ISSN 2532-1218
n. 32, gennaio-febbraio-marzo 2021
Vuoto
Sottovuoto di Cinzia Piazza Il vuoto si appropria del pieno, a volte con forza.
cinziapiazza.it
Stefania Mangini
La natura rifugge il vuoto Il titolo di questo editoriale richiama una massima attribuita ad Aristotele che, nella Fisica, espone la teoria dell’horror vacui, ossia del “terrore del vuoto”. Secondo tale principio il vuoto non ha senso di esistere in quanto, per natura, liquidi e gas tendono a espandersi in ogni spazio saturandolo. Nel 2000 il sociologo Zygmunt Bauman pubblica Liquid Modernity in cui enuncia uno dei suoi più significativi contributi all’analisi dello stato della società moderna. Per Bauman questa si trova in uno stato di transizione da quello che è stato un passato solido e pesante a una modernità liquida e leggera, in cui ogni certezza e valore vengono sostituiti dall’incertezza di un mondo in continuo cambiamento. La celebre metafora serve a Bauman per giustificare la rapida e inarrestabile “fusione” delle solide certezze tipiche dei secoli passati nei più svariati ambiti della vita: gli affetti, il lavoro, le relazioni sociali, la comunità. Fulcro di questa trasformazione è però la dissoluzione del rapporto tra tempo e spazio. Nella modernità pesante, in cui “ricchezza e potere erano saldamente radicati alla terra” (Z. Bauman, Modernità liquida, 2011, p. 128) lo spazio era un presidio, una certezza a cui tenersi saldamente aggrappati mentre il vuoto era considerato uno spazio da conquistare, da colonizzare, da occupare e sfruttare. Ora, nella modernità liquida, dove tutto è già occupato o meglio dove “tutte le parti di spazio possono essere raggiunte nello stesso arco di tempo (vale a dire all’istante) nessuna parte di spazio è privilegiata, nessuna ha un valore speciale” (ivi, p. 133). Oggi lo spazio sembra aver perso significato e il vuoto diviene un “vuoto di significato” più che un vuoto fisico: gli spazi sono “visti come vuoti (o più precisamente non vengono visti affatto) perché non presentano alcun significato e non sono in grado di presentarne uno” (ivi, p. 114). La fluidità che caratterizza la nostra società liquida tende quindi “per natura” a negare il vuoto, o meglio, a non considerarlo in quanto privo di significato. Eppure la complessa vicenda socio-sanitaria che ha colpito l'umanità nel 2020 sembra poter porre un freno alla liquefazione sociale postulata da Bauman: restrizioni, distanziamenti e confinamenti hanno fatto riemergere valori e bisogni ormai dati per scontati o considerati privi di significato riportando lo spazio, anche quello vuoto, al centro di un dibattito che sembrava ormai essersi perso nel mare della vita liquida. Emilio Antoniol
Direttore editoriale Emilio Antoniol Direttore artistico Margherita Ferrari Comitato editoriale Letizia Goretti, Stefania Mangini Comitato scientifico Federica Angelucci, Stefanos Antoniadis, Sebastiano Baggio, Matteo Basso, MariaAntonia Barucco, Viola Bertini, Giacomo Biagi, Paolo Borin, Laura Calcagnini, Piero Campalani, Fabio Cian, Federico Dallo, Doriana Dal Palù, Francesco Ferrari, Jacopo Galli, Michele Gaspari, Silvia Gasparotto, Giovanni Graziani, Francesca Guidolin, Beatrice Lerma, Elena Longhin, Filippo Magni, Michele Manigrasso, Michele Marchi, Patrizio Martinelli, Cristiana Mattioli, Fabiano Micocci, Magda Minguzzi, Massimo Mucci, Corinna Nicosia, Maurizia Onori, Damiana Paternò, Elisa Pegorin, Laura Pujia, Fabio Ratto Trabucco, Silvia Santato, Roberto Sega, Gerardo Semprebon, Chiara Scarpitti, Giulia Setti, Ianira Vassallo, Luca Velo, Alberto Verde, Barbara Villa, Paola Zanotto Redazione Martina Belmonte (copy editor), Paola Careno (impaginazione), Letizia Goretti (photo editor), Stefania Mangini (grafica), Silvia Micali (traduzioni), Arianna Mion, Rosaria Revellini, Libreria Marco Polo, Sofia Portinari (impaginazione), Elisa Zatta (traduzioni) Web Emilio Antoniol Progetto grafico Margherita Ferrari
OFFICINA* “Officina mi piace molto, consideratemi pure dei vostri” Italo Calvino, lettera a Francesco Leonetti, 1953
Trimestrale di architettura, tecnologia e ambiente N.32 gennaio-febbraio-marzo 2021
Vuoto
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Direttore responsabile Emilio Antoniol Registrazione Tribunale di Treviso n. 245 del 16 marzo 2017 Pubblicazione a stampa ISSN 2532-1218 Pubblicazione online ISSN 2384-9029 Accessibilità dei contenuti online www.officina-artec.com Prezzo di copertina 10,00 € Prezzo abbonamento 2021 32,00 € | 4 numeri Per informazioni e curiosità www.anteferma.it edizioni@anteferma.it
OFFICINA* è un progetto editoriale che racconta la ricerca. Tutti gli articoli di OFFICINA* sono sottoposti a valutazione mediante procedura di double blind review da parte del comitato scientifico della rivista. Ogni numero racconta un tema, ogni numero è una ricerca. OFFICINA* è inserita nell’elenco ANVUR delle riviste scientifiche per l’Area 08. Hanno collaborato a OFFICINA* 32: Nicolò Agostinelli, Eleonora Alviti, Moreno Baccichet, Leonardo Binni, Gregorio Bonato, Vladimiro Boselli, Martina Campanelli, Franca Ciantia, Angela D'Alessio, Stefano D'Armento, Paola Donatella Di Vita, Nicolò Fattori, Lia Fedele, Flumen, Francesca Giudetti, Stefania Gruosso, Evelyn Leveghi, Marco Manfra, Michele Manigrasso, Claudia Massioni, Mickeal Milocco Borlini, Amedeo Minischetti, Massimo Mucci, Elena Orsanelli, Cinzia Piazza, Emanuele Poki, Domenico Potenza, Sabrina Righi, Caterina Rigo, Carlo Roccafiorita, Andrea Russo, Sofia Sacchini, Chiara Sanguin, Kevin Santus, Stefano Sartorio, Arianna Luisa Nicoletta Scaioli, Gianluca Sortino, Benedetta Staccioli, Andrea Visioli.
Vuoto Void n•32•gen•mar•2021
Sottovuoto Vacuum Sealed Cinzia Piazza
6 10 16 4 54 60
INTRODUZIONE
Il vuoto è uno specchio The void is a mirror Michele Manigrasso
Vibrant urban osmosis Evelyn Leveghi
Il vuoto che verrà The void that will be Stefano D'Armento
ESPLORARE Rosaria Revellini, Flumen
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Amedeo Minischetti
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PORTFOLIO
Certe volte Gregorio Bonato IL LIBRO
Eppure il vento soffia ancora Yet the wind is still blowing
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La natura dentro al recinto quadrato della polveriera Nature inside the squared fence of the powder keg Moreno Baccichet
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Memoria e futuro del vuoto Void, remembrance and future
72 76 80
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Marco Manfra
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40 46
Gianluca Sortino
In-between reconstruction Massimo Mucci
L’ARCHITETTO
Vuoti apparenti e vuoti reali: abitare spazi dimenticati Apparent voids and real voids: living in forgotten spaces
UpCycling Territories Caterina Rigo, Martina Campanelli, Claudia Massioni, Benedetta Staccioli, Nicolò Agostinelli, Leonardo Binni
Vuoto e proprietà Void and property Angela D'Alessio, Chiara Sanguin L’IMMERSIONE
'n saccu vacanti non pò stari addritta An empty sack cannot stand upright Vladimiro Boselli, Franca Ciantia, Paola Donatella Di Vita, Emanuele Poki
Sabrina Righi, Andrea Russo
L’arte come cura dei luoghi vuoti Art as cure for empty places
A terra o verso il cielo On the ground or to the sky
Elena Orsanelli, Sofia Sacchini, Nicolò Fattori
Paola Careno I CORTI
Il vuoto per la sopravvivenza The void for the survival
Sarajevo post-conflitto Sarajevo post-conflict Stefania Gruosso
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Il tempo del paesaggio The time of the landscape Lia Fedele
La crisi nel vuoto The crisis into the void Mickeal Milocco Borlini, Kevin Santus, Stefano Sartorio, Arianna Luisa Nicoletta Scaioli INFONDO
Inside Mother Earth a cura di Stefania Mangini
La dimensione inattesa dei grandi vuoti di cava The unexpected dimension of large quarry voids Domenico Potenza
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La costruzione del vuoto The void construction Eleonora Alviti
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SOUVENIR
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AL MICROFONO
Metamorfosi di uno spazio Metamorphosis of a space Letizia Goretti
Periferica rinascita Peripheral rebirth a cura di Ariana Mion, con Carlo Roccafiorita
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CELLULOSA
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(S)COMPOSIZIONE
Un fuoco sotteraneo a cura dei Librai della Marco Polo
Vita liquida Emilio Antoniol
Un’estate alla Biennale di Venezia. Visite guidate ai Giardini e all’Arsenale. Da luglio a ottobre 2020 Venezia www.labiennale.org/it/visite
Rosaria Revellini
ta nella sua totalità grazie alla grande vetrata sul fronte ovest e all’assenza di elementi di allestimento. Potrebbe forse questa “pausa” dare avvio a una nuova tradizione della Biennale per accogliere visitatori interessati alle “sole” architetture, magari in determinati periodi dell’anno, tra un allestimento d’arte e il successivo di architettura o viceversa? Rosaria Revellini
GIGANTI – I Vuoti della Comunità Ponte di Piave www.f-lumen.it
Le città sono fatte di densità di corpi, rumori, odori, colori che caratterizzano l’ambiente urbano. Da ormai dieci mesi, invece, sono diventate l’immagine dell’assenza di chi le abita. Il vuoto ha riempito tutti i luoghi pubblici e ci ha costretti all’interno delle piccole bolle stagne che sono le nostre abitazioni. Il concetto di “vuoto” si è insinuato negli interstizi della vita di ciascuno, poiché ha necessariamente assunto una dimensione individuale. Se “la città è il dispositivo della mediazione tra il corpo dell’individuo e il corpo della società”, come scrive Salvatore Settis nel suo saggio Se Venezia Muore, ciò che è accaduto costituisce l’interruzione del suo funzionamento: la “città invisibile”, di calviniana memoria, si è separata da quella “visibile”. Come recuperare questa relazione vitale interrotta? Siamo FLUMEN, un’Associazione culturale di Ponte di Piave che ha perso lo spazio fisico per svolgere le proprie attività a causa dell’emergenza sanitaria. Ci siamo interrogati su come l’oppres-
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Flumen
Il 2020, con la pandemia da Sars-CoV-2, ha imposto una pausa più lunga del solito tra il disallestimento della 58° Esposizione Internazionale d’Arte e l’allestimento della 17° Mostra Internazionale di Architettura presso la Biennale di Venezia. La Biennale di Architettura è stata infatti riprogrammata per il 2021 (22 maggio – 21 novembre) e di conseguenza quella di Arte rinviata al 2022. Mentre timidamente alcune attività culturali sono ripartite nell’estate 2020 tra tour virtuali dei musei e visite contingentate in presenza, la Fondazione della Biennale di Venezia ha ripensato questo tempo di “pausa” tra luglio e ottobre mettendo in campo l’organizzazione di visite guidate, gratuite e prenotabili sul sito web, ai Giardini e all’Arsenale dove è stato possibile vedere i padiglioni “svuotati” dei loro temporanei contenuti. Per motivi di sicurezza la fruizione è stata limitata ai soli spazi esterni, in quanto all’interno delle architetture il tempo è rimasto cristallizzato alla fase iniziale dell’allestimento, con scale addossate alle pareti, ponteggi e attrezzi del mestiere che si potevano intravedere da finestre e porte vetrate. In particolare, durante la visita ai Giardini – della durata di circa un’ora e mezza – è stata brevemente ricostruita la storia della Biennale attraverso un percorso spazio-temporale, dai primi padiglioni costruiti fino agli ultimi, in un silenzio quasi surreale. Dei “contenitori” senza “contenuti” dunque da poter fruire in modo diverso, anche se non nella loro totalità, oltre le esposizioni d’arte e le mostre di architettura: un’occasione forse desiderata da molti architetti o studiosi, in particolar modo per alcune architetture simboliche della Biennale. Penso nello specifico al padiglione dei Paesi Nordici di Sverre Fehn e alla sua “stupefacente semplicità” – qualità attribuita dalla stampa svedese nel 1959 – la cui matericità, congiuntamente al gioco di luci e ombre generato dalla caratteristica copertura, si è mostra-
sione esercitata dal vuoto possa trasformarsi in una risorsa, un’occasione: in risposta alla paura e all’isolamento, sentiamo la necessità di prendere in consegna l’eredità dei luoghi abbandonati che abbiamo a disposizione. Questi luoghi sono l’ex Scolasticato dei Padri Giuseppini e l’ex Cinema Luxor. La loro presenza costituisce un vuoto nel tessuto urbano già da anni, sono addirittura vuoti “invisibili” perché, nonostante la loro mole, non vengono più percepiti come mancanze. Partendo proprio dalla vocazione, dalla valenza e dal significato che questi luoghi hanno nella memoria della “città invisibile”, abbiamo voluto trasportare le nostre sensazioni in una raccolta di immagini evocative del potenziale dei luoghi fotografati. Il titolo del piccolo progetto è Giganti - I Vuoti della Comunità perché vuoti sono i luoghi imponenti che rappresentano “vuoti giganti” nella nostra anima sociale. L’intento è quello di leggere e riattivare i vuoti che abbiamo individuato nel contesto urbano, consegnando loro un valore costruttivo e abbattendo l’idea dell’immutabilità della situazione in cui ci troviamo, per rendere la città nuovamente porosa, morfica e vissuta. FLUMEN si propone come innesco di un dialogo e di una riflessione, anche progettuale, volta al recupero e alla valorizzazione dei "vuoti giganti". FLUMEN Associazione
ESPLORARE
A cura di Michele Manigrasso. Contributi di Stefano D'Armento, Lia Fedele, Evelyn Leveghi, Mickeal Milocco Borlini, Amedeo Minischetti, Massimo Mucci, Kevin Santus, Stefano Sartorio, Arianna Luisa Nicoletta Scaioli, Gianluca Sortino.
Michele Manigrasso Architetto e urbanista, assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Architettura di Pescara. Direttore dell’Osservatorio Paesaggi Costieri Italiani di Legambiente. michelemanigrasso@gmail.com
Il vuoto è uno specchio
The void is a mirror
L’attuale crisi climatica e la pandemia in corso stanno rappresentando, a livello globale, l’ineludibile e urgente bisogno di “manutenzione straordinaria” dei territori e delle città, alle diverse scale di intervento. L’aggiornamento dei paradigmi del progetto urbano e la revisione di alcuni significati epistemologici - di cui si parla e si scrive diffusamente - stanno alimentando, con nuovi stimoli, le riflessioni e i confronti sui temi relativi alla forma della città, alla necessità di una diversa sintassi tra pieni e vuoti, e al rapporto tra gli insediamenti e il territorio vasto. Si stanno registrando nuovi interessi in merito al “progetto del vuoto”, come campo di riflessione in cui si sovrappongono e trovano coerenza, più che nel passato, saperi differenti e transcalari. Riconoscere il paesaggio come “sistema di vuoti tra le cose” che non ha mai un retro, ma che costruisce relazioni tra gli oggetti presenti e le aree pronte a ospitare nuove funzioni e nuovi corpi, risulta strategico per diversi motivi: il paesaggio porta a sintesi il territorio come spazio fisico e l’ambiente come spazio della vita; attraverso il suo continuo mutamento, riflette la nostra società e il nostro tempo. Questo vuol dire dover dedicare maggiori energie al progetto del vuoto come “progetto democratico”, capace di ribadire il “diritto alla città”, in un’epoca di grandi cambiamenti in cui la “paura del rischio” incide ampiamente sul senso di libertà di chi la abita. Per queste ragioni, OFFICINA* dedica il numero 32 al tema del Vuoto, specchio in cui si riflettono e si coagulano le maggiori tensioni della contemporaneità; il vuoto è “spazio eterotopico” in cui immaginiamo un diverso futuro, e riversiamo le speranze di rinascita e di rinnovata condivisione. Un primo ambito di indagine ha interessato l’uso spontaneo e la pratica del progetto in spazi vuoti, abbandonati o semplicemente sottoutilizzati. Il contributo di Evelyn Leveghi, Vibrant urban osmosis, riguarda vuoti interstiziali che, in maniera spontanea e informale, vengono riusati dalla comunità insediata, volumizzandone il senso. Una casistica di
The current climate crisis and the pandemic in progress represent the inevitable and urgent global need for "extraordinary maintenance" of territories and cities. The updating of the paradigms of the urban project and the revision of some epistemological meanings are feeding with new points of view the reflections and comparisons about the issues concerning: the shape of the city, the need for a different relationship between full and empty spaces, and the relationship between the settlements and the territory. New interests are being registered regarding the “project of the void”, a field of reflection in which different, local and global knowledge overlap and find coherence, more than in the past. Considering the landscape as a "system of voids between things" that never has a back, but which builds relationships between the objects present and the areas ready to host new functions and new bodies, is strategic for various reasons: the landscape represents the territory as a physical space and the environment as a space of life; the landscape reflects our society and our time, through the constant changes of its shape. We must devote more energy to the project of empty spaces as a "democratic project" capable of reaffirming the "right to the city", in an era of great changes in which the "fear of risk" largely affects the sense of freedom of citizens. For these reasons, the magazine OFFICINA * dedicated issue 32 to the theme of the Void; the empty space is a mirror in which the greatest tensions of contemporaneity are reflected and coagulated; the void is “heterotopic space” in which we imagine a different future, and in it we pour the hopes of rebirth and renewed sharing. The first area of investigation concerned the spontaneous use and practice of the project in empty, abandoned or simply underused spaces. Evelyn Leveghi's chapter, Vibrant urban osmosis, concerns interstitial voids which are reused by the settled community, volumizing their meaning, in a spontaneous and informal way. A series of examples demonstrates
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VUOTO
OFFICINA* N.32 Vuote illusioni. Francesca Giudetti
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esempi dimostra le modalità attraverso cui le “smagliature urbane”, prodotte in molti casi dalla recessione e dal processo di spending review, possono acquisire valore condiviso divenendo “spazio dei possibili”. La mancanza permette dunque il cambiamento, come dimostrato dal testo Il tempo del paesaggio, proposto da Lia Fedele. Il vuoto si fa sistema connettivo tra i territori profondi e le città; è geografia che attraversa gli ambiti rurali e naturali, il drosscape, le “pieghe della città” nelle aree di frangia, i frammenti a grana fine più interni ai tessuti costruiti. La dimensione paesaggistica ci permette di ragionare in maniera transcalare, introiettando il tema del tempo per comprenderne le naturali evoluzioni e le possibilità di sviluppo dei territori. Approccio che acquista declinazioni differenti nel contributo di Stefano D’Armento, Il vuoto che verrà, scritto che interpreta il decremento demografico e l’abbandono come destini da poter accettare senza rimpianto, rifuggendo dalla valorizzazione tout court e “a tutti i costi”, per ottimizzare le energie verso patrimoni davvero meritevoli di rigenerazione. Altro tema affrontato nel dossier è il progetto nel vuoto generato da eventi traumatici. Il vuoto per la sopravvivenza è il breve saggio scritto da Amedeo Minischetti, che ci porta oltre oceano, per ragionare sulla ricostruzione delle città colpite da catastrofi climatiche. A Costitución (Cile), a New Orleans (USA) e a San Juan (Porto Rico), il vuoto prodotto dagli eventi inattesi aggiorna la geografia dei luoghi e sospende il presente, aprendo “faglie spazio-temporali” dove diventa complicato orientarsi. Minischetti invita a ragionare sul progetto come dispositivo capace di costruire una nuova urbanità, necessaria quanto sicura: la ricostruzione nel vuoto è strumento utile per superare il trauma, cicatrizzare la ferita, conservare e proiettare il ricordo al futuro. Lo sostiene anche Massimo Mucci nel capitolo In-between reconstruction, affrontando il tema della costruzione di emblematici memorial di guerra e dell’olocausto: la riflessione fa emergere pratiche estetiche e strategie di composizione architettonica comuni e ricorrenti, che favoriscono una più agevole fruibilità della città. Come nel progetto di Francesco Venezia per la riconversione di un edificio a uso commerciale in piazza Garibaldi a Treviglio, esperienza analizzata da Gianluca Sortino nel testo A terra o verso il cielo, per sottolineare il senso del vuoto come spazio che può contribuire alla definizione di nuovi attraversamenti urbani, inattesi punti di incontro e di vista sull’intorno. Questo discorso si estende alla dimensione virtuale nell’articolo che chiude il dossier, La crisi nel vuoto, scritto a più mani da Mickeal M. Borlini, Kevin Santus, Stefano Sartorio e Arianna L. N. Scaioli: la pandemia in atto ci invita a immaginare una nuova grammatica urbana, per riequilibrare i rapporti tra pieni e vuoti, tra sfera privata e pubblica, tra individuo e collettività. In questa nuova sintassi, la dimensione virtuale/digitale sta dando risposte utili ma non sufficienti: c’è bisogno di tornare al più presto ad abitare fisicamente lo spazio fuori, il vuoto che al momento ci avvolge, privato del senso più autentico dell’essere architettura di città.*
the ways in which “urban stretch marks” - produced in many cases by the recession and the spending review process - can acquire shared value by becoming a “space of possibilities”. The absence allows for change, as demonstrated in the chapter The time of the landscape, written by Lia Fedele. The void becomes a connective system between territories and cities; the void is the geography that crosses the rural and natural environments, the drosscape, the “folds of the city” in the fringe areas, the micro fragments more internal to the settlements. The landscape dimension allows us to think in a trans-scalar way, introjecting the theme of time in order to know the natural evolutions and the development possibilities of the territories. This approach crosses new points of view through Stefano D’Armento's writing, The void that will be. This chapter interprets demographic decline and abandonment as destinies that can be accepted without regret, avoiding "tout court" and "at all costs" enhancement, to optimize energy towards assets that certainly deserve regeneration projects. Another theme addressed in the dossier concerns the project in the empty spaces generated by traumatic events. The void for the survival is the title of the short essay written by Amedeo Minischetti, which takes us overseas, to think on the reconstruction of cities hit by climatic disasters. In Costitución (Chile), in New Orleans (USA) and in San Juan (Puerto Rico), the void produced by unexpected events updates the geography of places and suspends the present, opening "space-time faults" where it becomes difficult to keep your orientation. Minischetti invites us to think about the project as a device capable of building a new, necessary and safe urbanity: reconstruction in the void is a useful tool to overcome the trauma, to heal the wound, to preserve and project the memory toward the future. This concept is also supported by Massimo Mucci in the chapter In-between reconstruction. The author addresses the issue of building emblematic war and holocaust memorials: the thought brings out common and recurring aesthetic practices and architectural composition strategies, which favor an easier usability of the city. This reasoning meets some similarities with the reconversion project of a building for commercial use in Piazza Garibaldi in Treviglio. This project by Francesco Venezia is described by Gianluca Sortino in the text On the ground or to the sky, to emphasize that the void can contribute to defining new urban crossings, unexpected meeting points and views of the surroundings. This thought embraces the virtual dimension in the article that closes the dossier - The crisis into the void – text written by Mickeal M. Borlini, Kevin Santus, Stefano Sartorio and Arianna L. N. Scaioli. The pandemic impels us to imagine a new urban grammar, to rebalance the relationships between full and empty, between the private and public spheres, between the individual and the community. the virtual / digital dimension is giving useful but not sufficient answers, trought this new syntax: we need to return as soon as possible to physically inhabit the space outside, the empty space that currently surrounds us, deprived of the most authentic sense of be city architecture.*
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VUOTO
OFFICINA* N.32 Territorio tarmato. Andrea Visioli
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Evelyn Leveghi Relational designer e ricercatrice indipendente (Urban&Food Studies). evelyn.leveghi@gmail.com
Vibrant urban osmosis
01. Rucksack-House, 2004. Stefan Eberstadt, sito web “Life at home”, sezione “Perspektiven”
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VUOTO
Nuove forme di vivibilità e welfare per abitare la città contemporanea Vibrant urban osmosis An original urban metabolism is defining the contemporary city: countless practices of spontaneous reappropriation of urban voids are regenerating the interstices of the city, in an extraordinarily effective and widespread way. The results seem as the combined action of acupuncture and kintsugi, revitalizing and redefining urban folds. Flows, exchanges and new practices are giving vital oxygen to common urban living, positively affecting livability. This phenomenon offers an important lesson to Urban Design, suggesting latent needs and new methods.*
irst life, then spaces, then buildings. The other way around never works.” Questo claim, pronunciato sovente e con fermezza da uno dei massimi esperti al mondo di Urban Design, Jan Gehl, racchiude efficacemente l’essenza delle lezioni apprese sul rapporto città-società, tratte soprattutto da un’intensa attività di progetto nella città postmoderna. In seguito al riconoscimento dei limiti del piano urbanistico¹ si è resa necessaria una profonda riformulazione metodologica e strategica degli interventi nei tessuti urbani e un vivace dibattito è nato in seno alla disciplina urbanistica e architettonica, in particolar modo per quanto riguarda la rigenerazione e progettazione dello spazio pubblico. Sul finire del secolo scorso, una fitta schiera di progettisti si è risvegliata all’urgenza di una più attenta osservazione e comprensione delle dinamiche sociali site-specific che si dipanano negli spazi aperti della metropoli informale. In estrema sintesi, si era reso fondamentale leggere bene per scrivere meglio (Bianchetti, 2003). Lo sviluppo interdisciplinare, che ha dato vita agli Urban Studies², ha offerto una consapevolezza più profonda circa le ricadute psico-sociali delle azioni progettuali e, di riflesso, ha consentito di rimettere in discussione l’approccio top-down. È così che, a cavallo tra i due secoli, lo strumento del masterplan si è progressivamente rimodellato sulla scorta delle più virtuose esperienze di progettazione partecipata³; le politiche urbane hanno — in molteplici occasioni — attivato le cosiddette “buone pratiche”, imparando a sintonizzarsi sulla frequenza delle nuove forme di governance (Paba, 2010); molti architetti e urbanisti hanno potuto trarre preziose suggestioni fornite dalla crescente innovazione sociale, anche grazie a un approccio riflessivo (Manzini, 2015; Amendola, 2009). In tale cornice si inserisce il presente scritto, il quale nasce da una più ampia ricerca dedicata alla vivibilità urbana nella città contemporanea. Particolare attenzione è posta al ruolo rivestito dallo spazio aperto, pubblico, nella definizione qualitativa dell’abitare. Le coordinate di riferimento
Un inedito metabolismo connota la città contemporanea d’oggi: innumerevoli pratiche di riappropriazione spontanea dei vuoti urbani stanno rigenerando gli interstizi della città, in maniera straordinariamente efficace e diffusa. Gli esiti appaiono come l’azione sinergica di agopuntura e kintsugi a rivitalizzare e risignificare le pieghe della città. Flussi, scambi e nuove pratiche fungono da ossigenazioni al vivere urbano condiviso, incidendo positivamente sul livello di vivibilità. Questo fenomeno offre un’importante lezione al progetto urbanistico, suggerendo bisogni latenti e modalità nuove.*
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02. Das Küchenmonument, Raumlabor Berlin, Duisbourg, 2006. Marco Canevacci, AMC Architecture
sono state scelte, su un piano spaziale, negli insediamenti urbani europei con più di 500.000 abitanti e, su un piano temporale, le prime due decadi del XXI secolo. Scopo principale dell’articolo è mettere in luce le potenzialità de-
A partire dalla domanda di conoscenza, formulata attorno alla ricerca di una maggiore appropriatezza delle strategie progettuali attuabili nel presente, al fine di incrementare il welfare urbano e la vivibilità nelle città, è stata condotta un’ampia osservazione e lettura fenomenologica, sistematicamente posta in relazione con la valutazione di teorie e modelli (delle scienze sociali e delle discipline progettuali, in concerto). Inoltre, le valutazioni ex-post di 20 casi studio, collezionati in un osservatorio urbano digitale congiuntamente ad alcune sperimentazioni condotte on/off-line in un brano urbano milanese⁴, hanno consentito di trarre delle riflessioni generali e un buon numero di evidenze multilivello e transcalari. Si tratta di un lavoro eminentemente di Design Research in cui l’indagine teorica multidisciplinare è stata costantemente messa in relazione dialogica con la ricerca sul campo.
I vuoti si offrono come pieghe fertili della città, come essenza dello spazio pubblico gli “intervalli” della città, gli interstizi urbani (img. 02). Più precisamente si intende evidenziare la valenza socio-politica e la capacità progettuale bottom-up rivelata negli usi spontanei temporanei che hanno luogo negli spazi aperti “di risulta” della città costruita, quelle pratiche che hanno saputo rivitalizzarli e — infine — rigenerarli (Di Giovanni, 2018; Clemente, 2010; Moccia 2009; Haydn, Temel, 2006). L’approccio adottato è quello olistico e trandisciplinare, tipico del relativismo descrittivo.
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Dai primi anni Duemila innumerevoli movimenti “dal basso” sono emersi, come una nuova forza urbana, straordinariamente vitale, accomunati dalla necessità e volontà di riconquistare e rigenerare gli spazi aperti collettivi, considerati — a ragion d’essere — prezioso bene comune (img. 04). Questo fronte si è mostrato frequentemente in antitesi rispetto ai tratti del government, piuttosto impermeabile e sordo alle richieste della governance, traducendosi in prassi tramite progetti predeterminati, non realmente partecipativi5. Pertanto, una serie di tensioni di segno opposto fa da sfondo al campo di forze esistente tra il sistema materiale e il sistema sociale della città. Per secoli rimasto stabile, tale rapporto è — ad oggi — ricco di conflitti e asincronie ma denso di nuove sinergie e propulsioni. La città contemporanea si presenta come un ecosistema complesso in cui il tema del benessere individuale e collettivo assume un ruolo cruciale. L’interesse al tema della qualità della vita emerse quando le promesse di sviluppo e benessere della società capitalistica, del libero mercato e della crescita industriale, rivelarono ingenti “effetti collaterali”6. La sintesi e la mediazione tra i filoni di ricerca qualitativa (sociale, di sviluppo sostenibile e di qualità della vita) hanno dato esito all’elaborazione del concetto che si è fatto esso stesso obiettivo: la qualità urbana. In rapporto alle peculiari condizioni delle città europee, alle cicatrici sociali e urbane, è divenuto sempre più urgente il richiamo ai requisiti qualitativi — oggettivi e soggettivi — del vivere e dell’abitare collettivo. Sebbene studiosi ed esperti afferenti a distinti ambiti disciplinari abbiano sinergicamente lavorato per avviare un cantiere culturale, atto a delineare i più idonei interventi sulla città, e nonostante una decisa “democratizzazione del planning” — come affermava Yona Friedman — la pratica progettuale non ha segnato sostanziali mutamenti e progressi a raffronto della situazione di stallo precedente. Il fenomeno della riappropriazione spontanea dei vuoti urbani costituisce un nuovo e straordinario impulso emerso
03. Asphalt Oasis, 72 Hours Urban Action, Stoccarda, 2012. Mor Arkadir, ArchDaily 04. Bodies in urban spaces, Willi Dorner, 2014. Lisa Rastl, Public Delivery
proprio dalle criticità sin qui descritte. Un ricco ventaglio di pratiche informali sta tuttora rivitalizzando le “smagliature” della città costruita, quei vuoti risultanti da un secolo di dismissioni industriali, devastanti bombardamenti e disastrosi eventi naturali (Ferretti, 2009). Queste nuove prassi autonome pervadono gli spazi irrisolti delle maglie urbane, leggendo, interpretando e riscrivendo in maniera leggera, reversibile e — per questo — innovativa, la disponibilità del vuoto. “La fruizione attiva dello spazio urbano ne risignifica gli spazi” (Martello, 2010, p. 40). Si tratta di pratiche socia-
Usi e ri-usi temporanei e informali che agiscono come un’agopuntura urbana
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li, sport urbani, playgrounds, tattiche di resistenza di corpi plurali, auto-organizzati (Paba, 2010) che ridefiniscono e risignificano gli spazi tracciando un’inedita semantica ur-
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05. Cinemar, Collectif Etc, Trafaria, 2018. ©Collectif Etc
bana (Clemente, 2010) (img. 03). Tali pratiche (di)mostrano un’ampia palette di funzioni possibili che sanno interagire con una costellazione di spazi che si presentavano come anonimi, dismessi, inconclusi, degradati. “Gli scarti della città si offrono come osservatori privilegiati delle trasformazioni urbane latenti che mutano in profondità le relazioni simboliche e materiali fra uomini e territorio, ma anche come rara occasione per riscoprire e rifondare le implicazioni etiche dell’abitare” (Sennet, 1999). Di grande interesse è la portata virale di questa ondata di rigenerazione urbana “dal basso”. Usi e ri-usi temporanei e informali sono proliferati in tutto il globo e agiscono come un’agopuntura urbana, fornendo un’importante lezione progettuale (Moccia, 2009, p. 77). Gli esiti osservabili dichiarano la reale possibilità di una configurazione fluida degli spazi collettivi e, a chi scrive, questa pare assumere le connotazioni tipiche dei concetti “open content” e “a memoria di forma”, mutuabili dai contesti dell’hi-tech. La lectio della Convertible City berlinese7 proposta al grande pubblico nel 2006 in occasione
es un solar” a Saragozza, “Küchenmonument” (unità multifunzionale itinerante), “Passage 56” a Parigi (img. 05), “Place au changement” a Saint-Etienne. Si tratta di progetti realizzati che hanno declinato il placemaking8 e il Tactical Urbanism, ovvero quelle forme di progettazione partecipata9 che pongono i cittadini come elemento pivotale, le loro conoscenze dirette dei luoghi e le competenze (latenti). Questa posizione riconosce in loro i veri esperti del territorio; essi non sono più visti come meri soggetti da (dover) consultare, bensì come attori fondamentali da coinvolgere attivamente e rendere protagonisti in tutte le fasi che portano alle trasformazioni dei luoghi in cui vivono. Volendo trarre da questi riferimenti delle linee guida utili, è bene evidenziarne gli aspetti cruciali: accurata analisi delle dinamiche attuali; ascolto attivo dei bisogni locali; attenta ricognizione e impiego delle risorse umane e materiali disponibili; magistrale gestione delle varie fasi del processo partecipativo; alto grado di sperimentazione; low-budget; basso rischio; alta reversibilità e adattabilità; progressione graduale e leggera degli interventi fisici; riduzione del consumo di suolo; attuazione e feedback sul breve termine con possibilità di trasformare gli elementi di successo in dispositivi permanenti. Le nuove pratiche, connotate da un’eccezionale libertà operativa e insediativa, oltre a costituire pervicaci dichiarazioni delle comunità urbane e preziose ossigenazioni al vivere urbano condiviso, sono altresì elementi essenziali per il progetto. Ciò è di fondamentale importanza sia perché un tale metabolismo urbano contribuisce sensibilmente al genius loci e lo qualifica profondamente, sia perché definisce una preziosa traccia d’azione progettuale basata su bisogni sociali reali (manifestati) e potenzialità insite del luogo (dispiegate). Le direttrici osservabili possono essere lette come l’esito della convergenza tra una precipua affordance dei vuoti urbani e un capitale sociale site-specific non più silente. Un simile atteg-
La vivibilità urbana pare misurarsi oggi con questo aspetto di libertà operativa e insediativa della X Biennale di Architettura di Venezia, ha dato una prova tangibile dell’efficacia di questo approccio e modus operandi. Una città reversibile, sperimentale, adattiva, interagente con le multiformi esigenze della popolazione che la attraversa, la vive, la scrive nel dispiegamento delle funzioni sociali e culturali (oltre che produttive ed economiche). Una città humancentered, inclusiva, multiversa. Un’utopia? Sì, ma realizzabile: un riscontro concreto è fornito da numerosi casi studio virtuosi che hanno saputo declinare pragmaticamente i principi sopracitati. Per menzionarne alcuni: “72 Hours Urban Action” (workshop di architettura rigenerativa, itinerante), “Esto no
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06, 07. Passage 56, Atelier d’Architecture Autogérée, Paris. ©AAA-Atelier d’Architecture Autogérée, urbantactics.org di AAA
giamento progettuale, che trae forza e ispirazione da questi flussi, scambi e usi, incontra inoltre una maggiore apertura alla cooperazione, sia da parte delle comunità locali sia delle istituzioni (un terreno fecondo per iniziative in partenariato). Nello scenario che si offre all’esperienza dello spazio collettivo odierno, possiamo rilevare come i vuoti urbani abbiano acquisito un progressivo significato e valore. Si presentano ora come fertili pieghe della città ed essenza dello spazio pubblico contemporaneo: democratico, flessibile, riscrivibile, liberamente fruibile. La presenza di tali vuoti non volumizzati — se non dalle relazioni sociali — si è resa cruciale per garantire la vivibilità urbana. Bernardo Secchi evidenziava come le aree dismesse sono rappresentative di un’asimmetria vitale e che la deriva funzionalista rischia di sovrascrivere quei luoghi individuando una mera nuova funzione e volumetria10. A integrazione degli insegnamenti tratti dalle più virtuose prassi, si riportano quattro nozioni particolarmente significative: la teoria dell’Architettura a Zero Cubatura di Aldo Aymonino (Aymonino, Mosco, 2006), il binomio concettuale “interni come esterni” ed “esterni come interni” di Andrea Branzi, il “progetto di suolo” di Bernardo Secchi e il principio di open interiors di Andrea Di Giovanni. Pur con sfumature differenti, questi concetti si pongono al mondo del progetto come un insieme di strumenti speculativi squisitamente appropriati alle esigenze attuali. Permettono di indirizzare fattualmente una permeabilità reversibile e orizzontale tra costruito e vuoto, tra interno ed esterno. Offrono nuove suggestioni per individuare una morfologia adatta all’entità fluida, dinamica e adattiva per il vivere collettivo immerso in una crisi multilivello (ambientale, sanitaria e sociale). Il progetto della città oggi non può prescindere dai criteri di snella trasformabilità e di potenzialità performativa, ciò che Bourdieu definiva “spazio dei possibili”. L’abitare condiviso necessita perciò di un cambio di paradigma, una maggiore porosità tra la dimensione domestica e le plurime forme dell’urbano, del territorio e del paesaggio11.*
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NOTE 1 – Sul tema si suggeriscono due contributi di Vittorio Gregotti: “La città europea del XXI secolo: Lezioni di storia urbana”, Skira 2002, unitamente a “Eredità e crisi del progetto moderno”, redatto per l’Università Iuav di Venezia. 2 – Per approfondire si consiglia di consultare “Tracce urbane”, Italian Journal of Urban Studies. 3 – Sul tema si suggerisce “Progettualità dell’agire urbano: processi e pratiche urbane”, a cura di C. Cellamare (2011). 4 – Il materiale è in gran parte consultabile sulla piattaforma “The Urban Observatory”. 5 – Rif. alla scala di partecipazione elaborata da Sherry Arnstein nel 1969. 6 – Cfr. Di Franco, G. (1989), “Qualità della vita: dai modelli alle ricerche empiriche” in S. Vergati, “Dimensioni sociali e territoriali della qualità della vita”, La Goliardica, Roma. 7 – Circa tale esperienza si suggerisce di consultare la sezione progetti del sito dedicato (convertiblecity.de). 8 – Per approfondire il concetto di placemarketing si veda La filosofia del placemaking. Spazi pubblici a misura di cittadino di Giuseppe Mimmo (2011) disponibile su: https://bit. ly/3mDCLdZ (ultima consultazione novembre 2020). 9 – Un esempio di progettazione partecipata è R-URBAN: PRATIQUES ET RÉSEAUX DE RÉSILIENCE URBAINE: http://r-urban.net (ultima consultazione novembre 2020). 10 – Numerosi sono i contributi di Bernardo Secchi sul tema, tra essi si suggerisce il saggio “La città del ventesimo secolo” (2005). 11 – In merito si ritiene importante menzionare l’articolo “Un’architettura sfumata” scritto da Cristina Bianchetti per Domusweb (2006). BIBLIOGRAFIA – Amendola, G. (2009). Il progettista riflessivo: Scienze sociali e progettazione architettonica. Milano: Laterza. – Aymonino, A., Mosco, V. P. (2006). Spazi pubblici contemporanei: architettura a volume zero. Milano: Skira. – Bianchetti, C. (2003). Abitare la città contemporanea. Milano: Skira. – Clemente, M. C. (2010). Il progetto dello spazio pubblico. DIID, n. 44. Roma: Rdesignpress, pp. 14-23. – Di Giovanni, A. (2018). Vuoti urbani come risorsa per lo spazio pubblico contemporaneo. Planum, n. 37, vol. II/2018, pp. 1-28. – Ferretti, A. (2009). Scarti urbani e bisogno di ordine nella città. UniRoma. – Haydn, F., Temel, R. (2006). Temporary Urban Spaces. Basel: Birkhäuser. – Manzini, E. (2015). Design, When Everybody Designs: An Introduction to Design for Social Innovation. Cambridge MA: MIT Press. – Martello, P. (2010). Panorami urbani on-offline. DIID, n.45. Roma: Rdesignpress, pp. 40-49. – Moccia, M. (2009). Il virus dell’informale: la rigenerazione urbana a partire dal web 2.0. On&Off Magazine, n. 31-32. Roma: nITroSaggio, pp. 75-77. – Paba, G. (2010). Corpi urbani: differenze, interazioni, politiche. Milano: Franco Angeli. – Sennett, R. (1999). Usi del disordine: identità personale e vita nella metropoli. AnconaMilano: Costa & Nolan.
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Stefano D'Armento Dottorando in Urban Planning, Design and Policy, DAStU, Politecnico di Milano. stefano.darmento@polimi.it
Il vuoto che verrà
01.Un nuovo quartiere a Monte Sant'Angelo, Puglia, paese in rapida decrescita demografica. A newly built district in a quickly depopulating village, Monte Sant'Angelo, Southern Italy. Stefano D'Armento
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Gestire il vuoto creato dalla prossima decrescita demografica invece di inseguire il mito della rigenerazione The void that will be The territorial policies and public debate for lagging depopulating areas, not only in Italy, are still mainly demographic growth oriented. However, considering the current trends and the demographic prospects it is probable that many of these areas will keep losing population. Part of the scientific literature and some international examples show how we can deal with these processes, manage them and work with a qualitative rather than quantitative revitalization and instead of unsuccessfully contrasting processes sometime unavoidable.* Le politiche territoriali e il dibattito pubblico, non solo italiani, tendono a stigmatizzare i processi di spopolamento e abbandono in corso in alcune aree e stimolare, senza successo, la crescita demografica. Secondo le attuali previsioni molte di queste zone vedranno continuare i fenomeni di decrescita e abbandono. Una parte della letteratura scientifica e alcuni esempi internazionali mostrano invece strade alternative per accompagnare i processi o rivitalizzare i territori qualitativamente, senza cercare di contrastare, senza successo e sprecando risorse, processi spesso inevitabili.*
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olti paesi sviluppati, tra cui l'Italia (ISTAT, 2018), sono entrati o si apprestano a entrare in una fase di transizione demografica, che li porterà nei prossimi decenni e prima della fine del secolo a una decrescita della popolazione totale. I tassi di natalità sono infatti sotto alla soglia di sostituzione in tutti i paesi sviluppati, dove la crescita demografica resta legata esclusivamente a flussi migratori. Questo processo di contrazione, che già interessa quelle che sono definite aree interne, rurali e periferiche, andrà man mano a toccare molte città e aree urbane in tutta Europa, che sarà sempre più fatta da isole in crescita in un mare in contrazione (Hospers e Reverda, 2015). Nonostante i caratteri imprevedibili della demografia, legati soprattutto agli aspetti migratori, lo spopolamento nei paesi occidentali è un fenomeno con cui dovremo molto probabilmente convivere nei prossimi decenni. A questa nuova condizione un documento di ricerca ESPON (2017) individua tre possibili strategie: –– La strategia conservativa. Sia nel dibattito pubblico che nelle politiche territoriali, i fenomeni di contrazione, spopolamento e abbandono, vengono visti come inerentemente e totalmente negativi, da invertire, e le soluzioni che vengono previste sono solitamente orientate alla ricerca di metodi di contrasto e inversione per fare in modo che la popolazione torni a crescere; –– La non azione. Lasciare che gli eventi continuino il loro corso senza intervenire in forma intenzionale (non si prevedono interventi) o non intenzionale (sono previsti interventi ma non vengono attuati); –– L'opzione radicale, o cambio di paradigma. Accompagnare e gestire i fenomeni di decrescita demografica e abbandono, non con l'obiettivo di invertirli ma in modo da mantenere o creare delle buone condizioni di vita per una comunità numericamente ridotta. Questo contributo, nel sostenere la via del cambio di paradigma, vuole illustrare i pensieri di una selezione di
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02. Il nuovo borgo di Craco, costruito dopo la frana e l'abbandono di quello antico negli anni 1960. Anche questo è già ampiamente abbandonato. The new village of Craco, built after the landslide that destroyed the ancient village in the 1960s. Nowadays also the new settlement is largely abandoned. Stefano D'Armento
autori, alcuni molto citati nel dibattito sulle aree interne italiane, che hanno invece anche espresso opinioni spesso passate in secondo piano a riguardo della strategia generale da seguire. Si propongono anche delle visioni internazionali particolarmente significative provenienti da Giappone e Spagna, molto toccati dai fenomeni di spopolamento e contrazione. Visioni e strategie per un cambio di paradigma La questione della contrazione, del ridimensionamento, della produzione di vuoti e di come gestirli ha conosciuto una certa popolarità soprattutto in ambito urbano con gli atlanti delle città in contrazione di Oswalt (2005, 2006).
samente di riempire tutti i vuoti che si creano alla fine dei cicli storici di occupazione e utilizzo (Olmo, 1990). Nello specifico, il ciclo in questione è quello che corrisponde a un “faticoso processo di colonizzazione di aree marginali e di diffusione di insediamenti rurali (prevalentemente in piccoli nuclei) che sotto una drammatica fame di terra aveva trovato il suo culmine tra la metà del Settecento e la fine dell’Ottocento”; ormai alla fine di questo ciclo, molte aree sono sulla strada per diventare “ruderi di una passata vicenda di antropizzazione” (Lanzani, 2003, p. 118) e molte di esse non vedranno una nuova crescita. Ciò non è necessariamente un male: la contrazione e il ridimensionamento sono infatti un'occasione per lavorare su quelli che, percepiti come vuoti, sono innanzitutto dei paesaggi, spesso devastati da un surplus edilizio incoerente, paesaggi nei quali è necessario capire come agire anche nell'eventualità che non sia possibile mantenervi una presenza umana stabile. Un contributo fondamentale sul tema a livello internazionale è quello di Lynch (1992), che nel suo saggio argomenta l'importanza e la necessità di gestire il declino, inteso come spopolamento e svuotamento e fase ineludibile della storia dei luoghi, nella pianificazione territoriale. Lynch si dimostra molto critico sulle politiche tradizionali di inversione demografica, che trattano il declino locale come una malattia e agiscono normalmente troppo tardi rivelandosi inefficaci quando non addirittura dannose. Dichiarandosi contrario agli incentivi diretti per popolare o restare in certi luoghi afferma che sarebbe più utile incentivare la mobilità verso aree più prospere e rimarca invece la necessità di investire nella bellezza e nella riqualificazione dei luoghi. Alla fine di un ciclo, il ridimensionamento demografico può portare a un nuovo equilibrio, da cui è anche possibile che in un imprevedibile futuro si creino condizioni per una nuova crescita. Nuove condizioni possono generarsi anche attraverso la
Accompagnare e gestire i fenomeni di decrescita demografica e abbandono Tuttavia i fenomeni di contrazione, svuotamento, abbandono e spopolamento investono ampi territori rurali, periferici, ma anche intermedi. Significativamente, già RossiDoria (1958), molto citato nel dibattito sulle aree interne italiane, non vedeva l'abbandono delle aree rurali come qualcosa di negativo di per sé, anzi auspicava il ridimensionamento di molte di esse e addirittura la completa evacuazione di quelle caratterizzate da un eccessivo rischio idrogeologico (ad esempio l'Aspromonte), dove istituire un demanio forestale. Nella visione di Rossi-Doria questi processi andavano però gestiti, non lasciati avvenire autonomamente e disordinatamente, come poi è effettivamente accaduto. Secchi (1987, p. 16) ammoniva che “nei prossimi decenni la riduzione del territorio coltivato continuerà a un ritmo sensibile [...] e si aprirà un vuoto davanti al quale l’urbanista non saprà cosa dire” che è quanto si è puntualmente verificato. Questa mancanza di risposte e idee sfocia usualmente nel mito della rigenerazione, che ricerca affanno-
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03. I ruderi del borgo abbandonato di Craco, Basilicata, oggi museo a cielo aperto e meta turistica.The ruins of the abandoned village of Craco, Southern Italy, today tourist destination as an open-air museum. Stefano D'Armento
stessa facilitazione della mobilità tra luoghi. Dice Camanni (2016, p. 224) che “le persone si spostano più frequentemente delle palline del flipper, nessuno è più condannato a vivere dove viene al mondo, semmai a partire, sperimentare e scegliere”; se da un lato questo movimento rende più rapidi i processi di svuotamento di alcune aree, dall'altro genera interessanti dinamiche opposte. Fenomeni di multiresidenzialità, forme di abitare temporaneo e intermittente, una maggior facilità nello spostarsi, possono portare allo stanziamento di nuovi abitanti in luoghi in spopolamento ed essere alla base della rinascita di alcune selezionate località. Anche l'antropologo Teti (2017), molto presente nel discorso sulle aree interne grazie ai suoi studi e narrazioni sui processi di abbandono, conferma l'ineluttabilità di alcuni di questi e della necessità di accettarli, mettendo in guardia sullo spreco di risorse
e sui danni dell'insistenza nel perpetrare forme di riattivazione piuttosto che gestire la contrazione. Lo sviluppo futuro, in molti luoghi, non significa recuperare il passato e, a causa di dinamiche socio-economiche e condizioni geografiche, alcuni luoghi saranno destinati a divenire musei a cielo aperto, o semplicemente riconquistati dalla natura. Accettando l'inevitabilità dello svuotamento di alcune aree in Giappone, paese dove la decrescita demografica
Il paesaggio, anche degli insediamenti umani, è un palinsesto continuamente riscritto e rimodellato
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generale e lo spopolamento rurale sono già in stato avanzato, e dopo ripetuti fallimenti di diverse politiche di inversione, Masuda (2014) ha proposto la teoria delle linee
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04. Campagne abbandonate in Basilicata. Abandoned rural areas in Southern Italy. Stefano D'Armento
difensive, che consiste nel rafforzamento, concentrazione e incremento dei servizi e delle infrastrutture, in quei centri a ridosso delle aree periferiche dove è possibile perseguire una stabilizzazione demografica e invece gestire lo spopolamento e la progressiva rinaturalizzazione delle aree più lontane, dove i villaggi perseguono strategie di cosiddetto spopolamento creativo, puntando a una rivitalizzazione qualitativa invece che quantitativa in termini demografici. Il diverso obiettivo finale non implica l'abbandono di strategie di attrazione, come stimoli al lavoro da remoto e alla multiresidenzialità, ma orienta queste strategie all'accompagnamento e alla mitigazione degli effetti
qualitativo e quantitativo nella pianificazione urbana, e “Riabitare l'Italia” (De Rossi, 2018), specifico sulle aree periferiche e rurali e nel quale diversi contributi si soffermano sulla necessità di una selezione degli spazi, di disaccoppiare crescita quantitativa e qualitativa e di slegare lo sviluppo e la rivitalizzazione dei territori dalla questione demografica. Riflessioni conclusive Nell'articolo vengono messe in evidenza posizioni e pensieri di autori che hanno affrontato il tema del progressivo svuotamento causato dallo spopolamento in modo critico e non concorde a quella che è l'attuale visione prevalente, che lo vede come un fenomeno da combattere e invertire a ogni costo in una sorta di battaglia per la sopravvivenza. Certamente alcune aree potranno conoscere in futuro nuove fasi di inaspettato sviluppo. I continui cambiamenti della società possono portare a cambiare la considerazione di alcune caratteristiche che ora vengono considerate come ostative allo sviluppo, trasformandole in risorse, come fu ad esempio la neve nelle aree di montagna dove poi, grazie ad essa, si è sviluppato un florido turismo. Tuttavia, è necessario fronteggiare la probabilità che larghe porzioni di territorio vengano progressivamente parzialmente o interamente abbandonate, magari restituite alla natura, o utilizzate come territori prevalentemente turistici con una quota minima di popolazione residente in modo permanente. La “rivalorizzazione non comporta necessariamente variazioni demografiche” (Cencini, 1983, p. 87) e il paesaggio, anche degli insediamenti umani, è un palinsesto continuamente riscritto e rimodellato. La contrazione non significa che un'area è condannata al fallimento ma può invece offrire l'opportunità per una rivitalizzazione delle economie locali, per una maggiore partecipazione della comunità e
Alcuni luoghi saranno destinati a divenire musei a cielo aperto, o riconquistati dalla natura dello spopolamento, anche promuovendo azioni di demolizione, diradamento e rinaturalizzazione, e un progressivo ridimensionamento fisico dei centri (Yoshimoto, 2017). In modo simile, in Spagna, alle prese con il continuo svuotamento delle vaste aree tra la capitale e le coste, Sáez (2018), che tramite il gruppo di ricerca della Cattedra di Spopolamento e Creatività dell'Università di Saragozza ha attivato, nelle aree rurali dell'Aragona, scambi studenteschi e tirocini per rafforzare le relazioni tra aree metropolitane e periferiche, invita a disaccoppiare spopolamento da abbandono: la decrescita demografica, sebbene difficile da accettare, non deve essere percepita come inerentemente negativa ma può essere gestita, portando avanti dei processi di rivitalizzazione delle comunità, accompagnandole verso dimensioni più ridotte. Infine, vale la pena menzionare i volumi collettivi “Urbanistica per una diversa crescita” (Russo, 2014), in cui viene sviluppato il concetto di disaccoppiamento di sviluppo
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05. Il villaggio di Dasile, Lombardia. Completamente abbandonato perché non raggiunto da strade carrabili, oggi meta di escursionisti e in parte recuperato per seconde case. Dasile, Alps. Completely abandoned by its inhabitants because accessible only through senders, nowadays hosts second homes and hikers. Schoella (https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Dasile_-_panoramio.jpg)
per la creazione di luoghi più vivibili e di uno sviluppo più sostenibile (Wiechmann, 2012). Le possibilità che si aprono sono molteplici: la rinaturalizzazione; la demolizione selettiva e il diradamento dei centri abitati, agendo sul vastissimo surplus edilizio di scarso o nessun valore, eredità delle fasi di espansione e speculazione degli scorsi decenni; l'attrazione di flussi di popolazioni multiresidenziali e turistiche, che possono contribuire al riutilizzo e alla riattivazione di selezionate parti di territorio. La gestione deve avvenire tramite piani di area vasta che superino i campanilismi municipali, organizzati per scenari che tengano conto di possibili contrazioni ed espansioni. Nel quadro pianificatorio italiano già esistono strumenti potenzialmente adatti e capaci di riconoscere, governare e accompagnare tali fenomeni, come i Piani Territoriali Regionali (PTR) e i Piani Territoriali di Coordinamento Provinciali (PTCP), con la possibilità di sviluppare anche piani su specifiche sottoaree del territorio. Un valido esperimento di pianificazione per scenari fu, ad esempio, quello del piano del Salento (Viganò, 2001), seppur ancora basato sulla prospettiva di una continua crescita demografica; strategie simili potrebbero essere applicate anche includendo le prospettive di contrazione. Tuttavia per permettere l'efficacia di tali piani territoriali, il ruolo dei singoli comuni nel definire le proprie prospettive demografiche va necessariamente ridimensionato e subordinato agli strumenti di area vasta. Bisogna cambiare il paradigma, senza pregiudizi: “Non è più il tempo della promozione e valorizzazione tout court, ma di scelta dei luoghi e delle opportunità” (Polci, 2015, p. 16). Le politiche non si devono affannare nella ricerca di un modo in cui riempire i vuoti, ma accettare, adattarsi e lavorare con il cambiamento; domandarsi non come portare nuovi abitanti nei luoghi ma come portarvi qualità dell'abitare; selezionare dove sostenere un possibile sviluppo e ragionare su come gestire il vuoto che verrà.*
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Amedeo Minischetti Dottore in Architettura e membro del gruppo di ricerca dell’Osservatorio Paesaggi Costieri Italiani. am.minischetti@gmail.com
Il vuoto per la sopravvivenza
01. Constitución, Cile: stato d’avanzamento dell’installazione della foresta prevista dallo studio Elemental. Constitución, Chile: the progress of the installation of the forest conceived by Elemental studio. architectmagazine.com - Felipe Dìaz
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Nuovi significati spaziali nelle aree post catastrofe The void for the survival The contribution thinks about the void project for the reconstruction process for the cities victims of the force of nature. Examples of plans and projects are illustrated, developed on the basis of scientific data and an accurate reading of the territory, showing the potential of the void left by catastrophic events, and which today become an example in the international context. Giving shape to the void allows to recompose the identity ties between communities and places, and at the same time, prepare them for future transformations.* Il contributo ragiona sul progetto del vuoto nel processo di ricostruzione nelle città colpite dall’impeto della natura. Si illustrano alcuni esempi di piani e progetti, elaborati sulla base di dati scientifici e di un’accurata lettura del territorio, da cui emerge la potenzialità del vuoto lasciato da eventi catastrofici e che, ad oggi, fanno da esempio nel quadro internazionale. Dare forma al vuoto permette di ricomporre i legami identitari tra le comunità e i luoghi, e allo stesso tempo prepararli alle trasformazioni future.*
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egli ultimi decenni, l’eccessivo e improprio consumo di suolo ha evidenziato, soprattutto in Europa, le emergenze ambientali rivendicando l’importanza di ripensare lo spazio tra le cose e i grandi vuoti in attesa di intervento. I cambiamenti climatici in atto hanno portato alla luce la vulnerabilità dei territori: il tessuto compatto delle città e la crescente impermeabilizzazione non sono adatti a gestire gli eventi metereologici estremi sempre più frequenti e i valori critici dell’innalzamento del livello del mare, aumentati a causa del riscaldamento globale. Si delinea un quadro preoccupante che mette a rischio un numero sempre maggiore di individui. Le criticità della situazione climatica tendono ad acuire e a far emergere le carenze dei sistemi di pianificazione territoriale anche nelle fasi di ricostruzione successive ai fenomeni catastrofici. In molti casi, le parti di città danneggiate – a volte distrutte – vengono integralmente ricostruite non valutando la possibilità di elaborare nuove pratiche progettuali proprio a partire dal recupero dei vuoti presenti nei tessuti urbani colpiti. Ciò rivela un’estrema rigidezza nelle dinamiche di gestione del territorio che faticano a introiettare il fattore climatico nei propri strumenti di governo, e a considerarlo come occasione per formulare nuove traiettorie di sviluppo. Sono necessarie strategie d’azione flessibili che incrocino l’approccio al progetto di suolo, trovando nel vuoto uno spazio di primaria importanza per realizzare dispositivi adattivi capaci di aumentare la “resilienza urbana” e che fungano da valvole di sfogo durante gli eventi straordinari. Inoltre, lavorare in maniera integrata, considerando al tempo stesso i caratteri fisici, le identità dei paesaggi, le stratificazioni storiche ed economiche (Mattogno, 2012) sembra rappresentare la strada più corretta per interpretare le azioni di progetto rispetto alle specificità dei contesti, secondo un approccio place-based. Il progetto implica un rapporto stretto con il contesto, determinando modalità di intervento sempre diverse che invitano a ragionare sul significato e sul ruolo che i vuoti, esistenti o causati dalle catastrofi naturali, possono assumere.
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02.San Juan, Porto Rico, area La Perla: abitazioni informali eccessivamente esposte all’acqua lungo la costa. San Juan, Puerto Rico, La Perla area: informal housing located along the coast that are overly exposed to water. Center for Puerto Rican Studies di New York
C’è ancora molto da fare nella ricerca all’adattamento e soprattutto tradurla in pratiche efficienti agendo su differenti strategie di pianificazione urbana, e avviando con maggiore frequenza processi capaci di preparare la città ad affrontare il futuro mediante piani e programmi che permettano la convivenza con i cambiamenti climatici, minimizzandone i contraccolpi e prevedendo i possibili danni (Giorgi, 2018). Il cambiamento del modello di governance che si auspica, permetterebbe di compensare gli effetti di una gestione del territorio priva di moderazione adottata nei decenni passati, caratterizzata dall’aumento di densità nei tessuti costruiti. La riduzione dei vuoti ha alterato il microclima urbano, con ripercussioni sull’aumento della temperatura, sul bilancio delle superfici radianti, sull’umidità dell’aria, sugli scambi atmosferici (Kuttler, 2008; Gisotti, 2007). Questa tendenza indica un funzionamento ecologico improprio delle città e della insufficiente risposta di reazione a eventi calamitosi (Pauleit e Breuste, 2011). Il crescente numero di pubblicazioni dedicate al tema dell’adattamento climatico nella pianificazione, testimonia una maggiore sensibilità alle problematiche descritte
Di volta in volta, il vuoto assume significati e ruoli diversi nei complessi processi di rigenerazione urbana. In Cile, nella città di Constitución, il vuoto creato dallo tsunami del 2010, è stato interpretato come una risorsa. Lo studio Elemental ha proposto un progetto che prevedesse l’impianto di una foresta lungo il fiume, per proteggere la città e rendere minimo l’impatto delle piogge (img. 01). La foresta funziona da filtro e da tamponatura tra l’acqua e la città: sono stati creati ampi spazi pubblici che aiutano il deflusso dell’acqua e che compensano l’assenza di zone ricreative in città. Il vuoto è stato preservato e ha permesso la ricucitura tra città e ambiente, diventando uno spazio capace di preparare all’imprevisto. Le reti di sorveglianza, collaborazione e solidarietà sociale si sono moltiplicate dimostrando la forza della resilienza della comunità cilena, intesa come “capacità di affrontare il cambiamento senza perdere la propria identità […] senza precludersi alle trasformazioni ma anche mantenendo salde le proprie radici” (Pelizzaro e Mezzi, 2016). New Orleans, un caso contestualmente molto differente, ha reagito alla catastrofe naturale con piani strategici a lungo termine. Sono state reintegrate diverse aree dismesse: dalle sponde dello storico canale del Lafitte Corridor alle nuove zone umide lungo il Florida Avenue Canal; sono stati potenziati anche i parchi lineari lungo il waterfront in quanto gli edifici che insistevano sui canali sono stati ricollocati altrove, dando maggior rilevanza alle potenzialità dei vuoti urbani all’interno della città. Il progetto del vuoto, in questo caso, si configura come la costruzione di una rete infrastrutturale che mira a gestire la relazione con l’acqua e a consolidare l’identità culturale della regione per incoraggiare la sua riappropriazione all’indomani del disastro. A Constitución l’intervento interessa il margine della città, a New Orleans definisce un sistema poroso che permea il tessuto costruito. In entrambi i casi, il progetto del vuoto contribuisce a ricostruire l’identità locale smarrita con l’urgenza
Il progetto “nel” e “del” vuoto è ricerca di metodologie capace di preparare le città all’inatteso e permette di avere un quadro piuttosto ampio sullo stato dell’arte. Nonostante la validità dei risultati ottenuti in molti casi virtuosi, non si tratta di modelli replicabili indistintamente in qualsiasi altro contesto. Per queste ragioni, risulta evidente l’urgenza di ripensare le aree urbane in cui viviamo, accogliendo le sfide transcalari che interessano i territori, nelle loro caratteristiche peculiari e distintive, e oggi, con più evidenza rispetto al passato, reinterpretando le fragilità come occasione per dare nuovi significati ai grandi progetti urbani (Manigrasso, 2019).
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03. Vision territoriale di progetto: la nuova Greenbelt si estende con dei corridoi ecologici intercettando diverse città colpite dall’uragano presenti lungo la ferrovia del Trén Urbano a Porto Rico. Territorial project vision: the new Greenbelt extends with ecological corridors and interacts with different cities, located along the Trén Urban, damaged by the hurricane. Amedeo Minischetti e Roberta Losciale
dell’emergenza: in altre parole, dare forma al vuoto è l’atto che permette alle comunità di ri-orientarsi dopo la crisi, e di riappropriarsi di spazi dell’abitare, consapevolmente riconsegnati a futuri possibili. Le politiche di attuazione individuate nello scenario internazionale rappresentano esempi significativi per superare l’approccio tradizionale della pianificazione urbanistica basata sull’abitudine di un eccessivo consumo di suolo, legato alle tendenze espansionistiche urbane, che rende il territorio impreparato ad accogliere eventi straordinari. Infatti se è vero che uno dei precetti importanti “per preparare l’architettura di sopravvivenza […] è l’accettazione del fatto che il futuro non è prevedibile” (Friedman, 1978) anche gli strumenti della pianificazione devono essere in grado di accettare l’imprevisto, lasciando margini di flessibilità e integrandosi a misure di mitigazione (Manigrasso 2013, 2019). Coerente a questo approccio è il progetto di tesi di laurea1 di Amedeo Minischetti – chi scrive – dal titolo Ricostruzione post-uragano a Porto Rico. Strategia di adattamento ai cambiamenti climatici. La ricerca condotta presso la University of Flo-
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rida per comprendere i reali danni causati dall'uragano Maria all’isola di Porto Rico nel 2017 ha evidenziato che l’impatto della catastrofe ha incrementato la crisi di alcuni settori aggravando le condizioni economiche delle città coinvolte. L’isola ha assistito a un notevole aumento del fenomeno migratorio, che ha lasciato un patrimonio edilizio di notevole portata: si contano oltre 300.000 case vacanti², la maggior parte delle quali sono collocate a nord dell’isola nell’area metropolitana di San Juan, in particolare a Santurce e Cataño. Le aree che hanno risentito maggiormente degli effetti della calamità sono quelle caratterizzate da un tessuto informale, in quanto i cittadini, per necessità di sopravvivenza, si sono appropriati autonomamente di aree libere mettendo in pericolo la loro sicurezza. L’avanzamento del tessuto informale in questo caso ha causato molti danni all’aspetto ambientale e l’eccessiva pressione antropica ha occluso aree naturali, aumentandone il rischio idrogeologico. Numerose aree umide sono state impropriamente occupate: l’eccessivo uso del suolo sui bacini fluviali ha prodotto condizioni limite per cui i fiumi, caratterizzati da alvei fortemente
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04. Masterplan di progetto dell’area di Santurce a San Juan, Porto Rico: la barriera collega la stazione di Sagrado Corazón con il nuovo polo universitario. Masterplan project area of Santurce in San Juan: the barrier connects the Sagrado Corazón station with the new university center. Amedeo Minischetti 05. Prospetto di progetto della nuova sede di climatologia nell’area di Santurce a San Juan. Project prospectus for the new climatology headquarters in the Santurce area of San Juan. Amedeo Minischetti
alterati e ridotti, non sono più in grado di smaltire i flussi di piena, soprattutto durante i fenomeni meteorologici estremi. Inoltre, la stratificazione urbana di San Juan, per la quale ogni parte del tessuto costruito è caratterizzata da una condizione economica differente, ha fatto sì che il fenomeno migratorio si manifestasse in modo diverso in ognuna di esse. Molte università, istituzioni, associazioni e agenzie internazionali stanno valutando come avanzare nel processo di ricostruzione per rendere l’isola di Porto Rico resiliente attraverso delle strategie di mitigazione e adattamento. Bisogna riconoscere le potenzialità del vuoto urbano, pensato non come assenza ma campo aperto, completamente disponibile, supporto e condizione necessaria per accogliere libere forme di appropriazione dello spazio (Russi, 2019). Ciò consente la ridefinizione degli spazi colpiti da fenomeni estremi e inattesi, in modo da renderli capaci di relazionarsi con il contesto, caratterizzato da un forte tasso di povertà, e innescare processi rigenerativi contaminanti. Inoltre, un approccio incompleto e inconsapevole dei problemi effettivi del ter-
ritorio potrebbe causare danni maggiori delle stesse catastrofi (Dedè, 2013). Un altro aspetto che aggrava la componente del rischio è la critica frammentazione della matrice ambientale: tra i principali effetti negativi dell’interruzione della rete ecologica sono documentati l’incremento del dissesto idrogeologico e il maggiore rischio di accadimento di eventi dannosi³. La proposta progettuale¹ riguarda una vasta area di intervento per poi declinarsi in due punti focali, le città di San Juan e Cataño. La vision territoriale prevede la realizzazione di una cintura verde (img. 03) che implementa ulteriormente le aree libere collegandole tra di loro; in questo modo, il vuoto si misura come un’infrastruttura territoriale capace di relazionarsi con l’esistente creando uno scambio continuo di benefici. La cintura verde contribuisce a rallentare l’avanzamento dell’acqua verso i centri abitati più a rischio, attuando una prima azione di mitigazione del rischio. Col tempo, la Greenbelt si estenderà attraverso ulteriori corridoi ecologici collegati direttamente alle città, potenziando la presenza del vuoto all’interno dei densi tessuti urbani.
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In risposta alle criticità ambientali, a San Juan, si ipotizza la demolizione controllata di abitazioni eccessivamente esposte al rischio, senza snaturarne la componente informale; gli abitanti verrebbero ricollocati sfruttando il patrimonio edilizio preesistente: dai grandi manufatti abbandonati, riutilizzati come centri direzionali per l’operazione e per le emergenze, alle semplici abitazioni vacanti recuperate e restituite alla comunità. L’operazione mira a estendere il vuoto presente lungo le sponde del fiume, favorendo la messa in sicurezza dei cittadini e l’integrazione sociale tra i diversi contesti dell’area, senza rinunciare al senso di comunità appartenente al vivere nell’informale. Lo spazio vuoto multifunzionale (img. 04), compreso tra due linee di sicurezza⁴, concilia le esigenze quotidiane della comunità e quelle di emergenza, accogliendo l’acqua in eccesso in caso di innalzamento estremo del fiume, dunque, mitigando i rischi (Russo, 2012). Il progetto del vuoto permea il tessuto urbano, attraverso la riqualificazione di aree degradate, lungo trasversali direttamente collegate al parco. Si ipotizza così una vera e propria trama di spazi pieni e vuoti che intercetta un ampio spazio pubblico di connessione tra due importanti testate: la stazione di Sagrado Corazón, e la nuova sede universitaria di climatologia (sede staccata del Polytechnic University of Puerto Rico) che, configurata attorno a un grande vuoto multifunzionale, supera la diversificazione sociale e che al tempo stesso si dimostra flessibile alle condizioni climatiche in mutamento e alle esigenze future della città. La gestione del vuoto porta necessariamente alla riformulazione degli intenti del progetto urbano. Lo spazio pubblico nei processi di ricostruzione e rigenerazione urbana si fa driver dei vantaggi connessi all’implementazione del vuoto, ai cobenefits sociali, economici e ambientali. Una buona strategia di adattamento mette al centro dell’agire progettuale la flessibilità, per lasciare allo spazio la possibilità di tradursi nei tanti futuri possibili. Il progetto “nel” e “del” vuoto dovuto alle calamità naturali diventa ricerca di una metodologia in grado di preparare le città all’inatteso, ricucendo faglie temporali, ovvero ricostruendo un nuovo senso di appartenenza che guardi al domani nella consapevolezza di ciò che è stato.*
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06. Schema allagamento dell’edificio di progetto nell’area di Santurce a San Juan. Flooding scheme/graphic of the project building in the Santurce area of San Juan. Amedeo Minischetti NOTE 1 – La tesi di laurea Ricostruzione post-uragano a Porto Rico. Strategia di adattamento ai cambiamenti climatici è stata svolta da Amedeo Minischetti in collaborazione a Roberta Losciale, Università degli studi G. D’Annunzio di Chieti - Pescara, dipartimento di architettura, 2020. Relatore: prof. Domenico Potenza. Correlatori: proff. Martha Kohen, Matteo di Venosa, Michele Manigrasso. 2 – Si veda il Data Center del Center for Puerto Rican Studies di New York. Il Data Center colleziona e diffonde le informazioni più aggiornate sui portoricani ritraendo aspetti socioeconomici e demografici della popolazione. Lo scopo è fornire informazioni descrittive di base a studiosi, responsabili politici e al pubblico in generale. Le fonti sono archivi disponibili pubblicamente sul sito https://centropr.hunter.cuny.edu/ (ultima consultazione marzo 2020). 3 – Si veda Rapporto Ispra 2011 Frammentazione del territorio da infrastrutture lineari. Indirizzi e buone pratiche per la prevenzione e la mitigazione degli impatti. 4 – Per “linee di sicurezza” si intende linee di delimitazione di un’area sulla quale non è più possibile costruire. BIBLIOGRAFIA – D’Ambrosio, V., Leone, M. F. (2016). Progettazione ambientale per l’adattamento al Climate Change. 1. Modelli innovativi per la produzione di conoscenza. Napoli: Clean. – Dedè, E. (2013). Il vuoto in attesa di senso. Strategia di intervento post-calamità per lo spazio pubblico dell’abitato informale. In La ricostruzione dopo una catastrofe: da spazio in attesa a spazio pubblico. Roma: INU edizioni. – Friedman, Y. (1978). L’architettura di sopravvivenza. Torino: Bollati Boringhieri. – Giorgi, F. (2018). L'uomo e la farfalla: 6 domande su cui riflettere per comprendere i cambiamenti climatici. Milano: FrancoAngeli. – Gisotti, G. (2007). Ambiente urbano. Introduzione all’ecologia urbana. Manuale per lo studio e il governo della città. Palermo: Flaccovio Dario. – Kuttler, W. (2008). The urban climate – Basic and applied Aspects. In Marzluff J.M. et al. (a cura di). Urban Ecology. An International Perspective on the Interaction Between Humans and Nature. New York: Springer, pp. 233-248. – Manigrasso, M. (2013). Città e clima. Verso una nuova cultura del progetto. Pescara: Sala Editori. – Manigrasso, M. (2019). La città adattiva. Il grado zero dell’urban design. Macerata: Quodlibet Studio. – Mattogno, C. (2012). Territori fragili. La cura come pratica di progetto. Tafterjournal, n. 50. Http://www.tafterjournal.it/2012/08/01/territori-fragili-la-cura-come-pratica-di-progetto/ (ultima consultazione marzo 2020). – Mezzi, P., Pelizzaro, P. (2016). La città resiliente. Strategie e azioni di resilienza urbana in Italia e nel mondo. Milano: Altreconomia. – Pauleit, S., Breuste, J.H. (2011). Land-Use and Surface-Cover as Urban Ecological Indicators. In Niemela J. (a cura di), Urban Ecology, patterns, processes and applications. New York: Oxford University Press Inc., pp. 19-30. – Russi, N. (2019). Background. Il progetto del vuoto. Macerata: Quodlibet Studio. – Russo, F. (2012). San Paolo si rinnova. Artribune Magazine, n. 8. Roma: Artribune, pp. 54-55.
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Gianluca Sortino Docente a contratto di Composizione architettonica e urbana, Scuola AUIC, Politecnico di Milano. gianluca.sortino@polimi.it
A terra o verso il cielo
01. Francesco Venezia, progetto per piazza Garibaldi a Treviglio, 1998: vista prospettica dal teatro all’aperto verso il santuario. F. Venezia , project for piazza Garibaldi in Treviglio, 1998: perspective view of the open-air theatre towards the sanctuary. Città di Treviglio; F. Venezia
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Vuoti urbani al riparo dell’architettura On the ground or to the sky The paper investigates the correlation between architecture and empty spaces through Francesco Venezia’s reconversion project of a commercial building in Piazza Garibaldi in Treviglio (Bergamo), an exemplary intervention of urban restoration that today would be called regeneration. It’s the renewal of an entire area of the city center, making it walkable and doubling the existing square with a theatre open to the sky and shifted on the top of the converted building.* Il contributo indaga il tema del rapporto tra architettura e vuoto attraverso il progetto di Francesco Venezia per la riconversione di un edificio a uso commerciale nella piazza Garibaldi di Treviglio (BG), un esemplare intervento di restauro urbano che oggi si direbbe di rigenerazione. Si tratta del rinnovamento di un intero comparto del centro cittadino, rendendo passante ai pedoni tutto un isolato e raddoppiando lo spazio pubblico della piazza esistente a terra, con l’invenzione di una seconda piazza, in forma di teatro pensile aperto sul cielo e traslata sulla cima dell’edificio trasformato.*
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cosa accadrà dello spazio in quanto vuoto? Troppo sovente appare solo come una lacuna. […] Senza dubbio il vuoto è in qualche modo affratellato con ciò che è più proprio del luogo e per questo motivo non è una mancanza, ma un portare allo scoperto” (Heidegger, 2000, p. 35). Vi è in questo passo, tradotto dal saggio Die Kunst und der Raum del 1969 di Martin Heidegger¹, un’idea del vuoto che evidenzia non tanto l’assenza di contenuto, quanto il predisporsi a svelarlo, a portarlo, appunto, allo scoperto. E il suo unirsi, si direbbe intimamente, a un luogo, per manifestarne il carattere più vero. È proprio dell’architettura impossessarsi dei luoghi occupandone i vuoti, ordinando e disponendo forme costruite e spazi aperti che si fondano a terra e guardano al cielo. L’atto compositivo del limitare, accordando dimensioni e distanze, prepara il vuoto all’abitare e le cose a porsi in reciproca relazione. Ogni edificio misura l’intervallo tra la terra e il cielo e, nel frapporsi, se ne appropria in parte, esibendone più concreta la presenza e sottraendoli all’esclusivo essere dati naturali o astronomici. Il progetto e la costruzione fissano gli estremi di quest’intervallo, dando forma al suo agganciarsi al suolo e frenando, verso l’alto, lo sviluppo. Attacco a terra e coronamento possono avere la consistenza di uno spazio vuoto, quando dell’edificio si fa permeabile il basamento o se, in copertura, lo si scoperchia. La condizione comune a molte città in merito al consumo di suolo e allo stato malandato di ampi settori suggerisce la necessità d’intervenire sull’esistente, riconoscendo in esso occasioni per il restauro di luoghi urbani, secondo strategie e idee interessate a volgere in positivo gli effetti di perdite, degradi e abbandoni. Interpretando, dunque, l’esistente come duplice opportunità. Per avviare metamorfosi, anziché demolire: a conferma dell’antica prassi dell’architettura che si stratifica su se stessa, utilizzando frammenti o intere parti di ciò che c’è. E per risarcire la città del suolo sottratto: erodendo da
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edifici inusati quote di volume al chiuso per disegnare spazi vuoti che, all’interno e al riparo dell’architettura, offrano inattesi punti d’incontro e di vista sull’intorno. Per quanto marginale a fronte di iniziative anche recenti di grandi capitali, il caso del rinnovamento di un edificio della centrale piazza Garibaldi di Treviglio, nella pianura bergamasca, rappresentava una di queste occasioni quando, nel 1998, l’Amministrazione comunale bandì un concorso a inviti, promuovendo di fatto un’iniziativa che oggi si definirebbe di rigenerazione urbana. Quattro gli architetti invitati: Carlo Aymonino, Giorgio Grassi, Boris Podrecca e Francesco Venezia². Quanto all’edificio, si trattava di un fabbricato a uso commerciale, “disegnato in palese discontinuità con le caratteristiche tipologiche e ambientali dell’antico nucleo su cui sorge” (Irace, 2000, p. 16). “Due le opzioni prospettate nel bando di concorso, adeguamento e riconversione o demolizione e ricostruzione” (Venezia, 1998, p. 21). Oltre all’edificio, la piazza, così com’era allora, “con la sua forma stretta e allungata, poco più di uno slargo che [...] è diventata [...] un importante elemento gerarchico del tessuto edilizio del centro storico”; con il ruolo “di delimitare da sud […] l’isolato forse più importante della struttura urbana di Treviglio, certamente il più importante per la morfologia della città antica, cioè quello che corrisponde al suo nucleo originario, il castrum vetus” (Grassi, 1998, p. 18) (img. 03). Una piazza che piazza non era, almeno fino
02. L’isolato di piazza Garibaldi e il grande magazzino ex Upim, planimetria, prospetto e sezioni: 1 grande magazzino ex Upim; 2 piazza Garibaldi; 3 piazza Manara: 4 via Galliari; 5 vicolo del teatro; 6 basilica di San Martino; 7 torre campanaria; 8 palazzo del Comune; 9 santuario della Madonna delle Lacrime. Piazza Garibaldi’s area and the ex Upim department store, planimetry, elevation and sections: 1 ex Upim department store 2 piazza Garibaldi; 3 piazza Manara; 4 via Galliari; 5 vicolo del teatro; 6 basilica di San Martino; 7 bell tower; 8 City hall building; 9 Madonna delle Lacrime sanctuary. Laboratorio di Progettazione architettonica del Corso Laurea Magistrale in Architettura, coordinato da A. Torricelli con G. Sortino – Scuola di Architettura Civile – Politecnico di Milano, 2009-11
atro verrà abbattuto negli anni Settanta e sostituito proprio dal grande magazzino Upim, oggetto del concorso, realizzato nello spazio sgombro per le demolizioni e costretto nella maglia dei palazzi della sinuosa via Galliari. Qui la cortina compatta delle case è ritmata dai grandi portoni che si aprono su androni ombrosi, oltre i quali si scorge lo spazio vuoto dei cortili porticati. L’insieme ravvicinato degli accessi lascia intuire un isolato poroso, disponibile a farsi attraversare, varcando i limiti delle facciate (img. 02). Questo tratto di via Galliari, sul lato opposto ai palazzi, s’avvia a ovest con il santuario della Madonna delle Lacrime per concludersi a est con l’edificio del Comune, che segnala lo sbocco in piazza Manara, dove svetta la torre campanaria della basilica di San Martino. Di fronte alla chiesa, lo stretto passaggio del vicolo che conduceva al Teatro, spingendosi
Attacco al suolo e coronamento posso avere negli edifici la consistenza di uno spazio vuoto al XVIII secolo occupandola il cimitero dei Disciplini e che, solo in seguito, diventa luogo pubblico — come piazza del mercato — e di rappresentanza, con il nuovo Teatro Sociale affacciato su di essa. Riconfigurato nel corso del ’900, il Te-
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03. Treviglio e l’isolato di piazza Garibaldi: 1 la piazza e il grande magazzino ex Upim; 2 il santuario della Madonna delle Lacrime visto da via Galliari; 3 il palazzo del Comune in piazza Manara; 4 la torre campanaria della basilica di San Martino vista dal vicolo del teatro; 5 i portici di via Matteotti.Treviglio and piazza Garibaldi’s area: 1 the piazza and the ex Upim department store; 2 the Madonna delle Lacrime sanctuary view from via Galliari; 3 the City hall building in piazza Manara; 4 the bell tower of the basilica di San Martino view from vicolo del teatro; 5 the porticoes of via Matteotti. Laboratorio di Progettazione architettonica del Corso di Laurea Magistrale in Architettura, coordinato da A. Torricelli con G. Sortino – Scuola di Architettura Civile – Politecnico di Milano, 2009-2011
dentro l’isolato con tracciato rettilineo e parallelo all’asse di piazza Garibaldi. Risulta evidente che “l’adeguamento architettonico di piazza Garibaldi e del fabbricato di proprietà comunale ad essa prospiciente” — questa l’intestazione del bando — incitava a un progetto che potesse tradursi in un più ampio intervento, capace di cogliere tutti gli indizi di un tessuto così denso e stratificato. E di riconoscere le emergenze già in scena, coinvolgendole in un rinnovato intreccio che ne ri-presentasse ruoli, gerarchie e valori simbolici. È lungo il processo che forma nel tempo i centri storici delle città; adeguamento e riuso di quanto permane si sommano a nuove edificazioni. Francesco Venezia lo coglie anche a Treviglio e sceglie di trasformare, evitando la demolizione completa. Certamente influiscono aspetti economici e pratici, ma anzitutto le “ragioni dell’architettura: i vincoli, nel progetto, possono giocare a favore dell’invenzione, mettendo in moto insospettate possibilità” (Venezia, 1998, p. 21). Ogni invenzione, peraltro,
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rimanda per etimo a quel “trovare investigando” che assimila il progetto a un’indagine, stimolando proprio a cercare in quel che già c’è il quadro delle opportunità per quel che sarà. Lungi dal confidare in presunte originalità e genialità creative, l’architetto inventore manifesta le cose trovando nei fatti esistenti segni e tracce per nuove combinazioni e metamorfosi appropriate3. Ma una vera invenzione è una riscrittura sempre, anche quando non si confronta con dati concreti di un edificio da riformare; un altro patrimonio, più generale e astratto, resiste infatti al tempo e alle particolarità di singole opere: quello di idee, temi e forme che, permangono e ricorrono così spesso in architettura, rigenerandosi e aggiornandosi a ogni ricomparsa⁴. Del grande magazzino, il progetto di Venezia conserva le strutture e, su tre lati, il perimetro, optando invece per la costruzione di un nuovo fronte sulla piazza Garibaldi, parallelo all’esistente ma più avanzato, per allinearsi alla cortina che risvolta in piazza Manara (img. 04).
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04. Progetto per piazza Garibaldi a Treviglio, 1998: planimetria con evidenziati i vuoti degli attraversamenti pedonali. Project for piazza Garibaldi in Treviglio, 1998: planimetry showing the empty spaces of the pedestrian crossings. Città di Treviglio; F. Venezia
All’irregolarità dei bordi, specie sul vicolo del Teatro, e della forma, si oppongono i nuovi pezzi della composizione, perfetti nella loro geometria e proporzione: la lunga rampa che occupa la distanza tra i due fronti e conduce agli spazi interrati per le esposizioni, attorno al rettangolo della sala conferenze; il volume della scala che invade la piazza e sale al primo piano, dove incontra la galleria e la loggia rivolte alla città; il teatro all’aperto posto in copertura, con le due cavee a gradini incurvati che si fronteggiano (img. 05). L’anno precedente al concorso, nel 1997, si concludeva ad Amiens la costruzione di un importante edificio su progetto dello stesso Venezia, il polo universitario, che anticipa sia il combinare le irregolarità al perimetro con “parti interne basate sulla simmetria” (Venezia, 2006, p. 202), che l’invenzione dei due anfiteatri contrapposti5. Ma un’indagine ben condotta sull’opera dell’architetto potrebbe far risalire il primo apparire di quest’idea a Salemi, tra il 1983 e il 1986, nel teatrino all’aperto che, in luogo del Convento del Carmine distrutto dal terremoto, distende sul suolo il vuoto di un belvedere di pietra, misurato e sopraffino, rivolto ai resti e al paesaggio, mutevole al muoversi lungo la gradinata o il piano inclinato. Così fosse, per trasferimento d’idee e forme, potremmo immaginare il piccolo teatro sradicarsi da Salemi per approdare a Treviglio, sulla cima dell’edificio trasformato6. A terra una decisiva modifica ridisegna lo spazio pubblico. L’addizione del volume aperto con la scala — un ricetto che accoglie e fornisce riparo, spingendosi oltre il nuovo fronte — conquista la piazza Garibaldi, riproporzionandola, e conclude la piazza Manara, precisandola in forma di “S”. Morfologia dei vuoti e disposizione del ricetto accentuano (o ri-scoprono) le relazioni tra il palazzo del Comune e la basilica; la posa di due fontane avverte della doppia simmetria che regola sottotraccia le nuove geometrie. Dalle piazze due percorsi vomitoria traversano l’edificio per giungere uno al vicolo del Teatro, l’altro nella corte di un palazzo di via Galliari; sottraendo volume al costruito e mutando i limiti in soglie, la circolazione pedonale nell’isolato si fa
05. Progetto per piazza Garibaldi a Treviglio, 1998: pianta piano terra. Project for piazza Garibaldi in Treviglio, 1998: ground floor plan. Città di Treviglio; F. Venezia; Studio Mandelli Caravaggio 06. Progetto per piazza Garibaldi a Treviglio, 1998: pianta del piano primo con il vuoto del teatro all’aperto. Project for piazza Garibaldi in Treviglio, 1998: first floor plan with the empty space of the open-air theatre. Città di Treviglio; F. Venezia
continua. La successione di vuoti e coperti, il ritmo scandito da compressioni e dilatazioni dello spazio pubblico, accompagnano l’ingresso in questa parte della città, invitando alla pausa per addentrarsi nelle cose. Ostacola lo scorrere distratto il ricetto, attirando a sé il passante per guidarlo lungo le tappe di una passeggiata che conduce in copertura e concreta un’idea cara all’architetto napoletano: quella del traguardare camminando e, camminando, registrare gli accadimenti architettonici che, uno dopo l’altro, il progetto ha predisposto. La scala solleva il punto di osservazione e il percorso diviene misura e motore di molteplici variazioni: i vuoti delle due piazze durante la salita; le inquadrature sull’intorno elencate al passo entro il nastro della galleria; l’ultimo scorcio su piazza Garibaldi, dall’alto di una loggia schiacciata in angolo e in leggero sbalzo. A metà circa della galleria, un ampio varco introduce alla meta e alla sorpresa finale: un recinto di pietra avvolge il vuoto di uno spazio all’aperto e in piena luce, per nulla visibile prima di averlo raggiunto (img. 06). L’architettura si fa
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07. Progetto per piazza Garibaldi a Treviglio, 1998: veduta del modello. Project for piazza Garibaldi in Treviglio, 1998: view of the model. Città di Treviglio; F. Venezia
discreta, la forma essenziale: un muro al perimetro stringe due cavee contrapposte; una sottile e continua modanatura lo solca d’ombra per marcare più solida la linea oltre la quale può riapparire il paesaggio urbano. Volgendo lo sguardo, s’incontrano le falde dei tetti nel reciproco combinarsi con gli edifici più rappresentativi della città: la basilica, la torre campanile, il santuario. Colti parzialmente però, nelle sole terminazioni verso il cielo, liberati dal contatto con le piazze e straniati dall’intrico di strade e isolati (img. 01 e 07). La piazza Garibaldi, che l’ingombro del ricetto aveva sezionato e ridotto in dimensione, è risarcita e raddoppiata da questo vuoto che è a un tempo cavità e stanza scoperchiata, terrazza e piazza pensile; e teatro, nel senso più proprio del mettere in scena e deputarsi al guardare meravigliato. Con lo spettacolo dell’orizzonte che si cattura muovendosi lungo le gradinate, discendendo la prima e risalendo la seconda. Come un’antica pàrodos, la galleria immette direttamente nel luogo della rappresentazione, cui accedervi di lato; e porta il cammino non più al di dentro ma al di sopra dell’architettura, allo stesso livello dei tetti. Incastrati alla base e nel corpo degli edifici o incisi in sommità a sostituire coperture malmesse, i nuovi vuoti portano allo scoperto, rivelandole e celebrandole, insospettabili qualità teatrali di ambiti urbani stretti entro dense edificazioni. Danno forma costruita allo stare nello spazio per abitarlo; e all’abitare restituiscono porzioni di suolo della città, estendendo in quota possibili percorrenze. Sia esso ricetto, passaggio coperto, galleria o loggia, teatro en plein air, il vuoto intesse relazioni visive con l’esterno e diviene dispositivo di mediazione tra la scala dell’architettura e quella della città; luogo pronto ad animarsi di luci e ombre che convoca a sé perché si compia a fondo lo spettacolo. D’altronde, “il privilegio dell’architettura tra tutte le arti […] non è di assumere un vuoto comodo e di circondarlo di garanzie, ma di costruire un mondo interno che misura lo spazio e la luce secondo le leggi di una geometria, d’una meccanica e di un’ottica” (Focillon, 1943, p. 35).
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Per quanto poco noto e diffuso rispetto ad altri lavori dello stesso autore, la risposta di Venezia suggerisce un esemplare intervento di restauro urbano con un progetto capace di svelare ciò che, senza e prima di esso, rimarrebbe meno leggibile. Fosse stato realizzato, con quei vuoti in sequenza, così centrali e decisivi, avrebbe di certo vinto la sfida, “resa ancora più interessante dal fatto che si tratta[va] di trasformare un edificio recente e del tutto estraneo all’ambiente circostante in un edificio in grado di arricchirlo” (Venezia, 1998, p. 21).* NOTE 1 – Il saggio è la rielaborazione del testo della conferenza Raum, Mensch und Sprache, tenuta da Heidegger nel 1964 a St. Gallen; trad. it. in Id., L’arte e lo spazio, Il Melangolo, Genova 2000, p. 37. 2 – Il concorso è stato vinto dal gruppo guidato da G. Grassi, ma l’edificio non venne realizzato. Nel 2009 il Comune ha bandito un nuovo concorso (I premio L. Pastorini, capogruppo) che ha portato alla costruzione dell’edificio tutt’oggi esistente. 3 – A. C. Quatremère de Quincy, “Dizionario storico”, voce invenzione: www.archive.org/ details/bub_gb_ktXcW_Ry108C/page/n1/mode/2up?q=invenzione (ultima consultazione dicembre 2020). 4 – In una raffinata opposizione lessicale, Francesco Venezia affianca il concetto di metamorfosi, “trasformazione di materia”, a quello di metafora, “trasferimento di relazioni”; in Id. (2010), La natura poetica dell’architettura, Pordenone: Giavedoni, p. 24. 5 – Per congettura tornano alla mente gli studi di G. Terragni per un cinema-teatro a cavee affrontate; in Ciucci, G. (a cura di) (1996) Giuseppe Terragni. Opera Completa, Milano: Electa, Milano, p. 612. 6 – Non è dato sapere, ma è fecondo pensarlo, se abbia inciso il ricordo dell’arena che A. Libera pone sulla terrazza della Sala Congressi all’EUR. Né se, nella scelta d’incurvare le gradinate e sezionarle con muri paralleli, risuoni l’eco dell’aula interna all’edificio-ponte che L. I. Kahn immagina per Venezia. BIBLIOGRAFIA – AA. VV. (2000). La proposta di Treviglio per il rinnovamento del centro cittadino. La rivista di Bergamo, n. 20, pp. 14-25. – Focillon, H. (1990). Vita delle forme seguito da Elogio della mano. Torino: Einaudi. Tit. or. (1943), Vie des Formes suivi de Éloge de la main. Parigi: Presses Universitaires de France. – Grassi, G. (1998). Relazione di progetto. La rivista di Bergamo, n. 20, pp. 18-20. – Heidegger, M. (2000). L’arte e lo spazio. Genova: Il Melangolo. Tit. or. (1969), Die Kunst und der Raum. St. Gallen: Erker-Verlag. – Heidegger, M. (1976), (a cura di Vattimo G.). Saggi e discorsi. Milano: Mursia. Tit. or. (1957). Vorträge und Aufsätze. Pfullingen: Verlag Günther Neske. – Irace, F. (2000). Risanamento, demolizione e nuova architettura. La rivista di Bergamo, n. 20, pp. 16-17. – Santagiuliana, T. e I. (1965). Storia di Treviglio. Bergamo: Poligrafiche Bolis. – Venezia, F. (1998). Relazione di progetto. La rivista di Bergamo, n. 20, p. 21. – Venezia, F. (2006). Le idee e le occasioni. Milano: Mondadori Electa. – Venezia, F. (2011). Che cosa è l'architettura. Lezioni, conferenze, un intervento. Milano: Mondadori Electa.
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Massimo Mucci PhD in Composizione architettonica, Università Iuav di Venezia mmucci@iuav.it
In-between reconstruction
01. Romano Boico, Monumento della Risiera di San Sabba a Trieste (1966-75). Romano Boico, San Sabba Rice Mill Monument, Trieste (1966-75). Massimo Mucci
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Il vuoto inatteso nel monumento contemporaneo In-between reconstruction Retracing Aldo van Eyck's reflections on the in-between space concept and relating them to the design research about reconstruction in the monuments connected to the war events, common and recurrent aesthetic practices and architectural composition strategies emerge. The unexpected emptiness is similarly transfigured in some emblematic war and holocaust memorials, and through contributions about the “counter-monument” and “wararchitecture”, the reflection on the reenactment of memory reaches the recent National September 11 Memorial in New York.* Ripercorrendo le riflessioni di Aldo van Eyck sull’idea di spazio in-between e mettendole in relazione alle ricerche progettuali sulla ricostruzione nei monumenti legati agli eventi della guerra, emergono pratiche estetiche e strategie di composizione architettonica comuni e ricorrenti. Il vuoto inatteso è trasfigurato in modo simile in alcuni emblematici memorials di guerra e dell’olocausto, e attraverso i contributi sul “contro-monumento” e sulla “wararchitecture”, la riflessione sulla riattivazione della memoria arriva fino al recente National September 11 Memorial di New York.*
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el secondo dopoguerra la presenza dello spazio vuoto nell’architettura e nella città assume significati diversi dal passato, in relazione alle problematiche della ricostruzione postbellica. Fin da subito l’architetto Aldo van Eyck interpreta questo tema attraverso la riflessione sul concetto di spazio in-between: i vuoti inattesi hanno un potenziale innovativo per la società, anche quando determinati da eventi violenti come la guerra e, forse proprio a causa di questa loro origine, sono un’opportunità di cambiamento. Attraverso la selezione di alcuni progetti emblematici in relazione a concetti chiave, quali il rapporto tra architettura e violenza, la ricostruzione post-trauma, la relazione tra monumento e documento, sono state condotte delle analisi compositive per individuare aspetti, temi e pratiche estetiche comuni. Ripercorrendo le ricerche progettuali intraprese da alcuni progettisti si possono indagare le azioni di monumentalizzazione di siti, spesso molto diversi tra loro, che hanno suscitato approcci innovativi e riflessioni inedite sul tema del vuoto in architettura. Inizialmente Aldo van Eyck applica il concetto di spazio in-between nei playgrounds realizzati nei vuoti urbani lasciati dalle distruzioni belliche, da lui reinterpretati come spazi per la costruzione di una rinnovata socialità. Il suo riferimento a Martin Buber sulla questione di una dimensione reale, fisica dell’in-between, come un catalizzatore delle relazioni tra le persone, lo porta a proporre un approccio multiscalare degli spazi abitati, attraverso soglie, ambiti spaziali, aree a diverse intensità, che aiutano e predispongono all’incontro. Infatti, la riflessione si sposta dal “inbetween realm” (van Eyck, 1962, p. 55) al “Right-Size” (van Eyck, 1962, p. 90), per parlare di dimensioni, taglia, quantità, riferite allo spazio fisico intermedio che l’uomo abita, dal tavolo, alla porta, alla stanza, fino agli spazi esterni della città. Lo spazio vuoto, in questo modo, si riempie di significato e necessita di essere organizzato secondo una corretta sequenza, in modo da avere al suo interno la possibilità di
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vivere le giuste associazioni emotive: l’indugiare, il liberarsi, l’aspettarsi, la memoria, ma anche l’eventualità che accada qualcosa di imprevisto (van Eyck, 1962, p. 93). L’importante contributo teorico di van Eyck travalica i confini dei temi da lui trattati e si diffonde in altri ambiti di studio. L’idea di spazio in-between è stata affrontata, sebbene spesso con altre terminologie, nella costruzione di monumenti e memorials della seconda guerra mondiale in modo del tutto particolare. L’evento violento, in questi casi, trasforma in modo inatteso il sito in “luogo della memoria” (Nora, 1997), e i resti delle costruzioni diventano documenti testimoniali dei fatti accaduti, sebbene alterati nella loro già implicita assenza di neutralità (Le Goff, 1978). Da qui nasce la discussione sulla conservazione o trasformazione dei siti, per riattivare la memoria anche in chi non ha vissuto gli eventi. Un esempio sono i monumenti dell’olocausto, casi estremi e paradigmatici del cortocircuito avvenuto tra le esigenze commemorative e le effettive possibilità rappresentative dell’architettura, in una situazione di scarsità di documenti e afasia del linguaggio architettonico. Come costruire/ricostruire un sito carico di significati e memorie tragiche a partire da un vuoto? Il tremendo quesito su come rappresentare l’indicibile è stato affrontato nel dopoguerra in occasione del concorso per la sistemazione del campo di Auschwitz-Birkenau (1957-67) dove si riscontrano alcune strategie progettuali tra loro simili, fondate sul linguaggio astratto e la composizione per sequenze di vuoti eloquenti1. Gli ampi spazi aperti orizzontali, l’assenza di molte preesistenze, le proporzioni della tragedia, pongono un problema di costruzione dell’esperienza conoscitiva piuttosto che di ricostruzione materiale del sito. Fin dal primo concorso il gruppo di Giorgio Simoncini propone un recinto costituito da un muro che chiude su tre lati una grande piattaforma quadrata scolpita, sulla quale si innesta l’arrivo del binario ferroviario (Simoncini, 2012, fig. 2.1). Il gruppo polacco di Oskar Hansen, inve-
02. Giorgio Simoncini, Tommaso Valle, Maurizio Vitale, Pericle Fazzini, secondo progetto di concorso per il monumento di Auschwitz Birkenau (1958); veduta della zona dei crematori del modello in legno. Giorgio Simoncini, Tommaso Valle, Maurizio Vitale, Pericle Fazzini, second competition project for the Auschwitz Birkenau memorial (1958); view of the crematorium area in the wooden model. Archivio Giorgio Simoncini (www. giorgiosimoncini.com; G. Simoncini, La memoria di Auschwitz. Storia di un monumento, 1957-1967, Jaka Book, Milano, 2011, fig. 19.2) 03. Zdzisław Pidek, Marcin Roszczyk, Andrzej Sołyga, Monika Chylińska / BE DDJM Architects, Belzec Memorial (1997/2003-04), vista dal percorso d’ingresso. Zdzisław Pidek, Marcin Roszczyk, Andrzej Sołyga, Monika Chylińska / BE DDJM Architects, Belzec Memorial (1997/2003-04), view from the entrance path. Foto di Wojciech Kryński / BE DDJM Architects
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04. Daniel Libeskind, disegno di studio per il World Trade Center masterplan Memory Foundations, New York (2002). Daniel Libeskind, Memory Foundations, initial concept drawing of the World Trade Center masterplan, New York (2002). Studio Libeskind, copyright Daniel Libeskind
ce, interpretando il vuoto in modo opposto ma con gesto altrettanto primario, identifica l’area con una piattaforma ancor più grande, sulla quale scava le impronte dei due crematori in rovina e un’ampia cripta (Simoncini, 2012, fig. 5.2). Dividere, scavare e recintare il vuoto sembrano essere operazioni compositive primarie in grado di gestire le invisibili densità spaziali esistenti, per organizzare e ridare un ritmo all’esperienza commemorativa. Nel secondo concorso il gruppo Simoncini arriva a proporre tutto il lungo percorso rettilineo di accesso scavato e l’intera piattaforma scultorea incassata nel terreno (img. 02). Sebbene nella realizzazione alcuni di questi elementi siano andati persi, è confermata l’idea di un grande spazio vuoto “tra” le rovine intoccabili dei crematori, articolato con dislivelli e oggetti scultorei. Tuttavia, questo approccio minimale del “costruire un ‘vuoto’” (Pedio, 1967) che porta alla rinuncia di forti presenze architettoniche a favore delle rovine “parlanti”, riconosciuto da una parte della critica del tempo come l’atteggiamento corretto per non cadere nel monumentalismo, evidenzia il rischio dell’afasia architettonica rispetto a un’efficace attivazione della memoria. Nel caso della Risiera di San Sabba a Trieste (1966-75), unico lager nazista con forno crematorio sul territorio italiano, sono emerse le stesse questioni. L’architetto triestino Romano Boico, vincitore del concorso, ha inizialmente reagito al tema dell’indicibilità con la rinuncia all’intervento architettonico, come se bastasse conservare l’edificio esistente per garantire la memoria dei fatti accaduti. Nel secondo progetto, invece, propone le stesse due azioni compositive utilizzate da Simoncini e Hansen ad Auschwitz: recintare l’intera Risiera con muri insormontabili per realizzare al suo interno una “basilica laica a cielo aperto” (Mucci, 2019-2020, p. 252), e scavare un’impronta dove sorgevano il forno crematorio e la ciminiera (img. 01). In fase esecutiva il progetto è stato adattato a de-
molizioni inizialmente non previste, risultando più chiara la strategia compositiva del recinto usato per ricucire le tracce esistenti in una sequenza di spazi vuoti eloquenti, in parte corrispondenti alle dimensioni degli edifici preesistenti (Mucci, 2019-2020). Anche nella Risiera, ricostruire a partire dagli spazi in-between formatisi da progressive perdite di parti architettoniche, significa comporre a partire da ciò che resta, da tracce a terra e spazi vuoti significativi. Temi compositivi simili erano già stati affrontati nelle Fosse Ardeatine a Roma (1949), nel memorial del campo di Gusen (1967), e nel Museo monumento al deportato a Carpi (1973). Questo orientamento si riscontra anche in esempi recenti come il memorial di Belzĕc (1997-2004)2, in cui circoscrivere, scavare e trasmutare la materia sono le tre azioni cardine del progetto. Un percorso lungo il perimetro permette di abbracciare il grande vuoto lasciato dalla tabula rasa attuata dai nazisti, mentre il percorso rettilineo inclinato ricalca quello originario di accesso al campo e scava un solco nel terreno che porta ad uno spazio ipogeo di raccoglimento (img. 03). Il resto della vasta area delle fosse comuni è ricoperto da una grande lastra tombale di cemento armato, ricoperta da pietre frantumate di colore grigio scuro che rievocano le ceneri delle vittime sepolte.
Come costruire/ricostruire un sito carico di significati e memorie tragiche a partire da un vuoto?
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In questo modo è definito uno spazio drammaticamente inaccessibile, una terra desolata su cui non crescerà nulla, un vuoto intorno al quale tuttavia la memoria si riattiva con vigore. Un contributo alternativo è arrivato da alcuni artisti tedeschi che dagli anni Ottanta in poi hanno introdotto la riflessione sul “contro-monumento” (Young, 1993, p. 27),
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05. Michael Arad, Reflecting Absence, progetto di concorso per il National September 11 Memorial, New York (2003). Michael Arad, Reflecting Absence, initial concept imagery of the National September 11 Memorial, New York (2003). Michael Arad / Handel Architects
importante nell’acquisizione di alcune pratiche estetiche basate sul vuoto-assenza. Le opere di artisti come Jochen Gerz e Esther Shalev-Gerz, con la colonna per il Monument against Fascism ad Hamburg (1986-93) che si consuma gradualmente fino a scomparire, Micha Ullman, con l’opera The Library a Berlino (1995) scavata sottoterra e inaccessibile (img. 07 ), oppure Horst Hoheisel e la sua fontana rovesciata ipogea Aschrottbrunner a Kassel (1985-87), hanno dimostrato come la paralizzante immagine del vuoto possa essere superata attraverso rovesciamenti compositivi che generano riattivazione della memoria (img. 06). Negli anni Novanta la guerra civile a Sarajevo (1992-96) riporta drammaticamente l’attenzione sull’inatteso riproporsi di vuoti traumatici nel tessuto urbano e sociale. Gli architetti di Sarajevo parlano di warachitecture per descrivere una forma di guerra svolta “con” l’architettura come soggetto sia del costruire che del distruggere, per ridisegnare la forma della città e della società attraverso la violenza (AA.VV.,
1993; Herscher, 2008)³. Sul rapporto instauratosi tra guerra e architettura si inserisce anche il contributo dell’architetto americano Lebbeus Woods che, attraverso i suoi disegni visionari, riflette su concetti come resilienza, trasformazione, superamento del trauma attraverso la ricostruzione (Woods, 1993). Woods propone questa idea anche nel suo progetto per la ricostruzione di Ground Zero a New York, costituito da un astratto intreccio di linee che lasciano intravedere una torre in perpetua costruzione, così come dovrebbe essere il processo di cambiamento radicale della società. I vuoti inattesi nel tessuto urbano sono visti da Woods, similmente ad Aldo van Eyck, come spazi in-between di relazione da cui può iniziare una nuova cultura del cambiamento (Woods, 1997, p. 13). All’interno del masterplan Memory Foundations di Daniel Libeskind, per la ricostruzione dell’area danneggiata dal crollo delle due torri del World Trade Center di New York, è previsto il National September 11 Memorial con la
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06. Horst Hoheisel, Aschrottbrunnen, Kassel (1985), vista della fontana capovolta ipogea. Horst Hoheisel, Aschrottbrunnen, Kassel (1985), view of the turned upside down underground fountain. Horst Hoheisel
duplice aspettativa di commemorare le vittime e celebrare la rigenerazione⁴ (img. 04). “Remember, Rebuild, Renew” (Young, 2016, p. 23) è il motto della Lower Manhattan Development Corporation che bene riassume lo spirito con il quale è intrapreso il concorso internazionale per il memorial. Tuttavia, Ground Zero, anche nel progetto di Libeskind, è un enorme spazio vuoto in-between, una palese ferita profonda nel tessuto urbano e sociale che ripropone lo stesso dilemma incontrato nei monumenti dell’olocausto: ricostruire o lasciare il vuoto? Con quale linguaggio architettonico? Lo stesso James E. Young, membro della giuria del concorso, riconosce una certa continuità nel secondo dopoguerra su questo tema: “the forms of postwar architecture have been inflected by an entire generation’s knowledge of the Holocaust” (Young, 2016, p. 2). Il progetto vincitore per il memorial, Reflecting Absence di Michael Arad, prevede la realizzazione di due vasche d’acqua incassate nel terreno sull’impronta delle due torri5 (img. 05). Dal perimetro delle vasche sgorga una cascata d’acqua che viene inghiottita da un ulteriore foro quadrato posto al centro, senza permettere all’osservatore di vedere dove finisca. Nella prima versione di progetto era previsto un percorso ipogeo dietro il velo delle cascate, attraverso il quale sarebbe stato possibile guardare il cielo e ascoltare il continuo scorrere dell’acqua. Il progetto, semplice e suggestivo, sembra riassumere le azioni compositive sperimentate dai precedenti architetti nei monumenti del secondo dopoguerra: circoscrivere, scavare, svuotare, per costruire attraverso sequenze di spazi vuoti che sostituiscono il pieno e riattivano la memoria. Sebbene nella in-between reconstruction di questi recenti monumenti sembra non esserci consolazione, dalla strategia comune della negative form come rappresentazione dell’assenza e della perdita emerge, piuttosto, il valore spaziale del sito che conferma la capacità dell’architettura di trasmettere un messaggio di continuità della memoria, attraverso percorsi alternativi a una improbabile lettura didascalica di tutte le tracce.*
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07. The Library, memorial al rogo di libri in Babelplatz, Berlino (1995). The Library, burning of books memorial at Babelplatz, Berlino (1995). Micha Ullman NOTE 1 – Al concorso per Auschwitz-Birkenau hanno partecipato 426 gruppi di architetti e scultori provenienti da 36 paesi. La quantità di idee progettuali rispecchia l’interesse straordinario che questo tema aveva suscitato e la complessità dell’iter del concorso aggiunge difficoltà nel sintetizzare la vicenda. (Cfr. Simoncini, 2012). 2 – Il memorial è stato progettato da Zdzisław Pidek, Marcin Roszczyk, Andrzej Sołyga, Monika Chylińska in seguito al concorso del 1997, mentre il museo è stato realizzato successivamente su progetto di Marek Dunikowski, Piotr Uherek, Piotr Czerwinski, dello studio BE DDJM Architects. 3 – Il termine è un neologismo coniato dall’Associazione degli Architetti di Sarajevo durante la guerra civile (1992-96), per nominare il loro progetto di documentazione e di denuncia delle estese distruzioni urbane. 4 – Al concorso internazionale per il memorial del 2003 sono stati presentati 5201 progetti provenienti da 63 nazioni. Questi dati da soli restituiscono la scala di quanto fosse sentito come cruciale il tema del monumento. 5 – Il progetto iniziale di concorso è di Michael Arad (2003). Nel 2004 iniziò a lavorare presso lo studio Handel Architects con il quale seguì la realizzazione e, nella seconda fase, si avvalse anche del contributo del landscape architect Peter Walker. BIBLIOGRAFIA – AA.VV. (1993). Warchitecture. ARH: Magazine for Architecture, Town Planning and Design, n. 24, Giugno. Sarajevo: Association of Architects of BosniaHerzegovina. – Herscher, A. (2008). Warchitectural Theory. Journal of Architectural Education, vol. 61, n. 3, Febbraio, pp. 35-43. – Le Goff, J. (1978). Documento/monumento. In Enciclopedia, vol. 5. Torino: Einaudi, pp. 38-46. – Mucci, M. (2019-2020). Una "basilica laica a cielo aperto" a Trieste. Considerazioni sugli aspetti compositivi dello spazio monumentale nel progetto di Romano Boico per un "Museo della Resistenza" nella Risiera di San Sabba (1966-75). Bollettino della Società di Studi Fiorentini, n. 28-29, pp. 249-56. – Nora, P. (a cura di) (1997). Les Lieux de Mémoire. Parigi: Gallimard. – Pedio, R. (1967). Monumento Auschwitz-Birkenau. L’Architettura. Cronache e storia, n. 146, pp. 520-525. – Simoncini, G. (2012). La memoria di Auschwitz. Storia di un monumento, 1957-1967. Milano: Jaca Book. –Van Eyck, A. (1962). The Child, the City and the Artist. An essay on architecture. The inbetween realm. In van Eyck, A. (2008), Writings. 2 voll. Amsterdam: Sun. – Woods, L. (1993). War and Architecture. New York: Princeton Architectural Press. – Woods, L. (1997). Radical Reconstruction. New York: Princeton Architectural Press. – Young, J. E. (1993). The Texture of Memory. Holocaust Memorials and Meaning. New Haven-London: Yale University Press. – Young, J. E. (2016). The Stage of Memory, Reflections on Memorial Art, Loss, and the Spaces Between. Boston: University of Massachussetts Press.
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Lia Fedele Dottoressa in Architettura e membro del gruppo di ricerca dell’Osservatorio Paesaggi Costieri Italiani. fedelia26@gmail.com
Il tempo del paesaggio
01. Le Parc de la Cour du Maroc - Jardins d’Eole a Parigi. Guilhem Vellut 2015, Wikicommons
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Il progetto urbano come opera in divenire per la valorizzazione di aree residuali e dismesse The time of the landscape The development of residual areas is closely linked to the transformation processes of the city, creating a web of heterogeneous fragments of various sizes. In contemporary urban structures, voids become able to determine built-up solids, sparking relationships for the reconstitution of new balances. The principles of sustainability and adaptability to change need to be considered. The dynamism of the context invites us to design with the landscape, which by its nature includes the temporal variable, determining a sequence of processes configured as intermediate stages of metamorphosis.* La formazione di aree residuali è strettamente legata ai processi di trasformazione della città e compone una trama di frammenti eterogenei di varia dimensione. Nei tessuti urbani contemporanei i vuoti diventano spazi in grado di determinare i pieni costruiti, innescando relazioni per la ricostituzione di nuovi equilibri, basati sui principi di sostenibilità e adattabilità al cambiamento. La dinamicità del contesto invita a progettare con il paesaggio, che per sua natura ingloba la variabile temporale, determinando una sequenza di processi configurati come stadi intermedi di metamorfosi.*
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n un insieme urbano contemporaneo, i vuoti non sono più, come nella città di ieri, spazi secondari e privi di qualità, ma possono anticipare e determinare i pieni costruiti (Chalas, 2012). L’esigenza di contenere un improprio consumo di suolo, l’abbandono di aree dismesse e la diffusione di spazi privati di significato dai cambiamenti in atto, sollecitano interventi di recupero e riqualificazione per rimodulare gli equilibri tra spazi costruiti e spazi vuoti. La formazione delle aree residuali, così come la distribuzione diffusa delle stesse, è strettamente legata ai processi di trasformazione delle città, e lascia emergere la necessità di tener conto della complessità dei progetti urbani non con una forma finita1 ma proponendo e attuando un processo in continuo divenire. I vuoti urbani sono in aumento soprattutto nelle grandi città occidentali europee, in risposta all’ingente offerta di strutture e spazi inutilizzati e alla rinnovata domanda di usi ed esigenze (Bishop e Williams, 2012). Il fenomeno, acuito in alcuni casi anche dall’urban shrinkage (contrazione urbana), induce a riflettere sui processi di trasformazione delle città a partire dalla composizione degli spazi vuoti. I tessuti contemporanei sono costellati da quei frammenti che, all’inizio degli anni Novanta, l’architetto Ignasi de Solà Morales denominava terrains vague. La definizione, ancora attuale, esprime il carattere indeterminato e incerto di spazi marginali e interstiziali, interni alla città ma al tempo stesso estranei al suo funzionamento quotidiano. Le riflessioni di de Solà Morales2 hanno contribuito ad arricchire il dibattito sul tema, suggerendo la potenzialità di aree abbandonate e dismesse per le quali la memoria di quello che sono state, a volte sembra rallentare le possibilità future e l’inserimento in progetti circolari di recupero e riconversione. Gli spazi residuali sono vuoti spesso non programmati e l’inadeguatezza dei tradizionali schemi di sviluppo urbano non può determinarne di necessità la connotazione negativa. Misurarsi con il presente richiede ai progettisti un cambio di prospettiva che consideri approcci alternativi
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02. Jardins aquatiques Jean Couty, La Confluence, Lione. Jardins aquatiques Jean Couty, La Confluence, Lyon. Laurence Danière
basati sulla temporaneità, sulla pluralità degli usi e sull’importanza dell’identità dei luoghi. Una strategia progettuale così concepita, secondo una visione integrata, reversibile e in continuo mutamento, individua nella disciplina del paesaggio una valida guida per gli interventi sui grandi territori, vantando un rapporto meno conflittuale con il tempo, rispetto a quanto sia in grado di fare un’impostazione più rigida che interagisce solo con i “pieni”. La natura crea forme sempre nuove e in questo modo conserva il carattere instabile e mutevole delle aree residuali, la cui eterogeneità costituisce il Terzo paesaggio di Gilles Clément, patrimonio vacante di frammenti diffusi di dimensione variabile (Clément, 2005). Il “movimento” di cui scrive il paesaggista francese nel 1991 è dettato dalla perpetua modificazione di questi spazi, che rende il processo di trasformazione più importante di ciascuno degli stati configurati e compiuti. Le riqualificazioni paesaggistiche che rinnovano gli strumenti tradizionali della pianificazione, plan de aménagement, reinterpretandoli come piani — processo, rappresentano una valida strategia di intervento per le aree marginali della città e non rinunciano a intervenire nell’immediato. Si identificano come “un’opportunità per ricucire relazioni urbane discontinue, per ricostruire ecosistemi interrotti e per proporre nuove centralità di vita sociale” (Guarini, 2020, p. 6).
stato definitivo di trasformazione ma una serie di stadi intermedi di metamorfosi, su un sito di 150 ha. L’intervento è finalizzato al recupero e alla riconversione di un’area industriale dismessa, compresa tra i fiumi Saona e Rodano, e delinea un paesaggio a due velocità, dettate da elementi provvisori ed elementi permanenti, che compongono le ramificazioni di un sistema di parchi, piuttosto che di un parco unitario. La variabile temporale diventa parte attiva della pianificazione, e attuando strategie di rigenerazione che utilizzano gli elementi naturali, il progetto si apre alla possibilità del cambiamento e accetta e ingloba i tempi di evoluzione del paesaggio, poiché “la vegetazione all’inizio non è mai spettacolare”3. Idee affini hanno delineato anche il plan guide di Alexandre Chemetoff, architetto, urbanista e paesaggista francese, per l’Ile de Nantes (2000-2012), che non si configura come un progetto definitivo bensì come l’enunciazione di metodi e temi che permettano di avviare gli interventi previsti dal piano stesso. Per poter assecondare l’evoluzione reale del sito, che si presenta come una realtà frammentaria ed eterogenea su una superficie complessiva di 330 ha, la strategia tende a favorire i progetti in situ, rendendo il plan guide uno strumento continuamente aggiornato. Agire secondo una prospettiva temporale non significa affidare al caso gli esiti progettuali ma preparare i territori alle loro vocazioni future. I presupposti attuativi dei progetti di riqualificazione di Chemetoff e Desvigne risiedono infatti in una profonda conoscenza del territorio e della sua identità, su cui si ricavano le regole implicite da seguire. Per la Confluence di Lione si sono succeduti negli anni alcuni interventi progettuali di minore entità dimensionale, di cui i giardini dell’Îlot B2 (2015) sul Rodano sono un esempio in corso di realizzazione, tutti concepiti come strategie puntuali di una visione unitaria più ampia. Ciò è reso possi-
La natura crea forme sempre nuove e conserva il carattere instabile e mutevole delle aree residuali Nel progetto per il quartiere de la Confluence a Lione (2000-2004) l’architetto paesaggista Michel Desvigne concepisce il piano come una sequenza di processi, che prendono forma nell’arco di trent’anni, senza immaginare uno
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03. Spazi pubblici pedonali sulle rive del Rodano, La Confluence, Lione. Public spaces on Rhone’s banks, La Confluence, Lyon. Laurence Danière
bile anche dal piano delle Costanti ideato da Desvigne, pensate per garantire linee di coerenza strutturale a un processo trentennale flessibile e adattabile alle esigenze mutevoli. “La mutabilità offre la facoltà di prevedere l’imprevedibile” (Durand, 2012, p. 86) e alimenta la dinamicità dei complessi progetti urbani, di cui il paesaggio può essere considerato parte integrante. Non è difficile superare la tradizionale dicotomia tra città e natura se si comprende la possibilità che le due realtà coesistano nella definizione di spazi ibridi, poiché il selvatico non si accontenta più di luoghi marginali ma abita il centro della città (Metta e Olivetti, 2019) e dunque il limite diventa così sfumato da non esser più percepito come margine. Si definiscono pertanto spazi di natura inedita, in fase con le dinamiche e i cicli generativi e temporali non solo degli elementi naturali ma anche del mutevole vivere sociale. Un progetto urbano che riconosce le potenzialità degli spazi vuoti rendendoli protagonisti di relazioni, scambi e flussi,
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pone le basi per la ricostituzione di un nuovo equilibrio, basato sui principi di sostenibilità e adattabilità al cambiamento. Le azioni progettuali di riconnessione tra frammenti urbani e naturali che si prestano ad essere reinterpretate e modificate dalla labilità degli eventi, partecipano infatti al disegno di sostenibilità inteso come “la capacità di mantenere i processi, la diversità e la produttività nel corso del tempo” (Pollak, 2006, p. 35). Il paesaggio può essere la chiave per riqualificare i tessuti urbani discontinui e/o dismessi, anche in ragione della difficile questione ambientale. L’Europa e le Nazioni Unite richiamano alla tutela del suolo e del patrimonio ambientale, e il rapporto Consumo di suolo, dinamiche territoriali e servizi ecosistemici conferma la criticità del consumo di suolo nelle zone periurbane e urbane in Italia. La perdita di superfici naturali e permeabili all’interno delle città compromette anche l’adattamento ai cambiamenti climatici in atto, incidendo negativamente sul
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04. Quai Rambaud vista da La Mulatière, La Confluence, Lione. Quai Rambaud view from La Mulatière, La Confluence, Lyon. Laurence Danière
comfort ambientale specialmente nei tessuti maggiormente urbanizzati. Ciò significa che se è vero che gli spazi vuoti devono essere opportunamente integrati nella struttura della città e riconvertiti a nuovi scenari d’uso, è necessario valutare che “non tutti i vuoti devono essere colmati” (Nenko e Petrova, 2018, p. 389) e che un sistema poroso può
urbana. In questa direzione volgono le azioni di depaving, che consistono nel ripristino di una parte dei suoli urbani allo stato precedente all’edificazione, attraverso la rimozione degli stati impermeabilizzati, il dissodamento del terreno sottostante e l’asportazione del materiale estraneo5, e che interessano in molti casi spazi sottoutilizzati e dismessi, permettendo strategie sostenibili di rinaturalizzazione e miglioramento del drenaggio dell’acqua nelle città. L’attenzione allo spazio inedificato non è un fatto nuovo, ma di fronte alla progressiva riduzione e limitatezza delle risorse disponibili, tra cui il suolo stesso, occorre inglobare nel pensiero progettuale una diversa nozione di tempo, avviare in modo flessibile e adattivo processi di medio e lungo periodo (Pavia, 2017). Il dibattito contemporaneo sulla rigenerazione urbana non può dunque prescindere dal tema del paesaggio come
Il limite tra città e natura diventa così sfumato da non esser più percepito come margine essere un’alternativa coerente con uno sviluppo sostenibile. La critica condizione ambientale attuale dunque non solo suggerisce di perseguire valide Nature Based Solutions (NBS)4 ma evidenzia anche che gli spazi vuoti rappresentano un’importante risorsa per il miglioramento della qualità
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05. Jardins du Tiers-Paysage, Saint-Nazaire, Francia – progetto di Gilles Clément e Coloco. Jardins du Tiers-Paysage, Saint-Nazaire, France – designed by Gilles Clément and Coloco. Gilles Clément
strumento progettuale guida nelle azioni di recupero e riqualificazione, in grado di assimilare la dimensione del tempo e dell’evoluzione dei luoghi e delle esigenze (Mouffe, 2008; Manigrasso, 2020). Il progetto di paesaggio assume una valenza inedita, in alcuni casi come “strumento terapeutico” capace di sanare l’impatto e i danni legati a massivi processi di urbanizzazione e modernizzazione della società industriale (Jakob, 2009). La condivisione di questo pensiero non è un’implicita accettazione della “verdolatria”, così come introdotta e criticata agli inizi del XXI secolo dal filosofo Alain Roger. La scelta del paesaggio e del tempo come nuovi materiali di progetto è in grado infatti di sintetizzare soluzioni innovative e performanti, lì dove sia capace di superare il mero valore estetico, comprendendo la natura profondamente culturale del paesaggio stesso. Le buone pratiche descritte si fondano sull’interrelazione tra l’uomo e l’ambiente, suggerendo l’importanza di interpretare la “voce” dei luoghi e riconoscere il ruolo conformatore del tempo sul progetto. I mutamenti continui della contemporaneità respingono in modo definitivo una visione funzionalistica, alla quale si sostituisce la dimensione prestazionale per la sintesi delle forme del progetto, concepito come un dispositivo di ricerca e azione. Dei nuovi metabolismi urbani è pertanto chiara espressione anche la definizione di George Perec, secondo cui lo spazio rappresenta “un dubbio da individuare e designare continuamente”, che non può essere indicato in modo esaustivo dalla sola, e non permanente, funzione. L’approccio proposto può rappresentare una valida strategia d’azione e di riconversione di aree residuali e dismesse, permettendo un ripensamento della città e la definizione di nuovi significati. In questo senso è possibile “scrivere” i vuoti urbani con progetti, basati sulla natura e sul paesaggio, che riconoscano la temporaneità e l’identità dei contesti in cui prendono atto i processi trasformativi. *
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NOTE 1 – In Anatomie des projets urbains gli autori Tsiomis Y. e Ziegler V. descrivono la capacità del progetto di paesaggio di tener conto della complessità attraverso interrelazioni e non con una forma finita (2007). 2 – Si veda Terrain vague di I. de Solà-Morales in Quaderns d’arquitectura i urbanisme n.212 (1996), pp. 37-42. 3 – Intervista di Loredana Mascheroni a M. Desvigne in Domus Paper - allegato a Domus n. 1028 (2018), p. 24. 4 – Le NBS sono state definite nel 2015 dall’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura come soluzioni basate sulla natura per gestire e preservare sostenibilmente la funzionalità degli ecosistemi naturali o ristabilirla in ecosistemi alterati impropriamente dall’azione umana. 5 – Ulteriori direttive sulla compensazione dell’impermeabilizzazione sono indicate nel documento di lavoro SWD “Orientamenti in materia di buone pratiche per limitare, mitigare e compensare l’impermeabilizzazione del suolo” della CE nel 2012, reperibile al sito https:// ec.europa.eu/environment/soil/sealing_guidelines.htm (ultima consultazione dicembre 2020). BIBLIOGRAFIA – Bishop, P., Williams, L. (2012). The temporary city. New York: Routledge. – Costa, L. (2019). L’Urban Shrinkage e le conseguenze sulle aree residenziali. Prospettive dal Giappone. Tesi di Laurea Magistrale in Pianificazione Territoriale Urbanistica e Paesaggistico-Ambientale, Politecnico di Torino. – Chalas, Y. (2012). La nature aménagiste. M3 Société urbaine et action publique, n. 2, pp. 50-53. – Clément, G. (2005). Manifesto del Terzo paesaggio. Macerata: Quodlibet. – Desvigne, M. (1999). Le paysage, nature intermédiaire. AMC Le Moniteur architecture, n. 101, pp. 60-66. – Durand, A. (2012). La mutabilité en urbanisme: une rupture méthodologique? Urbanisme, n. 383, pp. 86-89. – Gabbianelli, A. (2017). Spazi residuali. La vegetazione nei processi di rigenerazione urbana. Gorizia: GOtoECO. – Guarini, P. (2020). Pratiche di riciclo tra ecologia e rigenerazione. L’industria delle costruzioni, n. 475, pp. 4-8. – Jakob, M. (2009). Il paesaggio. Bologna: Il Mulino. – Magnier, A., Morandi, M. (2013). Paesaggi in mutamento. L’approccio paesaggistico alla trasformazione delle città europee. Milano: FrancoAngeli. – Manigrasso, M. (2020). L’urbanistica guarda il paesaggio. Per una stagione agonistica del vuoto. In Misino, P., Il tempo diverso. Asincronie tra forme e usi. Siracusa: Letteraventidue Edizioni, pp. 24-47. – Metta, A., Olivetti, M.L. (2019). La città selvatica. Paesaggi urbani contemporanei. Melfi: Libria. – Mouffe, C. (2008). Agonistic Public Spaces, Democratic Politics and the Dynamic of Passions. In Backstein, J., Birnbaum, D., Wallenstein, S. (eds). Thinking Worlds: The Moscow Conference on Philosophy, Politcs, and Art. Berlino: Sternberg Press. – Nenko, A., Petrova, M. (2018). Urban emptiness as a resource for sustainable urban development. Management of Environmental Quality: An International Journal, vol. 29 n.3, pp.388-405. – Palazzo, E. (2010). Il paesaggio nel progetto urbanistico. EDA e-book. – Pavia, R. (2017). Suolo e progetto urbano: una nuova prospettiva. Eco Web Town, Vol. 1 n.15. – Pollak, L. (2006). Il paesaggio per il recupero urbano. Infrastrutture per uno spazio quotidiano che comprenda la natura. Lotus, n. 128, pp. 32-45. – Roger, A. (2009). Breve trattato sul paesaggio. Palermo: Sellerio.
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Mickeal Milocco Borlini PhD in Architettura, Teoria e Progetto, PostDoc 2019-21 DPIA, UniUD. mickeal.milocco@uniud.it
Kevin Santus PhD Candidate in Architectural, Urban and Interior Design, Politecnico di Milano. kevin.santus@polimi.it
Stefano Sartorio Dott. in Architettura e Disegno Urbano, Teaching Assistant Politecnico di Milano. stefano.sartorio@mail.polimi.it
Arianna Luisa Nicoletta Scaioli Dott. Architetto, Teaching Assistant Politecnico di Milano. arianna.scaioli@mail.polimi.it
La crisi nel vuoto
01. Pandemic LA 003, 2020. Cody Williams, flickr
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Interpretazione del ruolo dello spazio urbano durante la quarantena The crisis into the void Considering the city, and its buildings, as a place of union of physical and socio-economic relationships, what happens when one of this aspects is missing? In light of the current pandemic, the real relationship space that characterized part of the urban and architectural composition clashes with the regulatory provisions, in order to ensure physical (but not social) distancing. The article reflects on the “times of crisis”, for cities and their inhabitants, looking into these spaces of relationship, which re-read their raison d’être in a term of forced virtual relationships.* Se la città, e l’architettura in essa, si considera come luogo d’unione di relazioni fisiche e socio-economiche, cosa avviene alla mancanza di uno di questi aspetti? Alla luce dell’attuale pandemia, lo spazio di relazione reale che caratterizzava parte della composizione urbana e architettonica si scontra con le disposizioni normative, per garantire il distanziamento fisico (ma non sociale). L’articolo riflette sui tempi di crisi, per le città e i loro abitanti, di questi spazi di relazione, che rileggono la propria raison d’être in un periodo di forzate relazioni virtuali.*
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i intende come vuoto quella qualità dello spazio che permette il movimento. Oltre la mera penetrabilità, il vuoto si può aggettivare ed utilizzare come forma di definizione del luogo” (Espuelas, 2004, pos. 79). Gli effetti da SARS-CoV-2 non sono solo una questione privata, ma di tessitura di spazi relazionali urbani. Pertanto, comprendere gli effetti della pandemia significa elaborare le nuove esigenze dell’abitare quotidiano attraverso la costruzione di un nuovo paradigma di urbanité, che parta da una riflessione sulle criticità emerse durante il lockdown, rispetto alla necessità di dare nuovo senso a uno spazio pubblico contemporaneo “svuotato”. Quest’ultimo ha mostrato la sua essenza: il vuoto tra architetturecontenitori, definisce spazi “intermedi” inariditi rispetto alle (inter)relazioni umane e urbane che fino a pochi mesi fa li popolavano. La forma e l’immagine della città possono essere percepite nella loro figurazione al negativo come vuoti e pieni, dove “il vuoto appare come categoria materiale, come valore culturale e come vissuto personale” (Espuelas, 2004, pos. 123). Dalle parole di Espuelas si deduce che il vuoto vive grazie alla dicotomia tra spazio oggettivo e soggettivo, dove il cambiamento di percezione avviene rispetto a una modifica dell’esperienza mnemonica, registrata inconsciamente, del vuoto stesso (come nel caso delle conseguenze del SARS-CoV-2); d’altra parte, la perdita del dato oggettivo rispetto a “quel” vuoto, già conosciuto dal soggetto, decreta il disorientamento e la non riconoscibilità come luogo visceralmente “proprio” (Norman, 2004; Espuelas, 2004). Pertanto, il progetto nel “vuoto inaspettato” è riconoscibile nelle strade e nelle piazze, definite e inalterabili nel tempo, se “liberate” e identificate dalla permanenza della temporaneità del ritrovo. L’abitare richiede il “racconto critico” con interventi di rigenerazione, sovente motivati da eventi inattesi, come le calamità naturali; l’attenzione si è spostata al contesto urbano e alla sua lettura attraverso
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02. Mettez vous pieds ici, 2020. Katell AR Gow (flickr)
analisi che tengono conto (e con-tengono) non solo della fisicità dei manufatti e dei luoghi, ma anche dell’insieme delle risorse disponibili¹, delle opportunità di innovazione e degli abitanti: “la stessa presenza umana ne è a volte limitata e deve cedere parte del suo protagonismo a questo mondo di oggetti” (Espuelas, 2004, pos. 1030). Obiettivi possibili: crisi e risorsa, pieno e vuoto Il contributo intende indagare la crisi che ha vissuto lo spazio pubblico urbano nelle fasi iniziali della pandemia da SARS-CoV-2, cercando di prefigurare criticamente alcuni possibili scenari di sviluppo. La crisi internazionale, provocata dal virus della SARS-CoV-2, ha causato un’interruzione nella continuità fisico-relazionale dello spazio urbano. L’adattamento contestuale, infatti, non ha interagito solamente con una componente spaziale, ad esempio con l'introduzione di indicazioni sul distanziamento, ma anche con una componente immateriale, delineando la costruzione di una nuova città digitale: un palinsesto territoriale virtuale. Il vuoto fisico, definito attraverso temporaneità e accessibilità dello stesso, consente di identificare gli spazi
do interventi disgiunti, per lo più temporanei, nel tentativo di risignificare tale vuoto. Pertanto, è necessario comprendere le mutazioni del vuoto in risposta allo scenario pandemico: in che modo esso intesse nuove relazioni tra concretezza relazionale e rete virtuale, comprendendo e direzionando la necessità di riappropriazione degli spazi per le diverse esigenze di vita, anche di confinamento o limitazione. Approccio e metodo Gli orizzonti possibili per lo spazio pubblico in un momento di crisi (Saggio, 2010) sono traiettorie e scenari complessi da delineare. Le relazioni che si sono costruite e sviluppate in questi mesi sono state mediate da alcuni devices, fisici e virtuali: i contatti fisici, in modalità ridotta, a distanza di almeno 1 metro, con dispositivi di protezione, che si pongono come barriere fra le persone. Quelli virtuali diventano i nuovi paradigmi della comunicazione e dei rapporti interpersonali; le distanze sono annullate, entrando nella quotidianità delle persone, nel loro spazio domestico. È stata superata la tradizionale dicotomia spazio pubblico e spazio privato, complessificando la percezione spaziale; lo spazio pubblico sociale può infatti (ri)entrare nell'intimità del nostro salotto e del nostro spazio personale. Il telaio infrastrutturale fisico di strade e piazze urbane si va implementando con la sovrapposizione di quello virtuale: uno spazio immateriale costruito dalle persone utilizzando un lessico proprio dello spazio fisico: finestra, stanza, piazza virtuale, e così via. Durante i mesi della quarantena si è andata costruendo una realtà virtuale parallela, dove le giornate venivano scandite da meeting di lavoro o di svago, cercando di recuperare quella dimensione collettiva del vivere uno spazio urbano, pur rimanendo a distanza. Pertanto, risulta centrale l’interrogativo sul possibile destino dello spazio pubblico — e per estensione della città — pro-
La produzione virtuale dello spazio urbano diventa cornice di una rinnovata esperienza dell’abitare di passaggio quali luoghi di ritrovo e incontro, costruendo caratteristiche che si comunicano agli abitanti e ai fruitori occasionali in qualsiasi condizione, anche inattesa: “il vuoto [...] è il regno della possibilità. [...] lo spazio vuoto diventa il tramite adeguato per significare globalità ed universalità” (Espuelas, 2004, pos. 2753). Come conseguenza alla pandemia, vi è una proliferazione di spazi virtuali e un conseguente svuotamento dello scenario urbano. All’interno di questo, tuttavia, si stanno attuan-
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03. Cretto contro cielo, 2017. HydRometra (flickr)
ponendo due estremi futuribili: il primo vede una scomparsa della città, quale palinsesto stratificato di architettura, società ed eventi, per la perdita dell’esigenza di prossimità fisica che era stata all’origine della sua costruzione. Urbs e civitas sono infatti due elementi indissolubili e imprescindibili nella costruzione di uno spazio urbano. Il secondo scenario, quello preso in considerazione all’interno di questo contributo, indaga invece la capacità dello spazio pubblico urbano di assorbire questo shock adattandosi a nuovi modi di costruire e pensare le forme dell’abitare, integrando e interagendo con la città virtuale. La crisi dello spazio di relazione, allora, non è forse una crisi sistemica, quanto più un quesito che dovremo risolvere, rimodellando lo spazio, consci sia della sua parziale virtualizzazione che della sua attuale necessità. La città contemporanea diventa quindi un luogo in cui la produzione virtuale dello spazio urbano diventa una cornice costitutiva di una rinnovata esperienza sociale dell’abitare, integrando
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la componente mediatico-virtuale con quelle architettonico-spaziale e comunicativo-relazionale. Emergono tuttavia con forza alcune tematiche di riflessione rispetto ai rischi di un’eccessiva virtualizzazione, in riferimento all’identità dei luoghi e della comunità, attraverso un senso di appartenenza e appropriazione rispetto allo spazio urbano. Se da un lato la città virtuale si pone come spazio potenzialmente democratico, configurandosi come alternativa più inclusiva rispetto allo spazio pubblico fisico, dall’altro ha reso evidente un forte senso di alienazione delle persone rispetto alla “città fisica” e ai suoi spazi pubblici, visti come vuoti non vissuti, luoghi provvisori da attraversare in maniera controllata. Discussione e conclusioni Lo spazio è relazionale (Alexander, 1977, parag. XI-XII, XV, XXV-XLIX) e gli effetti non si riscontrano soltanto all’interno delle nostre abitazioni, nei rapporti sociali e nelle moda-
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04. Nuova Pianta di Roma 05/12, 1748. New Plan of Rome part 5/12, 1748. Giovanni Battista Nolli, Wikipedia
lità d’uso dei luoghi, ma soprattutto nella modificazione dei paradigmi di quello che è lo spazio pubblico, che in questo momento si ridefinisce come elemento intermedio: un elemento in crisi rispetto alla sua ragion d’essere. Esso, non più teatro dell’agire umano ed elemento centrale di una città di
essenza del XXI secolo, iper-connesso e al contempo diviso. Pertanto, è necessario affrontare quello che è un paradosso, ridefinendo il concetto di “distanza relazionale dei rapporti” interpolando la questione fisico-percettiva e quella cognitiva. In questa sede è — naturalmente — difficile dare risposte certe, immediate, ma si possono condurre ragionamenti che costruiscono i paradigmi di un’architettura reale e virtuale. Tra queste una possibile declinazione è il Tactical Urbanism, strategia sempre più frequentemente applicata, come a Milano² dove l’utilizzo dell’urbanistica tattica in quartieri quali NoLo o Città studi cerca di delineare nuove esperienze dello spazio in maniera veloce, economica e reversibile, tentando di risolvere la mancanza di spazio aggregativo e conseguentemente di riempire “un vuoto”. Ciò comporta la necessità di una riflessione sui nuovi strumenti del progetto, in una
Elaborare le nuove esigenze dell’abitare attraverso la costruzione di un nuovo paradigma di urbanité reti e flussi, diviene oggi un ambito statico e a-relazionale. Rispetto alle considerazioni precedenti, si ritiene importante ragionare sulle possibili configurazioni dello spazio pubblico e in che modo possa definirsi un legame tra architetture e spazio urbano, tra reti virtuali della città e la realtà fisica che la interseca. La quarantena ha messo in luce la vera
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05. NYC Pandemic 4-6-14, 2020. Dan DeLuca (flickr)
nuova comprensione dei risvolti temporali e fisici che queste strategie possono produrre. L’internità dello spazio pubblico e privato, reale o virtuale, potrebbe essere riportata negli ambiti di vita quotidiana della comunità. Ci dirigiamo forse verso una modalità di ripensamento dello spazio “veloce” ed effettivo non solo per le motivazioni legate al SARS-CoV-2, che hanno accelerato la capacità di risoluzione dei problemi legati al confinamento, e di velocizzazione della restituzione dello spazio pubblico alla collettività. L’impossibilità temporanea di utilizzo di questi luoghi porta a un ripensamento degli ambiti relazionali, delle strutture e modalità di interazione dove le “stanze virtuali” potrebbero essere le “stanze reali”, rispettando la normativa vigente e creando ambiti urbani che siano lungimiranti e attenti al decorso delle calamità naturali, che si possano riconvertire, ridestinare a seconda delle esigenze e dei servizi della comunità che costituisce il nuovo corpo urbano e virtuale, nuovo teatro dell'azione umana. Affrontare il progetto del vuoto, oggi, significa affrontare sia un’assenza fisica, relativa al costruito, ma anche assenza di urbanité, intesa come concetto capace di integrare densità, diversità, spazio pubblico, interazione, civiltà e abitare. Nella città oggetto, la necessità dell’Homo Urbanus³ di tessere relazioni sociali e interagire con lo spazio non si è estinta durante il lockdown; al contrario, ha trovato forme, strumenti e nuovi modelli dell’abitare, attraverso i quali esprimersi. La pandemia ha accelerato alcuni cambiamenti che erano da tempo latenti, evidenziando un paradosso: da un lato il modello ormai affermato di società iper-mondializzata, il “Mondo-città” (Augé, 2007) dove tutti sono interconnessi in ogni momento; dall’altro, la quarantena ha rotto questi schemi ricondizionandoli psicologicamente, portando a una dimensione iper-locale, dove l’unica finestra sul mondo è il web. Infine, il termine della quarantena, ha evidenziato l’insufficienza dell’internità e della virtualizzazione delle relazioni, mostrando la necessità della relazione fisica per riabitare gli stessi spazi urbani che prima erano “scontate normalità”.
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La crisi dello spazio di relazione, allora, non è forse una crisi sistemica, quanto più un quesito che dovremo risolvere, rimodellando lo spazio, consci sia della sua parziale virtualizzazione, che della sua attuale necessità. La città contemporanea diventa quindi un luogo in cui la produzione virtuale dello spazio urbano diventa una cornice costitutiva di una rinnovata esperienza sociale dell’abitare, integrando la componente mediatico-virtuale con quelle architettonico-spaziale e comunicativo-relazionale.* NOTE 1 – Da una conversazione con il prof. Giovanni Tubaro e la prof.ssa Christina Conti, DPIA; UniUD, 2020. 2 – Lo stesso Comune di Milano ha avviato una campagna che vede l’urbanistica tattica come strumento di progetto per la riappropriazione del vuoto urbano, ridefinendo sia frammenti sociali che trame di connessione a mobilità lenta, https://www.comune.milano.it/ aree-tematiche/quartieri/piano-quartieri/piazze-aperte (ultima consultazione ottobre 2020). 3 – Homo Urbanus (2018), diretto e prodotto da Lemoine L., Bêka I., France. BIBLIOGRAFIA – Alexander, R. G. (1977). The Leibniz-Clarke Correspondence with extracts from Newton’s ‘Principia’ and ‘Optiks’. Manchester: Manchester University Press. – Augé, M. (2007). Tra i confini. Città, luoghi, integrazioni. Milano: Bruno Mondadori. – Avermaete, T., Fransje, H., Schrijver, L. (2006). Urban formation and collective spaces. Rotterdam: NAi Publishers. – Bauman, Z. (2003). Cities of Fear Cities of Hope. London : University of London, Goldsmiths College. – Brugellis, P., Pezzulli, F. (2006). Spazi comuni, reinventare la città. Milano: Bevivino Editore. – Espuelas, F. (2004). Il Vuoto: riflessioni sullo spazio in architettura. Kindle Edition. – Farrell Y., McNamara S. (a cura di) (2018). Freespace. Catalogo XVI Biennale di Architettura di Venezia (26 Maggio-25 Novembre 2018). Venezia: La Biennale di Venezia. – La Cecla, F. (2008). Contro l’architettura. Torino: Bollati Boringhieri. – Lenzini, F. (2017). Riti urbani: spazi di rappresentazione sociale. Macerata: Quodlibet. – Norman, D. (2004). Emotional Design. Milano: Apogeo. – Saggio, A. (2010). Architettura e Modernità. Roma: Carocci. – Tondello, P. V. (2006). Camere Separate. Milano: Bompiani.
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Inside Mother Earth La grotta, dal greco κρύπτα, krypta e cioè «(luogo) nascosto» è definita da un qualsiasi tipo di vuoto, naturale o artificiale, posto al di sotto della superficie terrestre. L’uomo da sempre ne subisce il fascino: sia per la protezione e il riparo che esso può offire, sia perchè il mondo ipogeo è ritenuto una zona di mistero, dimora di demoni e divinità e quindi venerato come luogo sacro. Frequentazioni antiche ma ben lontane dall’esplorazione odierna che si pone a metà tra una scienza interdisciplinare e un’attività sportiva. Oggi sappiamo che il sottosuolo nasconde enormi vuoti: il totale delle grotte esplorate in tutto il mondo si aggira intorno ai 30.000 chilometri, ma si stima che sulla Terra esistano tra i 20 e i 50 milioni di chilometri di gallerie, cioè migliaia di volte più di quanto sia stato svelato finora. L’esplorazione, quindi, non è finita, anzi è appena cominciata. A cura di Stefania Mangini
la grotta più profonda del mondo
con 222 km è tra le grotte conosciute più lunghe al mondo
GROTTA KRUBERA-VORONJA ABCASIA, GEORGIA
GROTTA DI LECHUGUILLA
PARCO NAZIONALE DELLE CARLSBAD CAVERNS, NEW MEXICO
-2.197m
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la grotta di ghiaccio più grande del mondo
EISRIESENWELT WERFEN, AUSTRIA
-407m
la grotta contiene cristalli di dimensioni strabilianti, tra cui il più grande che con 11 m di lunghezza e 4 m di diametro, pesa 4 tonnellate
GROTTA DEI CRISTALLI NAICA, MESSICO
-300m
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INFONDO
il sito rappresenta uno dei più popolari santuari indù al di fuori dell’India ed è dedicato a Lord Murugan, rappresentato all’ingresso da un enorme statua, alta 42,7 metri
GROTTE DI BATU
SELANGOR, MALAYSIA la grotta si può raggiungere attraverso la discesa di 450 gradini
-400m
GROTTE DELL'INFERNO E DEL PARADISO NARLİKUYU, TURCHIA
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note per la popolazione di Arachnocampa luminosa, una specie di lucciole che si trova esclusivamente in Nuova Zelanda.
GROTTE DI WAITOMO
WAITOMO, NUOVA ZELANDA la grotta contiene la più grande stalattite del mondo, che misura ben 120 m
-100m
GROTTA DI JEITA BAYRUT, LIBANO
la grotta conosciuta più grande del mondo lunga 9 km, larga 200 m e alta 250 m
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GROTTA SơN ĐOÒNG QUảNG BÌNH, VIETNAM
note per la possibilità di visitarne il complesso sistema di gallerie e sale attraverso un percorso ferroviario di 3 km
GROTTE DI POSTUMIA POSTUMIA, SLOVENIA
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PROFONDITÀ DELLA GROTTA FONTE: siti ufficiali dell’ente/parco
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Gregorio Bonato Architetto bonato.gregorio@gmail.com
Vanno vengono ogni tanto si fermano e quando si fermano sono nere come il corvo sembra che ti guardano con malocchio. Certe volte sono bianche e corrono e prendono la forma dell'airone o della pecora o di qualche altra bestia ma questo lo vedono meglio i bambini che giocano a corrergli dietro per tanti metri. Certe volte ti avvisano con rumore prima di arrivare e la terra si trema e gli animali si stanno zitti certe volte ti avvisano con rumore. Vanno vengono ritornano e magari si fermano tanti giorni che non vedi più il sole e le stelle e ti sembra di non conoscere più il posto dove stai. Vanno vengono per una vera mille sono finte e si mettono li tra noi e il cielo per lasciarci soltanto una voglia di pioggia. Fabrizio De André, Le nuvole, 1990
Le nuvole, 1990
L'identità delle nuvole è nei luoghi che portano con sé. Nessun luogo è indicato di seguito, sono solo punti di vista dalla superficie terrestre.
Certe volte
Paola Careno Laureata in architettura e assegnista di ricerca presso l’Università Iuav di Venezia. pcareno@iuav.it
Distorsioni climatiche. Una logica che cambia la forma del volume vuoto Fabrizio Chella Lettera Ventidue, 2020
Yet the wind is still blowing The utopia of Chella projects us in a scenario where the design of the spaces begins in total absence of the building, where the architecture eliminates its material part. It gets rid of everything that hinders its interfacing to the positive energetic effects of the landscape and concentrates on the final effect that space will exert on the bodies that will move within it and “on the effect that transports the spaces of life from the real to the ideal”. “We must show greater respect for regional climatic differences and greater sensitivity to the place in which we live.*
Eppure il vento soffia ancora ppure il vento soffia ancora”1 è la frase di un brano musicale scritto nel 1976 da Pierangelo Bertoli che descrive con durezza i mali causati dall’uomo alla natura in un testo considerato “un manifesto in musica dell’ecologia” (Pinto, 2015). Infatti “di cambiamento climatico se ne parla già da molto tempo” ma “solo in momenti come questi [scrive Domenico Potenza nella postfazione al libro di Fabrizio Chella e in riferimento alla pandemia in corso] ci rendiamo tutti conto di essere più sensibili ai problemi legati all’abitare il pianeta”. Secondo Chella la causa del disordine climatico odierno nasce dal desiderio tracotante dell’uomo di viaggiare nel tempo e dal prometeo fare degli architetti che, assecondando questo desiderio, hanno progettato vere e proprie macchine del tempo (gli edifici) immobili ma artefici di una contrazione innaturale della struttura climatica dell’ambiente. Dalla prima metà del ’900, l’architettura basandosi su principi di semplicità e funzionalità è diventata “sempre meno locale e sempre più globale”. Emblematica la descrizione di una pubblicità di oggetti di arredo che l’autore aneddoticamente cita: “Un paesaggio invernale natalizio che ricorda un paese del nord Europa, un uomo infreddolito che entra in casa scrollandosi la neve di dosso, e poi […] tutto diventa distorto! Il paesaggio all’interno cambia drastica-
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mente, un sub, una donna in bikini, un babbo natale in costume e gente che simula un arrivo alle Hawaii. Per concludere una coppia che si abbronza sotto una lampada”. “Eppure il vento soffia ancora” sembra quasi un’esortazione a percepirlo sulla propria pelle, il vento. La medesima esortazione che Chella, in Distorsioni climatiche. Una logica che cambia la forma del volume vuoto, cuce assieme a problemi attuali sul rapporto tra uomo, natura e architettura, e riflessioni tutt’altro che anacronistiche, strutturate secondo un indice che “potrebbe apparire all’inizio criptico e pretenzioso ma si scioglie lungo una narrazione che ha carattere scientifico senza annoiare, inanellando termini innovativi come distorsioni climatiche, distorsioni latenti, prospettive termiche, deformazioni luminose, deformazione permanente, deformazioni fisiologiche, spazio e prolunghe sensoriali”. Interessante soprattutto l’interpretazione del vuoto, o meglio del volume vuoto. Lungi dal ragionare intorno al vuoto come negazione del pieno, per Chella il volume vuoto è un complesso di fenomeni naturali di una determinata area geografica; è “l’organizzazione immateriale delle forze della natura […] è un volume che si caratterizza per avere una struttura fluida e dinamica progettata dalle forze della natura […] è inafferrabile al contatto ma è capace di catturare l’attenzione degli organi di
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senso” perché è a livello sensoriale che i significati qualitativi dell’architettura si manifestano: “[…] è l’anima dell’architettura”. Va quindi costruita una “nuova relazione tra paesaggio meteorologico esterno e paesaggio termico interno all’edificio […] per rendere visibili le forze immateriali della natura dentro l’architettura”. Un “Rinascimento climatico” che non guarda al mondo classico quanto piuttosto ai maestri del moderno (Le Corbusier, Louis Kahn, Steven Holl, Alvar Aalto) perché “non si accontentavano di riprodurre ciò che è visibile ma hanno reso visibile ciò che non lo è: il clima”. L’architettura dovrebbe distorcere la percezione del luogo ma in modo latente, rendere visibile le sensazioni perché di queste si nutre l’esperienza del luogo. L’80% delle sensazioni che provengono dall’esterno sono di natura ottica quindi la luce, ad esempio, riveste un ruolo principe negli scambi di flussi tra architettura e ambiente. Lo studio ZEDAPLUS, di cui Chella è co-fondatore assieme a Erica Scalcione, ha brevettato una lampada solare — la Double Light Pipe Ventilated — alimentata a luce naturale. È un dispositivo tecnologico che — attraverso la sua capacità di illuminare anche ambienti privi di un affaccio diretto verso l’esterno, e attraverso un’efficace ventilazione naturale che crea ambienti idonei alla crescita di piante per migliorare l’ossi-
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Vision. Architettura climatica come circoscrizione di una porzione di ambiente climatico di riferimento. ZEDAPLUS architetti
genazione e la qualità ambientale degli spazi genera un “paesaggio termico naturale confinato, una sorta di eden interno”. L’utopia di Chella ci proietta in uno scenario dove la progettazione degli spazi inizi in totale assenza dell’edificio, dove l’architettura elimini la sua parte materica, si spogli di tutto ciò che ostacoli il suo interfacciarsi agli effetti energetici positivi del paesaggio e si concentri sull’effetto finale che lo spazio eserciterà sui corpi che si muoveranno al suo interno e “sull’effetto che trasporta gli spazi di vita dal reale all’ideale”. “Bisogna mostrare maggiore rispetto per le differenze climatiche regionali e una maggior sensibi-
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lità verso il luogo in cui viviamo. Uno dei principi fondamentali della scienza naturale, afferma che solo le specie in armonia con il proprio ambiente e con le forze esterne della natura alle quali sono sottoposte, sono destinate a sopravvivere”.* NOTE 1 – “Eppure il vento soffia ancora” è una frase estratta dal testo del brano musicale dal titolo “Eppure soffia” di Pierangelo Bertoli, pubblicata nell’omonimo album nel 1976. BIBLIOGRAFIA – Pinto, A. (2015). Eppure soffia. Ehabitat. Https://www. ehabitat.it/2015/11/07/eppure-soffia-la-poesia-di-pierangelo-bertoli-in-difesa-della-natura/ (ultima consultazione dicembre 2020).
La natura dentro al recinto quadrato della polveriera Nature inside the squared fence of the powder keg
Moreno Baccichet Architetto, dottore di ricerca in Storia dell’architettura e dell’urbanistica, insegna urbanistica come professore a contratto presso gli atenei di Ferrara e Venezia. moreno.baccichet@gmail.com
Il bosco subirà diversi indirizzi di selvicoltura verso nuovi paesaggi forestali. The forest will undergo different paths of forestry towards new forest landscapes. Silvio Dal Mas
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In merito alle dismissioni delle aree militari è evidente come negli ultimi quindici anni la critica si sia interessata a strutture, per lo più genericamente identificate come caserme, che avevano a che fare con gli ambiti urbani (Gastaldi e Camerin, 2019). Già nel 2015, trattando delle strutture militari del Friuli Venezia Giulia, ponevo invece l’attenzione sul fatto che la maggior parte degli spazi militari dismessi erano in realtà dei grandi vuoti. Strutture che si trovavano ben lontane dai luoghi abitati e che non potevano usufruire di pratiche rigenerative ordinarie (Baccichet, 2015). I grandi poligoni di tiro sui Magredi (Pordenone), in montagna o sul Carso, insieme a circa duemila piccole postazioni di difesa distribuite lungo le strade e i principali corsi d’acqua del Nord Est disegnavano un sistema poroso, spesso immerso in situazioni ambientali più che urbane. Persino la maggior parte delle caserme si trovava il più delle volte in un ambiente agricolo o naturale. Non a caso molti siti che nel primo decennio degli anni 2000 furono ceduti gratuitamente ai comuni si trovarono a essere in zone vincolate dalle normative ambientali dell’UE. A Volpago del Montello è accaduto proprio questo. Il SIC del Montello comprende al suo interno due ampie strutture militari, la prima, un deposito di carburante, è ancora presidiata dai militari, mentre la grande polveriera è abbandonata da qualche decennio. La superficie della polveriera è consistente, circa un chilometro per un chilometro, e venne espropriata allontanando tre famiglie che abitavano quel settore della collina. L’azione dello Stato comportò una profonda segregazione di questi cento ettari di territorio dalle pratiche e dalla vita che si svolgeva al di là del doppio recinto di rete metallica. All’interno furono costruiti una sessantina di edifici e sei bunker interrati in calcestruzzo. Questa grande porzione del Montello, una sorta di tassello, subì uno sviluppo del tutto diverso dal resto della regione geografica progredendo verso un paesaggio selvatico seminaturale. I campi coltivati furono i primi a scomparire sostituiti dalle successioni secondarie. Le iniziative di manutenzione erano poche e concentrate lungo i percorsi, lungo i recinti e attorno agli edifici. Il grande quadrato della polveriera divenne una vera amnesia territoriale e oggi questa grande area
BIBLIOGRAFIA – Baccichet, M. (a cura di) (2015). Fortezza FVG. Dalla guerra fredda alle aree militari dismesse. Monfalcone: Edicom. – Gastaldi, F., Camerin, F. (2019). Aree militari dismesse e rigenerazione urbana. Potenzialità di valorizzazione del territorio, innovazioni legislative e di processo. Siracusa: LetteraVentidue Edizioni. – Basso, M. (2020). Un parco pubblico per il Montello? Il percorso partecipativo per il recupero della ex Polveriera di Volpago del Montello (TV). Urbanistica Informazioni, n. 289. Roma: INU Edizioni, pp. 93-96.
dismessa nel 2011 è un vuoto di conoscenza per una comunità che si trova a doverne prevedere il recupero. Per questo motivo l’amministrazione comunale ha predisposto una iniziativa di esplorazione e coprogettazione (coordinata dagli architetti Annalisa Marini e Moreno Baccichet) strutturata in tre fasi: una prima fase di conoscenza del problema delle dismissioni militari, una seconda di ricognizione e rappresentazione dei luoghi e infine una di laboratorio di coprogettazione. Due giornate di esplorazione partecipata hanno permesso a circa 350 cittadini di entrare nel grande recinto e produrre una ricognizione fotografica che ha raccolto circa 5.000 scatti tra i quali un terzo pubblicati e condivisi in rete. Il processo è documentato da un blog, mentre gli esiti progettuali sono strutturati in tre fasi temporali: le azioni di progettazione tattica, i microprogetti da realizzarsi in un tempo breve (5 anni) e i progetti di lunga durata (10 anni). Il disegno delle azioni definisce una idea di politica territoriale condivisa sul fronte del recupero naturalistico dei cento ettari di patrimonio collettivo. Il progetto intende valorizzare e gestire le componenti naturalistiche e recentemente si è espresso anche con la disponibilità dell’area a un progetto nell’asse dei programmi europei Life. Il grande vuoto segregato al di là degli otto chilometri di rete metallica diventa il solo grande parco pubblico del Montello progettato per tutelare le specie animali e vegetali di interesse comunitario.*
Memoria e futuro del vuoto Void, remembrance and future
Sabrina Righi Architetto, si occupa di restauro e digitalizzazione BIM. sabrinarighi94@gmail.com
Andrea Russo Architetto, si occupa di progettazione e ristrutturazione edilizia. bpld@live.it
Un quartiere a sud del centro storico di Mosul: a sinistra i vuoti rimasti tra le abitazioni, a destra il nuovo sistema pubblico di servizi e i blocchi residenziali sorti attorno a esso. Neighborhood south of historical centre of Mosul. Destructions-caused voids inbetween buildings (left) the new public services’ system and residential blocks around it (right). Sabrina Righi, Andrea Russo
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Quale atteggiamento adottare nei confronti del vuoto? Come intervenire di fronte a esso quando generato da una sistematica distruzione? La risposta è contenuta nel vuoto stesso; seppur distrutte, le macerie ci raccontano molto, sono ricche di tracce, testimonianze e ricordi di ciò che esisteva prima e da cui ripartire reinterpretandoli. In Iraq, a Mosul, uno dei numerosi centri facenti parte della MENA Region1, la guerra si è consumata tra i quartieri residenziali. La città è stata bombardata durante la lunga battaglia contro l’ISIS e numerosi fattori, come la distruzione di edifici istituzionali, di quelli legati alle attività economiche, la mancanza di alloggi e di acqua hanno alimentato il conflitto dall'interno. Gli edifici più colpiti da tale “urbicidio”2, quelli con funzioni collettive come ospedali, scuole, edifici di culto, della produzione e del commercio, si trovavano lungo le maggiori arterie viarie, dove i loro resti ora formano una successione di grandi vuoti, fratturando la trama urbana. La ricostruzione deve partire da queste cicatrici, luoghi pubblici e di socializzazione, fondamentali per rinsaldare una comunità segnata da eventi traumatici. Dopo i conflitti mondiali del Novecento il tema della ricostruzione dei centri storici è stato ampiamente affrontato trovando risposta nel restauro urbano. A Mosul però, la maggior parte dei quartieri, di matrice formale o informale (Herdeg, 1990), si sono sviluppati attorno al nucleo antico in periodo post-industriale, abbandonando quei caratteri tradizionali della città e dell’architettura arabo-islamica, espressione di una maturata conoscenza di fattori culturali, ambientali e sociali. La ricostruzione pone dunque l’occasione per ripensare questi quartieri e operare in essi uno sviluppo tecnologico e sociale. Il centro storico della città arabo-islamica, e di Mosul stessa, viene riconosciuto come modello da aggiornare, integrare, e tornare ad applicare (Albrecht, Galli, 2019). L’insieme dei suoi caratteri, la ricchezza di spazi gerarchizzati, l’articolato alternarsi di pieni e vuoti, assieme alle differenti spazialità degli edifici tradizionali e la loro collocazione funzionale all’interno della città, disegnano successioni di spazi in dialogo tra loro (Hakim, 1986). Sulle ferite dell’agglomerato urbano, rileggendone e mantenendone funzioni originarie, collocazione e
BIBLIOGRAFIA – Albrecht, B., Galli, J. (2019). Urbicide Mosul. Triggers for reconstruction. Reconstruct, sensitive employment creation through bottom-up cellular strategy. Conegliano: Anteferma. – Hakim, B. S. (1986). Arabic-Islamic cities. Building and planning principles. London: Kegan P. International. – Herdeg, K. (1990). Formal structure in islamic architecture of Iran and Turkistan. New York: Rizzoli international. – Trombetta, C. (2002). L’attualità del pensiero di Hassan Fathy nella cultura tecnologica contemporanea. Soveria Mannelli: Rubettino editore.
NOTE 1 – Middle East and North Africa, ampia regione, estesa dal Marocco all'Iran, teatro sin dalla fine della Seconda Guerra Mondiale di guerre, conflitti civili e terrorismo che hanno ostacolato lo sviluppo politico ed economico creando terreno fertile per ulteriori violenze, spesso fomentate dalla contesa delle notevoli riserve di petrolio e gas naturale della regione.. 2 – Per Bogdan Bogdanović l'urbicidio è “una opposizione manifesta e violenta ai più alti valori della civiltà”. Esso indica il deliberato e atroce attacco bellico mosso alle città comprendente la distruzione fisica e simbolica della cultura, dello spirito e della comunità urbana.
memoria collettiva, vengono riproposti questi elementi; modelli per la ricostruzione dei servizi primari replicati in un unico sistema, una rete di luoghi del welfare, diffuso nella città, che rispetti e serva gli assetti proprietari esistenti delle aree residenziali. Questi punti nevralgici generano tra loro una tensione destinata a saturarsi nel tempo in base alle necessità della città, occupando e ridisegnando la sede stradale nel suo tradizionale ruolo di spazio del commercio, di socializzazione e democrazia. Fungendo da diaframma lungo la strada, la rete si snoda tra il costruito e il vuoto, senza negare quest’ultimo, ma permettendo, secondo necessità o memoria, la formazione di spazi a differenti densità (Trombetta, 2002); un’alternanza di aree aperte ed altre più riparate e ombreggiate che permetta di fluire tra spazi a diversi gradi di saturazione, regolando allo stesso tempo gli accessi alle strade semi-private e configurando un bordo di attesa per i nuovi edifici residenziali. In questo modo, partendo dai vuoti, rileggendone e restaurandone il significato, si aiutano le ferite urbane a ricucirsi progressivamente, consolidando la città nella sua ricostruzione.*
L’arte come cura dei luoghi vuoti Art as cure for empty places
Marco Manfra Borsista di ricerca presso il Dipartimento di Architettura, Università di Ferrara. mnfmrc2@unife.it
Street Art ad Aielli, opera di Millo, 2020. Street Art in Aielli, by Millo, 2020. Borgo Universo
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A partire in forma più acuta dal Novecento, persone, merci e informazioni impattano sui territori modificandone, più rapidamente che in passato, i sistemi socioeconomici e in ultima analisi l’aspetto architettonico. Come nel caso dei borghi dell’entroterra appenninico desertificati da decenni di crisi economiche e demografiche, le comunità si “sfarinano” e gli spazi diventano “vuoti”. Questi sono sì caratterizzati da drammatiche assenze di varia natura, ma anche particolarmente adatti a essere “riempiti” ancora da chi è attratto dai valori di una nuova coscienza dei luoghi (Becattini, 2015) e intende viverli sia in forme temporanee di fruizione ricreativa, sia in forme di insediamenti residenziali e produttivi stabili. È ormai chiaro che, nei paesi “svuotati” della loro vitalità, non più “corpi” pieni e dinamici come un tempo, la corretta valorizzazione di paesaggi – intesi sia come beni tangibili e relazioni sociali – è in grado di catalizzare flussi turistici e, al contempo, di innescare processi economici sostenibili, emergenti da approcci progettuali place-based. Una strategia di valorizzazione locale di questo tipo non può quindi essere guidata da una logica di mera patrimonializzazione (De Rossi e Mascino, 2020) e deve distanziarsi dall’enfasi spesso presente in neoromantiche retoriche identitarie (Teti, 2020). Nella moltitudine di strategie spaziali attuabili per la rivitalizzazione di un luogo vuoto, primeggia la formula della rigenerazione a base artistico-culturale. In quest’ottica, architetture private o di valenza pubblica prendono sovente le mosse da progetti di riuso, ospitando centri culturali o divenendo aree di socializzazione per attività comunitarie correlate a pratiche artistiche. Spesso, dalla singola costruzione, tali usi e visioni progettuali si estendono a intere borgate, trasformate in spazi d’arte en plein air o in infrastrutture insediative volte ad accogliere eventi vari. Una serie di interventi fisici, dunque, realizzati nel paese in punti diversi e diffusi che, uniti in rete, danno vita a inediti spazi di uso collettivo o a realtà immateriali emergenti. Così, al loro interno, grazie alla rinnovata fruibilità dei luoghi nel quotidiano e al dispiegarsi della vita sociale, si intrecciano freschi valori culturali condivisi, atti a dar vita a moderne forme di aggregazione e a progettualità ed economie circolari in cui la nozione di capitale è anche di tipo artistico e culturale.
BIBLIOGRAFIA – Becattini, G. (2015). La coscienza dei luoghi. Il territorio come soggetto corale. Roma: Donzelli. – De Rossi, A., Mascino, L. (2020). Patrimonio. In Cersosimo, D., Donzelli, C. (a cura di), Manifesto per riabitare l’Italia. Roma: Donzelli, pp. 177-181. – Manzini, E. (2018). Politiche del quotidiano. Progetti di vita che cambiano il mondo. Roma: Edizioni comunità. – Teti, V. (2020). Paese. In Cersosimo, D., Donzelli, C. (a cura di), Manifesto per riabitare l’Italia. Roma: Donzelli, pp. 171-176.
Emblematico è il caso del borgo marsicano di Aielli (AQ), dove il desiderio della comunità locale di riformare la concezione degli spazi vuoti mediante una ricerca del bello, promuove la Street Art a pratica di ricollocazione identitaria condivisa: forme e colori restituiscono alla collettività, co-protagonista delle installazioni artistiche, sentimenti di autorealizzazione e senso di appartenenza, idonei a tramutarsi in preziose forme di cura e tutela del territorio. Posizionandosi come utile strumento a supporto di un programma di azioni a più ampio spettro, questa tipologia d’arte pubblica, estesa e accessibile, diviene oggetto del miglioramento della qualità estetica dell’ambiente costruito. Attraverso le micro-reti generate dall’organizzazione artistico-culturale-educativa, interrelata al considerevole aumento dei flussi turistici e a una comunità partecipe, Aielli si appresta a diventare un centro importante per laboratori di innovazione sociale che si riverberano all’esterno del contesto locale e che investono filiere socioeconomiche diversificate (Manzini, 2018).*
Elena Orsanelli Architetto, titolare di una borsa di studio post-lauream per attività di ricerca presso l’Università Iuav e collaboratrice alla didattica. eorsanelli@iuav.it Sofia Sacchini Architetto, precedentemente titolare di una borsa di studio post-lauream per attività di ricerca presso l’Università Iuav e collaboratrice alla didattica. ssacchini@iuav.it Nicolò Fattori Architetto, titolare di una borsa di studio post-lauream per attività di ricerca presso l’Università Iuav. Collaboratore occasionale presso lo studio BluArchitettura. nfattori@iuav.it
vuoti apparenti e vuoti reali (img. 01). Il lavoro descritto nella tesi Racconti: dialogo tra ascolto e progettazione1 ha preso il via proprio da questa riflessione calata nel caso specifico di Teor, un piccolo paese situato nella bassa pianura friulana. Parlare di vuoti significa trattare di una vasta gamma di possibili spazi: spazi senza nome (Boeri et al., 1993), drosscapes (Berger, 2006), spazi in-between (Strauven, 1998), spazi
in sospensione, in attesa di essere risignificati; significa innanzitutto domandarsi quali siano le cause che hanno portato al graduale e frammentato abbandono di edifici e alla crescente percezione di vuoto. Il vuoto si è infiltrato tra i muri delle case lasciando minute ma significative tracce del suo passaggio. Molti edifici hanno perso gran parte del loro valore funzionale e sociale: i mestieri si sono
Apparent voids and real voids: living in forgotten spaces Telling: the description of a small village that is about to be abandoned brings out the latent qualities of a forgotten territory and works as an example of the critical conditions that many municipalities in Italy and Europe are experiencing. The project asks a radical change of the ordinary point of view and tries to exercise the gaze and the imagination to recognize the potential of the context and to change the perception of known spaces. Fixing the roots in the current socio-spatial territory allows to re-design abandoned spaces and forgotten places.* a situazione Nel quadro della riflessione sulla città e sul territorio, emerge come negli ultimi anni il tessuto urbano sia stato fortemente caratterizzato dalla presenza di edifici progressivamente abbandonati dall’uomo ad una lenta erosione, spazi cancellati dall’immaginario della città:
01. Vuoto urbano configurato a seguito di un processo di abbandono di spazi relativi all’abitazione, alla corte interna e al sottoportico di connessione con lo spazio pubblico. Urban void consequent of the abandonment’s process concerning the house, the internal courtyard and the portico connecting with the public space. Nicolò Fattori
Vuoti apparenti e vuoti reali: abitare spazi dimenticati Riflessioni e sguardi sul territorio contemporaneo 68
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02. Strappare la visione attuale del paese per costruire una nuova immagine di Teor. Tearing up the current vision of the village to build a new image of Teor. Nicolò Fattori, Elena Orsanelli, Sofia Sacchini
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modificati, la ricchezza e le peculiarità della campagna sono state annullate dalla presenza di coltivazioni estensive e, di conseguenza, anche gli annessi rustici hanno smesso di svolgere la loro funzione originaria. La dismissione dei fabbricati, lenta ma diffusa, è un evento che si è protratto nel corso del tempo, silenziosamente, fino a trasformare il volto del paese, come “un’azione negativamente ricca di avvenimenti” (Goffman, 2006, p. 9) che passa del tutto inosservata quando viene attuata, ma con il procedere del tempo sedimenta e costituisce un layer consistente del tessuto urbano. Questo “fenomeno articolato, sia spazialmente, sia nelle forme e nei processi” (Fabian e Munarin, 2015, p. 15) ha una riconoscibilità fisica nei luoghi dove agisce, ma emerge con ancora più enfasi nella percezione che gli abitanti hanno del proprio paese. Il progetto di tesi, quindi, si è occupato di indagare ciò che sta accadendo a Teor e coglierne le sollecitazioni. Per agire in questa direzione è stato necessario ampliare l’orizzonte dello sguardo e sviluppare una nuova visione del paese: se la vita quotidiana e le attività produttive si svolgono sul retro degli edifici, quello che continua a emergere è il silenzio delle facciate su fronte strada, perché risulta difficile vedere ciò che accade dietro le siepi, al di là dei portoni socchiusi e nelle corti retrostanti2. Lo sforzo effettuato attraverso la ricerca è stato quello di osservare Teor con uno sguardo nuovo. Modus operandi Un’attenta indagine ha sollevato fattori rilevanti da un punto di vista spaziale e sociale, superando il rischio di una lettura superficiale e soggettiva. Un dato fondamentale è emerso dal confronto tra la percezione delle strutture abbandonate e gli edifici definitivamente dismessi: i vuoti reali rilevati risultano nettamente inferiori rispetto a quelli descritti dagli abitanti. Perché la percezione del vuoto è decisamente superiore alla sua reale quantità? Molti degli spazi percepiti come abbandonati sono, nei fatti, vuoti apparenti: case vacanze che per la maggior parte
dell’anno restano disabitate, proprietà frammentate diventate difficili da gestire, lunghe infilate di vetrine spoglie. I negozi sfitti e le serrande abbassate diventano come muri impermeabili allo sguardo di chi attraversa il paese, così come le case introverse con le finestre chiuse sul fronte strada e i portoni che separano la strada dalle corti interne. Guardando oltre il profilo chiuso e continuo delle abitazioni fronte-strada si riescono a scorgere alcuni esempi positivi, microscintille puntuali che lasciano intravedere le attività in fermento sul retro degli edifici. Questo è il caso di un microbirrificio che ha iniziato a svilupparsi nella cortina edilizia a sud e, per il cui funzionamento, i proprietari hanno già provveduto a restaurare l’annesso rustico della corte per ospitare i macchinari necessari alla lavorazione del luppolo, coltivato nei campi retrostanti (img. 03). Ma anche il caso di un vecchio fienile che, nel giro di pochi anni, sarà ristrutturato per ospitare l’ampliamento delle
Molti degli spazi percepiti come vuoti sono nei fatti vuoti apparenti attività artigianali di un muratore, ora in pensione, che si dedica da anni alla lavorazione del legno e della pietra. La mappatura delle azioni in atto, l’individuazione dei vuoti apparenti e l’ascolto degli abitanti hanno costituito la base su cui si è innestato il lavoro. La ricerca si è strutturata seguendo le direttive suggerite dal concetto di as found (Smithson e Smithson, 1990), che individua nella riscoperta di spazi quotidiani e pratiche sociali i possibili motori della rigenerazione del tessuto urbano esistente. Le azioni descritte dal progetto sono strettamente legate a ciò che già si stava sviluppando in paese, al paesaggio e alle storie di vita dei singoli abitanti: “le idee cammina-
03. Ricchezza e vitalità delle corti interne, gli spazi di connessione con la campagna retrostante. Richness and vitality of the internal courtyards, the spaces that connect the street with the countryside behind. Nicolò Fattori
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no sulle gambe delle persone, esistono e si concretizzano con le vite vissute” (Cellamare, 2019, p. 133). Dal punto di vista spaziale le azioni previste operano un cambio di prospettiva radicale, che conduce il visitatore attraverso la campagna antica punteggiata da frutteti e vigne, siepi e canaline, oltrepassando gli orti, fino alle corti, mostrando il fermento delle attività in atto e la ricchezza e la qualità degli spazi attraversati (img. 04). L’esplorazione progettuale, quindi, ha preso in considerazione le attività in fase di avvio, i desideri degli abitanti e le loro proiezioni future. La progettazione di ampliamenti, ricuciture e ripensamenti di spazi finora slegati tra loro ha reso possibile la realizzazione del progetto che è avanzato per piccoli step: si è attuata la traduzione di un progetto implicito individuando le scintille già presenti sul territorio che avrebbero potuto innescare “nuovi cicli di vita” (Fabian e Munarin, 2015, p. 16) e facendo emergere alcune volontà degli abitanti, ampliate ed interconnesse secondo nuovi possibili scenari. Azioni Per mostrare la vitalità del paese è stato necessario “strappare” la visione attuale di Teor e far emergere la qualità e la quantità di artigiani, laboratori, piccole imprese che si nascondono dietro la cortina edilizia che chiude la strada principale in un lungo e stretto canyon (img. 02). Quella che sembrava una superficie muta e silenziosa di una cortina edilizia continua, si è rivelata avere uno spessore entro cui si sviluppa la vita degli abitanti, dove le corti retrostanti attraverso i sottoportici entrano in contatto con lo spazio della strada. Come dice Jan Gehl, “pochi metri quadrati ben progettati accanto alle abitazioni molto spesso risulteranno più utili e sfruttati dei grandi spazi, troppo distanti” (Gehl, 2012, p. 233), sempre che siano sufficientemente visibili e raggiungibili. Un’azione semplice come quella di aprire i portoni delle corti e lasciare che spazio pubblico e privato possano nuovamente interagire permetterebbe di percorrere il paese perpendicolar-
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04. Cambio di prospettiva che permette di entrare in paese arrivando direttamente dalla campagna. Change of perspective that allows to enter the village coming directly from the countryside. Nicolò Fattori
mente alla strada carrabile principale. Attraversare la rigogliosa campagna friulana ed entrare nel paese dal “retro” darebbe la possibilità di percepire la ritmicità dello spazio che si dilata e si restringe nella sequenza strada — sottoportico — corte — campi e di esperire così la vita che si svolge in paese e le attività che si sviluppano nelle corti interne. Approcciare questi temi da nuove prospettive, valorizzando la qualità degli spazi finora rimasti invisibili, aiuta a comprendere la differenza tra vuoti reali e vuoti apparenti, percepire la vitalità del paese e la moltitudine di attività che si svolgono nelle corti retrostanti le abitazioni, sviluppando una progettualità interstiziale e policentrica. Si tratta di instillare un lento processo di riappropriazione fisica e mentale di luoghi e attività da parte degli abitanti dal momento che uno spazio non può dirsi tale fino a quando non viene visto, percepito e vissuto dagli abitanti.*
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NOTE 1 – Tesi di Laurea Magistrale in Architettura, svolta nell’a.a. 2018/19 da Nicolò Fattori, Elena Orsanelli e Sofia Sacchini, relatori proff. Stefano Munarin e Antonella Faggiani, con menzione come Miglior Tesi di Laurea in Architettura del 2019. 2 – Riprendendo William H. Whyte in The Social Life of Small Urban Spaces (1980): “L’orizzonte della visione è importante. Se le persone non riescono a vedere uno spazio, non lo utilizzeranno mai”. BIBLIOGRAFIA – Berger, A. (2006). Drosscape. Wasting Land in Urban America. New York: Princeton Architectural Press. – Boeri, S., Lanzani, A., Marini, E. (1993). Nuovi spazi senza nome. Casabella, n. 597-598. Milano: Mondadori, pp. 74-76. – Cellamare, C. (2019). Città fai-da-te. Tra antagonismo e cittadinanza. Storie di autorganizzazione urbana. Roma: Donzelli Editore. – Fabian, L., Munarin, S. (2015). Re-Cycle Veneto. In Fabian, L., Munarin, S., Donadoni, E. (a cura di), Re-Cycle Veneto. Roma: Aracne Editrice, pp. 11-23. – Gehl, J. (2012). Vita in città. Spazio urbano e relazioni sociali. Sant’Arcangelo di Romagna: Maggioli Editore. – Goffman, E. (2006). Il comportamento in pubblico. L’interazione sociale nei luoghi di riunione (F. Basaglia, trad.). Torino: Piccola Biblioteca Einaudi. (opera originale pubblicata nel 1971). – Smithson, A., Smithson, P. (1990). The “As Found” and the “Found”. In Robbins, D. (a cura di), The Independent Group. Postwar Britain and the Aesthetics of Plenty. Cambridge: The MIT Press, pp. 201-202. – Strauven, F. (1998). Aldo van Eyck. The shape of relativity. Amsterdam: Architectura & Natura.
Caterina Rigo Architetto, PhD candidate all’Università Politecnica delle Marche. rigocaterina@gmail.com Martina Campanelli Studentessa presso l’Università Politecnica delle Marche. campanelli.martina@gmail.com Claudia Massioni Studentessa presso l’Università Politecnica delle Marche. claudia.massioni@gmail.com
l vuoto: da spazio di risulta a elemento di progetto Nell’analisi dei territori abitati emergono spesso problematiche frequenti, quali il distacco tra tessuto costruito e ambiente, gli spazi congestionati, l’abbandono dei centri urbani e il sottoutilizzo delle risorse. Criticità
simili innescano processi di generazione di vuoti all’interno dello spazio urbano. Partendo dall’etimologia del termine, un “vuoto” viene inteso nell’immaginario comune della cultura occidentale come una mancanza, una sospensione, una negatività che deve per forza essere sostituita e colmata.
Benedetta Staccioli Studentessa presso l’Università Politecnica delle Marche. benedettastaccioli@gmail.com Nicolò Agostinelli Studente presso l’Università Politecnica delle Marche. nicol.agostinelli@libero.it Leonardo Binni Studente presso l’Università Politecnica delle Marche. leonardo.binni@hotmail.it
UpCycling Territories The reflection on the concept of "void" in urban planning and architecture leads to the awareness that a territory characterized by empty spaces is consequently full of opportunities: the void becomes a tool for design and connection in those realities where the urban fabric presents evident discontinuities. UpCycling Territories suggests a territorial mending strategy with a multi-scalar approach that can integrate human settlements and natural and historical-cultural systems with the subjects of the productive sector, for shared and sustainable territorial development scenarios.*
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01. Analisi del territorio di Laterza (TA) e individuazione dei vuoti locali. Territorial analysis of Laterza (TA) and identification of local voids. Caterina Rigo, Nicolò Agostinelli, Leonardo Binni, Martina Campanelli, Claudia Massioni, Benedetta Staccioli
UpCycling Territories
Strategie multiscalari per un nuovo paesaggio produttivo
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L'ARCHITETTO
Nell’ambito del progetto architettonico e urbano si può invece parlare di un rovesciamento di tale paradigma conferendo al concetto di vuoto un valore differente, fino a definire un luogo - o un territorio - “ricco di vuoti” attraverso diverse chiavi di lettura. La città necessita di spazi liberi per permettere all’uomo di muoversi con facilità: dove c’è assenza di materia, si rende possibile la presenza di persone (Di Giovanni, 2018). Inoltre, il vuoto non è semplicemente spazio inoccupato, punto di disconnessione del tessuto urbano, bensì giuntura che offre innumerevoli opportunità per dare nuovamente continuità al territorio e alla sua comunità (Ferretti, 2016). Le aree di risulta nate durante l’incontrollata espansione urbana possono conoscere una seconda vita nella pratica odierna: i vuoti concepiti come spazi aperti sono liberi dalla struttura ideologica a cui appartenevano e diventano quindi dei fattori dalla potenzialità unica per la costruzione di una nuova realtà pubblica (Lopez-Pineiro, 2020). La definizione di una rete di vuoti assume una valenza imprevista, che stimola la progettazione su piccoli spazi, aperti e diffusi, con l’obiettivo di restituire una nuova immagine alla città, ovvero al territorio che la circonda, riscoprendo il valore dell’incontro e della partecipazione.
Il risultato finale costituisce una matrice applicabile a sistemi territoriali analoghi Il progetto come occasione di ricerca Un terreno di sperimentazione su questo tema è stato il concorso Europan151, nel sito di Laterza, comune pugliese di 15.000 abitanti situato nell’Arco Ionico-Tarantino, a circa 20 km da Matera. L’insediamento sorge sulla sponda occidentale del più vasto canyon europeo, parte del Parco Naturale Terra delle Gravine. Lo stato di fatto, analizzato anche attraverso un questionario rivolto ai residenti, restituisce lo scenario di una città che, nonostante il potenziale a disposizione legato al patrimonio naturale, storico e culturale, ha perso i suoi spazi vitali e i suoi riferimenti. La mancata integrazione tra insediamento urbano e gravina e l’invasione delle automobili nel centro città possono considerarsi le concause della formazione di una moltitudine di aree di risulta. Il distacco dall’area naturalistica - che si estende su una superficie di 5.000 ha - è evidenziato dalla carenza di collegamenti al canyon, accessibile
esclusivamente a circa 2 km dall’agglomerato urbano. Contemporaneamente, l’insufficienza di posti auto - il PUG2 evidenzia la necessità di ulteriori 23.700 mq da destinare a parcheggio - ha trasformato gli spazi vuoti in aree per la sosta delle vetture, con frequenti incidenti, picchi di traffico e conseguente discomfort acustico. La riqualificazione delle tre piazze principali, oggetto di concorso, è diventata occasione per indagare strategie di riconnessione degli spazi vuoti all’interno del tessuto territoriale. Multiscalarità: dall’uomo al territorio In un contesto simile, caratterizzato da vuoti naturali e urbani che dettano il ritmo dell’abitato, il progetto UpCyclingGravina3 propone una strategia territoriale di ricucitura che possa integrare gli insediamenti umani e i sistemi paesaggistico e storico-culturale, con i soggetti del settore produttivo, per uno sviluppo territoriale condiviso e sostenibile. Lo spazio pubblico, da ripensare, diventa il collante tra gli elementi sopra citati e assume un potenziale maggiore in un territorio discontinuo e caratterizzato da autonomi singhiozzi urbani (Di Giovanni, 2018). La definizione di un network su scala sovraregionale (img. 02) aspira a riconnettere le città dell’Arco Ionico-Tarantino e ri-
02. Rete di infrastrutture lente nell’area vasta dell’Arco Ionico-Tarantino. I percorsi si relazionano alla rete dei tratturi, sentieri a fondo naturale originati dal passaggio delle greggi durante la transumanza, che si snodano dalle montagne abruzzesi fino ai pascoli di Puglia e Basilicata. Slow infrastructure network in the wide area of the Arco Ionico-Tarantino. The routes relate to the network of sheep tracks, natural paths created by the passage of cattle during transhumance, which run from the mountains of Abruzzo to the pastures of Puglia and Basilicata. Caterina Rigo, Nicolò Agostinelli, Leonardo Binni, Martina Campanelli, Claudia Massioni, Benedetta Staccioli
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attivare una stretta relazione tra insediamenti umani e natura, attualmente mancante. Un dialogo reso possibile da un progetto che ha come orizzonte un unico tessuto territoriale in cui l’infrastruttura lenta che tende a ripercorrere le antiche vie dei pastori, concepita su diverse scale di azione, pone le basi per una ricomposizione degli insediamenti. Risulta idoneo affrontare la situazione attraverso un approccio multiscalare (Schröder e Ferretti, 2018): partendo da una visione di area vasta si individuano problematiche e potenzialità del territorio - in particolare la presenza diffusa di vuoti (img. 01) - così da definire, in secondo luogo, una strategia comune di sviluppo tra le realtà interessate. Gli interventi place-based sono pensati per essere non solo nodi del progetto territoriale, ma anche punti caratteristici dello spazio pubblico che acquisiscono significato in base alle necessità, alle peculiarità e alle tradizioni di ciascuna comunità. I dati raccolti nelle analisi del PUG di Laterza evidenziano la scarsità di investimenti da parte dell’amministrazione locale nelle attività di promozione turistica (quota pari allo 0,13% della spesa pubblica). Tra i dati relativi all’uso di suolo, si nota che il 65,08% del territorio comunale è qualificato come superficie agricola produttiva, di cui più del 90% risulta utilizzata. Mettendo a sistema la mancanza di offerta turistica con la quantità e la qualità delle produzioni tipiche locali, diviene logico definire interventi che favoriscano la crescita di un turismo slow, che incoraggi il visitatore a una percorrenza lenta del territorio, per godere maggiormente del valore paesaggistico e dei prodotti enogastronomici e artigianali locali legati ad un turismo rurale. La riconfigurazione, spaziale e funzionale, si attiva all’interno della città attraverso una mobilità sostenibile che lega i vuoti in trasformazione, conferendo indirettamente allo spazio urbano un nuovo ruolo (img. 03). Nello specifico, il progetto propone la realizzazione di interventi sui vuoti nel tessuto urbano, organizzati per fasi
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03. Scenario di attivazione delle infrastrutture lente e riconversione dei vuoti locali. Slow infrastructure service activation and reconversion of local voids scenario. Caterina Rigo, Nicolò Agostinelli, Leonardo Binni, Martina Campanelli, Claudia Massioni, Benedetta Staccioli
successive. Partendo dalla definizione di percorsi e itinerari ciclo-pedonali ed escursionistici, che connettono il centro città al territorio circostante, si propone un sistema di parcheggi utilizzando i terreni abbandonati sull’anello esterno dell'abitato. La mobilità sostenibile viene implementata attraverso l’istituzione di un servizio di bike sharing e il miglioramento dei
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Occorre riattivare una stretta relazione tra insediamenti umani e natura
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04. Confronto tra lo stato di fatto e l’idea di progetto nello scenario UpCyclinGravina, nel quale lo spazio pubblico diventa catalizzatore per attività di scambio e relazioni sociali. Comparison between the actual situation and the project idea in the UpCyclinGravina scenario, where the public space becomes a catalyst for exchange activities and social relations. Caterina Rigo, Nicolò Agostinelli, Leonardo Binni, Martina Campanelli, Claudia Massioni, Benedetta Staccioli
trasporti pubblici, arrivando in ultima fase all’attivazione di un’area pedonale in corrispondenza degli spazi aperti di maggior affluenza: le tre piazze principali e il centro storico (img. 04). Co-design: prospettive per lo sviluppo dei territori abitati Il risultato dello studio effettuato costituisce una matrice applicabile a sistemi territoriali analoghi, con lo scopo di mantenere attivi e implementare i sistemi portanti delle città. L’incuria e l’inutilizzo delle risorse vengono così contrastati da un processo di trasformazione che ha origine con la definizione di una infrastruttura lenta e con il recupero di suoli e habitat. Le diverse situazioni contestuali possono offrire molteplici vie di intervento place-based, per nulla scontate, basate su catalizzatori
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di attività di scambio e relazione sociale a scala umana all’interno dello spazio pubblico. All’orizzonte del lavoro svolto diventano interessanti gli scenari di sviluppo futuro, tra i quali l’opportunità di progettare gli spazi tramite sistemi open source e l’immissione nella rete di sistemi tecnologici di gestione integrata (Ratti e Claudel, 2016). In entrambe le situazioni la partecipazione della comunità diventa attiva: si rovescia il concetto di masterplan che produce soluzioni obsolete a causa di una visione statica della città. Il cittadino diventa dunque co-attore del processo, rendendo la trasformazione del territorio e i suoi obiettivi elementi dinamici e perciò in continuo adeguamento alle esigenze della comunità.*
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NOTE 1 – Europan è un concorso internazionale di idee, organizzato dall’associazione Europan Europe, che coinvolge siti di progetto in tutta Europa. La quindicesima edizione, intitolata Productive Cities 2, intende focalizzare l’attenzione sulla transizione ecologica in relazione a una visione futura delle città produttive. 2 – I dati sono tratti dalla Relazione Generale del Piano Urbanistico Generale del Comune di Laterza, novembre 2018. 3 – UpCyclinGravina è il titolo del progetto presentato dagli autori del presente contributo a Europan15, Menzione Speciale per il sito di Laterza (TA). BIBLIOGRAFIA – Di Giovanni, A. (2018). Vuoti Urbani come Risorsa per il Progetto dello Spazio Pubblico Contemporaneo. Planum. The Journal of Urbanism, n. 37, vol. 2, pp. 1-28. – Ferretti M. (2016). Land stocks. New operational landscapes of city and territory. Trento: List. – Lopez-Pineiro, S. (2020). A Glossary of Urban Voids. Berlino: Jovis. – Ratti, C., Claudel, M. (2016). The city of tomorrow. Sensors, networks, hackers, and the future of urban life. New Haven and London: Yale University Press. – Schröder, J., Ferretti, M. (a cura di) (2018). Scenarios and Patterns for Regiobranding. Berlino: Jovis.
Angela D'Alessio Architetto, laurea magistrale in Architettura presso l’Università Iuav di Venezia. angeladalessio1996@gmail.com Chiara Sanguin Architetto, laurea magistrale in Architettura presso l’Università Iuav di Venezia. chiarasanguin94@gmail.com
Void and property Is it possible, following war events, to convert the unexpected void into strategic urban material in order to adapt cities to the changing world? The problems connected to the topics of void and property offer indeed a large number of design input; together with a bottom-up logic and interest in sustainability issues, they represent the starting point for the reconstruction of an Afghan city like Ghazni, characterized by a long history of wars and destruction concerning both urbanized areas and more spontaneous landscapes.* umerosi sono oggi nel mondo i Paesi che, a causa di guerre e conflitti di varia natura, vedono i propri territori costellarsi di spazi distrutti che definiscono condizioni diverse di vuoto all’interno degli insediamenti urbani. Episodi distruttivi più o meno consistenti delineano una vasta gamma di tessuti interrotti, reti urbane e rurali lacerate nella loro natura di sistemi transcalari, e quindi non più in grado di rispondere ai bisogni delle comunità in essa insediati. Una lettura critica di tali fenomeni ne suggerisce un’interpretazione alternativa, in cui il “vuoto inaspettato” rappresenta un’occasione concreta
01. Strategia di agopuntura urbana nella macrocellula di progetto. Urban acupuncture strategy in the project macrocell. Angela D’Alessio, Chiara Sanguin
Vuoto e proprietà
Triggers per la ricostruzione sostenibile dei villaggi afgani
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Il “vuoto inaspettato” rappresenta un’occasione per cicatrizzare le ferite dei tessuti colpiti e dare soluzioni alle discontinuità urbane, costruendo nuove relazioni spaziali
02. Ricucitura del tessuto interrotto. Reconnection of the broken urban fabric. Angela D’Alessio, Chiara Sanguin
per cicatrizzare le ferite dei tessuti colpiti e dare soluzioni alle discontinuità urbane, costruendo nuove e più efficaci relazioni spaziali tra di esse. Nello specifico, l’obiettivo di questa sperimentazione è infatti la ricerca di una strategia di ricostruzione post-bellica che, a partire dal potenziale rigenerativo dei vuoti, sia capace di innescare cambiamenti a grande scala, attraverso interventi puntuali e graduali nel tempo. Tale strategia è sviluppata in un’area periurbana della città di Ghazni, uno dei principali centri di transito dell’Afghanistan sud-orientale. La macroarea di intervento, la quale coinvolge cinque villaggi rurali a sud-ovest del nucleo urbano, delinea un paesaggio spontaneo ma ricco di vincoli, che comprende di-
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namiche eterogenee legate in particolare all’assetto proprietario. Nell’ambito di un’attenta osservazione dei tessuti insediativi individuabili nel territorio, i villaggi analizzati rientrano nella categoria del tessuto informale spontaneo, al quale si affiancano il centro storico, il tessuto formale e, infine, il tessuto informale pianificato. Le differenze tra i tessuti insediativi non riguardano il solo aspetto formale, ma anche quello delle proprietà. Infatti, a causa dell’assenza di una legge univoca che regoli gli assetti proprietari e per via degli elevati costi del processo di registrazione, nella situazione attuale, la maggior parte delle proprietà non sono registrate o lo sono soltanto in maniera non ufficiale (UN-Habitat, 2015). Que-
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ste appartengono prevalentemente ai tessuti informali, dove la grande insicurezza fondiaria genera numerose dispute tra abitanti o imprese immobiliari, che spesso usurpano i territori illegittimamente o se ne appropriano in modo abusivo, ridefinendo il disegno degli alti muri di recinzione in terra cruda, che racchiudono le abitazioni e che scandiscono in modo peculiare il territorio. Dunque i temi “recinto” e “proprietà” hanno costituito fin da subito un elemento primario nel ridisegno dell’area di progetto, articolato suddividendo i cinque villaggi coinvolti in microcellule omogenee, in cui poter applicare, con tempistiche differenziate, una strategia di “agopuntura urbana”. Essa prevede l’individuazione, in ciascuna cellula, di spazi vuoti strategici, i quali vengono poi caratterizzati come dispositivi aggregativi pubblici e assumono la funzione di stimolare lo sviluppo della città, producendo in essa benefici a lungo termine. A partire quindi dalle condizioni dei recinti preesistenti e di quelli distrutti, la proposta è innanzitutto basata sulla ricomposizione dell’assetto proprietario originario che - realizzato mediante foto storiche, testimonianze o immagini satellitari - garantirà un forte incentivo per la popolazione a ritornare presso i propri villaggi d’origine, sovvertendo la tendenza all’accentramento verso le città, che oggi caratterizza l’intero ter-
03. Progetto di un processo: graduale caratterizzazione dei vuoti. Project of a process: phased characterization of voids. Angela D’Alessio, Chiara Sanguin
Il processo mira a generare una più ampia rinascita locale, che possa ritenersi tale anche sul piano tecnologico, economico e, soprattutto, sociale
ritorio afghano. Inoltre l’affermazione della proprietà pubblica e, in fasi più avanzate del processo di ricostruzione, di quella comunitaria, consentirà una ricucitura dei tessuti interrotti, sviluppando una strategia di progetto, articolata in microinterventi, che tiene in grande considerazione il fattore tempo. Quindi, più che un progetto degli interventi iniziali che faranno da innesco alla ricostruzione del tessuto abitativo, la tesi1 rappresenta il progetto di un processo. Tale processo è stato studiato in particolare in una cellula, che ingloba il villaggio di Ghaib Kalandar; essa è stata ripensata secondo una concezione nuova dello spazio della strada,
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il cui disegno scaturisce dalle nuove esigenze dimensionali legate alla mobilità elettrica. Perseguendo l’obiettivo di non intaccare il quadro proprietario preesistente, la strada diventa uno spazio abitabile, concepito non come un elemento rettilineo destinato alle automobili, ma come una successione di stanze, definite da setti più o meno forati, incastrate nel tessuto costruito e vivibili in maniera ibrida tra pedoni e veicoli. Il progetto della ricostruzione dei villaggi informali a partire dai public enclosures, cioè recinti pubblici, rappresenta un innesco sia sul piano formale e architettonico, sia su quello infrastrutturale. Infatti, per far fronte alle
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04. Sistema modulare in cartone ondulato, profili pultrusi e macerie. Modular system with corrugated cardboard, pultruded profile and rubbles. Angela D’Alessio, Chiara Sanguin
problematiche legate alla carenza di infrastrutture, all’interno dei nuovi spazi pubblici sono previsti appositi ambienti destinati a ospitare microimpianti per la produzione di biogas, che si configurano come un sistema sostenibile e autosufficiente. Alimentati da microreti di fognature in depressione e dai rifiuti organici da cucina, essi saranno in grado di convogliare alle abitazioni private gas pronto alla combustione; mediante tubature inglobate nei nuovi recinti, quest’ultimo raggiungerà le varie famiglie, che potranno usufruirne per riscaldamento o per cucinare. La sostenibilità degli spazi pubblici sviluppati nel progetto si realizza anche nella flessibilità funzionale degli am-
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bienti. In un primo momento, in effetti, sarà opportuno destinare degli spazi alle attività formative e di laboratorio, gestite da un Reconstruction Lab in favore delle popolazioni locali; successivamente essi ospiteranno attività di mixed-use, pratica che da tempo mantiene viva l’economia locale e favorisce l’impiego delle fasce deboli della popolazione. Infatti, la caratterizzazione funzionale dei dispositivi aggregativi si svilupperà nelle varie fasi della ricostruzione con varianti differenti, legate alla progressiva riduzione della scala degli interventi e alla graduale affermazione del ruolo del privato nella realizzazione degli spazi. Tali spazi saranno in un primo momento finanziati da enti del cali-
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bro della World Bank e successivamente da gruppi autogestiti di privati. Nel disegno delle nuove stanze urbane, mirato a colmare i vuoti inattesi che gli eventi bellici hanno prodotto, l’imponenza dimensionale e l’attenzione per la geometria sono state reinterpretate a partire dall’architettura Moghul, parte integrante del patrimonio culturale afgano (Petruccioli, 1985). Il progetto dell’attacco a terra vede inoltre la definizione di una pianta ricca, articolata con ambienti a forma poligonale, attraverso l’utilizzo di materiali poveri e reperibili in loco, nello specifico, macerie, profilati plastici pultrusi e cartone ondulato. In effetti, il sistema costruttivo prevede l’accostamento di moduli-parete commisurati in maniera idonea a tutte le esigenze dimensionali legate alla mobilità su gomma; essi sono costituiti da box in cartone ondulato multistrato, al cui interno sono inserite macerie tritate e, dove necessario, profili pultrusi di rinforzo (Eekhout et al., 2008). La scelta di questi materiali è stata dettata da diversi fattori, primo fra tutti, la possibilità di avviare un sistema di economia circolare; questo risulterà vantaggioso fin dalle prime fasi del processo — favorendo la riattivazione di vari settori produttivi — e consentirà poi di ottenere ulteriori benefici tramite il riciclo e il riuso dei materiali, che garantiranno un impatto ambientale ridotto. In sostanza, il progetto tenta di innescare un processo di ricostruzione che coinvolga molteplici aspetti differenti: oltre alla ricomposizione formale delle abitazioni e al ripopolamento dei villaggi, il processo, costituito da interventi puntuali, a scale diverse e con un timing differenziato, mira a generare una più ampia rinascita locale, che possa ritenersi tale anche sul piano tecnologico, economico e, soprattutto, sociale.* NOTE 1 – Si tratta della tesi dal titolo Triggers for sustainable reconstruction of Afghan villages. Public enclosures discussa dalle autrici nell’a.a. 2018/19 (relatore prof. B. Albrecht; correlatori arch. E. Antoniol, prof. M. Scarpa). BIBLIOGRAFIA – Eekhout, M., Verheijen, F., Visser, R. (2008). Cardboard in architecture. Architecture in cardboard. Amsterdam: IOS Press. – Petruccioli, A. (1985). Dar al-islam. Architetture del territorio nei paesi islamici. Roma: Carucci. – UN-Habitat Programme Team (2015). State of Afghan cities, vol. I-II. Kabul: UN-Habitat Afghanistan.
Vladimiro Boselli Dottorando, Università degli Studi di Brescia DICATAM. v.boselli@unibs.it Franca Ciantia Professoressa e storica, associazione Ecomuseo: I semi di Demetra. Paola Donatella Di Vita Ingegnere urbanista, Legambiente. Emanuele Poki Artista muralista, Systema Naturae.
An empty sack cannot stand upright The spaces left empty offer opportunities for the birth and development of new cultural and social ecosystems. In analogy to the pioneer vegetation that claims its ecological niches, laying the foundations for a reconquest of nature, the artistic intervention within the abandoned urban space creates the fertile ground for the rebirth of the same fabric. The hamlet of San Giacomo, thanks mainly to spontaneous artistic interventions almost replacing those promoted by the administration, is finally experiencing a slow revaluation that is also expressed in a series of projects for the revitalization of the area.* li spazi lasciati vuoti offrono opportunità per la nascita e lo sviluppo di nuovi ecosistemi culturali e sociali. In analogia alla vegetazione pioniera che reclama le proprie nicchie ecologiche gettando le basi per un riconquista della natura, l’intervento artistico, all’interno dello spazio urbano abbandonato,
crea il terreno fertile per la rinascita dello stesso tessuto. Come un ecosistema naturale vivo e vitale è caratterizzato dal maggior numero possibile di relazioni virtuose tra gli elementi che lo abitano, così lo è un ecosistema urbano (Conti, 1969; Adler, 2013). Purtroppo Aidone ha visto dimezzarsi la sua popolazione passando da circa 10.000 abitanti negli anni ’50 a meno di 5.000 abitanti nel presente decennio, San Giacomo ha particolarmente subìto questa emorragia di persone, relazioni e risorse vitali. L’abbandono ha reso evidenti, nel loro svuotamento, alcune nicchie ecologiche di questo antico ecosistema di quartiere.
Con il termine “nicchia ecologica” indichiamo le relazioni di una specie, o di una popolazione, all'interno di un ecosistema. Una nicchia ecologica è determinata dalla popolazione che la abita, pertanto lo spazio vuoto, quando inizia ad essere scenario di un vissuto di relazioni, cambia nella sua essenza (Norberg-Schultz, 1986). Cos’è uno spazio vuoto in relazione al tessuto urbano? È uno spazio dove non ci sono strutture? Lo stesso spazio vuoto, semplicemente cambiando di funzione, può diventare pieno sostituendo lo spazio iniziale con un parco o un’area di rispetto, pur non cambiando nella sua fisicità? In tal senso sono le relazioni e le funzioni a determinare uno
01. Foto storica ricolorata del quartiere di San Giacomo. Recolored historical photo of San Giacomo district. Franca Ciantia
'n saccu vacanti non pò stari addritta
Un sacco vuoto non può stare in piedi. La sfida siciliana del quartiere San Giacomo ad Aidone 80
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02. Veduta di casa Calcagno. View of Calcagno’s house. Franca Ciantia
spazio, e sono l’assenza o l’invisibilità delle stesse a caratterizzarne il vuoto. Ecco che recuperare una dimensione dello spazio e del territorio, capace di ridare significato ai luoghi e di generare relazioni, diventa una necessità di chi abita tale vuoto (AA. VV., 1974). Forzando, forse in modo improprio, la massima “wittgensteiniana” che asserisce “I limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo” (Wittgenstein, 1922, p. 151) possiamo affermare che i limiti della nostra nicchia ecologica sono i limiti del linguaggio che utilizziamo per comunicare con il territorio. Il superamento dei limiti del nostro linguaggio, e della nostra nicchia ecologica, è possibile tramite l’intervento artistico. Joseph Kosuth (1990) è convinto che l’arte sia generatrice di significati, pertanto l’intervento artistico si configura come estensione ed espansione del linguaggio superando di volta in volta, in un contesto urbano ed extraurbano, i limiti che ostacolano la comunicazione con il territorio. Approccio e metodi, risultati e discussione Descrivere le dinamiche relative al vuoto nel quartiere di San Giacomo è
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stato possibile tramite una rapida analisi urbanistica e sociale e una raccolta aneddotica che ben esprime la necessità del ripristino di una rete trofica di relazioni urbane. Il quartiere San Giacomo rappresenta il cuore della città antica di Aidone (Mazzola, 1913), un piccolo centro di circa 5.000 abitanti nel centro della Sicilia — isola nell’isola — come lo definì uno dei suoi figli più illustri, Ottavio Profeta (Raffiotta, 2015). Nel tempo, da spazio “pieno”, cuore pulsante della vita quotidiana, si è trasformato in uno spazio “vuoto”, diventando periferia dentro la città, destino analogo a quello di molti piccoli borghi dei comuni isolani. La crisi delle aree interne ha fatto il resto. Aidone ha, ancora attivo, un PdF (Programma di Fabbricazione) del 1978 e, nonostante l’obbligo di dotarsi di un PRG, mantiene una visione urbanistica gattopardesca1. Nel 2007 il comune presentò, ottenendone il finanziamento, un Contratto di Quartiere (CdQ) per la riqualificazione di San Giacomo. L’azione pubblica tuttavia, andando in direzione contraria allo spirito stesso del CdQ, venne declinata in interventi di semplici ristrutturazioni immobiliari da destinare a funzione pubblica e di edili-
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I limiti della nostra nicchia ecologica sono i limiti del linguaggio che utilizziamo per comunicare con il territorio zia sovvenzionata. Si intervenne quindi per punti senza tener conto dello “spazio” di intervento e in assenza di uno studio sistemico in relazione ai servizi e agli altri elementi del paese, relegando ancora una volta lo spazio al vuoto. Il vuoto normativo e l’inefficacia dello strumento urbanistico sono stati colmati in maniera trasversale dalla libera iniziativa dei singoli cittadini, tramite interventi artistici spontanei. Paradossalmente ad oggi il piano di rilancio di San Giacomo più aggiornato è la mappa disegnata e sviluppata, tramite un approccio partecipativo, da Gianlorenzo Suffia in occasione del Co.Ri Festival. Nella mappa San Giaco-
mo è in relazione con il resto dell’abitato urbano, alla scala dei rapporti personali e della dimensione artistica. Ed è in questo contesto di vuoto normativo che interviene l’azione della comunità locale, agendo con modalità trasversale e intergenerazionale, in grado di interpretare lo spirito della Convenzione di Faro del 2005, ratificata in Italia solo da pochi mesi2. Nel 2017 tra i vicoli dell’antico borgo, grazie alle diverse realtà associative del paese, nasce e cresce il Co.Ri. Festival, caratterizzato da proposte artistiche spontanee e conviviali, talvolta legate a un filo conduttore, ma non imbrigliate allo stesso3. I giovani e ragazzi aidonesi hanno dato vita a un laboratorio culturale volto alla rigenerazione urbana, trasformando l’antico centro storico nel proprio campo sperimentale. Tale festival prende forma dall’azione di Attilio Calcagno che, rientrato nel 1993 da Milano, dove era emigrato negli anni ’50 del secolo scorso, sta dedicando il resto della sua vita al recupero del suo quartiere di San Giacomo. L’opera di recupero si è concretizzata nella creazione della piazzetta della Buona Volontà, costruita da Calcagno con l’aiuto di altri volontari. La piazzetta oggi è in grado di generare significati e relazioni nuovi. L’opera di Calcagno è proseguita attraverso interventi artistici sulla propria abitazione, interventi che hanno donato un carattere nuovo al paesaggio. L’opera di riciclo creativo è creata con piastrelle recuperate, che intere o a frammenti, compongono il mosaico. Le arcate mosaicate inquadrano dipinti rappresentanti scene naturalistiche, monumenti aidonesi, scorci panoramici.
L’inadeguatezza degli strumenti urbanistici applicati a nuclei abitativi particolarmente piccoli e sofferenti
03. Porta abbandonata affrescata da Erika Calcagno con l’aforisma di Zina Lomonaco “L’attimo in cui decidi di partire racchiude lo spazio tra la speranza ed il rimpianto”.Abandoned door frescoed by Erika Calcagno with the aphorism by Zina Lomonaco "The moment you decide to leave encloses the space between hope and regret". Paola Donatella Di Vita
04. Affresco murale rimandante al mito di Ade e Proserpina all’ingresso del quartiere di San Giacomo. L’opera di Poki rientra nel progetto artistico di Systema Naturae. Mural fresco referring to the myth of Hades and Proserpina at the entrance to the San Giacomo district. Poki's work is part of the Systema Naturae artistic project. Emanuele Poki
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L’intervento artistico si configura come estensione ed espansione del linguaggio
06. Mappa di San Giacomo creata da Gianlorenzo Suffia in occasione del Co.Ri. Festival. Map of San Giacomo created by Gianlorenzo Suffia on the occasion of the Co.Ri. Festival. Paola Donatella Di Vita
Il quartiere mantiene poche delle vecchie unità abitative ancora intatte, recuperabili come testimonianza dell’urbanistica tipica. Un esempio in tale direzione lo abbiamo a pochi metri in linea d’aria dalla casa Calcagno, dietro la chiesa di San Domenico, dove il signor Vittorio Lingenti ha offerto ai paesani e ai turisti la possibilità di entrare nella casa dei nonni rimasta perfettamente intatta, non solo nella struttura edilizia, ma anche negli arredi. Si tratta di una classica casa del piccolo proprietario terriero, “A casa du masser”. Una casa un po’ più complessa delle casette dei braccianti e degli operai, la maggioranza delle case del quartiere, costituite dai due monolocali, uno al piano terra e l’altro al piano superiore: la “camera”, dove viveva e dormiva la famiglia, e il catoio, a livello di strada, dove trovavano ricovero gli animali domestici, il forno a legna e il magazzino. Conclusioni Le dimensioni di spontaneità generativa urbana precedentemente descritte hanno incontrato e incontrano ora opposizione e resistenze, ora approvazione, in funzione dei gruppi di interesse e potere che si alternano a livello comunale. Tuttavia esse permettono di evidenziare l’inadeguatezza degli strumenti urbanistici applicati a nuclei abitativi particolarmente piccoli e sofferenti nei quali la dimensione
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preponderante è, anche storicamente, quella delle relazioni personali e della partecipazione alla vita collettiva. Tuttavia le dinamiche osservate a San Giacomo hanno evidenziato come un ecosistema urbano possa offrire opportunità ecologiche in senso ampio (Morin, 1993), favorendo una biodiversità culturale, sociale e ideale capace di colmare il vuoto fisico tramite la generazione di un’idea coerente dello spazio urbano (Dubbini, 1994; Giaccardi, Magatti, 2013). Le prospettive future di sviluppo di realtà quali Aidone non possono prescindere da uno sviluppo urbano slegato dall’idea di crescita integrale (Gherardi, Magatti, 2014) e realizzazione non solo dei singoli abitanti ma, del tessuto stesso tramite la ricerca di una coerenza semiotica ed ecologica del territorio, capace di colmare un vuoto che trascende lo spazio fisico.* NOTE 1 – Il primo strumento urbanistico adottato ad Aidone è stato Il Piano di Fabbricazione (PdF) adottato con Delibera del Consiglio Comunale n° 23 il 23 febbraio 1978, approvato dal livello regionale l’anno seguente. Il 13 novembre 1997 con Delibera Commissariale n° 74 venne approvato lo schema di massima del PRG, che non venne messo in pratica. Considerata la persistente inadempienza del comune la regione ha nominato nel 2017 un commissario straordinario per gli atti del PRG. Lo stesso, con i poteri della giunta, con la Delibera n° 87 del 17 maggio 2018 costituisce l'Ufficio di Piano (UdP) per la revisione del PRG ma, ad oggi non si registrano passi in avanti. 2 – Seduta Parlamentare del 23 Settembre 2020. Ratifica ed esecuzione della Convenzione quadro del Consiglio d'Europa sul valore del patrimonio culturale per la società, fatta a Faro il 27 ottobre 2005. DdL 257. Approvato definitivamente.
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3 – L’acronimo Co.Ri. sta per Comitato della Rinascita e gioca con la parola “cori” che in siciliano vuol dire cuore e in greco antico identifica i luoghi pubblici di aggregazione conviviale. Stando alla descrizione degli ideatori il festival è: “Musica, pittura, fotografia, arte contemporanea e itinerario enogastronomico. Il Viaggio dal vecchio entroterra al nuovo mondo, e dalla società attuale allo scrigno delle tradizioni. […] Il Co.Ri. Festival sarà il festival di tutti. I pittori potranno partecipare all'estemporanea tra i cortili storici di Aidone, così come i fotografi e gli scrittori potranno condividere le proprie opere sul viaggio. Attività per bambini, racconti di viaggio dall'Antartide al Sahara la mattina, laboratori di innovazione sociale il pomeriggio e concerti e performance artistiche la sera, arricchiranno il programma in tutta la sua varietà. Ragazzi, appassionati di musica e di arte, buongustai da tutta la Sicilia e da tutto il mondo”. BIBLIOGRAFIA – AA.VV. (1974). Paysage et analyse sémiologique. L’Espace Géographie, n. 2, pp. 150-152. – Adler, F. R., Tanner, C. J. (2013). Urban Ecosystems: Ecological Principles for the Built Environment. Cambridge UK: Cambridge University Press. – Consiglio d’Europa, (2005). Convenzione quadro del Consiglio d’Europa sul valore dell’eredità culturale per la società. Faro (Portogallo). – Conti, L. (1969). Che cos’è l’ecologia. Milano: Mazzotta. – Dubbini, R. (1994). Geografie dello sguardo. Torino: Einaudi. – Giaccardi, C., Magatti, M. (2013). Sistemi funzionali, media e relazioni sociali. In Danani C., Etica per l'umano e spirito del capitalismo, pp. 147-164. – Gherardi, L., Magatti, M. (2014). Una nuova prosperità. Quattro vie per una crescita integrale. Milano: Feltrinelli. – Kosuth, J. (1990). The Play of the Unsayable: Ludwig Wittgenstein and the Art of the 20th century. Curatela presso Palazzo della Secessione. Vienna (Austria). – Mazzola, G. (1913). Storia di Aidone. Catania: Niccolò Giannotta. – Morin, E. (1993). Le idee: habitat, vita, organizzazione, usi e costumi. Milano: Feltrinelli. – Norberg-Schultz, C. (1986). Genius loci. Milano: Electa. – Raffiotta, S. (2015). Ottavio Profeta, il poeta di Aidone. Enna: Editopera. – Wittgenstein, L. (1922). Tractatus logico-philosophicus. Londra: Kegan Paul, Trench, Trubner & Co., LTD.
Stefania Gruosso Assegnista di ricerca presso l’Università G.d’Annunzio Chieti-Pescara. stefaniagruosso@gmail.com
Sarajevo post-conflict Sarajevo, the capital city of Bosnia and Herzegovina, is today a city in transition, collecting pieces from the madness of a nationalist war during the 1990s addressed to break up the city and the most representative architecture of Bosnian cultural, social and identity values. The end of the conflict has inaugurated an equally complex and painful season: the city is still finding the balance between the need to remember and commemorate its past, and the need to look and move ahead. In this moment of great fragility the urban voids acquire new and different meanings: they are traces of a collective memory but also opportunities to shape a new identity. The Marijn Dvor neighbourhood, considered to be the new city centre of contemporary Sarajevo, has turned into an urban laboratory of experimentation, where the premises for an authentic rebirth of the city may see the light of day.* arajevo, 1992: “È un bivio esposto ai venti e al tiro dei cecchini imboscati sulla collina nei boschi di larici di Staro Brdo. […] I muri, gli alberi, i marciapiedi sono devastati, nel corso dei mesi, dal tiro dei carri armati. A quelle macerie si sono aggiunti i frantumi degli edifici circostanti, smossi dalle pale e dal vento […] Si cammina su un tappeto di vetri scricchiolanti, di pietre, di plinti chiodati e di calcinacci”.
01. Stratificazioni urbane. Le facciate ancora segnate dai colpi di mortaio e quelle contemporanee del Sarajevo City Center. Urban stratifications. The facades still marked by mortar fire and the contemporary of the Sarajevo City Center. Stefania Gruosso
Sarajevo post-conflitto
Il senso del vuoto nella costruzione di un’identità nuova
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L’IMMERSIONE
Con queste parole Jean Hatzfeld, nel libro L'Air de la guerre, descrive la sua esperienza, come giornalista di guerra, durante la tragedia bellica che colpì duramente la capitale bosniaca all’inizio degli anni ’90. Era il 5 aprile del 1992 quando, a Sarajevo, i cecchini iniziarono a sparare su una folla di dimostranti che manifestava per la pace. Cominciava l'assedio della città, il più lungo assedio nella storia bellica del XX secolo. Da quel momento una violenza immane colpisce Sarajevo per 1272 giorni, fino a dicembre del 1995, quando gli Accordi di Pace di Dayton misero ufficialmente fine alla guerra in Bosnia Erzegovina. Quel che resta è un teatro di guerra, uno scenario urbano apocalittico. Attaccare la città era stato, infatti, lo scopo principale della guerra nazionalista, che ambiva alla distruzione della secolare identità di un luogo che era stato crocevia fisico, culturale e ideologico tra Oriente e Occidente e che si era storicamente contraddistinto come accogliente e cosmopolita (img. 02). Sarajevo è vittima di una deliberata strategia di pulizia urbana condotta attraverso una “wararchitecture”1, una guerra che mira alla “distruzione dei manufatti culturali di un popolo o di una nazione nemici come mezzo per dominarli, terrorizzarli, dividerli o sradicarli” (Bevan, 2006). La fine della guerra inaugura un capitolo altrettanto complesso e doloroso in
02. Vista di Sarajevo dalla Fortezza gialla dalla quale si comprende il progressivo sviluppo della città: ottomana, austroungarica, moderna e contemporanea. View of Sarajevo from the Yellow Fortress from which is understandable the progressive development of the city: Ottoman, Austro-Hungarian, modern and contemporary. Alessandra Olianas
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Sarajevo è vittima di una deliberata strategia di pulizia urbana condotta attraverso una “wararchitecture” cui si avvicendano la necessità di ricostruire, di non dimenticare, di commemorare e di ridefinire un’identità nuova. Il tema del vuoto, in una città martoriata dalla guerra, si carica di significati diversi che sono frutto di interrelazioni tra la città, l’evento bellico e la sua memoria. L’emergenza abitativa e la ricostruzione degli edifici simbolo dell’identità bosniaca sono tra le priorità della Sarajevo post-conflitto, ma vengono affiancate dalla voglia di ripartire attraverso un rinnovamento urbano che sia in grado di allontanare l’immagine di Sarajevo come città della guerra. Questa aspirazione non investe solo i residui della wararchitecture ma anche brani di città che si presentavano come vuoti urbani già prima del conflitto. Area simbolo di questo rinnovamento è Marijn Dvor, (img. 05) un tempo confine della Sarajevo imperiale, eletta a nuova centralità durante il dominio austro-ungarico, e che, a partire dagli anni ’90, si presenta come un laboratorio di sperimentazioni in cui il tema del vuoto, come materiale urbano strategico, si mostra in diverse declinazioni. Durante il conflitto nessun edificio o spazio destinato ad eventi culturali venne risparmiato2 così alcuni dei più importanti progetti di trasformazione urbana post-bellica, a Marijn Dvor, ripensano i vuoti urbani come espressione della resistenza culturale della città. La cultura, e la re-istituzione dei luoghi della cultura, viene considerata infatti l’unica arma in grado di contrastare il tentativo nazionalista di omogeneizzazione e riaffermare l'unità bosniaca nella sua natura multiculturale. Un lembo di terra vacante, in prossimità del fiume Miljacka, diven-
03. Progetto Architettonico Preliminare a cura dell'architetto Renzo Piano. Sezione longitudinale che comprende il museo ARS AEVI e il nuovo ponte. Preliminary Architectural Design by architect Renzo Piano. Longitudinal section that include the ARS AEVI museum and the new bridge. Ars Aevi
Il tema del vuoto, in una città martoriata dalla guerra, si carica di significati diversi che sono il frutto di interrelazioni tra la città, l’evento bellico e la sua memoria
ta l’occasione per tramutare in realtà l’utopico progetto pregresso dell’Ars Aevi, Museo di Arte Contemporanea di Sarajevo3. L’Ars Aevi nasce da un’idea di Enver Hadžiomerspahić quando la città era ancora sotto assedio. L’ideatore e direttore generale del progetto Ars Aevi racconta che “l’idea era quella di invitare artisti di tutto il mondo a donare delle opere che potessero, in futuro, comporre una collezione per il nuovo museo di arte contemporanea mondiale a Sarajevo”, contribuendo così alla rinascita della città. Nel 1999 l’architetto Renzo Piano dona il progetto della nuova sede i cui lavori hanno inizio nel 2002 con la costruzione di un ponte pedonale sul fiume Miljac-
04. Gli spazi espositivi di Ars Aevi Art Depot all'interno del Center Skenderija. Ars Aevi Art Depot exhibition spaces inside the Center Skenderija. Tarik Zahirovic courtesy of Ars Aevi
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ka (img. 03). Sono passati ormai quasi 20 anni e nonostante il museo non sia stato ancora realizzato per carenza di fondi il progetto continua ad avere risonanza mondiale tanto che, nel 2018, Ars Aevi si candida ufficialmente a Premio Nobel per la Pace, come espressione di una volontà collettiva internazionale. Nell’attesa del museo permanente alcune delle 158 opere sono oggi esposte presso l’Ars Aevi Art Depot del Center Skenderija, a Marijn Dvor (img. 04). Nel 1999, viene bandito un concorso internazionale per realizzare, in un grande lotto vuoto, la Sarajevo Concert Hall. Al concorso partecipano 400 gruppi da circa 43 Paesi. La giuria, con presidente l’architetto Zaha Hadid, proclama come vincitore UFO Urban Future Organisation, uno studio con sedi sparse per il mondo. Il progetto prevede un auditorium ipogeo la cui copertura è parte di un parco urbano. Lo slancio di Sarajevo verso una rigenerazione culturale è evidente, ma il progetto resta solo su carta. Il vuoto a Sarajevo è un tema che non riguarda solo lo spazio ma anche il tempo, dato che l’assedio ha costretto la città, per anni, a vivere una dimensione temporale sospesa. La fine del conflitto scatena un’ansia di ritorno alla normalità e di recupero del tempo perso. I vuoti urbani diventano occasione per rispondere alla necessità di modernizzazione e di costruzione di nuovi simboli che siano in grado di rilanciare un’identità
L’IMMERSIONE
Marijn Dvor è protagonista di una rinascita lenta condizione che deve essere considerata come opportunità per ridefinire una nuova identità 05. Marijn Dvor, Piazza del Parlamento di Bosnia Erzegovina. Sullo sfondo da sinistra: l’Alta Shopping Centre, la Chiesa di San Giuseppe, i palazzi austro-ungarici e il Sarajevo City Center. Marijn Dvor, Parliament of Bosnia Herzegovina Square. In the background from the left: the Alta Shopping Center, the Church of San Giuseppe, the Austro-Hungarian palaces and the Sarajevo City Center. Stefania Gruosso
nuova, più europea e globale. Nell’affannosa volontà di un’accelerazione storica Sarajevo, al pari di altre metropoli contemporanee, cede al fascino dell’architettura del consumismo come massima espressione dei processi di rigenerazione urbana post-bellici. A Marijn Dvor, proliferano, nell’arco di pochi anni, grandi centri commerciali, alcuni dei quali sorgono proprio in aree demolite a causa dei danneggiamenti subiti durante l’assedio. Questi nuovi simboli, che trasformano completamente lo skyline della città, costituiscono l’opportunità per sperimentare nuove tipologie come nel caso dell’Importanne Centre, costruito nel 1999, e dell’Alta Shopping Centre, realizzato a poche centinaia di metri, nel 2006. Ma l’edificio che ha maggiormente stravolto il carattere dell’area è certamente il Sarajevo City Center, costituito dall’assembramento di unità volumetriche tra le quali emerge l’alta torre dell’hotel a cinque stelle. Il complesso, completato nel 2014, mira a cicatrizzare le ferite della guerra ponendosi come l’emblema del riscatto della Sarajevo post-conflitto ma di fatto impone alla città un’immagine che non la rappresenta (img. 01). La storia di Marijn Dvor è rappresentativa della condizione di una città che oggi è tornata a vivere ma che si trova ancora in un equilibrio instabile, dovuto principalmente all’immobilità di un sistema politico basato su logiche etnoterritoriali che rende impossibile por-
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tare avanti processi a lungo termine. Nonostante le difficoltà a concretizzare alcuni progetti, l’area si conferma come nuovo centro cittadino, la cui peculiarità è dettata dai processi con cui nuove architetture sorgono, in modo del tutto naturale, tra vecchie baracche, sontuose facciate austroungariche e i prospetti dei palazzi ancora incisi dai colpi di mortaio, costruendo nuove spazialità tra i corpi resistenti e un’incredibile, ed eterogenea, stratificazione urbana che ben riflette quella che è stata la secolare inclinazione di Sarajevo alla contaminazione architettonica. Ancora inespresso è il potenziale sviluppo dell’area secondo una traiettoria culture driven che potrebbe invece sfruttare la prossimità fisica di un gruppo di poli culturali, ovvero: il Museo Nazionale di Bosnia ed Erzegovina, il Museo storico di Bosnia-Erzegovina, il nuovo Ars Aevi e la nuova Sarajevo Concert Hall per creare un polo ad alta concentrazione di attività legate alla cultura4. Marijn Dvor è protagonista di una rinascita lenta condizione che deve essere considerata come opportunità per ridefinire una nuova identità attraverso processi di rigenerazione, che non ambiscano a rincorrere le immagini stereotipate delle altre città, ma che investano sulla costruzione di una identità urbana unica e incomparabile. In questa condizione l’arte e la cultura rappresentano la possibilità di un’autentica rinascita, quella culturale.*
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NOTE 1 – Wararchitecture è un termine che esprime il legame di senso tra architettura e guerra. A Sarajevo il termine inizia ad avere grande risonanza dopo la mostra dal titolo Warchitecture. Urbicide Sarajevo, organizzata nel 1993 dall’Associazione degli Architetti, nella quale una serie di rappresentazioni spaziali e fotografiche, documentano i danni subiti dagli edifici, raggruppandoli secondo il contesto storico-culturale (ottomano, austroungarico, moderno e contemporaneo). 2 – La soppressione delle istituzioni culturali, come spazi testimoni di un passato condiviso, è stato uno dei punti fondamentali del programma nazionalista degli anni '90 che attaccò duramente gli edifici simbolo della cultura bosniaca come la Vijecnica, o Biblioteca Nazionale e Universitaria, che andò in fumo insieme a circa un milione e mezzo di libri, il Museo Olimpico, la Galleria Nazionale d’Arte, il Museo Storico di Bosnia-Erzegovina, il Museo Nazionale di BosniaErzegovina, solo per citarne alcuni. Nessun edificio o spazio destinato ad eventi culturali venne risparmiato. 3 – Ars Aevi, dal latino “l’arte dell’epoca”, è l’anagramma della parola Sarajevo dove la “O” è diventata il logo del museo. 4 – Il Museo Nazionale di Bosnia ed Erzegovina è la più antica istituzione culturale e scientifica nella Bosnia-Erzegovina concepita dagli Ottomani e realizzata durante il periodo austro-ungarico, il Museo storico di Bosnia-Erzegovina è il simbolo del periodo socialista nella Bosnia-Erzegovina, i progetti per il nuovo Ars Aevi e per la nuova Sarajevo Concert, pur se non ancora realizzati, ambiscono a essere simbolo della nuova identità sarajevana. La condizione di prossimità fisica di questi luoghi della cultura permetterebbe loro di operare da racconto visivo della storia di Sarajevo. BIBLIOGRAFIA – Beban, R. (2006). The destruction of a memeory. London: Reaktion. – Frattari, C. (2017). Survive(d) Sarajevo. Sarajevo as Manifesto. In Gruosso, S., Pignatti, L. (a cura di). Sarajevo an account of a city. Siracusa: LetteraVentidue, pp. 134-141. – Gruosso, S., Odobasic, L. (1993). Ars Aevi: la cultura come arma - Ars Aevi: the weapon of culture. Domus, n. 1018, pp. 17-21. – Hatzfeld, J. (1994). L'Air de la guerre. Paris: L'Olivier. – Herscher, A. (2008). Warchitectural Theory. Journal of Architectural Education, pp. 35-43. – Neidhart, T. (2004). Sarajevo through time. Srajevo: Nova Decija Knjiga. – Pignatti, L. (2019). Modernità nei Balcani. Da Le Corbousier a Tito. Siracusa: LetteraVentidue. – Woods, L. (2015). War and architecture: Three Principles. Pamphlet Architecture, n. 15. Hudson: Princeton Architectural Press.
Domenico Potenza Docente in Composizione Architettonica e Urbana del Dipartimento di Architettura di Pescara. domenico.potenza@gmail.com
The unexpected dimension of large quarry voids One of the most tangible forms in which the void appears is undoubtedly that of the subtraction of material. Particularly significant, especially in stone quarries, the subtraction sometimes reveals a sort of unexpected alteration of the original morphology, such as to create new and suggestive models of the original nature. Large resulting gaps; product of a need that builds the artifice of the city elsewhere, but that we continue to hide as a modification of nature, even when, as in some examples, that subtraction returns an unexpected dimension, more suggestive than its original configuration.* na delle forme più evidenti in cui si presenta il vuoto è senz’altro quella della sottrazione di materiale da una massa compatta, quanto più compatta sarà la massa tanto più netta si presenterà la configurazione di quel vuoto. Una espressione molto significativa di questo fenomeno si presenta nei territori interessati dalla coltivazione di cave. A prescindere dalle tipologie di estrazione, a fossa, a costa, a mezza costa oppure in galleria, la presenza di scavi genera sempre lacerazioni nel paesaggio naturale1. L’opera di sottrazione dei materiali altera, talvolta in maniera profonda, la morfologia originaria dei luoghi, quan-
tunque quella stessa azione risulti necessaria alla costruzione, in positivo, di un paesaggio artificiale da altra parte. Particolarmente significativa in questi casi, soprattutto nelle cave di pietre, è la misura straordinaria che raggiunge lo scavo (sia in superficie sia in profondità) fino a costruire una sorta di dimensione inattesa della morfologia originaria che, proprio in ragione della grandezza, genera un senso di stupore, dato dalla sua vastità e dalla sua articolata modellazione (Pavan, 2010). Una modellazione che, nella maggior parte dei casi, asseconda la natura dei luoghi, dei materiali, delle tecniche di estrazione e della necessità di soddisfare le richieste della produzione del
mercato delle costruzioni. Tutto questo produce una sorta di alterazione speculativa delle superfici interessate, come conseguenza delle esigenze dettate dall’azione meramente funzionale della coltivazione di cava. Allo stesso tempo però, quella azione continua di sottrazione, costruisce una trasformazione inedita dei luoghi che genera una nuova forma di paesaggio. Un paesaggio vuoto, vago, impreciso, mai del tutto definito e soprattutto senza prospettive di futuro. In molti si interrogano sulla possibile relazione tra quel processo di sottrazione della materia cavata alla natura e la costruzione dei nuovi paesaggi artificiali che quegli stessi materiali fi-
01. Auditorium e Centro Culturale Casa Cava, Ufficio Sassi Matera con Renato Lamacchia 2011. Auditorium and Cultural Center Casa Cava, Sassi Matera Office with Renato Lamacchia 2011. Ufficio Sassi
La dimensione inattesa dei grandi vuoti di cava
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L’IMMERSIONE
Si guarda alla sottrazione come un atto di violenza, la distruzione di un equilibrio, che non riusciremo più a ristabilire
02. Cava Arcari. David Chipperfield architects. Zovencedo 2018. Arcari quarry. David Chipperfield architects. Zovencedo 2018. Marco Zanta
03. Parco della Musica, recupero cave dismesse Marco Vito a Lecce, Alvaro Siza 2015. Parco della Musica, recovery of disused quarries Marco Vito in Lecce, Alvaro Siza 2015. Fernando Baldassarre
niscono per alimentare. Grandi vuoti di risulta, lacerazioni profonde, ferite vistose inferte alla terra; sono l’esito di una necessità che costruisce altrove l’artificio della città ma che continuiamo a nascondere in quanto modificazione e mortificazione di un paesaggio naturale. Questi luoghi si presentano come veri e propri “paesaggi rifiutati”, in quanto ormai alterati, degradati, sfruttati; esito della sottrazione delle risorse del territorio che solo attraverso il loro risarcimento sembrano poter tornare alla loro condizione originaria. La richiesta di risarcimento per quella sottrazione passa, nella maggior parte dei casi, attraverso la ricomposizione, quanto più possibilmente fedele, di
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una continuità con lo stato originario dei luoghi (Trasi, 2001). Si tende sempre a guidarne il ripristino in continuità con il contesto, quasi a voler cancellare definitivamente quella ferita inferta al territorio. Una soluzione che produce, nel migliore dei casi, una “rinaturalizzazione” degli ambiti sottratti che, tuttavia, non riesce a restituire quasi mai la sua configurazione originaria. Si guarda alla sottrazione come un atto di violenza, la distruzione di un equilibrio, che non riusciremo più a ristabilire. Non si considera mai quell’azione come una nuova opportunità; l’occasione di mettere a beneficio la nuova configurazione inattesa, lasciarsi suggestionare dal fascino della dimensione, dotata di una sua
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vocazione, che non viene quasi mai assecondata. È a partire da questa considerazione che si rende possibile la restituzione di qualcosa che prima non c’era ma proprio quella sottrazione ha messo in luce2. Dovremmo provare a lavorare su quella possibile relazione tra la natura dei luoghi della sottrazione e l’artificio della città che quella stessa sottrazione ha prodotto; tra il negativo dello scavo ed il positivo della nuova modellazione (Ulisse, 2018). Basti pensare alla città di Matera e alla singolarità del suo fascino come espressione esplicita del rapporto nel quale natura e artificio si legano in una nuova dimensione che non appartiene né all’una né all’altra ma le contiene entrambe. Un processo di re-
invenzione del luogo, un’azione di disvelamento di una realtà che prima non esisteva ma che era contenuta nel suo ventre, gli apparteneva; è stata soltanto rivelata. Come nell’esempio della Casa cava (per rimanere a Matera), una enorme cavità all’interno del sasso barisano, restituito a nuova vita nella funzionalità urbana, a conferma che nel palinsesto delle stratificazioni storiche emergono sempre nuovi usi per le testimonianze del passato, anche quelle apparentemente meno interessanti (Pavan, 2013) (img. 01). Sono tanti gli esempi significativi di riconversione di cave dismesse che hanno restituito a quelle sottrazioni un fascino talvolta superiore alla loro stessa condizione originaria; svelando la forza della dimensione del vuoto di risulta come presupposto fondativo di nuove forme di paesaggio (D’Amato 2005). Un paesaggio che non appartiene più alla logica della stratificazione degli eventi naturali, ma a quella della reinterpretazione della configurazione artificiale; quella stessa che ha generato la bellezza della città. La città costruita come sottrazione di materiali alla natura; che prima o poi dovrà essere risarcita, provando a restituirla migliore di come l’abbiamo trovata, seppur diversa, in quanto opera di reinvenzione dell’uomo e della sua cultura. Il paesaggio cavato produce un suo fascino particolare, spesso proporzionale alla grandezza stessa dello scavo e può tornare ad essere abitato, come nel caso della Cava Arcari a Zovencedo sistemata dall’architetto David Chipperfield. I volumi vuoti della cava, dotati di una indiscutibile qualità architettonica, si offrono imponenti come lo spazio di una cattedrale, dove il materiale e la struttura si percepiscono come un’entità unica, nella quale natura ed architettura si imitano a vicenda (img. 02). Sono tante le forme attraverso le quali è possibile e auspicabile restituire un senso ai grandi vuoti di sottrazione dei materiali naturali ma tutti passano necessariamente attraverso una azione reinterpretativa dei luoghi, e in quanto tale provocatoria, che tuttavia parta dalla vocazione dei
Non si considera mai quell’azione come una opportunità per mettere a beneficio la nuova configurazione inattesa
04. Cave di S'Hostal Minorca Spagna, Lithica 1996. S'Hostal quarry Minorca Spain, Lithica 1996. Lithica
05. Suonincava, Cava Pizzicoli, Apricena 2002. Suonincava, Pizzicoli quarry, Apricena 2002. Antonio Manuppelli
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06. Recupero delle cave di Fantiano, Grottaglie, Donati D’Elia associati 2008. Recovery of the quarries of Fantiano, Grottaglie, Donati D’Elia associates 2008. Dprogetti
Dovremmo provare a lavorare sulla relazione tra la natura dei luoghi della sottrazione e l’artificio della città che ha generato
luoghi stessi e dalla capacità di svelarne nuovi accadimenti. È il caso del grande Parco della Musica a Lecce pensato da Alvaro Siza, per le cave dismesse di Marco Vito, che ne ha assecondato l’abbandono, riutilizzandolo come un ampio spazio verde a disposizione della città (img. 03). Oppure, come accade nelle cave di Pietra Marès di S’Hostal a Minorca, la valorizzazione della tradizione industriale, sottratta alla condizione di discarica permanente messa in atto dalla associazione culturale Lithica in Spagna (img. 04). O ancora, la particolare fortuna che alcuni di questi luoghi sembrano mettere a frutto, nel riutilizzo delle particolari caratteristiche morfologiche,
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per trasformarli in spazi per lo spettacolo o per performance artistiche, come quelle del comparto estrattivo di Apricena (Potenza, 2008) (img. 05). Una più approfondita ricerca di integrazione architettonica, infine, spinge il recupero nella realizzazione di nuovi scenari per funzioni all’aperto, come nel caso della costruzione della frons scenae realizzata da Claudio D’Amato a Cursi nella Cava Serpentane o quello del recupero delle cave di Fantiano a Grottaglie di Donati D’Elia associati (img. 06). Cavare la pietra è un’azione primaria che mette in relazione il rapporto stretto tra la natura che ci precede e l’artificio che ce la restituisce. Spesso è la cava stessa a risarcire la bellezza dello spazio sottratto, come accade nella gran parte dei luoghi di estrazione della pietra, perché replica nella memoria storica dell’uomo quell’antro primordiale che lo ha accolto, sin dal principio. Dalle latomìe greche alle cave in galleria di Carrara, dalle grandi fosse del travertino romano, ai più recenti comparti lapidei delle Puglie. Tutta la storia delle origini, ci ha restituito testimonianze mirabili di architetture sottratte alla natura. In alcune regioni del Mediterraneo sono ancora visibili i segni straordinari dell’ars excavandi che hanno caratterizzato gran parte della cultura neolitica dagli inizi fino alla storia dei nostri giorni3.*
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NOTE 1 – Le tipologie di coltivazione delle cave di pietra si distinguono in ragione della modalità di scavo che viene praticato e della orografia del luogo: sono “a fossa” quelle scavate su un territorio pianeggiante; sono “a costa” o “a mezza costa” quando lo scavo è praticato in area montana, nel primo caso partendo dall’alto della montagna, nel secondo caso quando si lavora sul fianco (quindi con un terreno scosceso, inclinato); sono in galleria invece, quelle il cui scavo si estende all’interno della montagna, proprio a partire da gallerie che si aprono al di sotto della stessa. 2 – Luoghi come questi non riescono ad essere riproposti che attraverso uno sguardo soggettivo, quell’occhio del progettista che possiede una forma di astrazione dai significati in superficie, provando a rivelare il senso più profondo della natura di un luogo. 3 – Si veda in proposito il lavoro di ricerca di Pietro Laureano, sull’Attualità del pensiero delle caverne e delle città di pietra, in “Ars excavandi, utopie e distopie”, catalogo della mostra omonima allestita, in occasione delle attività per la celebrazione di Matera capitale europea della cultura, presso il Museo Ridola/Ipogei di Palazzo Lanfranchi, Matera 2019. BIBLIOGRAFIA – D’Amato, C. (a cura di) (2005). Paesaggi di Cava. L’attività estrattiva e il paesaggio in area mediterranea. Bari: Uniongrafica Corcelli Editrice. – Pavan, V. (2010). Architettura di cava. Faenza: Faenza Scientifics. – Pavan, V. (2013). Re-load stone. Verona: Arsenale editrice. – Potenza, D. (2008). Atlante contemporaneo dei marmi e delle pietre di Puglia. Roma: Edizioni Giuseppe Laterza. – Trasi, N. (2001). Paesaggi rifiutati, Paesaggi riciclati. Prospettive e approcci contemporanei. Roma: Editrice Librerie Dedalo. – Ulisse, A. (2018). Il Peso del Vuoto. Ragionamenti su assenze, vuoto, rumore…e altre architetture. Siracusa: LetteraVentidue.
Eleonora Alviti Architetto. Laurea conseguita al Politecnico di Torino. alvitie@gmail.com
The void construction Many contemporary cities have, over the years, accumulated a series of political and social choices marked by the consumption of land and the lack of protection of the landscape, generating decaying and incomplete architecture as the City of Sport by Calatrava, in Rome. Its void, which lies on a discontinuous territory, does not allow the identity development of the place and makes vain any search for the singular and intimate landscape. In which way is it possible to understand this void, physical and mental, and, through this knowledge, to imprint a new design approach?* efinizione Il vuoto definito dal suo opposto, il pieno, porta con sé il concetto di assenza, sia essa materica o immaterica, l’assenza non solo di oggetti fisici ma anche di sensazioni e di presenza umana (Prati, 2012). Il concetto di vuoto va però ben oltre il suo sinonimo di “non pieno” e la sua mera definizione di “privo di contenuto”, lo spazio vuoto sarà tale solo in relazione all’essere umano, alle sue suggestioni e alle sue abitudini attraverso le quali cercherà di rendere concrete e vive tali vacuità (Espuelas, 2004). Il tema del vuoto è stato, nel corso della storia, ampiamente studiato. C’è chi si è interrogato sulla sua essenza e assenza
01. Masterplan della Città dello Sport (2007). Masterplan City of Sport (2007). Santiago Calatrava Architects & Engineers
La costruzione del vuoto Il recupero della Città dello Sport a Roma, una possibile trama per l’abbandono contemporaneo
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L’IMMERSIONE
02. Foto aerea dello stato di fatto del cantiere della Vela di Calatrava. Aerial photo of the actual state of the Vela site. Soc. Consortile a.r.l (Vianini S.p.a)
e chi impaurito da esso, lo ha “allontanato” riempendolo, ma a prescindere dalla disciplina a cui si fa capo, le azioni che vengono associate al vuoto sono due: la creazione del nulla e la creazione di spazi. Tra le materie che hanno analizzato il concetto di vuoto, l’architettura è l’unica in grado di generare, consciamente, spazi cavi, all’interno dei quali le figure umane si muovono, vacuità architettoniche che assumono significati fisici ed emotivi sempre differenti (Solà-Morales Rubio, 1994). Il vuoto inteso come ricchezza e potere dei salotti nobiliari del XVIII secolo, con pavimenti lucidi e grandi finestre, la sacra vacuità delle imponenti navate delle chiese, da quelle romaniche a quelle gotiche, o il vuoto delle piazze inteso come spazio relazionale.
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Negli ultimi decenni il decrescente interesse verso quelli che possiamo definire vuoti urbani a valenza pubblica, a favore dello spazio domestico e dei vuoti che caratterizzano la sfera privata e intima, ha generato, insieme ad altri fattori, città che hanno perso la loro caratteristica di continuum originato dall’alternarsi progettato di spazi pieni e vuoti e proprio questi ultimi, generano, nella maggior parte delle persone che abitano le metropoli errate interpretazioni. La Vela e il riflesso sulla città La società odierna modifica i suoi caratteri con una velocità sempre maggiore e questo inevitabilmente si ripercuote sullo spazio urbano che spesso
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viene “frettolosamente” disegnato da scelte sbagliate dettate dal consumo di suolo e dall’assenza di tutela del paesaggio, scelte che lasciano dietro di sé oasi intorno alle quali la città passivamente si muove (Augè, 2009). Il vuoto urbano si traveste di edifici non finiti, fabbriche abbandonate, zone non integrate con l’ambiente circostante e in Europa, l’Italia è sicuramente tra le nazioni in cui il fenomeno del vuoto urbano dato dall’abbandono edilizio risulta rilevante e, la Città dello Sport di Roma, ne è la portavoce. L’idea per questa città nella città nacque nel 2006, quando il sindaco Walter Vetroni decise di “utilizzare” i Mondiali di Nuoto del 2009 come catalizzatore di fondi per dare un’identi-
03. Diagramma dei pieni e della rete stradale dell’area di Tor Vergata. Diagram of solids and road network in the Tor Vergata area. Eleonora Alviti 04. La struttura incompiuta degli spalti del Palasport. The unfinished structure of the Palasport stands. Eleonora Alviti
tà all’area di Roma Est sulla quale insiste tutt’oggi il polo universitario di Tor Vergata e alcune infrastrutture realizzate per il Giubileo 2000. Il progetto preliminare (img. 01), affidato all’architetto Santiago Calatrava, risalente al 2006, si estendeva su 52 ettari ed era caratterizzato da due complessi principali collegati da un viale alberato sul quale si affacciavano gli alloggi degli atleti che sarebbero successivamente diventati gli alloggi per gli studenti del campus universitario. Il progetto prevedeva un complesso a nord dominato dalla torre del rettorato e un complesso a sud dedicato alle attività sportive. Immerso nel verde, quest’ultimo faceva leva su due padiglioni identici ed equivalenti che avrebbero ospitato il Palazzetto dello Sport e quello del Nuoto. I due edifici con un basamento in cemento armato alto 8 metri presentavano due coperture geodetiche in acciaio, dalla forma iperbolica, simili a delle vele alte 70 metri e tamponate in doppio vetro. Un progetto molto impegnativo che
iniziò ad avere problemi sin da subito e le vicende che si susseguirono negli anni hanno fatto si che la sua storia abbia ancora un finale in sospeso. I 60 milioni di euro stimati all’atto di assegnazione dei lavori raggiunsero la cifra di 240 prima ancora che aprisse il cantiere. Successivamente, nell’autunno 2006, si riscontrò il primo rallentamento quando, vi fu la necessità di revisionare il progetto per rispettare gli standard olimpici e i costi dell’opera raggiunsero 323 milioni. Nel febbraio 2007, il progetto venne approvato e i lavori poterono finalmente iniziare. Il costo totale dell’opera a quel punto aveva raggiunto 607 milioni di euro. Arrivati a questo punto, però, sarebbe stato impossibile terminare i lavori per il Mondiali di Nuoto del 2009 i quali si svolsero all’interno delle architetture del Foro Italico. Tale evento venne seguito dall’interruzione dei lavori della Città dello Sport per la mancanza di fondi e nonostante questo i costi dell’opera continuarono a salire raggiungendo il 660 milioni.
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Il cantiere della Città dello Sport è fermo dal 2011 (img. 02). Con il passare del tempo il degrado aumenta e con esso aumentano i soldi spesi per la sorveglianza di quello che venne costruito, ossia il basamento in cemento armato di entrambi i lobi e la struttura della vela di uno di essi (img. 03). Ad oggi, l’opera di Calatrava rimane un’imponente cattedrale nel deserto dell’agro romano (Bozzato, 2012). I disagi provocati dalla non riuscita del progetto si sono riversati sul territorio circostante, aggiungendosi a un tessuto esistente di non facile lettura. I resti degli acquedotti e delle ville romane si alternano a casali medievali abbandonati, a zone industriali, e a complessi residenziali di vario genere, dalle alte Torri popolari di Tor Bella Monaca alle basse “casette” abusive (Bozzato, 2012). Le distese di verde che fino a cinquanta anni fa caratterizzavano la campagna romana stanno diminuendo e quelle che oggi rimangono come evidenti vuoti morfologici, sono introverse e di difficile attraversamento e di con-
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05. La Vela vista dagli ambienti interni del basamento. The Vela seen from the interior of the concrete base. Eleonora Alviti
seguenza di impossibile utilizzo per gli abitanti del quartiere. La rete stradale, articolata, poco sicura e in alcuni tratti inesistente, divide anziché connettere rendendo il paesaggio dilatato e distante (De Lucia, Erbani, 2016). Molte realtà si intrecciano e la Città dello Sport, in questo fitto patchwork, è vissuta come un vuoto urbano e sociale che non spinge a nessuna riflessione sul tempo, non possiede nessun intrinseco significato e non gode di nessuna aura di sacralità. Passeggiando in questi luoghi è visibile la parcellizzazione di questo territorio dove non vi è fluidità e dove sono presenti molti spazi vuoti senza alcun punto di unione o condivisione (img. 04). Il luogo degli accadimenti Il complesso della Vela è un’area di Roma che non riesce nel dialogo con la grande città e che nel contempo non sviluppa la sua identità di piccola realtà, si tratta di un quartiere interno al territorio romano ma di fatto tagliato fuori dalle sue dinamiche e trasformazioni.
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La ricerca del singolare e del paesaggio intimo sembra, nel caso studio della Vela (img. 05), davvero complicata, ma è possibile pensare che le “macerie” del mondo contemporaneo siano in grado di raccontare una storia (Augè, 2004; Delle Monache, 2016)? La Vela si somma alle antiche rovine della campagna romana, la sua straordinaria struttura raggiunge i 90 metri di altezza rendendola visibile dai monti intorno alla città, contraddistinguendosi come un forte landmark nel paesaggio, svetta sui prati incolti e dà il benvenuto a chi, da oriente, entra a Roma. Parlare di trasformazione urbana nella città contemporanea non può prescindere dal pensare ad un riutilizzo dei vuoti abbandonati e marginali e dal formare una relazione tra il progetto e chi lo andrà ad abitare. Non vi è alcun bisogno di aggiungere elementi al vuoto, né tantomeno di modificare quelli che ci sono già, è necessario invece cambiare punto di vista riguardo il tema del vuoto urbano modificando il modo in cui gli abitanti vivono il luo-
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go, in quanto le loro abitudini prevalgono su qualunque forma di progetto di rinascita. Il vuoto urbano smetterà di essere vuoto interiore quando verrà tematizzato ed “[...] è la condizione di possibilità di tutti gli eventi, di tutte le cose. Il vuoto in questo senso è il massimamente pieno” (Gnoli, 2001).* BIBLIOGRAFIA – Augè, M. (2004). Rovine e macerie: il senso del tempo. Torino: Bollati Boringhieri. – Augè, M. (2009). Nonluoghi. Introduzione a un’antropologia della surmodernità. Milano: Elèuthera. – Bozzato, S. (2012). Mondiali di nuoto 2009 - Olimpiadi 2020. La periferia meridionale di Roma tra mancate trasformazioni urbane e grandi eventi. In Documenti geografici, n.0. – Clement, G. (2005). Manifesto del Terzo Paesaggio. Macerata: Quodlibet – De Lucia, V., Erbani, F. (2016). Roma disfatta. Roma: Castelvecchi Rx. – Delle Monache, P., Felici, B. (2013). Non-finito, Infinito. Milano: Mondadori Electa. – Espuelas, F. (2004). Il vuoto. Riflessioni sullo spazio in architettura. Milano: C. Marinotti. – Gnoli, A. (2001). Il mondo dove l’estetica è alla base dell’etica. In La Repubblica. – Prati C. (2020). Lo spazio del vuoto. Siracusa: LetteraVentidue. – Solà-Morales Rubio, I. (1994). Terrain Vague. In Calvi, E. (a cura di) I racconti dell’abitare. Milano: Segestacataloghi, pp. 74-78.
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SOUVENIR
Letizia Goretti Dottoressa di ricerca in Composizione architettonica tematica Cultura visuale presso l’Università Iuav di Venezia. letizia.goretti@yahoo.it
Metamorfosi di uno spazio Quartiere della Gare, 13e arrondissement, Parigi
Agli inizi del novecento la Gare era uno spazio “mezzo vuoto”, formato da campi, alcuni capannoni industriali, un largo fascio di binari ferroviari, la stazione di refrigerazione Paris-Orléans (oggi Les Frigos, al centro della foto). L’area è diventata in seguito un grande polo industriale, ma è negli anni ’90 che inizia “la più grande operazione urbana di Parigi”: i vecchi edifici sono stati quasi tutti abbattuti e rimpiazzati da nuovi, gli spazi vuoti riempiti. Voilà, il “mezzo vuoto” si è trasformato in “troppo pieno”.*
Metamorphosis of a space Gare neighbourhood, 13e arrondissement, Paris
At the beginning of the twentieth century the Gare was a "half empty" space, made up of fields, some industrial warehouses, a wide bundle of railway tracks, the Paris-Orléans refrigeration station (today Les Frigos, in the centre of the photo). The area later became a large industrial centre, but it was in the 1990s that "the largest urban operation in Paris" began: the old buildings were almost all demolished and replaced by new ones, the empty spaces have been filled. Voilà, the "half empty" has turned into "too full".*
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Periferica rinascita
Arianna Mion ariannamion0@gmail.com
Peripheral rebirth In 2013 in the periphery of Mazara del Vallo a group of young people decided to restore an abandoned place, previously tuff quarry and kindergarten, now known as Periferica, starting a process of urban regeneration. Through the years, the structure has been able to welcome many international and local hosts and projects of all kinds, always promoting and innovating the territory even within challenging times such as the ones of lockdown caused by Covid-19. As time passes, Periferica itself has changed so much to become now also an example of policy making for fighting inequalities.*
01. Carlo Roccafiorita. Paola Galuffo
Un modello di rigenerazione urbana partecipata e luogo di riscatto territoriale Nel 2013, il ventitreenne Carlo Roccafiorita assieme ad altri giovani, decise di recuperare uno spazio abbandonato, precedentemente cava di tufo ed ex-asilo, nella periferia di Mazara del Vallo e di applicarne nozioni e teorie apprese all’università per rivalorizzarlo, concependo così un esempio di rigenerazione italiana. Per voi, cosa significa periferia? Periferia è un termine contenitore: è periferico ciò che è lontano dal centro, ma qual è il centro? Io sono nato nella periferia di una piccola città, eppure me ne sono accorto solo più avanti, crescendo. Periferia e centro, direbbe Harari, sono realtà immaginate: parole che abbiamo inventato per decodificare la realtà ma che assumono connotazioni diverse a seconda del sistema di riferimento. Oggi con Periferica elaboriamo soluzioni per le marginalità sociali, economiche e culturali delle nostre città, per noi ambiti da sempre fondamentali. Figli della complessità del nostro tempo, abbiamo creato la nostra bussola della rigenerazione, quattro punti cardinali che definiscono aree di intervento, ma che sono anche obiettivi di sostenibilità, a cui corrispondono dei settori di riferimento: ripensare i patrimoni, aprire i luoghi, potenziare le persone, centralizzare i margini. Se per il primo punto ci rapportiamo a tutto ciò che a che fare con il fundraising e la progettazione culturale, per il secondo abbiamo portato avanti un piano di valorizzazione del sistema delle cave di Mazara del Vallo, in un più largo programma di promozione del territorio a base culturale. Sono nati così, ad esempio, Evocava, Casa Periferica, Rigenerata, il festival internazionale di rigenerazione urbana, oltre a programmi di mobilità artistica e concorsi di architettura. Di recente abbiamo lavorato su Urbana, un progetto open data di mappatura degli immobili comunali in grado di connettere patrimonio, artisti ed opportunità anche internazionali. Per il terzo punto, il potenziamento delle persone, sono stati svolti dei lavori per il contrasto alla povertà educativa, focalizzandosi particolarmente sulla relazione di quest’ultima con la creatività urbana. Infine, per centralizzare i margini, essendo abbastanza trasversale, abbiamo realizzato delle attività di mappatura e ricerca, anche attraverso interventi comunicativi o di data journalism, cercando di coinvolgere i soggetti ai margini in un'idea di comune ri-narrazione e immaginazione. Da cosa è stato caratterizzato e come è stato strutturato il percorso che ha portato alla messa in atto del “riempimento” architettonico e socio-culturale del precedente “vuoto” che contraddistingueva l’attuale spazio di Periferica?
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AL MICROFONO
La nostra compagine organizzativa può essere organizzata in tre fasi. La prima va dal 2013 al 2015 ed è quando siamo nati come associazione, iniziando a lavorare esclusivamente sul format del festival attraverso cui abbiamo attivato Casa Periferica. La seconda va dal 2015 al 2019, in cui abbiamo aperto una cooperativa. In questa fase, nel sottoporre un’idea di impronta prettamente architettonica, inconsciamente, stavamo sperimentando tutto ciò che a che fare oggi con i processi partecipativi di co-design, co-progettazione e rigenerazione urbana partendo da un luogo completamente dismesso. Il nostro è uno spazio di 3.000 mq, un ex-asilo, dove c’è lo studio, il coworking, la cucina sociale, la residenza per artisti; poi ci sono 2.500 mq di cava a cielo aperto, che ci hanno spinti anche a progettare Evocava, il museo evocativo. Per coinvolgere più proposte possibili si è scelto di optare per tre format: un festival, una summer school e un programma di mobilità artistica (Ricreazioni) attraverso il quale sono state svolte diverse residenze. Visto con occhi più maturi posso dire che se potessi tornare indietro quello che cambierei è sicuramente l’attenzione posta da parte nostra al di fuori di questi format. Abbiamo infatti fatto l’errore di pensare che il territorio e le compagini amministrative, economiche, sociali e culturali fossero pronte a quello che avevamo immaginato di fare. Invece ci siamo resi conto che se il concorso ci ha permesso di arrivare ad un bacino molto grande e inaspettato di utenti, di fatto ciò è stato percepito come distante rispetto alla comunità a cui ci si stava rivolgendo. 02. Casa Periferica - Visiting. Questo è anche uno dei motivi per il quale è nato Rigenerata, un manifesto e patto di cultura urbana, presentato agli ultimi candidati a sindaco di Mazara durante le scorse elezioni. L’intenzione era di misurare la preparazione dei soggetti politici e, allo stesso tempo, di prepararli ad un reale percorso di cambiamento. Infine, la terza fase: quella in cui offriamo dei servizi di progettazione e di gestione a base creativa e culturale per soggetti pubblici e privati; fa inoltre riferimento alla nostra trasformazione, alla compagine interna e al modo in cui abbiamo iniziato a lavorare maggiormente sulla comunità. Che rapporto pensiate sussista tra coloro che si occupano di rigenerazione urbana e il cambiamento? Nel corso dell’opera, è quest’ultimo identificabile più come una fonte di stimolo o in certe circostanze, arriva quasi paradossalmente a rappresentare un ostacolo? Il cambiamento non è sempre positivo, entrano in gioco obiettivi, modalità, processi; elementi che anche con le migliori premesse possono determinare una regressione. Attraverso Periferica abbiamo sempre cercato di lavorare in un’ottica incrementale, inclusiva e generativa nei confronti dei pubblici a cui ci stavamo rivolgendo. Partendo dal dato, abbiamo sviluppato progettualità legate al territorio, relative alle sovrastrutture organizzative, gestionali, sociali e culturali, cercando di mantenere un approccio inclusivo e migliorativo senza andare a stravolgere gli equilibri con cui già entriamo in contatto. Sia perché il tipo di intervento che vogliamo proporre spesso è una novità e non necessariamente anche un’innovazione, sia perché si ha a che fare con un sistema che di per sé può funzionare senza che tu, rigeneratore urbano, esista. Sono d’accordo con Ilda Curti quando scrive che un rigeneratore urbano capisce di aver fatto un buon lavoro quando si rende conto di essere inutile, cioè quando comprende che il processo che ha portato avanti è stato in grado di generare un nuovo equilibrio il quale non ha bisogno di nessun intermediario per proseguire.
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Periferia e centro sono realtà immaginate: parole che abbiamo inventato per decodificare la realtà
PERIFIERICA www.perifericaproject.org
Bisogna rendersi conto del contesto in cui si opera prima ancora di porsi degli obiettivi
Globale e locale: s'incontrano o si scontrano? Indubbiamente, Casa Periferica è uno spazio avente una portata globale data anche dalla presenza di artisti internazionali nei vari eventi, tra i quali spicca l’annuale Festival. Qual è stata e qual è tuttora la relazione con la comunità locale? Se la comunità si incontra o si scontra dipende anche dalla qualità del lavoro che facciamo, dato che il nostro ruolo è anche quello di far quadrare le istanze. La comunità globale ha sempre risposto oltre alle aspettative, sia in termini di partecipazione che di dedizione. Abbiamo sempre stimolato l’ibridazione dei processi di produzione al fine di arrivare a risultati misurabili e utili principalmente alla comunità locale. Periferica è divenuta nel tempo una piattaforma per lo scambio di competenze professionali tra la comunità locale e quella creativa, non sempre scontata. Vi porto un’esperienza: durante la sesta edizione del festival, nel 2019, fu inserito un laboratorio di community building con l’obiettivo di lavorare sulle relazioni sociali con il quartiere, replicando una serie di metodi (già utilizzati con successo altrove) per raccogliere alcuni dati coinvolgendo la comunità locale; però purtroppo il risultato non andò come previsto. Proprio per questo, con il community hub cercheremo di rivolgerci nuovamente a quei pubblici che si sono creati la prima volta. Il senso di vuoto causato dalle disposizioni per il Coronavirus che effetto ha avuto su Periferica, luogo geografico dove l’incontro fisico tra gli individui è esso stesso causa ed effetto di azioni concrete a forte valenza territoriale? Non essendo possibile programmare un’apertura degli spazi, abbiamo sperimentato. Il risultato è stato I am the virus, il primo progetto di ricerca artistica che ho svolto da solo, dove degli artisti sono stati invitati a produrre, attraverso un avatar che ero io, delle creazioni all’interno di Periferica. Ciò è avvenuto con tutti le limitazioni del caso, dato che io né ho mai tenuto in mano un pennello,
03. Periferica - Evocava Project: la cattedrale ipogea scoperta.
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AL MICROFONO
04. Periferica Fest18 - Evocava e il Museo Aperto, esplorazione.
05. Cava Periferica - sfondo MOMO wall.
né ho mai girato un film. Si voleva migliorare tutti i limiti o le opportunità dei nostri attuali sistemi di comunicazione, perciò tutto quello che il virtuale in un momento di estrema urgenza ci poteva mettere a disposizione. È nata così una generazione di nuove domande: di chi è l’opera finale? Che valore ha la co-produzione in un momento in cui non è possibile lavorare insieme? Che fine fanno i luoghi culturali o i centri di aggregazione attuali? Che opportunità ci possono essere in questo momento in cui si possono usare solo gli strumenti digitali? Quindi ciò che è emerso è l’opera come processo di produzione, non tanto l’opera in sé. Secondo voi, il vostro progetto potrà agire e servire come modello di policy making per le istituzioni nel contrasto alle disuguaglianze? Assolutamente sì. Rigenerata è in qualche modo il primo strumento che noi abbiamo immaginato, ma che in realtà anticipava nei contenuti e nei metodi ciò che adesso andremo a sviluppare con il community hub. In quest’ultimo porteremo lavoro e sperimenteremo rispetto a quello che può essere l’opportunità di processi di policy making all’interno dei percorsi di rigenerazione urbana e di inclusione sociale. Credo che potremo farlo solo dopo aver lavorato in maniera approfondita e senza riserve su quello che i nostri territori sono in grado di darci. Bisogna rendersi conto del contesto in cui si opera prima ancora di porsi degli obiettivi. Secondo me, questo può sicuramente succedere in tutte le realtà mature e disposte a lavorare in tale senso.*
BIBLIOGRAFIA – Classe U-RISE 2020, (2020). Quali competenze servono per diventare un rigeneratore urbano? Disponibile su https://www. che-fare.com/rigeneratore-urbano-competenze-classe-urise/ (ultima consultazione gennaio 2021). – Ostanel, E. (2020). La città post-pandemica non potrà esistere senza giustizia sociale e spaziale. Disponibile su https:// www.che-fare.com/urise-citta-post-pandemica-giustizia-sociale-spaziale/ (ultima consultazione gennaio 2021).
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Un fuoco sotteraneo
a cura di
Una passeggiata d'inverno Henry David Thoreau La Nuova Frontiera 2020 (design Flavio Dionisi)
l vento è entrato con un mormorio lieve da dietro le imposte oppure ha soffiato sulle finestre con la morbidezza di una piuma e ha sospirato ogni tanto come uno zefiro estivo che di notte scuote le fronde. Il topo dei campi ha dormito al riparo della sua galleria [...], il gufo si è appollaiato in un tronco cavo nei recessi della palude, il coniglio, lo scoiattolo e la volpe hanno trovato un posto al coperto. Il cane da guardia si è accucciato in silenzio accanto al focolare e dalla stalla non è giunto nemmeno un muggito. Anche la terra si è assopita, quasi fosse il suo primo sonno, se non l’ultimo, salvo quando un [...] rumore insonne, il solo tra Venere e Marte, ci ha fatto scoprire un calore intimo e remoto, una gioia, una celeste comunità
di intenti cui gli dèi partecipano, ma molto fosca per gli uomini. E mentre la terra poltriva, l’aria si è ravvivata di fiocchi leggeri piovuti sui campi come una semenza d’argento per ordine di una Cerere calata dal nord. Dormiamo e infine ci ridestiamo nella realtà immobile di un mattino d’inverno. La neve si è posata sul davanzale, come una calda coltre di cotone o lanugine; dai vetri brinati del telaio a ghigliottina gonfiato dal freddo filtra una luce fioca e intima che esalta la confortevole piacevolezza della stanza. La quiete del mattino è impressionante. L’assito scricchiola sotto i piedi mentre andiamo alla finestra per cercare con lo sguardo uno spazio terso al di là dei campi. Vediamo i tetti resistere al fardello della
neve [...], vediamo forme fantastiche distendersi con capriole giocose in un paesaggio fosco, come se la Natura avesse sparso nottetempo per i campi i suoi disegni affinché servano da modelli per l’arte di noi umani. Senza far rumore togliamo il paletto dalla porta [...], e ci spingiamo all’esterno per affrontare l’aria tagliente. [...] Il sole sorge infine in lontananza dal bosco e, come accompagnato da un vago e vibrante sbattere di cembali, scioglie l’aria con i suoi raggi. Ha già indorato le distanti montagne, tanto è rapido il passo che imprime al mattino. Nel frattempo anche noi ci affrettiamo nella neve farinosa, scaldati da un calore interiore, da un’estate indiana che non sembra finita, in un ardore crescente di pensieri e sensazioni. Se le nostre esistenze si uniformassero meglio alla natura, probabilmente non avremmo bisogno di proteggerci dal caldo e dal freddo, ma troveremmo in lei l’amica e balia fedele che è per piante e quadrupedi. [...] Vi è in natura un fuoco sotterraneo e dormiente che non si estingue mai e che nessun freddo può smorzare.*
Pianeta vuoto Darrelll Brickjer, John Ibbitson Add Edotore, 2020 design Francesco Serasso
Il libro dell'estate Tove Jansson Iperborea, 2020 design xxystudio
sullo scaffale
Una donna nella notte polare Christiane Ritter Keller Editore, 2020 design Keller editore
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CELLULOSA
Vita liquida “Che se ti guardi intorno non c’è niente da cantare Solamente un grande vuoto che a guardarlo ti fa male” Brunori Sas, Canzone contro la paura, A casa tutto bene, 2017 Immagine di Emilio Antoniol
(S)COMPOSIZIONE