però a pensarci, questa è la prima volta che mi capita di scrivere a tema …insomma, scrivere è una parola grossa, meglio dire a giocare con le parole!

anna maria fazio

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La prima volta alla Croce di San Leonardo

Nei paesi della costa tirrenica siciliana, caratterizzati da uno sviluppo collinare, una o più croci di ferro, ricoperte d'antica ruggine, poste in siti elevati, ignare e mute, costituiscono avamposti e punti di riferimento di determinate contrade. Sicché per andare a Capo Schino o a San Leonardo, che sono contrade di Gioiosa Marea, si dice anche : “andiamo alla Croce dello Schino o andiamo alla Croce di San Leonardo". Da ragazzino, proprio per raggiungere a piedi quest'ultima, ed era la prima volta, dopo avere superato il macello comunale di Gioiosa, ero risalito per una trazzera fino alla Fontana Vecchia e da questa, per una scorciatoia, avevo raggiunto dapprima la frazione di Cicà e poi, avevo continuato a marciare in salita lungo un ripido sentiero, tra querce, castagni, ulivi, ginestre, felci, sorbi, prugnoli e gelsi, tutte piante che venivano depredate dai ragazzi dei loro preziosi frutti secondo le stagioni. Vi giunsi trafelato, approdando alla croce giusto in tempo per assistere al rito finale della festa di San Leonardo. Infatti, in quel preciso istante, dal versante opposto al mio, ai piedi della croce che sormontava una vecchia edicola votiva della Madonna del Tindari, giunse l'Arciprete della Parrocchia di San Nicolò, seguito dagli ottoni splendenti d'una banda musicale e da una lunga processione di fedeli. Egli era protetto dallo sfavillio del sole dall'ombrellino portato da un chierichetto. L'altare per l'occasione era adorno di gelsomini e di speziati garofanini. La benedizione del mare ebbe

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luogo al liquefarsi in esso del sole lungo la linea dell'orizzonte che corre tra le rive scoscese di Alicudi e Filicudi. Dopo circa venti anni vi tornai, risalendo in motocicletta lungo i sinuosi tornanti fino a quel sasso caldo di sole che un tempo era stato anche altare. La Croce c'era ancora a guardare il mare. L'ora era la stessa. Cinsi fra le braccia Gabriella, ne percepii per la prima volta i profumi ed il calore, confusi con i profumi ed il calore di quel posto magico. Sentivo ancora riecheggiare le note della banda musicale mentre in un rito propiziatorio, quasi sacro, anche i nostri giovani corpi liquefacendosi con il sole scivolavano fino al mare, fino ad Alicudi e Filicudi ed oltre fino all'orizzonte.

vincenzo fiorenza

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La prima volta in classe, da professore, entrò il bidello e chiese: "unn'è 'u prufessuri" aurelio

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La prima volta che ho parlato con uno scarafaggio e ci siamo capiti

E va bene, lo ammetto. Prima che chiunque sollevi una legittima perplessità di fondo, ve lo dico io: ero stonata come una pigna, ma questo non cambia niente. Ora, non credo di urtare la sensibilità di qualcuno se dico che a me gli scarafaggi nelle loro varie declinazioni fanno abbastanza schifo, non proprio paura, che mi parrebbe eccessivo, ma un sano schifo sì. D'altro canto questo schifo non è una motivazione abbastanza solida da giustificarne l'uccisione, e di solito adotto una politica di neutralità non interventista che si sintetizza in tu di qua e io di là, ti piace questo pezzo di marciapiede, a me va benissimo l'altro, vedi di girare al largo e ce la caviamo tutti e due. Veramente, a dirla proprio tutta tutta, mi vengono in mente un paio di occasioni in cui l'eccessiva prossimità combinata con l'effetto sorpresa mi ha indotto a comportamenti non esattamente eroici, da panico diciamo. A diciassette anni, preceduto dal caratteristico frullio, un aeromobile corazzato in ricognizione, tipo ibrido carne-macchina alla Cronenberg, è entrato sorvolando la stanza di mio fratello mentre studiavo nottetempo per gli esami di maturità, in omaggio al celebre detto di mio padre di iornu unni vuogghio e a sira spardo l'uogghio. Con le ali ai piedi ho urlato papà e quando lui si è precipitato nella stanza, immagino pensando a un incendio nel palazzo, l'ho chiuso dentro e sono scappata a gambe levate. A casa di mia zia, e alle tre di notte di una decina di anni dopo, affannosamente china sull'ultimo esame, in una afosissima notte a un mese e mezzo dalla laurea (e sì, sì se di iornu unni vuogghio...), 28


un altro esponente della stessa razza ha pensato bene di frullarmi in mezzo ai capelli. Manco a dirlo ammugghiavu i pupi e, disinteressandomi completamente di mia zia che dormiva beata nell'altra stanza, mi sono istantaneamente teletrasportata a casa di un'amica lasciando sul tavolo un laconico biglietto di scuse. Ma sto divagando. Sta di fatto che, di ritorno a casa distrutta dopo una serata di sollazzi, me lo trovo là, sul piede della mia lampada preferita, nella mia stanza, accanto al mio letto. Minchia, un mangiapane! Nello stato mentale alterato che mi accompagna la situazione mi appare subito in tutta la sua disperata drammaticità. È notte fonda, distanza di sicurezza assente, nessun papà o mamma a portata di mano, niente case di amiche a cui chiedere asilo, siamo io e lui e la mia consolidata politica di neutralità non interventista è scossa dalle fondamenta. Che faccio, che faccio, che faccio? Lo ammazzo? Ma porca miseria, io sono fisicamente negata per ammazzare gli scarafaggi, è più forte di me, quei quattro infelici che nella vita hanno trovato la morte per mano mia hanno scontato la sfortuna di trovarmi in compagnia di qualcuno in cui suscitano quel terrore irrazionale preludio di una crisi isterica che ti spinge a intervenire dicendo: tranquilla, ci penso io. Razza di scemo, in che situazioni mi metti, gli dico ad alta voce. Fossi stato in un altro posto ti avrei detto vai con dio amico, mi fai schifo ma non ho niente di personale contro di te, tu per la tua strada e io per la mia. Ma nella mia stanza no. Alle due di notte sulla lampada ai piedi del mio letto no. Ora ti devo ammazzare...razza di deficiente, ma non ne avevi che fare alle due di notte? Nel frattempo la mia mente si agita alla febbrile ricerca di una soluzione. Il ddt è fuori discussione, odio la puzza del ddt... La 29


scopa! No, la scopa è troppo cruenta, già me lo immagino con tutte quelle zampette in preda al terrore che scappa a destra e a manca...troppo pathos, brutta morte, me la ricorderei nei secoli...non riuscirò mai ad ammazzarlo, e che minchia faccio, che faccio, che faccio, che faccio? Mentre mi crogiolo nell'indecisione sono passati dieci minuti e lui lì, fermo immobile. Ed ecco che, all'improvviso, le abbondanti sostanze psicotrope recentemente assunte, che fino a un istante prima mi stavano guidando spedita verso il baratro dell'attacco di panico, mi vengono miracolosamente in soccorso e un piano folle mi appare, chiaro come il sole, in tutta la sua sfolgorante semplicità. Stai fermo là scemo di un mangiapane scemo, non ti muovere che sto tornando, gli dico. Volo verso la cucina, afferro scopa e paletta, in un microsecondo sono di nuovo là. Non si è mosso, non ha approfittato della mia assenza per fuggire. Mi avvicino, mi chino su di lui, e lui mi sta guardando, manco lo so se gli scarafaggi hanno gli occhi, ma lui mi sta guardando. Scendi da lì gli dico, non fare scherzi o sei morto...ti tengo sotto tiro. E lui dopo un attimo di indecisione si muove, non credo ai miei occhi, passo dopo passo come un condannato a morte scende dalla lampada, fino al pavimento, si guarda intorno, vede le praterie sconfinate del parquet e tutti i nascondigli che potrebbero salvargli la vita se con un colpo di mano, con un guizzo trovasse il coraggio...e si ferma. Ti metto qua di fianco la scopa, per non farti venire brutte idee. E allora succede: incassa per quanto può la testa nel corpo, mi guarda di nuovo, dal basso verso l'alto, e all'improvviso il mondo si capovolge. Io sono il mostro. Io sono il gigante orrendo con potere 30


di vita e di morte. Lentamente, come un fuggiasco che sa di non avere scampo, solleva le due zampe anteriori, le incrocia e se le mette sulla testa, e resta così, a guardarmi da un chilometro di distanza con le zampe incrociate sulla testa, in un gesto che è di consapevolezza, di sottomissione e resa incondizionata....non mi ammazzare, gigante, sta dicendo, mi arrendo, sono disarmato. Ossignore... Va bene, sono veramente colpita, no che non ti ammazzo, ma tu fai il bravo e sali sulla paletta. Non so a voi, ma a me questa cosa mi ha cambiato la vita. Il prigioniero si incammina verso la paletta, l'idea di scappare non gli passa nemmeno per la testa, ci sale e si ferma. Ora viene la parte difficile, stai fermo là, lo minaccio con un dito. Lo guardo attentamente, pure, e alla fin fine con le sue antenne, sei zampe e il corpo corazzato non è nemmeno brutto. Lo trasporto a bordo della paletta fino alla cucina, è un tragitto lunghissimo, ma lui se ne sta buono buono, ormai siamo amici. Esco nel balcone...e il mio brillante piano si volatilizza. Senza pensarci due volte lo lancio dal quinto piano. Che ho fatto!!! Mostro assassino, mi dico, hai tradito la sua fiducia, l'hai portato fino a qua per buttarlo di sotto! Non si è fatto niente, mi dico, gli scarafaggi sono leggeri leggeri, come le formiche, ora si alza e se ne va per la sua strada. Il dubbio mi è rimasto. Dove sarà? Che fine avrà fatto? Lo penso sempre, e non gli ho chiesto nemmeno come si chiama.

alessia

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La prima volta.....

Estate dell'81...11 anni...tutti in campagna a Punta Raisi dalla nonna....tutti..... Quanto giocavamo noi cugini...costruivamo le tende degli indiani, saltavamo dagli alberi, ci rincorrevamo....quanta gioia..quanta voglia di vivere...quanta spensieratezza.... Ma che grazioso lo zio...ha portato la tenda da campeggio e notte dopo notte noi cugini eravamo onorati di dormire con lui...una notte sola per ogni cugino... Era finalmente arrivata la "mia notte"....emozione e felicità... Ma che cosa succede...perchè lo zio è nudo...perchè sta prendendo la mia mano..perchè la sta mettendo proprio sopra...non capisco..ho 11 anni e non capisco cosa stia facendo..perchè la mia mano va su e giù...perchè è sempre più veloce il movimento...mamma dove sei...ho paura mamma...sento un respiro affannoso...cos'è questo calore nelle mani...perchè le mie mani sono bagnate...sporche...sssshhhhhhhh...non dirlo a nessuno Sonia..... L'indomani...e l'indomani ancora...e poi sempre...sentirmi sporca, sentirmi gli occhi dei compagni delle medie addosso... Sposarmi...chiudere gli occhi e toccarlo anche se mi fa schifo...(ovviamente mi sono separata.....) La prima volta che ho masturbato mio zio.....già.....il nome l'ho scoperto crescendo.... La prima e unica volta che ho masturbato mio zio...deleteria...distruttrice....

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La prima volta che ho masturbato mio zio...crescendo ho scoperto anche che quella famosa notte ....è stata identica anche per i miei cugini....eravamo tutti prescelti.... La prima volta che ho masturbato mio zio.....ansie...paure..timidezza..sensi di colpa...angoscie... La prima volta... anonimo

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La prima volta che mi innamorai di te fu in una sera d'estate.

C'è sempre una sera d'estate colma di promesse in cui innamorarsi. Il loro ricordo ti viene a trovare quando non lo aspetti. Quando cominciano a fiorire i gelsomini e la città si sveglia dal torpore primaverile. Avevo 15 anni. Forse era ferragosto, non lo ricordo con esattezza. Eravamo in spiaggia. A quei tempi avevo cominciato a dormire da Manola sempre più spesso. D'altronde, eravamo in estate. La mia scusa alle scappatoie notturne. Funzionava sempre. Ero una brava ragazza. Perfetta nel mio ruolo. Ottimi voti, educata. Irreprensibile. In segreto attendevo lo scoppio della bomba che avrebbe destabilizzato quell'equilibrio già precario. Ero appena uscita dall'acqua. Costume intero, arruffata e spaesata come tutte le ragazzine insignificanti. Involucro di un'qualcosa non sempre destinato a schiudersi. Ti sedesti vicino e mi regalasti delle pomelie. Non lo sapevi, ma quello era il fiore preferito da mia nonna. Ovviamente, per me, fu un segno inequivocabile del destino. - Scusa se alcune sono un po' sciupate, ma non prendo mai quelle sulla pianta. Me sembra de faje nu sgarbo....Alla pianta.Per un attimo, nonostante ti conoscessi da mesi, rimasi incredula. Raccattare dei fiori da terra e regalarli non era il massimo del romanticismo. Eri perfetto nella tua costante cruda imperfezione. In quel gesto ci trovai della poesia. Ma del resto, per una che fermava la felicità nell'involucro di una caramella, memoria di un pomeriggio trascorso insieme, quest'affermazione toccava picchi di 34


altissima sensibilità. Mi ostinavo a trovare la poesia in ogni cosa. Anche a costo di inventarla. Ovviamente sbagliavo sempre, ma ero sentimentale già a quell'età. Malattia da cui non si guarisce. Eravamo seduti vicini e inconsapevolmente cercavamo di occupare meno spazio possibile. Il chiacchericcio degli altri arrivava in lontanaza. In disparte giocavamo a trovare tutte quelle piccole sciocchezze che ci accomunavano. Sapevi ascoltare in silenzio e ridere della vita. Nelle mie narici c'era l'odore della tua pelle salata e quello delle pomelie. Ed era qualcosa che passava dallo stomaco e si fermava al petto creando dei vuoti d'aria. Non riuscivo a respirare quando mi guardavi. Aspettammo l'alba abbracciati. Per la prima volta sentivo che qualcosa era cambiato. Sistemammo le nostre cose e tornammo con la tua vespa rossa scalcinata. Mi chiedesti di stringerti e per la prima volta mi tremarono le gambe. Guidavi con una mano, perchè con l'altra tenevi le mie, avvinghiate a te. Era la prima volta che facevamo il giro di ogni vicolo a quell'ora. La città di 23 anni fa era più silenziosa e vuota. Appena arrivammo a casa preparasti il caffè. Quell'odore riempiva la casa e la animava. Ne avresti potuto sentire il respiro. Isotta ti elargiva fusa in gran quantità. Mi tagliasti una porzione di torta che guardai con diffidenza. -Non l'ho fatta io. I miei biscotti fanno schifo, non ho idea di come si prepari il gelo di mellone e non so cucinare. Ne prendo atto...E i gelsomini che trovasti quando mi misi in testa di prepararlo, li raccattai da terra. Però erano quelli della mia pianta.35


Scoppiammo a ridere e per la prima volta in vita mia avrei voluto fermare il tempo. Io, quella sempre affamata di vita. Ti sedesti al piano e cominciasti a suonare "La prima cosa bella". In quell'istante, dopo mesi, compresi che ogni volta che la intonavi era per me. Non l'ho mai detto a nessuno, nemmeno a te. Ma quella, negli anni, è rimasta la nostra canzone, mai riciclata a nessun altro. Intatta a custodire scioccamente vecchie memorie e quell'amore. Mi avvicinai e per la prima volta ti baciai. Mi stringesti fino a farmi mancare il respiro. Avevi il sapore del mare, delle giornate assolate d'estate. Delle angurie mature e dei gelati da mangiare in fretta prima che si sciolgano. Avevi il sapore stucchevole e breve della felicità . E di tutte quelle cose che vorresti durassero per sempre, in quell'intreccio di prime volte.

erika

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Prendo spunto letterale dal vostro invito : vi si dice "raccontateci della vostra prima volta...ad esempio, delle prime scarpette indossate..." Così vado a cominciare con un piccola storia di bambina felice e vanitosa Le prime scarpette importanti furono un paio di ballerine dorate che mi furono comprate da mia madre: si usavano molto e i miei genitori,nonostante i chiari di luna,ci tenevano a farci felici ed eleganti,noi due femminucce! Eravamo molto uniti,noi in famiglia:mia madre che reggeva sulle spalle tutto con quella capacità di attenzione e senso di realtà che una donna si ritrova addosso dopo aver perso una figlia bambina e attraversato le difficoltà dei miseri tempi della ricostruzione economica di una nazione.Casalinga, sapeva arrangiarsi,bravissima in cucina e chioccia a volte soffocante.Mio padre,uomo di cultura profondissima (ricordava ancora brani dell'Iliade in greco) lettore accanito,portava in sé senza problemi l'armonia delle due Anime che ci accompagnano: nel suo caso paterna e materna: se mamma era una chioccia lui era senza dubbio una superchioccia!Ci insegnò a leggere,non materialmente certo, ma a saper cogliere dalla lettura i fili fondamentali della vita che,dipanandosi, ci avrebbero guidate fino a grandi.Amava la musica e gli animali: comunista di grande purezza:Uomo perdente e sognatore. Gli piacquero molto le ballerine dorate,all'unisono decisionale con mamma. Adriana (otto-dieci anni) era impazzita per quelle scarpette che le ricordavano fiabe e perché no fumetti o racconti di altri tempi come quelli della nonna materna Elvira che venendo da una famiglia di Attori era autorizzata come Cantastorie a chiudere le sue meravigliose storie con "larga è la foglia stretta è la via..." 37


Camminava Adriana e se le guardava rilucere sulle basole antiche di Corso Vittorio Emanuele,le ballerine...affascinata, immaginava di restare abbagliata ...con la sua fantasia mai imbrigliata da niente e nessuno...sognava fossero magiche e capaci di farla volare fino a toccare quelle nuvole che certi pomeriggi invernali dalla finestra inventava fossero elefantini,o vecchi con la barba o paesi lontani scoperti sull'Atlante. Abitavamo allora dalle parti di Piazza Marina lungo quella borderline che da una parte vedeva il vecchio quartiere proletario di indubbia provenienza marinara,la Kalsa e dall'altra pochi palazzi borghesi ex residenze nobiliari ormai retrocesse di rango. Ma altre scarpette sarebbero state ancora più fondamentali... quella della crescita,quelle che implorai mi comprassero,una volta resami conto cosa significasse diventare vanitosa adolescente e non più bambina informe: un paio di scarpe con il tacco... che a me sembrava vertiginoso ma che in realtà non assommava che a due,tre cm di elevazione...mi pavoneggiavo,ricordo benissimo,con i miei piedini da geisha...non abituata com'ero...ci camminavo male: mi accorgevo dello sguardo perplesso di mia madre: eravamo nel negozio a provarle!...ma con le mie chiacchiere da Signorina in erba,piena di curiosità,vivacissima ma educata (l'amata Zazie dormiva ancora, in fondo alla mia anima,aspettando il varco temporale giusto per esplodere più in là,da grande) convinsi mamma che senza quelle scarpe dalle quali cadevo continuamente...non avrei potuto vivere. Bene: larga la foglia,stretta la via, dite la vostra che ho detto la mia...

adriana ponari 38


La prima volta che mi sono persa …nei tuoi occhi

I tuoi non sono occhi blu, profondi come il mare aperto, non sono verde smeraldo , come i boschi d'alta montagna, sono occhi, semplicemente occhi. Occhi tristi, occhi curiosi, occhi che non sanno cosa cercano e non conoscono o forse si, quello che tu non trovi. I tuoi occhi interrogano ma sfuggono, ridono ma in maniera amara, sono occhi stanchi. Nei tuoi occhi ho visto la disperazione, quella che ti prende quando non trovi un perché, quando pensi che la tua unica via di espiazione sia fuggire, sparire, dissolversi nel nulla...poi un guizzo e si ricomincia, speri, credi, respiri ma qualcosa che hai dentro, un tarlo affamato che scava, scava e non trova sazietà, sta danneggiando sta minando la tua anima. Ed io ricordo ancora la prima volta che in questi occhi mi sono persa, ricordo uno sguardo profondo, due lame che hanno trapassato la mia pancia e hanno costretto la mia schiena ad arcuarsi fino a quasi spezzarsi. Sono entrata dentro i tuoi occhi e quel momento, avrei voluto non finisse mai...avrei voluto restasse li, immobile, per sempre, il tuo sguardo mi stava spingendo dentro un vortice, una vertigine che mi faceva girare la testa, che mi impediva di respirare, di parlare, di urlare....e poi una sensazione di torpore, tutto attorno a me ovattato come quando nevica e la neve ha iniziato a fioccare. Piccoli fiocchi che toccavano il mio corpo, le mie braccia, le mie gambe, il mio viso e sul viso questi piccoli gelidi fiocchi, hanno cominciato a sciogliersi, sono diventati liquidi, bagnavano le mie guance il mio viso...erano diventati lacrime di gioia, di felicità, lacrime di paura, lacrime solitarie perché tu già non eri più li con me 39


ed io sono stata spinta fuori, cacciata via da quegli occhi solitari che desiderano soltanto il riflesso di uno specchio. Ricordo ancora quella volta, la prima volta che mi sono persa nei tuoi occhi ed oggi ancora mi perdo e lotto sto lottando perchĂŠ perchĂŠ non nevichi piĂš. Lottando

emilia martorana

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Celeste mi diede un bacio e poi pianse poco poco

La prima volta che (scusate se banalmente comincio con il comincio) mi hanno fatto un massaggio, erano in due a farmelo. Fu quasi doloroso, talmente intenso quindi bello. Quando penso a concetti del genere non posso fare a meno di riferirmi al canonico solletico: quella condizione corporale indotta che se percepita dal subepidermico in poi, verso ogni nucleo, finisce per incarnare (ed è il caso di dirlo) una linea impallidita di demarcazione fra dolenza e piacere, insomma uno spasimo. Quel massaggio, il primo, fu così. Mentre dichiaro che furono in due a praticarmelo, non son preciso nella narrazione poiché in effetti una delle due – dimenticavo: entrambe donne – era più che altro una guida della massaggiatrice. Cominciai a percepirla, quella splendida pressione, già dalla nuca e, a girare per il cranio, giù dalla fronte e gli occhi che tenevo chiusi e il resto della faccia, sul collo e le spalle, particolarmente sul trapezio e brividamente per la schiena ma in parallelo per tutto il dorso anche; e poi le anche… Quando, per un breve eterno fremito, si spostò sui glutei credetti di impazzire di gioia tant’è che li contrassi per poi rilassarli quando cosce e polpacci furono garantiti dalla frizione che tendeva alla profondità. Rimasi un po’ male per i piedi, visto che a quel punto mi aspettavo qualcosa di spasmodico pure per essi come m’aveva assicurato il movimento goduto da braccia e mani. Toh, guarda: l’alveo naturale del solletico, le ascelle, mi rimaneva non tastato. Ma vi facevo poco caso; il godimento generale era veramente profondo e più che gradevole, seppur quasi al di sopra del sopportabile. Mi pare d’aver anche lievemente sbavato ma, in 41


caso, non si indignò nessuno per questa minima debolezza dovuta al sorprendente orgasmo quasi di ogni singola mia cellula. Il tutto, dunque, fu così potente che mi accorsi d’esser senza fiato e, per prendere a respirare – mentre cominciavo a guardare il mondo, di fatto sottosopra ma ristrettamente a una stanza dalla pareti lattee – fui costretto a sbottare in un pianto esplosivo, dirotto e breve nello stesso tempo e imposto da una gran sculacciata che m’assestò la… guida: era zia Marietta, l’ostetrica di famiglia; che, immagino per dovuta piaggeria professionale e affettiva, disse a mia madre: “Vedi, Celeste, che bel bambino!?”. Sul primo – e ultimo – meconio taccio poiché è un’altra storia che racconterò se mai lo farò quando avrò voglia di parlare del primo libretto sul vasino fino ai libri odierni. Ora, cesso. Ma quel massaggio, però… Gesùuuu… mai più…!

pippo montedoro

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La prima volta che non ho avuto fame

Era un inizio d'estate, un giugno incerto mi costringeva ad equilibrismi nel vestire. Da poco rientrata in casa per il pranzo, ero avvolta in una lunga vestaglia di cotonina azzurra, il solo indumento adatto a quei giorni di pioggia sferzante, caldo improvviso e notti fredde. Un peccato doversi cambiare per uscire di casa. Mi immaginai per strada con la sola vestaglia indosso, vidi la scollatura che si allargava ad ogni passo e non riusciva a trattenere i seni generosi mentre le cosce robuste spuntavano dai lembi di tessuto sovrapposti. Seduta al tavolo della cucina, strinsi istintivamente il nodo della cintura, infilai tra i capelli una matita per tenerli fermi e osservai la tovaglietta apparecchiata per il pranzo come se stessi per affrontare un'autopsia. Con le mani appoggiate al bordo del tavolo e il busto appena proteso in avanti, controllai le pietanze una ad una, da sinistra verso destra e poi da destra verso sinistra. Davanti a me, un piatto fumante di pasta al pesto, una porzione di pomodori rossi disposti a spirale su cui risaltava la macchia verde delle foglie di basilico e un piattino con una fetta di pane bianco. Guardai la piastra di ghisa sul fornello acceso, una fetta di pollo cosparsa di aromi arrostiva spandendo il suo profumo per la cucina. Mi alzai, presi una bottiglia d'acqua dal frigorifero, l'appoggiai accanto al bicchiere e mi rimisi a sedere. Sperai che bastasse. Me lo auguravo ogni volta che sedevo a tavola o aprivo istintivamente la dispensa, il frigorifero, il forno, quando entravo in una panetteria, un supermercato, un bar o guardavo un distributore automatico. 43


Avrei poi preso una mela dalla fruttiera al centro del tavolo di noce scuro, unica tra limoni e arance tardive. L'avevo lucidata e messa in bella vista come avevo visto fare a mio padre da bambina. -Vieni, ti faccio vedere come preparo una mela che non sfigurerebbe in una fiaba - aveva annunciato un giorno con un ampio sorriso e iniziato a strofinare con cura una grossa mela color porpora con un canovaccio, mostrandomi alla fine il frutto lucido e invitante sul palmo di una mano. - Il cibo deve essere anche bello da vedere - mi ripeteva. Ripensando alle sue parole, provavo a frenare la mia ingordigia con la cura nel disporlo, imponendomi di non assaggiarlo nel frattempo. A volte ci riuscivo, in genere no. Guardai ancora il mio pasto. Non custodivo memorie di sapori, nessuna pietanza da ricordare con rimpianto o intrisa di ricordi, ma conoscevo la forza e la velocitĂ con cui i miei denti trituravano ogni boccone che oltrepassava le labbra. Mangiare. Nutrirsi. Sopravvivere. Cibo che cuce la storia delle famiglie e dei popoli. Scarso nelle terre povere del mio sud del mondo, devastate dalle scorrerie nei secoli. Case depredate e ricostruite da donne che nei secoli hanno custodito e intrecciato nel loro ventre ereditĂ da ogni dove, come una fucina stregata e benedetta a un tempo. Sangue moro, sassone, svevo e normanno e bambini dai mille colori a giocare nei cortili assolati. Donne custodi dell'odore del mare e degli aromi di spezie d'Oriente, di memorie di selvaggina appesa a frollare contro i cieli nordici, uva matura, mandorle, pistacchi e fichi, vino dolce e miele. Mani femminili esperte nel cucinare e menti scaltre per risparmiare e imbandire tavole con un niente degno di re. Secoli di rapporto d'amore con il cibo, ma anche lotta scandita dai pasti, per rendere il poco sufficiente, trasformatasi in me in guerra 44


incessante contro l'abbondanza. Ero un otre forato e, per quanto mi ostinassi, non riuscivo a trovare la lacerazione che mi impediva di saziarmi. Guardai le mani conserte in grembo, posizione di riposo prima dello scontro. Oltre la finestra, il cortile in silenzio rotto a tratti dalla voce di un ragazzo mai incontrato. Tutti i giorni, a pranzo e cena, emetteva un lungo suono, come una i prolungata e acuta, due o tre volte e poi di nuovo silenzio. Quella nota malinconica era diventata familiare come il frinire delle cicale o il rumore del vento delle mie estati. Immaginavo un giovane uomo che cavalcava un destriero immaginario, si materializzava davanti ai suoi occhi ogni giorno insieme a quel suono. Io, invece, scomparivo con il rumore dei miei denti che trituravano ogni cosa in bocca. Guardai di nuovo davanti a me, mi accingevo a consumare il mio pasto. Mi imponevo la lentezza, provavo ad assaporare il cibo, boccone dopo boccone, invece di ingollarlo per sentirmi piena, nel tentativo di ancorarmi al suolo, per non volare ondeggiando qui e là ad ogni alito di vento, ad ogni parola, buona o cattiva che fosse. Ora dovevo iniziare. Quello era il momento. Avevo portato la forchetta alle labbra, ricordo la sensazione di metallo freddo, poi il boccone depositato sulla lingua e la mascella e la mandibola che iniziavano la loro lenta corsa per rendere ogni pietanza poltiglia. Il breve tragitto del bolo lungo l'esofago e l'appoggiarsi nello stomaco, come un sasso in un pozzo con poca acqua e molti detriti. Mi accingevo a ripetere macchinalmente l'operazione, quando con lentezza tornò indietro una sensazione, come un'eco, uno spostarsi di sinapsi, una scia luminosa, che dallo stomaco arrivava al cervello per dirmi, con calma, che ero sazia. Interrogato ancora, lo stomaco rispose allo stesso modo. Con quel solo boccone, ero sazia, da giorni, 45


settimane, anni probabilmente. Lo sapevo con certezza, per la prima volta. Sono una donna che non crede ai cambiamenti improvvisi e neanche quello lo è stato, ma questa è un'altra storia.

paola giannelli

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Mandare poche righe? Non mandarle, per paura di scrivere banalità e cose poco interessanti o divertenti: ecco la prima volta che…La mente si arrovella prima del viaggio in Scozia e dopo, ma la prima volta che…. di che? Fai un excursus della tua vita lunghetto direi data l’età e ti poni molte domande: 1 Il primo giorno di scuola? Ero troppo piccola non ricordo…

2 Il primo innamoramento? Che seccatura magari un sacco di persone ne hanno scritto? E poi la solita rivelazione, dal momento che da anni condivido la vita con donne viene fuori che ti sei innamorata, ovviamente di una donna, per la prima volta, della 47


dirimpettaia, bellissima ragazza e che andavi a casa sua ti sedevi ai piedi del suo letto e la contemplavi 3 La prima volta che hai baciato qualcuno? Non so quale dei miei amici o pseudo fidanzati , né l’età forse 8 9 anni? 4 La prima volta che fumai e poi da adolescente non mi sfiorò più l’idea? Avevo 9 anni e con gli amici, incredibile la libertà che avevamo tutti! …compravamo le Alfa e le fumavamo nel sottoscala dei Basile, il padre era un bravo giornalista e infatti loro abitavano in un condominio per lo più abitato da giornalisti… 5 La prima volta che lessi davanti al direttore, avevo 4 anni e ricordo che l’amata maestra Attinelli disse: zitti che legge Flora, non so se vantarmene, ma certo mi sentii importante, negli anni 50 se la madre lavorava venivi mandato a scuola e in prima anche a 4 anni e non importava che a 9 anni avresti subito come lo subii, il trauma di non poter fare gli esami perché troppo piccola 6 La prima volta che ricevetti colpi di bacchetta nelle gambe dalla maestra Provvidera alla civile scuola elementare Rapisardi, perché non sapevo fare le divisioni con la virgola che naturalmente non imparai mai 7 La prima volta e passo un po’ avanti negli anni che feci l’autostop a 15 anni per andare a trovare Don Mazzi e i cattolici del dissenso con la mia amica Marianna Bartoccelli 8 La prima volta che capii che, mia sorella Gilda di soli 2 anni più grande di me ma da cui adolescenti ci separavano molti più anni, sarebbe stata anche una mia grande amica, quando andai a un convegno femminista a Catania e lì la incontrai, Lei viveva a Siracusa, io a Palermo, ma Catania era certamente più avanti allora, sebbene in vicolo Niscemi alcune donne ci riunivamo al circolo femminista comunista, punto di partenza importantissimo per il 48


mio percorso di vita politico…Si mia sorella ed io condividevamo degli interessi lottavamo per qualcosa che ci accomunava, ne fui felice e lo sono ancora… 9 La prima volta che feci Ginostra Stromboli e ritorno in canoa, ero andata in canoa una sola volta nella mia vita e in Malesia, la canoa girava su se stessa, ce la cavammo (Cristina e io) e capimmo che forse avremmo dovuto rinunziare all’impresa ma non paghe e certo non eravamo ragazzine, io forse avevo già 42 anni, decidemmo appunto in quel di Ginostra di tentare l’impresa, la canoa si ribaltò perché Cris scese improvvisamente e io mi ritrovai sotto e i ciottoli , per fortuna eravamo quasi a riva, mi distrussero le ginocchia, ma eroicamente si doveva continuare il giro e mentre il sangue scorreva copioso dal ginocchio, noi remavamo ..si arrivammo a Stromboli ma certo non è un ricordo felice 10 La prima volta che…andai da sola a cavallo, certo da piccola il contadino mi faceva acchianare sopra il mulo ma il conto che pagai fu altissimo…..Forse per questo i cavalli li ho sempre temuti non potendo far nulla contro chi se ne servì per farmi violenza, insomma riuscire grazie a una donna bravissima Stefania, a salire da sola sul cavallo e passeggiare per i boschi vicino lascari è stato bellissimo, potevo toccare gli alberi , le piante, potevo guardare in modo diverso la Natura ma potevo forse capire che la libertà si poteva conquistare con la volontà, i cavalli che poi abbiamo sempre tenuto in campagna mi erano finalmente amici, potevo toccarli senza paura…La prima volta che… Cavalli amati e temuti, cavalli che per poterli salvare e riportare nel recinto mi hanno fatto perdere una piccola parte del dito medio destro, la prima volta che cercai di farli rientrare nel recinto e il filo elettrico che lo delimitava fece da cappio quando lo afferrai per 49


sollevarlo e la bella cavalla colla sua zampa lo fermò e il povero dito fu ghigliottinato‌e poi altro ed altro ancora tante furono : La prima volta che‌.ma ci rivedremo

flora

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1 La prima volta eravamo nei bagni dell’ultimo piano del rifugio di montagna. Io avevo 4 anni e Lei pure. A turno, spalle al muro sulle piastrelle bianche del wc, ci inginocchiavamo per scoprire, guardare e sentire il sapore salato di quella cosa misteriosa fra le gambe. Lei era la figlia del gestore dell’albergo. Ancora oggi mi chiedo che fine abbia fatto e se una tale esperienza abbia avuto una refluenza sulle scelte di vita. 2 La prima volta con Lui, è stato in un campo di mandarini, che all’epoca si poteva avere la fortuna di avere sotto casa (oggi c’è una stazione della metro). Io avevo 12 anni e lui 14. Giosuè si slaccio i pantaloni ed io feci altrettanto, ci stringevano forte, dandoci baci lunghissimi (la lingua dei maschi certe volte sembra che ti voglia arrivare giù in gola). Lui mi penetro dicendomi: “secondo me non è la prima volta che lo fai”.

claudia

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Era la prima volta che andavo al festival del cinema di venezia. Doveva essere il 1990, perché sull’aereo sul quale viaggiavo c’era la troupe di “ragazzi fuori” l’ideale sequel di “mary per sempre”, il film di marco risi che aveva dato popolarità a giovani attori palermitani non professionisti, (anzi – per dirla giusta – a personaggi di strada che davano un taglio molto “realistico” alla storia). ma non è questa – quella del festival del cinema di Venezia – la prima volta di cui voglio ora raccontarvi. mi aveva accompagnato all’aeroporto un mio amico, con cui avevo fumato una cannetta durante il tragitto. Avevo poi una cannetta già pronta per l’uso tra le pagine dell’agenda, e due pezzetti di hashish all’interno dei pedalini avvoltolati su se stessi, dentro la valigia. In aereo una simpatica vecchietta mi si attaccò a cozza: era la prima volta che volava (raggiungeva, credo, la figlia) e – forse l’effetto della canna – io le ho dato conto al punto che, all’arrivo, mi chiese se potevo accompagnarla fin fuori facendola appoggiare al mio braccio. Cosa che feci. C’era tuttavia un piccolo particolare che il mio amico Giuseppe (che era venuto a prendermi agli arrivi, lui proveniente da un piccolo tour in austria da altri nostri amici) mi fece notare subito: dov’era la mia valigia? Ah… già… nell’abbrivio dell’accompagnamento della signora, avevo dimenticato che dovevo ritirare la valigia… Rientro dunque dentro, prendo la valigia e cerco di uscire. A quel punto, però, si complicano le cose: il cane radis, che aveva già individuato un discreto carico di fumo nella borsa di uno degli “attori” del film (che si era fatto carico di portarsi lui la bisogna per

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tutta la troupe durante la loro permanenza a Venezia), comincia a eccitarsi anche attorno alla mia borsa. La guardia, allora, comincia a rovistare fra le mie cose, e trova quasi subito la cannetta già pronta in mezzo all’agenda ma – pur tirando fuori tutta la roba dalla valigetta – non trova nulla anche se mi continua a ripetere che è meglio per me se lo aiuto a sbrigarsi. A quel punto decido di srotolare uno dei due paia di pedalini e gli porgo il pezzettino di fumo che avevo lì nascosto, dicendogli che non avevo altro e – soprattutto – rimettendo dentro la valigia in tutta fretta l’altro paio di pedalini che conteneva l’altro pezzetto di fumo. L’uomo si è fatto convinto della mia sincerità, ma mi ha detto che – per prassi – dovevo a quel punto subire la perquisizione “fisica” da parte di una donna poliziotto. Devo dire che, aldilà dell’ansia che avevo in quei momenti e dell’adrenalina che scorreva nelle mie vene (sapevo, da un lato, che avevo almeno in parte salvato il deretano non dandogli tutto il fumo, ma nello stesso tempo temevo che da un momento all’altro il cane continuasse a rompere i coglioni attorno e dentro la mia valigia), la perquisizione con la signorina poliziotta butch che mi ha fatto spogliare nuda per controllare che non avessi altro fumo nascosto nel corpo, è stato quanto di più mortificante possa ricordare aver vissuto di quell’esperienza (non è una bella cosa dirlo, ma mi fece levare pure il tampax che – per ovvie ragioni – era nel mio corpo). Alla fine della perquisizione, l’ultimo strazio è stato dover sopportare il capo poliziotto (originario della Sicilia) che mi faceva la ramanzina su come fosse stupido che – per pochi grammi di

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sostanza stupefacente - una persona così perbene dovesse sporcarsi le carte. Quando sono finalmente uscita all’aria aperta (con il mio amico Giuseppe che – giustamente – non sapeva più che pensare del mio ritardo: i telefonini allora non c’erano o se c’erano io non l’avevo), mi sono fiondata verso l’auto con la mia preziosa e pericolosa valigia, mi sono scolata quasi tutta una bottiglietta di grappa austriaca e, finalmente, dentro la camera dell’alberghetto che ci ospitava al lido, mi sono fatta una bella canna con il fumo che avevo salvato dal cane, dalla polizia e dalla mia fedina penale. Per la cronaca: la legge di allora prevedeva per modeste quantità la sanzione amministrativa e comunque la comparsa davanti a un giudice e uno psicologo. Questa comparsa avrei potuto farla a palermo, ma – dati i troppi casi – i responsabili della questura pensarono bene di rimandare il tutto ai colleghi di Venezia. Io dovetti dunque tornare (sempre con Giuseppe ci andai, ovvio) dopo qualche mese a Venezia, dove – aldilà di un magistrato annoiato e disattento – la giovane psicologa, alla quale avevo raccontato quanto nient’affatto disadattata fosse la mia vita e come il fumo fosse invece un piacere e non una strada che mi avrebbe portato all’eroina e allo spaccio, mi congedò con una pacca sulle spalle e un consiglio: faccia come me – disse – gli spinelli se li faccia a casa sua, con le tende chiuse… Ecco, in breve, la mia prima volta di quando fui fermata all’aeroporto da un cane poliziotto (non ho mai più bevuto un solo goccio di amaro radis, da quel giorno) con del fumo. Spero sempre che sia l’ultima, ma chissà… anonimo veneziano 54


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