Se telefonando

Page 1



Idea di anna farinella alias Opuntia Martirio


nzocchè circolo arci 5 ottobre 2013


quella telefonata che hai fatto, quella telefonata che hai ricevuto, quella che avresti voluto fare o ricevere, ma anche una storia legata al telefono. anna farinella


mongoletto potevo avere tredici anni...squillava il telefono...silenzio...era il periodo degli scherzi telefonici...succedeva un paio di volte al giorno, dopo qualche settimana di questa storia dissi:- pronto chi sei? e incominciai a parlare a fare domande, quella volta chiuse lui per primo. il giorno dopo risposi nuovamente io e continuai a parlare a chiedere, dall'altro lato silenzio, dopo un po' del mio monologo salutavo e chiudevo il telefono, non chiamava più fino al giorno dopo. andando avanti cercai di instaurare una comunicazione, gli facevo domande e gli chiedevo di rispondere con un clik per si due per no, a volte rispondeva ma non sempre, lo chiamavo mongoletto... incominciai a pensare a chi c'era dall'altro capo del filo, un muto, un vecchio, un ragazzo, qualcuno che mi conosceva, che abitava nel quartiere...poi smisi di interrogarmi. mongoletto telefonava ogni giorno e se rispondeva mia madre mi chiamava: - anna è per te c'è mongoletto al telefono...un giorno non telefonò, ero preoccupata, l'indomani gli chiesi se era stato male, mi rispose con un clik...la storia andò avanti per un paio d'anni forse tre, finché mi accorsi che mongoletto


non telefonava da giorni, passò una settimana, ero preoccupata, non gli avevo mai chiesto il suo numero, non sapevo nulla di lui, non aspettavo neanche le sue telefonate, lui c'era, sempre, ogni giorno, faceva parte della mia vita, a volte mi infastidiva parlargli perchÊ dovevo uscire o fare altro e lo liquidavo velocemente a volte stavamo ore al telefono in un assurdo dialogo fatto di monologhi e qualche clik... mongoletto non telefonò piÚ.

anna farinella


un amore di facebook

ci sentivamo in chat da un paio di settimane, io sarei dovuta partire per qualche giorno...e io come faccio? mi scrisse, non posso non sentirti per tutto questo tempo...mi chiese il numero di telefono, io mi terrorizzai, mi spaventava l'idea che questa storia potesse uscire da qua, se avessi sentito la sua voce sarebbe diventata un'altra cosa, non ci pensavo neanche, era una cosa circoscritta fra immagini musica e parole scritte, ci scambiammo i numeri, spensi il computer e uscii a piedi, arrivata alla fermata dell'autobus, stavo andando alla stazione a prendere il treno, squilla il cellulare...non capii piĂš nulla, sentivo la sua voce, era vero, reale, esisteva a...l di la di uno schermo e una tastiera...salii sul primo autobus senza sapere se era quello giusto, feci il biglietto e il percorso in treno senza smettettere un attimo, parlammo per due ore fino al mio arrivo. dopo qualche mese...viola nonchĂŠ...il mio altro profilo, l'ho inventato per lui, avevamo litigato e ci eravamo cancellati, mi sono inventata un nome una data di nascita un luogo di


residenza un lavoro un figlio un gatto...ho appuntato tutto e scelto solo un amico comune, gli altri cercati nelle amicizie dei miei contatti...in un paio di giorni avevo un sacco di amici e una bacheca totalmente diversa da quella di opuntia, viola era diversa da me ma di una tipologia che conoscevo bene, di sinistra ma non troppo estremista, più anarchica, romantica, amante degli animali...mi chiese l'amicizia lui...e incominciò il delirio...mi fece da subito la corte, un corteggiamento da favola, il corteggiamento che ogni donna vorrebbe....io cercavo di capire se sospettasse qualcosa...una notte ho ceduto...abbiamo scopato su msn, dove mi ero già fatta un profilo corrispondente a viola, ed è stata la scopata più incredibile che abbia mai fatto, io non ero io, ero viola e viola non scopava come me, e non capivo se lui stava scopando con un'altra o con me, se aveva capito...è stato terribile, mi sono innamorata ancora di più, ho pensato che in ogni caso era un uomo che amava le donne e sapeva amarle, quanto diverso era con viola, quanto diverso era con me...da qualche giorno mi chiedeva il numero di telefono, io adducevo scuse, finchè un giorno temendo di uscire totalmente fuori di testa glielo


diedi, avevo un'altra scheda, non lo conosceva, io sapevo che il gioco stava finendo...squilla...pronto...clik...al mio pronto chiude il telefono e mi scrive in chat...l'avevo capito...non saprò mai se l'aveva veramente capito, e quando....

anna farinella


pronto mi piace - Pronto? - Pronto! Buongiorno stiamo conducendo un’indagine statistica sui gusti degli italiani per conto della società **** (incomprensibile). Vuole partecipare? - Si certo! Uhm… allora: mi piace l'acqua da bere non del frigo, le fontane e le fontanelle, mi piace il vento, mi piace la spiaggia d'inverno e d'estate e il mare d'inverno e d'estate, mi piace togliermi i peli con la pinzetta, mi piace cantare, mi piace giocare a carte, mi piacciono cruciverba, crucipuzzle, rebus, unire i puntini, Topolino, mi piace il cornetto con crema e non mi piace con marmellata, mi piace pensare a libri già letti, mi piace leggerne di nuovi per paragonarli a quelli letti, mi piace il letto fatto, mi piace il letto sfatto e il letto rifatto, mi piace sognare e non mi piace raccontare i miei sogni, mi piace pensare bene della gente ma anche male, mi piace Alice nel paese delle Meraviglie e mi piace Cappuccetto Rosso ed il lupo cattivo, Alice però mi piace di più. Mi piace il colore della luna e la luce che fa la luna di notte, quando non c'è la luna è troppo buio e non mi piace, mi


piacciono le stelle, le stelle, le stelle, le stelle, le stelle, mi piacciono cavigliere, anelli, bracciali, mi piacciono capelli lunghi lisci o ricci, corti, rossi, biondi, neri, e gli occhi con o senza occhiali. Mi piacciono borse, scarpe, perline, paillettes, piume, nastri, fiocchi, avere e fare regali, carezze, abbracci, lana, fuoco, camino, la musica. Mi piace camminare a piedi nudi nel parco, a piedi nudi sull'erba anche sintetica, mi piacciono i bambini e il miracolo che sono i bambini, i bambini che sono prima nella pancia e poi fuori per provare a vivere e parlano e corrono e ti insegnano delle cose‌ tante cose. Mi piacciono gli amici che ci sono sempre quando sono amici, sempre; mi piace l'amore quando c'è mi piace assai amore mio, non mi piace per niente quando non c'è. Mi piace flirtare, mi piace chi lavora bene, mi piacciono i responsabili, il mio lavoro, mi piace ridere e sorridere, mi piace piangere, mi piace il cinema, i film, mi piace la libertĂ l'uguaglianza, la fratellanza, la giustizia, mi piacciono i colori, le nuvole, il grano, i fiori, le onde, i fiumi, le cattedrali,


i quadri, le statue, i musei, le montagne, i vulcani, le isole isole isole, il sole. Mi piace la frutta, i nomi, le cose e la città , il dire, il fare ed il baciare, mi piace mangiare, oziare, dormire, studiare, mi piace la curiosità la scienza e la poesia non mi piace volare, mi piace pescare, mi piacciono cani e gatti. Mi piace il bosco, i funghi del bosco, gli anziani, i capelli bianchi, le righe delle rughe, le mani con le vene torte e contorte, gli avi, le radici le origini, i miei genitori, l'albero di ulivo, i miti greci. Mi piace vedere i politici corrotti in galera e mi piace pensare di poterne avere di onesti. Uhm.. Non mi piace parlare al telefono‌(silenzio‌). - Pronto? Prontoo? Prontooo???

delia russo


operazione fuoribordo Quattro, cinque. Cinque, quattro. Qual’è la differenza tra quattro e cinque? Solo un’insignificante unità, un irrilevante, unico e inutile uno. Di fronte all’universo cosa volete che sia un uno? A me però quest’uno ha cambiato la vita. Sette quattro quattro nove zero quattro. Oppure: sette quattro quattro nove zero cinque. Non sembra gran che, ma se li digitate sulla tastiera del telefono avrete effetti molto diversi. Io faccio il programmatore di computer, e da quando la tecnologia me lo consente, lavoro in proprio a casa mia. I miei clienti mi chiamano, mi dicono se vogliono installato un programma, io ci vado e glielo installo. Poi curo l’assistenza da casa mia. Dove vivo da solo, se escludiamo Johnny, il mio cane meticcio ma molto simile ad un pastore belga. Per questo tutte quelle telefonate mi davano sui nervi. - Pronto buongiorno. E l’Autonautica? - No, qui è casa Muras, con la esse finale. Questa cosa della


esse finale avevo imparato a specificarla prima, perché tutti i clienti la ritenevano completamente superflua. Io invece ci tengo. - Pronto cè Vincenzo? - No, mi dispiace qui non cè nessun Vincenzo. Si andava avanti così anche dieci, quindici volte in una giornata. La Telecom si era tolta qualsiasi responsabilità, sostenendo che forse l’Autonautica aveva scritto in qualche pubblicità il mio numero anziché il loro. E in effetti così doveva essere stato, dal momento che su internet, alla voce pagine bianche, avevo fatto la ricerca, e veniva fuori che l’Autonautica aveva il numero quasi uguale al mio. Il mio col quattro finale, il loro col cinque. Fino a quando mi stancai. Decisi di cambiare metodo, e combatterli con le loro stesse armi. - Pronto Autonautica? - Si, mi dica. - Potrei parlare con Vincenzo, per favore? - No, Vincenzo è uscito, dica pure a me, sono il fratello. - Ah Volevo sapere se il mio gommone è pronto, se potevo


venire a ritirarlo. - No, mi dispiace. Ancora qualche giorno - Ma come? Vincenzo mi aveva detto che per oggi sarebbe stato pronto. - Eeeee.. un poco di pazienza. Richiami tra un settimana. Ad uno dicevo che quel pezzo di ricambio non lo facevano più, ad un altro che il catamarano sarebbe stato pronto dopo un mese, e così via. Se io dovevo subire per la vita quella rottura di scatole, che almeno soffrissero anche gli artefici di questa rottura. Un giorno tra le tante ricevetti una strana telefonata. Niente dialetto stretto, come mi capitava il più delle volte, ma un italiano impeccabile e distinto. - Buongiorno, sono il segretario dell’Assessore Mancuso. Il signor Vincenzo, per favore? Non mi sembrò giusto sul momento operare distinzioni di fronte ad un potente, così continuai la messinscena anche con l’assessore. - No, ma dica pure a me. - Riferisca per favore al signor Vincenzo che la fornitura di


parabordi di medie dimensioni è pronta. Ci vedremo al solito posto. - Ma io non so se lui tornerà stamattina. - Non importa. Lei riferisca. E tutto a posto, stia tranquillo. Io in verità tranquillo non lo ero per niente. Quella telefonata mi aveva messo un’agitazione insolita e mille pensieri. E se stavo per causare un danno? Forse il signor Vincenzo avrebbe perso un’importante commessa per colpa mia. Magari uno lavora per anni onestamente, arrivo io e gli combino sto gran casino. Passi per uno scherzetto innocente, ma qui si poteva trattare di lavoro, e sul lavoro non si scherza. Decisi di chiamare il signor Vincenzo, e dirgli che avevo ricevuto questa telefonata, magari omettendo di dire che mi ero fatto passare per suo fratello, e la storia si sarebbe chiusa lì. Mi avrebbe anche ringraziato. Stavo per sollevare la cornetta, quando il telefono squillò di nuovo. - Vincenzo? - No, guardi


- Ah, sei il fratello. Ascoltami bene. I gommoni sono difettosi, e i clienti stanno venendo a protestare. Siamo intesi? - No, senta, in verità a me dei gommoni non è che… - Coglione! Digli a Vincenzo che i clienti saranno lì a momenti. Testa di cazzo! Se cè una cosa che non tollero è la maleducazione. Tanto più che questo sconosciuto riattaccò prima che avessi avuto il tempo di dirgli quanto era stato villano. Decisi che il signor Vincenzo e la sua banda di collaboratori sgarbati non avrebbero meritato nessun gesto gentile. Così mi rimisi a lavorare e staccai il telefono. Tanto i miei clienti il numero del cellulare l’avevano tutti. Sono passati venti giorni da quando mi hanno rinchiuso in questa cella da solo e io ancora non ho capito niente. L’hanno chiamata Operazione fuoribordo, e la mia faccia era sul giornale insieme ad un mucchio di altre poco raccomandabili. Il mio avvocato dice che oggi il tribunale della libertà ha rigettato l’istanza di scarcerazione. Dice anche che questa linea difensiva impostata sull’errore del numero telefonico non ci porterà da nessuna parte, che è


troppo inverosimile, che la usano tutti quando non hanno piÚ argomenti. Dice che se parlo e patteggiamo me la caverò con cinque anni, che con la buona condotta possono ridursi a quattro. Quattro e cinque. Cinque e quattro.

marco pomar


Chiami o no?

Avrei dovuto farla io quella telefonata. Così era stato deciso. Avrei dovuto chiamarti io. Rosi mi disse: “Chiamala tu Caterina”. E io accettai, nonostante questo banale compito mi apparisse come una delle fatiche di Ercole. In fondo avrei dovuto darti solo delle informazioni per telefono, non avresti neanche visto il mio viso diventare di mille colori per quella timidezza antica che mi porto dietro. I giorni però passavano e io non mi decidevo a sollevare quella cornetta. Non mi sono mai chiesta se tu aspettassi con ansia, se fossi spaventata o eccitata all’idea che ti contattassimo. Non ho mai pensato a te, eri solo un nome, una voce in segreteria che credo di non aver mai ascoltato, eri solo il motivo per cui mi sentivo poco all’altezza di un compito e bloccata da un sentimento che per tutta la vita avevo cercato di respingere. Io avevo sempre avuto problemi a parlare in pubblico, guardare qualcuno che mi ascoltava in una riunione, in un seminario, mi procurava secchezza in gola, dimenticavo alcune parole che avevo preparato, non sapevo improvvisare. Ma comporre un


numero

telefonico…cosa

mai

poteva

succedere

di

irreparabile? Eppure non mi decidevo. Mi sentivo addosso una responsabilità eccessiva, piena di aspettative. Sembrava facile. Alzo la cornetta…compongo il numero…attendo…”Pronto Caterina…sono Stefania di Lady Oscar…hai lasciato un messaggio nella segreteria dell’associazione…per questo ti chiamo…”. Facile, no? Facile per chiunque, ma non per me. Mi agitavo al solo pensiero e quasi sudavo. Cercavo di non dare importanza alla cosa, mi dicevo che non c’era bisogno che ti chiamassi, tu avresti comunque richiamato, tu sicuramente non ti saresti fatta problemi a risollevare la cornetta, tu eri forte, tu, non io. Non ti ho mai chiamato. Eppure tu sei accanto a me. Non ti ho mai chiamato. Ma ti ho incontrato lo stesso. Anche se, quando tu hai varcato quella porta un pomeriggio di maggio, io non c’ero.

stefania giambalvo


una telefonata desiderata

Per parlare della telefonata che vorrei ma che proprio non riesco a fare, devo prima andare a ritroso nel tempo, a due anni fa quando tramite un’amica, mi rivolsi a lui, il mio ex psicoterapeuta e destinatario della telefonata. Allora avevo bisogno di capire certe mie dinamiche in relazione agli uomini della mia vita ed alla mia vita stessa. I nostro primo incontro fu qualcosa un po’ fuori da quelle regole che dettano, che fissano dei parametri di comportamento. Due sguardi che si incrociarono con inaspettata e piacevole sorpresa già dal mio passo dall’anticamera alla porta d’ingresso dello studio, due sguardi che si svelano dopo la prima informale telefonata per fissare il primo appuntamento. Fu il nostro, per oltre un anno, un rapporto fatto di rispetto, fiducia, cose verso le quali avevo perso l’abitudine e l’attitudine, una specie d’amore, vero e sincero senza sesso. Gli incontri per la costruzione e la riparazione del mio sé, avvenivano in una stanza in penombra, dove due lise poltrone rivestite da tessuto damascato verdo scuro, ci accoglievano l’uno di fronte all’altro. Oggi so che il


transfert fu reciproco. Non ci fu mai nulla di fisico, solo i baci di saluto. Entrambi avevamo la passione per i bracciali di cuoio e questo allora mi sembrò un segno…insieme ad altri segni che di lì a poco arrivarono. L’anno scorso, a dicembre, il giorno 7 per l’esattezza, decisi all’improvviso di non andare piu’ da lui. Ci furono scambi di sms, da parte sua un’apertura, comprensione per il proseguimento del mio percorso terapeutico, in me invece, una ostinata chiusura. Dopo giorni di tormenti miei, cambiai idea e presi la decisione di proseguire e glielo comunicai via sms. Rispose con un brevissimo “va bene” e sparì dalla mia vita per due mesi, due mesi di sofferenze perché mi mancava e perché temevo che non mi avrebbe mai più cercata, lui era il mio dolce oppiaceo. All’improvviso si fece vivo per chiedermi come stavo. Io quell’uomo me lo sognavo la notte, cosa che ancora oggi mi accade spesso… Dopo il riavvicinamento tramite sms, decidemmo di incontrarci per parlare. A me andava il cuore a mille comunque riuscii ad esporgli con fermo distacco e con dolcezza la mia decisione definitiva: abbandonare la terapia anche se questo comportava non vederlo più. Lui accettò la


mia decisione e mi disse che se volevo avrei potuto chiamarlo anche per un consiglio. Lo ringraziai ma gli dissi di no, che non lo avrei piu’ chiamato. Continuo a sognarlo, vorrei afferrare il cell e chiamarlo, sentire la sua voce, capire se prova piacere nel sentirmi, spingermi piĂš in lĂ ed invitarlo a prendere un caffè o quello che diavolo gli pare insieme a me, ma non ci riesco, proprio non ci riesco..

evelina abbate


se telefonando storia di voci sincopate e oscure tra mille uguali e mal capitate

Perché tormentarsi? Stamattina è cominciata con le cose “duci”, l’abbraccio tra me e i miei figli, la piccola mano di Luciana tra i capelli al risveglio e adesso le tante cose da fare; il fatto è che mi stanco facilmente,

allo specchio sono un po’ ingrassata però

abbronzata, le mestruazioni strane, mai avuto flussi lunghi e copiosi, adesso invece, ma non credo di essere malata, solo più vecchia. Dovrei darmi da fare, preparare il pranzo e chiamare Carmen. Certo è che dopo il pistolotto di ieri per via della mia indolenza chi la sopporta più, pur di non sentirla , farò tutto io, come al solito. Appena viste è partita con l’arringa - Vuoi guadagnare? O puoi vivere di rendita? Dì, come potrai permetterti il tuo bel tailleur e tutto il resto? Devi partire tu, col tuo faccino e il tuo corpo atletico li stendi tutti, vedrai la delibera verrà firmata subito, otterremo l’incarico. - Sono stanca


- Non si vede Va bene, bisogna che si faccia, a tutti i costi. Il lavoro ha la priorità, sì, preparo il trolley. Mi sposto in camera da letto, è fresca, dalla finestra entra una luce rosata, apro l’armadio guardo e ho un attimo d’esitazione, è meglio che faccia una lista come al solito, sennò rischio di dimenticare qualcosa. Penso che al mio ritorno non troverò più i ragazzi, ma tant’è, devo andare io, lei la socia, non prende gli aerei e poi l’idea di incontrare Federico mi intriga. Dove avrò messo il biglietto? Frugo nella cartella documenti poggiata sulla sedia rossa di velluto, ah eccolo, lo metto in borsa. Ho mal di pancia, vuoi vedere che le mestruazioni mi verranno in viaggio? Non devo pensarci, se arrivano bene lo stesso, ci sono i tamponi. Bastassero quelli a fermare il sangue. M’affretto, ormai sono brava e veloce a fare e disfare le valigie, abituata. Prima i documenti e il biglietto poi il beauty-case che è già pronto. Camicia da notte. Tre quattro tubini stessa variazione di


colore dal grigio al nero, per via delle scarpe . Una sciarpa, un golfino, gli accessori da giorno, per la sera prendo gli orecchini di mia madre e il solitario. Vado a fare una doccia. La luce del bagno artificiale quasi m’acceca, bianca fortissima, non sopporto le lampadine a basso consumo. Sotto l’acqua non penso, ci starei ore, l’ultimo getto freddissimo mi riporta in me. Passo l’olio, quello neutro

e sento salire alle narici il mio

odore naturale, mi piace il mio odore, lo stesso che sempre m’annuncia, da quando ho undici anni divenuta donna, sa di mandorle amare e gelsomino.

Indosso la camicia, quella

bianca. Di nuovo il telefono, mannaggia ! Insiste non vuol capire, corro in cucina, è tardi . Forse sono i ragazzi, la norma è due squilli e poi li richiamo . Ho un filo d’apprensione, deglutisco. Risuona di nuovo - Pronto? Dall’altra parte del filo silenzio, poi in crescendo, dal pianissimo al piano una musica, mi sembra di riconoscere “Breathe me” dei Pink Floid, aguzzo le orecchie e con una esplosione arriva quell’ansimare rotto sincopato.


Chiudo di botto, come se la cornetta scottasse e metto una mano sul cuore al galoppo a calmarlo. E’ il telefono di casa. Quasi nessuno ha questo numero, cosa sta succedendo? Lo stacco? Non posso, con i ragazzi fuori, devo stare calma, magari è solo lo scherzo di un innocuo onanista che ha fatto un numero a caso. Sento però che non è così e m’inquieto. Calma devo star calma . E’ già passato, non è successo niente. Vado in camera da letto accendo la luce e scelgo un libro:”Il porto dei sogni incrociati” di B. Larsson che parla di mari, di porti e di sogni venduti, io ladra di sogni, guardo il telefono con sospetto e di nuovo trilla. So già, lo sollevo timorosa e ancora arriva la musica e quell’ansimare osceno. Si va avanti così per 20 min. Io buttata sul letto, come in ipnosi una mano sul telefono, ad ogni squillo alzo la cornetta e la richiudo automaticamente. Poi il silenzio. E’ già l’una, maledetto! Finalmente ha finito. E’ tardissimo, domani sarò rimbambita, devo addormentarmi ho messo la sveglia alle quattro l’aereo partirà alle sei e quindici. Di nuovo mi dico che forse è semplicemente uno


scherzo, basta

non pensarci, cerco di

concentrarmi su

domani e i ragazzi, Luciana e Marco. Pensieri puliti . Questura Di Palermo Sono davanti alla questura e inspiro lentamente, per farmi coraggio, l’aria ottobrina è dolce e consola; mi fa sempre un brutto effetto entrare qui, penso allora a mio nonno, in fondo sono la nipote di uno sbirro e poi c’è Federico. La forza di questa storia se storia sarà, è nei cento Km. che ci separano e nelle mille emozioni che oggi ci uniscono. Entro. Divisione anticrimine Ufficio denunce Oggetto: Verbale di denuncia di molestia resa nella forma orale da Giulia Tagliavia Nata a Palermo il 30 Novembre 1966 residente in via XX Settembre, identificata con patente di guida n. rilascia dalla mctc di Palermo in data 17 /11 / 86 Professione Attrice tel 33xxx L’anno 2010 del mese di ottobre alle ore 12, nell’ufficio denunce della questura di Palermo innanzi al sottoscritto Ufficiale di P. G. , ispettore capo della Polizia di Stato


Giuseppe Barone, appartenente all’intestato ufficio, è presente la persona in oggetto generalizzata, la quale per ogni effetto e corso di legge consapevole delle responsabilità civili e penali assunte con le dichiarazioni rese, dichiara quanto segue: Dai primi giorni di settembre vivo in casa da sola, dato che, i miei due figli Luciana e Marco, per motivi di studio, vivono fuori sede, da quel momento sono iniziate ad arrivarmi presso l’utenza telefonica di casa avente N. 091/272213 delle telefonate anonime con cadenza saltuaria e anche in orari notturni. Il 26 9 2010, nella nottata, all’incirca verso le ore 2.oo, arrivava una telefonata sull’utenza di casa, che tra l’altro non compare tra gli abbonati telecom, in elenco, con la quale l’ignoto interlocutore , con musica di sottofondo, ansima. Le telefonate si sono susseguite nella nottata, per circa venti minuti, ogni qualvolta telefonava, io ripetutamente staccavo il collegamento e nella speranza che desistesse, nell’ultima chiamata gli dicevo che il mio telefono risultava sotto controllo.


Per quanto sopra non ho sospetti alcuno. Arrivano successivamente altre telefonate, tanto da costringermi a tenere l’utenza telefonica staccata e contestualmente chiedere alla telecom l’emissione di un altro contratto con altro numero telefonico. Mi arrivano altre telefonate sull’altra utenza n 339xxxx a me intestata, il 29 e il 30 9 duemila e dieci e cosa stranissima l’interlocutore mi ha chiamato con il nomignolo Babygiù , conosciuto e usato solo da poche e intime persone. AA. D. r: non ho sospetti alcuno, non ho altro da aggiungere e confermo quanto già dichiarato. Letto confermato e sottoscritto, significando che copia viene rilasciata al denunciante

e

per

gli

usi

consentiti

dalla

legge…il

denunciante, l’ufficiale di P.G.. Finalmente fuori, anche questa è fatta. Non ho detto tutto, mi chiedo perché. Io un sospetto ce l’ho e non è per quel mentecatto di Robertino, un musicista psicopatico invaghito di me. Le mie amiche sono convinte che sia lui, sente le voci, le voci gli dicono che io sono la sua donna, dice di amarmi e che io lo amo, è pazzo, ma so, sento che non viene da lui. Io un sospetto ce l’ho…è il professore, il


mio amico professore universitario, quello di Napoli, Economic History Professor presso Seconda Università degli Studi di Napoli,la sua frase di tempo fa mi rimbomba nella testa continuamente, - Perchè fai il geloso? Non mi possiedi, non mi hai, come si può essere gelosi di qualcosa che non si ha? - Io ti ho tutte le volte che ti sento! Io ti ho tutte le volte che ti sento ! Io ti ho tutte le volte che ti sento! Maledetto! E’ lui! Ripenso a tutte le volte che mi chiedeva di leggere i suoi articoli, per le bozze diceva, per correggere al meglio e a quando paragonava la mia risata a quella delle donne andaluse. Mi raccontò pure di quella volta che un tassista gli spiegò cos’è che avevano di speciale le donne di Siviglia, era la voce, la voce che durante l’orgasmo assumeva colorazioni uniche. Maledetto! - Giulia rileggimi quell’articolo, dai, lasciami penetrare dai suoni gutturali del tuo arcano gaditano. Leggi leggi ancora. Leggimi la tua scrittura - Ma non ti annoi? Sei gentile, sei sicuro di voler continuare?


- Lo sai che mi piace aiutarti e che tu aiuti me, poi gli errori così sono più visibili . Ma è mai possibile che io fossi così scema? Devo provarlo però,non basta un’intuizione, devo ricostruire questa vicenda, ricordare gli incontri, tutte le telefonate . Vuoto, non mi viene in mente nulla, sento freddo. Non riesco a capire, perché faccio resistenza? Io non sono mai stata capace di rimuovere o di accantonare pensieri scabrosi. Sono fuori l’atrio, in strada. L’aria fresca mi alleggerisce, affretto il passo verso casa e comincio a snebbiarmi . Devo essere sincera con me e non aver paura, così non posso più continuare. Scacco matto! Ricordo la scena, ci sono dentro: eravamo sull’isola vicina a Palermo, comoda da raggiungere poiché da Napoli il traghetto è diretto. Tempo di vacanze e amici, una sera siamo rimasti soli, i baci sempre più insinuanti ed io incapace di reagire e di respingerlo con fermezza, muta, piegata, solo i miei occhi non


si abbassavano come laghi oscuri conficcati nei suoi lascivi. In cucina lui alto m’afferrò e si chinò di nuovo di nuovo su di me per baciarmi le labbra il collo, allora girai il viso di scatto. - No, non voglio, lasciami andare - Dormi con me - Non è questo che vuoi, lasciami E, non so se ebbe pietà o se temeva per sé, mi lasciò andare. Andò in camera sua che era di fronte la mia, lasciando la porta socchiusa, perché io vedessi, ma non guardai,

i muri però

erano sottili. Rannicchiata su me stessa con il lenzuolo tirato su fino a coprirmi la testa, mi bastò sentire, come un rantolo di morte, poi i suoi passi verso il bagno, lo sciacquone. Invece al mattino continuavo a ripetermi: - E’ un gentiluomo, poteva prendermi e non l’ha fatto, è un gentiluomo. Dove c’è ingenuità non c’è colpa, ma quando c’è coscienza sì. Me la sono cercata. Mi fa male il petto, accelero ancora il passo, comincio a sudare, mantengo l’andatura, ma la testa comincia a dolere e


vedo tutto ammantato di giallo e fluttuante. Gli occhi mi lacrimano, due spade dentro. Infilo tremante e sudata la chiave nella toppa, l’ascensore, presto in bagno, ho la febbre prendo un’aspirina, tra qualche ora devo essere pronta. Il telefono. È Carmen - Fra un’ora passo a prenderti - Ok Le ombre si sciolgono non appena sfioro la realtà, è bastata la voce imperiosa di Carmen a distogliermi e a sollevarmi il cuore, va bene, vado al lavoro, ma avverto pesantezza alle gambe. Va tutto bene mi ripeto, va tutto bene, è successo qualcosa, ma va tutto bene. Dico di sì e mi tuffo in questo tempo riempito. Mi preparo per la mostra con un look da urlo in nero. Carmen è puntuale, arriviamo, ci sono tutti i notabili della città. Mi sento inadeguata, come sempre, osservata, mi raddrizzo e sfodero il mio broncio. Le donne puttane la plastificazione di tutto. Sì è proprio una mostra di un’umanità terminale e sciagurata, che non è più capace di autenticità, un


acquitrino maleodorante. Mi si avvicina l’assessore alla cultura, è una donna, chiacchieriamo per un po’, sembra molto disponibile, ha visto alcuni nostri lavori, mi chiede un biglietto da visita o il numero di telefono, ho un sussulto, faccio la tonta sbadata, rido . - Sa com’è ? Il proprio numero non lo si ricorda. Carmen s’avvicina, ha intuito il mio disagio, dà il suo numero e quello dello studio. Mi chiede se sto bene . - Sì sì sto bene, ma voglio andar via - Resta ancora un po’ - No, non ce la faccio più, vado - Allora a piedi, io non t’accompagno. Sono già partita. Di nuovo verso casa. Questa cosa non va, ho cambiato tutti i numeri di telefono, solo i miei figli e la mia socia amica, persino gli amici più cari non li hanno. Mi sento ammorbata, sento puzza d’inganno dappertutto, la mia vita sembra un frigorifero con una scatolina con del cibo avariato dentro, ci sono tante cose belle, dolci piccanti amare,


ma quella puzza ammorba tutto, persino i miei rapporti quarantennali come quello con Francesco, neanche lui ha più il mio numero. Nessun parente né amico, però Federico sì, lui è arrivato dopo, non può avere a che fare con tutto ciò. Devo venirne fuori, mi è già tutto così pesante, ci mancava pure il maniaco e le oscenità nella conduttura del bidet telefonico. Mi sento spiata. Mi conosce. E se non fosse il professore, ma una persona che amo a me vicina? Ho paura, sto sempre in atteggiamento di difesa , questa cosa pesa anche sulla mia professione, e dire che sono sempre stata molto attenta prudente, distante. Occhio Giulia occhio! Succede che sto andando fuori, non vedo l’ora di essere a casa al riparo. Ma è davvero un riparo? Sonno elefante. Mi sveglio , mi alzo sono le 8. Fa freddo, mai sentito questo freddo a dicembre, accendo i termosifoni. Il nuovo lavoro accettato m’impone un’ulteriore disciplina, non posso poltrire come vorrei, preparo la colazione, faccio una spremuta con le brasiliane, sono dolci da sé, poi le abluzioni, sfaccendo, ogni tanto mi fermo e mentalmente organizzo la


mia giornata. Devo passare dall’Aci per ritirare la carta verde quindi via libera, il bollo lo pagherò dopo, non ho i soldi, poi benzina, un po’ di spesa e infine da Carmen per le prove. Devo leggere il copione, mi piace, parla di donne estreme e favole, tra storie e cantastorie, siamo in quattro, oggi la prima prova, quella di lettura. A me hanno affidato due parti: la prima quella della vecchia puttana settantenne, l’altra della giovane donna affetta da hiv. Mi incentro sulla prima, è così triste, devo caratterizzarla col dialetto poi. Dovrei godere di questi giorni

che

non

torneranno

più,

maledetto

denaro!

Improvvisamente non saranno nemmeno le 10 il telefono squilla, rispondo distratta. - Pronto - Puttana! Lo sbatto per terra, riprende a squillare. Vado nell’altra stanza inquieta, col magone addosso. Il telefono tace. Lo stacco appena in tempo, ma squilla il cellulare. Numero anonimo. Lo spengo. Vado in soggiorno. I burattini sono lì allineati, prendo la mia piccola Cappuccetto e la animo, divento lei, il collo mi fa male,


non ho più l’età per certe cose, ma va meglio. Prima di tornare al copione faccio un caffè e ascolto musica “Le chemins de l ’amour” nell’interpretazione di Jessye Norman, la canticchio e m’abbandono. Le chemis de l’amour - Les chemins qui vont a la mer - Ont garde de notre passage - Des fleurs effeuillees et l'echo sous leurs arbres - de nos deux rires clairs - Helas, des jours de Bonheur - Radieuses joies envolees - Je vais sans retrouver traces dans mon Coeur Ancora seguo la divina voce cantando, mentalmente divento lei… Chemins de mon amour - Je vous cherche toujours - Chemins perdus, vous n'etes plus - Et vos echos sont sourds - Chemins du desespoir - Chemins du souvenir. Gli applausi registrati mi riportano alla realtà, ma la mia voce estranea risuona, ancora ritorna insistente e con lei l’immagine del professore. Apro il computer vado alla mia casella di posta, posta in arrivo, cerca da Napoli, trovo scorro e rileggo sue vecchie e mail, in una si dichiarava geloso e alla


mia domanda come si può essere gelosi di qualcosa che non si ha, la sua risposta: - Io ti ho tutte le volte che ti sento. Io ti ho tutte le volte che ti sento. - Ricordavo bene, l’ha pure scritto Cosa vuol dire, ma davvero può essere lui, ma se mi vuole bene, se gli sono amica, se mi chiede consigli? Oddio! Di nuovo ripenso a tutte le volte che prima di presentare un articolo o capitoli di libri, mi chiedeva di leggerglieli, dicendomi che così era più facile individuare gli errori, una volta sull’isoletta lo chiese pure alla mia amica, ma il suo timbro lo infastidì, non era carezzevole. Una mattina appena svegliata lo salutai. - Buongiorno - Ripetilo - Buongiorno - Ancora - Ma cos’hai? - La tua voce - Sì dev’essere terribile , scusa sto dormendo


- No no la tua voce mi piace, è molto morbida, accogliente, non la definirei "dolce" piuttosto, morbida, morbidissima e serena come di chi sa cosa cerca e cosa sta ascoltando - Tu dici? E mi sembra continuasse così… - La tua voce smussa gli angoli, è una strada sinuosa, inventa le parole nell’istante in cui l’onda carezza il mio timpano, percorre e asseconda il profilo del corpo senza mai curvare bruscamente, senza soluzioni di continuità, senza staccarsi, lo risale e raggiunge come luce e suono ogni cellula, vibra in sintonia di frequenza e si somma e si amplifica riempiendomi - Ma ti sei svegliato poeta? ma dai, è ancora presto, stai sognando? Vuoi un caffè? Era eccitato, lo ricordo bene e io imbarazzata. Devo rimanere lucida, forse mi sbaglio. Sono passati mesi c’è una nuova presenza nella mia vita, una nuova casa e il tormento di sempre, il molestatore non demorde e io mi sento ammorbata, ho ricevuto appena adesso in questo febbraio che sa di primavera alle 14.11 una chiamata anonima:


- Puttana, troia! Non rispondo, ormai ho la segreteria permanente, che è meglio di un salvavita, ascolto l’ultimo messaggio di Federico - Chiama - Più la registrazione di due messaggi di lavoro, ma al terzo eccolo di nuovo lì Il bastardo. Ecco in una giornata come questa mancava solo lui. Sto per chiamare Federico, ma lo squillo m’anticipa, non alzo il ricevitore, lo so, è lui. Squilla tre volte. Cancello senza ascoltare, poi m’arrabbio con me, la polizia ha suggerito di registrare tutto, ma sono stata impulsiva, m’è pure passata la voglia di telefonare a Federico, intanto oggi è il suo compleanno, ma non me la sento. Torno ai miei compiti: pulisco il bagno, raccolgo i panni sporchi li trasferisco in lavatrice, avvio il programma. Non riesco a distrarmi, vorrei scrivergli qualcosa, ma lui è già qui, un messaggio. Adesso basta, devo affrontarlo, è troppo, lo chiamerò io, che senso ha prolungare questa tortura. - Ciao - Ciao, cos’è questa vocetta? - Sono triste, vengo adesso dal commissariato, sei tu, sei tu che telefoni e mi tormenti, ho riconosciuto il tuo numero.


Silenzio. - Una telefonata può partire - Ma che dici, perché? ( E’ lui, ne ho la certezza, sta tremando, l’ho stanato!) - Cosa hai raccontato loro? (c’è più di un filo d’apprensione nel suo tono, è paura). - Non ti ho denunciato, se è questo che temi, non al momento. Perché mi hai fatto questo? - Giulia, calma, non piangere, non sono io che… - Zitto, non puoi mentire, era il tuo numero. Perché? Perché se ti sono amica? Avrei potuto capire la tua debolezza, perché invadermi di nascosto, ma chi sei? - Baby Giù, io ti voglio bene, è la tua voce che… Metto giù, altro non c’è.

anna maria tedesco


in classe .....Entrando in classe "Ragazzi, spegnete il telefonino, così come sto facendo io" "Talèèè, 'u prufissure avi 'u telefonino ca pare 'u telecomando del condizionatore"

aurelio burgio


SE TELEFONANDO (si fa per dire…) SE TELEFONANDO, si fa per dire, il tempo del telefono è passato da un po’, non si ascoltano più le voci, le inflessioni, quelle sfumature nel tono vocale che ti fanno capire tanto o niente, non ci si rimbecca più’ arrossendo per la paura di far scoprire quello che abbiamo dentro e che vogliamo, si che scopri, ma a tempo debito.

SE TELEFONANDO, …direi se mandandoti un sms o meglio una e-mail, che può essere letta immediatamente in quell’ accidenti di Blackburry o nell’ I-Pad, senza interrompere il tran tran della quotidianità. Una mail…due mail…tre mail…

Ora si, è il momento di mandarti una mail ma quale casella devo usare? …e se scappassi di nuovo? Forse sarebbe meglio, sicuramente, zero occasioni, zero possibilità di incasinarsi la vita…ed io sono la prova vivente di come può una donna normodotata, di intelligenza parlo, incasinarsi la vita. Non serve avere una


laurea, dei master, superare brillantemente i test per il Q.I., riuscire bene nel proprio lavoro, essere stimata, passare per una donna “in gamba”, non serve riuscire a portare avanti ogni giorno tutta la baracca, faticando ma facendocela, non serve guardarsi allo specchio, come dice la zia, ripetendosi come un mantra “io sono…” giornalmente…non serve, perché IO mi incasinerò la vita, IO lo farò, né sono certa…

Sto per scrivere la mail, o vogliamo fingere che sto per chiamarti?, no, non chiamo è meglio così non interrompo nulla, e soprattutto non posso tradire la mia emozione…e poi,…non fa niente se dalle parole scritte esplodono sensazioni, domande, dubbi, certezze, non fa niente se le parole volano…mentre gli scritti restano lì, per essere guardati e letti ogni volta che ti viene voglia, ogni volta che pensi, che rifletti, che soffri, che speri, che ti dici smettila non si puo’, non è il caso, uffa e basta così.

Sto scrivendo…, certe volte ho la sensazione di vivere nel corpo di mia figlia, forse dovrei dire con la mente di mia figlia,


col cervello di mia figlia, con la testa di una ragazza di diciassette anni, IO HO 17 anni, ebbene si, non serve vivere, crescere, sbagliare, capire, prendere batoste, fare esperienza, risbagliare e pentirsi, non serve…io continuo ad avere 17 anni e sto scrivendo: “ Ciao, la nave è salpata finalmente.. ed io sto arrivando…a presto. Emilia”

emilia martorana


come in un salvadanaio, e allora m’è venuta l’idea M’è venuta un’idea. Così, d’un tratto. Mentre ero al PC. Tutto ha un’origine. Scaturisce da altro. E cos’è che mi spinge a interrogarmi sulla condivisione mica lo so bene. O forse lo so. ‘Sta pochezza di sentimenti. La singletudine, spauracchio o velleità. Boh, che dire? E mi ripeto: cos’è oggi condivisione? È Facebook. O quanto meno è anche Facebook, che ci dà uno spazio da condividere e dove condividere. È così, no? E allora l’ho scritto. Il mio numero di cellulare. Solo quello. Nel mio profilo. Una provocazione, né più né meno. E, del resto, se chiedi di fare qualcosa, o spieghi le ragioni perché vuoi proprio quella cosa, piuttosto, non l’ottieni. Se mantieni il riserbo… Nessuno che abbia aderito con un mi piace, una faccina di qualunque espressione umana stilizzata. Qualche commento sì. Per esempio: che vuoi dire? E io non gliel’ho detto. Che sennò la strategia non è più una strategia. Tutto per quella discussione odiosa. Dove viene fuori il pregiudizio dei maschi. Per non parlare del retropensiero delle


femmine. E, infatti, è proprio così e non si salva nessuno, né gli etero né gli omo. È il DNA che è fottuto in partenza. Per farla breve. Per tanti – e sono molti – FB è un modo per cercare compagnia. Non solo per condividere. Insomma, funziona e ci scappa pure la storia d’amore. Per quei tanti di cui sopra, è solo un modo per acchiappare. Mi oppongo risoluta. Sono in netta minoranza. No, non sola contro tutti. Qualcuno che mi spalleggia c’è. Fievoli voci a difendere un sincero interesse a partecipare passioni, curiosità, notizie. O a riprendere vecchie relazioni senza scombussolare l’equilibrio vitale. E poi me ne dimentico. Non proprio. Decido di non pensarci più. Vado al mare. Attivo il tono silenzioso che non voglio disturbare i bagnanti assopiti al sole qualora si dovesse scatenare l’inferno di chiamate. M’immergo in quello squarcio cristallino verde/azzurro. Nuoto e penso. Penso e continuo a nuotare. La mente fresca accarezzata dall’acqua. Gli schizzi scivolano sulle lenti degli occhialini. Scorgo pesci che si scostano come a darmi la


precedenza. Affondo il palmo e prendo fiato; ruoto la testa e affondo l’altro palmo in un ritmo quieto mentre mi chiedo perché mai attribuire intenzioni agli altri sia un’occupazione più diffusa che metterle in atto le intenzioni. Le proprie. Quando nuoto mi muovo in linea parallela alla riva. Temo il rischio di finire sotto l’elica di una barca e mi mantengo entro la distanza il cui accesso è impedito alla navigazione. E però la precauzione mi garantisce dal non morire, ma non anche dall’inquinamento acustico causato dalle moto d’acqua. Barbari mezzi ludici per rozzi individui. Ma, al di là degli inevitabili giudizi, ci sono e ce le dobbiamo sopportare. E ne arriva una. Stride e romba che mi dà ai nervi. E spartire in tal modo una natura meravigliosa che amo, oltre che irritarmi, mi ripugna. E allora ripenso a Facebook. Là non senti il mormorio fastidioso, puoi leggere come no. Là la condivisione è più rispettosa delle diversità. Chissà se qualcuno lo userà il mio numero. E chi. Chissà se non mi resta che dare ragione alla massa che asserisce un’unicità di scopo: conoscenze a fini sessuali, fors’anche sentimentali, ma solo in secondo ordine.


Credo che l’ho azzeccata a cambiare l’immagine. Tolta la faccia, ho messo una foto dove il viso è tagliato via, in primo piano un paio di gambe accavallate. Non le mie. Che non sono adeguate allo scopo. Ma un bel paio di gambe con annessi piedi sottili e caviglie e ginocchia ossute. Stringhe tempestate di finti smeraldi e zaffiri come il mare nel quale nuoto e un tacco dodici che invita a pensieri raffinati. Mi sconquasso dal ridere per quanto non mi somiglia quell’immagine. Ma quando è guerra, è guerra per tutti e allora mi butto nell’orgia virtuale. E senza ridere che sennò bevo e a mare non è una buona idea. Sbircio nella sacca e il display lampeggia bofonchiando silenzioso.

Numero

privato.

Asciugo

un

orecchio

frettolosamente: «Sì?» e certo non mi sarei mai aspettata la risposta che invece mi arriva: «Lo sai come sono?» E che gli dico a ‘sto idiota? E in modo altrettanto idiota gli rispondo che provo a immaginarlo. Ho proprio l’impressione che quel che dice prescinda dalle mie parole. Di cui non tiene


conto. M’informa che è nudo e che ce l’ha in mano. Non ho nemmeno il tempo di pensarla una risposta che già ansima e conclude, non so quanto gloriosamente – per lui, solo per lui –. Ci sono altre due chiamate senza risposta. Numeri che non conosco e non richiamo.

Mi stendo un po’, delusa. Mi

dispiace darla vinta alla maggioranza. Non posso arrendermi subito. Mi rendo conto, però, che se dovesse continuare così sarò costretta a cambiare numero. Non ci avevo riflettuto. E vabbè, fa parte del mio essere irruente. E però, se le telefonate continuano a essere di questo tipo, chiudo. Riattivo il sonoro e mi accingo all’attesa. Che è anche una sfida. Non ho nemmeno il tempo di sdraiarmi che squilla: mia sorella. «Come ti salta in mente di mettere il numero su Facebook? Un’altra delle tue?» Di quali mie parli non lo so affatto. Ma se per me è inutile chiederle delucidazioni, a lei la vaghezza torna

utile per

rincarare la dose. «Un esperimento», dico, e maledico di non aver impedito l’accesso al profilo a tutti i familiari che con le loro ansie non


fanno che opprimermi. Che è come dire che mi triturano il cervello o quel che non posseggo, che madre natura mi ha fatto femmina. Riesco a non litigare e finisce lì. Con l’impegno che le spiegherò. Dopo. Un altro numero che non conosco. Prefisso straniero che non conosco. «Allò?» «Ciao. Vengo in Sicilia. Voglio conoscerti.» «Da dove chiami?» «Istanbul» «Ciao, grazie per la chiamata, ma sono una siciliana che non vive in Sicilia.» Per questa resto in dubbio. Difficile catalogarla. Mi creo l’alibi perché non ho la prova che si tratti di un approccio sessuale. Cos’altro potrebbe essere. Non posso indagare e la cestino fra quelle neutre. “No, così non va… Io cerco un uomo che mi dia l’eternità…” Il ritornello della Vanoni riecheggia nelle mie orecchie. Quasi a cercare spiegazioni. O a darle, piuttosto.


Superfluo dire che continuo a ricevere telefonate che sono richieste di incontri, d’appuntamenti telefonici: «Ti posso chiamare stasera?» La voce femminile appartiene a tale Gisa. Non avrei mai pensato di ricevere telefonate, nonché molti sms, da sconosciuti e sconosciute. Nel senso che li sconosco pure su Facebook. Chissà come sono venuti in contatto con il mio post. Non chiedo. Capisco ancor più che Facebook è una macchina infernale di comunicazione e relazioni on-line. E dire che avevo pensato di avere sbagliato il metodo. Nel senso che avrei dovuto creare l’evento. Ma sarebbe stato troppo sfacciato e troppo esteso a chicchessia. Per questo non l’ho fatto. E meno male! Come avrei potuto gestirlo non oso immaginarlo. «Perché non parliamo ora, piuttosto?» E allora mi spiega che sta telefonando dalla sua postazione di lavoro. Che non può lasciarsi andare a cose più intime – e calca le parole, quasi le sillaba – e conclude con un: «Mi capisci, no?» Vabbè, rimandiamo a più tardi. Anche se non sono interessata alle donne. Quanto meno sessualmente. E allora perché


accettare ‘sto rinvio? Nel giro di trenta secondi rifletto che, in tal modo, secondo questi criteri, non sono interessata nemmeno al genere maschile. E allora perché

dirglielo?

Perché discriminare? Mi telefonano due ragazzi. Insieme. Si spacciano per uomini in cerca d’avventure. «Ciao, pupa. Siamo in due. Ci stai?» «Che fretta!» «Andiamo al sodo noi. Non abbiamo tempo da perdere.» Vorrei dir loro, il cui timbro di voce così incerto e cavernoso è inequivocabilmente

fanciullesco,

o

preadolescenziale,

piuttosto, che la pedofilia è una cosa orribile. Che non mi riguarda. Ma a che serve? «Chi vi dice che cerco avventure?» Una risata corale interrompe la comunicazione e un apparecchio afono stronca le mie aspettative. La sera mi ritrovo nello stesso cortile interno, allo stesso minuscolo tavolo, forse anche sulla stessa seggiola che traballa sulla ghiaia che ricopre il terreno dello stesso circolo Arci nel quale si era svolta la discussione che mi era risultata


odiosa. La fetta di umanità che frequenta il posto è quasi interamente al femminile. Più omo che etero e sicuramente intellettualmente vivace. Non solo intellettualmente, per la verità. Il cellulare è sempre nella mia sacca. Vorrei spegnerlo ché mi ha deluso. Non sono abituata a tirarmi indietro e lo lascio acceso. Cerco giustificazioni alla sconfitta. Ne trovo una che mi consola tanto è calzante, veritiera. Perché perfetti estranei, a me sconosciuti, dovrebbero usare un numero lasciato su un profilo, il mio, se hanno – come me – soltanto l’interesse di usare uno spazio comune, uno strumento? Per dirmelo? Tanto ovvio che no; ma avrei dovuto pensarci prima. E mentre affogo lo scorno nel mio unico calice quotidiano, il famigerato strumento squilla ancora una volta. Vedo un numero che non conosco. Delle due, l’una: o qualcuno che non teme la riconoscibilità – quasi tutte le chiamate provenivano da numeri privati – o che ha sbagliato: «Buonasera, signorina.» «Chi parla?»


«Ohhh non ci conosciamo. Ma lei mette il suo numero e, allora, se telefonando…» Una vocina un po’ roca, debole, vibrante. «Beh?» «Forse lei cerca qualcosa di diverso da me. Potrei essere sua zia, o forse sua nonna.» E finalmente spero: «Ti ascolto, come ti chiami? Possiamo darci del tu? A una zia le darei del tu…» «Mi chiamo Irene. E non ho nessuno con cui parlare…» «Ho una zia Irene in carne e ossa, giustappunto …» e nella mia testa penso che è un nome per donne cazzute, emancipate, come la zia e quest’altra. E sono strafelice. Anche se questa dovesse rimanere l’unica telefonata fuori dal protocollo che regola il cerimoniale on-line a scopi sessuali. Così è che mi pare. «Le posso raccontare una storia?» E mi dice di quando era ragazzina. Della guerra e della fame. Dell’amore. Della vita. Dei figli mancati. Degli amici morti. Di una parente, in vita ma inesistente. Che, pur sola, si sente ricca delle emozioni ed esperienze vissute. E ancor più ricca


perché le ha raccolte – come in un salvadanaio – nella memoria. Epperò quella morirà con lei. Ed ecco, un’idea: è arrivato il tempo di romperlo quel salvadanaio, di trasferirli i ricordi. Su di un quaderno. Vuole che qualcuno li legga. Vuole pubblicarli su Facebook. «Vorrei che almeno tu li leggessi … Posso sapere come ti chiami?» «Fiorella» e sento che la mia voce somiglia a quella di Irene per quanto esce tremula e sicura. «Oh bene, cara Fiorella, non potevi avere nome più dolce. Quel che desidero, oggi che non aspiro più a niente, è che, sepolta io, ci sia almeno un’altra persona che sappia che sono esistita. Che ho fatto parte di questa umanità. Che ho fatto, anche poco, ma quel di cui sono stata capace.» Così intensa e umana l’esigenza di Irene. Non m’importa più della delusione per una sfida persa già in partenza. E allora me la strappa la promessa. Senza lacerazioni, che invece m’incuriosisce: «Certamente. Posso chiederti perché?»


«Non credo nell’aldilà. Credo, però, nella memoria di chi rimane. Nella continuità. E vorrei un po’ di memoria anche per me. Quella sì. E allora m’è venuta un’idea. E se telefonando…»

antonella bartoli


ai telefoni

Quando mio nonno era già quasi novantenne, in giro per strada la gente cominciava a camminare “parlando da sola”…e dire che i primi telefoni cellulari erano molto voluminosi quasi quanto i moderni smartphones, ma a lui non colpivano questi aggeggi attaccati alle orecchie, a lui colpiva il fatto che, la gente, sembrava parlare da sola e quindi a lui “sembrava pazza”! Quando cominciai a lavorare “ai telefoni”, come diceva lui, questa sua preoccupazione me la ripeteva spesso…come se volesse essere rassicurato da me, che ero del ramo, e quindi pensava potessi professionalmente dargli la certezza che no, che la gente non era impazzita...ma io in fondo pensavo che, in realtà, un po’ lo fosse, anche se non glielo dicevo. Il lavoro al call center non è stato facile da digerire per me: è stato come cercare di accettare un lavoro in fabbrica: alienante e con orari disumani, perché i turni ti scassano il metabolismo e i primi anni, nella mia azienda si facevano anche le notti, dalle 23 alle 7, ma non per non interrompere


una linea di produzione (o forse sì) o per salvare qualche vita in un ospedale…no, per rispondere al telefono e assistere chi aveva il problema di non poter inviare gli sms… Sì, è stato difficile accettare un lavoro che non mi piaceva e che era visto troppo spesso come un lavoro di serie b: chi risponde ad un numero di assistenza clienti è considerato una sorta di parafulmine, il personaggio Benjamin Malaussène di Pennac, che fa di mestiere il capro espiatorio ne sarebbe stato degno rappresentante…se donna, poi, sei sicuramente “signorina” (non si capisce se per un problema di età o perché sicuramente non sposata). Adesso al mio lavoro mi ci sono anche abituata, lo faccio da quasi tredici anni e cerco di farlo al meglio. Immediatamente dopo la frase “in cosa posso esserle utile” si aprono mondi: nel bene e nel male…ogni giorno ti rendi conto che attraverso le cuffie, dentro le tue orecchie, passano i modi, lo stato delle persone; ti rendi, spesso tristemente conto della solitudine, della incomunicabilità e della mancanza di rispetto dell’altro di cui stiamo ammorbando noi stessi…


Perché non importa se ti chiamano quasi con disprezzo “signorina”, o se invece di giga per la connessione ti dicono di avere i megawatt… La telefonata che vorrei ricevere è quella in cui dall’altro lato, ci sia qualcuno che non considera chi risponde “in cosa posso esserle utile”, un sacco su cui scaricare le frustrazioni bensì una persona e come tale la tratti…magari con un sorriso…un sorriso telefonico… Ecco, neanche questa volta ce l’ho fatta a scrivere qualcosa di “allegro”,

ma

come

diceva

Luigi

Tenco

quando

lo

rimproveravano di scrivere sempre cose tristi lui rispondeva “è perché quando sono triste scrivo, quando sono felice esco!”

annalisa messina


Eccomi al terzo appuntamento di scrittura con Nzocchè e di nuovo, dopo averci pensato un po’ mi ritrovo come le altre volte a rievocare fatti che in qualche modo risultano spiacevoli o dolorosi, eppure sono abituata a vedere come si suol dire, forse per vivere meglio, il bicchiere sempre mezzo pieno, filosofia di vita introiettata da circa 10 anni grazie ad un’amica. Andiamo dunque al nostro tema:

Se telefonando Lui studiava Giurisprudenza per diventare magistrato e la sua ambizione è stata soddisfatta in pieno, è un brillante giudice trasferitosi a Torino. Lei studiava Lingue , oggi è una docente di Francese, le piace è contenta del suo lavoro ma non ha ovviamente molti soldi. Dopo una vita di lavoro ha ancora 26 rate di mutuo da pagare per la casa che tradotte in anni portano al giugno del 2026, fa quasi ridere perché chissà se la casa le apparterrà mai, avendo già 60 anni, ma vediamo il famoso bicchiere mezzo pieno. Lui aveva gli occhi allungati e verdi, una voce profonda e un po’ nordica perché la madre era piacentina, caratteristiche che affascinarono Lei,certo compensavano un cognome assai brutto, ma se ne poteva comunque fregare. Lui la corteggiò,


lei che già aveva avuto una sconfitta con ferita ancora sanguinante, decise di capitolare. In verità il suo corpo non le piaceva affatto ed era anche troppo chiaro di pelle di quelli che arrossiscono, non corrispondeva in realtà a un suo ideale di ragazzo. Tuttavia se ne innamorò, chiodo schiaccia chiodo, ci si sente lusingati se si è desiderati e bla e bla. Con Lui ha anche rischiato, perché colti in flagranza di reato dentro la 500 di lui davanti allo stadio. Lui dovette mostrare i documenti lei per fortuna fu lasciata in pace, in questo caso la non considerazione nei confronti delle donne, figuratevi allora, 41 anni fa, le fece molto comodo, perché implicato era solo il maschio, altri rischi furono corsi in casa di un’amica con i suoi genitori che dormivano in un’ala della casa e questi due ragazzi incoscienti sfidavano tutti i pericoli per incontrarsi… Lui studiava con un amico che poi divenne avvocato e che oggi non c’è più, ogni giorno i due ragazzi si vedevano per studiare, a casa del futuro avvocato, casa borghese di avvocato, con madre premurosa che accudiva amorosamente i due studenti. Perché questa storia forse banale per le vostre orecchie e i vostri occhi?


Quale mezzo di comunicazione potevano avere Lui e Lei data l’assenza di cellulari, di internet , FB SKYPE ecc ecc.? Il vecchio telefono, forse colla rotella che guidata dal dito più o meno ansioso andava da 1 seguito da 2, 3, 4, fino a 0, apparecchio poi sostituito da uno più rapido e più moderno ma più brutto a tastiera, ancor oggi ,dei sogni che diventano incubi hanno come protagonisti Lei e un telefono col quale non riesce a comunicare con le persone che ama. Lei trascorsa la mattina lo chiamava e Lui nei primi tempi rispondeva felice, affettuoso, propositivo. 3 mesi dopo Lei lo chiamava a casa del futuro avvocato, rispondeva con voce nasale sgradevole la madre . Pronto buogiorno, buonasera Signora Roccella, mi scusi se disturbo, sono Flora, posso parlare con Giuseppe? No Flora mi dispiace ma oggi Giuseppe non è venuto a studiare con Massimo D’accordo, grazie. Pronto buongiorno/buonasera signora, sono Flora posso parlare con Giuseppe? No Flora mi dispiace Giuseppe non c’è.


Era la fine della storia, Lui non aveva mai lasciato la fidanzata nordica con cui stava, ma essendo codardo non aveva il coraggio di affrontare la ragazza di Palermo. La madre del futuro avvocato e l’adorato suo figliolo coprivano il futuro giudice con la menzogna, negando alla futura docente di Francese la presenza di Giuseppe che invece era lÏ sempre a studiare per diventare: Un brillante giudice. Ancora oggi, trascorsi 41 anni, tanto amore ha colmato la vita di Lei, ma Flora non riesce a dimenticare l’umiliazione di essere stata rifiutata al TELEFONO

flora arcuri


Premonizione 4 Agosto 2013. Mentre mi stavo gingillando per la casa in cerca di passare un po’ di tempo, mi accorsi che mancavano esattamente due settimane al mio compleanno. Non sapevo che cosa fare, se festeggiarlo con i miei amici oppure no. Poi, guardando tra i miei contatti, mi ricordai che tre di loro, nei giorni

precedenti,

avevano

avuto

un

riconoscimento

particolare: chi si era laureato, chi aveva terminato un “tinto Master” (ancora non si sa bene in cosa) e chi era stata nominata “Mediatore Interculturale”. Quindi decisi di invitarli a cena fuori per festeggiarli. Mi misi davanti al pc e organizzai il tutto, spedendo loro un messaggio comune. Le prime adesioni cominciarono ad arrivare già dopo qualche ora, mentre le altre si susseguirono nei giorni successivi, fino a quando giorno sabato 17 erano tutti confermati. Finalmente arriva il fatidico 18. Il pomeriggio passa in fretta. Verso le 18:30 passo a prendere la torta e Alessandro mi viene a prendere per andare al ristorante.


Da premettere che, nella mia vita, ogni volta che ho organizzato qualcosa, all’ultimo minuto tutti (e dico proprio tutti) riuscivano a non venire per un qualche imprevisto. Arrivammo al ristorante un po’ in anticipo rispetto all’orario previsto. Prenotai il tavolo e aspettai con impazienza che arrivassero gli invitati. Non vi dico il nervosismo che avevo, sentivo che qualcosa stava per andare storto e di fatti verso le otto meno un quarto arriva una telefonata. Era Manuela. “Ciao Fulvia, innanzitutto auguri”. Dal suo tono di voce intuì che qualcosa non andava e le chiesi: “Ciao Manu, tutto bene? Dove siete?” “Veramente no. Io e Corina non veniamo!”. “Stai scherzando vero?” le rispondo sorpresa. “No, purtroppo abbiamo litigato. Mi dispiace. Ciao” e riattacca senza darmi neanche il momento di chiederle niente. Nel frattempo anche Alessandro aveva ricevuto una telefonata e dalla faccia che aveva, stava per arrivare qualche altra mala notizia.


“Fulvia, Mirko e Lorenzo non vengono hanno avuto un imprevisto e non ci possono raggiungere.” disse Alessandro. A quel punto non mi rimaneva che vedere se Manuela e Serena sarebbero arrivate e le chiamai: “Ciao Serena, dove siete arrivate? “ “Ciao Fulvia, ti stavo quasi per chiamare. Siamo bloccate in viale Regione all’altezza del carcere Pagliarelli. C’è stato un brutto incidente e non credo che ce la faremo ad uscirne tanto presto. Mi dispiace…” E che è una congiura oggi? Ma non sarà che gli eventi che organizzo portano sfiga? A quel punto vado per sedermi e “pluff” ecco che manco la sedia e cado col sedere per terra. Quando riaprii gli occhi mi ritrovo sul pavimento della mia stanza. Cazzo era solo un sogno.

fulvia migliorino


Telefonate annunciate Questo racconto si divide in due parti: Parte prima 18 Ottobre 1999, ore 9:00 del mattino. Mi ero alzata da poco, messo il cellulare a caricare quando cominciò a squillare. Era mio padre. “Ciao Pà” “Ciao Fulvia, ti volevo salutare prima di entrare in sala operatoria”.

“Mi raccomando non fare

disperare mamma, quando esci…” lui si mise a ridere… Un paio d’ore più tardi squilla di nuovo il telefono. Era mia zia: “Fulvia cerca di rintracciare tuo fratello e digli di correre subito a Torino che tuo padre è combinato male”. Non capivo ancora cosa era successo ma telefonai subito a mio fratello che era in Francia e poi telefonai anche a mia madre per sapere che diavolo stava succedendo. Mio padre era entrato in coma. Quel pomeriggio si susseguirono numerose telefonate. Io cercai di sistemarmi con il lavoro. Telefonai per prenotare subito un biglietto aereo per Torino, ma l’unico che riuscii a trovare era per l’indomani pomeriggio…


Quando arrivai in ospedale mia madre mi disse che era in sala rianimazione. L’orario di visite era terminato e non me lo fecero vedere, dovetti aspettare l’indomani a ora di pranzo. Entrai in quella stanza ed era tutto intubato. Muoveva le pupille e in quel momento pensai: “Dai pà devi lottare”. Uscii dopo cinque minuti piangendo… Ritornammo in albergo e verso le 15:30 suonò il telefono della camera. Squillò a lungo prima che mia madre rispondesse e da quello che disse avevamo capito. Mio padre se n’era andato. Non credetti a quella telefonata fino a quando lo rividi in quella stessa stanza. Era estubato, pulito. Piansi fino a quando non ebbi più lacrime da versare. La voce in quel telefono aveva ragione: se n’era andato. Parte seconda 17 Settembre 2010 ore 19:30. La stanza di mia madre all’hospice del Civico era piena. Mia zia era arrivata da poco sia per vedere sua sorella che per darmi una mano. C’era pure la signora che avrebbe dovuto assisterla quella notte per permettermi di andare a casa e riposarmi un po’ e naturalmente mio fratello. Il suo occhio destro era già


totalmente spento. Quella sera ero talmente esausta e un po’ arrabbiata con lei che, quando andai via, neanche la salutai. Prima di mettermi a letto chiamai per sincerarmi delle sue condizioni. Le avevano fatto poche ore prima un’iniezione di morfina per il dolore. Quella notte non dormii quasi per niente. Avevo uno strano presentimento. Verso le sei del mattino richiamai e la signora mi raccontò com’era andata la nottata. Io la sentivo in sottofondo lamentarsi, ansimare come se le mancasse l’aria, ma non capii cosa stava per succedere. Un’ora dopo ecco che arriva una telefonata: “Fulvia venite subito che non respira più”. A quel punto capii che anche lei, come mio padre undici anni prima, se n’era andata. Due telefonate che uno nella vita non vorrebbe mai ricevere…

fulvia migliorino


Il telefono quale strumento di lotta di classe: Marx, il Muro di Berlino e le tariffe internazionali negli anni Novanta Quando mi laureai nel lontano, lontanissimo 1991, decisi che tanti anni di studio matto e disperatissimo, che i risultati raggiunti (110-lode-menzione-bacio in fronte), nonchĂŠ le soddisfazioni

date

ai

miei

genitori

meritassero

una

ricompensa: mi ritenni finalmente in diritto di chiedere loro i soldi per fare il mitico Interrail. Per chi non lo sapesse, l’Interrail è un biglietto ferroviario dal numero di tratte illimitato, che ti porta in tutta Europa e che ha la durata di un mese: un’esperienza iniziatica per molti giovani, quasi sempre il primo viaggio senza i genitori, insomma una figata. La mia non era una famiglia ricca e darmi quei soldi per il biglietto e per vivere un mese in giro rappresentava comunque un sacrificio: quello che racimolai fu, insomma, quanto mi bastava appena per vivere un mese e tornare a casa. Partii con tre amiche, tutte figlie della alta borghesia palermitana, tutte chiaramente simpatiche, carine, molto affini a me, ottime compagne, ma che inconsapevolmente


mostrarono sin dal primo istante del viaggio l’enorme gap sociale e reddituale che ci separava. Il giorno della partenza arrivarono infatti alla Stazione di Palermo addobbate con lucenti e sbrilluccicosi zaini Invicta pieni di nastri e nastrini in tonalità rosa-fucsia, sacchi a pelo foderati in raso, tasche sopra-di lato-sotto contenenti ogni sorta di strumento utile (dal coltellino multi uso alla limetta per le unghie), scarpe da tennis Adidas ultimo modello ancora bianche come la neve, coccodrilli sulle magliette che manco sul fiume Zambesi ne hanno mai visti tanti. Io, Stefania Zanna da Monreale, sembravo Ugo Fantozzi: scarpe sempre quelle “macunn’avi picciuli p’accattiriti n’atru paru i scarpe”, magliette coi coccodrilli di quelli falsi con le fauci chiuse e la coda poliomielitica, zero utensili zero sempre che per pietà non vogliamo contare come ‘utensile da viaggio’ un coltello da cucina rubato a mia madre dal cassetto che mai più tornò a far parte del servizio, ma soprattutto zaino gigante monocolore del fratello più grande color azzurro-cacca (si lo so si dice azzurro cielo, ma a me parve subito semplicemente CACCA): lui era andato in campeggio 10 anni prima, io avevo


ereditato uno zaino maschile e fuori moda, ‘sfardato’ in ogni dove, pieno di rattoppi, e con un’intelaiatura in acciaio che il produttore, per renderla più leggera, aveva deciso forse di fondere col piombo raggiungendo il ragguardevole peso a vuoto di 18-20 chili (“ma picchì chiddu ri tò frati un’è bbono????” aveva sentenziato mia madre: e lì si era chiuso il discorso “tipregotisupplico-comprami un altro zaino”). La mia inferiorità sociale, già ai miei occhi evidente dall’abbigliamento e dagli accessori, peggiorò ulteriormente a causa di un evento imprevisto: qualche giorno prima della partenza, sempre fedele alla mia natura fantozziana, mi ero conficcata una scheggia di legno nel piede sinistro camminando coi sandali in campagna, scheggia che, sempre fedele invece alla sua natura iperattiva, mia madre aveva provato ad estrarre con un ago col fantasmagorico risultato di conficcarla sempre più in profondità. Il piede si era gonfiato, non si poteva intervenire a causa dell’infezione e io non volevo rinunciare al mitico viaggio: il risultato fu che il medico mi intimò di andare da qualcuno per curarmi una volta finita l’infezione (ovunque fossi) e, nel frattempo, di disinfettare


costantemente la zona con l’amuchina. Lo zaino-cacca, non essendo dotato di alcuna tasca esterna figa-da ricchi, conteneva pertanto anche la bottiglia di amuchina che, la prima notte di viaggio, aprendosi tra i vestiti li scolorì a chiazze, costringendomi ad un mese in giro per l’Europa vestita come una pezzente. Nonostante questo, incuranti di andare in giro con una zoppa povera e mal vestita con una zaino-cacca sulle spalle, le amiche furono sempre grandiose: decidevamo insieme dove dormire preferendo ostelli a basso prezzo con camerate collettive a piccoli alberghi che magari loro potevano permettersi, mangiavamo quasi sempre panini imbottiti, ci riservavamo qualche soldo in più per qualche visita culturale. Mai un litigio, mai un’incomprensione su questo: loro avevano lasciato tutto nelle mie mani, gestione della cassa comune in primis e decisioni sul da farsi. Dandomi potere decisionale con la scusa che ero la più brava ed efficiente tra loro nell’organizzare la nostra quotidianità, si adeguarono tacitamente alle mie possibilità di spesa, provando in tal modo a togliermi dall’imbarazzo.


Ovviamente ciò non diminuì quel piccolo tarlo che mi rose per tutto il viaggio: il tarlo del proletario di fronte al borghese, il complesso di inferiorità dell’operaio verso l’imprenditore. Tutto sommato la gestione del quotidiano a me affidata mi faceva temporaneamente dimenticare le differenze sociali ma quello che le rivomitava immediatamente fuori erano le maledette, le stramaledettissime “spese-extra”. Lì ovviamente ognuno aveva il diritto di fare quello che voleva: acquisto di souvenir da riportare in Sicilia, rullini fotografici, cartoline di saluti, shopping personale e soprattutto, e lì arriviamo al punto, TELEFONATE A CASA. In un’Europa in pieno fermento dopo la caduta del Muro di Berlino, nei primi anni Novanta in cui i telefonini si collocavano ancora nella fantascienza, una ventenne che va in giro non si sa bene dove, in compagnia di altre tre ragazze, deve ovviamente farsi carico di chiamare regolarmente casa per ragguagliare la famiglia sugli ultimi avvenimenti e rassicurarla sul tuo stato di salute. A me, in piena presa di coscienza di classe, le telefonate a casa sembravano non so perché, tra tutte, la massima espressione


del consumismo, la più extra delle spese extra. Nella gestione dei soldi a mia disposizione per l’intero viaggio, era la prima voce di spesa che avrei volentieri tagliato. Erano la mia fissazione, la mia paranoia, la cosa tra l’altro che maggiormente sottolineava la differenza tra me e loro: sapevo che loro avrebbero voluto telefonare a casa anche ogni sera, che avrebbero potuto farlo, e quindi elaborai una strategia di appiattimento

sociale

telefonico

decidendo

subito

meschinamente, in qualità di capogruppo, che dovevamo limitarci a un certo numero di telefonate in ognuno dei paesi che visitavamo. Giorno dopo giorno elaboravo inoltre altre strategie per riuscire a risparmiare sulla mia di telefonata: durata, contenuti, spazio alle domande a saltare da casa, richiesta di notizie solo su familiari selezionati (tipo quelli più a rischio morte-malattia), e così via. In realtà all’inizio pensai di potere reggere tranquillamente il loro ritmo: eravamo in Olanda, i soldi erano ancora tanti e ognuna di noi chiamava casa ogni due giorni. La differenza tra me e loro, secondo la mia visione paranoica delle cose, era quasi impercettibile. Chiamavo quando chiamavano loro ma


puntavo molto su una strategia basata sulla durata: le mie telefonate erano più brevi, facevo poche domande ma sostanziali (tipo: state tutti bene? SI/NO) e giustificavo con le mie amiche indirettamente questa differenza facendo nelle ore successive battute casuali sul fatto che fossi notoriamente taciturna o fingendo improvvise amnesie in cabina di cui mi rendevo conto solo in seguito (“aah porca miseria ho dimenticato di dire a mia madre quella cosa”, oppure “mannaggia alla prossima telefonata mi devo ricordare di raccontarle…”, e via dicendo). In Danimarca, seconda tappa del viaggio, imposi al gruppo una telefonata ogni quattro giorni. La mia riserva aurea cominciava a scarseggiare e cominciavo ad ammantare la mia povertà con improvvisate rivendicazioni per l’adozione di forme di economia alternativa: “Basta sprechi ragazze! Per gli ultimi giorni a Copenaghen cambiamo solo queste 100 mila lire e con queste dobbiamo campare. Punto.”. Le mie telefonate si fecero più brevi e le risposte alle domande da casa quasi laconiche e infastidite: “Mamma ma come devo


stare??? Beeene!”. “Ma che ti devo raccontare??? Tutto come al solito…”. La nuova era di Austerity da me istituita ebbe il suo apice durante l’ultima sera in città, prima del trasferimento in Francia quando, oltre che vietare espressamente le telefonate in Italia, pretesi di mantenere la decisione presa: dovevamo campare fino alla mattina successiva con i pochi

marchi

rimasti. Fui così risoluta nella nuova rivendicazione che con gli ultimi 40 marchi utili per la cena riuscii a trovare solo una pizzeria dove una margherita costava 20 marchi: ci sedemmo e ordinai due margherite da dividere in due, mezza per ciascuno. Il cameriere mi chiese: “Da bere?”. Io, con nonchalance: “Niente”. Mi guarda di nuovo, forse nota i vestiti macchiati di amuchina, i coccodrilli rachitici, le scarpe vecchie (per fortuna lo zaino-cacca era rimasto in ostello) e mi fa disgustato: “L’acqua è gratis …”. E io: “Quattro boccali d’acqua! Grazie.” Lì effettivamente l’umiliazione prevalse sull’orgoglio proletario, ma mi feci forza e andai avanti. In Francia senza più soldi, vicina al ritorno, con un poche giornate ancora davanti, senza più i pochi strumenti a mia


disposizione per la mia strategia di appiattimento sociale, stanca e quasi disperata, mi ritrovai con poche alternative e fui costretta a una scelta estrema: dovevo elaborare la telefonata perfetta. Dovevo essere in grado di dare tutte le informazioni necessarie nel minor tempo possibile, limitando inoltre al massimo la possibilità da parte di chiunque avesse risposto al telefono di darmi informazioni sulla famiglia. PerchÊ spendere soldi inutili nei racconti inutili di mia madre su quello che facevano i miei nipoti? Inoltre se fosse successo qualcosa di grave lo avrei di certo saputo dalla polizia francese, i racconti di quello che avevo visto li potevo anche rimandare al mio ritorno‌ Insomma evitare di dare spazio all’interlocutore, via tutte le informazioni superflue, ma a questo punto anche via gli articoli, via i verbi inutili, via le preposizioni. Per tutto il giorno sintetizzai, tagliai, rielaborai, risintetizzai e alla fine, soddisfatta, scrissi quello che dovevo dire su un biglietto: giusto per non sbagliarmi.


La sera dopo le 20 concessi al gruppo la possibilità di un’unica telefonata dalla Francia: anche lì, per nascondere il sopruso mi lanciai in una delle battute che pensavo avrebbe stemperato il clima di tensione “Potete anche non farla al vostro avvocato!”. Le tre amiche mi guardarono un po’ stufe, forse ansiose di tornare al loro usuale stile di vita, ed entrarono a turno nella cabina per la loro telefonata. Per ultima io. Pronta. Caricatissima. Era l’ultimo scoglio, avevo retto il loro passo per un mese e uscivo dalla mia rivoluzione personale, trionfante. Entrai in cabina, infilai la mia unica monetina da un franco nella fessura, feci il numero e al terzo squillo sentii “PRON…..”, senza nemmeno aspettare la fine della parola guardai il biglietto e urlai, con voce ferma, decisa e chiara: “STEFANIAPARIGI-TEMPOBUONO-STANCA-BENERITORNOGIOVEDIIII!!!!!”……CLIC. E chiusi. Durata totale 5 secondi netti! Evvaiii!!!! …. Certo non avevo nemmeno capito chi mi avesse risposto, ma che importava? Chiunque fosse stato (o stata?) avrebbe riferito a chi di dovere. Uscii dalla cabina più soddisfatta che mai: avevo elaborato lo strumento di lotta di classe perfetto, la telefonata ideale, io


ero come loro, anch’io mi ero premurata di raccontare nei dettagli alla mia famiglia la fantastica esperienza che stavo vivendo, anch’io li avevo informati sul tempo, anch’io li avevo tranquillizzati sul mio stato di salute. Quando, dopo qualche giorno, arrivammo a Palermo mia madre mi accolse a braccia aperte, contenta della mia contentezza e felice di avermi offerto questa opportunità. Mi rimproverò solo di una cosa: “Perché non hai telefonato dalla Francia???? Ci siamo preoccupati!!”. Scoprii così che quella sera, in Francia, in quella cabina, dopo l’elaborazione della perfetta strategia, dopo avere scritto il mio bigliettino perfetto, dopo aver elaborato la perfetta sintesi informativa per ore ed aver progettato la mia telefonata perfetta ..… avevo fatto il numero sbagliato.

stefania zanna


se telefonando

- Pronto? - Sei tu? - Dipende da chi mi cerca. Sono un po' impegnato. - Io sono. - Ancora tu? Ma non dovevamo sentirci più? - Certo, fai pure lo spiritoso. Ora nni mittemo pure a cantare. - Quanto mi sono pentito di avere messo questa linea verde. E non posso neanche mettere il cilicio per fare penitenza. - Non si usa più. Aggiornati. - Ho messo la linea verde, per tenermi aggiornato. Lasciamo perdere, va. - Allora perché ti stai lamentando se ti chiamo ogni giorno? Lo sai che io mi metto a camurrìa e quando voglio una cosa la ottengo. E tu l'hai promesso. - Di grazia, cosa avrei promesso? - Vogliamo cominciare dalla Terra? - Ma perché tu c'entri qualcosa? Sei anche tu una di quelli?


- Qualcuno ti ha detto che casino è successo per quei confini? Hai la bocca larga tu... prima prometti e poi te ne lavi le mani. - Praticando gli zoppi... - Ah, certo, ora è colpa nostra. Sei bravo tu! Pure il senso di colpa adesso. Ma non ti bastano le pene che abbiamo? - Dai, avanti, dimmi. Il centralino è un inferno stamattina. - Ah, ecco perché sono sempre arraggiati. Ora ho capito. Hai delocalizzato il call center anche tu, come le imprese di mezzo mondo. Cheffà, lì costano meno? - Solo una questione di tasse. - Ma scusa, non era un paradiso? Quindi a loro li paghi in nero? - Io non ne so niente di queste cose. Non me ne occupo. Dimmi quello che mi devi dire. E' la solita litania? - Certo, ora sono pure litanie. - Mi pare che oggi vuoi litigare. Con chi ce l'hai? - Con te ce l'ho. - E come mai, di grazia? - Perché una ti chiama, ti richiama, ti prega e ti riprega... una cosa devi fare. E non la fai mai.


- Devo avere un appunto da qualche parte...ma lo capisci quanti siete? Sto impazzendo. - Hai voluto il nostro consenso? Ora è il momento di ricambiare il favore. - Sì ma quanto mi costa? Sono quasi pentito. Potevo costruire da un'altra parte, che poi tra l'altro senza di voi veniva anche meglio e durava di più. Voi non fate altro che chiedere, quello che vi do non vi sembra mai abbastanza. Non apprezzate niente. E in più state distruggendo tutto. - Ceeeeerto. Ora ti lamenti. Ma quando hai avuto bisogno di noi - perché senza di noi tu non esisti, ricordatelo - non ti lamentavi mica. Ora siamo noi che ti dobbiamo pregare. Ma va, ma sai che ti dico? - Che cosa? - Aaah, ti spaventi eh? - Certo, terrorizzato sono. - Io al posto tuo lo sarei. Hai presente quello che abbiamo fatto finora alle quattro cose che ci hai dato? Niente hai visto. O intervieni tu o facciamo saltare tutto. - Ma insomma, mi dici perché mi hai chiamato?


- Per ricordarti le promesse. Che fa, ti manca il coraggio? Ti abbiamo chiesto solo un emendamento. - Senti, non è così facile, te l'ho già spiegato. Sono stato male interpretato. Io di fatto il limite non l'ho mai posto. Ma la stampa, come al solito...e dicono anche che mi hanno citato testualmente. Ma quando mai! Solo che ora, riprendere in mano la faccenda è un po' più complicato. Non mi risponde più nessuno: né Luca, né Matteo, né Giovanni... - Dovevamo capirlo subito, di noi non ti importa niente. Erano tutte leggi ad personam. - Quelle leggi erano per tutti. - Sì, certo. Ma intanto c'è chi si sente escluso. E chi si sente superiore. Come la mettiamo? - Pensi veramente che per me non sia doloroso? Milioni di persone come te che se la prendono con me. - Troppi consensi. Questa è l'altra faccia della medaglia. Insomma, lo fai o non lo fai? Perché io sono stanca, e tanti come me non ne possono più. Qua ci vuole un metro di giudizio adeguato, e siccome noi abbiamo fede in te e ci fidiamo, ti sto avvisando per l'ultima volta. Dopodiché...


- Cosa? - Sai quanti ce ne sono come te e meglio di te? Tu continui a crederti unico...ma guardati intorno per Dio! - Hei, vacci piano. Ricordati con chi stai parlando. Con me almeno puoi sfogarti. Ti rispondo persino al telefono. - Ok, forse ci sono andata giù troppo pesante. Però considera...non ti sto neanche chiedendo di fare un annuncio pubblico. Lo so che è difficile trovare qualcuno che ti ascolti, di questi tempi. Non dico nemmeno di mettermelo per iscritto, perché con la stampa oggi non si sa mai. - Bontà tua. - No, sempre tua. Però che ti costa dirmelo almeno per telefono? Io ti registro, e tu mi autorizzi a divulgarlo. Poi chi ci vuole credere ci crede. - Ma ti ho fatto anche l'arcobaleno, non ti è piaciuto? - Bello. Ma sole, luna e nuvole si vedono in continuazione, quello solo una volta ogni tanto. Comunque certo che ci è piaciuto. Non hai visto la festa? L'abbiamo messo da tutte le parti. E comunque, ti eri scordato un colore. Il nostro.


- Vabbè. Tanto non ti va mai bene niente. Dimmelo tu, che dovrei dire? - Vediamo...basterebbe una formula tipo: "Ama il prossimo tuo come te stesso, e se ti va facci anche sesso". Che ne dici? - Pronto? Pronto? Non ti sento piÚ...

alessandra viola rosalba vitellaro


Guarda che lo so che non sei in casa. L’ho fatto di proposito. Sai che non potrei farti un discorso del genere se tu fossi davvero lì. Assurdo…non ho mai potuto soffrire le segreterie e adesso invece mi sembra l’invenzione più bella del mondo. Così io parlo, tu non puoi rispondermi, e io parlo…parlo. Ok. Un respiro. Ciao! Cominciamo con un “ciao”, si comincia sempre così. Ecco…ti ho detto ciao e subito penso a quante volte potrò ancora salutarti. Ultimamente abbiamo pensato spesso a questo, lo so. Ma ci siamo guardati negli occhi e abbiamo parlato di politica, dei furti in pubblica amministrazione, di rivalutazione delle pensioni, inflazione…lo spread, il culo della Merkel, Monti, Silvio, la Salerno-Reggio, gli alimenti OGM…in fondo perché parlare di quello che ti sta succedendo? Che senso ha? Tanto, basta che ne parli la tua oncologa e siamo tutti a posto: chi ha altro da dire? Io ho raggiunto i miei trent’anni e non pensavo che anche tu potessi contribuire a farmi credere di essere diventata una donna. Facciamo discorsi da adulti, adesso…mi sembra una prova. Già.


Basta guardare lo scaffale della mia stanza per capirlo. Il libro di fiabe che mi hai portato dal tuo viaggio di nozze è lì e non lo apro da anni. Poco più giù invece c’è il mio computer e il monitor su cui abbiamo guardato la tua T.A.C. tante volte, ogni nuovo cd, un nuovo viaggio nel tuo corpo a fette, nuove macchioline da studiare e commentare, con la freddezza del marmo nei nostri occhi. Per un attimo ho guardato noi due dall’esterno e sembravamo proprio due eroi. A guardare insieme quella merda e darle spiegazioni scientifiche ci si sente davvero degli eroi. Ti ho chiamato perché volevo dirti che ti voglio bene. Non te l’ho mai detto. Tu somigli poco a mamma, non parli tanto come lei, non sei espansivo come lei. Eppure ti ho sempre visto come una sua appendice, come la sua versione maschile…è strano. Penso che non ti direi mai “ti voglio bene”, perché non fa parte del nostro modo di parlare. Sembra quasi che abbiamo fatto un accordo che dica che anche se ci vogliamo bene, non è necessario dircelo…e non saremmo mai così scemi da farlo. Andiamo bene così, con la nostra complicità intellettuale, con le nostre valutazioni sui


pannelli solari e sull’energia eolica. Andiamo bene con le nostre battute ciniche…anzi…devo farti i complimenti: quando mi hai detto di avere in corpo una coltivazione di patate sei stato grandioso, io non avrei saputo fare meglio. Il tuo gusto per l’orrido non ha confini, eh? Pensavo che quando da piccolo staccavi la testa alle bambole della mamma lo facessi perché eri soltanto un bambino, ma mi sbagliavo! In realtà quel gesto ti esemplifica perfettamente. Mi sembra incredibile quanto siamo simili in questo…quanto siamo simili nel cercare di cacciare giù la fottuta paura e prendere in giro tutto e tutti. La nostra maschera è una bella presa per i fondelli, ma almeno ci illudiamo di stare meglio. Ieri ho guardato gli alberi da frutto che hai portato qui a casa mia e mi sono chiesta se riuscirai mai ad assaggiarne qualcosa. Per favore…non farmi pensare al Natale…le atmosfere Santa Claus sono una roba crudele, quando non so ancora se dovrò apparecchiare pure per te o meno. Ma tanto lo so cosa mi risponderesti: “vi manciati puru ‘u mio!”. Affare fatto, doppia razione per me.


Tanto lo so che sono la tua nipote preferita e che mi tocca. Facciamo così: tu, per questo Natale, eviti di rovinarmi inutilmente la dieta, finché siamo seduti a tavola…e ti prometto che recuperiamo in cucina, mentre le donne rimettono a posto e gli altri guardano la tv…facciamo fuori il buccellato, insieme, di nascosto come ogni volta. Ah! Ovviamente lo so che non hai una segreteria, ma ne avevo bisogno lo stesso. Sentire questo “tu-tuu” è irritante quasi quanto certe tue risposte taglienti, e va bene così.

valentina richichi


Alle ore sette e venti -Pronto? -Ciao. Come va? -Bene e tu? Ogni mattina dal lontano 1996, alle ore 7 e 20, tutte le mattine, da Milano a Palermo, Claudio mi telefona con una puntualità che creerebbe problemi psicologici a qualunque persona amante della puntualità. Sono passati - oggi è la data del 20 ottobre 2012 sedici lunghi anni. -Pronto? -Ciao. Come va? -Bene e tu? Inizia così la nostra conversazione che dura due o tre minuti al massimo, ogni santa mattina, tutti i santi giorni. Nel 1996: -Pronto? -Ciao. Come va? -Bene e tu? -A Milano ieri pomeriggio si è inaugurata a Garbagnate Milanese alla Corte Valenti, la mostra di disegni di Giuseppe Pelizza da Volpedo. Nel 2011: -Oggi s’inaugura a Palermo una mostra dell’Arte sovietica, all’Albergo dei Poveri, in Corso Calatafimi, ci andrai, no? -certo, Claudio. Prendo due date a caso, corrispondenti a due telefonate una del 1996 e l’altra del 2011, tra le 5840, meno le 768 giornate corrispondenti alle domeniche e togliendo ancora le 22 corrispondenti alle feste nazionali e religiose. Sono quindi esattamente 5050 le telefonate ricevute


ogni mattina alle ore 7 e 20 con il rituale -Pronto? -Ciao. Come va? -Bene e tu? Oggi la parola WAP a molti non dirà nulla ma nel 1999, tredici anni fa,

era il meglio della tecnologia nel mercato della

telefonia mobile. I cellulari non solamente diventarono agili mezzi per telefonare ma anche per mandare messaggi. Ebbi la ventura di acquistare un Nokia 7110 invogliato dalla pubblicità. Dico questo perché malauguratamente diedi a Claudio, non riflettendo su ciò che avevo fatto, il numero del mio primo cellulare, numero che non ho mai cambiato. Gli avevo offerto cioè la possibilità di raggiungermi in ogni punto del globo. Cosa che puntualmente ha fatto, senza interrompere mai le sue conversazioni, anche quando ero all’estero o in altre città. Quei due o tre minuti al massimo, ogni santa mattina, tutti i santi giorni. Ospite da qualcuno in famiglia, da amici, in albergo alle ore 7 e 20 in qualunque fuso orario fossi collocato, puntualmente ho ricevuto la telefonata. Pronto? -Ciao. Come va? -Bene e tu? È necessario che dica subito che mi rendo perfettamente conto, da sempre, che un numero così imponente di


telefonate ricevute per sedici anni (corrispondenti a 5050 telefonate puntuali ogni giorno del mese, tranne i festivi,) non sono un fatto qualunque. Per questa semplice ragione ne scrivo. Affinché gli altri sappiano, nel nostro superficiale vivere quotidiano, che esistono ancora la costanza, la pazienza, la puntualità. Claudio è costante e puntuale. Ed io sono un uomo molto paziente. Sono questi i due ruoli che identifico nella vicenda. Mi devo convincere che questa telefonata ormai fa parte della mia vita. Un rito ineliminabile che si ripete, puntualmente nella mia vita, nella nostra vita di coppia, come far colazione la mattina, andare in bagno, lavarsi i denti. -Pronto? -Ciao. Come va? -Bene e tu? I primi mesi ho subìto le lamentele divenute, con il passare del tempo i legittimi rimbrotti della mia compagna che, giustamente, si era scocciata di quest’invadenza. Per amore o per compassione non saprei dire, ha ceduto al rito di questa puntuale telefonata. La considera ormai una mia nevrosi incurabile, una mancanza di equilibrio, un vuoto definitivo di ragionevolezza residua. Insomma finge spudoratamente che


ciò non avvenga più, da anni. Come se avesse rimosso il suono del telefono, l’orario nel quale avviene la telefonata, non ultima cosa. Non sente più la mia rituale risposta. –Ciao. Bene e tu?

Moltissime volte mi sono trovato a vivere un dilemma. Rispondere o non rispondere alle ore 7 e 20 alla chiamata. Molte volte ho vissuto con ansia l’attesa e gli squilli ripetuti del telefono. Ho sempre deciso di rispondere. -Pronto? -Ciao. Come va? -Bene e tu?. Potrei, se solo lo volessi, cambiare il numero di telefono, cambiare città, trasferirmi in un’altra regione, in un’altra nazione addirittura. Non l’ho fatto nei momenti più faticosi, prima dello squillo e neanche nei momenti rilassati, dopo la telefonata. Non lo farò, insomma. Devo aggiungere per i lettori più curiosi come è avvenuto tutto ciò. Come è stato possibile che si sia potuta attuare una comunicazione per tutti questi anni. Torno indietro nel tempo e vi racconto tutto dall’inizio.


Ho conosciuto Claudio nel 1996 a Palermo. E’ venuto in occasione della mostra “La valle dell’Apocalisse”, il mio disegno a china di 83 metri e cinquanta, definito il disegno più lungo del mondo. Ricorderete la pubblicità del tempo della SIP Telecom. Una telefonata allunga la vita, quando, nello spot interpretato da Massimo Lopez condannato a morte nel fortino della Legione straniera esprimeva il suo ultimo desiderio, davanti al plotone di esecuzione, di fare una telefonata. Lunghissima naturalmente. Fu il motivo per il quale il mio “racconto” ispirato al disegno più lungo del mondo, fu sponsorizzato, appunto dall’azienda. Ma fu anche il motivo dell’interesse di Claudio che venne in possesso del racconto e si incuriosì sino al punto di venire appositamente da Milano. Ma chi è Claudio? La mia cattiva coscienza? Il mio persecutore? Il mio esclusivo maestro di storia dell’arte? Architettura, pittura, scultura? Il mio personale bollettino delle mostre e degli avvenimenti d’arte che avvengono in Italia? No! Niente di tutto questo. È un uomo dotato di una memoria mostruosa che riesce a mettermi in seria difficoltà,


sempre e comunque, ad ogni sua telefonata. Riesce a snocciolare dati e informazioni che nessuna persona normale potrebbe sostenere. Ho provato sempre un senso di frustrazione, mi sono sentito profondamente ignorante e inadeguato moltissime volte ascoltando le sue dissertazioni enciclopediche. Corredate come valore aggiunto da notizie, precisazioni e dettagli assolutamente trascurabili per un normodotato. Sfido chiunque, alle ore 7 e 20 del mattino, a riuscire a recepire la differenza tra una lesena, elemento di un ordine architettonico addossato a parete e un paraste elemento architettonico strutturale, costituito da una colonna inglobata in una parete dalla quale sporge solo leggermente. Vi assicuro, sono momenti drammatici da vivere nel silenzio piÚ assoluto, ascoltando rispettosamente. Ho fatto delle prove in tal senso. Con un libro di Storia dell’Arte accanto ho verificato che nascite, morti, luoghi, attribuzioni, scuole e tante altre cose ancora, sono il suo patrimonio incredibile di dati e di conoscenze. Non sto esagerando. Faccio un esempio. -Claudio, sono stato a visitare


una Chiesa a Bratislava. -Quale? -Il duomo di San Martino. “Capisco. Ti riferisci a quella, costruita sopra un cimitero, dove fu incoronato il Re d’Ungheria. La cui torre campanaria alta 85 metri, fu distrutta da un fulmine nel 1760, distrutta da un incendio nel 1835 e rifatta nel 1847. Ne furono incoronati undici in quella Chiesa, compresa Maria Teresa d’Austria. Tre Navate, volte a crociera e abside poligonale. Bellissime le cappelle, alcune in stile gotico del XV secolo, due dedicate alla regina sofia e a Sant’Anna, un’altra in stile barocco del XVIII secolo, dedicata a San Giovanni il Misericordioso, opera dello scultore austriaco George Rafael Donner. Che ha anche realizzato il bellissimo gruppo scultoreo in piombo di San Martino a cavallo nel gesto di tagliare con la spada il suo mantello, per donarne metà a un povero”. Riporto questo esempio per tutti, perché da alcuni anni, lo confesso impunemente, registro le telefonate. Queste informazioni sulla chiesa di San Martino di Bratislava, dette in tre minuti ai quali bisogna conteggiare anche i miei rispettosi silenzi di stupore, costituiscono queste notizie sbobinate che ho riportato come esempio. Sapete, di fronte a una tale quantità


d’informazioni di argomenti tra i più disparati e con tanti particolari non si può rimanere indifferenti. Posseggo ore e ore delle conversazioni di tre minuti, ordinate per data e argomenti che costituiscono un mio tesoretto personale. Molti dopo avere letto questo racconto immagineranno che ciò che sin qui si è già letto sia un’opera d’invenzione. Una scrittura fantasiosa che esalta un personaggio costruito, di nome Claudio, dalla memoria straordinaria. Esiste una prova. Ha vinto un’edizione di Lascia o raddoppia? la mitica trasmissione condotta da Mike Buongiorno negli anni cinquanta. Una memoria formidabile e fuori dal comune. Ciò è assolutamente vero. Non solamente il nome è vero, ma tutto quello che ho scritto è la sacrosanta verità. Del resto basterebbe venire a casa mia intorno alle ore 7 e 20 e pazientemente attendere lo squillo del telefono. -Pronto? Ciao. Come va? -Bene e tu?. Ne è testimone la mia povera e generosa compagna che confermerebbe parola per parola ciò che ho scritto. Vi aspetto se siete così scettici da non crederci. Provare per credere.


Post scriptum. Oggi 29 agosto 2013, alle ore 15 ho ricevuto una telefonata da Claudio che, da circa quattro mesi, non ha cambiato orario, ma fa altre telefonate improvvise quando e come più gli aggrada. Mi comunica che ha iniziato la riabilitazione del braccio in ospedale per una brutta caduta. Mi telefona quasi ogni giorno per comunicarmi il decorso, come farebbe per uno di famiglia e mi dice che è molto infelice poiché non può sfogliare i giornali. Mi raccomanda però di andare a visitare a Caltagirone la mostra di Pablo Picasso e Pan Lusheng al Palazzo Libertini, all’ex carcere Borbonico e al Museo Diocesano che si chiuderà il 22 settembre e la mostra di Antonino Leto a Palazzo Branciforte a Palermo che si chiuderà il 29 settembre.

nicolò d’alessandro


Angeli, alieni e sbirri Avevo un amico, lo chiamerò Patrizio. Patrizio lo avevo conosciuto

per

strada,

forse

amico

di

amici,

piĂš

probabilmente imbucato nei gruppi che frequentavo io, secondo un'abitudine diffusa in quel periodo leggendario e lontanissimo in cui, dato un piccolo assembramento stravaccato sui gradini di una statua o sul prato di una villetta, costituiva titolo di accesso e di immediata appartenenza al bivacco

la

presenza,

peraltro

nemmeno

del

tutto

indispensabile, di qualcuno incontrato per la prima volta in un'occasione simile il giorno o il mese prima. Patrizio era un tipo strano, la cui stranezza si manifestava quotidianamente in molte cose: un giorno Patrizio non era il suo vero nome, un giorno la sua famiglia non era la sua vera famiglia, un giorno aveva lavorato come addestratore di cirnechi in un bucolico allevamento sull'Etna, solo lui, i cani, una baracca e una piantagione di marijuana dietro la baracca, il che effettivamente spiegava molte cose. Insomma Patrizio, che ogni giorno era una persona diversa, a me stava piuttosto simpatico e iniziammo a frequentarci con una certa costanza.


Patrizio, soprattutto, come scoprii quasi subito, era un appassionato conversatore telefonico e le sue telefonate, da principio banale mezzo per darsi appuntamento fuori, ben presto divennero strane quanto lui. Una sua telefonata significava che per l'ora e mezza successiva potevi metterti bella comoda per terra con le orecchie aperte e ascoltare i monologhi piĂš deliranti del pianeta: la sua specialitĂ erano i plot a sfondo fantascientifico-poliziesco. E cosĂŹ, una volta ti catapultava in un mondo oscuro, sotterraneo e pericoloso, dovevi stare attento a tutto, tu non te ne accorgevi ma c'erano queste forze speciali paramilitari, infide e letali, che si aggiravano ovunque. Qual era il loro compito? Non era chiaro nemmeno a lui. SĂŹ, ma che facevano? Se ti prendevano ti portavano con loro, e buonanotte al secchio. Si potevano vedere? Comparivano e scomparivano senza lasciare traccia. Come degli spettri, allora? Forse non erano umane? Non erano terrestri? Erano una specie di forza dell'ordine intergalattica? Non se ne veniva a capo, c'era da perderci la ragione... Un'altra volta il protagonista era l'Arcangelo.

Ah!

L'Arcangelo.

Ammaliatore

e


potentissimo...terribilmente inquietante, pure. Contrastava gli invisibili sbirri galattici? Brillava di abbagliante luce solare o di tenebra? Nessuna domanda riusciva ad arrestare il flusso del racconto che si faceva sempre più intricato e confusionario, fino a quando perdevi il filo e iniziavi a sospettare che l'amico Patrizio mischiasse sostanze varie un po' a casaccio per ottenere dei risultati così notevoli. Poi la telefonata finiva, passavano un paio di giorni, mi citofonava a casa, uscivamo a fare due passi ed era la persona più mite, ragionevole e sensata del mondo. Un giorno rispondo al telefono. È Patrizio. Ciao Patrizio come stai, che hai fatto di bello? Non sono stato bene, mi dice. Patrizio è strano, ma strano al contrario, con la voce seria e controllata la storia che mi accenna è peggio delle sue storie assurde. E quindi sono a casa con una gamba ingessata, mi dice alla fine, puoi venire? Abitiamo vicinissimo, sto arrivando gli dico. È la prima volta che vado a casa sua, è una bellissima casa con un salone luminoso, mi apre la porta sua madre che non conosco e che non mi pare molto affabile con un'amica


sconosciuta del figlio, passa pure un ragazzo un po' più giovane di Patrizio, sarà un fratello, non molto affabile nemmeno lui. Patrizio...ma che hai combinato? Niente, te l'ho detto, mi bisbiglia...sono andato fuori di testa. Ma fuori di testa come? Ero solo in casa, e non so come mi sono convinto che dietro la porta c'era un alieno grigio-verde. Un alieno? Grigio-verde? Lo so che non c'era, mi fa come se fossi cretina, ma in quel momento ero sicuro che c'era. E io non potevo uscire, perché fuori c'era lui. Capisci, si era nascosto...e aspettava che uscissi...mi stava aspettando...non lo so quanto tempo è passato. Poi però si è messo a grattare la porta e ho capito che voleva entrare...e sono uscito di testa...non capivo più niente,

volevo

solo scappare...ho

legato

le

lenzuola

all'inferriata del balcone e mi sono calato di sotto. Solo che il nodo si è sciolto e io sono caduto nel terrazzo dei vicini e mi sono rotto la gamba...è successo un casino... Patrizio...ma che cavolo, ti è andata di lusso... Sì certo...e ora i miei mi tengono sempre d'occhio, a parte che con la gamba ingessata non ho dove andare.


Poi è guarito, dalla gamba ingessata. Le telefonate erano finite e lui è sparito dalla circolazione. Qualche volta negli anni successivi ho incontrato uno che gli assomigliava, una specie di incrocio tra Taxi Driver e quegli sbirri intergalattici. Poi piÚ niente. Mi sa che alla fine lo hanno trovato. E se lo sono portato.

alessia arena


Prestazione a pagamento offresi Hai (pausa) due (pausa) nuovi messaggi. Primo messaggio. Kiiietttyyyyy, ciao Kiieeetyyy. Che fa, non sei in casa, Kietty? A buò, ti chiamo più tardi, ciao Kietty. (ma cu è stu zauddu?) Fine primo messaggio. Per riascoltare il messaggio premere cinque. Per cancellare premere sette. Per archiviare premere nove. Secondo messaggio. Kieetty, Kieeettyyy, ma che fa, fai la preziosa Kietty? Fai finta che non sei in casa? Sei una stronza Kietty, ma va fa ntu culu! Fine dei nuovi messaggi. Per riascoltare il messaggio premere cinque. Per cancellare premere sette. Per archiviare premere nove. (ma c'è da morire...) Drin drin. Pronto. Pronto c'è Ketty? (n'autru!)


Scusi, ma lei chi è? Maaa, iooo... (già si sta confondendo) iooo...cerco Ketty. L'ho capito che cerca Ketty, ma lei lo sa chi è Ketty? Com'è che ha questo numero? Maaa...veramente io so che Ketty... Ketty riceve, va! Ho sbagliato numero? (Ketty RICEVE???) Senta... io non lo so com'è che lei ha questo numero, ma le voglio spiegare che Ketty c'ha sessant'anni abbuccati, è mia madre, non hai mai “ricevuto” in vita sua e non credo che voglia iniziare adesso, quindi sia gentile e mi dica come mai ha questo numero. Aaaaaa... (minchia lo vedo, imbarazzato morto per la cantonata) ...ma mi dispiace...io non volevo...è che tutte le cabine telefoniche sono tappezzate di adesivi da queste parti. C'è scritto: Ketty riceve a pagamento in ambiente signorile. Chiamare, e sotto c'è il numero di telefono. Guardi, si tratta di uno scherzo cretino. Sia gentile, potrebbe staccare tutti questi adesivi dalle cabine?


Certo, certo...ora lo faccio...mi dispiace veramente...io comunque lavoro alla polleria in via... Grazie, è davvero gentile da parte sua. Click.

alessia arena


Ithanksgiving

Se esistessero i distratti anonimi, sarei impegnata una volta alla settimana. Teoricamente. Perche dimenticherei di andare alle riunioni. ‘Sono Maria e dimentico tutto, per questo non c’ero alla scorsa riunione, e a quella precedente’. Ma non ci sarebbero gli altri. Insomma non so se funzionerebbe, questo metodo.

I

distratti

dimenticano

gli

appuntamenti

e

smarriscono le cose. Sono una smarritrice seriale di Iphone. Sempre lo stesso. Da ciò si evince che lo ritrovo. Un Dr. Freud alle prime armi direbbe che mi sta sulle balle. Buh, non so, ho un contenzioso aperto, anzi chiuso, con l'inconscio. Io dico che sono una distratta patologica e lo voglio ritrovare tutte le volte, il telefono. Amico? A volte. Tant'è. Gli alcoolisti anonimi scrivono una lettera di scuse, a me sembra più opportuno ringraziare. Quelli che me l'hanno fatto ritrovare. Procedo in ordine di chi mi viene in mente. La signora del Bar Mazzara di via Roma a Palermo. L’ho lasciato lì mentre mangiavo un gelato. Manco buono era. Dopo aver vagato fino alle 4 del mattino per piazza Borsa in


piagama e ciabatte arancioni di gomma ero andata a dormire rassegnata. Alle 9 mi sveglia una telefonata dal mio telefono. Grazie. Le ragazze che l'hanno ritrovato al Bar Moka Gold, sempre in via Roma. Sono state pure troppo scrupolose, non l’hanno voluto lasciare al Bar e ho dovuto scarpinare fono al loro ufficio. Vabbe’, 200 metri, ma con la tachicardia. Grazie. L'impiegato del suddetto Moka Gold che mi ha rincorso per via Roma per avvertirmi dell'avvenuto ritrovamento. Da allora mi chiede ogni volta che ci vado: l’ha preso il telefono? Grazie. La ragazza americana che l'ha trovato una notte non so dove di preciso, a Roma, l'ha messo in carica e ha aspettato che io chiamassi alle 2.30 del mattino. Era pure timida, ho parlato con il suo fidanzato o simile che mi ha raccontato in Spanglish del ritrovamento. Grazie. Tutte e tutti sconosciuti. Tralascio amici e parenti che l'hanno ritrovato in macchina, casa, quartieri generali vari, tasche, borse, attaccati a prese etc. La voce umana: Maria, l'hai preso il telefono, l’hai


staccato il coso, l’hai recuperato quella minchia di Iphone? Varie ed eventuali. I noti non sono tenuti, ma te lo aspetti che ti aiutino. Anzi, se non lo fanno ti incazzi. Ma gli sconosciuti? Che gliene frega a loro? Escludendo il furto, forse tutti non sanno che è stupido rubare un iPhone, si può rendere inutilizzabile. Quindi: grazie Steve Jobs, chi sa se sei ancora affamato e pazzo, qui confermiamo entrambe le condizioni, sarà l’orario, vuoi un morso di mela? In ogni caso, trovando un Iphone, uno sconosciuto potrebbe darlo in pasto ai cani o a un seienne irrequieto, usarlo per crash test o come fermacarte. Di tutto un po'. Invece, nella mie esperienza, i ritrovatori custodiscono e restituiscono. Gratis. E della gratuità bisogna essere grati. Pertanto, grazie, la vita in tutta sincerità è una merda di cane spiaccicata su un portone, come non dice il poeta, ma ogni tanto ti regala la possibilità di dire grazie. Un dono al quadrato. Gracias Spasibo Thanks Arigato. In tutte le lingue del mondo.


Quest’anno, negli USA il giorno del Ringraziamento è il 28 novembre. Wikiscroccando, per chi non lo sapesse: “Il Giorno del ringraziamento è una festa di origine cristiana osservata negli Stati Uniti d'America (il quarto giovedì di novembre) e in Canada (il secondo lunedì di ottobre) in segno di gratitudine per la fine della stagione del raccolto. Questa storica tradizione, in origine di derivazione religiosa ma ora considerata secolare, risale all'anno 1621. Quando fu effettuato il raccolto nel novembre 1623, William Bradford, Governatore della Colonia fondata dai Padri Pellegrini, a Plymouth, nel Massachusetts, emise l'ordine: « Tutti voi Pellegrini, con le vostre mogli ed i vostri piccoli, radunatevi alla Casa delle Assemblee, sulla collina... per ascoltare lì il pastore e rendere Grazie a Dio Onnipotente per tutte le sue benedizioni. »” Ovviamente va a finire che ci si strafoga. Ci vanno di mezzo più di 40 milioni di tacchini. Roba difficile da digerire per una vegetariana, ma paese che vai, crudeltà che trovi. Che poi il tacchino se non lo ammazzi con intrugli e ripieni, anche se già


bello che morto, io me lo ricordo non commestibile. Poi magari la ragazza è vegetariana e si mangia il seitan del Ringraziamento. Mica qualcuno mi vieta di pensarlo. Ma non è questo il punto. Non sono qui per divagare, sono qui per ringraziare. Spero che la ragazza americana intenta a sbranare il suo pasto del Ringraziamento sussurri tra sÊ e sÊ un "prego". The end, anzi, Stop alle telefonate. Grazie.

maria gebbia


28 marzo 2012 sei nel sonno del mattino presto...allarme...un suono sconosciuto non capisci se stai sognando non capisci da dove viene ti rigiri nel letto impastata di sogni...il suono continua insistente sempre più presente sempre più forte...che minchia succede? un'invasione marziana un colpo di stato è scoppiata la guerra un attacco atomico? ti alzi come uno zombi e cerchi di capire la provenienza...sembra venire da fuori torni a letto no è troppo presente ti rialzi e lo vedi...quella minchia di telefono cellulare iphone o come minchia si chiama quello che mi sono portata a casa stanotte quello che maria si è dimenticata...minchia come minchia si spegne? improvvisamente tace me lo porto a letto i rumori del mattino non mi fanno riaddormentare bestemmio urlo sto per cedere nuovamente al sonno...ricomincia...lo butto, lo butto dal balcone se continua, c'è il blocco non si spegne...tace... ricomincia...mi pulsano le tempie accendo il pc mi faccio il caffè...mariaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaa...maria mi da il codice di sblocco della minchia...finalmente tace... anna farinella


"Quella piccola scatola nera" A volte ho odiato quella piccola scatola nera, quel simulacro della nostra emozionalità orale che sembra racchiudere in grembo scampoli di verità tra dialoghi spesso convenzionali o manifestazioni di reconditi pensieri che, tramutati in segnali aerei si disperdono nell'etere per ridiventare parole alle orecchie di chi non da vicino ci ascolta. Ed è da quella piccola scatola che avrei voluto chiamarti e sentire almeno la tua voce, la prova della tua esistenza, ma così non è stato. Tu, lo leggevo quel mattino sul giornale, non c'eri più. Guardando la tua foto non riuscivo ad immaginare che quel sorriso azzurrino, disciolto tra iride e pupilla, si fosse spento per sempre. Avrei voluto dirti quanto eri stata importante per me e come il cuore, la mente e la pelle stessa portassero una traccia indelebile di quegli anni vissuti insieme, ricordando che ci eravamo sempre aiutati e spronati a vicenda per superare ogni ostacolo al nostro desiderio di amarci e di vivere insieme. Poi le nostre strade si erano separate per la mia inquietudine e le tue indecisioni: io, più giovane, ero


l'uomo della rivolta, pieno di orgoglio; Tu, piĂš grande, eri la donna saggia che difendeva il suo status di madre esemplare e indipendente. Sapevamo entrambi che il nostro era stato un grande amore e lo percepivamo ogni volta che, per scelta o per caso, ci incontravamo o ci sentivamo al telefono scambiandoci notizie sulle nostre rispettive esistenze che scorrevano serene nell'ambito di esperienze e scelte maturate successivamente. Sicuro di rincontrarti ti dico arrivederci dolce amica mentre nessuno squillo di telefono potrĂ ormai farmi sperare di udire la tua voce.

vincenzo fiorenza



Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.