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ISSN 2384-9029

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OFFICINA* Bimestrale on-line di architettura e tecnologia N.03 novembre-dicembre 2014 ISSN 2384-9029 Rivista consultabile e scaricabile gratuitamente su : www.officina-artec.com/category/publications/officina-magazine

DIRETTORE EDITORIALE

HANNO COLLABORATO A QUESTO NUMERO:

Emilio Antoniol

Michele De Mori, Arianna Garatti, Daniele Bellotto, Elena Longhin, Patrizio M. Martinelli, Claudia Tavella, Matilde Tessari, Claudia Tessarolo, Diletta Zonzin.

COMITATO EDITORIALE Valentina Covre

IMPAGINAZIONE GRAFICA

Francesca Guidolin

Margherita Ferrari

Daria Petucco REDAZIONE Filippo Banchieri Margherita Ferrari Valentina Manfè Michele Menegazzo Chiara Trojetto PROGETTO GRAFICO Valentina Covre

EDITORE

Margherita Ferrari

Self-published by

Chiara Trojetto ArTec - Archivio delle Tecniche e dei materiali per l’architettura e il disegno industriale Università Iuav di Venezia Dorsoduro 2196, 30123 Venezia tel. +39 041257 1673 fax +39 041257 1678 info@officina-artec.com Copyright © 2014 OFFICINA*


Gettare le fondamenta Ogni tecnica, arte, scienza o attività ha i suoi fondamenti, precetti basilari che ne sostengono l’intero apparato disciplinare o ne definiscono metodi e regole. Il termine ‘fondamento’ trova però la sua origine etimologica nel latino fundamentum, a sua volta derivato da fundare, che significa ‘fondare’ o ‘porre le fondamenta’ di un edificio individuando quindi nell’ambito architettonico la sua naturale collocazione. Fondamenti - Fundamentals - è anche il titolo scelto da Rem Koolhaas per la quattordicesima Mostra Internazionale di Architettura di Venezia, ormai vicina alla sua conclusione, che trova proprio nella narrazione storica dell’evoluzione degli elementi dell’architettura, utilizzati da ogni architetto in ogni tempo e in ogni luogo, uno dei suoi temi principali. Facciate, porte, finestre, muri, scale, solai e balconi sono solo alcuni degli elementi che, partendo dal Padiglione Italia, si susseguono come componenti basilari di tutta l’architettura in mostra alla Biennale. Allo stesso modo alcuni di essi sono il punto di partenza di questo terzo numero di OFFICINA*, andando a gettare le fondamenta per una riflessione più ampia che vuole fare da ponte tra differenti approcci e discipline dove, oltrepassando il principio del fondamento, il muro si fa di carta o di sottile vetroresina, l’architetto diventa musicista e il cartongesso si fa

Chiara Trojetto

metafora del contemporaneo panorama edilizio veneto.


INDICE 4

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N.03 nov-dic 2014 in copertina: Inside Out

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immagine di Ilaria Fracassi*

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ESPLORARE La Ricerca Che Cambia di Emilio Antoniol Hiroshige. Da Edo a Kyoto: vedute celebri del Giappone. La collezione del Museo d’Arte Orientale di Venezia. di Michele Menegazzo SHAPE! Bringing architecture to life di Valentina Covre AFRICA Big Change Big Chance di Margherita Ferrari 14°BIENNALE L’architettura della facciata di Patrizio M. Martinelli Detail. Architecture seen in section di Claudia Tessarolo Elements of Venice. Anatomia di Venezia di Elena Longhin Centottantaduepercento. In principio l’elemento di Matilde Tessari

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PORTFOLIO Architettura come metafora di Valentina Manfè

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IN PRODUZIONE Secco Sistemi per il restauro di Palazzo Onigo di Filippo Banchieri

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VOGLIO FARE L’ARCHITETTO Architettura di carta di Diletta Zonzin Stamperie private in Italia: fra tradizione e modernità di Claudia Tavella Cataste d’Africa di Margherita Ferrari


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IMMERSIONE L’abbandono edilizio e urbano a Verona di Michele De Mori

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Sughero di Margherita Ferrari

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MICROFONO ACCESO Architects of Justice di Francesca Guidolin traduzione di Arianna Garatti

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CELLULOSA Cartongesso di Francesco Maino a cura di Valentina Covre

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ARCHITETT’ALTRO Musica o architettura? di Daniele Bellotto

CALL FOR ARTICLE Auto (Produzione - Costruzione - Recupero)

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Sistema costruttivo a umido di Valentina Covre

* Laureanda in Disegno Industriale, Università Iuav di Venezia. E-mail: ila.fracassi@gmail.com

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ESPLORARE

La Ricerca Che Cambia Convegno nazionale dei dottorati italiani dell’Architettura, della Pianificazione e del Design. Scuola di Dottorato Iuav, Palazzo Badoer, Venezia 19-20 novembre 2014 www.laricercachecambia.it

Hiroshige. Da Edo a Kyoto: vedute celebri del Giappone. La ������������ collezio� ne del Museo d’Arte Orientale di Venezia Museo di Palazzo Grimani, Santa Maria Formosa, Venezia 20 settembre 2014 - 11 gennaio 2015 www.palazzogrimani.org

SHAPE! Bringing architecture to life Palazzo Giustinian Lolin 7 giugno - 23 novembre 2014 w w w.permasteelisagroup.com/ shape In assoluta concomitanza con la chiusura della 14a edizione della Mostra In-

Nelle giornate del 19 e 20 novembre si terrà a Venezia il primo convegno nazionale dei dottorati italiani dell’architettura, della pianificazione e del design. L’evento, promosso della Scuola di Dottorato dell’Università Iuav di Venezia, mira ad avviare una discussione attorno al tema del dottorato in Italia inerente ai settori del progetto, affrontando tale questione sia sul piano degli esiti della produzione scientifica che su quello del rapporto tra ricerca accademica e realtà produttiva e territoriale. Lo spunto per queste riflessioni viene trovato in dieci parole chiave (Costruzioni, Emergenze, Futuri, Paesaggi, Patrimoni, Politiche, Processi, Scale, Storie, Teorie) alle quali coincideranno altrettanti tavoli di lavoro attorno ai quali sono stati invitati a discutere dottorandi e dottori di ricerca provenienti da tutta Italia.

Allo stesso tempo seriali e uniche, le “immagini del mondo fluttuante” di Hiroshige offrono uno spaccato di vita reale nel Giappone della prima metà dell’Ottocento: esse ci parlano degli interessi della classe borghese, dei modi di viaggiare, delle riforme Tenpo. La mostra presenta le opere del periodo maturo dell’autore, quali i Racconti illustrati dell’antica Edo, tre serie di vedute delle 53 stazioni del Tōkaidō (in quella del 1855, in particolare, viene adottato per la prima volta il formato verticale per le rappresentazioni di paesaggio), Le trentasei vedute del Fuji e la raccolta di Cento vedute di luoghi celebri di Edo. A completare l’esposizione, alcune foto della collezione Vittorio e alcuni oggetti del Museo d’Arte Orientale di Venezia, che ritraggono gli stessi scorci delle xilografie di questo “cantore della natura”.

ternazionale di Architettura veneziana, domenica 23 novembre si conclude la mostra SHAPE! Bringing architecture to life curata da Permasteelisa Group in collaborazione con IN/ARCH. Attraverso la selezione di otto facciate continue progettate e realizzate dall’azienda veneta per altrettanti edifici collocati cronologicamente tra il 1999 e il 2013 e in contesti geografici diversi, la mostra ripercorre l’evoluzione della facciata, uno dei fondamentali Elements of Architecture radunati da Rem Koolhaas all’interno delle stanze del Padiglione Centrale dei Giardini alla Biennale . All’interno di teche trasparenti sono raccolti disegni assonometrici, prospetti a linee, dettagli costruttivi, ricostruzioni di porzioni di facciata che sfruttano la tecnologia della stampante 3D.

di Emilio Antoniol

di Michele Menegazzo

di Valentina Covre

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AFRICA Big Change Big Chance Mostra a cura del prof. Benno Albecht Triennale di Milano 15 ottobre - 28 dicembre 2014 www.triennale.it La mostra mira a descrivere importanti fenomeni che stanno coinvolgendo l’Africa e che la stanno trasformando sotto molteplici punti di vista. Trasformazioni che allo stesso tempo possono offrire molteplici opportunità, Big Chance appunto. Per poter attuare e concretizzare queste opportunità c’è bisogno prima di tutto di un’accurata osservazione e conoscenza del luogo, delle sue architetture, siano esse spontanee o firmate da grandi nomi, del suo territorio e della sua società. La mostra così si suddivide in differenti sezioni per affrontare nella maniera più completa questo grande cambiamento che coinvolge l’intero continente africano. Big Change Big Chance è un percorso di immagini e disegni, modelli e contributi video, per fotografare l’Africa di oggi e disegnare l’Africa di domani.

di Margherita Ferrari

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Q

uali sono oggi i Fundamentals nella formazione di un architetto secondo Rem Koolhaas? Possiamo parzialmente arguire la risposta dopo aver visitato la 14^ Biennale d’Architettura di Venezia

da lui curata. Possiamo inoltre immaginare che, nel prepararne i contenuti, abbia ritenuto fondamentali sia la definizione di un’ampia rete di supporto scientifico, sia la precisazione di una solida struttura espositiva. I veri protagonisti della mostra non sono, infatti, progetti su edifici nuovi ed esistenti o esempi virtuosi di pianificazione e gestione a livello urbanistico, bensì gli esiti di tre filoni di ricerca, tra loro distinti e complementari, da lui proposti. Il primo di questi, Absorbing Modernity: 1914-2014, viene sviluppato attraverso i 65 padiglioni nazionali, distribuiti fra Giardini, Arsenale e altri luoghi in città. I paesi partecipanti raccontano le declinazioni dell’architettura moderna nelle proprie realtà locali in cento anni di storia. Ne emergono successi e fallimenti, realizzazioni e utopie, episodi circoscritti e fenomeni a grande scala. Ma anche cronache ed evoluzioni degli stati dell’America Latina, dell’Africa, dell’ex blocco sovietico, del Vicino e dell’Estremo Oriente, nazioni

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spesso assenti dai testi su cui il grande pubblico si forma. Cino Zucchi ha curato in maniera sapiente ed elegante il padiglione con il contributo italiano a questo studio. Il titolo, Innesti Grafting, concretato dalla presenza dell’Archimbuto (il portale metallico d’ingresso) e del Nastro delle Vergini (la panca per sostare e seguire gli eventi nel giardino), allude alla capacità di certa architettura moderna italiana di inserirsi in maniera efficace nel tessuto urbano e nel paesaggio preesistenti. L’architetto milanese ha riservato buona parte dell’esposizione alla propria città, laboratorio della modernità per eccellenza nel nostro paese, analizzandola a partire dai progetti per la facciata del Duomo, passando per quelli dei grandi maestri del secondo dopoguerra fino ad arrivare alle attuali realizzazioni di edifici verticali e all’Expo. I risultati di 41 casi studio individuati lungo tutta la penisola costituiscono invece Monditalia. L’allestimento è caratterizzato da una tenda con la riproduzione della Tabula Peutingeriana: essa, in realtà, è una membrana semipermeabile, attraverso cui possono avvenire, per la prima volta, scambi con contributi delle altre Biennali (Cinema, Danza, Musica, Teatro). La ricerca condotta privilegia intelligentemente le storie alle teorie, con l’obiettivo di restituire la fotografia di un paese ri-


Chiara Trojetto

FUNDAMENTALLY, ELEMENTS

di Michele Menegazzo* tenuto fondamentale per comprendere la contemporaneità. Ciò nonostante, molti lavori non riescono a descrivere esaurientemente la complessità dei fenomeni esaminati e non hanno il sapore sperimentale e provocatorio di altre indagini condotte da Koolhaas. La mostra organizzata nel padiglione centrale ai Giardini, Elements of Architecture, propone infine lo studio sui componenti fondamentali degli edifici condotto dalla Harvard Graduate School of Design negli ultimi due anni. La rassegna di esempi dell’antichità, del passato recente, del presente e del futuro prossimo viene proposta con un taglio di tipo enciclopedico, a tratti quasi fieristico. I collegamenti possibili con il primo tema sono numerosi, basti pensare ai pannelli prefabbricati di Jean Prouvé del padiglione francese o a quelli di origine sovietica del padiglione cileno. Elements of Architecture è anche il fil rouge per i quattro articoli che presentiamo di seguito, contributi di ricerca di persone legate in più modi e a più livelli con l’Università Iuav di Venezia. Abbiamo pensato di dare una rilettura in chiave linguistica di questa sezione della Biennale per cercare di colmare le lacune, forse solo apparenti, denunciate da alcuni

critici. All’arch. Martinelli abbiamo chiesto di fornirci un’analisi etimologica, morfologica e lessicografica di un element, in particolare di una struttura di facciata. L’arch. Tessarolo, presentando un’esposizione temporanea e un seminario legati alla mostra, sottolinea la necessità di curare la sintassi fra i dettagli architettonici, progettandone adeguatamente le interfacce. Elements of Venice, alla cui stesura ha collaborato l’arch. Longhin, è invece una traduzione semantica dello studio più generale promosso da Koolhaas. Matilde Tessari, infine, ci dà modo di riflettere sulla semiotica nella pubblicità dei vari componenti edilizi. Fundamentally yours, l’ingegnere. * Michele Menegazzo è un ingegnere edile padovano. Ha maturato alcune esperienze nel campo della progettazione sostenibile e della formazione. Attualmente sta sviluppando un assegno di ricerca presso ArTec che ha come obiettivo la messa a punto di un sistema di facciata continua con struttura portante in legno e tamponamento in vetro.

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L’architettura della facciata di Patrizio M. Martinelli* Dimmi, poiché sei così sensibile agli effetti dell’architettura, non hai osservato, camminando nella città, come tra gli edifici che la popolano taluni siano muti, ed altri parlino, mentre altri ancora, che son più rari, cantano?” (P. Valéry1) L’espressione di un carattere (di una architettura e/o di un luogo) e il concetto di “sguardo” sono questioni centrali, nell’affrontare il tema della facciata. Facendo riferimento all’etimologia2 , il latino facies e il greco phàino (φαίνω, da cui εκφαίνω, ek-phàino) rimandano al concetto di “apparire”, “manifestarsi”, e anche del “portar fuori, mostrare al di fuori” qualcosa, come in effetti succede al nostro viso che esprime, più o meno in maniera conscia, un sentimento, un moto d’animo, un pensiero che nasce da dentro ma spesso reagisce anche ad un “fuori”. Già Vasari avvicina le fattezze del volto umano a quelle della facciata: “Per l’aspetto suo primo la facciata vuole avere decoro e maestà et essere compartita come la faccia dell’uomo: la porta da basso e in mez[z ]o, così come nella testa ha l’uomo la bocca donde nel corpo passa ogni sorte di alimento; le finestre, per gli occhi, una di qua e l’altra di là, servando sempre parità”3. Analogamente il Tommaseo, alla voce “facciata” del suo dizionario, scrive che essa “fa nelle fabbriche ciò che fa la faccia rispetto alle altre membra dell’uomo, onde gli artefici si sforzano di dare ad essa maestà e decoro”4. D’altro canto la parola “prospetto”, derivante dal verbo latino prospicere, richiama da una parte il “guardare innanzi”, il “guardare verso”, l’“osservare”, dall’altra si collega (tramite la radice species) a “ciò che si vede”, all’“aspetto”,

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all’“apparenza”. Peter Eisenman ricorda come Colin Rowe intendesse per “prospetto” la “manifestazione letterale o tecnica di organizzazioni interne”, mentre con “facciata” il mezzo architettonico che definisce il carattere, i significati simbolici e iconici5. Robert Slutzky osserva che mentre i termini inglesi facade e sur-face rimandano a qualità antropomorfiche, il sinonimo elevation suggerisce riferimenti morali e spirituali, ha a che fare con lo “sforzo per ciò che è elevato; con l’aspirazione, e così con l’ispirazione”6. In italiano uno dei termini per descrivere la facciata è anche “alzato”, parola che potrebbe suggerire una

la facciata, in tal senso, è il luogo architettonico dove trova sede la sincera espressione della “vita interiore” dell’edificio, e anche la corretta rappresentazione del dato costruttivo


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analoga interpretazione morale, ma che è chiaramente legata alla tecnica grafica delle proiezioni ortogonali, per cui, sulla base del disegno della pianta, si “alzano” le linee che definiscono il prospetto; e l’analogia, inoltre, può essere riferita al fatto costruttivo stesso, secondo il quale l’edificio viene “alzato” dalle fondamenta, piano per piano, fino alla copertura. La facciata, in tal senso, è il luogo architettonico dove trova sede la sincera espressione della “vita interiore” dell’edificio, e anche la corretta rappresentazione del dato costruttivo7. “Un edificio - scrive Le Corbusier - è come una bolla di sapone. Questa bolla è perfetta e armoniosa se il soffio è ben distribuito, ben regolato dall’interno. L’esterno è il risultato di un interno”, di una pianta che presuppone innanzitutto i “procedimenti di costruzione”8. Riecheggia in queste parole il portato dei trattatisti e della cultura razionalista classica, secondo la quale il carattere di un edificio non esulava dalla corretta relazione fra interno ed esterno e fra architettura e costruzione9. Francesco Milizia ripropone l’analogia fra fisionomia umana e facciate architettoniche, che esprimono “l’indole de’ vari edifici, i quali variano tanto secondo la varietà de’ loro usi, de’ siti, e d’innumerevoli altre circostanze”; esse “son perfette, quando colla decorazione, colla simmetria, e coll’euritmia esprimano adequatamente quella distribuzione interna, e quella costruzione, le quali convengono alla natura dell’edificio”10;

La configurazione della facciata d’altro canto è determinata anche dalla “risposta” dell’architettura a un dato contesto, in un legame imprescindibile con il luogo, che essa stessa contribuisce a costruire. Le condizioni di illuminazione, per esempio, condizionano quantità e forma delle aperture, il sistema costruttivo e quindi il disegno dei fronti urbani. A Venezia le facciate sono costituite da una sequenza di schermi traforati di diafani loggiati su cui si affacciano i saloni passanti, e appartengono quasi più al canale che all’edificio, da cui, come ravvisa Bettini, sembrano esser staccate, indipendenti, per trovare l’una accanto all’altra un’unità cromatica e ritmica di superficie12 . Invece nelle città del nord Europa le facciate sono realizzate in murature a timpano portanti con piccole aperture, poste lungo le strade, con coperture a falde attrezzate da numerosi abbaini. Possiamo leggere una simile analisi nell’editoriale “La casa all’italiana” di Gio Ponti, pubblicato su “Domus” nel 1928, nel quale si spiega che nel nostro paese la relazione fra interno ed esterno, fra l’architettura e i giardini, gli orti, i cortili è “senza complicazioni” mediata da trasparenti dispositivi come logge, terrazze, pergole e altane (“invenzioni tutte confortevolissime per l’abitazione serena”), di contro alle casa nordica, chiuso rifugio protetto contro la “natura inclemente”13.

allo steso modo Quatremère de Quincy vede necessaria la “corrispondenza dell’esterno della sua massa coll’interno, che l’occhio e lo spirito vi discuoprono il principio d’ordine ed il legame necessario che ne hanno determinata la disposizione”, corrispondenza “alle ragioni, suggezioni e bisogni a seconda de’ quali è stata ordinata l’interna sua disposizione”, ma con l’appropriatezza al “genere, la natura, la destinazione dell’edificio”11.

Analoga “risposta” alle condizioni del luogo è quella delle facciate del Quirinale a Roma, che si aprono l’una sulla strada urbana, l’altra sul giardino, così come descritta nell’interpretazione di Colin Rowe in Collage City: “Rispetto alla strada su un lato e ai giardini dall’altro, la Manica lunga occupa spazio e lo definisce, funge da forma positiva e da sfondo passivo, permettendo sia alla strada che ai giardini di esprimere le loro

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distinte e indipendenti personalità. Verso la strada essa proietta una presenza massiccia e “esterna” che funge da punto di riferimento per l’irregolarità e la casualità (S. Andrea eccetera) dell’altro lato della strada; ma mentre in questo modo afferma il pubblico, è in grado di fornire al lato del giardino una situazione totalmente opposta: più dolce, privata e potenzialmente più adattabile”14. Il differente affaccio (strada-città versus giardino-natura) plasma l’architettura, l’edificio si confronta con il luogo con una differente declinazione del prospetto. È suggerito qui il tema del “Giano bifronte” (la divinità, lo ricordiamo, che protegge le porte, gli accessi, le soglie, i passaggi), che Robert Slutzky propone nella sua lettura delle facciate di Villa Stein a Garches di Le Corbusier, in cui una composta e cartesiana pacatezza governa il prospetto quando l’edificio affronta la città, mentre una più giocosa e plastica composizione di volumi e scavi domina l’affaccio quando lo “sguardo” è rivolto al giardino e alla natura: “Così il volto di questa villa suburbana è come quello di Giano: la facciata di ingresso, ordinata e planare, rivolgendosi guardinga e maestosa al mondo (ma con un po’ di humour sornione), risponde al senso della griglia urbana lineare, all’urbanistica e all’urbanità parigina; invece la facciata sul retro, più elegante e trasparente, risponde alla condizione rurale e pittoresca. È come se il lato pubblico e quello privato di un individuo fossero riflessi uno nella severa espressione della facciata di ingresso, l’altro in quella più intimamente attraente del giardino”15. Risposta/reazione al luogo dunque: ma la facciata è anche una delle forme della “volontà di connessione” fra lo spazio pubblico e l’interno architettonico, non solo per l’evidente funzione pratica di chiusura/apertura del fabbricato, ma an-

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che come vera e propria rappresentazione “architettonica” di un legame, di un punto di incontro, di comunicazione, di passaggio fra il momento privato e quello pubblico. Possiamo dunque leggere in tal senso i dispositivi di mediazione spaziale che costruiscono l’ingresso nell’architettura religiosa, come il protiro (ovvero elemento che sta “davanti alla porta”), che con la sua copertura sostenuta da colonne protegge il portale dell’edificio e si richiama ai riti dell’accoglienza dell’antichità16, il nartece, il westwerk carolingio; quest’ultimo si configura come un vero e proprio ispessimento della facciata in corrispondenza dell’ingresso, quasi una struttura separata, dedicata ad un santo (sovente San Michele, protettore della Porta del Paradiso) dove poter stare, protetti: la facciata come “luogo architettonico abitato”, dunque.

la configurazione della facciata d’altro canto è determinata anche dalla “risposta” dell’architettura a un dato contesto, in un legame imprescindibile con il luogo, che essa stessa contribuisce a costruire


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La relazione con il contesto si definisce anche dall’interno verso l’esterno, per mezzo dello sguardo attraverso il dispositivo della finestra (“la finestra esiste per il guardar-fuori, non per il guardar-dentro”, nell’univocità della direzione che presuppone essa diviene una “strada per lo sguardo”17 ) o della loggia. Anche in questo caso la facciata può ispessirsi e assumere una dimensione architettonica che trasforma il fronte in vero e proprio luogo abitato, addirittura assumendo una sua indipendenza fisica, dimensionale, figurativa. Per fare solo due esempi legati al Movimento Moderno italiano, ciò è verificabile nella milanese Casa Rustici di Giuseppe Terragni, in cui la reinterpretazione dell’isolato urbano diviene occasione per disegnare un unitario elemento che mette in relazione pubblico e privato, casa e città, attraverso le terrazze lineari, su cui si affacciano i soggiorni, che costruiscono l’unità dei due blocchi residenziali perpendicolari alla strada; oppure nella Casa al Parco di Ignazio Gardella, in cui gli spazi della zona giorno sono collocati in una delle tre fasce che compongono l’edificio, che appare sganciata dal corpo centrale distributivo e aperta su parco Sempione: disegnata come un grande portico a scala monumentale, consente, con il suo spessore e con la sua trasparenza e leggerezza, di risiedere e affacciarsi. Vera e propria finestra urbana, essa mette in relazione l’abitazione con la città, il verde, la natura. In questa lettura, il luogo delle relazioni fra casa e città non si risolve attraverso una diafana tela, un sottile diaframma bidimensionale; ritrovando una metafora di Slutzky (che a sua volta sembra richiamarsi ad una immagine lecorbuseriana18),

biente architettonico, partecipando in un fluido interscambio”19.

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Per far questo, la composizione della facciata come sovrapposizione di piani è una delle procedure per superare, pur solo per piccoli scarti, la bidimensionalità del piano verticale, raccontando nel contempo la complessità spaziale dell’interno architettonico: le facciate delle chiese palladiane, secondo la nota interpretazione di Rudolf Wittkower20, sono sovrapposizione in pochi centimetri e per via di porre di più piani, ciascuno dei quali rappresenta, una componente spaziale dell’interno architettonico; ma, come nel caso del Redentore, la configurazione del prospetto costituito dalla composizione di cinque piani/facciate sembra trovare ragione nella forza necessaria per instaurare le relazioni con il luogo (il canale della Giudecca) o, per San Giorgio, nella triangolazione con le altre architetture che costituiscono la “piazza d’acqua” del bacino marciano. Ma la facciata può acquisire ancora più profondità, diventando luogo abitato. Restando al riferimento palladiano, Palazzo Chiericati può essere letto come “edificio-facciata” e compo-

la facciata assume profondità, deve divenire porosa come una spugna per poter “assorbire tutte le energie presenti nell’am05

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risposta/reazione al luogo dunque: ma la facciata è anche una delle forme della “volontà di connessione” fra lo spazio pubblico e l’interno architettonico, non solo per l’evidente funzione pratica di chiusura/apertura del fabbricato, ma anche come vera e propria rappresentazione “architettonica” di un legame, di un punto di incontro, di comunicazione, di passaggio fra il momento privato e quello pubblico

sizione in pianta di strati architettonici paralleli all’affaccio; questo è risolto con un ampio portico al piano terra e con una loggia al piano nobile, che costruiscono “un’architettura tridimensionale, ove lo spazio si fa di essa parte integrante, incorporandovisi e diventandone protagonista determinante”21. Anche questa è un’architettura che trova una delle sue ragioni nel confronto con lo spazio aperto di una piazza22; un’architettura in cui il portico, luogo urbano fra pubblico e privato, e la loggia, luogo abitato dove lo sguardo abbraccia la città, costruiscono il dispositivo architettonico e urbano della facciata.

* Patrizio M. Martinelli, architetto, dottore di ricerca in composizione architettonica e assegnista di ricerca presso lo Iuav, dal 1999 svolge attività didattica e di ricerca presso l’Università Iuav di Venezia e dal 2007 anche presso la Münster School of Architecture. Ha curato i volumi Fare centro. Progetti per il centro città di Mestre, Architetture di Mart Stam 1924-1933 (con A. Dal Fabbro), Progetto Porto Marghera. Da prima zona industriale a quartiere urbano della città metropolitana. Svolge inoltre attività professionale con realizzazioni nell’ambito degli spazi pubblici, dell’architettura della residenza, degli allestimenti di mostre e partecipando a concorsi nazionali e internazionali.

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NOTE 1 - Valéry, P., Eupalino o dell’architettura, Biblioteca dell’immagine, Pordenone 1988 (prima ed. Parigi 1923), p. 36. 2 - Voce “Facciata” in Pianigiani, O., Vocabolario etimologico della lingua italiana, Dioscuri, Genova 1988 (prima ed. 1907). 3 - Vasari, G., Le vite de’ più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue insino a’ tempi nostri, nell’edizione per tipi di Lorenzo Torrentino Firenze 1550, a cura di L. Bellosi e A. Rossi, Einaudi, Torino 1991. 4 - Voce “Facciata” in Tommaseo, N.; Bellini, B., Dizionario della lingua italiana, Rizzoli, Milano 1977 (prima ed. 1861). 5 - Eisenman, P., Giuseppe Terragni. Trasformazioni, scomposizioni, critiche, Quodlibet, Macerata 2004 (prima ed. New York 2003), p. 33. 6 - Slutzky, R., Aqueous Humor, in “Oppositions”, n. 19-20, 1980, p. 34 (traduzione Patrizio M. Martinelli). 7 - “Il rappresentare è l’atto di rendere visibile in un luogo tettonico, in modo sintetico ed unitariamente percepibile la realtà dell’organismo: dunque in architettura la facciata, a differenza di quanto potrebbe avvenire nelle arti figurative, è strettamente legata alla concretezza dell’organismo che deve rappresentare. [...] per espressione si intende lo sforzo compiuto perché i caratteri criticamente e soggettivamente letti nell’organismo siano resi manifesti. Mentre la rappresentazione può ancora appartenere, dunque, alla coscienza spontanea del costruttore, che riporta indirettamente, ma in forma esplicita, i dati della realtà costruttiva, l’espressione è operazione squisitamente critica, legata all’intenzionalità dell’artefice”. Strappa, G., Unità dell’organismo architettonico, Dedalo, Bari 1985, p. 176. 8 - Le Corbusier, Verso una architettura, Longanesi, Milano 1984 (prima ed. Parigi 1923), p. 146. 9 - Si veda in particolare la voce “Carattere” in Quatremère de Quincy, A.C., Dizionario storico di architettura: le voci teoriche, a cura di V. Farinati e G. Teyssot, Marsilio, Venezia 1992 (prima ed. 1985). 10 - Milizia, F., Principj di architettura civile, tomo II, Remondini,


Bassano del Grappa 1785, p. 183. 11 - Voce “Unità” in Quatremère de Quincy, A.C., Dizionario storico di architettura: le voci teoriche, op.cit., p. 284. 12 - Bettini, S., Venezia e Wright, in “Metron”, n. 49-50, 1954, pp. 22-23; Id., Venezia: nascita di una città, Electa, Milano 1978; Pierini, O.S., Sulla facciata. Tra architettura e città, op.cit. 13 - Ponti, G., La casa all’italiana, in “Domus”, n. 1, 1928. 14 - Rowe, C.; Koetter, F., Collage city, Il Saggiatore, Milano 1981 (prima ed. Cambridge-MA 1978), pp. 130-132. 15 - Slutzky, R., Aqueous Humor, op.cit., p. 45 (traduzione Patrizio M. Martinelli). 16 - Su questi temi si veda Baldwin Smith, E., Architectural symbolism of imperial Rome and the middle ages, Hacker Art Books, New York 1978 (prima ed. New Jersey 1956) e il terzo capitolo della tesi. 17 - Simmel, G., Ponte e porta, op.cit., p. 6 18 - Cfr. il paragrafo “Le Corbusier e la strada: dal Dom-ino al redent” nel secondo capitolo. 19 - Slutzky, R., Aqueous Humor, op.cit., p. 48 (traduzione Patrizio M. Martinelli). 20 - Cfr. il capitolo “Genesi di un’idea: le facciate delle chiese palladiane” in Wittkower, R., Principî architettonici nell’età dell’Umanesimo, Einaudi, Torino 2004 (prima ed. Londra 1949), p. 88 e seguenti. 21 - Scheda “Palazzo Chiericati” in AA.VV., Mostra del Palladio. Vicenza/Basilica Palladiana, Electa, Milano 1973, p. 100. 22 - Palazzo Chiericati “doveva essere costruito sul lato di un’ampia piazza, non in una stretta strada come gli altri [palazzi]. Perciò Palladio concepì la facciata nei termini della visione tipica di un foro romano, e disegnò lunghi colonnati su due piani”. Wittkower, R., Principî architettonici nell’età dell’Umanesimo, op.cit., p. 82. Come nota lo studioso, l’idea del colonnato sovrapposto è rappresentata con evidenza nell’illustrazione della facciata presente nei Quattro libri, laddove anche i muri delle campate centrali del piano nobile, che interrompono la loggia, sono campiti come quelli più arretrati, restituendo la continuità e la trasparenza del chiaroscuro a entrambi i piani.

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01 - Espressioni delle passioni, tratte dall’Encyclopédie di Diderot e D’Alembert, 1751. 02 - Le Corbusier, Villa Stein, Garches 1926-28, le due facciate su giardino e strada e scomposizione per piani di Villa Stein, realizzata da B. Hoesli. 03 - Abbazia di Corvey, in Westfalia, 822. Lo spessore del westwerk all’interno si apre verso la navata e si configura come luogo architettonico dove risiedere e assistere alla celebrazione 04 - G. Terragni, Casa Rustici, Milano 1933. Diagramma assonometrico che evidenzia il dispositivo della facciata che lega i due corpi edilizi e diventa luogo di affaccio sulla città (ridisegno di P.M. Martinelli) 05 - I. Gardella, Casa Tognella (detta “Casa al Parco”), Milano 1947-53. 06 - A. Palladio, Palazzo Chiericati, Vicenza 1550-55. Veduta fotografica risalente al 1869-70 con il palazzo in relazione al grande spazio pubblico della Piazza dell’Isola.

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Details.Architecture seen in section

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n occasione della Biennale d’architettura 2014, nella sala delle Armi all’Arsenale di Venezia, dall’ 8 al 10 luglio scorso, sono stati esposti più di 250 dettagli costruttivi, suddivisi in due sessioni. Una sessione della mostra è stata dedicata ai dettagli originali (120 circa) forniti dagli studi di architettura e ingegneria1 che hanno accolto l’invito, formulato dall’Unità di ricerca Arte del Costruire, a partecipare al progetto “DETAILS, l’architettura vista in sezione”, un progetto di ricerca concepito da Marco Pogacnik che vede impegnati docenti di diversi campi disciplinari e la collaborazione del Politecnico di Milano. (www.iuav.it/Ricerca1/ATTIVITA-/aree-temat/costruttiv/ arte-del-c/ricerche/index.htm). Una seconda sessione dell’esposizione ha visto protagonisti gli studenti che hanno partecipato a Biennale Session, un seminario organizzato dal corso di laurea Architettura e Innovazione2 . Circa 150 dettagli costruttivi di architetture realizzate a partire dal secondo dopoguerra ad oggi sono state ridisegnate criticamente dagli studenti nell’arco di un semestre. Il prodotto che è uscito da quest’ultima operazione si è concretizzato, da una parte, in una decina di tavole tematiche in cui il dettaglio viene delineato e declinato in relazione ai diversi ruoli e/o variabili espressive (the cornice, the cladding, the glass envelope, timber , ecc.) e dall’altra in una serie di tavole storiche che illustrano l’insegnamento dei maestri italiani come I. Gardella, L. Caccia Dominioni, V. Magistretti, P.L. Nervi, F. Albini, L. Moretti e A. Mangiarotti. La mostra si è conclusa con un dibattito a cui sono intervenuti, oltre al prof. Marco Pogacnik (DACC), al prof.Umber-

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di Claudia Tessarolo* to Trame (DPPAC) dell’Università Iuav di Venezia e la prof. Orsina Simona Pierini, (DAStU) del Politecnico di Milano, alcuni ospiti, tra cui il Prof. Arch. Pierre Alain Croset del Politecnico di Torino, l’Arch. Francesco Pagliari di “The Plan” (Mediapartner) e l’Ing. Olindo de Luca, Direttore dell’Ufficio Operativo Permasteelisa. Il tema della Biennale di Rem Koolhaas dal titolo “Fundamentals” restituisce, in parte, all’architettura il suo fine principale, quello di costruire luoghi attraverso gli “elements” che la compongono, ed è proprio nell’atto della composizione, nella sintassi tra gli elementi, che la narrazione architettonica assume significato. Il modo di mettere assieme, aggregare parti ed elementi diversi consente, infatti, di costruire racconti di volta in volta differenti. Ma l’operazione effettuata da Koolhaas non racconta l’architettura, è volutamente una mera classificazione eterogenea di elementi, un grande catalogo di “frammenti” architettonici decontestualizzati, molte volte tra loro dissonanti. Il loro farsi architettura è affidato all’immaginazione del visitatore e alle grandi pagine esposte che riproducono le tavole sinottiche presenti in ognuno dei 15 volumi dedicati ai vari “elements”. L’attenzione al particolare, inteso come una parte del tutto, è invece uno degli obiettivi della ricerca in corso3. Gli elementi non vengono decontestualizzati dall’opera ma si interfacciano tra loro componendo porzioni di architettura in cui è evidente il processo costruttivo e l’appropriatezza delle scelte tecnologiche rispetto alla concezione progettuale. Il disegno e ridisegno del dettaglio, pertanto, non specifica soluzioni conformi proprie di un manuale costruttivo, ma diventa


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è nell’atto della composizione, nella sintassi tra gli elementi, che la narrazione architettonica assume significato

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un’indagine del particolare non è mai fine a se stessa ma sempre finalizzata a un programma mentale. (...) Il particolare è e deve essere un particolare: una parte cioè del tutto

piuttosto uno dei metodi di comprensione e di conoscenza della costruzione architettonica e della sua corrispettiva figurazione. “Un’indagine del particolare non è mai fine a se stessa ma sempre finalizzata a un programma mentale e di lavoro legato all’idea iniziale. [...] Il particolare è e deve essere un particolare: una parte cioè del tutto. Il particolare non è qualche cosa che si può aggiungere,ma è qualche cosa che bisogna pensare come facente parte del totale della costruzione”4. L’esercizio del dettaglio Gli studenti delle magistrali Iuav che hanno aderito al workshop Biennale Sessions5, (www.iuav.it/Ricerca1/ATTIVITA-/aree-temat/costruttiv/arte-del-c/eventi/BIENNALE-S/index.htm) sono stati incaricati di ridisegnare alcuni dettagli, principalmente sezioni verticali, di architetture realizzate a partire dal secondo dopoguerra ad oggi. Il primo obiettivo, vista l’eterogeneità delle fonti (riproduzione fotografica di disegni originali, ridisegni su riviste e/o libri, scale di rappresentazione diverse, ecc.) è stato quello di uni-

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formare il linguaggio attraverso l’adozione di convenzioni grafiche comuni sull’indicazione dei materiali e sulla scala di rappresentazione (1:10), per poter permettere e facilitare la lettura e il confronto tra i diversi particolari presi in esame. Inizialmente il ridisegno dell’architettura in sezione, da parte degli studenti, è apparso come un esercizio di semplice trascrittura di informazioni date, un esercizio passivo, privo di implicazioni immaginative e/o intellettive. In realtà lo studente nel ridisegnare il dettaglio, non conoscendo per lo più l’architettura assegnata e non potendo pertanto rappresentare correttamente ciò che non conosceva, è stato obbligato ad operare un processo cognitivo che gli ha permesso di ottenere le conoscenze necessarie per la corretta rappresentazione. Infatti il ridisegno, come il disegno, è uno dei metodi per acquisire la capacità di raffigurare quanto si è osservato e compreso. Inoltre, assumendo il dettaglio un ruolo fondamentale nel disegno architettonico, in quanto costituisce il momento delle scelte tecnologiche definitive per la costruibilità fisica e immaginativa del progetto, ha impegnato lo studente a continui feedback tra le varie scale di rappresentazione e l’opera costruita. L’esercizio ha posto in evidenza problematiche ricorrenti: l’incomprensione di alcuni dettagli di facciata, in particolare nell’interfaccia tra chiusura esterna e solaio, la non corrispondenza tra il dettaglio disegnato e la sua messa in opera, l’incompletezza del disegno,riportato da alcune fonti in modo diagrammatico, privo delle informazioni necessarie per una rappresentazione corretta del dettaglio. Questioni, queste, che hanno trovato soluzione, reali e/o ipotetiche, nella discussione collettiva. Nel ragionamento collaborativo e collettivo lo studente è stato facilitato


nell’acquisire un nuovo sapere, nuove conoscenze migliorando il proprio spirito critico. L’esercizio gli ha consentito di capire come, nel migliore dei casi, “ogni opera d’arte dovrebbe essere l’espressione formale del materiale con cui è costruita”6 e che l’Architettura è il risultato di una iterazione tra idee e scelte strutturali, tecnologiche e materiali, le quali possiedono, come affermava Loos, un proprio Formensprache (linguaggio formale), e quindi non solo caratteristiche fisiche, prestazionali e funzionali ma anche emozionali. Lo studente è stato indotto a osservare attentamente i materiali/prodotti, la loro combinazione e il loro sistema di assemblaggio, si è confrontato con soluzioni differenti di chiusure esterne monomateriali (vetro) in relazione ai vincoli formali e, soprattutto, a quelli legislativi, ha constatato a quali variabili è sottoposto il “muro” in relazione al suo comportamento ambientale (modello conservativo, passivo, attivo, ambiental-interattivo, ecc.) e come questo ha mutato nel tempo7 la sua fisicità, spessore, sistema costruttivo e materiali. La lettura del dettaglio La grande quantità di dettagli a disposizione ha consentito di impostare una prima organizzazione dei dati e compiere alcune letture lineari e trasversali8 che hanno permesso di definire alcune tematiche che, solo in parte, sono state esposte in Biennale. I criteri di osservazione del dettaglio possono essere molteplici. Può avvenire, per esempio, attraverso lo studio delle interfacce tra i “fundamentals”, cioè osservando il punto, l’area o la superficie sulla quale due entità qualitativamente differenti si incontrano come, ad esempio, l’elemento the cornice (ppv-copertura) o the string course

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(ppv-solaio intermedio). La cornice, il punto di incontro tra l’elemento di chiusura verticale e quello orizzontale non è sempre un’ovvia giunzione o la soluzione di un problema funzionale (raccolta e smaltimento dell’acqua piovana) ma diventa l’occasione per l’invenzione architettonica che può rafforzare o meno il prospetto dell’opera. Visibile o non visibile dall’osservatore, come nel caso Macconi building (Lugano) di L. Vacchini in cui non è percepibile data l’altezza dell’edificio, è un punto in cui l’architetto fa la sua scelta formale. Sembra quasi il raddoppio del primo piano orizzontale in Farnsworth House (1951, Mies van der Rohe) tranne per il fatto che quella stretta fascia conclusiva lievemente sporgente contrassegna, dimensionandolo, l’elemento strutturale orizzontale. In Rosen House (1961-63 Craig Ellwood) il “copy and paste” dei piani è evidente, l’architetto sceglie infatti di arretrare di 20 cm circa gli ultimi strati della copertura mettendo in evidenza la struttura metallica orizzontale. Operano una scelta figurativa completamente diversa gli architetti Herzog & De Meuron in Ricola storage (1986-87): la cornice è un elemento ripetibile quasi all’infinito, una modanatura ritmata dai chiaro scuri determinati dagli elementi inclinati che sorreggono il sottile piano di cemento che conclude l’edificio. Questi dettagli possono essere definiti come unfold, in quanto sono evidenti le relazioni che si stabiliscono tra le parti reciprocamente a contatto e al contempo consentono l’attuazione stessa del processo costruttivo (Img. 04). Il dettaglio può, invece, essere definito parting quando sono evidenziate, per finalità simboliche e/o formali, le giunzioni tra superfici consequenziali, sottolineando, molto spesso, la separazione tra piani diversi (U. Burkard & A. Meyer, Flat

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Martinbergstrasse, Baden 1999 - Baumschlager & Eberle, Rückversicherung, Münich, 2001) o dividendo e ritmando la pelle dell’edificio o la chiusura verticale (UN Studio, Electricity Substation 1993, Eduardo Souto de Moura, Burgo Tower Porto, 2007). Nella tavola intitolata the cladding, i dettagli costruttivi sono occultati (hide), il rivestimento maschera infatti le reali articolazioni delle strutture portanti e portate, nasconde indifferentemente elementi continui in cemento armato o elementi puntuali in acciaio, si sovrappone ad essi come un “carter”. Queste sono solamente alcune considerazioni che si posso effettuare sui details rispetto al tema “fundamentals”. La sezione dettagliata potrebbe essere studiata rispetto al materiale prevalente con cui è costruita l’opera (acciaio, legno, cemento armato, ecc.) o ancora, la si può esaminare in funzione del tipo di involucro, opaco o trasparente, o di come questo si rapporta, modificandosi, con la normativa esigenziale/prestazionale vigente nel contesto ambientale in cui si colloca. La ricerca è ancora in corso per cui le riflessioni che si possono fare attorno al dettaglio e all’architettura vista in sezione sono ancora aperte, lo dimostrano anche le recenti pubblicazioni monografiche (Architectural Design, Future details of architecture, July/August 2014, n. 230) e le riviste di settore che da sempre si occupano del tema (Detail, The Plan, Arketipo ma anche Casabella, Costruire in Laterizio, ecc.). Il dettaglio non è quindi morto, come annunciato da H. P. Berlage nel 1906 o da G. Lynn nel 2005, ma acquisisce valori

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God is in the details

e articolazioni diverse perché come racconta una filastrocca “Per un chiodo che mancava perse un ferro il buon destier. E pel ferro che mancava cadde insieme al cavalier! Per mancanza di cavallo l’infelice messagger dal nemico fu raggiunto e morì per il dover. Ma il messaggio fu carpito. La battaglia per tal modo fu perduta e tutto questo per un chiodo”. Si può affermare dunque che “Dieu est dans les détails” (G. Flaubert, 1821/1880), o “God is in the details” (Mies van der Rohe, 1886/1969), quello che è cambiato, rispetto a un passato recente, è l’approccio dell’architetto al dettaglio, ma questa è un’altra storia.

* Claudia Tessarolo, architetto, Dottore di Ricerca in Tecnologia dell’architettura presso Facoltà di Architettura di Ferrara. Dal 1998 svolge attività didattica e di ricerca presso l’Università Iuav di


Venezia. Ha svolto attività di ricerca su temi inerenti al Design for All, al progetto di recupero e di riqualificazione e alla produzione edilizia nel progetto d’architettura, partecipa a convegni nazionali e internazionali ed è autrice di saggi attinenti alla cultura tecnologica, all’innovazione tecnica e alla sostenibilità. Si occupa attualmente di innovazione tecnologica, prefabbricazione e sostenibilità ambientale. E-mail: cltessar@iuav.it NOTE 1 - Tra gli studi che hanno accettato di partecipare ci sono: Burkhalter-Sumi, Barkow Leibinger, Kahlfeldt Architekten, Werner Sobek, Artec Wien, Hermann Czech, Boris Podrecca, Dominique Perrault, Miller & Maranta, Conzett Bronzini Gartmann, Pascal Flammer, Peter Maerkli, Carlos Ferrater OAB , Studio Valle, C + S Architects, Tezuka Architects, Kengo Kuma, Emilio Tuñón, Cino Zucchi Architetti, Bevk Perovic Arhitekti, Shim + Sutcliffe, Associati Parco, Périphériques Architetti, Laps Architettura, Gigon / Guyer Architekten, Walt + Galmarini, Hild und K Architekten, Labics, Elasticospa, Staufer + Hasler, Navarro Baldeweg Asociados. 2 - Dipartimento di Progettazione e Pianificazione in ambienti complessi, Università Iuav di Venezia. 3 - Details: l’architettura vista in sezione. 4 - Ignazio Gardella, L’architettura della coralità, in Emilio Faroldi, Maria Pilar Vettori, a cura di, Dialoghi di architettura, Alinea, Firenze, 1995, pp. 61-77, p. 62. 5 - Workshop organizzato da Umberto Trame (DPPAC) e Marco Pogacnik (DACC), un progetto di Marco Pogacnik, Unità di Ricerca Arte del costruire. 6 - Gottfried Semper, The four elements of architecture and other writings, Cambridge, Cambridge University Press, 1989, pp. 269. 7 - attraverso l’analisi e il ridisegno dei dettagli dei maestri. 8 - Il lavoro di lettura analisi e confronto dei dati è ancora in corso. 9 - Edward Ford, The Architectural detail, New York, Princeton Architectural Press,2011, p 226.

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IMMAGINI 01, 02, 03 - Immagini della mostra, Biennale di Venezia, foto di Marco Pogacnik. 04 - The cornice, ridisegni. 05 - The string course, ridisegni. 06 - The cladding, ridisegni.

“DETAILS. ARCHITECTURE SEEN IN SECTION” CONTINUA... www.detailsinsection.org Il 24 novembre a Cà Tron Santa Croce 1957,30135 Venezia, Università Iuav di Venezia in collaborazione con il Politecnico di Milano con una mostra e seminario www.detailsinsection.org/?p=321 Dal 9 al 27 febbraio 2015 presso lo Spazio Mostre Guido Nardi, Politecnico di Milano Facoltà di Architettura e Società , Via Ampère 2, Milano

PER APPROFONDIRE - Edward Ford, The architectural detail, New York, Princeton Architectural Press, 2011 - Ignazio Gardella, L’architettura della coralità, in Emilio Faroldi,Maria Pilar Vettori, a cura di, Dialoghi di architettura, Alinea, Firenze, 1995 - Enzo Legnante, Antonio Laurìa, L’architettura nei dettagli , Firenze, Alinea, 1988 - Gottfried Semper, The four elements of architecture and other writings, Cambridge, Cambridge University Press, 1989 - Architectural Design, Future details of architecture, July/ August 2014, n. 230

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“Elements of Venice”, Anatomia di Venezia Il libro che racconta la città secondo la logica di Elements of Architecture commentato dall’architetto Elena Longhin

di Elena Longhin* Per raccontare come la pubblicazione è stata concepita è fondamentale partire dall’indagine operata dalla ricerca di Elements of Architecture, mostra allestita all’interno del padiglione centrale dei Giardini della 14^ Mostra Internazionale di Architettura, per la quale Rem Koolhaas propone Fundamentals, una rassegna sostanzialmente diversa da tutte le precedenti, che sradica l’idea consolidata di una esposizione che indaghi l’architettura come un unicum. Elements Of Venice nasce come progetto di ricerca parallelo a Elements Of Architecture, la quale assieme a Monditalia fa parte

del più ampio tema di Absorbing Modernity 1914-2014, esposti rispettivamente all’Arsenale e ai padiglioni nazionali della Biennale. La mostra allestita al padiglione centrale espone un palinsesto architettonico, una dissezione delle singole parti – i fondamentali – che compongono il progetto architettonico, tracciando un alfabeto visivo degli elementi costruttivi, una sorta di manuale che ripercorre tecniche, periodi, dinamiche e luoghi differenti1. Il curatore, concretizzando la volontà precedentemente espressa di rivolgere il suo interesse all’essenza dell’architettura come metodo di pensiero2 parte da un’analisi al mi-

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Elements Of Venice, Giulia Foscari, Rem Koolhaas (prefazione), Lars Müller Publishers, Zurich, Giugno 2014, 692pp. - Ricerca e coordinazione: G.Foscari / E.Longhin - © 2014 Lars Müller Publishers/ G. Foscari W. R.

croscopio degli elementi fondamentali che costituiscono l’edificio e utilizzati by any architect, anywhere, anytime (Koolhaas, 2014). Sceglie di svelare molteplici storie, le origini, le contaminazioni, le similarità e le differenze degli elementi architettonici e come essi siano evoluti nelle iterazioni contemporanee, attraverso il progresso tecnologico, sottostando a requisiti normativi e ai nuovi sistemi digitali e presentando delle micro-narrative rivelate alla scala del dettaglio e del frammento3. Ogni singola stanza del padiglione centrale si configura come un capitolo di una enciclopedia dell’architettura ricreato tridimensionalmente, che conduce il visitatore attraverso una fiera della costruzione architettonica, una sorta di museo dell’evoluzione degli elementi possibili, all’interno del quale è indubbiamente di non immediata semplicità focalizzare una regola o un metodo che permetta di ricongiungere gli elementi alla scala del singolo edificio. Il vasto repertorio di oggetti ricorda spesso una camera delle meraviglie, e spinge ad una valutazione del ruolo stesso degli elementi, come questo sia mutato radicalmente nel tempo (la porta della città contemporanea è uno scanner aeroportuale), venga modulato dalla spinta del progresso tecnologico (l’idea che il gabinetto diventi un dispositivo di misurazione della salute), o come venga plasmato dalla necessità di un’esistenza sostenibile (l’impianto di riscaldamento monitorato da un’analisi computerizzata dei movimenti umani4). Contemporaneamente sposta la riflessione sulla capacità dell’architetto di dominare un progetto architettonico che spesso 02

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pare essere concepito come puro assemblaggio di parti e sistemi, frequentemente dominato dalle situazioni economiche e dalle logiche di mercato. La ricerca di Elements of Venice nasce innanzitutto come applicazione della logica degli elementi alla indagine della città. Venezia come campo per questa indagine al microscopio, nonchè struttura fondante stessa della Biennale, è sembrata

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subito un’entusiasmante opportunità esplorativa. La forma di guida è tuttavia maturata e cresciuta solo davanti agli esiti che essa ci stava conducendo e grazie alla volontà di Rem Koolhaas di approfondire l’attuazione di questo metodo di osservazione. Il lavoro è stato indubbiamente un’entusiasmante occasione di studio, approfondimento e dibattito durato circa un


anno che correva di pari passo, ma non senza intersezioni, con l’analisi di Elements of Architecture. Personalmente, come architetto ed ex alunna dello Iuav di Venezia, l’invito a partecipare ad un progetto di questo tipo ha rappresentato una preziosa esperienza di lavoro e ricerca nonché un complesso esercizio di astrazione della città, compiuto attraverso una lente di ingrandimento che cambia puntualmente la scala della sua indagine. Venezia viene sottoposta ad uno smembramento che ripercorre gli ultimi dieci secoli di storia passata, per poi essere ricomposta in dodici capitoli distinti, ovvero gli elementi – nell’ordine facciata, scala, corridoio, pavimento, rampa, tetto, soffitto, porta, camino, finestra, balcone, muro – necessariamente plasmati sulle caratteristiche peculiari della città. Giulia Foscari chiarisce l’intento del lavoro precisando come l’indagine prenda le sembianze di un esercizio anatomico operato sul tessuto costruito della città (Foscari, 2014, p. 10), il cui obiettivo è rivelare che “la città ha modulato la sua storia proprio come i suoi edifici si sono adattati alla subsidenza e che solo attraverso indizi o minime alterazioni degli elementi dell’architettura è percepibile una metamorfosi già – in realtà – avvenuta e tutt’ora in atto” 5. Elements of Venice scandaglia la città servendosi di un’eterogenea molteplicità di dispositivi, documenti e opere, sia antichi che contemporanei, trattati di architettura, mappe, documenti della Serenissima, progetti irrealizzati, e restituisce gli esiti dell’indagine attraverso una combinazione di collage, disegni, quadri, fotografie, citazioni, e scene cinematografiche, che scuotono l’immagine di una città cartolina

cristallizzata nei secoli per rivelarne lo scheletro e l’incredibile evoluzione a cui è stata sottoposta attraverso i secoli, spesso sovvertendone radicate superstizioni (mostrando per esempio che la pedonalità in Venezia è un’invenzione del diciannovesimo secolo, o che non esistevano scale interne nelle antiche case veneziane), indagando la morfologia urbana della città (attraverso la mappa del De Barbari, il catasto Napoleonico, mappando l’orientamento e la rotazione delle facciate delle centodieci chiese che la pervadono…), riscoprendo alcuni dei progetti perduti (la piscina galleggiante del Dr. Rima nel bacino di San Marco), abbandonati (la Colonia dei Principi di D. Calabi) o mai realizzati (l’ospedale di

un complesso esercizio di astrazione della città compiuto attraverso una lente di ingrandimento che cambia puntualmente la scala della sua indagine

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Le Corbusier, il palazzo di L. Kahn, Casa Masieri di F. L. Wright, l’isola di Alvise Cornaro) e risollevando alcuni dei dibattiti contemporanei più discussi (la presenza delle grandi navi, la pressione turistica, la costruzione del Mose).

per mostrarla al di là della propria decadenza e dalle predeterminate persuasioni di città immobile, e mostrarne l’identità come “proiezione su di un oggetto in costante mutamento di definizione e autenticità” 10.

Tutti gli elementi trovano ricomposizione nella collocazione cartografica della mappa6 che seziona la città alla quota del piano terra, e permette di rimettere in scala gli edifici illustrati. Il risultato di questo poché, seppur rimandando direttamente a quello del Nolli7, non mostra semplicemente la realtà urbana di Venezia, ma uno scenario possibile. La carta infatti permette la coesistenza di una Venezia passata, presente ed ideale, scegliendo di mostrare sia le opere perdute (il Teatro di Aldo Rossi) che temporanee (il ponte galleggiante allestito in occasione della festa del Redentore), e tutti gli edifici mai realizzati in loco di quelli presenti o sovrapponendo il progetto al tessuto urbano contemporaneo (come nel caso del progetto di P. Eisenman per Cannaregio Ovest8 o dell’ospedale di Le Corbusier9). Il proposito della pubblicazione è la volontà di indagare Venezia svincolandosi dai tradizionali criteri di investigazione

* Elena Longhin è un architetto veneziano. Ha collaborato per un anno con Giulia Foscari per la ricerca e la realizzazione di Elements of Venice tra Venezia e Buenos Aires. Attualmente vive a Londra dove frequenta la Graduate School presso l’Architectural Association. Collabora con vari studi, tra cui in passato Secchi-Viganò (Milano) e OMA (Buenos Aires).

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NOTE 1 - Il progetto è il risultato della collaborazione biennale di Koolhaas con il team di AMO, l’architetto e teorico Stephen Trüby, Harvard Graduate School of Design, e il Rettore Mohsen Mostafavi. 2 - Intervista di H. U. Obrist a R.Koolhaas, Rem Koolhaas, 11. 3 - “[...] Elements of Architecture looks under a microscope at the fundamentals of our buildings, used by any architect, anywhere, anytime: the floor, the wall, the ceiling, the roof, the door, the window, the façade, the balcony, the corridor, the fireplace, the toilet, the stair, the escalator, the elevator, the ramp. [...] It brings together ancient, past, current, and future versions of the elements in rooms that are each dedicated to a single element. To create diverse experiences, we have recreated a number of very different environments – archive, museum, factory, laboratory, mock-up, simulation... (R. Koolhaas, Fundamentals, 2014) “Koolhaas, Fundamentals, 193. 4 - Local Warming,Carlo Ratti, Senseable City Lab MIT. 5 - Foscari, Elements of Venice, 11. 6 - La mappa è presente nel libro suddivisa in quadranti e disponibile nella sua interezza nella stanza introduttiva al Padiglione Centrale. 7 - Roma Interrotta, 1736. 8 - 10 immagini per Venezia : mostra dei progetti per Cannaregio Ovest : Venezia, Ala Napoleonica, 1 aprile-30 aprile 1980 / a cura di Francesco Dal Co. - Roma : Officina, 1980. 9 - Progetto per il nuovo ospedale di Venezia, Le Corbusier, 1965, AULSS 12. 10 - Rem Koolhaas in discussione sul tema della preservation

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and authenticity con Reiner e Graaf, Francesco Bandarin (UNESCO) e Tom Buchner, Biennale, 06.06.2014. IMMAGINI Tutte le immagini ad eccezione della n. 09 sono tratte dal libro di Giulia Foscari, Elements Of Venice (Lars Müller Publishers, Zurich, Giugno 2014). 01 - Gli elementi della Basilica di San Marco. - (Introduction, pg 31). Foscari/Longhin, © Foscari. 02 -Profezia dei pilotis (collage). - (Façade, pg 38) Foscari/Longhin, © Foscari. 03 - Disegno assonometrico della Scala d’Oro, Palazzo Ducale. (Stair, pg 183). Foscari/Longhin, © Foscari. 04 - L’orientamento delle facciate delle chiese. (Facade, pg 98) Longhin, © Longhin. 05 - Nuovi Balconi. Le grandi navi. (pg 598) Foscari/Longhin, © Foscari. 06 - Sezione longitudinale di Piazza San Marco. Riscotruzione ipotetica della Cappella Ducale prima dell’intervento da parte del Doge Ziani, quando la Piazza era ancora circondata dal Rio Batario (sopra). Sezione odierna (sotto). (Roof pg 366) Foscari/ Longhin © Foscari. 07 - L’intercapedine tra le due cupole della Basilica di San Marco (fotografia) (Roof pg 367) Foscari/Longhin © Foscari. 08 - Un dettaglio della mappa. Foscari/Longhin, © Foscari. 09 - L’installazione della mappa al Padiglione Centrale. Longhin, © Longhin.


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Centottantaduepercento In principio l’elemento

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di Matilde Tessari* mezza pagina, a doppia pagina, a pagina singola, a colori o in bianco e nero, su carta patinata, su carta velina, d’autore, divulgativa, tecnico - specialistica, artistica: è la pubblicità dell’elemento dell’architettura.

Appese al padiglione centrale dei giardini della Biennale, a rivestire un muro, quasi duecento stampe giganti di pubblicità di elementi dell’architettura, le fortunate ad essere selezionate tra un archivio di decine di migliaia, un lavoro di ricerca che nasce da una collaborazione con la Biennale e lo studio OMA svolto attraverso lo Iuav, coordinato dall’architetto Manfredo di Robilant, in stretto contatto con il curatore, Rem Koolhaas. A vederle così, sembra tutta una gran confusione, sono appese proprio come quelle degli attacchini per strada, si sormontano, sono un po’ sgualcite, formano un grande collage, creato ad arte per raccontare una storia. È una storia alternativa, dell’elemento dell’architettura, attraverso le pubblicità delle riviste di architettura. È una storia che parte dalle riviste di settore, dal primo numero di periodici come Architectural Review 1896, Casabella 1928, El Croquis 1982, Bauwelt 1910, L’architecture d’aujourd’hui 1930, per citarne alcune, fino ai numeri più recenti, per coprire un arco temporale di più di cent’anni. È una narrazione ampia e ricca, dilatata nel tempo, delle caratteristiche sociali, dell’evoluzione tecnologica, delle peculiarità nazionali e dello stile di rappresentazione degli elements (Img. 01). È la percezione di un mondo, di uno stato dell’arte restituito e svelato nelle istantanee commerciali.

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La pubblicità, ha come scopo presentare al fruitore l’oggetto, cercare di fare capire come funziona, a cosa serve, quali vantaggi comporta; nelle riviste di architettura, è un mezzo di comunicazione che sembra di per sè non essere mai mutato, diventando un vero e proprio linguaggio; cambia l’oggetto della comunicazione, il tempo della comunicazione, ma rimangono medesimi gli intenti. L’elemento è presentato in

è una narrazione ampia e ricca, dilatata nel tempo, delle caratteristiche sociali, dell’evoluzione tecnologica, delle peculiarità nazionali e dello stile di rappresentazione degli elements. È la percezione di un mondo, di uno stato dell’arte restituito e svelato nelle istantanee commerciali


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IMMAGINI 01 - Architectural Record, 1977, May. 02 - Architectural Review, 1963, August. 03 - Architettura Cronaca e Storia, 1957, April. 04 - Casabella, 1938, October. 05 - L’architecture d’aujourd’hui, 1931, August-September 06 - El Croquis, 1997.

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l’elemento è presentato in modo seducente, come materia autonoma

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modo seducente, come materia autonoma, in molti casi indipendente dall’oggetto architettonico, in altri strettamente legato ad esso, tanto che l’architettura, di solito protagonista come un tutto, diventa lo strumento per mettere in luce le sue parti elementari. Con evidenza emerge la storia dell’evoluzione tecnologica e del costume: dai primi ascensori Stiger degli anni ’30 in Casabella, al Linoleum gettonatissimo degli anni ’40, dall’isolante acustico e i controsoffitti Armstrong degli anni ’50 e ’60, all’approccio voyeur (con primi corpi nudi di donna) per vendere finestre Williams&Williams negli anni ’70, fino alle porte automatizzate Dor-o-matic degli anni ’80 (Img. 02). Eletti dai manifesti commerciali a memorabilia da collezione, ceiling, door, elevator, facade, floor, heart, roof, toilet, windows, i nove argomenti elementari, rispondono ad altrettanti sottotemi in cui possiamo apprezzare la bellezza, alzando lo guardo ad un controsoffitto (Img. 03), o stupirci delle elevate altezze dell’ascensore Edoux Samain (Img. 04), che tende addirittura alla luna, o ai cristalli Securit (Img. 05): con quattro incisive parole garantiscono trasparenza-resistenza-flessibilità-inalterabilità.

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Senza retorica, poiché esclusivamente funzionale, la pubblicità agisce postuma portando l’attenzione sul valore di simboli, miti e utopie di una società e di un tempo. Da ragione dell’oggetto architettonico in modo del tutto essenziale a capirne i principi, le pratiche costruttive e distributive, interpretando con un linguaggio scientifico l’attenzione per gli aspetti formali estetico-percettivi dell’architettura. Comunicare l’elemento a mezzo stampa significa renderlo manifesto. Trasporlo fuori dal contesto significa renderlo icona (Img. 06). *Matilde Tessari, qualche anno fa è entrata allo Iuav e non ha ancora trovato l’uscita. Ha il vizio di imbarcarsi in missioni impossibili. E-mail: matilde.tessari@gmail.com


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PORTFOLIO

Architettura come metafora Serpentine Gallery Pavilion 2014, Londra Smiljan Radic l’architetto poeta

testo e foto di Valentina Manfè* In un villaggio c’è il castello del Gigante. Il castello ha un immenso bellissimo giardino, con tanti fiori dai molti colori, alberi da frutta e gli uccelli che vi cantano felici. Ogni giorno, finita la scuola, i bambini del villaggio vanno a giocare fino a sera nel giardino del Gigante. Ma un giorno, il Gigante, che era stato lontano per sette anni, torna al castello caccia i bambini dal giardino e costruisce un muro di cinta tutt’intorno per impedire l’accesso al giardino. I bambini, di conseguenza, sono costretti a giocare per strada. Quando arriva primavera, tutto si riempie di fiori e si popola di uccelli... il giardino del Gigante no: lì regna ancora l’inverno. Il Gigante osserva preoccupato il suo giardino sempre gelido e bianco; spera che finisca l’inverno, ma ciò non accade. Un giorno il Gigante si sveglia al canto di un merlo... tutto felice va alla finestra e vede che i bambini sono riusciti ad entrare da una piccola breccia del muro. Son saliti sugli alberi che, come per incanto, sono rifioriti. Solo nell’angolo più lontano è ancora inverno: lì c’è un bambino talmente piccino che non riesce a salire sul suo albero, che rimane coperto di ghiaccio e neve. Il Gigante si intenerisce: esce, attraversa il giardino e solleva il bambino facendolo salire sull’albero che subito rifiorisce. Il bambino contento gli getta le braccia al collo e lo bacia. Il Gigante, non più egoista, invita allora tutti i bambini a venire a giocare ogni giorno in quello che adesso è il “loro giardino”. E così avviene: tutti i giorni i bambini vengono a giocare, ma il bambino più piccolo, il prediletto del Gigante, quello non si vede più... e il Gigante soffre di nostalgia. Gli anni passano e il Gigante diventa sempre più vecchio e debole. Un mattino alla fine di un inverno, il Gigante vede nel giardino un albero interamente

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coperto di fiori bianchi e ai piedi dell’albero il suo piccolo amico. Questi ha mani e piedi segnati da impronte di chiodi, che il piccolo chiama “le ferite dell’amore”. Il Gigante cade in ginocchio davanti al bambino. Quel pomeriggio, quando i bambini arrivano per giocare, trovano il Gigante morto ai piedi dell’albero tutto coperto di fiori bianchi.” da“The Selfish Giant” di Oscar Wilde (1854-1900)

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Questo è stato il punto di partenza per l’architetto cileno Smiljan Radic quando gli è stato chiesto di occuparsi del Padiglione temporaneo della Serpentine Gallery di Londra 2014 ai Kensington Gardens. Smiljan Radic carpisce la natura imponente e il senso di vanità del Gigante di Oscar Wilde e la traduce in architettura, mediante un sofisticato uso dei materiali. A terra, maestose rocce primordiali restituiscono una sensazione di possenza. Sensoriale leggerezza è ottenuta con l’uso di un sottile guscio in vetroresina nella parte superiore. L’utilizzo di materiali diversi coincide con la sua complessità di emozioni. Il richiamo diretto all’opera di Wilde è la volontà di creare un luogo che appaia come se fosse trascurato, ma che repentinamente riprende vita. In riferimento alla poetica architettonica di Radic ricorre spesso un verso del poeta francese René Char : “to suppress distance is to kill”, in quanto l’intento è che la sua architettura non sia immediatamente comprensibile, per lui non è necessario che si colga subito il significato; i suoi progetti infatti non si rivelano tutti in una volta. Le rocce sono uno degli elementi che caratterizzano il padiglione, nell’architettura di Smiljan Radic queste riconducono alle costruzioni primordiali, spontanee, che godono di una propria organizzazione, dice: “The problem is the sensation of how they appear, if we don’t feel the heaviness of the stone, we don’t have a good project”. L’architetto cileno inoltre sostiene “The shape is not important, I don’t care if it is a box or a free curve. I am not a creator of shapes.

My method is to respond to the possibility in each commission.” ovvero esprime il concetto secondo cui la forma non è importante, lui non crea forme, ma ciò che conta è il metodo e l’appropriatezza con la quale si risponde ad ogni committente in base alle possibilità e alle potenzialità. Quando parla di “respond to the possibility” fa riferimento sia ai sensi che all’aspetto fisico. Gli elementi fondanti sono il sensoriale, ciò che non è possibile vedere con gli occhi, tutto quello che è transitorio, l’accidentale e ciò che non necessariamente viene progettato. Smiljan Radic unisce in modo superbo questi suoi interessi ed è proprio da qui che scaturisce il progetto.

01 - Lisbeth Zwerger, Selfish Giant, 1984. llustrazione ad acquerello.

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il problema è la sensazione di come esse appaiono, se noi non percepiamo la pesantezza della roccia, non otteniamo un buon progetto Smiljan Radic

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La struttura che si genera al di sopra delle possenti rocce è un leggero involucro, un vero e proprio “guscio cilindrico”, realizzato in vetroresina bianca dello spessore di soli 18 millimetri, che permette alla luce di essere filtrata durante il giorno e durante la notte. L’architetto lavora spesso con modelli in cartapesta e per questo progetto ha voluto trovare un materiale esattamente corrispondente. Il desiderio di ottenere una struttura che appaia fragile e sottile è molto forte; ma allo steso tempo emerge la volontà di esaltare l’architettura in tutta la sua imponenza. Materialmente questo risultato è stato ottenuto creando una forma in negativo con blocchi di polistirolo, sulla quale è stata modellata la vetroresina in fasce. Solitamente questo materiale viene utilizzato per le sue caratteristiche prettamente costruttive; in questo caso, invece, l’architetto è fortemente interessato all’aspetto architettonico che può ottenere con esso, essendo estremamente declinabile in curvature diverse. Interessante e laboriosa è stata la fase di preparazione della vetroresina, consistente nel giusto dosaggio di fibre, resina e additivo per la colorazione, affinché il guscio lasciasse trasparire la luce voluta, quale questione centrale all’interno del progetto. La struttura del padiglione è costituita da elementi di supporto metallici poco visibili dall’esterno, che fungono da connessione tra le rocce di basamento e il guscio.

02, 03, 04 - Visibile il rapporto tra le pietre del basamento e il guscio leggero di rivestimento. 05 - Il dettaglio mette in evidenza uno degli elemeti metallici di supporto che viene totalmente inglobato tra la pietra ed il rivestimento per evidenziarne la secondarietà della funzione sul piano formale.

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06, 07 - Vista della corte esterna, dall’interno del padiglione, attorno la quale si sviluppa l’edificio. L’interno è messo in comunicazione con l’esterno, e viceversa, attraverso veri e propri squarci nel rivestimento in vetroresina; solo un parapetto metallico, costituito da sottili elementi metallici e cavi in acciaio, assume la funzione di filtro. Nelle ore del giorno in cui non si può godere della luce naturale, lo spazio interno viene illuminato artificalmente mediante dei tubi a led collocati nella parte superiore del guscio. La pavimentazione è costituita da assi di legno posati sulla struttura metallica sottostante. 08 - Il particolare evidenza il rapporto tra interno ed esterno, come risultato di uno spazio continuo, in cui spazi interni si possono affacciare su altri interni.

Smiljan Radic descrive l’opera in tutta la sua complessità, spiegando come il Serpentine Gallery Pavillion 2014 sia parte della storia di piccole costruzioni romantiche inserite in parchi, definite folies. Sostiene che esternamente il visitatore deve percepire “un guscio fragile sospeso su grandi pietre di cava”, un guscio che è percorribile all’interno e si sviluppa intorno a una corte. Diverso era l’approccio progettuale dall’architetto Peter Zumthor nel Padiglione realizzato per la Serpentine Gallery nel 2011. Questo si sviluppava attorno ad una corte concepita come un vero e proprio “hortus conclusus”, opera del paesaggista olandese Piet Oudolf, trasformando così lo spazio del Padiglione di Zumthor in una stanza per la contemplazione. La corte racchiudeva “un giardino nel giardino” come luogo introverso e staccato dal parco di Kensington Gardens. Per Radic invece lo spazio della corte interna assume un’altra funzione, quella di voler far apparire il volume di rivestimento leggero, come se fluttuasse nell’aria; la sensazione viene rafforzata proprio dal fatto che la nautura all’interno della corte può essere apprezzata solo osservandola dall’alto verso il basso. Ed è qui che entra il gioco un ulteriore elemento della progettazione di Radic, ovvero l’aria, elemento intangibile, un termine che per lui riguarda l’umore e il clima al tempo stesso.

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di notte, grazie alla semi-trasparenza del guscio, la luminosità ambrata delle superfici attirerà l’attenzione dei passanti, come le lampade attirano le falene Smiljan Radic

10 09 - L’apertura a “cannocchiale” verso l’esterno realizzata in lamiera d’acciaio; mediante l’effetto di contrasto di luce, viene messa in evidenza la trasparenza del guscio. 10 - Vista dello spazio interno ad andamento circolare. 11 - Dettaglio del rivestimento in vetroresina, dove sono evidenti i punti di giunzione tra le porzioni di materiale.

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12 - Rampa di accesso con finiture in assi di legno, costituita da elementi metallici con parapetto in cavi d’acciaio. 13 - Nodo di connessione tra il parapetto metallico, la pavimentazione in legno e il guscio in vetroresina. 14 - Elemento verticale strutturale a puntoni metallico, connesso alla struttura metallica inferiore mediante una giunzione a cerniera. 15 - Sistema di supporto dello sbalzo in vetroresina in prossimità dell’ingresso, ottenuto mediante un profilato metallico a croce sostenuto da un puntone.

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il padiglione è un oggetto futuristico che, come un guscio spaziale e alieno, è venuto a riposare su un sito neolitico Julia Peyton Jones

Dal 2000, ogni anno la Serpentine Gallery commissiona un padiglione estivo temporaneo ad un importante architetto, requisito fondante è che il progettista non abbia mai realizzato nessuna architettura nella città di Londra. I padiglioni temporanei, concepiti come spazi di condivisione, includono sempre l’elemento della natura. La direttrice della Serpentine Gallery, Julia Peyton-Jones, per il progetto dei Serpentine Pavillions, invita ogni anno architetti, artisti e paesaggisti di fama mondiale.

* Valentina Manfè, architetto, laureata in Architettura per la costruzione presso l’Università Iuav di Venezia. E-mail: valentinamanfe@yahoo.it

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Smiljan Radic, architetto cileno nato nel 1965 a Santiago, laureato nel 1989 in Architettura presso l’ Università Cattolica del Cile e poi allo Iuav di Venezia, ha fondato il proprio studio nel 1995. Ha esposto alla 12° Biennale di Architettura di venezia insieme all’artista Marcela Correa. Nel 2014 è stato selezionato per la progettazione 2014 Serpentine Gallery Pavilion a Londra.

16 - Vista esterna della connessione tra il guscio in vetroresina e il cannocchiale metallico. 17 - Vista frontale dall’esterno del padiglione.


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IN PRODUZIONE

Secco Sistemi per il restauro di Palazzo Onigo Dopo anni di abbandono è tornato al suo antico splendore un palazzo caratteristico del centro storico di Treviso

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n suggestivo scorcio di Treviso è tornato a vivere; si è, infatti, da poco concluso il restauro di palazzo Onigo. Dopo anni di chiusura, lo storico edificio è tornato al suo splendore, ridando prestigio ad un angolo caratteristico della città. Il palazzo, probabilmente di origine rinascimentale, venne costruito in un isolato di proprietà dei D’Onigo (già proprietari del limitrofo teatro Onigo, oggi teatro comunale) e si colloca in un punto strategico del centro storico, nella parte sud della città, a 500 metri dalla stazione ferroviaria, all’incrocio tra Corso del Popolo e viale Cadorna. L’edificio si sviluppa su tre piani, più sottotetto e dal 1924 risultava diviso in due proprietà: i locali del secondo e terzo piano erano di pertinenza comunale e sono stati destinati ad uffici a partire dal 1972, quindi progressivamente inutilizzati nel corso dagli anni ‘90. Il piano terra e primo, appartenenti alla famiglia veneziana Frigerio, hanno invece ospitato per circa quindici anni il ristorante Brek, chiuso nel 2011.

di Filippo Banchieri* Da allora l’intero palazzo è rimasto in stato di completo abbandono, sebbene il Comune si fosse ben presto impegnato a vendere la sua porzione dell’immobile. La messa all’asta indetta a settembre 2012, inizialmente non ha avuto alcun riscontro e solamente nel febbraio 2013 si è conclusa la difficile vendita dei due piani superiori, acquistati dallo stesso

conte Frigerio, già proprietario del piano terra e primo. I lavori di restauro, iniziati lo scorso autunno, sono stati svolti in meno di un anno, procedendo a pieno regime, grazie anche all’impiego di una tecnica insolita per i cantieri italiani. Una grande tensostruttura era stata collocata al di sopra del tetto, fasciando anche le pareti esterne. La speciale

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01 - Prospetto che si affaccia su viale Cadorna, così come appare oggi, in seguito al restauro terminato recentemente. 02 - A sinistra particolare del prospetto su via Cadorna come appare oggi. A destra, veduta dello stesso fronte da un’immagine del 1930 (da cartolina della Collezione F. Grosso. Archivio fotografico FAST, Provincia di Treviso). 03 - Treviso, Palazzo Fiorioli, meglio noto come Palazzo degli Onigo, all’angolo tra corso del Popolo e via Cadorna. Immagine di metà ‘900. Archivio fotografico FAST, Provincia di Treviso.

gabbia in metallo, poi coperta da ampi teloni, ha permesso agli operai di lavorare in qualsiasi condizione atmosferica, anche in pieno inverno. Così, già quest’estate, quando sono stati tolti i teloni che nascondevano il cantiere, si è potuta ammirare la sistemazione delle facciate esterne che ha restituito un nuovo volto al palazzo. La sua struttura è caratterizzata da un’imponente volume parallelepipedo e si delinea per la raffinata distribuzione forometrica e per l’eleganza delle aperture centinate che culminano nell’ampia trifora balaustrata centrale richiamando, nella compostezza della soluzione formale, i nobili prospetti dei palazzi patrizi cinquecenteschi. Le finestre dell’ultimo piano sono a sesto ribassato. Tutti i serramenti lignei, che in molti casi non erano in buono stato di conservazione, sono stati sostituiti. Gli infissi erano probabilmente già stati cambiati nel corso di lavori eseguiti nella prima metà del Novecento. Gli interventi di adeguamento ai piani alti e la totale revisione dei primi due, avevano creato una disomogeneità dei vari serramenti, che al piano nobile

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Le fasi di sostituzione dei serramenti

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conservavano ancora parte dei balconi, seppure assai rovinati, all’ultimo risultavano di bassa fattura e per lo più gravemente deteriorati, mentre ai due piani bassi erano stati completamente rifatti. Per ridare unitarietà al palazzo è stata quindi riprogettata una nuova soluzione, concorde con i requisiti qualitativi adeguati alla funzione del complesso. Le grandi aperture curvilinee della trifora e della bifora al secondo piano, la lunetta nel lato d’ingresso e le ampie dimensioni degli altri fori, avrebbero reso complicato l’utilizzo del legno, in quanto lo spessore necessario per realizzare i montanti dei serramenti avrebbero comportato un sostanziale oscuramento delle superfici vetrate. Inoltre c’era l’intenzione di utilizzare i serramenti anche come rinforzo strutturale visto lo stato di indebolimento generale delle

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murature perimetrali, pertanto è stato deciso di impiegare profili metallici. Ciò ha permesso di esaltare l’estensione dei fori e ottenere le superfici vetrate più ampie possibili. I telai in legno verniciato con vetro singolo erano fissati alla muratura per mezzo di una “cassamatta” posta in mazzetta a filo interno su un probabile spessoramento della parete. Con la rimozione dei serramenti è, infatti, risultato visibile l’ampliamento della soglia in marmo con l’aggiunta di sottili cordoli in cemento. Le “cassematte” lignee che incorniciavano i vani finestra su tre lati sono state sostituite da falsotelai in acciaio sui quali si fissano i nuovi serramenti. Questi, caratterizzati dalla colorazione bruna dell’acciaio cor-ten, si adattano molto bene al tono delle facciate. Per la realizzazione dei profili in accia-

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io, sono stati scelti i prodotti della Secco Sistemi di Preganziol, una delle principali aziende del settore, leader a livello nazionale, mentre l’assemblaggio e la posa degli infissi finiti è stata affidata alla Brombal serramenti di Caselle di Altivole. I serramenti in acciaio a taglio termico sono della serie EBE al piano terra, mentre nel resto dell’edificio sono stati utilizzati profili OS2. Nel progetto di recupero, la complessa scelta dei nuovi serramenti ha dato una forte impronta caratterizzante nella lettura dell’edificio. Grazie alle nuove finestre, la matrice storica del palazzo e gli equilibri estetici delle facciate sono stati messi in risalto con la creazione di una cornice di separazione di grande armonia tra le superfici trasparenti e gli elementi decorativi affrescati e lapidei.


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SEQUENZA DI SOSTITUZIONE DEI SERRAMENTI A - Rimozione dei vecchi serramenti lignei. Si può notare la cassamatta in legno fissata con dei chiodi al muro in mazzetta a filo interno. B - Rimozione della cassamatta e sostituzione con i profili a taglio termico del falsotelaio in acciaio. Sul quarto lato è appoggiato un tubolare in acciaio. C - Aggiunta di scossaline in cor-ten di rivestimento del tubolare e del davanzale in marmo. Saldatura di distanziatori del telaio fisso sul quarto lato. D - Attacco del telaio fisso al controtelaio per mezzo di viti autofilettanti. E - Incernieramento del telaio mobile al telaio fisso e assemblaggio delle lastre vetrate con fermavetro e guarnizioni. F - Aggiunta del cappotto interno e finitura delle superfici delle pareti. Il serramento quindi non risulta piÚ a filo interno ma in luce nel vano finestra.

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04 - Una delle finestre del primo piano che si affaccia su viale Cadorna, caratterizzata da sopraluce murato. 05 - Dettaglio assonometrico dei profili OS2 dei serramenti in acciaio cor-ten a taglio termico.

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Le facciate che si presentavano di un colore rosso caldo sbiadito, sono state ripulite durante il restauro, e ora sono caratterizzate da un colore rosa pallido. Su questo sfondo le colonne-lesene in tinta bianca, risultano dipinte. Il fronte su Corso del Popolo, dotato di ampie fasce marcapiano, presenta un grande portale arcuato in pietra con sovrastante cimasa e delle grandi aperture con poggiolo poste al piano nobile. Oltre al suo nuovo aspetto esterno, il palazzo è stato completamente restaurato internamente con il consolidamento delle strutture dei solai lignei e delle capriate del sottotetto. Nel corso del Novecento, a causa dello sdoppiamento della proprietà e all’insediamento di diverse attività, l’impianto originario del palazzo ha subito forti variazioni, alterando l’impianto tipologico che si era evoluto tra ’500 e ’800.

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Con il restauro si è cercato di recuperare le originali ambientazioni, coniugando la conservazione con le esigenze indotte dalla nuova funzionalità. Per la distribuzione ai piani è stato mantenuto l’impianto originario, con il prolungamento della scala principale fino al piano terzo e l’inserimento di due nuovi ascensori. Dall’androne al piano terra si accede allo scalone posto di lato con gradini in pietra d’Istria e una ringhiera in ghisa; la scala marmorea mantiene una funzione di collegamento secondario. La scala in legno di collegamento tra secondo piano e sottotetto è stata sostituita da una nuova struttura in acciaio. Dopo anni di degrado, Palazzo Onigo ha iniziato una nuova vita riaprendo le sue porte al pubblico; l’intero stabile è ora a disposizione della catena svedese di abbigliamento low-cost H&M che lo

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scorso 16 ottobre ha inaugurato il suo megastore di 1500 metri quadri complessivi. In questi tempi di crisi, dove si registrano spesso le chiusure di attività commerciali nel centro storico di Treviso, l’arrivo di un rinomato marchio di moda internazionale in un contesto prestigioso come quello di Palazzo Onigo, potrebbe ridare la spinta giusta all’aumento di presenze quotidiane in città con conseguente visibilità anche per gli altri negozi. * Filippo Banchieri, architetto, laureato in Architettura per il Paesaggio presso l’Università Iuav di Venezia. E-mail: fbinvent@hotmail.com


06 - Veduta di palazzo Onigo all’incrocio tra corso del Popolo e viale Cadorna, come appariva prima del restauro. 07 - Veduta di palazzo Onigo all’incrocio tra corso del Popolo e viale Cadorna, come si presenta oggi a seguito del restauro. 08 - La trifora del secondo piano durante le fasi di montaggio del telaio metallico.

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PER APPROFONDIRE Roberto Fioretti, “Il restauro di Palazzo Zeno Onigo di Treviso”, Antiga edizioni, 2014. Federico Cipolla, “Riecco palazzo Onigo svelato per H&M e Zara è alle porte” in La Tribuna di Treviso, 22 luglio 2014. “Terminati i lavori a Palazzo Onigo: ecco H&M, ma Zara è alle porte”, Treviso today, 22 luglio 2014. “Palazzo Onigo si prepara ad accogliere il megastore di H&M”, in Oggi Treviso, 12 dicembre 2013. “Palazzo Onigo, tetto raddoppiato”, in La Tribuna di Treviso, 12 dicembre 2013. “Palazzo Onigo tornerà al suo splendore: aprirà un megastore di abiti”, in Treviso today, 11 ottobre 2013. “Venduto palazzo Onigo, il futuro è targato H&M”, in Oggi Treviso, 28 febbraio 2013. “Il comune vende: palazzo Onigo all’asta”, Veneto uno.it, 3 agosto 2012. Valentina Dal Zilio, “Caffè, bistrot e H&M all’ex Brek”, in Corriere del Veneto.it, 28 luglio 2012. “Piano alienazioni – immobile Palazzo Onigo”, Comune di Treviso, Settore Pianificazione Territoriale e Urbanistica, novembre 2011. 08

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VOGLIO FARE L’ARCHITETTO

Architettura di carta La paper tube structure di Shigeru Ban

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di Diletta Zonzin* a prima volta in cui ho sentito parlare di architettura in carta ammetto di aver

fatto piuttosto fatica ad immaginare una casa o un qualsiasi altro edificio costruito con uno dei materiali tra i più fragili a cui riesco a pensare. Ad oggi devo dire che, pur avendo convinto me stessa che ebbene sì, si può fare, faccio molta fatica a convincere della medesima cosa più o meno tutte le persone alle quali racconto della mia tesi sull’architettura in tubi di carta. Non si può negare, in effetti, che risulti difficile pensare alla carta come ad un qualcosa in grado di sostituirsi al calcestruzzo, al legno o al mattone. La realtà dei fatti tuttavia è ben diversa: l’architetto pioniere dell’architettura di carta Shigeru Ban (www.shigerubanarchitects.com) ha realizzato infatti negli ultimi anni decine di costruzioni in Paper Tube Structure (PTS). Ciò che forse rende difficoltoso convincere gli altri di questa particolare tecnologia è che i tubi di carta sono effettivamente presenti nella quotidianità di tutti. La cosa curiosa è che il pro-

cedimento con cui vengono prodotti i tubi strutturali della PTS non è poi così diverso da quello con cui si producono i tubi per la carta dei plotter piuttosto che quelli della carta da cucina. Bisogna poi tener presente che la tecnologia con cui vengono prodotti i tubi non è recente né tantomeno innovativa ma, al contrario, nel corso dei decenni è rimasta pressoché invariata. Il procedimento di realizzazione dei tubi di carta parte da lunghissime strisce di carta per lo più riciclata che vengono avvolte e incollate tra loro. L’unico fattore che rende in qualche modo innovativo

questo processo è l’utilizzo di diversi additivi che forniscono al prodotto specifiche caratteristiche e prestazioni per ottenere prodotti da costruzione all’avanguardia. L’aggiunta degli additivi può rendere infatti il prodotto finale più resistente a curvatura, a compressione o taglio, più compatto e resistente all’acqua e al fuoco. A questo proposito la domanda che mi viene fatta più spesso è se i tubi si sciolgono alla pioggia oppure se prendono fuoco facilmente. In realtà ciò avviene con estrema difficoltà in quanto gli additivi utilizzati rendono i tubi idrorepellenti ed ignifu-

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la durata di un edificio non ha a che fare con la durata del materiale che lo costituisce

ghi (le prime opere di Shigeru Ban, per esempio, sono spesso trattate con la paraffina per renderle resistenti all’acqua). Una domanda che però sorge spontanea è “perché mai bisognerebbe scegliere di costruire con la carta?”. La prima ragione è il costo: produrre tubi di carta costa relativamente molto poco e certamente avere un prodotto economico in sostituzione di uno più costoso, a parità di prestazioni, è sicuramente un fattore non di poco conto. Diminuisce sensibilmente il costo di costruzione anche il fatto di utilizzare elementi leggeri, facili da trasportare, da montare e da smontare. Oltre ad essere economici, i tubi di carta sono anche di facile realizzazione, possono essere prodotti in qualunque formato, diametro e spessore, possono essere resi ignifughi e resistenti all’acqua, sono ecologici, riutilizzabili e riciclabili e inoltre all’interno contengono aria e garantiscono quindi un certo isolamento termico. Come afferma spesso l’architetto Shigeru Ban, la durata di un edificio non ha a che fare con la durata del materiale che lo costituisce. Questa sua celebre affermazione è basata sul principio 02

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il principio della PTS consiste nel poter costruire con un materiale debole strutture estremamente resistenti

per il quale ogni materiale è diverso rispetto agli altri e di conseguenza va trattato come tale. Anche se i tubi di Shigeru Ban posti all’aperto possono durare molto a lungo non significa che possano essere utilizzati in maniera inconsapevole: come tutti i materiali da costruzione vanno in qualche modo protetti dalle intemperie. Un esempio è la Paper House che Ban ha costruito per sé sulle rive del lago Yamanaka in Giappone con dieci tubi di carta che supportano il carico verticale e ottanta tubi interni che supportano le spinte laterali. Questo edificio, se si osserva-

no con attenzione le foto, è quasi totalmente racchiuso in una sorta di scatola di vetro. Bisogna poi tenere a mente che, come avviene per le costruzioni in legno, nel caso in cui una parte della struttura venga danneggiata, questa può essere facilmente sostituita in quanto tutte le giunzioni sono realizzate a secco e consentono di montare e smontare le varie parti dell’architettura con facilità. Per questa ragione diventa in un certo senso inutile parlare di durata maggiore o minore della carta rispetto ad un altro materiale. I fattori in gioco sono

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non solo la durata del materiale in sé, ma anche come è costruito l’edificio in questione, come viene protetto, la possibilità di sostituzione di parti, il costo che ne deriva, la facilità con cui può essere effettuata tale sostituzione e così via. Ne consegue che un edificio costruito con un materiale più durevole possa avere addirittura una vita inferiore a quella di un edificio costruito con la carta: il principio della PTS consiste nel poter costruire con un materiale debole strutture estremamente resistenti. I tubi di carta non solo sono un prodotto economico ma anche ad un prodotto sostenibile in quanto la materia prima da cui vengono prodotti è la carta da macero che si ottiene dal riciclo di carta e cartone o, ancor meglio, dal riciclo dei tubi stessi. La scelta di costruire in carta limita al meglio lo spreco di risorse e assolve alle esigenze di riciclo in quanto il tubo compie un cosiddetto “ciclo chiuso” di produzione e riuso, realizzando materiali uguali a quelli dismessi. Costruire con la carta è, a tutti gli effetti, un costruire sostenibile. Uno degli aspetti più convenienti che caratterizzano l’impiego della PTS è certamente la possibilità di smontare


e poi rimontare una costruzione. Questa caratteristica offre sia la possibilità di spostare un edificio da un luogo ad un altro ma anche, più semplicemente, di sostituire facilmente pezzi o intere parti della struttura per esigenze di varia natura. La PTS è infatti caratterizzata da una metodologia costruttiva che richiede un montaggio a secco piuttosto semplice, basti pensare che è stata utilizzata in diverse occasioni in cui il montaggio della struttura doveva essere effettuato da parte di personale non qualificato come nel caso di edifici temporanei costruiti in zone colpite da disastri naturali o nel caso in cui il montaggio fosse affidato a volontari o studenti. Proprio questo è stato il caso della Paper Church realizzata a Kobe in Giappone dopo che il terremoto distrusse completamente la chiesa precedente. Questa nuova chiesa/centro

sociale fu realizzato in sole cinque settimane esclusivamente da 160 volontari non qualificati, ciò fu possibile grazie all’estrema semplicità della costruzione stessa. La struttura della chiesa che doveva essere temporanea diventò a tutti gli effetti permanente quando nel 2005 fu smontata e rimontata in maniera definitiva a Taiwan. La possibilità di smontare e rimontare la PTS favorisce in effetti il suo impiego in tutti gli edifici temporanei che ospitano mostre, fiere e installazioni, negli edifici per le emergenze e negli edifici che hanno bisogno di garantire un’adeguata flessibilità. Inoltre, laddove le diverse componenti della struttura non fossero necessarie in un futuro immediato, possono essere facilmente riposte e conservate in magazzini o container senza occupare molto spazio nell’attesa di un nuovo utilizzo.

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costruire con la carta è, a tutti gli effetti, un costruire sostenibile

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Un esempio è il caso del Paper Theater, una cupola geodetica costituita da circa 700 tubi uniti tra loro da giunti d’acciaio con la funzione di teatro temporaneo realizzato per accogliere una performance di poche settimane. L’intera struttura fu completata in tre mesi, compreso il tempo di preparazione dei tubi in cartone, dei sistemi di aggancio in acciaio e della copertura a membrana. Il progetto risulta essere a tutti gli effetti un kit di montaggio e smontaggio per una struttura temporanea mobile: fu costruita prima ad Amsterdam nella primavera del 2003, dove rimase per le sei settimane richieste, successivamente fu smontato e nell’estate del 2004 venne rimontato a Utrecht con la funzione di spazio multiuso, qui rimase fino alla primavera del 2012 e venne quindi smontato nuovamente in attesa di essere rimontato per la terza volta ad Amsterdam. Nota dolente per l’utilizzo della PTS, perlomeno in Italia, è la questione delle normative che nel nostro paese sono estremamente restrittive. Al contrario, in Giappone la carta è a tutti gli effetti

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considerata ed utilizzata come un materiale strutturale. Ciò è stato possibile in quanto Ban nel 1994 iniziò la costruzione della Paper House con lo scopo principale di far entrare i tubi di carta nella normativa giapponese. In Giappone infatti se un edificio viene costruito con una metodologia innovativa ha bisogno di una certificazione che garantisca, tramite test ed accertamenti, che la struttura soddisfi o superi particolari requisiti. Nel caso della Paper House le autorità locali imposero controlli e test con cadenza mensile per il primo anno e più distanziate nel periodo successivo. Nel 1993 questo processo ha fatto sì che i tubi di carta fossero autorizzati dal Ministero giapponese della costruzione come materiale strutturale che può essere utilizzato anche per edifici permanenti che rientrano nell’Articolo 38 della Building Standard Law of Japan.

* Diletta Zonzin, Architetto, Laureata in Architettura per la Costruzione presso l’Università Iuav di Venezia. E-mail: dile.zonzin@hotmail.it

NOTE I contenuti e le immagini sono tratte dalla tesi di Laurea Magistrale in Architettura per la Costruzione di Diletta Zonzin dal titolo “Architettura di carta”, relatore MariaAntonia Barucco, discussa nel 2013 presso l’Università IUAV di Venezia. IMMAGINI 01 - Shigeru Ban, Paper House, Lake Yamanaka, Giappone, 1995. 02 - Shigeru Ban, Paper House, Lake Yamanaka, Giappone, 1995 – dettaglio. 03 - Shigeru Ban, Paper Church, Kobe, Giappone, 1995. 04 - Shigeru Ban, Paper Church, Kobe, Giappone, 1995 – fase di montaggio. 05 - Shigeru Ban, Paper Theater, Amsterdam, Olanda, 2003 – Assemblaggio della struttura. 06 - Shigeru Ban, Paper Theater, Amsterdam, Olanda, 2003 – Vista dell’interno.


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Stamperie private in Italia: fra tradizione e modernità

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na stamperia privata è un micromondo dove generalmente una o poche persone lavorano unendo con abilità il mestiere di tipografo, stampatore ed editore, il tutto finalizzato alla creazione di qualcosa di unico e pregiato: libri realizzati con tecniche artigianali, come la composizione a caratteri mobili (Img.01), la stampa in torchio e la rilegatura manuale. Le edizioni, estremamente curate, diventano così piccole perle immerse nel mare dell’editoria contemporanea, dominata dalla produzione in serie.

di Claudia Tavella* più alla qualità che alla quantità e la cura artigianale divenne assoluta. Ancora oggi esiste un movimento delle stamperie private anche in Italia, poco conosciuto ma allo stesso tempo affascinante e ricco di nomi illustri. Alessandro Zanella (Img. 02), recentemente scomparso in modo improvviso, si poteva considerare il più grande stampatore dei nostri tempi: realizzava le sue edizioni a Santa Lucia ai Monti, tra le colline veronesi, stampando con il suo torchio1 sotto l’insegna Ampersand. Per ogni libro seguiva un per-

corso libero, studiando nuove forme ed equilibri, senza mai dimenticare un’impostazione classica come base. Le sue produzioni, sempre a tiratura limitata, presentano generalmente un testo inedito poetico o in prosa, accostato a delle opere di artisti di fama internazionale, come Joe Tilson, Guido Strazza o Mimmo Paladino. Tra le uscite degli ultimi anni Poesie Verticali (Img. 03) è sicuramente un titolo da menzionare: quattordici poesie di Maria Luisa Spaziani, a cui si affiancano sette immagini incise a rilievo su matrice sintetica e svolte su più pagine dell’artista Ma-

Il private press movement nasce in Inghilterra verso la fine dell’Ottocento, quando tutto sembrava prendere la strada dell’industrializzazione. William Morris, designer inglese di successo, mise al centro delle sue idee il recupero dell’artigianalità e diede vita a questo fenomeno, le cui idee avrebbero contribuito a cambiare lo stile editoriale del Novecento. Nel campo tipografico tutto il procedimento della creazione del libro tornò ad essere manuale, si iniziò a puntare 01

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rina Bindella. Il volume colpisce per la struttura innovativa e per lo sviluppo imprevisto, che obbliga il lettore a spostare lo sguardo in direzioni non convenzionali per un libro. Altra realtà importante nel filone veronese è l’Officina Chimérea, avventura tipografica di Gino Castiglioni e Alessandro Corubolo (Img. 06), che, coltivando la loro passione giovanile per la poesia arrivarono ad essere una tra le stamperie italiane più raffinate. Nelle loro produzioni i punti di forza sono l’impressione impeccabile dei te-

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sti e un approccio al progetto sempre inaspettato, essendo ognuno un’opera indipendente. Ricordiamo il testo Alterego e altre ipotesi (Img. 05) di Roberto Sanesi, con cinque acquetinte di Enrico Baj. Datato 1970, il testo esce in un volume curatissimo in un contenitore con telai in legno foderati con tela. Il testo, composto in Bauer Bodoni, è impaginato in modo insolito ma armonico e le opere originali colpiscono il lettore per la loro freschezza. Se il filone veronese affonda le sue ra-

dici in una tradizione quasi centenaria e legata al concetto di libro in senso più classico, i protagonisti dell’area milanese sono molto legati al mondo dell’arte e presentano uno stile più vivace e scherzoso. Tra i tanti possiamo ricordare Lucio Passerini che gestisce con passione le Edizioni del Buon Tempo, Luciano Ragozzino con le sue Edizioni de Il Ragazzo Innocuo e Alberto Casiraghi, padre delle Edizioni Pulcinoelefante. Quest’ultima è una realtà insolita anche nel piccolo mondo delle stamperie pri-

sollevando la carta dal carattere si mostra l’impressione del segno, netta e incisa, è un lampo la sua forma nera ancora lucente, e il desiderio è quello di sfiorarla in punta di dita per valutarne al tatto la qualità. Soddisfazione e piacere

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vate italiane: Casiraghi, in arte Casiraghy, è una personalità vulcanica, la cui vita è mossa dall’amore per la poesia, che traspare in ogni suo gesto. La sua casa editrice venne fondata nel 1982 e da allora Casiraghi fa uscire quasi quotidianamente piccoli libricini che basta prendere in mano per sentire l’anima volare leggera: un breve testo, un aforisma o una citazione si accosta per affinità ad una piccola opera originale, una stampa, una fotografia o un oggetto. Una definizione delle più azzeccate gli è stata data dall’amico Vanni Scheiwiller: “Il panettiere degli editori: l’unico che stampi in giornata.”2 Ama definirsi in questo modo anche lui stesso, testimonianza che si può continuare a vivere di poesia anche ai nostri giorni. Osservando queste realtà che sembrano ferme in un’epoca lontana, si accendono numerose considerazioni. Innanzitutto nell’ambiente italiano si nota come gli stampatori sopravvivano grazie a piccoli circoli di bibliofili che continuano a seguirli in ogni passo 05

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della loro attività. Le loro conoscenze diventano fonti rare di saperi antichi, frutto dell’opera e della dedizione di molti anni, che li porta ad andare contro qualsiasi criterio commerciale rovesciando le logiche di mercato dell’editoria tradizionale. Il fine dei pochi private printers odierni non è quello di rifiutare l’avanzare della tecnologia e sostituire la praticità delle nuove invenzioni nel campo della stampa, ma piuttosto creare e mantenere un rapporto diverso tra libro e lettore, che regali a quest’ultimo emozioni profonde. Cambia in modo significativo il rapporto che una persona può avere con l’attività tipografica, che recupera la sua originaria semplicità e si trasforma in pura materia tangibile. La vera differenza tra una stampa a caratteri mobili e una stampa con una macchina offset si vede nel tipo di produzione: da artigianale, curato in ogni dettaglio con l’unico intento di realizzare un’opera impeccabile, ad industriale, più legato al mercato e quindi con un certo ri-


la perfezione di registro, il nero intenso dell’inchiostro, la purezza della carta, sono qualità che l’occhio umano arriva ad individuare in un manufatto solo una volta scoperto questo mondo segreto

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guardo anche nei confronti dell’aspetto economico. Anche la lingua italiana si è adattata alla digitalizzazione della tipografia: da ‘morso’ del carattere, termine che si usava per definire il momento in cui la carta veniva segnata dai caratteri in piombo appena inchiostrati, si è passati a ‘bacio’, dato dalle macchine offset, che toccano appena la superficie, facendo quindi perdere la sensazione tattile di riconoscere le lettere appena impresse nel foglio di carta sfiorandolo appena. Innegabile è la qualità e la perfezione che si ottiene gestendo in modo sapiente una stampa manuale, risultato ancora irraggiungibile con i mezzi digitali nonostante i miglioramenti che si susseguono giorno dopo giorno. La perfezione di registro, il nero intenso dell’inchiostro, la purezza della carta, sono qualità che l’occhio umano arriva ad individuare in un manufatto solo una volta scoperto questo mondo segreto. Da parte dello stampatore, il diletto di poter creare un oggetto prezioso e duraturo con le proprie mani, seguendone

ogni aspetto dall’ideazione alla fase finale, acquista quasi un valore mistico. Come affermava Zanella: “Sollevando la carta dal carattere si mostra l’impressione del segno, netta e incisa, è un lampo la sua forma nera ancora lucente, e il desiderio è quello di sfiorarla in punta di dita per valutarne al tatto la qualità. Soddisfazione e piacere.”3 *Claudia Tavella è calligrafa e graphic designer presso lo studio Ivat&Klerb, Milano. www.claudiatavella.com

IMMAGINI cortesia di Claudia Tavella 01 - Alessandro Zanella alla composizione manuale a caratteri mobili. 02 - Alessandro Zanella al lavoro sul torchio Stanhope. 03 - Poesie Verticali, Edizioni Ampersand. 04 - Edizioni Pulcinoelefante, copie del Centro Apice dell’Università degli Studi di Milano. 05 - Copertina del libro Alterego e Altre Ipotesi di Roberto Sanesi, Officina Chimérea, copia della Biblioteca Civica di Verona. 06 - Alessandro Corubolo e Gino Castiglioni con il loro torchio Albion (autori Enzo e Raffaello Bassotto). NOTE 1 - Il torchio di Zanella è un modello Stanhope, costruito dalla ditta Amos Dell’Orto di Monza nel 1854. Amos Dell’Orto fu colui che ebbe maggior successo nella costruzione di torchi tipografici in ghisa in Italia, probabilmente per l’alta qualità dei suoi prodotti che resero la sua città e in modo più esteso l’intera Lombardia, il più importante centro di produzione di attrezzature tipografiche nel corso dell’Ottocento. I due modelli in produzione da lui e dalle altre ditte italiane furono lo Stanhope e l’Albion, entrambi costruiti per la prima volta in Inghilterra nei primi anni dell’Ottocento. 2 - Vanni Scheiwiller, Edizioni Pulcinoelefante, catalogo generale 1982-2004, Milano, Libri Scheiwiller, 2005, p. 1. 3 - Alessandro Zanella, Stampare ad Arte, Alessandro Zanella tipografo ed editore , a cura di Marina Bindella, Verona, novembre 2009, p. 19.

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Cataste d’Africa Il progetto di un processo circolare

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a mostra AFRICA Big Change Big Chance racconta l’Africa, le sue trasformazioni e le sue potenzialità. Una descrizione completa curata dal prof. Benno Albrecht, la cui volontà è stata anche quella di rendere la mostra un’occasione concreta non solo per studiare la storia ma anche per progettare il futuro. Per questo motivo i tavoli dell’allestimento sono stati realizzati con prodotti da costruzione i quali, una volta disallestista l’esposizione, verranno reimpiegati in Africa. La selezione dei materiali da costruzione più adatti a questo scopo e il disegno dei tavoli catasta, sono stati svolti in ArTec (Archivio delle Tecniche e dei Materiali per l’Architettura e il Disegno Industriale, presso Iuav di Venezia). La progettazione dei tavoli catasta è stata frutto dello studio delle varie caratteristiche dei prodotti: questa è stata una fase essenziale del lavoro al fine di ottimizzare le scelte, le quantità di materiale e le lavorazioni, e consentire infine lo smontaggio dei tavoli catasta, il trasporto degli elementi e il loro riuso.

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di Margherita Ferrari* Il disegno delle strutture di allestimento invece si è ispirato alle caratteristiche geometrie dell’arte africana che hanno determinato la disposizione degli elementi dei tavoli catasta e il disegno dei prospetti. I materiali impiegati si articolano in prodotti dalla valenza strutturale, come profili in acciaio sagomato a freddo e travi in fibra di vetro con matrice in resina termoindurente, e per tamponamento, come pannelli in fibre di legno mineralizzate e legate con cemento, pannelli alveolari in policarbonato e pannelli in fibra di vetro con matrice in resina termoindurente.

il costo dei materiali in termini di energia, di impatto ambientale e di materia


Marco Introini

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PANNELLI IN FIBRE DI LEGNO MINERALIZZATE E LEGATE CON CEMENTO

ELEMENTI IN CARTONE ALVEOLARE

I pannelli sono costituiti da fibre di legno, generalmente di abete, che attraverso un processo di mineralizzazione sono più durature. Le fibre sono a loro volta legate con cemento, il quale rende il pannello compatto e stabile, conferendogli capacità di isolamento termico. Grazie agli interstizi tra le fibre di legno, il pannello risulta essere un ottimo materiale per l’assorbimento acustico.

Gli elementi sono costituiti da un’anima in nido d’ape, rivestita da due strati esterni di irrigidimento. In base alle necessità, il profilo può essere più o meno rigido a seconda delle geometrie , degli strati e del tipo di carta impiegata. I profili utilizzati per l’allestimento possono essere reimpiegati per realizzare arredi interni.

Marco Introini, riproduzione parziale

Marco Introini, riproduzione parziale

I materiali


PROFILI IN ACCIAIO SAGOMATI A FREDDO

PANNELLI ALVEOLARI IN POLICARBOANTO

Il prodotto permette di realizzare strutture leggere e resistenti, grazie alla composizione del materiale stesso. I profili impiegati in questo allestimento sono indicati soprattutto per realizzare partizioni orizzontali.

I profili vengono impiegati come montanti e traversi per creare telai autoportanti, adatti per nuove costruzioni o ampliamenti. Questo sistema costruttivo permette inoltre di impiegare differenti tecnologie e scegliere dunque la più idonea al contesto edilizio.

Questi elementi sono caratterizzati da durabilità e leggerezza, in grado di filtrare la luce necessaria in base alle differenti gradazioni. Ideali per coperture esterne e partizioni interne, i pannelli si assemblano tra loro per mezzo di un incastro maschio-femmina che conferisce loro stabilità.

Marco Introini, riproduzione parziale

Marco Introini, riproduzione parziale

MariaAntonia Barucco

PROFILI E RIPIANI N FIBRA DI VETRO CON MATRICE IN RESINA TERMOINDURENTE

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Mining/materials manufacturing

Parts manufacturer

Product manufacturer Recycle ArTec Refurbish/ remanufacture Reuse/redistribute Maintenance

Il progetto dei tavoli catasta si basa sul concetto del processo circolare che mira prima di tutto a superare la mentalità basata sull’idea di usa e getta di un prodotto, e punta a un riutilizzo dello stesso. In questo progetto i materiali impiegati sono statai studiati fin dal loro processo di produzione, per poterlo ottimizzare e impiegare elementi a misure standard, riducendo così al minimo ulteriori lavorazioni. Insieme alle aziende fornitrici è stato valutato anche il sistema di assemblaggio, per poter compromettere il meno possibile la qualità del prodotto e agevolare le fasi di allestimento e smontaggio. Terminata la mostra, le cataste saranno smontate e gli elementi saranno inviati in Africa per poter essere impiegati direttamente nell’edilizia locale. Il processo circolare non termina qui, anzi si sviluppa ulteriormente poiché i materiali una volta utilizzati, potranno essere soggetti a processi di reimpiego e di manutenzione nel caso di materiali durevoli. Immagine elaborata da Chiara Trojetto, in riferimento a “Adapted from the Cradle to Cradle Design Protocol by Braungart & McDonough” Ellen McArthur Foundation.

La progettazione delle cataste si è basata sull’ottimizzazione della produzione degli elementi, impiegando prodotti a misure standard, riducendo al minimo lavorazioni quali il taglio degli elementi e utilizzando anche le parti di scarto risultanti da questi processi. Inoltre, le connessioni a secco impiegate tra gli elementi hanno permesso un rapido smontaggio delle componenti, senza comprometterne le proprietà e facilitandone il reimpiego nel contesto africano. Ciò che accomuna tutti i materiali per l’edilizia selezionati per questo allestimento è lo studio del loro ciclo di vita, inserito in uno schema di processo circolare. Tale studio ha lo scopo di valutare il costo dei materiali in termini di energia, di impatto ambientale e di materia. Tale costo non deve essere un peso per l’ambiente e un probema per chi lo impiega. Tale costo può invece essere considerato un valore, a disposizione per realizzare buona architet-

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tura1. Il progetto di un processo circolare mira inoltre a sradicare una mentalità legata alla visione usa e getta, di tipo lineare e incorporata nella maggior parte delle produzioni industrializzate di oggi. Il progetto di un processo circolare mira a sradicare i rifiuti non solo dai processi di produzione ma in modo sistematico, nel corso dei cicli di vita e degli usi dei prodotti e delle loro componenti 2 . Di conseguenza tutto ciò che è realizzato con materiali durevoli (come i metalli e la maggior parte delle plastiche) deve essere quello del riuso e della riqualificazione per l’adattamento a nuove possibili applicazioni, per il maggior numero possibile di cicli di vita. L’obiettivo per i prodotti che deperiscono è la riciclabilità, prestando attenzione a distinguere tra subriciclo, che reimpiega la materia dedicandola ad altre funzioni con evidente dispersione di energia, e riciclo, che trasforma i materiali senza il

degrado della loro qualità3. L’utilità di questi prodotti non si riduce al loro stesso riutilizzo, ma si ripercuote sul processo produttivo intero, il quale può trarre vantaggio da questo specifico contesto e dare inizio dunque a una serie di processi analoghi. *Margherita Ferrari è architetto, assegnista di ricerca presso Iauv di Venezia. Nel corso degli anni universitari ha approfondito gli studi relativi ai sistemi costruttivi a secco, e attualmente svolge attività di ricerca sul sistema in profili in acciaio sagomati a freddo. E-mail: margheritaf@iuav.it


NOTE 1, 2, 3 - M.A. Barucco, Il senso dei materiali, in “Africa Big Change Big Chanceâ€?, a cura di Benno Albrecht, catalogo della mostra, 2014 IMMAGINI 01 - La mostra è organizzata in sezioni, allestita con plastici stampati in 3D, fotografie, progetti e video: a supporto di questi ci sono i tavoli catasta. In primo piano la catasta realizzata con profili in acciaio sagomato a freddo. 02 - Vista frontale e laterale del tavolo catasta realizzato con profili in acciaio sagomato a freddo. 03 - Interno della mostra. La sequenza dei tavoli catasta realizzati con differenti materiali, sia di valenza strutturale che per tamponamento. PER APPROFONDIRE Maggiori informazioni sulla mostra AFRICA Big Change Big Chance disponibili su www.triennale.it Le foto pubblicate in questo articolo sono di Marco Introini marcointroini.net.

Si ringraziano le aziende che hanno collaborato al progetto Tavoli Catasta: CELENIT S.p.A. pannelli in fibre di legno mineralizzate e legate con cemento MOVE s.r.l. pannelli e ripiani in cartone alveolare per realizzazione di tavoli tondi PCR s.r.l. travi e ripiani in fibra di vetro con matrice in resina termoindurente RODECA Italia pannelli alveolari in policarbonato SPH s.r.l. profili in acciaio sagomati a freddo sistema CIPA

3M Dual Lock nastro di velcro adesivo per realizzazione di fissaggi richiudibili

Marco Introini, riproduzione parziale

Ti Vu Plast s.r.l. listelli in cartone alveolare

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IMMERSIONE

L’abbandono edilizio ed urbano a Verona Domande, studi e tentativi di riuso temporaneo

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pesso sono le domande che ci poniamo, i nostri interrogativi, le nostre curiosità, che delineano e determinano i nostri percorsi e le nostre attività. Proprio dal desiderio di individuare risposte alle numerose domande relazionate all’abbandono edilizio, una delle più interessanti attuali dinamiche urbane, nasce nel settembre 2012 l’Associazione di Promozione Sociale A.G.I.L.E. Un’associazione composta in buona parte da architetti ed ingegneri, ma che contempla al suo interno anche un sociologo ed un organizzatore di eventi e servizi per lo spettacolo. Le domande occupano diversi periodi temporali, dal passato: “Perchè questo spazio è stato abbandonato?”; al presente: “Cos’è uno spazio in disuso e cosa implica?”; fino ad arrivare ad un propositivo futuro: “Come si può trasformare?”, “Cosa può diventare?”. Domande che scaturiscono dal desiderio di essere parte attiva nella propria città, di poter modificare, seppur in maniera limitata, i luoghi che frequentiamo quotidianamente. Ed è proprio nello spazio abbandonato che si esprime al meglio questa necessità di trasformazione. Gli spazi in disuso rappresentano un luogo incompiuto, mancante di una conclusione, non più consolidato nella città. Spesso questi luoghi producono un fascino architettonico ed urbano notevole, proprio in virtù di possibili evoluzioni. Il fascino della “presenza dell’assenza” che evoca sogni, desideri e anche speranze. Riconosciuta la potenzialità di questi spazi, è stato avviato, con l’appoggio del Comune di Verona, dell’Ordine degli Ar-

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di Michele De Mori*

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chitetti di Verona e dell’Ordine degli Ingegneri di Verona, un programma atto al riuso temporaneo di alcuni spazi comunali, seguendo un duplice obiettivo: sensibilizzare sulle potenzialità di questi luoghi e mostrare, concretamente, il possibile inserimento di nuove funzioni. Nella prima attività, settembre 2012, è stata proposto un incontro/dibattito sullo sviluppo dell’area Sud di Verona attrezzando l’area sottostante il cavalcavia di Viale del Piave, situato tra gli ex Magazzini Generali e la ex Manifattura Tabacchi. Alla conferenza si è unita la presentazione dei risultati di un workshop, organizzato dall’Ordine degli Architetti in collaborazione con l’ETSAV di Barcellona, e delle passeggiate urbane alla scoperta dell’interessantissimo patrimonio industriale presente nella zona. L’Obiettivo primario era far percepire la potenzialità dello spazio, anche in


relazione con i futuri interventi di riqualificazione dell’intero comparto Sud. A seguito della manifestazione l’area è stata trasformata in una “palestra/laboratorio” per artisti, dove oggi possono liberamente utilizzare le pareti verticali della struttura per realizzare le proprie opere. A questo primo episodio ha fatto seguito, nel maggio 2013, la riapertura temporanea del sottopassaggio pedonale di Porta Vescovo chiuso da diversi decenni. L’infrastruttura, situata nella zona Est della città è nata per migliorare la viabilità del nodo stradale, oggi ha perso completamente la sua originale funzione diventando un grande attrattore di criticità. Per tre giorni la struttura è tornata a vivere integrandosi con nuove attività quali eventi culturali, musica in acustico, teatro, passeggiate urbane per i quartieri ed attività per bambini. A seguito della grande adesione da parte della cittadinanza si è continuato ad utilizzare la struttura, nell’estate del 2014, proponendo un cineforum su temi riguardanti il paesaggio e l’architettura. Il lavoro sull’uso temporaneo degli spazi ha portato ad analizzare ulteriormente il fenomeno dell’abbandono. Come si può però discutere un fenomeno senza conoscerlo? Una seconda serie di domande si è quindi resa necessaria per approfondire la problematica/risorsa dell’abbandono: “Quanti spazi in disuso ci sono a Verona? Che caratteristiche hanno? Che superficie occupano?” Per rispondere a queste domande, tra il giugno 2013 e il febbraio 2014 è stato intrapreso un progetto di mappatura del territorio del comune di Verona con lo scopo di censire e catalogare gli spazi abbandonati in questo determinato perio-

02 IMMAGINI 01 - “Passare sotto”. Tre giornate di riuso temporaneo del sottopasso pedonale di Porta Vescovo organizzato nel maggio 2013: l’evento ha permesso di organizzare anche passeggiate urbane nei quartieri limitrofi, per conoscerne la nascita e l’evoluzione. 02- “Oltre il vuoto”, evento di presentazione della mappatura dei luoghi in disuso di Verona, organizzato il 20 giugno 2014 presso Porta Vescovo, riaperta per l’occasione. Hanno partecipato anche alcuni esponenti del Politecnico di Milano, dell’Università IUAV di Venezia e dell’Università degli Studi di Trento, facenti parte del progetto “Re-Cycle Italy”.

coniugare la disponibilità di superficie priva di utilizzo con la necessità di spazio per nuove funzioni

do temporale, arrivando a definire il fenomeno con esattezza sia nel numero di spazi che nella superficie occupata. L’abbandono e il conseguente recupero sono fenomeni estremamente dinamici: oggigiorno ad alcuni mesi dalla conclusione del censimento, alcuni edifici sono in fase di recupero mentre altri sono caduti in disuso. Nonostante ciò lo studio ha permesso di definire un punto di partenza per ulteriori

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lavori di censimento, al fine di poter realizzare delle serie storiche a scadenze definite. Come prima operazione si sono stabiliti dei parametri per permettere una oggettiva identificazione degli spazi; ad esempio, si sono selezionati solo edifici terra cielo e non appartamenti sfitti, oppure si è introdotta la voce “sottoutilizzo” per evidenziare situazioni dove le attività erano estremamente ridotte in rapporto alla superficie. La mappatura ha portato all’individuazione di 555 spazi, per una superficie complessiva di 2.636.570 m². Un numero importante, che è stato localizzato esattamente all’interno del territorio cittadino, permettendo di evidenziare, in modo preciso, le dinamiche di disuso più evidenti. La dinamica sicuramente più interessante sul territorio, nonché oggetto di dibattito da innumerevoli anni, è la dismissione delle aree militari, siano esse fortificazioni o caserme. Un totale di circa 845.000 m² disposti in modo concentrico intorno alla città. Una seconda dinamica è rappresentata dalla dismissione industriale che comprende circa 1.000.000 di m², superficie risultante in parte grazie alla grande estensione di pochi stabilimenti. Si sono evidenziate due tipologie: sia ampie aree, localizzate in punti strategici del territorio, sia fabbricati di piccola/media dimensione inseriti nel contesto cittadino.

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L’analisi ha individuato anche un ampio numero di edifici residenziali, per una superficie totale più limitata rispetto alle altre due categorie citate: circa 173.000 m². Se nella maggior parte dei casi si tratta di vecchi fabbricati che richiedono costosi interventi per ritornare abitabili, nel contempo però troviamo nuove edificazioni ai margini della città mai completate poichè invendute. Il lavoro di mappatura ha messo in evidenza, soprattutto per le aree di grandi dimensioni, la necessità di una attenta pianificazione territoriale che deve svilupparsi secondo un concetto di rete e condivisione delle necessità della città. A conclusione della mappatura è stata attivata una “Fase 2”, ossia la presa di contatto con realtà cittadine (associazioni, gruppi informali, professionisti) che sono alla ricerca di uno spazio per le proprie attività. La “Fase 2” è attualmente in esecuzione e mira a coniugare la disponibilità di superficie priva di utilizzo con la necessità di spazio per nuove funzioni. Gli ostacoli che si stanno evidenziando sono però notevoli, in parte legate alla difficoltà da parte della proprietà nel percepire il vantaggio di un utilizzo temporaneo del proprio immobile, soprattutto se indirizzato ad attività giovani e creative; si preferisce lasciare in stato di abbandono il proprio edificio, in attesa di tempi migliori, piuttosto che tentare nuove strade.


La mappatura degli spazi e degli edifici pubblici e privati, in disuso ed abbandonati del territorio cittadino veronese. Da sinistra: La locandina della Progetto Mappatura e una delle tavole prodotte dalla ricerca, in questo relativa agli spazi militari in disuso. Il progetto di mappatura è stato realizzato dall’Associazione AGILE: Michele De Mori, Emilia Quattrina, Giulio Cattazzo, Francesca Lui, Roberto Tavella, Andrea Galliazzo, Alessandro Scalia, Michela Angileri, Marco Buonadonna, Alberto Bragheffi, Silvia La Face, Barbara Alberti, Filippo Olioso. Con il patrocinio di: Comune di Verona, Ordine degli Architetti PPC della Provincia di Verona, Ordine degli Ingegneri della Provincia di Verona. Con il contributo di: Arredoluce S.r.l.

Una politica dell’immobilismo che, anche nel riguardo di molti contenitori di proprietà comunale, ha portato solo al deteriorarsi delle strutture architettoniche e ad aumentare il degrado urbano di intere aree. Fortunatamente siamo ancora in tempo per invertire questo processo. *Michele De Mori è architetto e presidente dell’associazione A.G.I.L.E. E-mail: demovr@gmail.com

spesso questi luoghi producono un fascino architettonico ed urbano notevole, proprio in virtù di possibili evoluzioni. Il fascino della “presenza dell’assenza” che evoca sogni, desideri e anche speranze

A.G.I.L.E. è una libera associazione di giovani che provengono da differenti percorsi formativi (architetti, designers, sociologi…) costituita con lo scopo di stimolare, accrescere e diffondere l’interesse verso le dinamiche che intervengono sul territorio Veronese, tanto architettonico-urbanistiche quanto sociali. L’Associazione mira ad un costante confronto culturale e professionale sul tema del Territorio con l’organizzazione di ricerche, studi, dibattiti, incontri, mostre ed eventi culturali. L’interesse di A.G.I.L.E. è particolarmente rivolto ai luoghi abbandonati ed in disuso, ossia spazi strategici della città e del territorio nei quali è possibile avviare oggi importanti processi di rigenerazione urbana e di promozione di attività culturali e sociali, in un ottica di miglioramento della qualità di vita della comunità.Diventa fondamentale sensibilizzare la cittadinanza sull’importanza ricoperta da questi luoghi cercando di evidenziare sia le singole positività sia la potenzialità nel strutturare una rete che coinvolga l’intero territorio. L’Associazione in seguito al lavoro di mappatura degli spazi in disuso e abbandonati nel territorio cittadino, sta proseguendo la propria attività sui risultati ottenuti da questo progetto di ricerca. Nasce da qui “Il viaggio nell’abbandono”, una rassegna dei più interessanti luoghi abbandonati di Verona, nata in collaborazone con Alice Cristiano e la redazione di Telenuovo.

Tutte le informazioni relative all’Associazione e alle loro attività sono disponibili su www.associazioneagile.wordpress.com

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DECLINAZIONI

di Margherita Ferrari Tessuto secondario, detto anche fellema, costituente la corteccia di grossi alberi e in particolare della quercia da sughero (Quercus suber). Si estrae dalle piante per la prima volta e prende il nome di sughero maschio, sugherone o sughero vergine, quando il fusto ha raggiunto la circonferenza di almeno 60 cm, misurato sopra scorza a 130 cm da terra; successivamente l’estrazione avviene a turni di 9-12 anni ed è chiamato sughero femmina, sughero gentile o sughero di produzione. L’operazione può avvenire in un periodo di tempo compreso tra maggio e agosto, periodo in cui la zona generatrice è in attività e le cellule appena formatesi sono fragili, per cui il distacco avviene con relativa facilità; il prelievo è eseguito dagli scorzini, operai specializzati. In edilizia viene utilizzato sia nella sua forma naturale, appositamente trattato, sia sotto forma di agglomerato, come isolante o rivestimento. Il sughero femmina, mediante taglio a mano o a macchina, è destinato alla fabbricazione di solette da scarpe , turaccioli, oggetti d’arredamento, ecc; il sughero maschio alla triturazione, insieme con gli scarti di lavorazione (cascami), per la formazione di pannelli agglomerati, “neri” e “bianchi”. Da “Dizionario dei materiali e dei prodotti”, Dizionari di Architettura UTET, 1998

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Sughero /’sugero/ s. m.

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MICROFONO ACCESO

Architects of Justice di Francesca Guidolin* Traduzioni di Arianna Garatti** Abbiamo intervistato i tre giovani architetti fondatori dello studio AOJ - Architects of Justice - di Johannesburg in Sud Africa. L’interesse suscitato dal loro approccio alla progettazione architet� tonica, espresso nel progetto SEED library, si inserisce nella loro concezione di una “progressive architecture and design practice, founded on the principle of creating bespoke, responsible, client cen� tred architecture”1.Abbiamo posto loro delle domande che potessero illustrare un punto di vista giovane e multiculturale...

Quali sono gli insegnamenti che avete tratto nella vostra esperienza in quanto giovane studio di progettazione ? Costruire con il meno possibile non solo come materiali ma anche come “skills” (abilità). Una buona parte della manodopera con cui lavoriamo è al di sotto degli “skills” necessari (underskills). Proprio per questi motivi il processo edilizio nel nostro contesto è molto complicato. Molte persone arrivano nel cantiere, vengono assunte e licenziate, è una lunga ricerca. La questione da cui si parte, e che si può espandere, è proprio “learn to build with less”. Qual è l’importanza della tradizione per l’architettura che voi fate, come giovane studio? In che senso vi ispira? C’è ovviamente una storia post coloniale in Sud Africa e molte delle nostre città sono state organizzate sulla tipologia delle città occidentali. Per vernacolare intendiamo il contesto architettonico antecendente a noi. 350 anni prima di noi. In questo senso vi sono dei problemi riguardanti gli edifici più vecchi: essi sono costruiti con un orientamento scorretto. Non capivano come orientare le case perché il sole, differentemente dall’emisfero boreale è “north facing” e non “south facing”. È più una questione di imparare dal clima e di fatto gli edifici che noi stiamo facendo adesso sono molto diversi dagli edifici post-coloniali. In questo

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senso, penso che la nostra architettura sia tornata indietro ai fondamenti, alla base del costruire. Che rapporto c’è tra i nuovi materiali, le nuove tecniche e la tradizio� ne? Fin’ora in nessun progetto abbiamo pensato alla tradizione nel senso di background culturale. Quello che consideriamo invece sono i materiali che utilizziamo e la modalità. Queste sono le cose primarie, rilevanti; forse non il vernacolare, ma il contesto e la tradizione riguardano “con che cosa” le persone costruiscono e “in che modo”. Ultimamente spesso guardiamo ai mezzi di costruzione prima che ai materiali: cosa, come e quali mezzi possono essere accessibili in quell’area. Qualche volta addirittura consideriamo chi costruirà mentre disegnamo. La forma è la funzione. Non si possono slegare le due cose. Quello che noi abbiamo disponibile e quello che abbiamo bisogno di fare. Per esempio nella biblioteca SEED, dovendo costruire qualcosa di prefabbricato, ci siamo rivolti a qualcuno che potesse realizzare queste cose. Non necessariamente la forma viene prima della funzione, ma dobbiamo chiederci se è possibile realizzarlo, e assicurarci di questo prima di realizzarlo. L’uso del colore. Qual è la funzione del colore, ha un valore psicolo� gico? Questa è una risposta facile: in questo progetto ad esempio, la SEED library, ha un valore psicologico, perché è per bambini. In altri progetti usiamo il colore ma si tratta solo di un plus. Se l’architettura è bella senza colori, quando ci metti il colore diventa “amazing”. Per questa cosa abbiamo un designer che ci insegna che quello che è bello in monocrome, si può trasferire a colori. È molto difficile disegnare in puri colori: non si comincia con un edificio rosso, ma con un edificio che fa qualcosa per qualcuno. Il colore si aggiunge alla funzione. Nella pratica, come gestite il rapporto con il cliente? Ad esempio,

se l’architettura è bella senza colori, quando ci metti il colore diventa “amazing”

Lo studio di progettazione AOJ (Architects of Justice), viene fondato nel 2009 a Johannesburg in Sud Africa, da Mike Rassmann, Alessio Lacovig e Kuba Granicki. Tra i progetti principali, l’Edenglen Primary Resource Centre, il Raceway Industrial Park, il Gondola Café dell’ Afriski Mountain Resort, e la biblioteca SEED presso la MC Weiler Primary School in Alexandra, Johannesburg. Lo studio sviluppa un’attività poliedrica nelle tipologie del residenziale, commerciale e culturale.

www.architectsofjustice.com

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come coniugate le necessità espresse dal cliente e le istanze di so� stenibilità nel contesto in cui costruite? Per il 98% i nostri clienti sono dei privati. Il progetto SEED, ad esempio, è una donazione da parte di una compagnia del settore privato. Per il momento il Governo non supporta molto gli interventi architettonici in Sud Arica. Per quanto riguarda l’iter progettuale, dal principio ci sediamo e cominciamo a capire ciò che la committenza vuole. Cerchiamo delle idee che siano simili a ciò che essi vorrebbero, considerando ciò che è possibile fare e sviluppiamo il progetto assieme al cliente. In questo modo il risultato è che l’intero progetto è un processo in cui educhiamo, ci confrontiamo con il committente…ovviamente c’è la normativa, le istanze della buona pratica, questioni economiche che devono essere prese in considerazione…è un continuo dialogo con il cliente, in modo da fargli capire che stai pensando, a cosa stai pensando e a volte esporgli delle cose a cui non avevano pensato, in modo da capire se vi siano cose che ha considerato e non considerato..l’onestà con il cliente diventa una necessità. Infine: tecnicamente, quali sono le difficoltà che avete riscontrato quando siete stati in cantiere? A volte produciamo dei documenti che non sempre sono recepiti in cantiere. Ci sono persone che dicono che possono fare certe cose e quindi concludi il contratto, e poi c’è un problema, perché non riescono a fare quelle cose, non possono farle…quindi devi cercare qualcun altro, chiedere più soldi al cliente…la più grande sfida sono le abilità, la qualifica delle imprese. Ci sono delle grosse differenze tra costruttori e architetti: i costruttori spesso non si interessando al risultato e ricercano il modo più semplice e veloce per risolvere il problema – e non sempre il modo migliore. Tre parole per descrivere l’architettura africana che voi fate. “Design, innovate, deliver”. Il nostro lavoro non è commonplace (non è un luogo comune), né overtily pragmatic, né naively utopian (ingenuamente utopico). Non è così pratico da essere noioso. (Quindi sapete cosa la vostra architettura non è. N.d.R.)

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*Francesca Guidolin, Dottoranda in Nuove tecnologie per il territorio, la città e l’ambiente all’Università Iuav di Venezia. **Arianna Garatti, Laureata in Lingue e letterature Europee, Americane e Postcoloniali all’Università Cà Foscari di Venezia. NOTE 1 - Estratto del Company Profile dello studio Architects of Justice. IMMAGINI cortesia di Architects of Justice 01 - Fase di cantierizzazione del progetto SEED, l’uso del colore. 02 - Mike Rassmann, Alessio Lacovig, Kuba Granicki, Architects of Justice, nell’ambito dell’esposizione YAA-Young Architects in Africa presso Ca’ Asi, evento collaterale della XIV Biennale di Venezia, organizzato dallo studio di architettura parigino AS. Architecture Studio. 03 - Progetto SEED, fasi di cantierizzazione: le operazioni di sistemazione delle strutture metalliche prefabbricate. 04 - Il procedimento di assemblaggio delle strutture metalliche. Posa del piano terra. 05 - Operazioni di posa e ancoraggio del piano primo. 06 - La costruzione del sistema di collegamento verticale. 07 - La dotazione impiantistica del complesso. 08 - Il progetto SEED Library ultimato. PER APPROFONDIRE - Thinking Inside the box, The Times, July 10, 2014. - The SEED, Digest of South African Architecture 2013, Volume 18.


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CELLULOSA

Cartongesso Francesco Maino, 2014

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ifficile. La parola che ha contraddistinto la lettura di Cartongesso e la conoscenza di Michele Tessari, protagonista e alter ego dell’autore Francesco Maino, è sicuramente questa. Innanzitutto per il metodo adottato, un rullo continuo di duecentotrenta pagine che scorre con l’aiuto quasi esclusivo delle virgole, senza paragrafi, senza capitoli, senza trama, una scrittura fitta e torrenziale che necessita di pazienza e concentrazione. Difficile anche dare un genere a questo testo, forse un saggio, un romanzo, una narrazione, un pamphlet sviscerato principalmente in italiano ma intramezzato da singoli termini in dialetto veneto, alcuni tradotti in nota e altri no. Parole ricche di connotati culturali, miratamente selezionate e recuperate dal grezzo, come lo definisce l’autore, dalla terra dalle mille lingue e dai trentasette modi per dire “vento” di Chioggia ma che allo stesso tempo ha ospitato le trincee di guerra per la conquista di una lingua unitaria. Una scrittura lontana anche dal freddo e distaccato, forse disumano, linguaggio

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a cura di Valentina Covre* forense dei quarantaduenni avvocati penalisti Maino e Tessari. Difficile assistere a una fotografia impietosa del Veneto in cui tutti i suoi elementi di risonanza sono portati all’estremo, denunciati in maniera grottesca e tragicomica, facendo il verso a una serie di fenomeni che lo connotano. Un territorio che viviamo di persona, che esploriamo quotidianamente e all’interno del quale è possibile ritrovare le lacune e gli stereotipi architettonico-urbanistici descritti in alcuni passaggi: la casetta (femmina) della nuova zona residenziale, con l’ulivo bonsai della grecia salentina, la pompeiana egizia, il capitello dorico, il finto timpano e il mosaico veneziano; la terra, trasformata in una specie di crosta lunare dagli insediamenti antropici; il capannone (maschio), l’esito del cambiamento di sesso della stalla e ventre del futuro uomo privo di profondità. Difficile dunque ammettere che sì, queste descrizioni corrispondono effettivamente a ciò che ci sta attorno. Ma l’attacco sfrontato non è solo alla qualità dei manufatti; è anche al modo di vivere veneto e alle persone, con critiche particolarmente feroci ad alcune

Francesco Maino (Motta di Livenza, 1972) è avvocato penalista a Venezia e vive a San Donà di Piave. Cartongesso (Einaudi) è il suo primo libro ed è vincitore del Premio Calvino 2013.


sullo scaffale

categorie lavorative, tutte simbolicamente rappresentate dal cartongesso, dal materiale capace di dar vita alle più finte conformazioni simulando quello che di fatto non è. Lo fa esplorando altrettanto stereotipati momenti della vita comune: l’infanzia, l’adolescenza, la laurea, il matrimonio, le esperienze lavorative, sia attraverso episodi leggeri sia con momenti resi quasi drammatici dall’intensità delle situazioni descritte. Ma la cosa più difficile di questa lettura è stato il fatto di non aver trovato nessuno slancio verso un riscatto da questa situazione, nessuna chance data al futuro. Si parla di un veneto “molto” tradizionale, con una donna “molto” tradizionale, della gente dalla vita fisiologicamente elementare che vi risiede, di lavori antichi perduti, forse dimenticando però che la modernità e l’innovazione tanto criticata e ridicolizzata è proprio quella che gli occhi esterni apprezzano e invidiano a questa terra, un rinnovamento che ha portato a sollevarsi da una condizione di povertà diffusa e che ne ha fatto la fortuna. E’ difficile pensare anche a un Veneto così uniforme come quello descritto, date le sfaccettature che lo contraddistinguono dall’arco alpino

fino alla costa adriatica. E riprendendo una similitudine lanciata alla presentazione del libro da Dario di Vico, editorialista del Corriere della Sera, sembra di assistere alla manifestazione di piazza contro il 2013 fatta il 31 dicembre 2012 a Tolosa. Tradizionalista, forse nostalgico, il tentativo è quello di fermare il tempo, immobilizzare le cose come stanno anziché ingraziarsi il nuovo anno in arrivo e rilanciare verso qualcosa di migliore come solitamente si tende a fare. Ci proviamo noi allora, a prescindere dal lieto fine che manca a questa favola, e puntiamo ad andare al di là di questo sfogo inutile come l’adolescenza.

*Valentina Covre, Dottoranda in Nuove tecnologie per il territorio, la città e l’ambiente all’Università Iuav di Venezia. E-mail: v.covre@gmail.com

Rem Koolhaas Elements Marsilio, 2014

Ilka & Andreas Ruby and Nathalie Janson The Economy of Sustaina� ble Construction Ruby Press, 2014

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ARCHITETT’ALTRO

Musica o architettura? Alla ricerca di un’architettura musicale

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urante gli studi allo IUAV di Venezia e parallelamente al conservatorio di Musica della stessa città, fui continuamente tormentato su quale strada intraprendere in futuro: Musica o Architettura? L’interesse per entrambe le discipline, così apparentemente lontane ma così profondamente vicine, mi portò a cercare di unire in qualche modo queste mie due passioni; trovai così una soluzione o forse una combinazione a questo mio problema che in tedesco suona così: “Orgelbauer” ovverro “Costruttore d’organo”. Sono Daniele Bellotto, 30 anni, laureato in architettura (curriculum costruzione) nel 2011 e diplomato in organo e composizione organistica nel 2012; cercherò in poche righe di raccontare la mia esperienza d’oltralpe. Nell’idea di unire i miei studi in un’unica figura, scrissi una sera, durante gli ultimi mesi di preparazione al concerto di diploma, una mail ai più affermati costruttori di strumenti musicali al mondo proponendo la mia figura professionale con l’unico obiettivo: dare

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di Daniele Bellotto* una risposta concreta alla mia esigenza di combinare i miei studi e le mie competenze, cercando così di rendermi il più competitivo possibile nel mondo del lavoro. Scrissi così poche righe in inglese presentando la mia candidatura ed inviai. Non ci pensai più per qualche settimana, finchè ricevetti una serie di risposte positive. Le risposte giunsero dai più affermati costruttori del settore, scelsi quello che più mi interessava e fissai un colloquio; partii così per l’Austria, nel workshop del costruttore Rieger Orgelbau, un’a-

VENEZIA


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BREGENZ

telier fondato nel 1845 ancora oggi all’apice del settore della costruzione di organi sinfonici. Presentai i miei lavori universitari, discussi dell’imminente preparazione al diploma d’organo, visitai il workshop dell’azienda; la risposta fu positiva: finito il percorso di studi musicali mi avrebbero dato un’opportunità di prova per inserirmi nel loro Team come designer e con la prospettiva di curare i progetti architettonici di strumenti musicali. Mi diplomai il 25 settembre 2012 e l’1 ottobre iniziai a lavorare in Austria, nella regione del Vorarlberg a confine con la Svizzera, Liechtenstein e Germania. Il primo giorno vidi la mia scrivania ed il mio nuovo pc solo per pochi secondi, mi aspettavano tre mesi di prova in falegnameria dove iniziai, sotto un tutor personale, a realizzare dai più semplici ai più complessi incastri in legno, secondo le regole di accostamento dettate dall’attenta lettura delle fibre; tutto questo utilizzando solo pochi attrezzi manuali: un paio di seghe, quatto o cinque scalpelli, strumenti di misura e tracciatura, in modo da svilupare il più

possibile una sensibilità costruttiva con il materiale. L’esperienza Iuav nella realizzazione di modelli d’architettura fu sicuramente una buona base di partenza ma dovetti mettermi parecchio alla prova con un materiale -il legno- che conoscevo ben poco per le loro aspettative. A poche settimane dalla fine del mio periodo di prova e formazione, mi fu chiesto di pensare durante il mio lavoro extra-laboratorio ad un nuovo progetto: l’organo sinfonico e la console mobile per la nuova filarmonica di Parigi, firmata dallo studio di J. Nouvel. Lavorai molto, investendo totalmente il mio tempo libero di quel freddo ed innevato inverno austriaco. Presentai 3 varianti al progetto, una di queste fu scelta dallo studio parigino e confermata la futura realizzazione del progetto. Fui così confermato all’interno del team Rieger. Dopo due anni di intenso lavoro, mi ritengo soddisfatto di continuare la mia formazione di architetto potendomi confrontare con professionisti e realtà da tutto il mondo, avere la possibilità di approcciarmi al progetto architettonico tramite il disegno (molto spesso a

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dare una risposta concreta alla mia esigenza di combinare i miei studi e le mie competenze

mano libera) e la realizzazione di modelli di studio. Ritengo inoltre che la formazione dell’architetto, sia ancora tutt’oggi una grande risorsa, frutto di un processo culturale millenario: questo ci dà la possibilità di “saper vedere” ed un’attitudine ad articolare i diversi saperi che orientati al progetto architettonicoscenografico vanno oltre alla funzione dell’opera che si intende progettare.

* Daniele Bellotto, Architetto, Organista, laureato in Architettura della Costruzione presso l’Università Iuav di Venezia. e-mail: danielebellotto84@gmail.com

IMMAGINI 01 - La città di Dornbirn. 02 - Vista sul Bodensee (Lago di Costanza) - Bregenz. 03 - Progetto a Kwansei, Japan.

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PRODUZIONE COSTRUZIONE RECUPERO

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Call for article PRODUZIONE COSTRUZIONE RECUPERO In un periodo storico come quello attuale, caratterizzato dall’incertezza economica e dalla consapevolezza della limitatezza delle risorse a nostra disposizione, anche i tradizionali sistemi di produzione e di costruzione devono adeguarsi alle rinnovate esigenze del vivere contemporaneo. Al paradigma della produzione industriale - modulare, standardizzata, prefabbricata - si contrappone sempre più un’idea di personalizzazione e customizzazione della produzione in grado di dare risposte alle diverse esigenze esprimibili da un’utenza sempre più varia e diversificata. A tale tendenza si sovrappongono poi con forza i temi della sostenibilità - tecnologica, economica ma soprattutto sociale - che impongono un radicale cambiamento nel modo di concepire il futuro del settore della produzione, della costruzione e del recupero in edilizia. In tale scenario “il produrre da sé” e “il costruire da sé” o “il recuperare da sé” diventano alcuni tra i principali strumenti di inclusione sociale, di crescita culturale ed di sviluppo economico andandosi ad affiancare a temi quali la rigenerazione urbana, il recupero e riutilizzo delle risorse o la gestione condivisa di spazi, attrezzature e strutture. La rivista OFFICINA* vuole essere un luogo di confronto rispetto a queste dinamiche, particolarmente attuali ed innovative nel panorama dell’architettura, attraverso una call for article dal titolo Auto (Produzione-Costruzione-Recupero). La call si rivolge a studenti, ricercatori, docenti, tecnici e professionisti che intendano portare un loro contributo di riflessione su tali questioni affrontandole da differenti punti di vista.

Materiale da consegnare e tempistiche

09.01.2015 Consegna Abstract

in duplice formato .doc e .pdf di massimo 700 battute spazi inclusi 10.01.2015-15.01.2015 Valutazione e sezione dei contributi 16.01.2015 Comunicazione accettazione abstract 27.02.2015 Consegna articoli selezionati

Tutti i materiali vanno spediti via mail all’indirizzo info@officina-artec.com Per maggiori informazioni consulta il nostro sito al link: www.officina-artec.com/auto-produzione-costruzione-recupero/

Tra i contributi pervenuti saranno selezionati da 5 a 8 abstract per la redazione di un articolo da pubblicare nel numero 05 della rivista on-line OFFICINA*- ISSN 2384-9029 - di marzo 2015.

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(S)COMPOSIZIONE

Sistema costruttivo a umido lavorare, aggiungere, amalgamare, montare, incorporare, inzuppare, stendere, stratificare, ricoprire, cospargere

Tiramis첫 Immagine di Valentina Covre

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