ISSN 2532-1218
n. 26, luglio-agosto-settembre 2019
Sacro
Ritiziano Bis A di Davide Spillari Davide Spillari è graficoide
Stefania Mangini
Se Dio muore, è per tre giorni poi risorge Non è semplice dare una definizione del concetto di sacro senza fare riferimento a ciò che è il suo opposto, il profano. Nella sua ineffabilità, tuttavia, il sacro presenta alcuni caratteri specifici che ne consentono uno studio fenomenologico: in primo luogo il sacro viene associato in maniera sistematica a entità anche molto diverse tra loro, siano esse luoghi, oggetti, persone o azioni. Esso appare quindi come una qualità specifica attribuita a cose differenti che a loro volta inducono chi si trova di fronte al sacro ad agire in modi specifici, assumendo comportamenti consoni alla qualità sacra dell’oggetto. In generale potremmo quindi dire che il sacro incarna un valore etico di rispetto e venerazione che lo contraddistingue da ciò che invece è, comunemente, profano. Eppure ormai da quasi due secoli la cultura occidentale si affanna ad affermare, inneggiando al motto nietzschiano “Dio è morto”, la crisi di questi valori sacri e la progressiva decadenza del mondo moderno che non trova più nell’ordine divino un suo riferimento. Sono in particolare gli anni ‘60 a dettare un brusco scossone ai valori occidentali trovando nel movimento giovanile della Beat Generation una corrente culturale incline al rifiuto delle norme imposte, all’avversione per l’ordine prestabilito, sia esso politico o religioso, a favore di una visione laica e profana di ogni sfera della vita. Quella del dopoguerra, per descriverla con le parole di Guccini, è una generazione “alla ricerca di qualcosa che non trova”, che “ormai non crede in ciò che spesso han mascherato con la fede”, che nega i “miti eterni della patria o dell’eroe” alla ricerca di “un sogno che conduce alla pazzia”. Una generazione che rifiuta le “fedi fatte di abitudine e paura”, la “politica che è solo far carriera” e “l’ipocrisia di chi sta sempre con la ragione e mai col torto”. Una generazione piena di speranza perché conscia “che se Dio muore è per tre giorni e poi risorge” nel mondo nuovo che verrà. Un mondo nuovo che oggi, a distanza di oltre cinquant’anni, non sembra però così diverso da quello descritto dal cantautore modenese nel 1965. E penso, che se Dio è risorto, oggi lo ha fatto negli smartphone presi a rate e nelle mode dell’estate, nelle frodi di partito e nel diritto proibito, in ciò che noi vogliamo ma che, ad essere sinceri, cosa sia davvero non lo sappiamo. Emilio Antoniol
Direttore editoriale Emilio Antoniol Direttore artistico Margherita Ferrari Comitato editoriale Letizia Goretti, Stefania Mangini Comitato scientifico Federica Angelucci, Stefanos Antoniadis, Sebastiano Baggio, Matteo Basso, MariaAntonia Barucco, Viola Bertini, Paolo Borin, Laura Calcagnini, Piero Campalani, Fabio Cian, Federico Dallo, Doriana Dal Palù, Francesco Ferrari, Jacopo Galli, Michele Gaspari, Silvia Gasparotto, Giovanni Graziani, Francesca Guidolin, Beatrice Lerma, Elena Longhin, Michele Manigrasso, Michele Marchi, Patrizio Martinelli, Cristiana Mattioli, Corinna Nicosia, Damiana Paternò, Laura Pujia, Fabio Ratto Trabucco, Silvia Santato, Chiara Scarpitti, Giulia Setti, Luca Velo, Alberto Verde, Barbara Villa, Paola Zanotto Redazione Martina Belmonte (copy editor), Paola Careno (impaginazione), Letizia Goretti (photo editor), Stefania Mangini (grafica), Silvia Micali (traduzioni), Arianna Mion, Libreria Marco Polo, Sofia Portinari (impaginazione) Web Emilio Antoniol Progetto grafico Margherita Ferrari
OFFICINA* “Officina mi piace molto, consideratemi pure dei vostri” Italo Calvino, lettera a Francesco Leonetti, 1953
Trimestrale di architettura, tecnologia e ambiente N.26 lug-set 2019
Sacro
Proprietario Associazione Culturale OFFICINA* e-mail info@officina-artec.com Editore anteferma edizioni S.r.l. Sede legale via Asolo 12, Conegliano, Treviso e-mail edizioni@anteferma.it Stampa Press Up, Roma Tiratura 200 copie Chiuso in redazione il 31 luglio 2019 con l’aiuto di tutti i Santi del Paradiso Copyright opera distribuita con Licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale Condividi allo stesso modo 4.0 Internazionale L’editore si solleva da ogni responsabilità in merito a violazioni da parte degli autori dei diritti di proprietà intelletuale relativi a testi e immagini pubblicati.
Direttore responsabile Emilio Antoniol Registrazione Tribunale di Treviso n. 245 del 16 marzo 2017 Pubblicazione a stampa ISSN 2532-1218 Pubblicazione online ISSN 2384-9029 Accessibilità dei contenuti online www.officina-artec.com Prezzo di copertina 10,00 € Prezzo abbonamento 2019 32,00 € | 4 numeri Per informazioni e curiosità www.anteferma.it edizioni@anteferma.it
OFFICINA* è un progetto editoriale che racconta la ricerca. Gli articoli di ricercatori, selezionati e valutati dal comitato scientifico, si affiancano a esperienze professionali, per costruire un dialogo sui temi dell’architettura, tra il territorio e l’università. Ogni numero racconta un tema, ogni numero è una ricerca. Hanno collaborato a OFFICINA* 26: Simone Amato Cameli, Michele Anelli-Monti, Babau Bureau, Enrico Bascherini, Matteo Benedetti, Barbara Bergamaschi, Anna Berto, Mattia Cocozza, Eugenio Armando De Nicola, Margherita Fiorini, Vittoria Giuriolo, Jenni Lazari, Fabio Merotto, Patrizio M. Martinelli, Alessio Omassi, Valerio Palmieri, Rosaria Revellini, Emanuela Ruggio, Chiara Semenzin, Davide Spillari, Christian Toson, Gabriele Trovato, Candida Maria Vassallo, Eleonora Zanirato.
Sacro
Sacred n•26•lug•ago•set•2019
Ritiziano Bis A Davide Spillari
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La permanenza dello spazio sacro dell’architettura The permanence of the architecture dacred space Valerio Palmieri, con le illustrazioni di Patrizio M. Martinelli
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Lo spirituale in architettura Concerning the spiritual in architecture Matteo Benedetti
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ESPLORARE Fabio Merotto, Margherita Ferrari PORTFOLIO
La casa dell’uomo The house of man
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I CORTI
Arte sacra nel nuovo millennio Alessio Omassi
La Pieve di Sant’Andrea di Bigonzo Emanuela Ruggio
La Cappella di Mario Botta e Giuliano Vangi ad Azzano di Seravezza The Chapel of Mario Botta and Giuliano Vangi in Azzano di Seravezza Enrico Bascherini
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Chiara Semenzin
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La sacralità nella macchina tra passato e presente Sacredness in the machine between past and present Gabriele Trovato
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Emilio Antoniol, Letizia Goretti IN PRODUZIONE
Mete di pellegrinaggio laico Secular pilgrimage sites
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INFONDO
I numeri del sacro a cura di Stefania Mangini
Eugenio Armando De Nicola, Rosaria Revellini
Templi prêt-à-porter: l’estetica dello spazio sacro e la sua metamorfosi Prêt-à-porter temples: the aesthetic of sacred space and its metamorphose L’ARCHITETTO
Pellegrinaggio alla roccia Pilgrimage towards the rock Babau Bureau, Jenni Lazari
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Christian Toson
Ora et labora
Barbara Bergamaschi
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La chiesa dell’Apostolo Pietro a Marzialnye Vody The church of the Apostle Peter in Marzialnye Vody
La memoria profanata The profaned memory Mattia Cocozza
Terremoto: il sacro in profano The earthquake: the sacred in the profane Candida Maria Vassallo
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L’IMMERSIONE
L’età della Profanazione The age of Profanation Margherita Fiorini, Michele Anelli-Monti
La quadratura del cerchio Squaring the circle Simone Amato Cameli
Tonnara di ritorno Return tuna-fishing Anna Berto, Vittoria Giuriolo, Eleonora Zanirato CELLULOSA
Vangeli
a cura dei Librai della MarcoPolo (S)COMPOSIZIONE
Speranze
Emilio Antoniol
Jannis Kounellis 11 maggio - 24 novembre 2019 Fondazione Prada, Venezia www.fondazioneprada.org
Jannis Kounellis, Fondazione Prada Venezia. Agostino Osio - Alto Piano
Negli anni sessanta e settanta si sono avvicendate importanti esperienze artistiche guidate dalla volontà di sperimentare nuove pratiche. Per questo motivo i risultati appaiono talvolta difficili da apprendere, sebbene tentino di smuovere certi atteggiamenti desueti ed esclusivamente pittorici. In un ampio contesto geografico, americano ed europeo, il lavoro di ogni singolo artista si è aperto alle tendenze più radicali e i pensieri comuni sono stati presentati e condivisi in mostre collettive e riviste. Jannis Kounellis dedica la prima parte della sua carriera alla pittura e insiste su un linguaggio in cui si intervallano sulla tela simboli e segni sottoforma di scrittura e musica; entrambe composte di pieni e vuoti, pause e silenzi, assenze che invocano il sacro. Altrettanto sacro è il fuoco che utilizza in alcune installazioni successive, insieme ad altri elementi naturali come il cotone e il carbone; non più materia pittorica quindi, bensì materiali poveri con i quali costruisce azioni teatrali e performaces. Scelte necessarie per uscire dallo spazio pittorico e imporre nuove relazioni con lo spazio fisico ospitante, luogo in cui viene a determinarsi un evento attraverso un rapporto dialettico tra uomo e spazio fatto di azioni e relazioni, presentazioni e rappresentazioni, e dicotomie. Il ritmo pittorico diventa musica, il fuoco genera il fumo e tutto serve a determinare un rapporto tra uomo e vita, e per immergersi in una dimensione prettamente sensoriale. Il critico Germano Celant, curatore di questa mostra, nel 1967 introdusse il termine Arte Povera con la necessità
di accomunare una serie di artisti per ristabilire nuove connessioni spaziotemporali di tipo primordiale. L’arte di Kounellis si inserisce quindi in un rapporto vicendevole tra natura e vita, tra ambientazioni di cactus e un musicista che suona o un pappagallo vivo. Questa mostra è la prima antologica a due anni dalla scomparsa di Kounellis e presenta decine di opere provenienti da importanti collezioni e musei italiani e internazionali, oltre che alcune installazioni di grandi dimensioni per narrare un importante capitolo di storia dell’arte a cui le nuove generazioni di artisti sono debitrici. Fabio Merotto
Baselitz – Academy 8 maggio - 8 settembre 2019 Gallerie dell’Accademia, Venezia www.gallerieaccademia.it
La forza espressiva della pittura di George Baselitz rientra nell’esperienza artistica del Neoespressionismo che si è diffuso in Europa negli anni ottanta, anche se con nomi differenti nei vari paesi, e con la necessità di riprendere i toni violenti, le pennellate oblique e vigorose della pittura espressionista tedesca del primo Novecento. Baselitz conosce le esperienze artistiche concettuali, minimaliste e poveriste degli anni sessanta e settanta, affascinanti e complesse, dalle quali però mantiene le distanze a favore di un ritorno alla pittura figurativa. Studia l’imponente tradizione pittorica italiana di cui è un grande conoscitore ed ecco che la mostra allestita negli spazi delle Gallerie dell’Accademia è anche l’occasione per rileggere grandi capitoli di storia dell’arte. Negli anni George Baselitz si è dedicato anche al tema dei piedi, al significato del loro contatto con il pavimento, con le origini e con le certezze per essere messe in discussione. A un certo punto della sue carriera, al finire degli anni sessanta, comincia a dipingere immagini capovolte, quasi a voler destabilizzare la consuetudine, per ricominciare a discutere di vera pittura fatta di colore, luce e materia. Oggi è celebre per le sue figure che non esigono più un contatto con la terra, bensì con il cielo mettendo da parte le costrizioni terrene per collegarsi, invece,
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alle volontà celesti, e insistere sul valore sacro di libertà. Nell’osservare le sue figure pare un gesto istintivo quello di ruotare la testa per scrutare i suoi ritratti nel verso giusto. Ciò vuol dire dargli ragione e assecondare la sua volontà di rottura da una impostazione tradizionale e accettare questa condizione di ribaltamento per convalidare la sua volontà pittorica. Con i suoi quadri si instaura un appassionato rapporto tra realtà (osservatore) e rappresentazione (personaggio osservato) e viene da chiedersi se a trovarsi nel verso giusto siamo noi, genere umano, o le figure capovolte. Probabilmente siamo noi posizionati nel verso sbagliato e forse la via di uscita dai marasmi contemporanei è comprendere che dobbiamo tornare ad una condizione primigenia. Fabio Merotto
Sfogliare la ricerca 3 ottobre 2019 CFZ - Ca’ Foscari Zattere, Venezia www.unive.it/pag/26799
Nell’ambito della divulgazione scientifica, la rivista rappresenta uno strumento utile a condividere e diffondere la ricerca. Gli strumenti digitali hanno contribuito alle recenti trasformazioni delle riviste scientifiche, che stanno diventando sempre più numerose e diffuse. Esse riguardano soprattutto l’uso del supporto digitale accanto, o in sostituzione, a quello cartaceo, la definizione di nuovi layout capaci di attirare un pubblico più ampio attraverso l’uso di apparati grafici, la condivisione digitale degli articoli pubblicati, e l’accostamento di più settori disciplinari per mettere in contatto discipline e figure differenti. La rivista scientifica si sta quindi trasformando sia nel formato che nei contenuti, aprendosi a nuove tematiche e a nuove modalità di fruizione, contribuendo a rendere accessibile a un pubblico sempre più ampio i risultati della ricerca. A fronte di questa eterogeneità di prodotti editoriali, diventa quindi utile individuare dei parametri attraverso i quali analizzare una rivista scientifica oggi, focalizzandosi non solo sui temi e sui contenuti trattati, ma anche sulle differenti modalità di fruizione. Margherita Ferrari
ESPLORARE
Introduzione di Valerio Palmieri. Contributi di Matteo Benedetti, Eugenio Armando De Nicola, Patrizio M. Martinelli, Rosaria Revellini, Chiara Semenzin, Christian Toson, Gabriele Trovato.
La permanenza dello spazio sacro dell’architettura di Valerio Palmieri
The permanence of the architecture sacred space di Valerio Palmieri
Potrebbe sembrare curioso domandarsi, in un’epoca caratterizzata da società secolarizzate e in larga parte omologate dalla religione della merce, se esista oggi un valore, un ruolo per la sacralità dello spazio architettonico. Il tema è sicuramente troppo vasto e complesso perché queste poche righe possano affrontarlo con l’attenzione e la completezza necessarie. Per iniziare però a sondarlo può essere utile partire dal significato etimologico del termine “sacro”. Nella lingua ebraica, carattere che permane anche nelle lingue greca e latina, esso indica ciò che è “separato”, ossia che rinsalda il rapporto con Dio o, in termini più generali, con la trascendenza, perché distante, “altro” rispetto a ciò che è quotidiano, profano. La celebrazione di questa separazione si è sempre manifestata simbolicamente nella costruzione di manufatti che con la loro presenza e la loro forma esprimessero l’aspirazione all’unione tra i due misteri della terra e del cielo. Un atto che è sempre coinciso col valore simbolico più profondo dello spazio architettonico, se è vero che l’architettura, ossia quel costruire che non dà semplice risposta alle esigenze primarie da sempre, per statuto, ha costruito la Casa del Dio, il luogo nel quale celebrare e ritualizzare la presenza del mistero della trascendenza. Uno spazio dotato di senso dove può accadere la ierofania, la manifestazione del sacro, di ciò che è al di là della realtà tangibile, di quell’universo quotidiano razionalmente interpretabile. Ora, se da un lato la modernità ha aperto il recinto dell’architettura allo spazio del quotidiano, portando ad esempio il tema della casa dell’uomo qualunque, quella che Adolf Loos con la sua logica tagliente e per certi aspetti spietata affermava non aver niente a che vedere con l’arte e l’architettura, dall’altro la semplificazione formale - operata dalle avanguardie dell’inizio del XX secolo - ha contribuito a concentrare ed essenzializzare i caratteri dello spazio architet-
It might seem curious to ask if, in a time characterized by secularized societies and largely homologated by the religion of the commodity, today there is a value or a role for the sacredness of the architectural space. The theme is certainly too vast and complex to be analyzed in these few lines with the necessary attention and completeness. But to start probing it can be useful to start from the etymological meaning of the word “sacred”. In the Hebrew language, a character that persists even in the Greek and Latin languages, it indicates what is “separate”, that strengthens the relationship with God or, in more general terms, with the transcendence, because it is distant, “other” than what it is daily, profane. The celebration of this separation has always manifested itself symbolically in the construction of artifacts that with their presence and their form express the aspiration to the union between the two mysteries of the earth and the sky. An act that has always coincided with the deeper symbolic value of architectural space, if it is true that architecture, that is building that does not simply respond to the primary needs, has always built, by statute, the House of God, the place in which celebrate and ritualize the presence of the mystery of transcendence. A space endowed with meaning where can happen a hierophany, the manifestation of the sacred, of which is beyond the tangible reality, of that is beyond the rationally interpretable daily universe. If on the one hand modernity has opened the fence of architecture to the space of everyday life, bringing for example the theme of the house of the ordinary man, the one that Adolf Loos with his sharp logic and in some ways ruthless claimed it had nothing to do with art and architecture, on the other the formal simplification operated by the avant-gardes of the beginning of the 20th century, has contributed to concentrating and essentializing the characters of architectural space,
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SACRO
American Landscape Patrizio M. Martinelli
OFFICINA* N.26
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tonico, operazione pertinente a quella sintesi necessaria a definire la sacralità dello spazio. Questo passaggio in Occidente ha aperto a una diversa nozione di spazio sacro, non più necessariamente legato alla sola religione. Certo amplissima è la casistica di edifici religiosi che nell’arco di poco più di un secolo hanno scritto la storia dell’architettura moderna e contemporanea, a cominciare dalla Sagrada Familia che, riproponendo i lunghi iter realizzativi delle grandi cattedrali europee, sta lentamente arrivando al suo compimento, ben oltre la scomparsa del suo progettista. Per continuare con i capolavori lecorbusieriani di Ronchamp, de La Tourette e di Firminy, o le raffinatissime prove di Saarinen, di Aalto e di Niemeyer, le drammatiche ed espressive spazialità di Michelucci, o in tempi più vicini a noi, con le materiche stereometrie di Botta, contrappuntate dalle laconiche cappelle di Siza e di Ando. Ma è indubbio che proprio questa sinteticità formale, che ha abbandonato la sintassi naturalistica degli ordini architettonici, abbia aperto a una dimensione sacra dello spazio che include non più solo gli edifici strettamente destinati al culto. Sembra infatti difficile non percepire la sacralità di spazi come quelli della Neue Nationalgalerie di Berlino, di Mies Van der Rohe, o per limitarci a un solo altro esempio, a quelli della casa che Luis Barragan realizza per sé a Città del Messico. Spazi dove il tempo si sospende, si arresta, dove la destinazione d’uso arretra per consentire l’ingresso di quella dimensione della “separazione”, di ciò che è fuori dall’ordinario, del quotidiano, appunto del sacro. Ecco allora che potremmo dire che questa dimensione è immanente alla grande architettura e, malgrado il mutare dei tempi, del pensiero e della cultura, accompagnerà sempre l’uomo finché avrà la capacità di interrogarsi sulle ragioni profonde del suo essere e del suo destino.*
an operation pertinent to that necessary synthesis to define the sacredness of the space. This passage in the West has opened up to a different notion of sacred space, no longer necessarily linked only to religion. Of course, the number of religious buildings that have written the history of modern and contemporary architecture, starting with the Sagrada Familia, which, proposing the long realization steps of the great European cathedrals, is slowly coming to its completion, also after the disappearance of its designer. To continue with the Le Corbusier’s masterpieces of Ronchamp, of La Tourette and Firminy, or the very refined projects of Saarinen, Aalto and Niemeyer, the dramatic and expressive spatiality of Michelucci, or closer to us, with the material stereometries of Botta, counterpointed by the laconic chapels of Siza and Ando. But there is no doubt that this formal synthesis, which has abandoned the naturalistic syntax of architectural orders, has opened up to a sacred dimension of space that no longer includes only the buildings strictly intended for worship. In fact it seems difficult not to perceive the sacredness of spaces like those of the Mies Van der Rohe’s Neue Nationalgalerie in Berlin, or to limit ourselves to just one other example, of the house that Luis Barragan realizes for himself in Mexico City. Spaces where the time is suspended, where the use destination retreats to allow the entry of “separation” dimension, of what is out of the ordinary, of the everyday, precisely of the sacred. Here then we could say that this dimension is immanent in the great architecture and, despite the changing of times, of thought and culture, it will always accompany man as long as he has the capacity to question himself on the deep reasons of his being and his destiny.*
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SACRO
Pro-fano Patrizio M. Martinelli
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Matteo Benedetti Architetto, PhD in Composizione Architettonica. www.matteobenedetti.com info@matteobenedetti.com
Lo spirituale in architettura
01. Palazzo dei Ricevimenti e dei Congressi, Adalberto Libera, 1937-54; Palace of Receptions and Congresses, Adalberto Libera, 1937-54. Matteo Benedetti, 2010-2013
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Adalberto Libera come esempio opera di Adalberto Libera si compone di un complesso mosaico formato da architetture che custodiscono chiari riferimenti ad alcune modalità compositive tipiche del Moderno e, allo stesso tempo, ad approcci progettuali che superano lo spirito dell’epoca e volgono lo sguardo a un orizzonte più ampio, definibile come atemporale. Un breve discorso su alcuni temi dell’architetto trentino è utile come pretesto per esplorare i metodi del “fare architettura” che considerano la disciplina come atto spirituale. Non è inopportuno accostare questa attitudine alla dimensione del sacro, se per sacro si intendono le azioni umane volte a creare un universo che abbia significato. Considerare l’architettura come “atto di nobiltà della mia vita” (Libera, 1960) rimanda alla responsabilità derivante dalle modificazioni che si operano, attraverso la costruzione, all’abitare umano, ma si connette anche alla consapevolezza della disciplina: nel processo compositivo, nell’organizzare e dare forma allo spazio e nel definire un linguaggio specifico, si costruisce un vero e proprio cosmo, un ordine delle cose, che si pone come interpretazione, per quanto parziale e temporanea, del mondo. In questo caso assume particolare rilevanza la “forma” finita dell’architettura e la sua natura oggettuale. Ragionare su questi temi oggi, quando sembra esaurirsi il predominio del “processo” nell’attività compositiva architettonica, può essere utile per esplorare percorsi di studio originali. La figura di Libera ha una chiara specificità all’interno della modernità italiana. Potrebbe definirsi come il meno razionalista e il più razionale degli architetti della sua generazione. Nella sua attività progettuale si ravvisa un primato del metodo sul linguaggio e quest’ultimo scaturisce, senza mediazioni, da una teoria fatta di pochi ma chiari punti legati a una idea complessiva dell’architettura e non a codificate prassi espressive: “Il problema dell’arte deve essere istintivo, deve essere conscio dell’oggetto ma non del modo di realizzarlo”1. Nelle opere di Libera sono assenti la ricchezza plastica
Concerning the spiritual in architecture In the works of Adalberto Libera, practical and representative needs merge into the architectural form and become secondary to it. Formal issues in resonance with the archetypes of the sacred, such as the portal and the large space with a central plan, are declined in variations that accommodate, from time to time, memorial, party places, religious areas, celebratory mausoleums, funerary spaces. The generative spiritual dimension is reflected within the autonomous field of architecture, independent from the heteronomous representations of the contingent.* Nelle opere di Adalberto Libera le necessità pratiche e quelle rappresentative confluiscono nella forma dell’architettura e diventano secondarie rispetto ad essa. Temi formali in risonanza con gli archetipi del sacro, come il portale e la grande sala a pianta centrale, si declinano in variazioni che accolgono, di volta in volta, sacrari, sale per feste, spazi religiosi, mausolei celebrativi, spazi funerari. La dimensione spirituale generativa si riflette all’interno dello spazio autonomo dell’architettura, indipendente dalle rappresentazioni eteronome del contingente.*
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02. Palazzo dei Ricevimenti e dei Congressi – Concorso di primo grado, Adalberto Libera, 1937, ridisegno critico; Palace of Receptions and Congresses, First level competition, Adalberto Libera, 1938 - Critical redesign. Matteo Benedetti
di Moretti o la complessità sintattica di Terragni, la forma, regolata da geometrie e rapporti chiari, esprime una semplicità che non riduce però la complessità del programma, la condensa e la plasma in una organizzazione perfetta.
soluzioni, fino a decifrare l’ordine articolato delle sue planimetrie, organismi ambigui che manifestano gradi sempre maggiori di complessità in funzione del tempo di osservazione e di studio. Un percorso conoscitivo paradigmatico del concetto ars est celare artem. Si vedano al riguardo le piante e i prospetti dei progetti di primo e secondo grado al concorso per il Palazzo dei Ricevimenti e dei Congressi, in cui il ricorso a ritmiche sincopate e slittamenti degli incastri delle geometrie fanno da contrappunto a un insieme apparentemente unitario. La componente spirituale accennata – particolarmente diffusa nell’arte e nell’architettura del primo Novecento – è chiaramente espressa nel commento che il giovane Libera pubblica su Rassegna Italiana nell’ambito del Gruppo 7. Un testo che si discosta dai toni degli scritti degli altri componenti. Non ci sono ri-
nel processo compositivo si costruisce un vero e proprio cosmo, un ordine delle cose, che si pone come interpretazione, per quanto parziale e temporanea, del mondo Una lettura formale dei progetti di Libera, svela i diversi livelli che compongono la sua architettura, dall’icasticità dell’immagine principale, solitamente una prospettiva centrale o scorciata del fronte, si percorrono i diversi aspetti e
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03. Palazzo dei Ricevimenti e dei Congressi, Adalberto Libera, 1937-54; Palace of Receptions and Congresses, Adalberto Libera, 1937-54. Matteo Benedetti, 2010-2013
ferimenti diretti all’architettura contemporanea europea e a specifiche questioni progettuali, il discorso si sviluppa rimanendo sempre su considerazioni generali, sulla relazione tra arte e vita e sul modo di rispondere alla esigenze del tempo. Un discorso che esprime la fiducia nell’architettura come arte necessaria all’evoluzione della vita e del pensiero. Definisce chiaramente il Razionalismo come “movimento spirituale” e l’arte come “questione di Fede” (Libera, 1928). È uno scritto in cui sono evidenti, semplificati e ricondotti a un discorso artistico, i riferimenti all’idealismo, in particolare crociano. Nel percepire l’arte come relazione tra Mondo Esterno e Mondo Interno, assume un valore primario l’intuizione dell’artista che reagisce alla realtà contingente, un’intuizione in cui l’invenzione formale, autonoma e astratta, è certamente prioritaria rispetto alle relazioni che l’architettura può intrecciare per porsi in continuità con la storia e con l’ambiente. Un approccio che trova evidenti affinità con l’adeguatio rei et intellectus di San Tommaso che Mies Van der Rohe adotta come
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guida nella pratica architettonica (Mies van der Rohe, 2010). Libera, come Mies, appartiene al genere di architetti nei quali la necessità di una aderenza totale alla realtà, allo spirito del tempo, si sublima affinché rimangano intatte le connessioni con i valori permanenti dell’architettura. Si predilige, in una concezione ciclica della storia, le prime epoche rispetto alle tarde, quelle in cui c’è più stretta relazione tra uomo e natura, tra arte e vita, che in architettura si traduce in una esaltazione della ragione che rende più chiara la corrispondenza tra l’espressione e gli elementi, senza cadere in raffinatezze e manierismi. In questa idea ciclica della storia, che percorre come un fiume carsico la cultura europea dalla Grecia antica fino a Spengler, molti autori del Moderno hanno interpretato il loro periodo come luogo dell’origine, come l’inizio felice di un’epoca, in contrapposizione agli eclettismi ottocenteschi. Rifiutando la storia come apparato accademico, Massimo Bontempelli – intellettuale centrale per comprendere l’architettura italiana tra le due guerre – vede la tradizione come
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04. Palazzo dei Ricevimenti e dei Congressi, Concorso di secondo grado, Adalberto Libera, 1938 - Ridisegno critico; Palace of Receptions and Congresses, Second level competition, Adalberto Libera, 1938 - Critical redesign. Matteo Benedetti
“la storia di una serie di trasfigurazioni nuove delle cose” (Bontempelli, 1934) e individua negli anni Venti l’inizio di un tempo nuovo, la Terza Epoca, che supera quella romantica e quella delle avanguardie per collocarsi come genesi di un nuovo periodo classico. Un classico originario inteso non come stile ma come “categoria spirituale” che inventi nuovi miti e nuove aspirazioni. Attitudine che ha accompagnato, alla ricerca di una equidistanza tra lo storicismo e l’avanguardia radicale, figure artistiche importanti nella Roma di quegli anni. Per fare alcuni esempi si pensi ad Alfredo Casella e Goffredo Petrassi in campo musicale e Alberto Savinio e Giorgio De Chirico nella loro attività teorica e pittorica. In questa visione altamente idealizzante della disciplina, in continuo bilanciamento tra necessità contingenti e visioni formali, tecniche ed etiche che trascendono il contemporaneo, è utile richiamare i valori clericali che Julien Benda dichiara in crisi nel suo Il tradimento dei chierici del 1927. Secondo il filosofo francese gli intellettuali, visti come una
compagine di religiosi, chierici appunto che lavorano per scopi e valori universali, hanno ceduto alle passioni politiche per diventare “milizie spirituali al servizio del potere” (Benda, 2012). I chierici dovrebbero esprimere valori statici, disinteressati e razionali. Valori astratti e fuori dal tempo, autonomi rispetto alle circostanze, indifferenti al raggiungimento di scopi pratici e permeati dall’esercizio della ragione. Potenti antemurali alle mode e alle passioni che il tempo contemporaneo propone. Benda si riferisce agli intellettuali in generale, ma per quanto riguarda gli architetti, calati in una realtà strettamente connessa all’economia e al potere, il discorso si fa estremamente più complicato e ricco di sfumature. Il distacco si evolve nel rovesciamento che i grandi artisti compiono nell’utilizzare il potere del proprio tempo per i fini della propria arte. Come gli architetti del Rinascimento costruiscono templi incastonati nella temporanea funzione ecclesiastica, gli architetti più validi che operano durante il Fascismo – molti dei quali peraltro convintamente schierati con quella ideologia
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05. Palazzo dei Ricevimenti e dei Congressi, Adalberto Libera, 1937-54; Palace of Receptions and Congresses, Adalberto Libera, 1937-54. Matteo Benedetti, 2010-2013
06. Palazzo dei Ricevimenti e dei Congressi, Adalberto Libera, 1937-54; Palace of Receptions and Congresses, Adalberto Libera, 1937-54. Matteo Benedetti, 2010-2013
– realizzano opere secondo le leggi autonome dell’architettura scollegate dalle contingenti funzioni civili e rappresentative. Giorgio Ciucci denunciava le semplificazioni di gran parte della critica architettonica nell’immediato Dopoguerra: “Così, quando queste scelte sono antiretoriche e ‘moderne’, e cioè moralmente giuste, esse divengono implicitamente antifasciste e democratiche. Per converso, monumentalismo e classicismo pompier sono connotati propri dell’architettura fascista” (Ciucci, 1989, p. XIX). La semplificazione del modello interpretativo descritto, ancora in parte condiviso, necessiterebbe di approfondimenti e riscritture guidate dalla necessaria distanza critica che il tempo fornisce. Un esempio che formalizza i concetti brevemente accennati è il tema della grande sala a pianta centrale che, insieme al portale e alla sala scientifica per auditorium, è uno dei temi tipologici ricorrenti nella produzione architettonica di Adalberto Libera. Trasfigurazione continua, tra anni Venti e Dopoguerra, del Pantheon romano, la grande sala rielabora criticamente e modifica, fino al limite dell’irriconoscibile, alcune invarianti della storia. Diventa di volta in volta sacrario, sala per feste, mausoleo, luogo celebrativo o assembleare. Si riveste di marmi, mosaici, pannelli metallici, espone il nudo calcestruzzo, è architettura stabile e temporanea, assume forme e soluzioni di dettaglio diverse. La sala è il luogo che raccoglie e rappresenta, ciò che interessa a Libera non è un’adesione intransigente a un tipo, compositivo o strutturale, ma l’invenzione formale e l’effetto che lo spazio e la luce producono su chi abita questo vuoto. L’attenzione è quindi rivolta ai fenomeni immateriali, ma presenti, che il pieno racchiude. Il limite e il centro sono le due aree nodali che contengono e modulano lo spazio. Il limite, sempre netto e opaco, dosa gli accessi e la luce, si riveste di elementi ripetitivi che suggeriscono una atmosfera rituale, il centro è spesso presidiato da una figura simbolica, la croce, la statua equestre, la fiamma. Nel grande cubo adibito a salone polifunzionale nel Palazzo dei Ricevimenti e dei Congressi l’allusione al cerchio è assolta dall’“anello quadrangolare” (Libera, 1938) definito dalla ritmi-
ca del mosaico mai realizzato. Il riferimento spaziale, come già detto, è lo spazio unitario e assoluto del Pantheon, dove l’architettura tende a un significato cosmico, ma un ulteriore riferimento potrebbe essere lo spazio tardo romano “irreale, illusivo, variabile nel tempo” (Bettini, 1978). La tripla scansione in verticale delle pareti, semivuote in basso perché punteggiate dalla trama di pilastri e scale, piene nella parte centrale, inondate dalla luce delle vetrate nell’area superiore, rende l’atmosfera ricca di contrasti luminosi che variano dalle imperscrutabili ombre alla estrema luminosità delle lunette che sembrano sostenere senza sforzo la volta, trattenuta come un drappo ai suoi quattro punti di ancoraggio. La forma circolare in architettura esprime la necessità di proteggere o di racchiudere e imprigionare, evocando i “limiti sacri che soltanto alcuni riti permettono di varcare” (Hautecoeur, 2006, p. 31). Alla poetica moderna, e attraverso essa, Libera aggiunge una dimensione che già Hejduck descrisse mitica, rituale, inquietante (Hejduck, 1980). In una architettura essenzialmente moderna, che vuole essere direttamente collegata con lo spirito del tempo, si innesta così una atmosfera dell’origine, un presente assoluto in cui il transitorio si dissolve e rimane la forma pura generata dalla solitudine dell’architetto alla ricerca dell’intuizione.*
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NOTE 1 – La citazione è estratta dagli appunti per le lezioni universitarie degli anni Cinquanta che Libera tiene all’Università di Firenze. Archivio Libera Centre Pompidou. BIBLIOGRAFIA - Bettini S., “Lo spazio architettonico da Roma a Bisanzio”, Dedalo, Bari, 1978. - Benda J., “Il tradimento dei chierici”, Einaudi, 2012, ed orig. “La Trahison des clercs”, 1927. - Bontempelli M., “Commenti ai quattro preamboli - Tradizione”, 1934. - Ciucci G., “Gli architetti e il fascimo. Architettura e città 1922-1944”, Einaudi, Torino,1989. - Hautecoeur L., “Mistica e architettura, il simbolismo del cerchio e della cupola”, Bollati Boringhieri, Torino, 2006, ed. orig. “Mystique et architecture : symbolisme du cercle et de la coupole”, 1954. - Hejduck J., “Casa come me”, in “Domus” n.605, aprile 1980. - Libera A., “Arte e Razionalismo”, in “Rassegna Italiana”, marzo 1928. - Libera A., “Relazione al progetto di secondo grado del Concorso per il Palazzo dei Ricevimenti e dei Congressi all’E42”, 1938. - Libera A., “La mia esperienza di architetto”, in “La Casa”, n.6, 1960. - Pizzigoni V. (a cura di), “Ludwig Mies van der Rohe, Gli scritti e le parole”, Einaudi, Torino, 2010. Ed orig. “Wohin gehen wir nun?”, in “Bauen und Wohen”, XV, nov.1969, n.11, p.391.
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Chiara Semenzin Dottoranda in Architettura, città e design presso l’Università Iuav di Venezia. csemenzin@iuav.it
Mete di pellegrinaggio laico
01. Il balcone di Giulietta a Verona; Juliet’s balcony in Verona. Andreas Lischka
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nuove forme del sacro: il Cortile di Giulietta a Verona Secular pilgrimage sites As result of the deep transformation of the society in the last century, new forms of pilgrimage are born near to the religious ones and have been called laic pilgrimage sites. These sites are not sacred placed but have assumed a sacred character thanks to the construction of an immaterial value. An example is the Juliet’s Courtyard in Verona. The famous balcony was built in order to give to the myth an image and a physical translation, and represents the destination for a growing number of pilgrims who look at Shakespeare’s heroine as the emblem of love.* In seguito alla profonda trasformazione della società avvenuta nell’ultimo secolo, nuove forme di pellegrinaggio si sono affiancate a quelle tradizionali e sono solitamente definite come mete di pellegrinaggio laico. Questi sono spesso luoghi non sacri che hanno assunto un carattere di sacralità grazie alla costruzione di un valore immateriale. Un esempio è il Cortile di Giulietta a Verona. Il celebre il balcone, nato per dare un’immagine e un consistenza fisica al mito, è meta di un crescente numero di pellegrini che vede nell’eroina di Shakespeare l’emblema dell’amore.*
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a trasformazione della società avvenuta nella seconda metà del XX secolo ha comportato profondi cambiamenti in tutti gli aspetti della vita sociale. Particolarmente rilevante è l’evoluzione del concetto di sacro nella società occidentale, accelerata dal rapido processo di secolarizzazione. Insieme al concetto di sacralità anche il rapporto con ciò che è considerato degno di culto e venerazione ha subito un drastico e repentino cambiamento, e con ciò anche il concetto di pellegrinaggio. Dalle prime testimonianze preistoriche al santuario di Delfi, maggiore esempio di meta devozionale per i popoli dell’antichità classica, dalla diffusione del pellegrinaggio cristiano in epoca medievale verso Roma, Santiago de Compostela e Gerusalemme, alle grandi mete induiste come il Gange o islamiche come La Mecca, il pellegrinaggio verso un luogo di culto traccia la storia dell’uomo. La storia ci restituisce per ogni epoca e ogni latitudine una particolare popolazione in movimento, volta ad adorare il proprio dio. Nel mondo moderno si sono poi affermate nuove mete di pellegrinaggio descrivibili come “pellegrinaggi laici” segnando uno stacco dai più tradizionali “pellegrinaggi religiosi”. Per questo motivo possiamo considerare valida la definizione di pellegrinaggio data da Peter Jan Margry secondo il quale si può utilizzare il termine “per significare un viaggio basato su un’ispirazione religiosa o spirituale, intrapreso individualmente o in gruppo, verso un luogo che è visto come più sacro o salutare dell’ambiente quotidiano, per cercare un incontro trascendentale con uno specifico oggetto di culto allo scopo di ottenere guarigioni o benefici spirituali, emotivi o fisici”(Margry, 2008). I pellegrinaggi laici interessano luoghi non sacri ma che hanno assunto, per diversi motivi, un carattere di sacralità grazie alla costruzione di un valore immateriale su di essi. Sebbene il concetto sia ancora poco studiato, esistono diversi casi riconosciuti, come i pellegrinaggi alle tombe di celebrità della società di massa come Elvis Presley e Jim Morrison o legati a fatti o figure politiche come Tito.
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02. La Casa di Giulietta a fine ‘800; Juliet’s House at the end of the 1800s. Historia set. 1976 n° 225
La permanenza del pellegrinaggio nel tempo e nello spazio configura l’organizzazione spaziale che questi luoghi, santuari o altre mete di pellegrinaggio, hanno assunto. Campo d’indagine del presente contributo sta in massima parte nello studio e nel confronto dell’organizzazione spaziale delle mete di pellegrinaggio. Tra i numerosi casi più o meno studiati, in Italia il Cortile di Giulietta a Verona1 può essere considerato come la più importante meta di pellegrinaggio laico. Il Cortile di Giulietta a Verona Giulietta e Verona sono due nomi quasi inscindibili nell’immaginario collettivo: Giulietta, icona e mito dell’amore, ha con la città di Verona un legame che va oltre l’opera teatrale. La visita ai luoghi del mito di Giulietta, iniziata nell’Ottocento con la rivalutazione romantica di Shakespeare, prende forma e spazio nella città di Verona a partire dal primo Novecento. Il Cortile di Giulietta nasce sul luogo dell’antica “casa con stallo detta del Cappello”, un complesso nel tessuto urbano composto da una casa a torre di origine trecentesca con una stalla affacciata sul piccolo cortile interno accessibile dal portico. Tra il 1937 ed il 1940 il direttore dei Musei Civici veronesi Antonio Avena, spinto dal crescente interesse per il mito di Giulietta, diede allo stallo un aspetto medievale “in stile” arricchendo il complesso con elementi recuperati dal crollo di altri palazzi. Un esempio è il celebre balcone, formato da una lastra in pietra del Trecento, aggiunto alla facciata nel corso dei lavori. Durante la costruzione del Cortile e della Casa di Giulietta “egli modificò l’esistente quel tanto che bastava per dare consistenza reale alla fantasia poetica” (Zumiani, 2003) coronata infine nel 1972 dal posizionamento della statua bronzea opera di Nereo Costantini divenuta assieme al balcone l’emblema del luogo.
Dal 1940 ad oggi Giulietta ha attratto un numero crescente di visitatori, fino ad accogliere nel suo Cortile oltre 1.275.000 visitatori annui2, più del 60% delle presenze turistiche di Verona (ISTAT). Il luogo non è vero ma solo verosimile, materializzato per “assorbire e consumare il mito” (Zumiani, 2003), frutto di una “tradizione inventata” (Hobsbawn, 1994). Nonostante questa mancanza di autenticità, per i suoi pellegrini - così vogliamo chiamarli - Giulietta “è simbolo di lealtà, di coraggio, è l’eroina d’amore per eccellenza, per questo investita di potere ‘sacrale-collettivo’ da tutti gli innamorati” (Zumiani, 2003). Giulietta risponde alla definizione di pellegrinaggio nel quale l’essenza è “nel rivolgersi al sacro, entrarci, farne esperienza, avvicinarsi, toccarlo, farlo proprio, e se possibile tenerlo stretto per le proprie vite quotidiane” (Margry, 2008). Icona e mito dell’amore, Giulietta costituisce l’elemento di sacralità al quale i pellegrini si rivolgono con la speranza della salvezza, rappresentata dall’amore quale aspirazione universale dell’uomo. Il Cortile di Giulietta è
vi sono luoghi non sacri ma che hanno assunto, per diversi motivi, un carattere di sacralità: il Cortile di Giulietta a Verona è uno di questi quel luogo dove “l’ideale è sentito come reale, dove l’individuo sociale contaminato può essere purificato e rinnovato” (Turner e Turner, 1997). Oltre a guardare al mito di Giulietta come “ispirazione spirituale” (Margry, 2008), lo si può osservare anche per gli elementi rituali dal “forte aspetto emozionale” (Turner e Turner, 1997) che vi ruotano attorno. Vi è la tradizione di affacciarsi dal balcone della Casa di Giulietta, principale destinazione della visita, imitando la celebre scena teatrale e
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SACRO
03. Messaggi per Giulietta; Messages for Juliet. Graphic node
quella di toccare il seno destro della statua di Giulietta. Tuttavia, a sancire il carattere di venerazione sono i messaggi che i pellegrini lasciano a Giulietta. Questi sono sia lettere, inviate a Giulietta perché interceda per pene d’amore3, oppure veri e propri ex-voto costituiti da scritte, lucchetti, fiori lasciati a memoria del proprio passaggio come nei pellegrinaggi mariani, definiti talvolta dei “gadget-reliquia” (Zumiani, 2003). Questo segno, che più di tutti la accomuna alle mete di pellegrinaggio, è testimonianza dell’attribuzione a Giulietta di un carattere di sacralità: chi sente il desiderio di lasciare un messaggio di amore - sia esso una speranza o una testimonianza di coppia - demarca il sentire in questo luogo la presenza stessa dell’oggetto della sua venerazione. Per quanto possa forse apparire esagerato il concetto, è indubbio che il persistere di questo gesto negli anni vada oltre il gesto scaramantico o l’imitazione e denoti invece una caratteristica in comune tra tutti i luoghi di pellegrinaggio: “si crede che vi siano accaduti dei miracoli,
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che vi accadano ancora e che possano accadervi di nuovo” (Turner e Turner, 1997). Il paragone con altri esempi conferma il posizionamento di Giulietta tra le mete di pellegrinaggio. Il numero di pellegrini e il suo stretto legame con la città di Verona la mettono a confronto con mete come Lourdes, Medjugorie e Graceland mentre, nel caso delle principali città italiane, le attrazioni turistiche raccolgono circa il 30% dei visitatori complessivi: a Verona tale rapporto è raddoppiato. Pur nella loro diversità, i luoghi di pellegrinaggio presentano caratteristiche simili anche nel loro sviluppo spaziale come si può osservare dal confronto tra diversi santuari o mete spirituali, prime tra tutte Lourdes e Graceland a Memphis. Questi due esempi, pur profondamente diversi per storia, dimensione, sviluppo e importanza, mettono chiaramente in luce l’esistenza di un processo di infrastrutturazione dei luoghi di pellegrinaggio. Elemento d’innesco di un pellegrinaggio è il fulcro devo-
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04. Statua di Giulietta (Nereo Costantini, bronzo); Statue of Juliet (Nereo Costantini, bronze). Hans Hansen
zionale, la meta dei pellegrini, consistente nel loro oggetto di venerazione. È facilmente identificabile come l’elemento minimo capace di giustificare idealmente l’intero viaggio: a Lourdes è costituito dalla Grotta delle apparizioni mentre a Graceland è la tomba di Elvis Presley. Come immediata conseguenza sorgono poi i luoghi per l’espletamento del culto, strutture atte a ospitare i rituali connessi al culto. Questi sono il primo passo oltre il fulcro d’origine al quale sono quasi equiparabili per carica simbolica. Ne sono esempio la casa e il parco della tenuta di Elvis, all’interno della quale si trova la tomba stessa. A Lourdes accanto alla Grotta ruotano la fontana di Bernadette, le candele accese dai fedeli oltre il fiume e l’imponente basilica, simile nelle fattezze ad un castello dei sogni (Corzani, 1996). Una seconda fase della strutturazione della meta di pellegrinaggio è costituita dal supporto al culto: luoghi di accoglienza fisica e spirituale che offrono una risposta alla ricerca personale del pellegrino. Emblema di Lourdes sono in
questo caso le piscine per le cure dei malati, come anche i confessionali, le sale per l’adorazione e le vie crucis mentre a Memphis un pullulare di musei dedicati ad Elvis, alla sua vita e alla sua musica rafforzano nei visitatori la sensazione di entrare nel vissuto del loro idolo. A completare questi primi elementi indispensabili vi è un recinto sacro, ereditato fin dai santuari ellenici, che nei luoghi di pellegrinaggio si declina in fiumi o strade entro i quali si svolge l’esperienza spirituale. Il luogo del culto e gli spazi che lo supportano divengono poi un centro attorno al quale si sviluppano servizi e strutture di pubblica utilità volte all’accoglienza dei pellegrini sia all’interno del recinto sacro sia come indotti esterni diffusi nel tessuto urbano circostante. Anche a Verona si possono riscontrare i medesimi elementi di strutturazione delle mete di pellegrinaggio precedentemente analizzate. Sono in questo caso in una scala ridotta e in forma non ancora pienamente sviluppata ma sufficienti comunque per avvalorare ulteriormen-
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dal semplice fulcro devozionale si passa a una progressiva strutturazione dello spazio sacro
05. Il portico di accesso; The access porch. Jana Yara
te la classificazione del Cortile di Giulietta come meta di pellegrinaggio laico. Il fulcro del culto ruota attorno al balcone affacciato nel Cortile, intorno a esso si sviluppano come episodi rituali la statua di Giulietta e i muri antistanti rivestiti di messaggi ed ex-voto, oggetto di interesse da parte dei pellegrini per l’espletamento della loro esperienza nel cortile. La Casa di Giulietta costituisce il supporto al culto al pari dei numerosi musei dedicati a Elvis a Graceland. Il recinto, ora distintamente definito dalla cancellata di accesso al cortile, potrebbe in un futuro espandersi per comprendere una più strutturata espansione della meta di pellegrinaggio, con servizi al visitatore e spazi di accoglienza ora offerti dal tessuto storico di Verona, ad oggi spettatrice inerme di quanto accade nei 45 m2 di via Cappello. Una successiva strutturazione che preveda un aumento dei servizi per i pellegrini è parzialmente offerta a Verona dal ricco tessuto urbano e turistico circostante. Il centro storico potrebbe diventare in futuro un ampio margine di opportunità per la messa a sistema dell’esperienza emozionale offerta dall’eroina shakespeariana. In conclusione, Giulietta è una meta di pellegrinaggio laico, sia per il suo significato simbolico che per la sua aderenza alle caratteristiche fisiche di altre mete. La presenza di un luogo considerato sacro, il compimento di gesti individuali o collettivi ricorrenti e la spinta alla ricerca di un’esperienza altra rispetto alla quotidianità e vicina all’ideale, fanno del Cortile di Giulietta un santuario pronto a offrire nuove opportunità alla città di Verona. Il centro storico, oggi congestionato intorno e mai oltre la linea immaginaria di via Cappello, può rinascere grazie all’introduzione di nuove attività e alla costruzione di una più chiara identità. A partire dall’evoluzione del concetto di sacro e di sacralità di un luogo è possibile quindi leggere il sorgere delle mete di pellegrinaggio laico, a loro volta elementi di innesco e rilancio delle realtà urbane nelle quali insistono.*
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NOTE 1 – Lo studio e i risultati qui riportati di Giulietta come meta di pellegrinaggio laico sono frutto del workshop-tirocinio “Giulietta e Verona: progettare il patrimonio intangibile” promosso dall’Università Iuav di Venezia in collaborazione con l’arch. Marco Ardielli e sfociata nel 2017 nel progetto “Isola di Giulietta, da attrazione turistica a luogo di pellegrinaggio” condotta in collaborazione con lo studio Ardielli Associati per conto della Società Teatro Nuovo di Verona. 2 – La stima, condotta nel 2016 dal gruppo di lavoro di “Giulietta e Verona: progettare il patrimonio intangibile”, è stata ottenuta tramite il conteggio manuale dalla webcam del comune di Verona posta all’interno del Cortile di Giulietta. Tenendo conto del tempo medio di visita e della frequenza di aggiornamento della webcam si è ricavato il dato giornaliero per tre giorni differenti e significativi (un giorno ad alto affollamento, uno a basso ed uno medio) rapportato poi ai giorni di apertura del Cortile. 3 – L’associazione “Club di Giulietta” raccoglie e risponde alla lettere indirizzate a Giulietta. L’iniziativa è nata nel 1930 dal custode della tomba di Giulietta, Ettore Solimani, che per primo iniziò a raccogliere i messaggi che i visitatori lasciavano in cerca di consigli. BIBLIOGRAFIA - Corzani G., “Lourdes: costruire i luoghi del miracolo”, in “Paesaggio urbano: rivista bimestrale di disegno e arredo della città”, 1996, n.1-3, pp.100-105. - Hobsbawn E. J., “Come si inventa una tradizione”, in Hobsbawn E. J., Ranger T. (a cura di), “L’invenzione della tradizione”, Einaudi, Torino, 1994. - Lavarini R., “Il pellegrinaggio cristiano. Dalle sue origini al turismo religioso del XX secolo”, Marietti, Genova, 1997. - Margry J. P. (a cura di), “Shrines and Pilgrimage in the Modern World: New Itineraries into the Sacred”, Amsterdam University Press, 2008 - Turner V., Turner E., “Il pellegrinaggio”, Argo, Lecce, 1997. - Zumiani D., “Giulietta e Verona: spazi e immagini del mito”, in Marini P. (a cura di), “Medioevo ideale e medioevo reale nella cultura urbana. Antonio Avena e la Verona del primo Novecento”, Comune di Verona. Assessorato alla cultura, Verona, 2003.
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Gabriele Trovato Assistant Professor, UniversitĂ di Waseda, Tokyo, Giappone. gabriele@takanishi.mech.waseda.ac.jp
La sacralitĂ nella macchina tra passato e presente
01. Daruma, bambola votiva giapponese. Daruma, Japanese votive doll. Shoko Maraguchi
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cosa unisce il sacro e le macchine? Una nuova categoria di robot ispirati alla religione sono all’orizzonte Sacredness in the machine between past and present Robotics is about to permeate our society: because of this, robots will have to be created in way that they do not cause revulsion in the users. A key to acceptance lies in their adaptation to users’ culture and religion. Basing their design on the concept of skeuomorphism and inspiring it by sacred art, it is possible to create robots with a familiar form, such as SanTO, the first Catholic robot. The introduction of sacredness within machine brings new ethical issues, and at the same time brings back the bond between robots and the sacred, present since antiquity.* La robotica è in procinto di permeare la nostra società: per questo, i robot dovranno essere ideati in modo da non provocare rigetto nelle persone. Una chiave dell’accettazione sta nell’adattarli alla cultura e alla religione degli utenti. Basando il design sul concetto di scheumorfismo e ispirandosi all’arte sacra, è possibile creare dei robot dalla forma familiare, come SanTO, il primo robot cattolico. L’introduzione della sacralità all’interno di una macchina porta nuovi quesiti etici, e al tempo stesso riporta in voga il legame tra i robot e il sacro, presente fin dall’antichità.*
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os’hanno in comune il sacro e la macchina? Due concetti che appartengono a campi apparentemente opposti, come religione e tecnologia, in realtà sono legati da una lunga storia. La religione è passata dalla tradizione orale, a quella scritta, alla stampa, ai mass media. Ognuno di questi passaggi ha avuto grandi ripercussioni: basti pensare che l’invenzione della stampa ha liberalizzato l’accesso alla Bibbia, e facilitato indirettamente la Riforma Protestante (Eisenstein, 2012), con tutte le implicazioni storiche che ne sono seguite. Al tempo stesso, la robotica in realtà ha origini antiche e la sua storia si interseca con quella delle religioni. Erone di Alessandria, nell’età ellenistica, disegnò diversi automi, macchine che eseguivano dei movimenti, e che spesso venivano posti nei templi (Tybjerg, 2003). Ma in tempi successivi, il maggior sponsor di queste opere è stata proprio la Chiesa Cattolica, alla ricerca di mezzi per impressionare i fedeli, come il “monaco meccanico” (img. 02), opera votiva commissionata da Filippo II di Spagna nel 1560. Anche in altre parti del mondo, passando dalle marionette (in India utilizzate durante le festività indù) a veri a propri automi (in Giappone le bambole Karakuri, poste anche nei templi), l’intreccio tra religione e robotica è ben visibile. In definitiva, l’umanità ha sognato l’esistenza dei robot fin dai tempi antichi, ed essi sono nati come prodotto di tecnologia e fede (Russell, 2017). Questa relazione si è interrotta negli ultimi due secoli, in quanto la scienza si è sempre più svincolata dalla religione, ma con l’avvento di nuove tecnologie, come la robotica, questo legame può essere ristabilito. I robot prossimamente entreranno in molti ambiti della nostra società, per ricoprire ruoli di assistenza, di collaborazione, o di esecuzione di lavori ripetitivi, e inevitabilmente dovranno entrare in contatto con le persone. Di fatto però, i prototipi attualmente esistenti non sembrano essere ben accetti dai futuri utenti. Ad esempio, i robot nelle immagini 04 e 05 hanno, a parere di molti, un
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02. Il monaco meccanico commissionato da Filippo II di Spagna nel 1560. The mechanical monk commissioned by Philip II of Spain in 1560. Gabriele Trovato
03. Xian’er, il primo monaco robot al mondo. Xian’er, the world’s first robot monk.
04. CB2, robot da bambino con corpo biomimetico, del team di ricerca del professor Minoru Asada, Università di Osaka, 2009. CB2, child-robot with Biomimetic Body, Minoru Asada research team, Osaka University. Osaka University 05. Il Robot Gagarin, esempio di parti simil-organiche insieme a parti meccaniche. The Gagarin Robot, an example of organic-like parts together with mechanical parts. Innopolis University, Russia
aspetto inquietante. Concorrono a questo fatto dettagli nell’aspetto esteriore che non quadrano con le aspettative del nostro cervello: dimensioni distorte, parti meccaniche miste a parti che sembrano organiche, dettagli leggermente discordanti e al tempo stesso l’ambiguità della somiglianza. Esiste un’ipotesi riguardo alle ragioni di questa inquietudine: quella della “Uncanny Valley” (in italiano “Valle Perturbante”). Secondo questa ipotesi, al crescere della somiglianza fisica dei robot agli esseri umani, corrisponde una maggiore familiarità ed empatia verso di essi fino a un certo limite, oltre il quale la somiglianza suscita un senso di repulsione e inquietudine (Mori et al., 2012). Questo è un problema delicato, comune all’aspetto estetico di molti robot umanoidi. Tranne alcune eccezioni, il processo di progettazione dei robot è tipicamente solo ingegneristico, focalizzato prevalentemente sulle funzionalità, mentre l’aspetto esteriore viene realizzato solo come conseguenza, o come abbellimento finale. Forse è proprio questa una limitazione che impedisce ai robot di arrivare nelle nostre case: sarebbe necessario invece concepire i robot anche dal punto di vista del design, considerando l’utenza specifica del robot, e sviluppare le funzionalità in maniera integrata. Il campo del design dunque può rivelarsi fondamentale per rendere i robot socialmente accettabili, come in passato ha spinto l’utilizzo di altre tecnologie. Prendiamo ad esempio il caso di Apple, un’azienda che ha saputo trarre vantaggio dall’unione tra design e tecnologia: si sono avvalsi di un concetto di design chiamato scheumorfismo (dal greco, σκεῦος [skeûos] contenitore e μορφή [morphḗ] forma). Significa disegnare un nuovo oggetto in modo che ricordi un oggetto già esistente, con cui l’utente è già familiare. Ad esempio, nelle prime versioni dell’iOS, la libreria online veniva rappresentata con l’aspetto di uno scaffale di legno, per ricordare una libreria vera e propria. Soltanto successivamente, quando lo
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PER USO RELIGIOSO
Monaco meccanico Xian’er
Pepper PER ALTRI USI
SanTO
DarumaTO-2 NON TEOMORFICI
TEOMORFICI
06. Diagramma raffigurante diversi tipi di robot relativi alla religione. Diagram representing different type of robots related to religion. Gabriele Trovato
scheumorfismo è stato ritenuto non più necessario, sono passati ad un’interfaccia flat. Lo scheumorfismo può dunque essere una chiave per l’accettazione di queste nuove macchine, progettando robot come scheumorfi di qualcosa di familiare. Progettare robot usando questo concetto, cosa implica? Essi sono possibilmente l’oggetto tecnologico più complesso che esista, in quanto lo specchio dell’uomo. Per questo, non possiamo prescindere dal considerare la nostra cultura nel design dei robot. Come le automobili e tanti altri prodotti sono personalizzati per i diversi mercati nel mondo, è ragionevole pensare che i robot abbiano ancora di più necessità d’esserlo. In effetti, nella robotica sociale sono molti gli studi che supportano l’idea che gli utenti si sentano maggiormente a proprio agio con robot che si comportano in accordo alla propria cultura (Trovato et al., 2013). Al tempo stesso, la cultura non può prescindere dalla religione che l’ha improntata, e che ha persino improntato l’atteggiamento di fondo delle persone verso i robot, secondo molti studiosi più positivo in Oriente per l’influenza del Confucianesimo, e più negativo in Occidente per l’influenza delle religioni monoteistiche (Kaplan, 2004).
Da considerazioni del campo del design, dunque, nasce l’idea di coinvolgere la religione nella creazione dei robot, utilizzando l’apparenza esteriore ispirata al mondo della religione per mascherare la componente robotica e rendere il robot accettabile. Chiameremo questo tipo di robot teomorfici (dal greco, “a forma divina”). Automatizzare oggetti considerati sacri o, dalla prospettiva opposta, proiettare una essenza divina in un robot, è una sfida possibile? Ipotizzando che lo sia, avremmo due vantaggi. Il primo riguarda la familiarità: l’utente potrebbe percepire il robot come un oggetto familiare, perché esso rappresenta qualcosa di appartenente al suo bagaglio culturale
la robotica in realtà ha origini antiche e la sua storia si interseca con quella delle religioni
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e religioso. Il secondo è un vantaggio non per l’utente, ma per il robot: esso guadagnerebbe uno status di “rispetto” maggiore in confronto ad altri comuni robot. Questo è dato dal concetto di sacralità (Gulliford, 2000): applicandolo agli oggetti, il paragone è molto semplice. Molte persone, e i credenti soprattutto, probabilmente percepisco-
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08. Scheumorfismo nel design del robot DarumaTO - Daruma Theomorphic Operator. Skeuomorphism in the design of the robot DarumaTO - Daruma Theomorphic Operator. Gabriele Trovato
07. Bambola Karakuri. Karakuri doll. Rodrigo Encinas
no una certa sacralità e portano un maggiore rispetto, ad esempo, verso una copia della Bibbia piuttosto che verso un comune dizionario italiano-francese. Applicandolo agli spazi, si ottiene lo stesso risultato: vi sono stati casi recenti in cui immagini sacre sono state poste in spazi pubblici in alcune città d’Italia e si sono rivelate efficaci nel combattere il problema dei rifiuti. Un caso estremo allora è il seguente: cosa succede se un verso del Corano viene riportato sul corpo di un robot? Nell’Islam, un foglio con scritto un verso del Corano contiene parole sacre, e per questo non può essere gettato o strappato (deve essere bruciato). L’ipotesi che se ne deduce è che un credente di fede musulmana potrà percepire il robot con un maggiore rispetto e non potrà disfarsene se non in maniera rispettosa, in accordo alla dottrina islamica. Esistono robot di questo genere? È bene fare una distinzione: una cosa è l’utilizzo di un robot in un contesto religioso, un’altra è un robot teomorfico (img. 06). Esistono casi di robot che eseguono un servizio all’interno di uno spazio religioso (come il robot Pepper, che è stato impiegato anche in funerali in Giappone), ma che non hanno alcunché di sacro nella forma o nell’identità. I due primi prototipi di robot teomorfici, invece, sono DarumaTO (Trovato et al., 2019) e SanTO (Trovato et al., 2018), illustrati nelle immagini 08 e 09. Il primo (Daruma Theomorphic Operator) è una rivisitazione in chiave tecnologica prodotta dall’Università di Waseda di un talismano molto comune nello Shintoismo e nel Buddhismo chiamato Daruma, di cui si crede che aiuti a realizzare i desideri. Il robot ha una funzione puramente sociale di supporto emotivo e cognitivo agli anziani. Nei primi test effettuati negli ospizi in Giappone, questo “Daruma parlante” non ha provocato repulsione nelle persone anziane che vi hanno interagito – e gli anziani spesso sperimentano difficoltà nell’uso delle nuove tecnologie (Smith, 2014) – in quanto riconosciuto come un oggetto già a loro familiare, presente nel loro passato.
09. Scheumorfismo nel design del robot SanTO - Sanctified Theomorphic Operator. Il rettangolo evidenziato in giallo indica la sezione aurea. Skeuomorphism in the design of the robot SanTO - Sanctified Theomorphic Operator. The rectangle highlighted in yellow indicates the golden ratio. Gabriele Trovato
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la chiave dell’utilizzo del design scheumorfico è l’ispirazione all’arte sacra
10. Il robot SanTO in una sessione di preghiera ospizio a Siegen, Germania. The robot SanTO in a praying session in a nursery home in Siegen, Germany. Gabriele Trovato
SanTO (Sanctified Theomorphic Operator) è un robot sociale creato nella Pontificia Università Cattolica del Perù, dalla forma di un santo cattolico dentro una nicchia, con funzione per gli anziani di compagnia nella preghiera. Questo “santo interattivo” è a tutti gli effetti un’opera di arte sacra che però contiene elementi tecnologici e nuove funzionalità. La chiave del design scheumorfico è proprio l’utilizzo dell’arte sacra: l’aspetto di SanTO è ispirato all’architettura neoclassica (img. 09) e fa uso anche della sezione aurea, elemento figurativo spesso presente nelle opere d’arte rinascimentali di una certa importanza religiosa. Ha due gradi di libertà (può muovere testa e busto), e ha un’interfaccia priva di elementi tecnologici come bottoni o schermi. L’aspetto esteriore dei robot teomorfici è specifico per ogni religione, che ha il proprio grado di antropomorfismo delle immagini sacre, spaziando dall’Induismo (in cui le icone sono esse stesse una forma di manifestazione della divinità) fino all’Islam (in cui l’iconoclastia vieta la rappresentazioni di figure umane o animali all’interno di spazi sacri). Realizzazioni di questo genere aprono nuovi problemi etici, specialmente riguardo ad usi inappropriati che si potrebbero fare di questi robot. Anche se non è possibile trovare una soluzione immediata, è da ricordare che sia le linee guida sull’etica, come quelle pubblicate dalla Commissione Europea, sia la guida delle autorità religiose, possono contribuire a garantire uno sviluppo etico di queste tecnologie, che in futuro non lontano potrebbero cambiare ancora una volta la nostra società.*
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Eugenio Armando De Nicola Architetto libero professionista. denicola.eugenio@gmail.com
Rosaria Revellini Dottoranda di ricerca presso l’Università Iuav di Venezia. rrevellini@iuav.it
Ora et labora
01. Vista da nord-est del castello di Nocera con la torre normanna; View from north-east of the castle of Nocera with its norman tower. Eugenio A. De Nicola, 2019
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strategie per la valorizzazione del sistema paesaggisticomonumentale della Collina del Parco nella città di Nocera Inferiore Ora et labora It is possible to give a vision for a sustainable enhancement of the Collina del Parco in Nocera Inferiore (SA) starting from a contemporary reading of the Benedictine rule “ora et labora” intended as a strategy based on culture and production. This study aims to analyse architectural and natural elements that have created a complex landscape system during the centuries and to trigger a restoration project in order to establish again the connection between the hill and the city.* È possibile sviluppare un’ipotesi di valorizzazione del sistema paesaggistico-monumentale della Collina del Parco nella città di Nocera Inferiore (SA) partendo da una lettura contemporanea della regula benedettina “ora et labora”, intesa come strategia più ampia basata sul binomio cultura-produzione. Lo studio muove dall’analisi delle principali componenti antropiche e naturali che nel corso dei secoli hanno trasformato la Collina in una macchina paesaggistica complessa, per poi presentare una strategia di recupero sostenibile dell’intero sistema al fine di rinsaldare l’antico legame tra la Collina e la città.*
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riginariamente il termine latino regula, rispetto all’accezione odierna, indicava uno strumento usato dai costruttori, simile alla squadra o alla riga. Questo è, dunque, il significato che si dovrebbe considerare quando si indaga l’essenza della regula benedettina ora et labora: uno strumento a uso delle comunità monastiche medievali per condurre uno stile di vita virtuoso, in equilibrio tra la preghiera e il lavoro. Tale regula, combinata ai cicli della natura, ha consentito ai monasteri di svilupparsi e sopravvivere come realtà quasi del tutto autosufficienti, dove produzione agricola e culturale erano integrate. Questa capacità di autoprodurre, recuperare e gestire le risorse idriche, implementare processi ciclici verso una quasi totale autosufficienza, si potrebbe oggi accostare ai principi propri della sostenibilità. La regola benedettina rappresenterebbe, quindi, un modus vivendi in cui sfera spirituale e terrena coesistono, in cui cioè l’anima, l’invisibile, il sacro si pone in equilibrio con il corpo che, attraverso il lavoro, ne garantisce la sopravvivenza. Se questa interpretazione della regula viene trasferita ai temi della valorizzazione del patrimonio culturale e del paesaggio, una visione sostenibile dovrebbe guardare al medio-lungo periodo e, al fine di tutelare lo spirito sacro dei luoghi, fornire degli strumenti concreti e duraturi per la sopravvivenza degli stessi. La regula, al di là dello stretto significato religioso, potrebbe essere interpretata, in chiave contemporanea, come una strategia fondata sul binomio cultura (ora) - produzione (labora), che possa valorizzare quei sistemi paesaggistici oggi quasi del tutto disgregati. Il complesso paesaggistico-monumentale della Collina del Parco (img. 02) di Nocera Inferiore, in provincia di Salerno, rappresenta per gli autori un caso studio ideale per l’applicazione di tale strategia: qui le architetture religiose, militari e civili, che nel corso dei secoli hanno contribuito alla trasformazione del Monticellum1 in una straordinaria macchina paesaggistica, risultano oggi scarsamente valorizzate o, in alcuni casi, lasciate all’incuria e all’abbandono.
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02. Vista da sud-ovest del sistema paesaggistico della Collina del Parco; View from south-west of the Collina del Parco. Eugenio A. De Nicola, 2019
Morfologia e componenti del sistema La Collina del Parco, al centro dell’Agro Nocerino-Sarnese, raggiunge un’altitudine di 160 metri (slm) ed è definita su due lati dal fiume Solofrana. Probabilmente la Collina ospitò fin dall’epoca romana un castrum, data la sua posizione strategica a difesa della via consolare Capua-Reggio e delle principali vie di comunicazione verso Salerno e Napoli, ma le prime notizie scritte che vi attestano la presenza di una fortificazione risalgono al 9842. Tra X e XIII secolo il castello di Nuceria accresce gradualmente la sua importanza e, a partire dal mastio normanno-svevo, si arricchisce di una triplice cinta muraria che, scendendo in circuiti concentrici fino a valle, segue l’andamento delle curve di livello della Collina. Successivamente, la fortezza perde la sua natura
forse a seguito dell’ampliamento di un hospitale pauperum riportato nelle cronache fin dal ‘200, versa in condizioni di totale abbandono. Sul versante meridionale, il convento di Sant’Antonio6 (img. 07) ospita il museo archeologico dell’Agro Nocerino, una ricca biblioteca di circa 16.000 volumi e una pinacoteca. Il convento di Sant’Andrea (img. 08), infine, costruito in posizione elevata nelle “pertinenze del Regio Parco”7 è ancora abitato dalla comunità francescana. Dal XV secolo si sviluppano a est, appena fuori dalle mura, i borghi di Pietraccetta e Piedimonte, i centri abitati più antichi in pede collis, mentre lungo le pendici meridionali, le principali abitazioni si concentrano attorno al forum civitatis, ossia il mercato. Tra XVI e XIX secolo l’area mercatale verrà riorganizzata a seguito della costruzione prima del palazzo ducale8 e successivamente, dopo la demolizione dello stesso, di una caserma di cavalleria. L’odierna Caserma Tofano, definita anche “Gran Quartiere” per le sue imponenti dimensioni9, dopo secoli di uso militare operativo e poi come archivio, è oggi rientrata nella disponibilità della Soprintendenza Archeologica di Salerno che la utilizza come deposito. Il sistema agroambientale della Collina del Parco, che è rimasto pressoché invariato durante i secoli, comprende una parte arborea caratterizzata per lo più da olivi e agrumi - a sud l’antico uliveto di Sant’Andrea e l’area olivetata attorno ai ruderi della chiesa di Santa Margherita mentre a ovest l’orto religioso di Sant’Anna - con terrazzamenti a frutteti e agrumeti, e una parte boschiva. Il convento di Sant’Antonio conserva l’antico giardino murato detto Terravecchia con frutteti e vigneti, mentre per il monastero di San Giovanni, vista la sua antica funzione di hospitale, si può ipotizzare l’esistenza in passato di un hortus di piante officinali per la produzione di medicamenti di cui, però non rimane traccia. Infine, le fasce più alte della Collina sono caratterizzate dalla presenza del bosco che, in prossimità del castello, cede il posto al verde ornamentale.
la regula benedettina come strategia fondata sul binomio cultura - produzione militare e viene trasformata in dimora signorile e in sede di rappresentanza3 fino a essere abbandonata nel XVI secolo a seguito della costruzione del palazzo ducale. All’inizio del ‘900, infine, parte delle rovine del castello vengono trasformate dalla famiglia Fienga nella villa padronale ancora oggi visibile4 (img. 01). Entro la cinta muraria, più a valle, sorgono quattro strutture religiose tuttora esistenti: il monastero di Sant’Anna e il convento di Sant’Antonio (originariamente dedicato a San Francesco) fondati nel XIII secolo, il monastero di San Giovanni in Parco (o in Palco)5 e quello intitolato a Sant’Andrea nel XVI secolo. Osservando la Pianta prospettica del monastero di Sant’Anna (img. 03) e quella relativa al monastero di San Giovanni in Parco (img. 04), contenute in alcune platee settecentesche, possiamo avere un’idea precisa dei complessi monastici sul versante occidentale della Collina. Nel monastero di Sant’Anna è ancora oggi presente una comunità di religiose domenicane mentre San Giovanni, fondato dai benedettini di Montevergine
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solo il giusto equilibrio tra “anima e corpo” risulta davvero sostenibile
03. Pianta prospettica del monasterio di Sant’Anna nella platea topo-geografica del 1714; Ancient bird’s eye view of the monastery of Sant’Anna. Braca, Villani, Zarra, 2005, p. 88
La Carta Topografica del Tenimento di Nocera del 1831 (img. 05), conservata nella biblioteca provinciale di Salerno, mostra con chiarezza l’articolazione di questa complessa macchina paesaggistica che oggi rappresenta un’importante eredità archeologica, monumentale e naturale nel cuore della città moderna. Strategie per il recupero e la valorizzazione del sistema paesaggistico-monumentale La conoscenza della storia dei luoghi ha rappresentato per gli autori un mezzo necessario per comprendere le dinamiche di funzionamento e la vocazione delle singole componenti e dell’intero sistema, al fine di proporre un processo di recupero e valorizzazione realmente sostenibile per la Collina del Parco e per la città10. Il tema del miglioramento dell’accessibilità all’area-studio è stato centrale nello sviluppo della strategia ipotizzando l’introduzione di una nuova linea di trasporto pubblico a zero emissioni, la “linea ZERØ”, con un percorso circolare che segue l’antico tracciato delle mura a valle. Sono state individuate, perciò, due aree d’interscambio tra trasporto pubblico e privato lungo il tracciato della “linea ZERØ” e in prossimità delle porte di accesso al sistema Collina: una a nord nel quartiere Villanova e la seconda a est nell’area dell’ex manicomio. Le fermate della nuova linea saranno poste in corrispondenza delle porte e delle singole componenti per garantire l’accessibilità anche alle persone con disabilità motoria. Assecondando l’orografia della Collina, poi, è possibile pensare alla creazione di una serie di percorsi panoramici ad anello, sfruttando i pianori e gli ampi terrazzamenti presenti soprattutto intorno al castello, per l’accessibilità orizzontale alle differenti quote. Inoltre, la valorizzazione dei percorsi pedonali dagli antichi punti di accesso (l’antica porta di San Bartolomeo a est, un percorso che attraversa la Villa Comunale in prossimità dell’area dell’antico forum civitatis a sud, una porta su largo San Biagio nei pressi del convento di San Giovanni
04. Pianta prospettica del monastero di S. Gio. Bat.ta del Palco della Città di Nocera nella platea topo-geografica del 1723; Ancient view of the monastery of San Giovanni in Parco. Braca, Villani, Zarra, 2005, p. 204
05. Carta topografica del tenimento di Nocera, 1831; Topographic map of Nocera, 1831. Biblioteca Provinciale di Salerno (R. 3-5-64)
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06. Strategia per la valorizzazione della Collina del Parco: interventi, funzioni, accessibilità; Strategy to reactivate the Collina del Parco: interventions, functions, accessibility. E. A. De Nicola, 2019
a sud-ovest e un punto d’accesso da nord nella zona di Villanova e Chivoli) consentirebbe di sviluppare attività di trekking, north-walking e di visitare l’intera Collina semplicemente passeggiando da una componente all’altra. Per i complessi di Sant’Anna, Sant’Antonio e Sant’Andrea,
dita diretta dei prodotti. Il convento di Sant’Antonio, invece, si configura come polo culturale e museale del sistema Collina, anche attraverso la realizzazione di aule studio e laboratori aperti agli studiosi e alla collettività. Per tutte le altre componenti si prevede l’introduzione di funzioni e produzioni innovative. Per il monastero di San Giovanni in Parco, che ha perduto la sua originaria funzione religiosa, si prevede l’introduzione di funzioni ricettive, seguendo l’antica vocazione all’ospitalità, e della produzione di cosmetici naturali e di prodotti erboristici, a seguito della realizzazione di un hortus per la coltivazione di piante officinali. Tale strategia di valorizzazione trova nel castello, come rinnovato luogo di rappresentanza, il fulcro dell’intera produzione culturale, agricola e artigianale del sistema. Il castello stesso, a seguito del recupero delle sue parti più antiche oggi in rovina, potrebbe ospitare spazi
una macchina paesaggistica, culturale ed economica capace di auto-sostenersi che conservano ancora le loro funzioni religiose, vengono ipotizzati interventi tesi alla valorizzazione e implementazione delle funzioni e produzioni esistenti. Per Sant’Anna e Sant’Andrea si propone il recupero degli antichi orti e delle colture originarie - ulivi, agrumi, vite - al fine di attivare una produzione agricola biologica, nonché attività di degustazione ed educative, eventi enogastronomici e ven-
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07. Vista dell’ingresso monumentale e del fronte principale della chiesa di Sant’Antonio; View of the monumental entrance and main elevation of the church of Sant’Antonio. Eugenio A. De Nicola, 2019
08. Vista da est del convento di Sant’Andrea; View from east of the convent of Sant’Andrea. Eugenio A. De Nicola, 2019
per la ristorazione a chilometro zero, utilizzando i prodotti biologici della Collina. La Caserma Tofano si configura, invece, come polo della ricerca sui temi del restauro del patrimonio culturale, con il coinvolgimento di istituzioni universitarie. La piazza d’armi della caserma borbonica diventa così una nuova piazza pubblica a servizio della città. Infine, il processo di riqualificazione prevede, per l’ottocentesca Villa Comunale, il restauro del complesso e la trasformazione dell’edificio della vecchia biblioteca in un incubatore creativo dedicato alle start-up e al coworking. Il sistema Collina del Parco, così configurato (img. 06), tornerà a funzionare come una macchina paesaggistica, culturale ed economica capace di auto-sostenersi e coinvolgere non solo le istituzioni pubbliche e religiose ma anche i privati, grazie all’introduzione di un nuovo marchio di qualità che caratterizzerà tutti i prodotti generati entro il perimetro della Collina stessa. Conclusioni La visione presentata dagli autori punta a fornire delle linee guida per riattivare la macchina paesaggistica-culturale della Collina del Parco di Nocera, mettendo nuovamente a sistema le sue componenti antropiche e naturali mediante una strategia sostenibile basata sul binomio cultura-produzione. Il caso in esame rappresenta, inoltre, un pretesto per una riflessione più profonda sulla tutela dello “spirito dei luoghi” attraverso azioni concrete, partendo dall’assunto che, nei processi di recupero del patrimonio storico-culturale, solo il giusto equilibrio tra “anima e corpo” risulta davvero sostenibile. In tale rapporto, infatti, uno sbilanciamento provocherebbe da un lato una vuota museificazione dei beni, che in assenza di una strategia a lungo termine rischierebbero l’abbandono in breve tempo, e dall’altro mere speculazioni, lontane dalla vocazione dei luoghi e senza alcuna ricaduta nella vita reale delle comunità.*
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NOTE 1 – Termine con cui veniva identificata la Collina in antichità. In Varone, 1994, II, p. 68 (dic. 984): firmitate noba nucerina de ipsum Monticellum e in Leone, 1965, XVI, p. 37 (nov. 1095): terra cum arbustatum et bacuum in plaio de monte de castro Nucerie ubi Monticellum dicitur. 2 – Nel 984 è attestata sulla Collina una struttura fortificata. In Codex Diplomaticus Cavensis II, CCCLXXI, p. 216: [...]ad ipsa firmitate nucerina[...], [...]firmitate nova nucerina[...]. 3 – Ciò è rilevabile dai ruderi della cosiddetta Sala dei Giganti dedicata alle udienze e agli incontri istituzionali, ma anche dai dettagli architettonici delle parti residenziali angioine. 4 – I primi interventi di trasformazione, nel corso del XIX secolo, di una parte delle rovine del castello originario in villa padronale si possono attribuire ai baroni De Guidobaldi. A loro si deve anche la realizzazione della cappella palatina. 5 – La prima notizia dell’esistenza del monastero di San Giovanni in Palco ci perviene da un atto di protesta contro l’Annunziata di Napoli datato 11 dicembre 1515 (Mongelli, 1971, vol. VI, pp. 595-602). 6 – A seguito delle leggi napoleoniche viene utilizzato come caserma e ricovero per senzatetto per poi recuperare la funzione religiosa nel 1951. 7 – Tale notizia e quella della fondazione della chiesa nell’anno 1563, per volontà del duca Alfonso Carafa, è rilevabile nell’opera Memorie storiche cronologiche attinenti a’ Frati Minori Cappuccini della Provincia di Napoli redatta da Padre Emmanuele Celentano da Napoli nella seconda metà del ‘700. 8 – Viene costruito nel XVI secolo per volontà della famiglia Carafa e nel 1610 Mons. Lunadoro fornisce una descrizione del palazzo ducale e dei suoi giardini (Amarotta, 1985, pp 41-42). 9 – La Caserma Tofano, costruita nel 1751 per volontà di Carlo III di Borbone su progetto di Gabriele Romano, prende il posto del Palazzo Ducale ormai in rovina. 10 – La strategia proposta è frutto di uno studio volontario degli autori iniziato nel 2019. L’obiettivo principale è quello di richiamare l’interesse della collettività sul patrimonio culturale della città di Nocera mostrando alcune opportunità offerte dal processo di valorizzazione del sistema Collina del Parco con l’auspicio che possa nascere, in futuro, un dialogo tra cittadini, istituzioni, studiosi e altri stakeholders. BIBLIOGRAFIA - Braca A., Villani G., Zarra C. (a cura di), “Architettura e opere d’arte nella valle del Sarno”, Arti Grafiche Sud, Salerno, 2005. - Corolla A., Fiorillo R. (a cura di), “Nocera. Il castello dello Scisma d’Occidente”, All’Insegna del Giglio, Firenze, 2010. - Ruggiero G., “Il monastero di Sant’Anna di Nocera. Dalla fondazione al concilio di Trento”, Centro Riviste della Provincia Romana, Pistoia, 1989. - Ruggiero G., “Un monastero di provincia nell’età moderna. Il monastero di Sant’Anna di Nocera de’ Pagani”, International Inner Wheel Nocera Inferiore-Sarno/210° distretto, Sarno, 1995. - Salierno G., Piccolo V., “Il Convento di S. Antonio in Nocera Inferiore”, a cura della Biblioteca “S. Antonio Dottore”, Nocera Inferiore, 1998. - Mongelli G., “Storia di Montevergine e della Congregazione Verginiana”, a cura dell’Amministrazione Provinciale di Avellino, Avellino, 1971. - De Nicola E., “Il borgo ed il mercato di Nocera de’ Pagani tra XVIII e XIX secolo”, in “Rassegna Storica Salernitana”, 1997, n. XIV-1, pp. 113-160. - Pucci R., “Dalla fine della città antica alla Nocera del ‘300”, in Fortunato T. (a cura di), “Nuceria. Scritti storici in memoria di Raffaele Pucci”, Altrastampa Edizioni, Postiglione, 2006, pp. 93-102. - Varone A., “Assetto e toponomastica di Nuceria in età longobarda, in Nuceria Alfaterna e il suo territorio”, ed. Pecoraro A., Nocera Inferiore, 1994, pp. 51-77. - Leone S., “Diplomata Tabularii Cavensis”, dattill. in Archivio della Badia della SS. Trinità di Cava dei Tirreni, 1965. - Amarotta A.R., “Copia d’una lettara scritta dal molto illus. e rever.mo mons. Lunadoro vescovo di Nocera de’ Pagani intorno all’origine di detta città, e suo vescovado, al signor - Alcibiade Lucarini”, Napoli 1610, Nocera Inferiore, 1985.
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Christian Toson Dottorando in Architettura presso l’Università Iuav di Venezia. c.toson@live.com
La chiesa dell’Apostolo Pietro a Marzialnye Vody
01. La chiesa dell’Apostolo Pietro a Marzialnye Vody, vista dall’abside; The church of the Apostle Peter in Marzialnye Vody, seen from the apse. Christian Toson
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un esperimento di Pietro il Grande The church of the Apostle Peter in Marzialnye Vody The church of St Peter the Apostle in Marzialnye Vody (Marcial Waters) was built in 1719-1722 on the shores of Lake Onega, in Karelia, were Peter used to take care of his health, not far from the wharfs were his fleet was built to fight against the Swedes during the Great Northern War. This church has very unorthodox features. Its interior is designed to be similar a ship’s one. In this article we analyse the church, emphasising on the merging of sacred and profane elements, which was a very common trait of the Tsar’s policy. In the end, this church will be defined as a sort of testing laboratory for the construction of the new-born city of Saint Petersburg, where the same themes emerge in a bigger and more complex scale.* La chiesa dell’Apostolo Pietro a Marzialnye Vody (Acque di Marte) fu costruita nel 171922 sulle rive del lago di Onega, in Karelia, dove Pietro andava per curarsi, non lontano dai cantieri navali dove si costruì la flotta che combattè contro gli Svedesi durante la Grande Guerra del Nord. La chiesa ha delle caratteristiche decisamente non ortodosse. In questo articolo si porrà particolare attenzione alla compresenza di elementi sacri e profani, caratteristica molto comune della politica dello Zar. In conclusione, la chiesa sarà definita come un esperimento nel processo di definizione della nuova capitale San Pietroburgo.*
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a chiesa dell’Apostolo Pietro si trova in Karelia, vicino alle rive del grande lago di Onega, regione a quel tempo di fondamentale importanza durante la Grande Guerra del Nord (1700-1721), che sancì la fine dell’egemonia della Svezia sui territori del Baltico. Ai confini dell’attuale Finlandia, la Karelia disponeva di immense foreste di legname di alta qualità e un grande numero di vie d’acqua e laghi. Pietro decise in installare in questi territori le prime manifatture russe, principalmente cantieri navali e fonderie, che furono strategiche per portare a termine alcune delle più grandi imprese dello Zar, come la costruzione di un’intera flotta da guerra in meno di un anno e la conquista della foce della Neva sul mar Baltico. Questo luogo divenne la “finestra aperta a occidente”, e di lì a qualche anno, la futura capitale San Pietroburgo (Massie, 1980). La chiesa dell’Apostolo Pietro si trova non lontano da Olonets, forse il più grande e famoso fra i cantieri della Karelia; questa vicinanza, come si vedrà in seguito, sarà molto influente. Nel 1714 un operaio della fonderia di Konchezero scoprì delle sorgenti minerali che vennero battezzate “Marzialnye Vody”, ovvero “Acque di Marte”, per via dell’alto contenuto ferroso dell’acqua, considerato curativo. Lo Zar Pietro il Grande, sempre alla ricerca di cure per i suoi mali, diede disposizione di costruire subito un complesso termale e vi si recò tre volte: nel marzo 1720, nel febbraio 1722 e nel marzo 1724, come tappa intermedia durante i suoi sopralluoghi nei cantieri (Massie, 1980; Kapusta, 2006). Nel 1719 si costruirono le case per la guardia reale, due palazzetti per lo Zar e la sua famiglia, un piccolo albergo per gli ospiti e si cominciò la chiesa dell’Apostolo Pietro. La tradizione vuole che il progetto della chiesa sia di Pietro il Grande stesso (Ozereckovskogo, 1792; Kapusta, 2006). Non ci sono fonti che consentono un’attribuzione certa dell’opera allo “Zarcarpentiere”, che tuttavia non sembra così improbabile. Ad ogni modo, il fatto che nell’immaginario popolare la chiesa sia opera di Pietro il Grande permette di capire quanto sia
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02. La Chiesa della Trasfigurazione a Kizhi; The Church of the Transfiguration in Kizhi. Matthias Kabel
stretto il legame fra il sovrano e questa piccola architettura. Essendo una costruzione di legno la chiesa è stata più volte riparata, e gran parte dei tronchi esterni non sono originali, ma possiamo ragionevolmente affermare che non sia stata cambiata in modo sostanziale rispetto alla sua versione originale, soprattutto per quanto riguarda gli interni, conservatisi nella forma attuale. I rilievi ottocenteschi mostrano una chiesa nella forma sostanzialmente uguale a quella di oggi.
tipiche della regione, soprattutto alla luce dei grandi stravolgimenti storici che stava attuando Pietro il Grande in Russia. La vicinanza e l’informalità con cui questa chiesa si interfaccia con la committenza permette di fare alcune considerazioni sull’architettura petrina che sarebbero molto più difficili da analizzare in cantieri più grandi e complessi. La chiesa ha delle caratteristiche al limite del sovversivo se paragonata a una tradizionale chiesa di legno della Karelia. Generalmente queste chiese, fatte di tronchi incastrati, hanno un orientamento est-ovest, e sono costituite da una serie di ambienti in successione che consistono in un portico profondo e rialzato (per consentire l’accesso anche con molta neve), uno o più narteci in fila, la navata di solito quadrata o a quincunx1, con iconostasi che chiude l’abside e il presbiterio, dove si trova anche l’altare. Sopra la navata di solito c’è almeno una
questa piccola architettura di per sé molto modesta diventa interessante in paragone con altre chiese Questa piccola architettura di per sé è molto modesta sia per qualità costruttiva che architettonica; il suo studio diventa interessante quando fatto in paragone con altre chiese
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03. Pianta e prospetto della chiesa; Plan and elevation of the church. Libro dei monumenti del governatorato di Olonets, 1858
04. Interno della chiesa, soppalco con ufficio dello Zar; Interior of the church, the mezzanine with the Tsar’s office. Christian Toson
cupola lignea a forma di cipolla. Sovente intorno alla cupola centrale si aggregano da quattro a svariate decine di piccole cupole a livelli degradanti. Il caso più spettacolare di questa “cascata di cupole” è la famosa chiesa della Trasfigurazione di Kizhi, non lontano dal luogo dove si trova Marzialnye Vody (Krohin, 2001). D’altro canto, la chiesa di Pietro ha un orientamento nord-sud, ha un accesso laterale al posto di un portico, un nartece molto piccolo, un impianto dichiaratamente a croce latina con una navata rettangolare e transetto, una sola grande cupola ottagonale. Queste differenze, già molto significative, sono comunque poca cosa se paragonate al completo stravolgimento che Pietro fa degli interni e delle finiture. L’atmosfera che si ha dentro una chiesa ortodossa in legno è quella di un ambiente raccolto, molto chiuso, la poca luce viene esclusivamente dall’alto e dalle candele, prevalgono i colori scuri, il legno al naturale, le finiture grezze, i dettagli dorati.
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La chiesa di Marzialnye Vodi è l’opposto di tutto questo: è interamente dipinta di bianco, dentro e fuori, con dettagli di colore blu e la totale assenza di oro, i tronchi squadrati, il pavimento levigato e lucido, e con grandi finestre all’europea aperte sui fianchi e l’abside. Alla cupa atmosfera sacra dell’icona, Pietro sostituisce quella luminosa e profana della nave. Sono i dettagli a dichiararlo: sopra la navata e il nartece c’è un soppalco che usava come ufficio, chiuso dalla parte della navata con una vetrata che lo fa sembrare una cabina di poppa; il bianco e il blu sono i colori della bandiera della marina militare russa, il soffitto con le travi è simile a quello dei ponti dei vascelli, i candelabri sono torniti a mano dallo stesso Zar, ci sono due grandi stufe di ghisa prodotte dalle vicine fonderie (in genere le chiese in Russia non sono mai riscaldate), l’iconostasi è piena di ritratti e riferimenti a Pietro e il suo entourage (Pietro è chiaramente ritratto come uno dei flagellatori di Cristo e come una delle guardie, le piccole teste di angeli secondo la tradizione sono i ritratti
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05. Interno della chiesa, iconostasi; Interior of the church, iconostasis. Christian Toson
06. La fortezza e la chiesa dei SS. Pietro Paolo a San Pietroburgo; The fortress and the church of the Saints Peter Paul in St. Petersburg. Vitold Muratov
dei primi visitatori del sanatorio e hanno le facce corrucciate per via dei dolori che soffrono). Quello che possiamo osservare nel complesso è una chiesa piena di riferimenti personali a Pietro il Grande (a partire dal nome), che è anche un ufficio e un luogo di incontro. Gli
l’interno di una nave, luogo del progresso militare e tecnologico, con il sogno di diventare modernamente europeo. Una chiesa così lo Zar poteva costruirla solo a Marzialnye Vody, vicino ai suoi cantieri, libero da vincoli, ma proprio per questo suo carattere libero e sperimentale è un oggetto interessantissimo da studiare, soprattutto alla luce di un’altra invenzione alla quale stava lavorando lo Zar in quel periodo: San Pietroburgo. Sankt Pieter Burch, la città di San Pietro, ma anche, sottointeso, di Pietro il Grande. Il successo della città forse dipende proprio dalla grandissima abilità di Pietro nel mescolare il sacro e il profano, spingendosi ai limiti dell’eresia. La dimensione religiosa era la più importante per un suddito russo dell’inizio del XVIII secolo. L’operazione che fa Pietro nel fondere l’impresa “profana” del progresso tec-
lo spirito della chiesetta dell’Apostolo Pietro ci permette di intuire il principio di quella atmosfera pietroburghese che si manifesterà in tutta la sua forza nel secolo a venire arredi interni sono un’esibizione della nuova manifattura russa, e lo spazio aperto e luminoso nega il raccoglimento mistico del culto delle icone. Il luogo per antonomasia della tradizione russa diventa
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SACRO
nologico con l’immaginario sacro fu vincente e permise la veloce assimilazione delle innovazioni occidentali nella società russa (Massie, 1980). Un esempio architettonico relativamente semplice è il forte di Kronshtadt, uno fra i primi costruiti, che da un lato è una moderna batteria di cannoni costruita in mezzo al mare, e dall’altro ha evidenti richiami formali con le torri fortificate dei monasteri medievali. Ma l’edificio più emblematico di questa interferenza sacroprofano è probabilmente la cattedrale dei S.S. Pietro e Paolo, costruita dentro la prima e più importante fortezza di San Pietroburgo, tomba dei Romanov, con un impianto a tre navate all’europea e un’altissima guglia all’olandese (Cracraft, 1988). Questa chiesa è forse il primo edificio in muratura costruito per scopi non militari, ed è uno dei simboli della città. La concentrazione e sovrapposizione di significati religiosi e politici in questo caso è complessa e meriterebbe una trattazione approfondita. Ma anche con uno sguardo molto superficiale, alla luce delle considerazioni fatte per la chiesa dell’Apostolo Pietro, possiamo già sentire qualche assonanza di temi sul rapporto fra sacro e profano fra le due chiese. Questo fatto apre un’interessante prospettiva di metodo verso lo studio di molte architetture minori in Russia, costruite dalle grandi committenze, che ci permettono di trovare delle chiavi interpretative per i “grandi” monumenti, e nel caso di San Pietroburgo, delle città. Questa piccola architettura della lontana Karelia è un primissimo esempio che ci permette di intuire il principio della “maniera di architettura bastarda tra la italiana, la francese e la olandese” (Algarotti, 1739, p.49) che si svilupperà progressivamente nell’architettura della capitale dell’Impero Russo e porterà alla tormentata definizione di quella “atmosfera pietroburghese” che si manifesterà in tutta la sua forza nel secolo a venire.*
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07. Dettaglio del transetto con stufa in ghisa e uno dei candelabri; Detail of the transept with cast iron stove and one of the candelabra. Christian Toson NOTE 1 – Con quincunx o quinconcia si intende un tipo di disposizione tipico dell’architettura religiosa bizantina che ricorda il numero 5 di un dado, nel quale una pianta centrale generalmente quadrata viene divisa in una griglia di 3 x 3 campate, dove il centro è voltato da una cupola, i quattro angoli con cupole minori o volte a crociera, e i restanti ambienti di transizione sono solitamente voltati a botte. BIBLIOGRAFIA - Burns H., “La città bianca: continuità e innovazione nell’architettura di San Pietroburgo, 1762-1825” , in “Dal mito al progetto, La cultura architettonica dei maestri italiani e ticinesi della Russia neoclassica”, Mendrisio 2004. - Cracraft J., “The Petrine Revolution in Russian Architecture”, Chicago, 1988. - Cuppini G., “Gli Architetti italiani a San Pietroburgo”, Bologna, 1996. - Governatorato di Olonets (a cura di), “Libro dei monumenti del governatorato di Olonets” (Памятной книжки Олонецкой губернии на 1858 год), San Pietroburgo, 1858. - Kapusta L. I, “Marzialnye vody: stranicy istorii pervogo russkogo kurorta”, Dmitrij Bulanin, 2006. - Krohin V.A. , “Formoobrazovanie Kizhskogo ansamblja”, in Mel’nikov I.V. (Otv. red.), “Kizhskij vestnik”, Museo di Kizhi, 2001, n. 6. - Lo Gatto E.,” Il mito di Pietroburgo”, Roma 1960. - Massie R. K.,”Peter the Great”, New York, 1980, pp 62-63, 88-95. - Ovsjannikov Ju.,”Dominiko Trjezini”, Mosca 1987. - Ozereckovskogo N.J. ,”Puteshestvija po ozeram Ladozhskomu i Onezhskomu”, San Pietroburgo, 1792. Sono stati inoltre consultati i materiali del museo locale di storia del complesso di Marzialnye Vody.
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I numeri del sacro ICO SS 50 ME 8.2 EL .74 À D 24 TT CI
I dati sono stati ricavati da uno studio condotto all’interno del workshop-tirocinio “Giulietta e Verona: progettare il patrimonio intangibile” promosso dall’Università Iuav di Venezia in collaborazione con l’arch. Marco Ardielli, sfociato nel progetto “Isola di Giulietta, da attrazione turistica a luogo di pellegrinaggio” condotto in collaborazione con lo studio Ardielli Associati per conto della Società Teatro Nuovo di Verona. Partecipanti: Lorenzo Abate, Alberto Bertollo, Greta Cattelan, Sonia Cristoforetti, Rosa Da Boit, Alberto Dianin, Piera Favaretto, Maria Guerra, Marco Marino, Giacomo Savegnago, Carolina Scorsone, Chiara Semenzin, Debora Tarzia. Dati 2014-2019.
DEL SA B CR AS O C ILIC UO A PA RE RIG I
a cura di Stefania Mangini
DI NCATTED OTR RAL E DA E ME PARIG I 2.2 SANTIA 29.6 C 21 GO DE ATTEDRALE COMP DI S.G OSTEL IACOM A 95 O .800
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EDIFICI DI CULTO CATTOLICI FONTE: CEI www.beweb.chiesacattolica.it
7.248.228
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Piemonte Valle d'Aosta
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NUMERO VISITATORI
NUMERO DI CREDENTI PER CULTO IN ITALIA Fonte: CESNUR 2017
SANTUARIO DI SAN PIO DA PIETRELCINA
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1.400.000
NUMERO ABITANTI
5.0 00 .00 0
ILICA BAS
0 0.00 4.00
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12.791 LORETO
CRISTIANO
1.680.000
IETTA BALCONE DI GIUL
6.000.000
COLONIA 1.057.327 BASILICA DELLA NATIVITÀ BETLEMME 29.927
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VERONA 258.274
13.0 00.0 00
5.000.00 0
DUOMO DI COLONIA NUMERO VISITATORI
13. 000 .00 0
2.000.0 00
ORA CZYNSTO CHOWY 238.042
NUMERO ABITANTI
2.2 29 .62 1
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Lombardia
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3212 Liguria
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Emilia Romagna
4983
Toscana
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SACRO
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1.672.000
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MEĐUGORJE 5.000 MEĐUGORJE TOKYO 15.185.502
5.000.000
6.788.150
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SANTUARIO DI FÁTIMA
FÁTIMA 11.596
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Marche
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Abruzzo Molise
OFFICINA* N.26
2923 Lazio
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Campania
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Calabria
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Emilio Antoniol Architetto, PhD in Tecnologia dell’architettura. antoniolemilio@gmail.com Letizia Goretti Dottoranda in composizione architettonica – tematica cultura visuale Università Iuav di Venezia XXXII° ciclo. letizia.goretti@yahoo.it
ttobre 1975. Dopo tredici anni dalla catastrofe del Vajont che nella notte del 9 ottobre 1963 porta alla morte di oltre 2000 persone e alla distruzione di Longarone, hanno avvio i lavori di costruzione della nuova chiesa del paese. Della settecentesca struttura preesistente, distrutta dall’onda d’acqua e fango fuoriuscita dalla diga, non rimangono che poche superstiti tracce murarie sulle quali Giovanni Michelucci, incaricato della ricostruzione, aveva iniziato lo sviluppo del progetto già nel 1966. Ma fin dal principio la proposta dell’architetto pistoiese provoca dissidi e dissapori tra la comunità paesana, il comitato parrocchiale e l’istituto committente ISES (Istituto per lo Sviluppo dell’Edilizia Sociale). Il progetto di Michelucci non ha infatti i caratteri di una chiesa tradizionale ma si presenta come un edificio atipico: massiccio e introverso ma anche permeabile e percorribile; un monumento in memoria del tragico evento ma anche uno spazio per il popolo, che si raccoglie in preghiera per incontrarsi e rivivere. La chiesa dalla pianta ellittica è composta dalla sovrapposizione di due anfiteatri che danno origine a un edificio inusuale che si staglia in modo totalmente libero e indipendente sullo sfondo della natura aggressiva che lo circonda, diventandone un punto di osservazione privilegiato. Alla base, i ruderi dell’edificio preesitente fanno da appoggio per la sezione inferiore del progetto che ospita l’aula principale della chiesa: uno spazio buio e ribassato su cui incombe pesantemente un soffitto nervato in cemento armato, tanto da far apparire la navata principale come una cripta. Al centro di questo spazio fluido, a cui si accede da punti e livelli differenti, è posto l’altare principale su cui si affacciano tre livelli di gradonate circolari che possono ospitare fino a 700 persone.
Al di sopra si apre invece un teatro all’aperto, dotato di altare per le celebrazioni ma pensato principalmente come luogo di incontro a cui si giunge mediante una rampa elicoidale che cinge esternamente l’edificio. Percorrendola si può ammirare il panorama circostante che si contrappone alla chiesa: il fiume, le montagne e infine, in alto, inquadrata in uno squarcio nelle massicce pareti della cavea superiore, si vede in lontananza la diga, con cui l’edificio spartisce la forza materica del calcestruzzo armato, unico materiale che compone l’intera struttura. Le pareti curve e le bianche superfici inclinate si intersecano dando origine a contrasti di luce, accentuati dalla trama superficiale del cemento, resa vibrante dal getto in casseri con doghe di legno tutte diverse tra loro; gli angoli smussati e le poche aperture accentuano l’aspetto monolitico dell’edificio che contrasta con l’unico oggetto architettonico non realizzato in calcestruzzo: il campanile, una struttura metallica reticolare che si erge in alto, verticalmente, quasi a rappresentare la vela di una nave ormeggiata sulle rive del fiume.* The house of man The church of the Immaculate Conception of the Virgin designed and built by Giovanni Michelucci in Longarone between 1966 and 1983 is a masterpiece of the Pistoia architect’s sacred architecture but at the same time it is a special place. Church, theater, monument, square: there are many natures that animate this building that Michelucci sees as everyone’s home, the human’s house where to meet and relive.*
BIBLIOGRAFIA - Belluzzi A., Conforti C., “Lo spazio sacro nell’architettura di Giovanni Michelucci”, Umberto Allemandi, Torino, 1987. - Dezzi Bardeschi M. (a cura di), “Giovanni Michelucci. Un viaggio lungo un secolo”, Alinea, Firenze, 1988. - Sodi S. (a cura di), “Giovanni Michelucci e la Chiesa italiana”, San Paolo, Milano, 2009.
massiccio e introverso ma anche permeabile e percorribile; un monumento in memoria del tragico evento ma anche uno spazio per il popolo
La casa dell’uomo
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01. L’ingresso della chiesa e l’inizio del percorso elicoidale esterno. 02. I resti della chiesa preesistente nel basamento del nuovo edificio. 03. Il solaio nervato in calcestruzzo armato che sovrasta l’altare centrale della chiesa. 04. La cavea interna destinata a ospitare i fedeli delle celebrazioni liturgiche. 05. I monti dell’alta valle del Piave inquadrati dalla cavea della piazza superiore della chiesa.
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06. La guglia-campanile in acciaio che sovrasta la chiesa in calcestruzzo armato. 07. Le forme plastiche delle pareti in calcestruzzo armato. 08. Le gradonate si raccolgono attorno alla piazza superiore, affacciata sulla valle dell’alto Piave: davanti la gola della valle del Vajont.
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in lontananza la diga, con cui l’edificio spartisce la forza materica del calcestruzzo armato, unico materiale che compone l’intera struttura
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09. La campana forgiata nel 1959 è l’unica sopravvissuta al disastro del Vajont: dopo il restauro, nel 2015 è stata posizionata nel punto in cui l’arch.Michelucci avrebbe voluto collocare il campanile della chiesa. 10. La cavea interna con le panche in legno si raccolgono intorno all’altare centrale. 11. Il corpo conico della chiesa e il percorso elicoidale esterno, entrambi interamente in calcestruzzo armato gettato in opera, le cui superfici sono disegnate dalle doghe delle casseformi. 12. Le gradonate in pietra della cavea superiore, riprendono la circolarità di quelle interne. 10
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Alessio Omassi Libero professionista. a.omassi@gmail.com
Arte sacra nel nuovo millennio
L’applicazione di tecnologie additive nei processi di forgiatura delle campane a produzione di campane come la conosciamo oggi risale ad alcuni millenni prima della nascita di Cristo ad opera di forgiatori cinesi. In Italia invece, leggende attribuiscono l’invenzione della campana con batacchio a San Paolino vescovo di Nola nel V secolo dopo Cristo. Leggende a parte quello che possiamo dire per certo è che il processo produttivo usato oggigiorno di poco si discosta da quello usato in antichità. Il ciclo di lavorazione delle campane prevede diverse fasi. Innanzitutto occorre costruire una forma in legno che riproduca il profilo della campana. Con essa si costruisce la cassa d’anima che riproduce la cavità del pezzo ovvero una struttura cava di mattoni refrattari corrispondente all’interno della campana. Questo profilo, detto maschio o anima, viene montato su una trave orizzontale che può ruotare attorno a un asse verticale. Su questa anima si sovrappongono diversi strati d’argilla fino a ottenere una falsa campana, detta camicia, di spessore uguale a quello voluto per la campana in bronzo. Su questa superficie si applicano fregi e iscrizioni con la tecnica a cera persa. Durante la preparazione di questo “mantello in argilla”, l’interno viene riscaldato con carboni ardenti per essiccare più velocemente l’argilla e sciogliere la cera. Per completare la formatura, la falsa campana viene eliminata e il mantello viene collocato sull’anima lasciando un’intercapedine
per la fusione di bronzo. Mantello e anima vengono interrate in una fossa (in un contenitore detto staffa) e bloccati con terra e sabbia speciale per evitare movimenti durante la fusione. La forma è completata con i canali di colata del metallo fuso e i canali di scarico dell’aria. A questo punto il fonditore apre la bocca del forno e il bronzo fuso scorre nei canali fino alla testa della campana. La colata prosegue fino al totale riempimento della forma. Dopo il raffreddamento la campana viene estratta dalla fossa utilizzando l’argano posto sopra il forno a riverbero, detto “capra”, e liberata da anima e mantello. Poi viene pulita da terra e sabbia (sterratura), pulita dalle
sbavature ovvero da quelle appendici aggiunte per esigenze tecnologiche (es. attacchi di colata) e da eventuali difetti di fusione, infine viene lucidata. Come possono le nuove tecnologie entrare a far parte di un processo immutato da millenni? La risposta è più semplice del previsto; andando a sostituire il processo manuale della creazione dei decori che dal Medioevo sono apparsi a impreziosire le campane. Gli artigiani che da sempre hanno modellato la creta per creare le decorazioni stanno sparendo come molti altri lavori di una volta. Non disperate in soccorso arriva la scultura digitale e la stampa tridimensionale. Software come Zbrush e
01. Immagine Mariana modellata in 3D ed eleborata per la stampa con il software CURA . Alessio Omassi
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IN PRODUZIONE
come possono le nuove tecnologie entrare a far parte di un processo immutato da millenni?
02. Modellazione dello stemma dell’Arcidiocesi di Jaro con il software ZBrush. Alessio Omassi
Sculptris sono da anni usati per la realizzazione di modelli tridimensionali organici per il mercato della computer grafica e dei videogames, utilizzano la stessa logica presente nella modellazione tradizionale della creta amplificandone le potenzialità in maniera esponenziale. Partendo da una sfera si può aggiungere o rimuovere volume creando così volti, vesti e oggetti di vario genere. Con gli stessi software è possibile creare le decorazioni per le campane. Il processo si compone di diversi passaggi, l’acquisizione delle reference che fanno parte dell’iconografia religiosa classica (quadri, sculture, affreschi, ecc.), l’utilizzo di queste reference è determinante per realizzare un modello tridimensionale in formato di bassorilievo, è fondamentale che la modellazione rispetti determinati vincoli in modo che sia possibile nelle fasi successive realizzare lo stampo in gesso. Capita spesso di dover realizzare scritte con caratteri molto particolari come quelli Arabi, Coreani e addirittura il Tigrino che utilizza l’alfabeto ge’ez1. Una volta modellato il soggetto e tutte le parti che compongono la rappresentazione generale si passa a preparare il modello per la stampa, in questa fase viene controllato lo spessore della rappresentazione e della base su cui poggia in modo che si aggiri intorno ai 4-5 mm. Vengono anche eliminate le parti tridimensionali superflue che allungherebbero inutilmente il processo di stampa.
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03. Modellazione di figura sacra con il software ZBrush e sua riproduzione su una campana. Alessio Omassi
Il file viene esportato il formato STL e caricato nel software CURA che ha il compito di generare il movimento compiuto dalla testa di stampa, il software taglia orizzontalmente il modello tridimensionale generando dei percorsi lineari lungo i quali verrà depositata la plastica fusa. Questo è un processo molto lungo in quanto la plastica ha bisogno di qualche secondo per tornare allo stato solido: le stampe per figure alte all’incirca 15 cm durano infatti dalle 4 alle 9 ore. Il materiale con cui vengono realizzate le stampe è PLA (Acido Polilattico) un
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polimero di derivazione vegetale. Questo tipo di plastica nonostante non abbia buone caratterisiche meccaniche, offre una finitura superficiale di alta qualità ed è quindi perfetto per riprodurre al meglio tutti i dettagli. Le stampe successivamente vengono utilizzate per la creazione di calchi in gesso dai quali si ricaverà la decorazione in cera, la quale verrà utilizzata per la creazione dello stampo con la tecnica della cera a perdere.* NOTE 1 – L’alfabeto ge’ez è l’alfabeto utilizzato per la lingua ge’ez, antica lingua semitica dell’Etiopia.
Emanuela Ruggio Titolare e direttore tecnico “Restauro: la Conservazione dell’Arte”. er.artemisia@hotmail.it
La Pieve di Sant’Andrea di Bigonzo
Il biorestauro dell’affresco della Madonna con Bambino, S. Lazzaro, S. Giovanni Battista, S. Andrea e S. Bernardino a Pieve di Sant’Andrea è la splendida chiesa millenaria poco distante dal centro di Vittorio Veneto, introdotta da un bucolico viale di cipressi, accompagnamento spirituale a un luogo sacro incantevole, scrigno di antiche opere d’arte. Le pievi, chiese antichissime, indicavano la Chiesa battesimale e la “chiesa matrice” per le altre chiese del territorio rurale a cui affluivano i catecumeni dalle cappelle della zona. Questa di Sant’Andrea di Bigonzo fu la “prima e principale” del cenedese settentrionale. Sul preesistente edifico del IV-V secolo d.C. circa fu eretta l’attuale chiesa, tra la fine del XIII secolo e l’inizio del XIV sotto il dominio dei da Camino, e fu riconsacrata il 7 luglio 1303; venne nuovamente riconsacrata nel 1486, anche se gli ultimi lavori proseguirono fino alla fine del ‘400. Tra il XIV e XV secolo le pareti interne furono decorate con numerosi affreschi da artisti quali Antonello da Serravalle, Iseppo da Cividale e Francesco da Milano. Presenta a occidente una facciata a capanna, un rosone pentalobato in pietra bianca, un portale lapideo sormontato da una lunetta con la Glo-
rificazione di Sant’Andrea. Ai lati due edicole sepolcrali con volta a crociera. L’impronta quattrocentesca è rintracciabile nella cornice ad archetti incrociati e decorati e nelle quattro colonne scolpite del portico esterno addossato alla parete nord. Il campanile, dopo il crollo del 1635, venne ricostruito nello stesso luogo con forme seicentesche. La ricchezza di questo edificio di culto è data da numerosi affreschi, dipinti su tela, un monumentale Crocifisso ligneo trecentesco, un crocifisso
le pievi, chiese antichissime, indicavano la Chiesa battesimale e la chiesa matrice per le altre chiese del territorio rurale
Associazione Opera - imprese per l’edilizia Via Meucci 28, 31029, Vittorio Veneto,TV e-mail: info@impreseinopera.it www.impreseinopera.it 01. La Pieve di Sant’Andrea in Bigonzo. Emanuela Ruggio
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IN PRODUZIONE
02. La Pieve di Sant’Andrea in Bigonzo, interno. CC0
quattrocentesco e da un polittico, antica testimonianza di pietà e di fede. In particolare, sulla parete nord della navata unica, procedendo dall’ingresso principale verso il presbiterio, si trovano affrescati due dipinti, uno adiacente all’altro. Il secondo, oggetto di intervento, raffigura la Madonna con Bambino, San Lazzaro, San Giovanni Battista, Sant’Andrea e San Bernardino da Siena. La sacra conversazione è racchiusa in un apparato architettonico ad imitazione di un interno. Entrambi i dipinti sono ritenuti coevi dagli studiosi e realizzati da Antonio Zago alias Antonello da Serravalle nel 1485, che si firma Antonellus pinxit. Con il restauro si è potuto verificare che il sormonto delle “giornate” di intonaco procede da est verso ovest e quindi fu eseguito per primo il secondo affresco.
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Stato conservativo Entrambi i dipinti della parete nord sono accomunati dagli stessi fenomeni di degrado; la seconda Sacra Conversazione, quella interessata dal restauro, manifestava questi fenomeni da lunghissimo tempo, direttamente sulle cromie, con profondi e irreversibili danni. La continua fuoriuscita di sali ha determinato la caduta del colore e la formazione di depositi superficiali, poi calcarizzati (con spessori fino a 340 µm) sopra la pellicola pittorica originale (che ha invece spessori di 8-35 µm) e ritoccati a colore in passati interventi (img. 03). Queste manifestazioni sono l’esito distruttivo della presenza di umidità all’interno e sulla superficie dell’intonaco che durante l’evaporazione trascina con sé i sali solubili, i quali cristallizzano in prossimità della su-
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03. Immagine di dettaglio della campitura rossa, in luce radente, con efflorescenze saline, incrostazioni di sali, sollevamenti e interventi di ritocco. Emanuela Ruggio
04. Antonello da Serravalle, 1485, chiesa di Sant’Andrea di Bigonzo, Vittorio Veneto (TV), dipinto murale “Madonna con Bambino, San Lazzaro, San Giovanni Battista, Sant’Andrea e San Bernardino da Siena”. Emanuela Ruggio
i batteri desulfuricanti in questione, sono sicuri per l’uomo e l’ambiente e comunemente presenti in habitat anossici
perficie, provocando la rottura della pellicola pittorica. Dalle analisi diagnostiche eseguite emerge una notevole quantità di sali pericolosi per le opere d’arte: i nitrati, insieme a solfati e cloruri. Cloruri e nitrati hanno elevata solubilità e deliquescenza; i nitrati hanno fase di transizione tra liquido e cristallino intorno al 50% di UR, dove lavorano nella fase umido-asciutto-umido dell’intonaco che si trova più in superficie. Poiché dagli ultimi studi diagnostici è emerso che in questi ultimi anni si tratta principalmente di umidità di superficie, lo strato pittorico è in continua ricerca di equilibrio termoigrometrico con l’ambiente. È su
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questa problematica della presenza di sali che è stato progettato l’intervento di restauro. L’intervento tra tradizione e biotecnologie Nel 2015, dopo le fasi preliminari (campagna fotografica di tecniche artistiche e stato di conservazione, fissaggio dei sollevamenti di colore, consolidamento degli intonaci), in accordo con la competente Soprintendenza1 e la Curia di Vittorio Veneto2, si è valutata l’opportunità dell’utilizzo di biotecnologie con l’applicazione di batteri solfato-riduttori. Il biorestauro sfrutta infatti l’attività di cellule microbiche come agenti di pulitura, con micror-
IN PRODUZIONE
05. Trattamento con batteri solfato-riduttori. Emanuela Ruggio A) Batterio Desulfovibrio vulgaris al microscopio; B) Dettaglio dell’impacco con soluzione di batteri in anaerobiosi; C) Localizzazione di alcuni impacchi con soluzione di batteri applicati per 6 ore.
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C 06. Immagine al microscopio digitale, 200X. Emanuela Ruggio A) Campitura rossa con i sali prima del trattamento con i batteri; B) Campitura rossa pulita dopo il trattamento con i batteri.
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ganismi responsabili di processi “virtuosi” biogeochimici e di risanamento. Qui la tecnica si è avvalsa di batteri desulfuricanti o solfato-riduttori3 (Desulfovibrio vulgaris subspecie Vulgaris), anaerobici, aerotolleranti capaci di ridurre il solfato in acido solfidrico, che si disperde nell’atmosfera senza alcuna conseguenza per l’ambiente. I batteri desulfuricanti in questione, sono sicuri per l’uomo e l’ambiente e comunemente presenti in habitat anossici. “Studi condotti, dal 1989, su questi organismi e sul loro metabolismo hanno permesso l’ottimizzazione del protocollo di produzione e la definizione di una efficace metodologia applicativa […]”4 che è stata brevettata nel 2006. Dopo i primi test valutativi si è scelto di lavorare con impacchi di polpa di carta Arbocel e Sepiolite, su carta giapponese, applicati per un minimo di quattro ore e per un massimo di sei (img. 05); in seguito la materia “destrutturata” dall’attacco batterico è stata rimossa con acqua mediante spugna. È importante sottolineare che, a differenza delle sostanze chimiche che non sono selettive e “aggrediscono” tutto quello con cui entrano in contatto, i batteri rimuovono solo l’alterazione e potrebbero essere
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lasciati a contatto con l’opera anche per più tempo senza causare danni alla superficie stessa. In questo caso l’unico fattore limitante potrebbe essere la compatibilità della superficie con l’impacco acquoso. Rimossa completamente l’alterazione solfatica, i batteri, privati della loro fonte di “nutrimento”, muoiono. Il numero di applicazioni può variare in funzione a: spessore, stratificazione e composizione della crosta, indice di assorbimento della superficie trattata, condizioni ambientali. È importante operare comunque con una temperatura ambientale compresa tra i 10 e i 35-40°C5. Con l’applicazione dei batteri sono state rimosse quindi le efflorescenze saline, le incrostazioni di sali (che avevano uno spessore di circa 300-340 µm) e i ritocchi, svelando la bella matericità del dipinto, anche se fortemente lacunosa. Il trattamento è stato accompagnato da analisi chimico-stratigrafiche per una verifica scientifica dell’azione dei batteri, prima e dopo l’applicazione degli stessi (img. o6). Ora a distanza di quattro anni viene affrontato anche il restauro del primo affresco, che prevede nuovamente l’utilizzo delle biotecnologie.*
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NOTE 1 – Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per l’area metropolitana di Venezia e per le province di BL, PD, TV, con il funzionario di zona dott.ssa Marta Mazza. 2 – L’Ufficio diocesano per l’Arte sacra e i Beni culturali della Diocesi di Vittorio Veneto, con la responsabile dott. ssa Falsarella Cristina e l’Arch. Nassuato Fabio. 3 – Micro4Art-solfati. Bresciani s.r.l., Milano. 4 – E. Gioventù, P. F. Lorenzi, “Valutazione dell’efficacia nell’utilizzo di microrganismi per la biorimozione delle croste nere dai materiali lapidei ed approfondimento delle metodologie applicative”, OPD restauro n. 22, 2010, ed. Centro Di Della Edifimi SRL. 5 – Bresciani s.r.l., Catalogo 2014.
La Cappella di Mario Botta e Giuliano Vangi ad Azzano di Seravezza The Chapel of Mario Botta and Giuliano Vangi in Azzano di Seravezza
Enrico Bascherini Architetto, PhD, Docente a contratto Università di Pisa-Destesc. studiobascherini@gmail.com
Fronte della Cappella. Emilio Vagli
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Siamo nella Versilia centrale, non la terra frivola legata al clima spensierato e festante delle estati di “sapore di mare” bensì in quella parte del territorio radicato nella culla della pietra e del marmo. Proprio Michelangelo Buonarroti, costretto da Leone X a utilizzare i marmi di Seravezza, soggiornava nel paese di Azzano, dove ancora oggi troviamo testimonianza dei suoi soggiorni e dove le cave, da lui aperte, testimoniano la ricchezza di una storia mai dimenticata. La bellissima Pieve romanica, nei pressi della località la Cappella, è testimone della ricchezza litica del luogo, ma ancor più della qualità delle maestranze che da sempre lavorano il Bardiglio, il Bianco P, le Brecce Medicee. Su queste pendici, sulle aspre vie dei marmi, nei ravaneti di cava, o le vie di lizza, va ricercata la radice più dura e più autentica dei cavatori, dei lizzatori e tecchiaioli versiliesi. Il piccolo cimitero di montagna, adagiato sui pendii di fronte alle cave di Trambiserra, dà la misura e la sacralità che un luogo di questo tipo deve avere, un “luogo che esprime una sacralità quasi primordiale” (Verdon, 2005). La cappella, o meglio questo oratorio, una sorta di ciborio che avvolge un altare, cerca di coniugare sacralità, identità, sacrificio, storia sofferenza. La composizione d’insieme, può essere letta attraversa due opere distinte ma organicamente composte. Il Giobbe di Vangi e la cappella di Botta. La figura umana che Vangi realizza nel fondale della cappella, esprime chiaramente il percorso che l’artista ha fatto a partire dagli anni ‘90, laddove il pensiero per una mutazione esistenziale dell’uomo, si trasforma dapprima in pensiero, (Uomo che si riflette sull’acqua, 1994), e successivamente in smarrimento (Uomo nel canneto, 1994), ed infine in angoscia e sofferenza, nel Giobbe di Azzano. Forse è proprio il significato di schiettezza, purezza e radicamento al territorio che il Giobbe di Vangi vuole testimoniare. Quest’opera, preferita dalla committenza rispetto ad altre composizione proposte (Adamo ed Eva oltre ad una crocifissione con figure dolenti) è l’arrivo di un percorso antropologico-teologico. La figura umana deforme che esce dalla parete realizzata in bardiglio imperiale, ben rappresenta il rapporto tra uomo e cava, tra territorio e radicamento umano.
BIBLIOGRAFIA - Botta M., “Per Giuliano Vangi. Di Fronte ad una scultura”, in Giuliano Vangi. Grande racconto, De Agostini, Milano, 2004, p.20. - Botta M., “Quasi un diario”, Le lettere Firenze, 2014, p. 15. - Botta M., in “Architettura Lucca” p. 50, n°10, Ets, Pisa. - D’Angiolo D., “Il Giobbe di Giuliano Vangi”, in “La Cappella di Mario Botta”, Electa, Milano, 2005, p.71. - Verdon T., “Di Fronte All’altissimo”, in “La Cappella di Mario Botta”, Electa, Milano, 2005, p.9.
Vangi esprime lo sforzo umano; come appunto ha scritto Monsignor Danilo D”Angiolo “monumento con il marmo che caratterizza la nostra cultura e ci riporta alle fatiche e alle sofferenze di tutti i cavatori, in un dialogo ambientale ed artistico” (D’Angiolo, 2005). Nel descrivere il rapporto tra architettura e scultura e in particolar modo dell’opera del maestro, è fondamentale citare le parole dell’architetto ticinese “i sui interventi scultorei dentro lo spessore dei muri hanno arricchito di nuovi significati la luce e gli spessori la luce e gli spessori delle superfici architettoniche” (Botta, 2004). In questo contesto la cappella dell’architetto Botta potrebbe passare in secondo piano, ma ancora una volta il maestro ticinese, riesce a raccordare scultura e architettura. Il pathos generato da quest’opera, quasi sconosciuta alla cultura accademica, è un connubio tra elementi spaziali e scultorei, generatore di una sacralità in bilico tra cultura popolare minore e architettura aulica. Questa architettura si inserisce sull’asse maestro del piccolo cimitero e si impone con tutta la sua dimensione di fuori scala. Ancora una volta Botta, gioca con “la luce e gravità” (Botta, 2014) per esprimere il suo spazio sacro; la sua naturale capacità di generare profondità materica è accompagnata dalla sapienza della lavorazione lapidea. Il complesso monumentale ricorda per forma e profondità spaziale, “una ferita delle maestose cave di marmo” (Botta, 2011); un segno identitario che trova l’unico cedimento linguistico-compositivo, nell’immensa copertura in acciaio.*
Templi prêt-à-porter: l’estetica dello spazio sacro e la sua metamorfosi Prêt-à-porter temples: the aesthetic of sacred space and its metamorphose
Barbara Bergamaschi Dottoressa in architettura, laurea magistrale in culture del progetto presso l’Università Iuav di Venezia. barbara.bergamaschi@hotmail.com
Un butsudan domestico comune. Molly Solomon
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Con otto negozi di commercio al dettaglio, due centri commerciali affiliati e cinquantaquattro catene di outlets in tutto il mondo, corporazioni come la Yagiken stanno contribuendo a trasformare gli spazi sacri e la spiritualità Buddhista del Giappone odierno. Tale compagnia subì una drastica trasformazione che la vide passare da produttrice di oli lucidanti per macchinari ad abile interprete delle nuove tendenze sociali, tramite la risemantizzazione di uno dei prodotti più sacri ed antichi del Giappone: il Butsudan. Tra le strade di Tokyo, potrebbe capitare a molti di imbattersi in una di quelle vie, dove i negozi sono specializzati nella vendita di tali articoli. Lunghi scaffali espongono in fila svariati modelli di oggetti che appaiono come stretti armadi rimpiccioliti dalle bizzarre proporzioni, progettati e realizzati con i più disparati materiali e colori. Avvicinandosi ad essi non solo si nota la presenza di vasi in cristallo o porcellana, ma anche di ripiani il cui interno sarebbe troppo angusto per ospitare oggetti di uso quotidiano. Un Butsudan, letteralmente “altare del Buddha”, è originalmente un altare domestico personale, uno spazio sacro impiegato nelle case giapponesi e nei templi per venerare il Buddha e gli antenati di famiglia, per porgere offerte ai defunti e per richiedere la protezione della propria famiglia. Al suo interno vengono riposti oggetti sacri come le statue del Buddha, le tavole ancestrali degli antenati e, in caso di morte di un parente, il vaso con le relative ceneri per quarantanove giorni. Simbolicamente è il mezzo di comunicazione tra il mondo dei vivi e quello morti, nonché connessione diretta tra la famiglia e il luogo sacro del tempio. Tale legame è marcato anche dal fatto che il Butsudan è una miniatura del tempio: infatti le sue porte più esterne corrispondono al recinto che delimita lo spazio sacro, mentre la seconda serie di porte rappresentano le porte di ingresso alla casa del Buddha. La storia degli altari venerativi è complessa e sfaccettata, essi infatti risalgono al 686 d.C., anno in cui un editto imperiale ne impose il possesso poiché era credenza comune che solo tramite una costante venerazione fosse possibile calmare gli spiriti colpevoli di tusnami e terremoti. Il primo esempio di Butsudan, ora custodito nel tempio Hōryū-ji di Nara, è il santuario Tamamushi: il più raffinato esempio di architettura ed arte buddhista antica.
BIBLIOGRAFIA - Nelson J., “Household altars in contemporary Japan: rectifying Buddhist Ancestor Worship with home décor and consumer choice”, Japanese journal of religious studies, n.35,2008, pp. 305-330. - Nishi K., Hozumi K., “What is Japanese architecture? A survey of traditional Japanese architecture”, Kodansha International, Japan, 1985. - Rambelli F., “Home Buddhas: historical processes and modes of representation of the sacred in the Japanese buddhist family altar”, Japanese religions 35, n.1-2, 2010, p. 63-86. - Roemer M.K., “Thinking of ancestors and others at Japanese household altars”, Journal of ritual studies 26, 2012, p. 33-45. - Tarabini S., “Il Galateo Buddhista: Fede, Forma e Sostanza”, Edizioni Renkoji, Cereseto (AL), 2016. - Walley A., “ Flowers of compassion: the Tamamushi shrine and the nature of devotion in seventh-century Japan”, Artibus Asiae, vol. 72, 2018, p. 265-322.
Al giorno d’oggi però la pratica religiosa in Giappone e i relativi altari venerativi stanno subendo rapidi e importanti mutamenti, principalmente dovuti ad una minor interesse dei singoli individui verso la religione e a una incessante corsa verso una società in cui vigono consumismo, marketing e ricerca continua del nuovo. Come già detto, nuovi produttori del settore, localizzati anche in Cina e in Vietnam, commercializzano modelli come il Western style Butsudan, caratterizzato da un gusto “italiano” e dotato di un vaso di Murano per fiori, o altri dotati di schermo lcd per vedere video del deceduto e infine Butsudan per animali domestici. Si desume come l’uso, il significato e l’attenzione per il dettaglio tipicamente architettonico rispetto gli altari venerativi stia mutando profondamente, andando a risemantizzare non solo l’ideale di architettura sacra e valore artistico, ma anche un radicato valore culturale. Il pensiero e il dubbio che sorge davanti a questo processo è lampante: è questo un fenomeno che rappresenta un nuovo ideale di architettura e di religiosità, portavoce del pensiero odierno e di una nuova estetica mirata alla ricerca di una maggiore linearità o, invece, un processo di svalutazione?*
Pellegrinaggio alla roccia Pilgrimage towards the rock We investigated the theme of holiness while taking part in the design competition for a chapel on the island of Pessegueiro in Portugal. The site and its physical, historical and spatial characters suggested that the project shouldn’t be developed as an architectural object. The preferred strategy integrates spirituality and landscape
with strong references to historical design culture, while using the Acropolis of Athens as an ideal model. For the proposal’s graphical representation, we aimed at expressing a dynamic perception of the spaces through a narrative process. We hence decided to use the comic strip medium, and to tell the story of the physical and emotional pilgrimage to the island.*
Babau Bureau + Jenni Lazari BABAU BUREAU è uno studio di architettura e paesaggio fondato da Marco Ballarin, Stefano Tornieri, Massimo Triches a Venezia nel 2012; è stato selezionato nel 2019 all’European Award for Architectural Heritage Intervention e nominato all’EU Mies van der Rohe Award 2019. Jenny Lazari è architetto e realizza illustrazioni, collages e video attraverso i quali narra luoghi e ambienti urbani. babaubureau@gmail.com
l tema della sacralità è stato indagato attraverso la partecipazione a un concorso di architettura per la progettazione di una cappella presso l’isola di Pessegueiro, in Portogallo. Il luogo, per le sue caratteristiche fisiche, storiche e spaziali, ha spinto il progetto verso una soluzione non oggettuale preferendo una strategia in grado di fondere spiritualità e paesaggio con forti richiami alla cultura del progetto nell’antichità e trovando come modello ideale l’Acropoli di Atene. Gli elaborati del concorso, inseguendo una volontà narrativa che meglio trasmetta una percezione dinamica delle qualità dei luoghi, fanno uso della tecnica dell’illustrazione a fumetto che racconta l’esperienza del pellegrinaggio, sia fisico che emozionale, sull’isola. Il pellegrinaggio L’isola di Pessegueiro è un luogo dove la natura regna incontrastata: una roccia che giace tra la terra ferma e l’oceano, elementi questi che stanno al di là e al di sopra dell’esistenza umana. Queste entità divine sono in contrasto con le rovine delle opere artificiali presenti sull’isola, incompiute presen-
ze che richiamano gli sforzi umani per domare la natura. Senza dubbio questo ambiente già costituisce un luogo di meditazione, interiorità e silenzio. L’isola, se vista come una roccia sacra, è comparabile, nel simbolismo e nella dimensione reale, a quella dell’Acropoli; un’isola metaforica situata nel cuore della città di Atene. La collina dell’Acropoli era un luogo di culto per gli antichi ateniesi, il punto finale di una santa processione (πομπή) attraverso la città. Sull’Acropoli erano collocate varie strutture di funzioni e ambienti diversi, ma la sua sacralità aveva fortemente a che fare con la roccia stessa in quanto unità, come spazio di riflessione all’aria aperta. Esso dà quindi significato ad una promenade narrativa: dopo aver scalato un percorso a spirale fino all’ingresso dei Propylaea, ci si può disperdere tra le presenze dell’Eretteo, della statua di Athena Promachos o del Partenone, seguendo la topografia del luogo. Analogamente, l’isola di Pessegueiro, una roccia divina modellata dalle onde dell’oceano, diventa essa stessa il luogo della spiritualità.*
THE SILHOUETTE OF THE ROCK REVEALS ITSELF FROM THE DISTANCE. THE PILGRIM APPROACHES THE “CHAPEL OF PESSEGUEIRO”, FLOATING THROUGH THE NATURAL HARBOR THE ISLAND CREATES. THIS IS THE PREPARATION FOR A JOURNEY OF REFLECTION.
STANDING IN FRONT OF THE CHAPEL’S ENTRANCE, THE “PROPYLAEA”, THE PILGRIM REALIZES THERE IS NO UNIQUE ENTERING POINT, BUT RATHER A SEQUENCE OF SLITS BETWEEN ROCK OBELISKS, PART OF THE MYSTERIOUS QUARRY IN THE NORTH OF THE ISLAND.
ALL OF THE SLITS SURPRISINGLY LEAD TO THE SAME INNER SPACE, AN UNDERGROUND CAVELIKE ENVIRONMENT, WITH ONLY A FEW SUNBEAMS BREAKING THROUGH THE CEILING. THE PILGRIM LOSES ANY SENSE OF ORIENTATION AND CONSCIOUSNESS OF SURROUNDINGS.
ALONG THE UNDERGROUND PATH, THE SUN GRADUALLY INFILTRATES MORE AND MORE THROUGH CEILING OPENINGS. THE PILGRIM ARRIVES ONCE MORE IN OPEN-AIR SPACE, SENSES THE SMELL AND SOUND OF THE OCEAN, BUT STILL CANNOT GRASP THE EXACT LOCATION…
…BECAUSE THE PATH AHEAD SEEMS TO BE A DEAD-END. NO LONGER UNDER A CEILING, YET STILL BETWEEN WALLS, THE PILGRIM APPROACHES THE APPARENT END OF THE PATH, WIDENED ENOUGH TO CREATE A FIRST REST SPACE. IT IS APPARENT NOW THAT A SUSPENDED BEAM HAS BEEN BLOCKING THE VIEW, AND THAT THE PATH REACHED THE OCEAN.
BEING REORIENTED, THE PILGRIM CAN CONTINUE ALONG THE PATH WHICH CUTS THROUGH THE ROUGH TOPOGRAPHY OF THE ISLAND’S WEST COAST: A RESTLESS ROCKY LANDSCAPE TOSSED BY THE WIND AND THE OCEAN WAVES. THE ROUTE CONSTANTLY DIFFERS IN CURVES AND INCLINATIONS, SOMETIMES BEING HIDDEN BETWEEN THE ROCKS, SOME OTHERS LEAVING THE PILGRIM SIMPLY EXPOSED TO NATURAL ELEMENTS, EVEN FALSELY LEADING TO THE SEA SHORE.
THIS UNEASY PART OF THE JOURNEY FINDS A END IN THE SOUTHERN PART OF THE ISLAND, WITH THE PATH GRADUALLY BECOMING UPHILL TO REACH A SMALL NATURAL PICK OF THE TERRAIN. THERE, THE PILGRIM FINDS A SECOND REST SPACE AND HAS AN OVERVIEW OF THE PILGRIMAGE: THE HIGHEST POINT WITH THE FORT RUINS, THE APPARENT DESTINATION, AS WELL AS THE WEST AND EAST COAST PATHS, ARE ALL VISIBLE. ONE MAY REALIZE WHAT IS LEFT BEHIND AND WHAT IS STILL LYING AHEAD.
THE FINAL PART BEFORE REACHING THE PICK, IS A JAGGED ROUTE, CARVED ALONG THE ROCK’S CONTOUR LINES. THE PILGRIM CANNOT SEE THE DESTINATION, BUT IS FILLED WITH ANTICIPATION TO ARRIVE THERE.
WITH WILLFUL STEPS, THE PILGRIM FOLLOWS THE PATH UNFOLDING ON THE GROUND LEVEL THROUGH THE ISLAND’S WILD VEGETATION. WHEN PASSING AMONG THE ANCIENT ROMAN REMAINS, SCATTERED TRACES OF HUMAN PAST, THE PATH DISSOLVES ALMOST TO BECOME PART OF THEM.
THE PILGRIMAGE REACHES SOME KIND OF CLIMAX. THE PILGRIM, NOW AT THE TOP OF THE ISLAND, ENTERS THE SPACE ENCLOSED BETWEEN THE RUINED WALLS OF THE OLD FORT. HERE ONE CAN FIND A TRUE SPACE OF MEDITATION, AN AMPHITHEATER LOOKING AT THE SKY, A SPIRITUAL SURFACE TO CONNECT WITH THE GROUND, A CARPET TO PRAY, TO REFLECT INTO ONESELF AND INTO THE GREATNESS OF NATURE.
THE PILGRIMAGE COMES TO A PEACEFUL END. THE PILGRIM, WITH A SENSE OF PURIFICATION, DESCENDS INTO A PATH THAT LEADS BACK TO THE ORIGINAL START OF THE JOURNEY, THE LITTLE BAY BY THE SEASHORE THAT FACES THE PORTUGUESE MAINLAND.
Mattia Cocozza Dottore in Ingegneria Edile - Architettura, collaboratore alla didattica DICEA, Università degli Studi di Napoli Federico II. mattiacocozza@gmail.com
e pietre del passato, cariche di uno straordinario potere evocativo, immediatamente ci riconducono al concetto di memoria. Una memoria universale, collettiva, nella quale affondano le radici culturali e identitarie di un’intera comunità. I frammenti di archeologia urbana godono, pertanto, di un’ineluttabile aura di sacralità, eppure, sempre più spesso, divengono oggetto di abbandono e noncuranza. Incredibilmente, così, i luoghi del ricordo e della memoria si tramutano in spazi dimenticati, isolati, fuori dalla vita della contemporaneità. Tale condizione diviene ancora più parossistica se i manufatti archeologici sorgono nel cuore pulsante della città, lì dove lo stato di isolamento delle rovine, spesso generato da ciechi recinti, mette in evidenza una incapacità del tempo presente di confrontarsi attivamente con le tracce della storia. È il caso del complesso archeologico di Carminiello ai Mannesi, un sito di straordinario fascino localizzato nel nucleo antico di Napoli, ricco di stratificazioni, materiali e immateriali, che spaziano dall’età repubblicana sino al Settecento. Il nome del sito ne rivela implicitamente la storia avvincente: nel 1943, sotto le bombe della Seconda guerra mondiale, crolla la piccola
chiesa di S. Maria del Carmine ai Mannesi, lasciando spazio a una scoperta formidabile e inattesa. Emerge improvvisamente dal corpo di un’insula doppia, delimitata a nord da via Tribunali e a ovest da via Duomo, un complesso archeologico ricchissimo per stratificazione funzionale e temporale, ove coesistono una domus, dei magazzini, delle terme e un mitreo. I numerosi rimaneggiamenti subiti dalle strutture nel corso dei secoli appaiono evidenti, ma è proprio in questo che risiede la straordinarietà di questo sito, capace di mostrare senza soluzione di continuità tutti i tempi che ha vissuto la città. Si trat-
ta, inoltre, di un unicum nel palinsesto napoletano, perché i frammenti archeologici, a differenza di quanto accade altrove, emergono alla quota della città contemporanea. Tale natura inedita è oggi contraddetta dal muro cieco che cinge l’intero complesso, un paravento questo, dietro il quale prosegue incontrastata da anni la profanazione, all’insaputa della città, omertosa o dormiente, di una delle più preziose testimonianze della Neapolis greco-romana. Ne deriva una condizione di emarginazione, oserei dire altresì di “imprigionamento”, che se mirava a difendere l’area archeologica dalle intrusioni illecite, a costo di
01. Una veduta del sito archeologico di Carminiello ai Mannesi: oltre il recinto. Mattia Cocozza
La memoria profanata
Un caso di archeologia urbana a Napoli The profaned memory Urban archaeology fragments are characterized by an unquestionable aura of “holiness”, and yet, more and more often, they become abandoned and disregarded places. It is exactly the case of Carminiello ai Mannesi’s archaeological complex, a magnificent site located in
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Napoli’s historical centre, nowadays denied to the city due to a blind wall that surrounds the whole area. This wall, during the last years, has turned into a shield, behind which keeps going on the profanation of one of the most precious testimonies of the Neapolis graeco-roman city.*
L'ARCHITETTO
03. Il complesso archeologico di Carminiello ai Mannesi. Stratificazione funzionale. Mattia Cocozza
02. Il cieco recinto che nega la relazione delle rovine con la città. Mattia Cocozza
incapsulare le rovine, ha in ogni caso fallito nel suo intento. Perché, allora, non intervenire per ricucire il rapporto tra tempi differenti della città, in un dialogo armonico che non teme confronti? “L’archeologia presenta sempre una ricostruzione, nel senso che ci spinge ad una ricostruzione”, sottolinea Aldo Rossi, mettendo in luce come i frammenti del passato altro non siano che il risultato dell’azione modellante del tempo su architetture una volta progettate (Rossi, 1999). È proprio la sacralità di questi lacerti di memoria, il cui più alto valore non deriva certamente solo dalla loro antichità, a rendere anacronistico e superato il dualismo tra presente e passato. “Ciò che presiede a questi fatti”, asserisce d’altro canto con forza Alberto Ferlenga, “è il tempo dell’architettura, un tempo soggetto ad accelerazioni e ritorni, legato ad evoluzioni lente, a spazialità che mantengono la loro riconoscibilità a distanza di millenni perché destinate a dare risposta ad esigenze umane basilari come l’abitare, il morire o il celebrare” (Ferlenga, 2010). La riscoperta delle tracce del passato ci obbliga, dunque, a ripensare e rileggere completamente la morfologia di un luogo, stimolando in maniera propulsiva il processo di trasformazione e di reinterpretazione volto a restituire le rovine alla città. Il caso studio proposto appare, in questo senso, pre-
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le rovine esistono attraverso lo sguardo che si posa su di esse gno di significati, offrendo un’occasione progettuale straordinaria per incidere sul destino di questo eccezionale spazio urbano, sì “sacro” ma allo stesso tempo – avrebbe detto Ruskin con straordinaria lungimiranza quasi due secoli fa – di tutti. Se è vero che “le rovine esistono attraverso lo sguardo che si posa su di esse” (Augé, 2004), ancora più manifesta emerge con vigore la necessità di rimuovere il già citato recinto, un ostacolo che impedisce oggi una qualsiasi forma di relazione, fisica e concettuale, dell’archeologia con la città “viva” di Napoli. Una città definita “pitagorica”, che conserva inalterato da millenni il proprio impianto urbano per strigas, rivelatosi una matrice capace di conferire alla città contemporanea un’inedita immagine di unitarietà (Amirante, 2011). Siamo oggi chiamati a tutelare, dunque, l’immagine di ancestrale e “inafferrabile” continuità che ha da sempre caratterizzato Napoli, intervenendo sulle rovine attraverso una forma di “profanazione progettata” affinché
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queste continuino a vivere nel presente e non si tramutino esclusivamente in oggetto di sterile “curiosità archeologica”1 (Pane, 1959). Perché questo si verifichi è necessario che la città contemporanea si riappropri, con impeto, di un brano urbano dimenticato, colmando il salto di quota - e con esso il gap ideologico - tra la “città di pietra” e la “città degli uomini”. L’innesto contemporaneo potrebbe, pertanto, protendersi verso le rovine, come a voler ampliare lo spazio pubblico della città, offrendo ad abitanti e fruitori del sito un nuovo “luogo dello stare” prima ancora che un “luogo da visitare”. Una realtà urbana complessa e ricca di contraddizioni, quale quella napoletana, non necessita infatti, probabilmente, di grandi architetture di immagine autoreferenziali, quanto piuttosto di pochi e semplici gesti progettuali, capaci di mutarne con vigore le sorti.* NOTE 1 – A tal proposito Roberto Pane scrive: “se il nuovo e l’antico non possono sussistere insieme vuol dire che tra noi e il passato si è prodotta una incolmabile frattura, sicché il passato può fornirci solo motivi di curiosità archeologica, visto che non giova più ad illuminare il nostro presente”. BIBLIOGRAFIA - Amirante R., “Napoli città pitagorica”, in Izzo F., Vanacore R. (a cura di), “YearBook 2009/10 Master di II Livello Progettazione di eccellenza per la città storica”, Paparo Edizioni, Napoli, 2011, p. 46. - Augé M., “Rovine e macerie. Il senso del tempo”, Bollati Boringhieri, Torino, 2004. - Ferlenga A., “Il dialogo interrotto delle rovine di ogni tempo”, in “Giornale Iuav”, 2010, n. 81, p. 2. - Pane R., “Città antiche, edilizia nuova”, ESI, Napoli, 1959. - Rossi A., “Architettura analitica – Città analoga”, in Dal Co F. (a cura di), “I Quaderni Azzurri 1968-1992”, Electa, Milano, 1999.
Candida Maria Vassallo Architetto PhD, relatrice del corso cfu liberi “Architettura e Post-Emergenza”, Dipartimento di Architettura, Università Federico II di Napoli. candidamaria.vassallo@unina.it
al 1734, la Parrocchia di San Pedro Apostol1 costruisce un forte legame identitario tra la fede, le tradizioni, le abitudini della comunità nel villaggio di Loboc. Nel corso degli anni, la posizione centrale, a ridosso del fiume Loay e della strada principale, ha generato l’aggregazione di diversi edifici pubblici intorno alla piazza antistante, permettendo una vita serena agli abitanti e una calorosa accoglienza ai fedeli e ai turisti, fino a diventare un riferimento importante per l’intera isola di Bohol. Un riferimento che, il terremoto del 2013, ha profondamente stravolto con il crollo della facciata e del transetto della chiesa, del 1° e 2° piano del convento e del campanile (img. 01-02). In un istante, quel modo di organizzare il tempo collettivo, scandito in riti liturgici, credenze popolari e usi quotidiani, è imploso repentinamente nelle rovine dello spazio sacro. Oltrepassando l’immediata distruzione, il tempo di transizione si è dilatato per cinque anni, generando una profonda trasformazione della percezione del futuro e della visione del passato. Questa trasformazione è stata oggetto di una sperimentazione svolta nel corso “Architettura e Post-emergenza” DiARC-UNINA
01. Parrocchia di San Pedro Apostol di Loboc, nell’isola di Bohol, Filippine: viste pre e post-terremoto .CoA-UPD; Google earth
02. Loboc, Vista generale. Planimetria con studio delle relazioni geometriche: la chiesa ed il convento seguono una rotazione di 21° rispetto al Nord (7 il riposo di Dio x 3 Trinità), il campanile di 12° rispetto alla chiesa (12 Apostoli di Gesù) e il battistero di 9° rispetto al Nord (3 x 3 Trinità). Vassallo 2016/2017
Terremoto: il sacro in profano Parrocchia di San Pedro Apostolo di Loboc, nell’isola di Bohol The earthquake: the sacred in the profane The article presents the post-earthquake transformation of the Loboc Parish through a design experimentation carried out, with the students of the course "Architecture and Postemergency" DiARC-UNINA ay2017/2018, within the International Agreement DiARC-UNINA
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and CoA -UPD. Using an interactive process method, open systems have been designed with transformable elements, in which the memory of the ruins takes on a different function and meaning in order to contribute to the construction of a renewed daily balance at the service of the community.*
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03. Processo progettuale post-terremoto per la Parrocchia di Loboc, isola di Bohol, Filippine, Stefano Cuntò. Miano et al., 2019
il tempo collettivo è imploso repentinamente nelle rovine dello spazio sacro
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a.a. 2017/2018, all’interno dell’Accordo Internazionale DiARC-UNINA e CoAUPD2. Utilizzando un metodo processuale interattivo, in soli cinque giorni, le scelte progettuali sono state guidate per risolvere, dalle più semplici alle più complesse, problematiche post-terremoto. Tale metodo è stato fornito non come uno schema rigido, piuttosto come una guida flessibile permettendo, a ciascun gruppo, di elaborare e personalizzare il proprio tragitto processuale per definire soluzioni in grado di migliorare la condizione di normalità precedente al disastro seguendo i principi build back better. Sulla base di un’indagine approfondita, è
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stata sviluppata un’analisi trasversale delle relazioni funzionali tra tutti gli spazi, architettonici ed urbani, esistenti per capire le influenze, le integrazioni, i problemi che ne hanno profondamente trasformato l’uso quotidiano collettivo. L’analisi, svolta direttamente sulla planimetria generale, ha consentito, da un lato, un’immediata destrutturazione e localizzazione dei fattori contestuali (limiti/limits e vulnerabilità/vulnerability) e, dall’altro, una strutturazione di soluzioni progettuali appropriate che soddisfacessero le esigenze/needs, sviluppando le potenzialità sociali, culturali, economiche e turistiche (img. 03-04). In particolare, la destrutturazione e
la localizzazione dei limiti (territoriali, climatici, economici, normativi, materiali, tecniche costruttive) in relazione causa/effetto alle vulnerabilità (territoriale, strutturale, sociale) ha permesso sia di comprendere la complessità dei problemi (pre e post-disastro) che di individuare ed ottimizzare le risorse locali per ridurre le vulnerabilità e per soddisfare le esigenze, emotive e funzionali, della comunità attraverso specifiche azioni progettuali. Il passaggio limiti-vulnerabilità-azioni è avvenuto attraverso un ragionamento critico sulle esigenze cresciute intorno al vuoto che, generato dalla perdita dell’identità sacra, separa nettamente la comunità dai turisti. Una separazione caratterizzata da identità frammentate e dissonanti che cominciano a coesistere, senza dialogare, dopo un anno dal terremoto, quando la funzione sacra viene messa in discussione con la costruzione della nuova chiesa in cemento armato che, con la sua posizione decentrata rispetto alla piazza, ha creato nuove relazioni con gli edifici pubblici circostanti utilizzati dalla comunità e, nel contempo, ha negato ogni relazione con la piazza, la strada principale, il fiume, il ponte pedonale utilizzati dai turisti. Pertanto l’esigenza principale è stata quella di ricucire questa frattura identitaria per poter rimettere in moto l’economia dell’intero villaggio ricostruendo un nuovo equilibrio nei tempi e negli spazi collettivi. Tempi e spazi che sono sopravvissuti, in un luogo sospeso ed abbandonato, per continuare a raccontarsi, non attraverso la storia, schematica ed universale, dello spazio sacro bensì, in modo dinamico, senza interruzione, come il flusso continuo ed ininterrotto della memoria collettiva che, appartenendo a diversi gruppi della comunità, non è mai unica ma esiste nella sua pluralità (Halbwachs, 1997). La memoria che “è un fattore dell’identità [...] e ne è anche l’espressione” pertanto essa può essere selezionata, trasformata, evoluta dalla comunità fino a ricomporre un’identità con un nuovo significato (Jedlowski, 2002; Assmann, 2002). Analogamente ad Alburquereque, Dimiao, Dauis e Loon, in
04. Processo progettuale post-terremoto per la Parrocchia di Loboc, isola di Bohol, Filippine. Anna Buonfiglio, Marika De Falco, Ciro Mascolo. Miano et al., 2019
cui è stato utilizzato lo stesso approccio processuale, anche per Loboc l’attenzione non è stata rivolta esclusivamente agli edifici sacri danneggiati ma alla trasformazione che questi danni hanno generato nell’intero insediamento per definire un tracciato metodologico che offre riflessioni utili rispetto a casi analoghi, allargando il campo delle possibilità nelle decisioni progettuali e sugge-
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la memoria, spogliandosi dalla sua rigida sacralità, rinnova il suo significato e la sua funzione
L'ARCHITETTO
rendo alternative nella ricostruzione post-emergenza filippina. Pe rtanto, l’applicazione del metodo non conduce ad un progetto di conservazione e restauro per restituire la centralità del ruolo religioso, bensì all’impostazione di un progetto urbano come processo, in cui la memoria sacra viene restituita con un ruolo sociale per diventare il motore di un sistema che migliori la vita della comunità. Un sistema aperto “capace di aggiornarsi continuamente [...] per rispondere con efficacia” alle calamità future (Terpolilli, 2006). Un sistema aperto in cui gli edifici esistenti e gli spazi sopravvissuti ristrutturati (lo slargo tra la nuova chiesa e le rovine, la piazza, gli argini del fiume, il ponte pedonale) si connettono attraverso elementi architettonici che contengono nuove funzioni come le area mercato, aree verdi attrezzate, aree sportive, servizi turistici (infopoint, bus stop, boat stop su entrambi i lati del fiume), percorsi ombreggiati, parcheggi. Tali elementi sono composti da strutture resistenti low-cost, leggere e modulari che, realizzate in autocostruzione con materiali (legno di bambo e di cocco) e tecniche costruttive locali, sono semplici, veloci ed economiche da montare, smontare, assemblare, manutenere, e soprattutto da trasformare.
Seguendo lo stesso approccio, anche per il rudere della chiesa, del convento e del campanile è stata data la possibilità di innestare nuovi elementi all’interno delle strutture murarie in pietra di corallo consolidate o, in alternativa, di lasciare il rudere come un recinto aperto al cielo. Assecondando le richieste della comunità, in entrambi i casi, la memoria delle identità sacre diviene la forma di nuove funzioni (teatro, museo, ristorante, laboratori artigianali), oppure conserva solo nell’abside la sua antica funzione religiosa. Mentre il transetto assume una nuova veste di piazza che unisce, nel suo attraversamento trasversale, il fiume, la memoria, la nuova chiesa e quindi i turisti alla vita della comunità (Miano et al, 2019). Dunque, le diverse soluzioni progettuali sono accomunate dalla volontà di attivare un processo di miglioramento, per e con la comunità, partendo dalla memoria di un’importante architettura che, spogliandosi dalla sua rigida sacralità, rinnova il suo significato e la sua funzione e, nello stesso tempo, diviene l’origine di nuove forme e nuove relazioni (img. 04-05). Forme trasformabili che, per soddisfare appieno le esigenze, hanno il compito sia di permanere nel tempo, senza bloccare l’evoluzione dell’identità (permanenza relativa), che di emergere,
05. Processo progettuale post-terremoto per la Parrocchia di Loboc, isola di Bohol, Filippine, Alessandra Mustilli. Miano et al., 2019
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ossia rinnovarsi partendo dal passato e proiettandosi nel futuro (emergenza in continuità), costruendo nuove funzioni e nuove relazioni (Paci, 1956). Relazioni che si intessono sulla consapevolezza “che modellare il nostro ambiente fisico non significa applicarvi uno schema formale fisso, ma vale piuttosto un continuo, interno sviluppo, una convinzione che va continuamente ricercando il vero, al servizio dell’umanità”, ossia “non esiste un punto terminale in architettura, c’è solo mutamento ininterrotto” (Gropius,1955).* NOTE 1 – Nel 1596, costruirono la 1a chiesa in materiali leggeri, nel sito di Calvario poi incendiata nel 1638. Nel 1670 fu costruita la 2a chiesa, che corrisponde al convento ed è l’edificio più antico di Bohol. Nel 1734 fu costruita la chiesa attuale in pietra di corallo, nel 1768 gli Agostiniani Recolletti costruiscono la torre campanaria e dal 1863 al 1896 aggiunsero il portico alla facciata, la copertura del tetto, la cappella mortuaria, i contrafforti e le decorazioni al soffitto della navata centrale (Eleazar et al, 2014). 2 - L’accordo internazionale tra il DiARC-UNINA e il CoA-UPD è stato firmato nel 2015 con lo scopo di sviluppare attività di didattica e di ricerca nel campo della progettazione architettonica post-emergenza nelle Filippine. In particolare, il progetto di ricostruzione post-terremoto 2013 dei complessi religiosi di Alburquereque, Dimiao, Loon, Loboc, Dauis, nell’isola di Bohol, sono casi studio sviluppati, nel PhD dell’autrice ed in quattro tesi di laurea DiARC-UNINA, con diverse missioni in loco svolte dal 2015 al 2017. BIBLIOGRAFIA - Assmann A., “Ricordare. Forme e mutamenti della memoria culturale”, Il Mulino, Bologna, 2002, p. 149. - Eleazar J., Bersales R., “PAGSULAY Churches of Bohol Before and After the 2013 Earthquake”, USC PRESS, Manila, 2014, pp. 159-165. - Gropius W., “Architettura integrata”, Il saggiatore, Milano,1955. pp. 93, 95. - Halbwachs M., “La mémoire collective”, Édition critique établie par Gérard Namer, Albin Michel, Paris, 1997, pp.130. - Jedlowski P., “Memoria, esperienza e modernità. Memorie e società nel XX secolo”, Milano: Franco Angeli, Milano, 2002, p. 52. - Miano P., Vassallo C. M., “Post-earthquake design process for Loboc Church Paris in Bohol Island, Philippines” in ES.PA.SYO Journal of Philippines Architecture and Allied Arts, Vol. 8, National Commission for Culture and Arts, Philippines, 2019, in corso di pubblicazione. - Paci E., “Problematica dell’architettura contemporanea”, in AUT AUT 333, Architettura e filosofia, Il Saggiatore, Milano, 2007, original version 1956 in Casabella-continuità, 209, 1956, p.21. - Terpolilli M., “Temporaneo e transitorio nell’architettura contemporanea” in Emergenza del progetto – progetto dell’Emergenza, R. Bologna, C. Terpolilli, Editore F. Motta, 2006, p.9.
Margherita Fiorini Studentessa di Architettura, dipartimento di Tecniche e culture del progetto Iuav. m.fiorini1@stud.iuav.it Michele Anelli-Monti Studente di Architettura, dipartimento di Costruzione e conservazione Iuav. m.anellimonti@stud.iuav.it
The age of Profanation We are beings who consume and forget. The sacredness of the limit has been traded in exchange for the great illusion of our age: the inexhaustibility of resources. The text investigates the concept of limits starting from the contribution of Latouche. We have profaned the nature by bulimically building and voraciously subtracting resources. Man inevitably consumes: the problematic nature of this act lies in the variation of its quantity which has compromised its quality. The exhaustion of fossil fuels, together with the overpopulation that characterizes many areas of our planet, deserves to be followed closely, both to locate it precisely between the various causes of global warming, and to insinuate in ourselves a new instance: our cities will still be habitable? What does it mean to live in the limit? The text intends to use the motivations behind new forms of inhabiting, living and building, outlining some examples in the contemporary world. Only in this way, by opposing what is defined by A. Gosh as the “Great Blindness” of our times, it is possible to rediscover the sacredness of the limit. Rethinking our way of living is not the consummate warning of “experts”, but the personal need of every human being to guarantee a future: not catastrophism but survival instinct.*
ra le varie interpretazioni etimologiche della parola sacro, che viene ricondotta in primo luogo alla forma latina sacer, -cra, -crum, ve ne è una collegata all’accadico sakāru, sekērum: sbarrare, impedire l’accesso, interdire (Semerano, 1994). Il tema della sacralità è legato alla separazione, dunque alla limitatezza. Il pensiero greco classico si snoda in una dicotomica visione del mondo, che contrappone il limite (pèras) all’illimitato (àpeiron). È proprio la giusta misura del limite, come sembra indicare il precetto aristotelico “chi non conosce il suo limite tema il destino” a permettere la
pienezza, mentre la dismisura (hybris) viene considerata la corruzione etica più grave. La società occidentale, cresciuta in seno alla cultura giudaico-cristiana, ha traslato il valore di limite da pienezza a mancanza. L’infinito e l’illimitato sono diventati attributi del divino, umani il limitato e il finito: il limite diventa così segno di dipendenza, imperfezione, inferiorità (Rigotti, 2016). “Sostituendo il sacro con la ragione e la scienza, il mondo moderno ha perduto ogni senso dei limiti e ciò facendo ha sacrificato il senso stesso. Quando la finitezza della condizione umana è percepita come alienazione
01. Greater Burhan Oil Field, Kuwait 1991Greater Burhan Oil Field, Kuwait 1991. Sebastião Salgado
L’età della Profanazione Riabitare il limite nell’epoca del sovra-consumo
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02. Greater Burhan Oil Field, Kuwait 1991Greater Burhan Oil Field, Kuwait 1991. Sebastião Salgado
e non come fonte di senso, si perde qualcosa di infinitamente prezioso in cambio del perseguimento di un sogno puerile” (Dupuy, 2012). Qual è il sogno puerile della nostra epoca? Il senso della misura non corrisponde alle logiche del nostro comportamento. L’inseguimento della crescita infinita, in un mondo di risorse finite, ha infatti colonizzato il nostro immaginario tanto da aver reso il denaro, per noi, non più un mezzo per rispondere a bisogni quanto il fine a cui adattare bisogni e mezzi (Fini, 2012). L’iperconsumo, “un livello di produzione che supera il soddisfacimento dei bisogni”, viene quindi a identificarsi con la crescita che, diversamen-
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te dal progresso, è ormai “un’escrescenza paragonabile alla metastasi del cancro” (Latouche, 2010). Questa necessità di consumo, in parte intrinseca nell’uomo, ha oltrepassato l’impronta eco-logica sostenibile. L’overshoot day1 nel 2018 è stato il 1° agosto, portandoci a consumare risorse non rinnovabili per 5 mesi. Il sovra-sfruttamento delle risorse fossili che hanno prodotto il (nostro) attuale benessere è notoriamente in esaurimento. Esso ha causato il surriscaldamento del pianeta che produrrà, con tutta probabilità, una polarizzazione del clima e un aumento esponenziale degli eventi climatici catastrofici, oltre allo scioglimento
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quando la finitezza della condizione umana è percepita come alienazione e non come fonte di senso, si perde qualcosa di infinitamente prezioso
03. BedZED, Londra. Tom Chance
dei ghiacci, l’acidificazione dei mari e la corruzione delle vitali correnti marine (Mercalli, 2018). È catastrofismo o istinto di sopravvivenza parlare di questi fatti? L’edilizia, secondo i dati forniti dall’ANAB2, è responsabile del consumo del 45% dell’energia prodotta in Europa, del 50% dell’inquinamento atmosferico in Europa3, utilizza il 50% di risorse naturali e produce il 50% dei rifiuti annui (Goldmann, Cicalò, 2012). Già nel 1972 il Club di Roma4 affermava che “per impostare seriamente il problema e partire correttamente, è necessario che il contenuto dei limiti dello sviluppo venga accettato, con tutta la sua urgenza” (Club di Roma, 1996).
Lo stiamo facendo o è “come se la prospettiva di un suicidio collettivo ci sembrasse meno insopportabile della rimessa in discussione delle nostre pratiche e del cambiamento dei nostri stili di vita” (Latouche, 2010)? Se non ci saranno più le risorse per vivere e agire con tutte le possibilità di oggi e i problemi saranno maggiori, sorge inquietante il dubbio riguardo alla futura vivibilità delle nostre città. Cosa significa dunque abitare nel limite? BedZED5, il noto quartiere “sostenibile” di Londra, è un buon esempio di ciò che deve diventare la norma nelle nostre città: un’architettura autosufficiente. La progettazione è in questo
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la ricerca nell’ambito dell’autosufficienza e verso il minimo impatto ecologico non può essere solo un esercizio accademico
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caso un processo lungo e partecipato, che coinvolge le istituzioni e i fruitori per realizzare 84 appartamenti. I criteri di progettazione sono stati l’utilizzo di materiali ecologici e di recupero, il risparmio energetico e idrico, oltre che un tentativo di autosufficienza energetica, seppur non totale. È stata inoltre data molta importanza all’educazione ambientale degli utenti e alla riproducibilità del modulo. Un’altra strada percorribile - specialmente nel breve termine - è quella di edifici con carattere puntiforme, poco costosi, pensati per un numero ristretto di abitanti: le Earthships6 si configurano come il prodotto di un’autocostruzione creativa. La loro grande virtù è permettere, grazie a un sistema tecnologico integrato, di rendere l’abitazione “off-grid”7. Il recupero delle acque, associato a un sistema idroponico nella serra solare – sempre esposta a sud – permette anche la produzione di cibo con un orto (Mercalli, 2016). Inoltre, ventilazione naturale, autonomia energetica e una notevole massa termica dell’edificato contribuiscono a renderla
un’architettura autonoma, in grado di proporre un nuovo concetto nella progettazione: un edificio capace di rispondere ai bisogni primari dell’uomo con minimo impatto ambientale (Berners Lee, 2013). La ricerca nell’ambito dell’autosufficienza e verso il minimo impatto ecologico non può essere solo un esercizio accademico, essa è legata all’impellente necessità di ri-abitare la sacralità dei limiti del pianeta per non estinguersi. È “la più grande avventura con cui siamo chiamati a confrontarci dall’inizio della nostra presenza terrestre: come vivere a lungo, noi e le altre specie viventi, su un pianeta dalle risorse limitate, senza comprometterne il rinnovamento e mirando a una buona vita” (Mercalli,2011).*
NOTE 1- L’ Earth Overshoot Day (EOD) è, secondo la definizione di Stefano Mancuso in “La Nazione delle Piante”, “il giorno dell’anno in cui l’umanità, avendo consumato l’intera produzione di risorse che gli ecosistemi terrestri sono stati in grado di rigenerare per quello stesso anno, inizia a consumare risorse che non saranno più rinnovabili: dopo questo giorno l’uomo vive erodendo le risorse del pianeta” (Mancuso, 2019). Per la UE nel 2019 è stato il 10 maggio. L’EOD è calcolato ogni anno dal Global Footprint Network, un’organizzazione internazionale no profit con sedi in Svizzera e US.
04. Esempio di Earthship off-grid. Earthsip Biotecture
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2 - Associazione Nazionale Architettura e Bioecologia. 3 - Viene calcolata sia l’energia per produrre i materiali, oltre a quella utilizzata per mantenere in buono stato e in funzione gli edifici. 4 - Associazione non governativa formata da scienziati, economisti e capi di Stato che nel 1972 commissionò al MIT la ricerca relativa a “I limiti dello sviluppo”. 5 - Beddington Zero Energy Development è un complesso edilizio realizzato tra il 2000 e il 2002 su progetto di Bill Dunster. 6 - Nascono dalle sperimentazioni negli anni ‘70 dell’architetto Michael Reynolds a Taos, New Mexico. 7 - Letteralmente “fuori dalla rete”, è un concetto che si lega alla filosofia dell’autosufficienza, del riuso, dell’indipendenza e la minimizzazione gli sprechi. Si veda: “Off the Grid: Houses for Escape”, di Dominic Bradbury, 2019. BIBLIOGRAFIA - Berners Lee M., “La tua impronta. Scopri l’impatto ambientale di ogni cosa. Da una pinta di birra a un viaggio nello spazio”, Terre di Mezzo, Milano, 2013. - Dupuy J.P., “La Marque du sacré”, in S. Latouche, “Limite”, Bollati Boringhieri, Torino, 2012, p.1. - Fini M., “Il denaro. Sterco del demonio: un’affascinante scommessa sul nulla”, Marsilio, Venezia, 2012. - Goldmann I., Cicalò A., “Architettura Sostenibile”, Edizioni FAG, Milano, 2012. - Latouche S., Harpagès D., “Il tempo della decrescita”, Eleuthera, Milano, 2010. - Mancuso S., “La Nazione delle Piante”, Laterza, Roma, 2019. - Mercalli L., “Prepariamoci a vivere in un mondo con meno risorse”, Chiarelettere, Milano, 2011. - Mercalli L., “Il mio orto tra cielo e terra. Appunti di meteorologia e ecologia agraria per salvare clima e cavoli”, Aboca, 2016. - Mercalli L., “Non c’è più tempo”, Einaudi, Milano, 2018. - MIT, Club di Roma, “I limiti dello sviluppo”, 1972, in S.Lironi, “Ecologia dell’abitare”, Edizioni GB, Padova, 1996, p.20. - Rigotti F., “Limite”, in www.doppiozero.com, 2016, (presa visone luglio 2019). - Semerano G., “Le origini della cultura europea”, Vol. II, Olschki, Firenze, 1994.
Simone Amato Cameli Studente presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia. s.a.cameli24@gmail.com
Squaring the circle Attempts towards squaring the circle led to the discovery of the intrinsic limitations of human rationality. Nowadays, concepts such as irreducible unforeseeability and unknowability have become part of science. This fundamental philosophical shift implies a mutation also in the meaning of “design” – a change of what generative design is the most important expression. This new approach incorporates unforeseeability into the design process, resulting in a new aesthetics spontaneously generated by the object’s autopoiesis.* ual è ‘l geometra che tutto s’affige / per misurar lo cerchio, e non ritrova, / pensando, quel principio ond’elli indige / tal era io a quella vista nova: / veder volea come si convenne / l’imago al cerchio e come vi s’indova”. Con queste parole, nell’ultimo canto del Paradiso, Dante ci introduce nella dimensione più sublime del sacro: la visione di Dio. Per comunicare l’ineffabile per eccellenza, il Poeta utilizza l’immagine del matematico che cerca di risolvere un problema irrisolvibile: la quadratura del cerchio. Un’allegoria che ci porta sul confine ultimo di ciò che è conoscibile all’uomo, e dunque al cospetto estatico di ciò che si trova oltre: pura trascendenza.
Già all’epoca di Dante, infatti, quello della quadratura del cerchio era un problema antichissimo. È possibile, usando unicamente riga e compasso, costruire un quadrato che abbia la stessa area di un dato cerchio? Una domanda apparentemente semplice, che pure ha attraversato intatta i secoli, sfuggendo ai tentativi di matematici e architetti di tutte le epoche di trovare una soluzione. Un problema geometrico, dunque, ma anche qualcosa di più. Riprendendo il pensiero alchemico, infatti, esso può essere letto come una metafora dell’eterna tensione dell’uomo (il quadrato) alla conoscenza della realtà (il cerchio): dimostrare che il cerchio può essere costruito tramite riga e compas-
so equivale dunque a dimostrare che la realtà può essere compresa dall’intelletto umano. Decomporre il reale in numeri e formule, accedendo al punto archimedeo, alla conoscenza perfetta del cosmo: quale migliore enunciazione del credo profondo della scienza di Galileo e Newton? Nondimeno, alla ricerca della quadratura del cerchio, l’intelligenza umana si è imbattuta nella trascendenza di π. Allo stesso modo, nella sua ricerca della conoscenza ultima, la scienza si è imbattuta nell’inconoscibile. Il caos matematico mostra come l’imprevedibilità più totale possa emergere da relazioni sorprendentemente semplici, e come dunque l’incertezza sia una caratteristi-
01. Gli oggetti della linea “Samba” sono la diretta trasposizione in marmo del ritmo di tale genere musicale. Estudio Guto Requena
La quadratura del cerchio Progettare tra scienza e fede
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concetti spirituali, tradizionalmente alieni al linguaggio scientifico, vi sono oggi entrati a pieno titolo
ca strutturale e irriducibile del nostro mondo (Prigogine, 1984). La moderna statistica frattale ammette il verificarsi di eventi che la statistica classica considera talmente improbabili da essere quasi del tutto impossibili (non è forse la definizione stessa di “miracolo”?) (Mandelbrot, 2008). Il rigido determinismo predicato dalla scienza classica è ormai superato dall’evidenza del ruolo cruciale del caso (Ceruti, 1985). Ma cos’è il caso? Pura aleatorietà oppure piuttosto il risultato di regole incredibilmente complesse? Omne uno implicitur quod non attingitur ipsum1: questa è la massima sibillina che campeggia sulla medaglia donata al grande matematico Chaitin per aver dimostrato che la risposta a tale domanda esiste, ma non è in alcun modo calcolabile (Morin, 1985). Trascendenza, irriducibile incertezza, inconoscibilità… concetti spirituali, tradizionalmente alieni al linguaggio scientifico, vi sono oggi entrati a pieno titolo. Ci troviamo nel bel mezzo di una vera rivoluzione, non inferiore per magnitudine e impatto alla stessa rivoluzione scientifica. Dopo il delirio di onnipotenza della scienza moderna, per il pensiero occidentale è quasi un ritornare alle proprie origini, un ritrovarsi di nuovo davanti al tempio di Apollo a Delfi a meditare su quel famoso “conosci te stesso”, sui limiti connaturati alla condizione umana. I limiti alla conoscenza nei quali ci siamo inaspettatamente imbattuti, tuttavia,
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02. L’uomo vitruviano di Leonardo da Vinci: l’eterno mistero dell’uomo è la “soluzione” al problema impossibile della quadratura del cerchio. Luc Viatour - https://Lucnix.be
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emulare nell’artificiale processi evoluzionistici naturali
03. Un giunto ottenuto tramite design generativo (a sinistra) e uno convenzionale (a destra): il primo si è evoluto spontaneamente alla maniera di un vivente, il secondo è stato invece “progettato” nel senso classico del termine. David de Jong/Arup
ci possono portare a una riflessione nuova. Conoscibilità e libertà, infatti, sono opposti: conoscere significa essenzialmente identificare le “regole” cui l’oggetto della nostra conoscenza è vincolato, in base alle quali possiamo prevedere deterministicamente il suo destino ultimo. Da questo segue necessariamente che riconoscere l’irriducibile imprevedibilità del mondo voglia dire riconoscere anche l’intrinseca libertà che lo permea. Come cambia dunque il significato del progettare, alla luce di tale mutamento filosofico? “Progettare” vuol dire essenzialmente pianificare. Progettare parrebbe dunque incompatibile con ogni forma d’imprevedibilità. Oggi, tuttavia, sta fiorendo un nuovo approccio al progettare, che non solo accetta l’imprevedibilità ma mira a fare della stessa un inarrivabile catalizzato-
re di creatività ed efficienza, finanche il motore di un’estetica radicalmente nuova. Tale approccio è noto come design generativo. Galanter (2003) lo definisce come qualsiasi pratica di design nella quale il progettista utilizzi un processo morfogenetico da lui autonomo. Il punto da sottolineare, qui, è l’autonomia. Autonomia del processo implica imprevedibilità per il progettista: ancora, libertà della creatura e imprevedibilità per il creatore sono intrinsecamente legate. Il progettista rinuncia a ciò che lo caratterizza, ossia disegnare la forma, affidandosi ciecamente a un processo che non può controllare. Come definirlo, se non un atto di fede? Quest’atto di fede, questo riconoscimento della libertà della creazione è ciò che rende possibile emulare nell’artificiale processi evoluzionistici naturali, produ-
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cendo artefatti caratterizzati da un’estetica organica del tutto aliena agli oggetti fatti dall’uomo (img. 03). Imprevedibilità vuol anche dire creatività: alcuni approcci generativi sono in grado di produrre migliaia di varianti dello stesso design, una vera e propria “esplosione cambriana” di possibilità che sarebbe impensabile per il progettista umano. Per approfondire all’atto pratico l’approccio generativo proponiamo due esempi, che ci consentiranno di focalizzarci su due aspetti differenti di tale pratica: potremmo dire, sul “cuore” e sulla “ragione”. Il primo esempio, che illustra bene le potenzialità artistiche ed espressive del design generativo, è la linea di mobili-sculture Samba, ideata da Guto Requena. Questi oggetti sono ottenuti usando come processo
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NOTE 1 – Tutto è compreso in uno, cui [però] non è possibile accedere. Per ulteriori approfondimenti su queste affascinanti tematiche si rimanda alla letteratura riportata in bibliografia. 2 – Nella fattispecie, si sono utilizzati due algoritmi ispirati ai pattern di sviluppo delle reti di muffe e delle ossature dei mammiferi. La partizione bionica ha prestazioni strutturali superiori a quelle di una partizione convenzionale ma è ottenuta con il 95% in meno di materiale. Si stima che questo possa ridurre di oltre 160 tonnellate cubiche le emissioni di CO2 annuali per aereo (fonte: Autodesk/Airbus). BIBLIOGRAFIA - Ceruti M., “La hybris dell’onniscienza e la sfida della complessità”, in Bocchi G. e Ceruti M., (a cura di), La sfida della complessità, Bruno Mondadori, Milano, 2007, pp.1-19. - Galanter P., “What is generative art? Complexity theory as a context for art theory”, 2003. - Mandelbrot B., The (mis)behaviour of markets: a fractal view of risk, ruin and reward, Profile Books, London, 2008. - Morin E., “Le vie della complessità”, in Bocchi G. e Ceruti M., (a cura di), La sfida della complessità, Bruno Mondadori, Milano, 2007, pp.25-36. - Prigogine I., Order out of chaos, Bantam Books, New York, 1984.
04. Modello catenario esposto a Casa Milà, Barcellona. Uno dei vari approcci generativi sperimentati da Gaudí: la forma dell’edificio non è il risultato di un disegno predeterminato, ma si auto-definisce per effetto della gravità. Etan J. Tal
morfogenetico un algoritmo calibrato su parametri estrapolati dal ritmo di alcune canzoni di samba. Da tale processo si sono generate delle forme plastiche che sembrano tradurre in materia il ritmo e la vitalità di questo genere musicale (img. 03). Il secondo esempio, che permette invece di apprezzare l’efficienza e la funzionalità dell’approccio generativo, è invece la “partizione bionica” progettata dagli ingegneri di Airbus. Tale nuova tipologia di partizione per abitacolo è stata selezionata tra le migliaia di versioni generate utilizzando due algoritmi ispirati alla biologia, e ha permesso di ottenere risparmi considerevoli sia in termini di materiali che di emissioni2. Infine, è interessante notare come il design generativo trovi il suo più illustre precursore nel genio di Antoni Gaudí.
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La sua ammirazione per la natura lo portò a trascendere la mera imitazione delle forme dei viventi per compiere un’operazione intellettuale ben più profonda e grandiosa: infondere quella stessa energia vitale alle sue creazioni (img. 04). Ricordando la forte religiosità dell’architetto catalano e il ruolo fondamentale che essa ebbe nella sua opera, è possibile dunque affermare che dietro tale operazione ci fu l’ambizioso sogno di tradurre l’architettura in un atto di fede nel creato. Come un cerchio che si chiude, torniamo dunque ad affacciarsi su quella dimensione sublime del sacro con la quale abbiamo aperto il presente articolo. Invero, nell’atteggiamento psicologico del progettista in un processo generativo possiamo in effetti ritrovare quello stesso sentimento che gli antichi scritti Talmudici attribuiscono al Dio della Genesi: speranza.
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Halway Sheyaamod. Questo esclamò Dio dopo aver creato il mondo, un’espressione traducibile come: “speriamo che funzioni!” (Prigogine, 1984). Se la creazione è imprevedibile per il suo stesso creatore perché permeata di libertà, la genesi è allora un atto di fiducia nella creazione stessa.*
Anna Berto Laureata in Architettura presso l’Università Iuav di Venezia. ab.annaberto@gmail.com Vittoria Giuriolo Laureata in Architettura presso l’Università Iuav di Venezia. vittoriagiuriolo@gmail.com Eleonora Zanirato Laureata in Architettura presso l’Università Iuav di Venezia. eleonora.zanirato@gmail.com
ture che qui si fondono in unico spirito che non si è mai affievolito nel tempo. Ogni comunità che ha calcato la pietra bianca siciliana ha depositato una propria forma di conoscenza, contribuendo alla ricca eredità dell’isola. Parte del lascito della dominazione araba è il sistema di pesca tramite le tonnare1.
Originariamente il termine “tonnara” definisce la complessa orditura di reti che “[…] come la città ha porte, recinti, profonde gallerie, atri e corti”2 atti ad intercettare i tonni e a dirottarli in modo sempre più serrato verso la “camera della morte”3, ove la pesca si conclude con il rito della mattanza.
Return tuna-fishing At date, 54 tuna-fishing traps have been identified in Sicily, 25 of which are in use, most of which are used as accommodation facilities. Only the Favignana’s tonnara, recovered and restored, laboriously manages to safeguard its original function, keeping the traditional slaughter alive. The question to be addressed is the fate of the remaining 29, progressively abandoned due to economic and industrial development since the 1950s. * gni nazione, città o paesaggio possiede un proprio spirito che le assicura protezione e le conferisce un’identità: così recitava la mitologia pagana, in cui ricorreva l’idea del genius loci, lo “spirito del luogo”. Gli antichi non sbagliavano e la Sicilia ne è una chiara dimostrazione. Isola più grande del Mediterraneo per estensione e popolazione, grazie alla sua posizione geografica ha rivestito un ruolo fondamentale nella storia dei popoli del mare. L’avvicendarsi di differenti civiltà ha lasciato testimonianze di segni, insediamenti e infrastrut-
01. Baia di Santa Panagia, Siracusa. Fotoinserimento. Anna Berto, Vittoria Giuriolo, Eleonora Zanirato
Tonnara di ritorno
Nuovi spazi di lavoro condiviso nell’intervento sulla tonnara di Santa Panagia
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L’IMMERSIONE
ritorno alle tonnare siciliane: luoghi abbandonati dal potenziale non sfruttato Il sistema di reti veniva calato in mare nel periodo tardo primaverile, a un miglio dalla costa, per catturare i tonni durante il loro passaggio. L’attività durava solitamente tre mesi, quando i flussi migratori provenienti dall’Oceano, durante il periodo della riproduzione, risalivano il Mediterraneo sfruttando le correnti, per poi tornare nei mari profondi a fine estate. Essi venivano intercettati prima lungo il versante occidentale con le “tonnare di andata”, e poi lungo il versante sud orientale con le “tonnare di ritorno”. In ausilio alle tonnare iniziarono a svilupparsi anche i “marfaraggi” ovvero gli edifici posti in prossimità della costa per assolvere alle funzioni conseguenti alla mattanza. Il genius loci è incarnato qui meglio che in qualsiasi altro luogo. I marfaggi, con i loro fabbricati situati nei tratti più incontaminati della costa, sviluppati seguendo la morfologia frastagliata e con i loro colori e materiali così simili a tutto ciò che li circonda, sembrano masse grezze che emergono dalla roccia, naturale prosecuzione del terreno su cui giacciono. Nei marfaraggi si svolgeva la vita della comunità dei “tonnaroti”4. Qui lavoravano, stoccavano e smerciavano il tonno pescato, ma anche vivevano con le famiglie, dormivano, mangiavano, pregavano: un luogo di intenso lavoro e di intensa vita. Era il lavoro a dare forma alla comunità e a dare forma all’architettura in un’evoluzione continua (img. 02). Ad oggi in Sicilia sono pervenute 54 tonnare di cui 25 in uso, la maggior parte reimpiegate come strutture ricettive, solo la tonnara di Favignana, recuperata e restaurata, riesce faticosamente a salvaguardare la sua funzione originaria, mantenendo viva la tradizionale mattanza. La questione a cui far fronte è la sorte delle restanti 29
tonnare, dismesse e progressivamente abbandante a causa dello sviluppo economico e industriale a partire dagli anni Cinquanta (img. 03). Questi esempi di archeologia industriale costituiscono un patrimonio di valore storico e architettonico dall’enorme potenziale inutilizzato. Essi, spesso situati in contesti naturali a ridosso dei centri urbani, potrebbero diventare una preziosa risorsa per le comunità delle città costiere (img. 04). L’episodio pilota potrebbe essere Santa Panagia, tonnara di ritorno situata a nord di Siracusa e immersa in un contesto naturale di inestimabile
02. Baia di Santa Panagia, Siracusa. Foto d’archivio. Archivio Storico Fotografico Maltese
03. Mappatura delle tonnare siciliane. Anna Berto, Vittoria Giuriolo, Eleonora Zanirato
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luoghi in cui è il lavoro a dare forma alla comunità e all’architettura, in un’evoluzione continua
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valore paesaggistico. Luogo dimenticato e slegato dal centro storico di Ortigia, potrebbe invece costituire una preziosa risorsa in risposta alla sempre maggiore urbanizzazione della città. Le tracce presenti raccontano la storia di un intenso lavoro che non va dimenticato ma anzi raccontato e ripreso sotto una forma più attuale. In alternativa all’impiego come struttura ricettiva quindi, la proposta è quella di dar vita ad uno spazio per il coworking per professionisti, creativi e piccoli artigiani: organizzazione lavorativa basata sulla condivisione degli spazi e la collaborazione di una comunità – proprio come era al tempo delle tonnare. L’idea potrebbe prendere forma riutilizzando il suo marfaraggio e proponendo in aggiunta un nuovo edificio che fornisca spazi dedicati in cui poter lavorare in gruppo, confrontarsi e
condividere esperienze all’interno di unico luogo condiviso (img. 05). Oltre al recupero della funzione di luogo di lavoro, il progetto potrebbe inserirsi nel contesto anche utilizzando la pietra di Siracusa, la stessa pietra che avvolge tutta Ortigia, come materiale di riferimento e confrontarsi con le preesistenze non imitandole ma esaltandole, cercando di mimetizzarsi l’ambiente circostante (img. 06). Santa Panagia potrebbe quindi costituire una prima esperienza da estendere anche ad altre tonnare abbandonate, luoghi antichi dal forte significato simbolico e culturale, fino alla costituzione di un percorso costiero che come una rete le connette tutte, un sistema di spazi ritrovati da vivere, raccontare, rispettare e tramandare.*
05. Il contesto naturalistico della tonnara di Santa Panagia. Anna Berto, Vittoria Giuriolo, Eleonora Zanirato
recupero dell’idea di spazio per il lavoro condiviso, dalla pesca del tonno al coworking
NOTE 1 – “Una pesca millenaria, inventata probabilmente dai Fenici ma magistralmente perfezionata dagli Arabi e tramandata fino ai giorni nostri senza troppe varianti” tratto da: Morreale F., “Tonnare di Ritorno. Santa Panagia e le altre”, p. 11. 2 – Tratto da: Oppiano di Cilicia, “De piscatione”, III libro, II secolo d.C. 3 – “Camera della morte” è l’ultima delle camere in cui è divisa l’isola della tonnara, costituita da una rete divisa in tante parti dalle maglie sempre più strette, è dove si effettua la mattanza. 4 – “Tonnaroti” sono coloro che sono impegnati materialmente nella pesca dei tonni. BIBLIOGRAFIA - AA.VV., “Aeroguide Sicilia Orientale. Le coste di Sircausa, Catania e Taormina viste dall’aereo”, Ed. De Agostini, Novara, 2002. - Lippi Guidi A., “Tonnare Tonnaroti e Malfaraggi della Sicilia sud-orientale”, Zangarastampa, Siracusa, 1993. - Morreale F., “Tonnare di Ritorno. Santa Panagia e le altre”, Ed. Natura Sicula, Siracusa, 2009FILMOGRAFIA - “Diario di Tonnara”, di Giovanni Zoppeddu, documentario, Italia, 2018.
06. Progetto di nuova costruzione e suo rivestimento in pietra. Fotoinserimento. Anna Berto, Vittoria Giuriolo, Eleonora Zanirato
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Vangeli
a cura di
Il Vangelo dei bugiardi Naomi Alderman Nottetempo 2019 cover designRossella Di Palma
vveniva in questo modo. È fondamentale calmare l’agnello, è la prima cosa. Un giovane, uno che deve ancora acquisire le competenze del sacerdozio, a volte affronta l’incarico con un atteggiamento brutale. Invece deve essere eseguito dolcemente, persino amorevolmente. Gli agnelli sono creature fiduciose. Toccalo sulla fronte appena sopra la zona in mezzo agli occhi. Respira piano e in modo regolare, abbastanza vicino alla creatura da inalare l’odore carnoso della lana. Essa capirà se sei nervoso. Mantieniti calmo. Sussurra le parole sacre. Afferra il coltello così come ti sei esercitato a fare. Affonda svelto la lama nel collo, appena sotto la mandibola. Non si
deve indugiare. Il coltello deve essere così affilato che quasi non serve esercitare alcuna pressione. Abbassalo in modo fluido e veloce, recidendo i tendini e i nervi mentre il sangue prende a sgorgare e i muscoli dell’agnello sono colti da spasmi. Ritrai il coltello. Nel complesso il movimento deve durare meno del tempo di un’inspirazione. Tieni l’agnello in modo che il sangue defluisca e possa essere raccolto nella coppa sacra. C’è una grande quantità di sangue; la vita è nel sangue. È appropriato a questo punto meditare sul sangue del tuo corpo, sulla rapidità e la facilità con cui potrebbe essere liberato, sul fatto che un giorno smetterà di scorrere. Il sacrificio è una meditazione sulla vulnerabilità. Il tuo sangue
non è più rosso di quello di questa creatura. La tua pelle non è più resistente. La comprensione che hai degli eventi che porteranno alla tua stessa morte probabilmente non è più profonda di quella di questo agnello.” Comincia così Il Vangelo dei bugiardi di Naomi Alderman. Maria, Giuda, Caifa, Barabba, a un certo punto ognuno di loro dice una bugia.*
Il giro del mondo in 80 alberi Jonathan Drori, Lucille Clere L’ippocampo, 2018 cover design Lucille Clere
Sole Luna Stella Kurt Vonnegut, Ivan Chermayeff Topipittori, 2016 cover design Riccardo Falcinelli
sullo scaffale
La mia Francigena Andrea Vismara Edizioni dei cammini, 2016 cover design Andrea Cioffi
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CELLULOSA
Speranze “Mi han detto che questa mia generazione ormai non crede in ciò che spesso han mascherato con la fede”. Francesco Guccini - Dio è morto (se Dio muore, è per tre giorni poi risorge), 1965 Immagine di Emilio Antoniol
(S)COMPOSIZIONE