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ISSN 2532-1218

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n. 29, aprile-maggio-giugno 2020

Aree dense


The towers of the (in)visible city, 2016 di Patrizio M. Martinelli Patrizio M. Martinelli è Assistant Professor, Miami University (Oxford, USA)


Stefania Mangini

Vivere nell’otium Nel I secolo d.C. Roma, capitale di un impero vasto e multietnico, supera già il milione di abitanti. Per questo nel 50 d.C. l’Imperatore Claudio fa estendere il pomerio di Roma, ossia il perimetro delle mura che identificavano il limite urbano della città. Negli stessi anni, dal suo esilio in Corsica, Lucio Anneo Seneca compone il De brevitate vitae, opera fortemente critica verso l’intera società romana e in particolare verso lo stile di vita della Capitale. In essa il filosofo condanna con tono sarcastico le brevi e inutili vite di molti personaggi pubblici impegnati a sprecare il loro tempo in quelli che lui considera i mali del mondo: i negotia (l’affaccendarsi in cariche pubbliche e in affari di lavoro), gli officia (l’essere sottoposti a obblighi e a rapporti gerarchici) e gli oblectamenta (lo spreco di tempo in vani divertimenti). A essi Seneca oppone l’otium, inteso come la cura di sé e della propria saggezza, una vita tranquilla, lontana dalla concitazione e dalla densità dell’Urbe, che trova nella vita di campagna il giusto tempo per la contemplazione spirituale e lo studio. Un concetto di ozio, quello descritto da Seneca, che mette al centro dell’esistenza la cultura e il benessere dell’individuo opponendosi all’esasperazione del fare che, tuttavia, ben si distanzia dal moderno concetto del termine: il “dolce far nulla” che porta affannosamente a ricercare momenti di pausa nella vita frenetica delle nostre metropoli. Eppure nel XX secolo la popolazione che abita in città è cresciuta in modo esponenziale passando dal 29% degli anni ’50 al 45% all’inizio degli anni ’90. Nel 2009 la percentuale è salita al 50,1%, facendo registrare per la prima volta nella storia dell’umanità il sorpasso della popolazione urbana rispetto a quella rurale. Le stime delle Nazioni Unite indicano che nel 2030 la percentuale di residenti in città sarà di oltre il 60% segnando un constante e netto spopolamento delle campagne (United Nation, 2018). Questa corsa alle metropoli è sostenuta dai vantaggi che le città offrono: tutto è a portata di mano, tutto è subito raggiungibile, con i negozi sempre aperti, i grandi centri commerciali e gli uffici a pochi passi da casa, il tempo dei negotia viene massimizzato e la vita sociale si arricchisce di un’incredibile varietà di occasioni. L’uomo urbano è totalmente immerso nei propri affari, deve produrre ricchezza, deve incontrare persone, deve spendere soldi per far crescere l’economia globale. E nel poco tempo libero si affanna alla ricerca di attimi di evasione, in cui l’ozioso far nulla pare essere la sola cura alla densità – spaziale e temporale – della vita urbana. Così l’ozio moderno diventa una fuga generalizzata dalle città che porta magliaia di persone a riversarsi in altrettanto dense e affollate località turistiche. Gli ultimi mesi sono stati segnati da un dramma globale che ci ha costretto a un isolamento forzato, a un rallentamento dai negotia e dagli officia, uno stop che ci ha dato modo di sperimentare – sebbene in modo involontario – l’otium romano, un tempo da dedicare a noi stessi, alla cultura e alla lettura, un tempo che per Seneca rappresentava, e forse rappresenta, il vero scopo della nostra via. “Soli omnium otiosi sunt qui sapientiae vacant, soli vivunt” [Di tutti, solo coloro che hanno tempo per la sapienza hanno tempo libero, solo essi vivono] (Seneca, De brevitate vitae). Emilio Antoniol


Direttore editoriale Emilio Antoniol Direttore artistico Margherita Ferrari Comitato editoriale Letizia Goretti, Stefania Mangini Comitato scientifico Federica Angelucci, Stefanos Antoniadis, Sebastiano Baggio, Matteo Basso, MariaAntonia Barucco, Viola Bertini, Giacomo Biagi, Paolo Borin, Laura Calcagnini, Piero Campalani, Fabio Cian, Federico Dallo, Doriana Dal Palù, Francesco Ferrari, Jacopo Galli, Michele Gaspari, Silvia Gasparotto, Giovanni Graziani, Francesca Guidolin, Beatrice Lerma, Elena Longhin, Michele Manigrasso, Michele Marchi, Patrizio Martinelli, Cristiana Mattioli, Fabiano Micocci, Magda Minguzzi, Corinna Nicosia, Maurizia Onori, Damiana Paternò, Laura Pujia, Fabio Ratto Trabucco, Silvia Santato, Chiara Scarpitti, Giulia Setti, Ianira Vassallo, Luca Velo, Alberto Verde, Barbara Villa, Paola Zanotto Redazione Martina Belmonte (copy editor), Paola Careno (impaginazione), Letizia Goretti (photo editor), Stefania Mangini (grafica), Silvia Micali (traduzioni), Arianna Mion, Libreria Marco Polo, Sofia Portinari (impaginazione) Web Emilio Antoniol Progetto grafico Margherita Ferrari

OFFICINA* “Officina mi piace molto, consideratemi pure dei vostri” Italo Calvino, lettera a Francesco Leonetti, 1953

Trimestrale di architettura, tecnologia e ambiente N.29 aprile-maggio-giugno 2020

Aree dense

Proprietario Associazione Culturale OFFICINA* e-mail info@officina-artec.com Editore anteferma edizioni S.r.l. Sede legale via Asolo 12, Conegliano, Treviso e-mail edizioni@anteferma.it Stampa Press Up, Roma Tiratura 200 copie Chiuso in redazione il 10 maggio 2020 con le mascherine, il disinfettante e Conte alla tv Copyright opera distribuita con Licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale Condividi allo stesso modo 4.0 Internazionale L’editore si solleva da ogni responsabilità in merito a violazioni da parte degli autori dei diritti di proprietà intelletuale relativi a testi e immagini pubblicati.

Direttore responsabile Emilio Antoniol Registrazione Tribunale di Treviso n. 245 del 16 marzo 2017 Pubblicazione a stampa ISSN 2532-1218 Pubblicazione online ISSN 2384-9029 Accessibilità dei contenuti online www.officina-artec.com Prezzo di copertina 10,00 € Prezzo abbonamento 2020 32,00 € | 4 numeri Per informazioni e curiosità www.anteferma.it edizioni@anteferma.it

OFFICINA* è un progetto editoriale che racconta la ricerca. Tutti gli articoli di OFFICINA* sono sottoposti a valutazione mediante procedura di double blind review da parte del comitato scientifico della rivista. Ogni numero racconta un tema, ogni numero è una ricerca. Hanno collaborato a OFFICINA* 29: Nicola Auciello, Beatrice Balducci, Paola Bracchi, Elisa Boschi, Danae Bulfone, Marianela Cruz Cabrera, Giacomo Checchin, Annalisa Comes, Emanuele Garda, Dario Giordanelli, Matteo Isacco, Giacomo Magnabosco, Filippo Magni, Maura Manzelle, Irene Manzini Ceinar, Patrizio M. Martinelli, Cristiana Mattioli, Rosaria Revellini, Linda Roveredo, Sara Salvador, Giulia Setti, Chiara Torregrossa, Giulia Vercelli.


Aree dense Dense areas n•29•apr•mag•giu•2020

The towers of the (in)visible city, 2016 di Patrizio M. Martinelli

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INTRODUZIONE

Fragilità territoriali e margini urbani: tra adattamento e rigenerazione Territorial Fragility and Urban Margins: between Adaptation and Regeneration

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Alla ricerca della fragilità The Pursuit of Fragility

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Quito “Codice Aperto” Quito “Open Code”

Cristiana Mattioli, Giulia Setti

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ESPLORARE a cura della redazione

PORTFOLIO

Sotto l’albero d’ulivo. Un viaggio dietro il muro Under the Olive Tree. A Journey behind the Wall Sara Salvador

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IL LIBRO

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I CORTI

Lo spazio in attesa The Waiting Space

Lo storico quartiere “Bexiga” nella contemporaneità The Historical “Bexiga” District in Contemporary Times Pieni e Vuoti: una grande riserva di spazio Fullness and Emptiness: a Large Space Reserve Paola Careno

Paola Bracchi, Marianela Cruz Cabrera, Dario Giordanelli

Comunità e depaving Community and Depaving

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Le tendenze della densificazione in altezza High-density Trends L’ARCHITETTO

Londra, Grenfell Tower London, Grenfell Tower Anatomia di un vuoto urbano nella città postapocalittica Anatomy of an Urban Void in the Postapocalyptic City L’IMMERSIONE

L’isola periurbana senza limiti The Limitless Periurban Island Elisa Boschi

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Giacomo Checchin

Matteo Isacco

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La città inclusiva The Inclusive City Linda Roveredo

Nuovi confini urbani New Urban Boundaries Rosaria Revellini INFONDO

Infrastrutture a cura di Stefania Mangini

Emanuele Garda

Martina Belmonte

Nicola Auciello

Giulia Vercelli

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Filippo Magni, Giacomo Magnabosco

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Prospettiva Ballarò Perspective Ballarò Beatrice Balducci, Chiara Torregrossa

Spazi di coworking per la trasformazione urbana Urban Effects of Coworking Spaces for Urban Transformation Irene Manzini Ceinar

Il muro che (non) c’è The Wall that is (not) Maura Manzelle

L’ombra delle rovine e i margini della società nella fotografia di Vasco Ascolini The Shadow of Ruins and the Margins of Society in Vasco Ascolini’s Photography Annalisa Comes

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SOUVENIR

Memoria di un pino che non era lì Memory of a Pine Tree that was not there Letizia Goretti

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CELLULOSA

Diluire la densità a cura dei Librai della Marco Polo (S)COMPOSIZIONE

Spiagge

a cura della redazione


raffaele_spera_ cmyk_kaleidoscope

jeannefourrier Drozome

La rubrica Esplorare dedicata all’arte e soprattutto alla sua fruizione, in questo numero cambia forma. La chiusura di musei, di spazi espositivi e luoghi (fisici) di dibattito culturale, ha scaturito una serie di riflessioni, oltre a inevitabili limiti organizzativi. In poche settimane sul web sono apparsi tour virtuali, registrazioni su ogni tipo di piattaforma, incontri con artisti, dirette di performances: insomma, le occasioni culturali sono innumerevoli e nella consapevolezza dei limiti di questi “percorsi digitali”, tali strumenti hanno consentito di raggiungere un ampio e variegato pubblico. Mentre nel web accade questo, in redazione ci chiediamo cosa fare. Partiamo da un dato di fatto: l’esplorazione è qualcosa di tangibile, è la percezione in uno spazio, è la sensazione che scaturisce da un indefinito numero di fattori. Così scegliamo di esplorare attraverso un’altra forma di cornice, non più quella di un quadro, bensì di una finestra. La mente richiama immediatamente le opere di Edward Hopper in cui la finestra è un vero e proprio spazio, dove il tempo si sospende e lo sguardo inizia a viaggiare, dando espressione e forma alla solitudine. Nasce l’idea di costruire attaverso i social un progetto dedicato a questo luogo, sul quale spesso ci ritroviamo a pensare, a osservare, a scrutare, gli altri e noi stessi. In questa pagina ne raccogliamo alcuni: sguardi, visioni e immaginazioni, che spaziano in tutta Europa, da Parigi a Venezia, da Lisbona a Verona, per tornare infine in Francia a Bordeaux. Sguardi molto diversi, che si soffermano su elementi piccoli e grandi, fatti di materia ma anche di luci e ombre. E voi cosa guardate dalla vostra finestra? La bicicletta abbandonata sul ciglio della strada, il solito signore che alle 7.30 passeggia con il cane, puntualissimo!, la vicina di casa che apre gli scuri canticchiando, il fumo del camino che disegna forme nel cielo, un orizzonte sperduto nella campagna, le onde del mare. Dove vi porta la vostra finestra?

eugeniatorelli

All finestra con OFFICINA* www.instagram.com/explore/ tags/allafinestraconofficina/

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ESPLORARE


A cura di Cristiana Mattioli e Giulia Setti. Contributi di Paola Bracchi, Marianela Cruz Cabrera, Emanuele Garda, Dario Giordanelli, Giacomo Magnabosco, Filippo Magni, Rosaria Revellini, Linda Roveredo.


Cristiana Mattioli Assegnista di ricerca, Dipartimento di Architettura e Studi Urbani - DAStU, Politecnico di Milano. cristiana.mattioli@polimi.it

Giulia Setti Ricercatore RTD A in Progettazione Architettonica e Urbana, Dipartimento di Architettura e Studi Urbani DAStU, Politecnico di Milano. giulia.setti@polimi.it

Fragilità territoriali e margini urbani: tra adattamento e rigenerazione

Territorial Fragility and Urban Margins: between Adaptation and Regeneration

Il “margine” è uno spazio intermedio tra due condizioni, per sua natura incerto, aperto a diverse interpretazioni, luogo di possibilità e innovazione. Nelle aree densamente abitate, i margini rappresentano luoghi di confronto e conflitto, dove si fa più visibile la compresenza e vicinanza di problematiche e criticità di diversa natura, di carattere urbano, economico, ambientale e sociale. In questo numero proveremo a esplorare la continua modificazione degli spazi marginali nelle aree dense, ovvero città e contesti metropolitani, città medie, urbanizzazioni diffuse dove la densità abitativa è bassa ma, grazie alle attività presenti e alle possibilità di spostamento, si sviluppano comunque pratiche urbane e architettoniche innovative. Per indagarne le forme di cambiamento, trasformazione e rigenerazione urbana, ci sembra utile mettere al lavoro la categoria interpretativa della “fragilità territoriale”1. Si tratta di un concetto multidimensionale che combina elementi di vulnerabilità di tipo spaziale e ambientale, oltre a dimensioni economiche e sociali ma che, come il margine, può trasformarsi anche in risorsa, aprendo a fertili sperimentazioni progettuali, a scale diverse. Nello scenario contemporaneo, cogliamo una grande varietà di luoghi densamente abitati, talvolta sfruttati e messi in crisi, talvolta dimenticati e abbandonati; in entrambi i casi, bisognosi di cura, riequilibrio e adattamento alle nuove domande delle popolazioni che li vivono e praticano. Attraverso l’esplorazione di contesti diversi, si è condotto un piccolo viaggio tra geografie e paesaggi delicati e fragili, che rivelano una pluralità di temi e condizioni. Un primo ambito di riflessione riguarda il concetto di “rischio”, associato a forme di fragilità di tipo socio-ambientale, in particolare al sistema delle acque: dalle aree costiere italiane sottoposte a repentini cambiamenti climatici, alla vulnerabilità idrogeologica della città di Quito, in Ecuador, e alla conseguente necessità di ri-scrivere un “codice” progettuale nuovo, arrivando a progetti bottom-up di de-impermeabilizzazione e riappropriazione degli spazi pubblici interstiziali in alcune città nordamericane. Un secondo ambito di indagine ha a che fare con il vasto ambito della “rigenerazione urbana” che riguarda sia

“Margin” is an intermediate space between two conditions, by its uncertain nature and open to different low-definition interpretations. It is a place of possibility and innovation. In densely inhabited areas, the margins represent places of debate and conflict, where the co-presence and closeness of problems and critical issues of different nature, such as urban, economic, environmental and social, are more visible. In this issue, we will try to explore the continuous modification of marginal spaces in dense areas, namely cities and metropolitan areas, medium cities, widespread urbanizations where the population density is low but, thanks to the presence of activities and the possibility of moving, innovative urban and architectural practices are still developing. In order to investigate the forms of change, transformation and urban regeneration, it seems useful to work with the interpretative category of “territorial fragilities”1. It is a multidimensional concept that combines elements of spatial and environmental vulnerability, as well as economic and social aspects, but which, like the margin, could also be transformed into a resource, opening up to fertile design experiments, on different scales. In the contemporary scenario, we capture a great variety of densely populated places, sometimes abused or put in crisis, sometimes forgotten and abandoned; in both cases, they show the need of care, rebalancing and adaptation to the new demands of populations that live and practice them. Through the exploration of different contexts, a small journey has been made between delicate and fragile geographies and landscapes, which revealed a plurality of topics and conditions. A first theme of reflection concerns the concept of “risk”, associated with social and environmental fragilities, in particular of the water system: from the Italian coastal areas subjected to sudden climate changes, to the hydrogeological vulnerability of the city of Quito, in Ecuador, and the consequent necessity to rewrite a new design “code”, arriving to bottom-up projects of depaving and re-appropriation of interstitial public spaces in some North American cities. A second area of investigation has to do with the vast topic of “urban regeneration” that concerns both the need of

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Margiando Partendo dal concetto di area, il cui simbolo è il quadrato, si è voluto concentrare la ricerca sul tema del confine. I limiti del quadrato si sviluppano, danno luogo a nuove aree, a nuove zone visibili, percorribili. I margini sono la metafora di una potenziale crescita, non solo di demarcazione. Danae Bulfone

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la necessità di ripensare al tema della sicurezza nel disegno e negli usi dello spazio pubblico contemporaneo, sia la definizione e sperimentazione di strategie e processi di riattivazione partecipata a scala locale, in ambiti periferici e borghi di medie dimensioni: il quartiere Ballarò di Palermo, la Falchera a Torino, Borgo Grazzano a Udine, gli ambiti periferici di Londra e New York City. Rigenerazione, non soltanto urbana, ma anche tecnologica: la storia della Grenfell Tower di Londra e alcuni possibili scenari di adattamento e di messa in sicurezza dell’edificio che avrebbero potuto, forse, scongiurare il tragico incendio avvenuto nel 2017. Luoghi “ai margini”, con forme di fragilità plurime, sovrapposte e intrecciate, di tipo socio-demografico ed economico che mostrano come, attraverso progetti di trasformazione urbana e architettonica, talvolta anche puntuali e minuti, sia possibile innescare forme di adattamento e rivitalizzazione dei luoghi. Infine un ultimo tema esplorato nei contributi declina marginalità e fragilità dal punto di vista temporale, proponendo interventi che esplorano il concetto di “memoria”: il recupero di uno spazio conteso come quello del muro a Berlino, la riqualificazione di un’area bombardata a Varsavia, il disvelarsi di persone e oggetti in rovina nelle fotografie di Vasco Ascolini. Territori, spazi, architetture descrivono un contesto – quello delle aree dense – complesso e contraddittorio entro il quale testare, proprio a partire dalle aree marginali, strategie, azioni e interventi che consentano di governare e superare le attuali situazioni di fragilità territoriale. I contributi presentati nel volume sollecitano una riflessione sull’importanza di pensare progetti integrati, capaci di far coesistere molteplici questioni: la rigenerazione e cura del patrimonio esistente, l’adattamento ai cambiamenti climatici e socio-demografici, il coinvolgimento delle popolazioni. E questo vale tanto più ora: l’inedita emergenza sanitaria che stiamo vivendo ci obbliga a rivedere i concetti stessi di marginalità e fragilità territoriale, le loro geografie, la loro estensione, sottolineando con forza la necessità di mettere al centro del nostro operare lo spazio aperto pubblico come luogo della socialità, del benessere, dell’inclusione.*

rethinking the safety issues in the design and uses of contemporary public space, and defining and testing strategies and processes of participatory reactivation on a local scale, in peripheral areas and mid-sized villages: the Ballarò neighborhood in Palermo, the Falchera one in Turin, Borgo Grazzano in Udine, some peripheral areas in London and New York City. A regeneration that is not only urban, but also technological: the history of Grenfell Tower in London and some possible scenarios of adaptation and building security that, perhaps, could have prevented the tragic fire that occurred in 2017. Places “at margins”, with multiple, overlapping and intertwined fragilities, of different types like socio-demographic and economic ones, which show how it’s possible to generate forms of adaptation and revitalization of these places through urban and architectural projects, sometimes even punctual and minimal. The final part explores marginality and fragilities from a temporal perspective, proposing interventions that investigate the concept of “memory”: the recovery of a disputed space like the Berlin wall, the redevelopment of a bombed area in Warsaw, the unveiling of broken people and objects in Vasco Ascolini’s photographs. Territory, space and architecture describe the complex and inconsistent context of the dense areas, where strategies, actions and interventions capable of solving territorial fragilities, starting from the suburbs, should be undertaken. The papers of the issue need a reflection upon the relevance of integrated projects that simultaneously face many topics: regeneration and care of the existing, adaptation to climate and socio-demographic changes, involvement of the communities. This is even more decisive now: the unforeseen sanitary emergency that we are living forces us to reconsider the concepts of marginality and territorial fragilities, their geographies, their size, clearly underlying the need to put the public outdoor space at the centre of our work as place of social relationships, welfare and inclusion.*

NOTE 1 – Al tema è dedicato un progetto di ricerca coordinato dal DAStU (Dipartimento d’Eccellenza) – Politecnico di Milano per il quinquennio 2018-2022, che coinvolge anche le curatrici. Per maggiori informazioni si rimanda al sito: http://www.eccellenza.dastu.polimi.it

NOTES 1 – A research project is dedicated to this topic, which also involves the curators; it is coordinated by DAStU (Department of Excellence) – Politecnico di Milano for a five-year period 2018-2022. For more information, see the website: http://www.eccellenza.dastu.polimi.it

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Divenarea Partendo dal concetto di area, il cui archetipo è il quadrato, si è cercata un’espressione volta a rappresentare la forte urbanizzazione dei territori i cui margini si intersecano, si intrecciano, crescono. Un quadrato che si evolve e richiama visivamente la perfezione della spirale logaritmica, simbolo della proporzione: caratteristica fondamentale negli implementi metropolitani. Danae Bulfone

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Filippo Magni Ricercatore, Dipartimento di Culture del progetto Università Iuav di Venezia. fmagni@iuav.it

Giacomo Magnabosco Dottorando, Dipartimento di Culture del progetto Università Iuav di Venezia. giacomo.magnabosco@iuav.it

Alla ricerca della fragilità

01. Mappatura nazionale della relazione tra territori coinvolti da impatti climatici e progetti di adattamento. National mapping of the relationship between territories affected by climate impacts and adaptation projects. Giacomo Magnabosco

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Nuove geografie per la futura pianificazione costiera econdo ENEA, sulla base degli scenari IPCC e Rahmstorf (Antonioli et al., 2017), i prossimi decenni vedranno un innalzamento medio marino sul litorale italiano compreso tra i 51,6 e i 142,8 cm. Senza un drastico cambio di rotta rispetto alle emissioni climalteranti – e la conseguente riduzione delle temperature globali – l’aumento atteso del livello del mare entro il 2100 modificherà irreversibilmente la morfologia attuale del territorio italiano, con una previsione di allagamento fino a 5.500 km2 di pianura costiera, dove attualmente si concentra oltre la metà della popolazione (Antonioli, 2018). A questa previsione tuttavia va sommata un’ulteriore aggravante del fenomeno, conosciuta come “cuneo salino” (ossia l’espandersi della salinità all’interno di suoli, sottosuoli e reti idriche costiere) derivante dall’innalzamento medio marino, le cui ricadute rischiano di aumentare ulteriormente le porzioni di territorio interessate, con pesanti conseguenze sul piano economico-produttivo, ambientale e sociale. A completare questo quadro, il dissesto idrogeologico che coinvolge la penisola – fenomeni alluvionali, siccitosi e franosi – vedrà una diminuzione dei tempi di ritorno dei fenomeni che già si stanno manifestando ancora “sporadicamente” e con un’intensità sempre maggiore. Questo scenario, già complesso di per sé, interesserà tutte le regioni italiane bagnate dal mare; complessità che andrà ad acuirsi se consideriamo che le ricadute dei cambiamenti climatici (CC) avranno un carattere distinto a seconda delle condizioni ambientali, sociali, culturali ed economiche che si sono sviluppate nel tempo, come si evince dai dati specifici relativi alle sei aree target considerate per questa ricerca. Di fronte a questo scenario, sorge spontanea la domanda: come possiamo evitare, o quantomeno, prevedere, pianificare e gestire questi impatti lungo le diverse tipologie di aree costiere?

The Pursuit of Fragility Due to the low quantification of the Climate Change impacts and the economic challenges connected to it, the current adaptation capacities of the Italian coasts are still weak. There is a lack of awareness, or more precisely, a translation of this within the coastal planning processes is still missing. This contribution aims to update the state of knowledge on the impacts of Climate Change in the coastal territory, building a geography that is capable of showing the quantification and the typological sizing of the most sensitive areas, in order to support future adaptation processes of the Italian coast.* A causa della scarsa quantificazione degli impatti del cambiamento climatico e delle sfide economiche ad esso connesse, le attuali capacità di adattamento delle coste italiane sono ancora deboli. C’è una mancanza di consapevolezza, o più precisamente, manca una traduzione di questa all’interno dei processi di pianificazione costiera. Il presente contributo ha come obiettivo quello di aggiornare lo stato delle conoscenze sugli impatti del clima nel territorio costiero, costruendo una geografia in grado di restituire, la quantificazione e il dimensionamento tipologico delle aree più sensibili, in modo da supportare i futuri processi di adattamento della costa italiana.*

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02. Datavisualization dell’estensione degli impatti in rapporto ai principali usi del suolo nelle sei aree target considerate dallo studio. Datavisualization of the extent of the impacts in relation to the main land uses in the six target areas considered in the study. Giacomo Magnabosco

Verso un cambio di prospettiva nell’analisi del territorio costiero: cosa guardare? All’interno dei processi di pianificazione e gestione territoriale italiana c’è ancora una mancanza di consapevolezza sulla tematica, o più precisamente, manca una traduzione di questa all’interno delle politiche di sviluppo urbano e di pianificazione territoriale costiera. Negli ultimi anni di programmazione Horizon 2020 e LIFE programme tuttavia, sono più di 1.100 gli enti che hanno tratto beneficio dai progetti a forte vocazione adattativa climatico-ambientale, 296 se osserviamo solo quelli depositati sui territori costieri – territori che si collocano nella fascia compresa tra i 100 km dalla linea di costa e ad un’altezza di 100 m sul livello del mare (Nicholls, 2004). L’avanzamento tecnico e conoscitivo raggiunto grazie a questi investimenti, costituisce un importante serbatoio a cui poter attingere nel prossimo futuro, soprattutto se teniamo in considerazione la complessità morfologica, climatica e insediativa che caratterizza le coste italiane.

Il contributo proposto osserva quindi da un lato le ricadute dei CC sulle aree costiere a scala nazionale, tracciandone le geografie al fine di stabilire una metodologia di avvicinamento e analisi della tematica, dall’altro, ambisce a fornire i presupposti per mettere a disposizione di stakeholders e decision-makers – dei vari contesti geomorfologici, insediativi, economici e produttivi – le politiche e i progetti più idonei ai contesti specifici in cui si troveranno a operare. Conoscenza e pianificazione: nuovi layers informativi per nuovi strumenti di gestione La sperimentazione prodotta mira innanzitutto a individuare e divulgare le peculiarità geo-morfologiche e insediative a supporto di progettualità e politiche capaci di relazionarsi alle diverse specificità locali, per far fronte alla complessità degli impatti climatici con una particolare attenzione ai fattori di contaminazione positiva delle esperienze depositate sul territorio nazionale.

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03. Mappatura del rischio in Italia e selezione delle 6 aree target più rilevanti. Risk mapping in Italy and selection of the 6 most relevant target areas. Giacomo Magnabosco

Una prima operazione di mappatura si è occupata di restringere il campo d’analisi a una casistica entro cui costruire un ragionamento condiviso. La strutturazione di un open dataset del dissesto a scala italiana1 – innalzamento medio marino (IMM), intrusione del cuneo salino (ICS), erosione costiera (EC), esondazioni fluviali (EF), fenomeni franosi (FF), fenomeni siccitosi e di desertificazione (SD) – ha permesso di costruire uno strumento di lettura territoriale semplice e accessibile a un vasto pubblico. Tale strumento è caratterizzato dalla grande capacità comunicativa tipica della mappa e della datavisualization, che supportano e corredano con un linguaggio grafico comunicativo i complessi quadri quantitativi che caratterizzano la tematica, dedicando particolare attenzione alla comunicabilità dei dati raccolti, concentrando le conoscenze relative agli impatti dei CC nel territorio costiero. Il risultato è la rappresentazione di una geografia in grado di restituire sia a scala nazionale che a scala locale, grazie all’approfondimento svolto su 6 aree pilota, la quantificazione e il dimensionamento tipologico delle aree

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più sensibili, in modo da supportare i futuri processi di pianificazione per l’adattamento della costa italiana. La selezione dei sei carotaggi tipologici ha permesso un processo di semplificazione dei contesti, nel tentativo di riassumere le principali caratteristiche geo-morfologiche, insediative, climatiche e del dissesto che insistono sulla penisola. Questa semplificazione è avvenuta utilizzando tre famiglie di criteri di selezione: forma e caratteristiche degli insediamenti (concentrati-diffusi); caratteristiche orografiche e geologiche della costa (costa alta-rocciosa e costa bassasabbiosa; facilmente e difficilmente erodibili); distribuzione e compresenza degli impatti climatici (IC), misurando l’intensità data dalla sovrapposizione di questi valori. Chi cerca trova! Applicazione del processo nell’area target del Molise Del metodo adottato per questa ricerca, qui proponiamo gli esiti del solo caso dell’area target del Molise a titolo

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04. Caratterizzazione geo-morfologica della costa del Molise. Geomorphological characterization of the Molise coast. Giacomo Magnabosco

esemplificativo. L’area costiera presenta una struttura insediativa di tipo concentrato con una bassa densità, sviluppata su suoli ad alta pendenza, la cui impronta sul terreno ammonta a 82 km2. La fascia costiera, di tipo alto, è caratterizzata da una condizione geologica tipica di queste aree, che vede alternarsi suoli rocciosi con suoli alluvionali in corrispondenza delle fiumare. I fenomeni di EF si trovano qui spesso in prossimità delle aree urbane, che vengono investite dagli eventi estremi mediamente per il 22%, in un range compreso tra il 10% e 42%, dove il valore più alto si registra nelle aree industriali e commerciali, mentre le reti stradali e ferroviarie vengono colpite per il 4,5% e 4,8%. Per quanto riguarda i territori rurali e naturali, essendo questi quasi sempre su suoli altamente drenanti o distanti dalle fasce di rischio allagamento, le percentuali risultano più basse, pari al 9,3% e il 5% della loro estensione. Proprio per la conformazione di costa alta, gli insediamenti e i territori saranno quasi del tutto risparmiati dai futuri fenomeni di IMM, mentre per quanto riguarda l’EC registrano valori prossimi all’1%. Territori rurali, naturali e rete idrica verranno comunque colpiti, con valori rispettivamente del 6,8% e 8% dai fenomeni di IMM e ICS, che nel caso della rete idrica registrerà un danno permanente del 4% e 5%.

derarsi in un trend di crescita, soprattutto se messi a sistema con gli sconvolgimenti idrogeologici e di indebolimento dei suoli causati dai fenomeni SD causati dalle alte classi di desertificazione che investono il 38% dei suoli agricoli e il 99% dei suoli naturali, che registreranno notevoli perdite alla produttività agricola e degli equilibri degli ecosistemi naturali. Le condizioni sopra descritte mostrano come anche in casi di costa alta, il CC in area costiera possa recare danni consistenti ai territori e alla loro potenziale produttività e come, in condizioni già precarie degli insediamenti, i fenomeni estremi possano inficiare la sicurezza di questi territori, sia per eccesso che mancanza di acqua. Per quanto concerne le potenziali risposte a queste forme di dissesto, è plausibile immaginare che le località italiane con caratteristiche geo-morfologiche, insediative e climatiche simili all’area target del Molise possano trarre interessanti spunti progettuali e di indirizzo politico attingendo al bagaglio della progettazione europea. Nello specifico, i progetti INNOQUA, PonDerat2, DesertAdapt3, per citarne alcuni, contengono nei loro programmi di ricerca applicata i presupposti per un efficace knowledge transfer per il territorio costiero del Molise. Se ampliamo il campo a tutta la progettazione europea sulle aree costiere, risulta ancor più evidente come esista un bagaglio di risposte pronte a cui attingere che, declinate ai contesti specifici, possono costituirsi come una grande cassetta degli attrezzi per tecnici, per amministratori e decisori politici locali.

come possiamo evitare, o quantomeno prevedere, pianificare e gestire questi impatti lungo le diverse tipologie di aree costiere? Per quanto riguarda il FF, proprio per gli aspetti geomorfologici del territorio, già oggi si registrano livelli allarmanti per i territori urbanizzati che registrano una porzione di urbanizzati continui a rischio del 30%, mentre del 5% per i territori agricoli e 2,5% per le reti idriche. Questi dati, già preoccupanti per il grado di pericolosità di questo impatto, sono da consi-

Riflessioni a margine del processo: adattarsi all’adattamento L’adattamento ai CC, nel suo approccio più teorico, prevede l’adozione di misure volte a contrastare, ridurre o che provino a gestire gli effetti e le vulnerabilità presenti e future, così come la variabilità che si verifica in assenza di CC nel contesto di una società in continuo cambiamento (World Bank, 2011). Diviene quindi sempre più chiaro come tale ap-

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05. Mappatura dell’estensione degli impatti nell’area target del Molise. Mapping of the extent of the impacts in the Molise target area. Giacomo Magnabosco

proccio non possa solo significare protezione statica contro gli impatti negativi ma, in un’ottica virtuosa, rappresenti anche la predisposizione verso una maggiore resilienza al cambiamento stesso, traendo vantaggio dai suoi possibili benefici diretti e indiretti. In questo scenario, è stato definito da più parti che la scienza giocherà un ruolo fondamentale a supporto dei processi di governance climatica, in particolare in termini di scenario, di valutazione delle variazioni regionali di impatti, vulnerabilità e rischi, di individuazione delle conseguenti necessità di adattamento (in termini di opzioni prioritarie) e infine, in termini di valutazione dell’efficacia delle politiche realmente implementate (Magni, 2019). La ricerca qui brevemente descritta si propone come un modello open-source di supporto ai futuri processi di pianificazione costiera, in linea con questo approccio, sia per quanto riguarda l’analisi degli impatti dei CC – declinata a livello subregionale e locale – la loro quantificazione, che ha richiesto una modellazione delle relazioni sui sottosistemi naturali e antropici e gli insegnamenti che queste aree impattate possono apprendere dalla rete nazionale di progetti LIFE e H2020 di adattamento. I risultati ottenuti dall’approfondimento sulle sei aree target enfatizzano oggi più che in passato la necessità di comprendere come i processi antropici costieri siano legati al sistema geomorfologico-territoriale su cui insistono, e alle interazioni che essi hanno con i CC. La natura complessa del sistema costiero italiano, in combinazione con l’incertezza sugli IC futuri, è stata spesso un ostacolo, tanto per una comunicazione efficace dei rischi associati e delle conseguenti esigenze di adattamento, quanto per le decisioni da prendere in ottica di gestione costiera. Per tale motivo, nello sviluppo di questo

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processo analitico-comunicativo, la priorità è stata riposta nell’affrontare le incertezze quantitative degli impatti, integrando le conoscenze esistenti per supportare, grazie anche ad esempi virtuosi portati avanti da enti di ricerca e pubbliche amministrazione di diversa dimensione e capacità operativa, le future fasi di decision-making per l’adattamento costiero.* NOTE 1 – Dataset costruito con i dati open disponibili sui database delle principali agenzie italiane, opportunamente elaborati dagli autori come segue: 1/ quadro conoscitivo della struttura infrastrutturale e insediativa: Corinne Land Cover e Openstreetmap; 2/ innalzamento medio marino e intrusione del cuneo salino: elaborazione del Modello Digitale del Terreno (Geoportale Nazionale); 3/ erosione costiera: Atlante dell’erosione costiera (ISPRA); 4/ esondazioni fluviali: Aree a potenziale rischio significativo di alluvione (ISPRA); 5/ fenomeni franosi: Inventario dei Fenomeni Franosi in Italia (IFFI); 6/ desertificazione: Atlante Nazionale delle aree a rischio di desertificazione (ISPRA); 7/ geomorfologia dei suoli: Carta Litologica Italiana (ISPRA). 2 – Life PonDerat ha come obiettivo il miglioramento dello stato di conservazione di specie e habitat delle aree costiere, con focus specifico alle isole Ponziane, contesto similare a quello d’analisi. 3 – Life DesertAdapt mira a documentare strategie e tecnologie innovative in grado di migliorare sia la qualità e la conservazione del suolo che il supporto allo sviluppo vegetale in aree, private e pubbliche, localizzate in zone del Mediterranee a rischio desertificazione. BIBLIOGRAFIA - Antonioli, F., Anzidei, M., Amorosi, A., Lo Presti, V., Mastronuzzi, G., Deiana, G., De Falco, G., Fontana, A., Fontolan, G., Lisco, S., Marsico, A., Moretti, M., Orrù, P.E., Sannino, G.M., Serpelloni, E., Vecchio, A. (2017), “Sea-level rise and potential drowning of the Italian coastal plains: flooding risk scenarios for 2100”, in “Quaternary Science Reviews”, 158, pp. 29-43. - Antonioli, F. (2018), “Mediterranean Sea: Many models and few new observational data for the coast, only using the Computer Will be difficult to improve the projections of the future sea level” in “Alpine and Mediterranean Quaternary”, 31(1), pp. 11-12. - Magni, F. (2019), “Climate proof planning: L’adattamento in Italia tra sperimentazioni e innovazioni”, Franco Angeli, Milano. - Nicholls, R.J. (2004), “Coastal flooding and wetland loss in the 21st century: Changes under the SRES climate and socio-economic scenarios”, in “Global Environmental Change”, n.14, pp. 69-86. - World Bank (2011), “Guide to climate change adaptation in cities: executive summary”, World Bank, Washington DC.

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Paola Bracchi Arch. PhD, Docente, “Investigadora del Observatorio de la ciudad y el paisaje”, Facultad de Arquitectura y Urbanismo, Universidad UTE, Quito, Ecuador. paola.bracchi@ute.edu.ec

Marianela Cruz Cabrera Arch. PhD, Docente, “Investigadora del Observatorio de la ciudad y el paisaje”, Facultad de Arquitectura y Urbanismo, Universidad UTE, Quito, Ecuador. marianela.cruz@ute.edu.ec

Dario Giordanelli Arch. PhD, Docente, “Investigador del Observatorio de la ciudad y el paisaje”, Facultad de Arquitectura y Urbanismo, Universidad UTE, Quito, Ecuador. dario.giordanelli@ute.edu.ec

Quito “Codice Aperto”

01. Quito Codigo Abierto. Mappa diacronica di Quito. Tracce visibili (blu) e invisibili (rosso) del sistema idrografico delle quebradas. Quito Open Code. Quito diachronic map. Visible (blu) and invisible (red) ravine traces. Bracchi P., Giordanelli D. (2019)

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Tra fragilità e modificazione Quito “Open Code” Ravines are seasonal rivers that define the hydrogeological system of the Andean plateau, where Quito, the capital of Ecuador, is located. During the expansion, following the Spanish colonization, they have been filled up, vanishing from the physical landscape and from city maps. Through an operational superposition of historical maps, this study reveals the underlying ravine layouts within the contemporary city, showing how this dynamic of persistent oversight of water systems creates a series of physical-spatial, techno-environmental and sociocultural issues which determine conditions of fragility.* Le quebradas sono fiumi stagionali che definiscono il sistema idrogeologico dell’altopiano andino dove è situata Quito, capitale ecuadoriana. Durante l’espansione successiva alla colonizzazione spagnola i letti di tali corsi d’acqua sono stati riempiti scomparendo dal territorio fisico e dalle mappe della città. Questo studio, attraverso una sovrapposizione operativa di mappe storiche, rivela i tracciati soggiacenti delle quebradas nella città contemporanea, mostrando come questa dinamica di oblio perpetrato del sistema delle acque generi una serie di problematiche fisico-spaziali, tecnologico-ambientali e socio-culturali, che determinano condizioni di fragilità.*

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eografia e crescita urbana1 La città di Quito si situa 2800 m di altezza, ai piedi del vulcano Pichincha e all’interno di un altopiano denominato callejon interandino che separa la cordigliera orientale da quella occidentale. Questa condizione geografica conferisce alla città, abitata da più di due milioni di abitanti, la sua peculiare conformazione longilinea di 50 km di lunghezza per circa 7 km di larghezza. Si tratta di un intervallo pianeggiante, la cui conformazione geomorfologica e geologica deriva dalla presenza del vulcano Pichincha. Il terreno si compone per strati profondi di lava e cenere che oppongono poca resistenza all’erosione fluviale e che si induriscono a contatto con l’aria. Ciò ha permesso di conservare fino a tempi recenti le incisioni generate dall’ultimo scioglimento dei ghiacciai: un sistema di corsi d’acqua stagionali, quebradas, che attraversa in direzione est-ovest e in modo cadenzato l’intero territorio urbano (Peltre, 1989). Tale formazione geologica determina una condizione privilegiata sia dal punto di vista ambientale2 che difensivo, tanto che gli Inca decisero di insediare una delle loro città in questo territorio. Le quebradas costituivano delle barriere naturali difficilmente valicabili. Si tratta di veri e propri canyon, torrenti a carattere stagionale con bordi acuti. Possono variare dai 3 ai 20 m di profondità con pendenza fino al 5070%. Durante la realizzazione dell’antica mappa di drenaggio naturale si contarono 85 quebradas all’interno del Districto Metropolitano de Quito, oggi quasi tutte interrate (Ponce, 1989). La fondazione di Quito coloniale (San Francisco de Quito, 1534) si basa sulla struttura urbana reticolare ispirata al castrum romano, al quale si realizzarono necessari adattamenti dovuti non tanto alle pendici montagnose, quanto alla presenza delle quebradas. Si tratta di modificazioni del modello a isolati quadrati per permettere il passaggio dei corsi d’acqua. La presenza delle quebradas non fu rispettata da parte dei conquistatori per il ruolo ambientale che svolgevano, ma perché i corsi d’acqua si utilizzavano come discariche,

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02. Mappa di Quito 1858. Le quebradas interrotte dalla crescita del tessuto urbano. Quito historical map 1858. The quebradas interrupted by the growth of the urban fabric. Secretaría del territorio, Alcaldía de Quito

capaci di allontanare l’immondizia con la forza dell’acqua. Fu a partire del XVIII secolo che questi corsi d’acqua iniziarono a essere riempiti in maniera frammentata e discontinua

necessità di rispondere a un fenomeno di crescita rapida e invasiva, in direzione nord-sud lungo le pendici della valle, ha portato a scelte determinate dall’urgenza e non da un pensiero strutturale e integrato sulla città. Si determinò un cambio radicale nella relazione con il contesto naturale: le quebradas, viste come elementi di impedimento di una crescita rapida piuttosto che interpretate come sistemi ambientali di guida dello sviluppo urbano, furono letteralmente cancellate dalle mappe. Per la società contemporanea le quebradas, tracce silenziose inglobate dai tessuti disomogenei della città, sono un elemento di grande fragilità che si esprime in un rischio silente ma sempre presente, che si manifesta puntualmente e costantemente alle prime piogge torrenziali delle stagioni umide. La memoria geografica di un passato millenario fu volontariamente eliminata dai processi decisionali dello sviluppo urbano della città.

la cancellazione delle quebradas non è avvenuta solo dal territorio fisico e dalle mappe della città secondo interessi particolari (Ortíz Crespo, 2004) . Il fenomeno si rese sistematico e ricorrente nel momento in cui la città iniziò a espandersi in modo consistente al di fuori dei limiti del modello coloniale, cioè a partire dal XX secolo3. Se Quito nel 1920 occupava una superficie di circa 300 ettari (Peltre, 1989), nel 1950 giunse a occuparne 3.300. Dalla seconda metà del XX secolo al 2015 Quito cresce più di dieci volte, con un’accelerazione notevole nell’ultimo decennio. La

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03. Mappa di Quito 1922. Le quebradas interrotte dalla crescita del tessuto urbano. Quito historical map 1922. The quebradas interrupted by the growth of the urban fabric. Secretaría del territorio, Alcaldía de Quito

Sul concetto di Memoria e della sua perdita La cancellazione delle quebradas non è avvenuta solo dal territorio fisico e dalle mappe della città. I riempimenti hanno comportato un’apparente sparizione livellando le asperità e gole che ne segnavano in modo lampante il tracciato e scomparendo dai riferimenti spaziali dei cittadini quiteñi contemporanei. La popolazione nel tempo ha dimenticato che le quebradas, spazi non sicuri e a rischio, erano un luogo dove non costruire, da lasciare libero, in modo che le acque provenienti da monte si scaricassero a valle. Dunque è necessario che si recuperi questa memoria ancestrale dei tracciati dei torrenti stagionali - che sono stati riempiti e spesso costruiti con infrastrutture viarie - applicando operazioni di rigenerazione architettonica, in modo da evitare il pericoloso collasso del sistema urbano con i conseguenti allagamenti e smottamenti (img. 05). Appare quindi necessario recuperare la memoria come elemento attivo di trasformazione di parti costruite della città che, spesso in modo inconsapevole, sono a rischio a causa della scarsa o nulla permeabilità dei suoli. Tale fenomeno implica il fatto che, in caso di precipitazioni intense, l’acqua non trovi il naturale sfogo nelle strutture territoriali delle quebradas e con violenza arrechi danni a tutto ciò incontra lungo il tragitto ostruito, interrotto o deviato. È opportuno definire il particolare significato che questo studio attribuisce alla memoria in modo da definire il concetto di memoria attiva e modificativa, opposto alla memoria passiva e conservativa. Nell’Enciclopedia Treccani il termine “memoria” è definito come un processo legato alla genesi di una modificazione4 ed è in questa accezione che il presente studio interpreta tale vocabolo. Se la memoria è un processo di modificazione della forma, si può dire che si tratta di un fenomeno dinamico, che prevede una o più trasformazioni. Attualmente l’attenzione rivolta alle quebradas è di tipo nostalgico-contemplativo: gli spazi residui evidenti della loro presenza sono recuperati in modo superficiale, figurativo e frammentario.

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04. Mappa di Quito 2018. In ocra è evidenziato l’attuale sistema delle quebradas. Si noti l’assenza evidente dello stesso all’interno della cosiddetta “mancha urbana”. Quito map 2018. In ochre is highlighted the current quebradas system. Note the evident absence of the ravines within the so-called “mancha urbana”. Ordoñez Villacreces, J. Rodas Espinel, M. (2018), “Quito visión 2040 y su nuevo modelo de ciudad”, Istituto Metropolitano de la Planificación Urbana

Obiettivi, approcci e metodi Obiettivo dell’articolo è dimostrare, attraverso il caso studio di Quito, come la perdita della memoria urbanogeografica dei luoghi generi una serie di problematiche fisico-spaziali, tecnologico-ambientali e socio-culturali che determinano condizioni di fragilità. L’approccio, inedito rispetto agli studi effettuati su Quito fino a questo momento, consiste in una visione simultanea del rapporto tra la condizione geo-morfologica di origine, lo sviluppo urbano nel tempo e le condizioni di rischio morfo-climatiche che compongono un quadro generale di eccezionale fragilità. Per raggiungere l’obiettivo previsto si procede attraverso una metodologia per fasi successive che permette di rico-

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05. Quito, marzo 2019. Smottamento e alluvione lungo la quebrada de Cochapamba, quartiere Pinar Alto. Quito, March 2019. Landslide and flood along the Cochapamba ravine, Pinar Alto district. Ecuador tv

06. Rete idrica del Distretto Metropolitano di Quito. Nel riquadro rosso si evidenzia la situazione attuale delle quebradas. Water network of Quito Metropolitan District. In the red framework is highlight the ravines current situation. IGN-DMPT

noscere e sostentare il fenomeno attuale, con il fine di aprire scenari futuri di rigenerazione urbana che siano fondati sulla reinterpretazione delle tracce di un passato recente. Il metodo si sviluppa secondo due canali differenziati e relazionati che si concretizzano in tre fasi di studio. Da un lato si opera attraverso l’analisi e l’interpretazione della cartografia, che grazie alla sovrapposizione si fa strumento di disvelamento delle tracce, dall’altro si effettua una ricompilazione di eventi che evidenziano gli effetti fisici, sociali e ambientali della cancellazione delle quebradas dal tessuto urbano di Quito. Una prima fase analitico-descrittiva permette di evidenziare, attraverso una sequenza di mappe storiche, come la crescita urbana abbia a mano a mano cancellato la presenza delle quebradas. L’eliminazione fisica di un elemento geografico ha successivamente determinato criticità infrastrutturali evidenti nel mal funzionamento idrogeologico della città. Più dell’80% delle quebradas di Quito sono state interrate o riempite: questo genera rischi di inondazioni e smottamenti, come si evince dalla cronaca. Il sistema fognario di Quito si realizzò a partire dal 1905 e la rete idraulica si collocò nelle quebradas prima della loro definitiva chiusura. Il sistema idraulico che si utilizzò - e che si continua ad utilizzare attualmente - è definito come combi-

rio in relazione all’aumento della popolazione; - l’ostruzione frequente di un sistema di inizio ’900 di difficile manutenzione per la profondità di realizzazione e l’assenza di pozzi di ispezione; - la generazione di affluenti sotterranei in cui gli angoli tra pendenze considerevoli non sono stati ben risolti: in questi casi l’acqua che fuoriesce opera una erosione sotterranea che culmina con lo sprofondamento del terreno; - l’originarsi di colate di fango (lahar), che non trovando il proprio corso originario negli incavi delle quebradas, ostruiscono i condotti idraulici e si riversano a valle distruggendo tutto ciò che incontrano. Da un punto di vista socio-culturale la mancata conoscenza, sia da parte delle autorità che della popolazione delle preesistenze geografiche, consente la costruzione di abitazioni, spazi urbani e infrastrutture nei letti delle quebradas che sono state riempite, mettendo così in condizione di rischio la popolazione. Una seconda fase critico-interpretativa consente la realizzazione di quadri sinergici, dove le informazioni precedentemente raccolte vengono fatte interagire tra di loro. Una sovrapposizione di mappe evidenzia la relazione tra le quebradas cancellate e l’attualità della condizione urbana (img. 01). Questa prima mappa interpretativa costituisce la base di un processo di codificazione della condizione attuale (fisica/sociale/ambientale e morfologica/ tipologica/tecnologica) di quelle sezioni urbane che erano originariamente attraversate dalle quebradas. La terza fase propositivo-operativa è in grado, a partire dallo studio del codice, di riconoscere differenze e similitudini di comportamento che permettono di definire una tassonomia di possibili azioni progettuali. Tali azioni, cambiando il codice, possono riscattare non l’immagine, bensì il ruolo ambientale e regolatore che le quebradas possono avere sulle scelte urbane future.

l’approccio consiste in una visione simultanea del rapporto tra memoria/geo-morfologia (quebradas)/ rischio nel tempo nato: per gli stessi condotti si canalizza sia l’acqua piovana che l’acqua prodotta dalle attività umane (Hazen&Sawyer, 2011). Questo genera una serie di problematiche quali: - la scarsa capacità dell’uso combinato del sistema fogna-

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07. Sistema originario delle quebradas di Quito. Quito’s ravines original system. P. Peltre (1989)

Risultati La metodologia giunge alla definizione di un codice interpretativo che si denomina come “Codice Aperto”, una matrice in evoluzione nel tempo che, utilizzando la memoria attiva come operatore progettuale, permette la modificazione delle variabili fisico/sociali/ambientali trasformando una condizione di fragilità in una condizione di opportunità per la Quito futura. Lo studio mette in relazione tre parametri che prima non erano mai stati studiati insieme: memoria/geo-morfologia (quebradas)/rischio evidenziando l’interrelazione esistente tra questi tre aspetti e la loro espressione socio-spaziale. La messa a sistema di queste variabili conferma il fatto che Quito è in una condizione di fragilità dovuta alla volontaria perdita della memoria. Le principali condizioni di rischio morfo-climatico si ubicano in quegli ambiti dove le quebradas sono state interrate e cancellate. Conclusioni La presa di coscienza della necessità di instaurare una relazione con la memoria dei luoghi evidenzia la necessità di un cambio di paradigma nelle scelte di sviluppo urbano. Proprio la condizione di fragilità permette di aprire scenari innovativi di rigenerazione in cui la presenza del sistema delle quebradas non è un dato marginalizzato, bensì un componente fondamentale del progetto trasformativo sulla città. La fragilità di tale sistema, che paradossalmente si dimostra resistente come presenza criptica all’interno della struttura urbana, rivelata, direziona il progetto di architettura verso nuove strategie integrate. Riconoscere le tracce delle quebradas (fisiche e no) permette una visione sistemica, superando l’approccio attuale che rimane frammentario e residuale nella modificazione di questi spazi chiave. Questo cambio innovativo ribalta la concezione attuale e fa in modo che tali frammenti, inseriti nel complesso sistema riconosciuto delle quebradas, assumano un ruolo che da marginale diventa protagonista nel ripensamento futuro di Quito.*

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NOTE 1 – ll presente articolo è intenzionato a mostrare lo stato di avanzamento di una ricerca in atto da parte degli autori dal titolo “Quito código abierto. La memoria activa como herramienta de transformación a la ciudad del futuro”. 2 – L’ altopiano quiteño grazie alla presenza dei corsi d’acqua e di un grande lago d’acqua dolce (Iñaquito) presentava un microclima unico nel contesto andino, era un territorio fertile e facilmente coltivabile. Prima dell’arrivo degli Inca, l’attuale centro storico di Quito era un grande mercato di prodotti agricoli locali che riforniva il territorio circostante. 3 – Il processo di chiusura delle quebradas di Quito è ben descritto nel testo di Ortíz Crespo, A. (2004). L’autore descrive come tale fenomeno sia inizialmente puntuale e correlato agli interessi di proprietari particolari, per poi trasformarsi in un modus operandi sistematizzato e riconosciuto. 4 – Processo legato alla genesi di una modificazione (traccia mnestica) di un substrato organico o non, attraverso il quale un determinato effetto persiste e diviene suscettibile di rimanifestarsi nel corso di ulteriori occasioni. http://www.treccani.it/ enciclopedia/memoria/ (presa visione febbraio 2019). BIBLIOGRAFIA - Andrade, R., Espinosa Páez, J. (2010), “...en las faldas inmensas de un monte...Las laderas occidentales de la ciudad de Quito”, Ecuador: Empresa Pública Metropolitana de Agua Potable y Saneamiento Ambiental, Quito. - Ercole, R., Metzger, P., & Villamar, M. (2004), “La vulnerabilidad del distrito metropolitano de Quito”, Ecuador: Municipio del Distrito Metropolitano de Quito, Dirección Metropolitana de Territorio y Vivienda, Quito. - Hazen&Sawyer (2011), “Estudios de actualización del plan maestro integrado de agua potable y alcantarillado para el distrito metropolitano de Quito. Resumen Ejecutivo”, Empresa Pública Metropolitana de Agua y Saneamiento de Quito, EPMAPS, Quito, Ecuador. - Ordoñez Villacreces, J., Rodas Espinel, M. (2018), “Quito visión 2040 y su nuevo modelo de ciudad”, Istituto Metropolitano de la Planificación Urbana, Quito. - Ordoñez Villacreces, J., Rodas Espinel, M. (2019), “Quito 2040: la visión de la academia”, Istituto Metropolitano de la Planificación Urbana, Quito. - Ortíz Crespo, A. (2004), “Origen, traza, acomodo y crecimiento de la ciudad de Quito”, Trama, Quito. - Peltre, P. (1989), “Quebradas y riesgos naturales en Quito, periodo 1900-1988”, in Peltre P. “Riesgos naturales en Quito: lahares, aluviones y derrumbes del Pichincha y del Cotopaxi”, Corporación Editora Nacional, Quito, Colegio de Geografos del Ecuador, (2), pp. 45-90.

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Emanuele Garda Assegnista di ricerca, Dipartimento di Ingegneria e scienze applicate, UniversitĂ degli studi di Bergamo. emanuele.garda@unibg.it

ComunitĂ e depaving

01. Portland. Gina aly.yan on pixabay

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Le azioni di sottrazione per una nuova multifunzionalità degli spazi sottoutilizzati Community and Depaving The presence of impervious surfaces within urban areas, associated with the need to support their transformation in order to meet new demands, has led to the activation of depaving initiatives. These cases, promoted by institutions and groups of citizens, gave a new role to certain urban spaces and allowed the reactivation of the hydraulic, environmental and ecological soil functions. The contribution, considering some international initiatives, intends to highlight their ability to translate the concept of depaving into action.* La presenza di spazi impermeabilizzati all’interno delle aree urbane, associata alla necessità di sostenere la loro trasformazione per rispondere a nuove esigenze, ha portato all’attivazione di iniziative di depaving. Tali esperienze, promosse da istituzioni pubbliche e gruppi di cittadini, oltre ad aver conferito un nuovo ruolo a taluni spazi urbani, hanno favorito il ripristino delle funzioni idrauliche, ambientali ed ecologiche dei suoli. Il contributo, richiamando alcune iniziative internazionali, intende evidenziare la loro capacità di tradurre in azione il concetto di depaving.*

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a combinazione tra elevati livelli di urbanizzazione, costante domanda di nuovi spazi aperti attrezzati e la crescente attenzione per i cambiamenti climatici, ha favorito la nascita di numerose iniziative di ripristino della permeabilità dei suoli urbani. Si tratta di innovative esperienze promosse e realizzate da gruppi di cittadini, spesso con il sostegno di associazioni e istituzioni locali che, grazie al desiderio di riabilitare gli spazi collettivi monofunzionali e accessori, sono giunte a imporre un cambiamento radicale nella conformazione fisica di queste aree. Tale mutamento è stato ottenuto attraverso la rimozione degli strati impermeabili del suolo, come asfalto o calcestruzzo (Tobias et al., 2018), e il contestuale innesto di una nuova identità funzionale che ha consentito a parcheggi o aree pertinenziali di trasformarsi in giardini e parchi. Accanto al raggiungimento di numerosi risultati1, la necessità di superare talune condizioni critiche presenti nelle grandi aree urbane, mediante la riattivazione delle funzioni inibite dai processi di consumo di suolo, rappresenta uno degli elementi ricorrenti nelle esperienze di de-impermeabilizzazione proposte nell’articolo. Territori alla prova Da molti anni istituzioni pubbliche di livello nazionale e locale si stanno interessando alla riduzione delle superfici impermeabilizzate (Beatley, 2000), approvando e sostenendo specifici programmi. Tra le operazioni proposte a New York per aumentare la presenza di aree verdi, rafforzare la capacità di gestione delle acque piovane e incrementare la resilienza urbana, rientra il programma Greenstreets. Quest’iniziativa, promossa anche in altre realtà metropolitane, è stata incoraggiata per aumentare la permeabilità e il verde negli spazi della mobilità (strade, marciapiedi, isole spartitraffico, ecc.). A Philadelphia il “Dipartimento per l’Acqua” ha promosso una simile politica che, attraverso la realizzazione di circa duecento interventi, ha dotato gli spazi stradali di numerosi

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02. Individuazione delle principali iniziative di depaving promosse a Portland dall’associazione Depave. Identification of the main depaving initiatives promoted in Portland by the Depave association. Emanuele Garda

dispositivi di drenaggio urbano sostenibile. Nella versione proposta a Vancouver, invece, a partire da analoghi obiettivi e dopo una prima sperimentazione pilota, si è deciso di coinvolgere attivamente i cittadini attraverso dei percorsi di giardinaggio volontario.

6.200 progetti. Anche i programmi RiverSmart avviati dal District Department of Energy and Environment (Washington D.C.) hanno voluto contrastare il deflusso delle acque piovane che minacciavano il locale distretto idrografico. In questo caso si è agito con incentivi economiche ai proprietari per supportare la realizzazione di infrastrutture verdi.

è necessario soffermarsi sulle pratiche micro-spaziali che stanno ridisegnando gli spazi urbani La campagna 12.000 Rain Gardens in Puget Sound, appoggiata da Stewardship Partners, dalla Washington State University e da associazioni locali, ha favorito l’installazione di rain gardens all’interno di giardini privati, oppure entro alcuni spazi pubblici. In pochi anni, grazie a specifici incentivi e al supporto di differenti soggetti, sono stati attivati circa

Spazio per la comunità La crescente attenzione posta alle sollecitazioni indotte dalle attività umane (Perini, Sabbion, 2017), combinata con il riconoscimento di un differente ruolo per taluni spazi urbani, hanno esortato gruppi di cittadini a promuovere le azioni di depaving2. Entro queste iniziative, la gestione delle acque piovane ha rappresentato un aspetto ricorrente, in particolare per le realtà urbane interessate da significativi livelli di copertura dei suoli. In tali condizioni le acque piovane han-

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03. Alcuni esempi di depaving a Portland. Emanuele Garda. Some depaving examples in Portland. Emanuele Garda. Satellite images by Google Earth

no evidenziato maggiori difficoltà nell’essere assorbite dal terreno (Perini, Sabbion, 2017) generando impatti negativi per l’incremento del volume di scorrimento superficiale o per le pressioni multiple sul ciclo idrologico. Pertanto, oltre ai casi richiamati nel paragrafo precedente, è altresì interessante soffermarsi sulle “pratiche urbane micro-spaziali” (Iveson, 2013) che da qualche anno stanno ridisegnando gli spazi urbani di molte città. Si tratta di sperimentazioni che “dal basso” sono state avviate negli Stati Uniti grazie all’impegno di cittadini-volontari, i quali hanno considerato il depaving come un’opportunità per riscoprire i valori della comunità e, al tempo stesso, mutare il senso e il ruolo di alcune aree. Una delle più interessati iniziative è stata avviata nel 2007 a Portland grazie all’impegno dell’Associazione Depave: un’importante insieme di esperienze nate per promuovere gli interventi di de-impermeabilizzazione in territori caratterizzati dalla carenza di spazi verdi e dalla presenza di spazi collettivi impermeabili. Nata come iniziativa spontanea, sorretta dal solo attivismo locale e da un’organizzazione noprofit, nel breve periodo Depave si è trasformata in un “metodo” sempre più applicato grazie anche al sostegno della municipalità e dell’Agenzia per la Protezione dell’Ambiente (EPA). In poco più di un decennio Depave3 è riuscita a stimolare l’attivazione di circa sessanta “progetti-eventi” in differenti contesti (img. 03, 04), interessando soprattutto le aree poste attorno ai luoghi importanti per la vita quotidiana delle comunità. In particolare, come i grafici dell’immagine 05 evidenziano4, sono state coinvolte le superfici pertinenziali di molte strutture scolastiche creando un nuovo “equipaggiamento” di spazi destinati a rivestire differenti funzioni (ecologiche, idrauliche, educative, ecc.). Nel 2011, ad esempio, più di sessanta volontari hanno “liberato” alcuni spazi impermeabili utilizzati per le attività sportive all’aperto

nella James John Elementary School, con lo scopo di incrementare la loro vivibilità, qualità estetica e capacità idraulica. Tale iniziativa, oltre ad aver richiesto il contributo attivo dell’associazione e dei cittadini, ha beneficiato del sostegno economico sia dell’Agenzia della Protezione dell’Ambiente, attraverso uno specifico programma destinato a finanziare e concretizzare gli interventi di “giustizia ambientale”, sia di alcuni operatori privati. In altri casi, il depaving è stato ap-

molte realtà urbane si stanno interessando alla riduzione delle superfici impermeabilizzate

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plicato ai parcheggi localizzati nelle immediate vicinanze a luoghi di culto oppure a centri per l’intrattenimento degli abitanti (sempre in un’ottica multifunzionale). Nel complesso si è trattato di numerosi interventi di piccola entità, in maggioranza inferiori a 500 m2, realizzati in maniera diffusa in un ambiente urbano dilatato, caratterizzato dalla bassa densità edilizia e dal predominio della casa unifamiliare tipica per l’urban sprawl nordamericano. In pochi anni, l’intero processo di de-impermeabilizzazione e di diversificazione funzionale, grazie all’esperienza e alla numerosità delle applicazioni, è arrivato ad una codificazione, attraverso un “protocollo” che ha ricompreso differenti passaggi operativi (img. 05). Tuttavia, queste differenti fasi, oltre ad aver rivelato la varietà dei possibili attori intercettati nei processi di trasformazione (team di progetto, volontari, imprese preposte ad alcune attività tecniche, finanziatori delle iniziative, ecc.), hanno mostrato per gli abitanti-volontari un coinvolgimento parziale che si è limitato alla realizzazione di attività circoscritte, direttamente o indirettamente assistite da altre figure portatrici di uno specifico sapere tecnico (soprattutto da parte di Depave).

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04. Sintesi del processo di depaving. Depaving process summary. Emanuele Garda

Dopo Portland, anche altre città hanno ospitato simili sperimentazioni. A Cleveland l’iniziativa DepaveNEO si è interessata alla “de-sigillatura” di aree a parcheggio, mentre a Nashville è stata promossa un’iniziativa che ha ottenuto il supporto dell’associazione noprofit Cumberland River Compact, da anni impegnata nell’attivazione di progetti sul tema acqua. Nel territorio canadese la Green Communities Canada, apertamente influenzata dalla vicenda di Portland, ha avviato nel 2012 l’iniziativa Depave Paradise. I suoi pro-

di edifici o di spazi aperti impermeabilizzati, soprattutto per incrementare la porosità nella città ad alta concentrazione (Pavia, 2015, p. 66). Le esperienze descritte, specialmente quelle promosse da gruppi di cittadini, aggiungono altri elementi significativi. Esse sottolineano la vocazione per la ritematizzazione delle superfici prossime ai “luoghi rilevanti” per la vita delle comunità, avvicinando maggiormente il ridisegno degli spazi urbani agli interessi reali degli abitanti. In condizioni di crisi del welfare state (Pasqui, 2017), le iniziative di protagonismo sociale e di autorganizzazione (Cellamare, 2019) come queste, sono importanti per la loro capacità di mobilitare progetti innovativi in forma rimediale, intessendo reti e consolidando i sistemi di produzione dal basso (Baiocco e Savoldi, 2016). Il loro sviluppo mostra, inoltre, l’abilità delle microtrasformazioni e delle pratiche di do-it-yourself 6 a incontrare forme di legittimazione da parte delle istituzioni pubbliche. Le forme di autorganizzazione promosse a Portland o in altri contesti urbani, seppur riconducibili alle pratiche di “cura degli spazi” che negli ultimi anni si sono ampiamente diffuse in molte città, presentano almeno due tratti distintivi. Il depaving non si è misurato con spazi negletti, marginali o inutilizzati, ma ha interessato delle aree collocate lungo le traiettorie quotidiane degli abitanti, seppur con un ruolo limitato e accessorio. Una seconda caratteristica riguarda il tipo di trattamento dei suoli prodotto dai cittadini che si è manifestato attraverso degli interventi radicali di rimozione degli strati impermeabilizzanti. Molte delle operazioni di depaving si confrontano anche con lo storico fenomeno dell’urban gardening: un complesso approccio al riuso dei suoli che fin dal Novecento ha mostrato una forte propensione a presentarsi come tattica di recupero delle aree sottoutilizzate. I casi nordamericani richiamati, tuttavia, aggiungono nuovi ruoli all’urban gardening, attraverso una ricerca progettuale condizionata

i depaving come un’opportunità per mutare il senso e il ruolo di alcune aree motori hanno riconosciuto nella loro azione la possibilità di: ripristinare il ciclo naturale dell’acqua (anche con piccoli interventi), assorbire parte delle precipitazioni riducendo il runoff5, restituire spazi a flora e fauna locale; infine, rafforzare la consapevolezza negli abitanti rispetto alla resilienza urbana. Anche questo programma, attraverso il sostegno a volontari e associazioni locali, si è ampiamente diffuso interessando differenti spazi residuali sottoutilizzati come parcheggi, superfici pertinenziali e aree pedonali. Conclusioni Le azioni per la de-impermeabilizzazione degli spazi costruiti si collocano entro una fase inedita per l’urbanistica (Adobati, Garda, 2019) e per molte altre discipline interessate all’osservazione dei fenomeni urbani. Si tratta una nuova stagione che, accanto al progressivo rallentamento della crescita urbana e al crescente interesse per i cambiamenti climatici, ha visto proliferare le situazioni di dismissione o di abbandono (Lanzani, 2015), rendendo il recycle il connotato principale di una narrazione troppo spesso dominata dal solo riutilizzo dei luoghi. È necessario prendere atto della possibilità che “tutto non possa essere riciclato” (Merlini, 2019), ammettendo forme di rimozione

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05. I grafici sintetizzano l’analisi delle iniziative promosse da Depave a Portland. The graphs summarize the analysis of the initiatives promoted by Depave in Portland. Emanuele Garda

dall’interesse per i cambiamenti climatici e la combinazione tra differenti funzioni. In questi casi la multifunzionalità si è tradotta nella riscrittura di spazi esistenti per sostenere la necessità di promuove la convivenza tra funzioni di intrattenimento (nella forma del parco attrezzato), ecologiche (con il ripristino delle strutture vegetali) e idrauliche (con il drenaggio urbano sostenibile). Il senso più profondo del depaving va ricercato nell’interesse per l’ordinamento dello spazio che le società continuano a possedere, indipendentemente dal livello di progresso o dalla dimensione raggiunta (Mazza, 2015). In conclusione, non pare privo di senso ipotizzare che, anche nei prossimi anni, le città continueranno ad essere il risultato dell’azione collettiva di molteplici attori, portatori di specifici interessi, culture e immaginari (Secchi, 2000).*

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NOTE 1 – Questi benefici possono riguardare: il miglioramento delle prestazioni idrauliche (Brears, 2018), i benefici prodotti dagli spazi verdi (Kabish et al., 2015) o il ripristino delle funzioni ecologiche (Rosenzweig, 2003). 2 – Si tratta di un termine, contrapposto all’abituale paving, impiegato nel contesto nordamericano da associazioni e gruppi di cittadini autorganizzati per identificare le azioni concrete di rimozione degli strati superficiali dei suoli. 3 – L’attività di sostegno si è altresì attuata con l’attività di formazione oppure con la pubblicazione di manuali tecnico-operativi che hanno affrontato differenti temi (ad es. la scelta delle aree, le analisi preliminari dei siti, i dispositivi per la gestione dell’acqua, etc.). 4 – Tali considerazioni sono il risultato di una pregressa analisi sintetica realizzata a partire da un campione di 62 esperienze promosse dall’associazione Depave nella città di Portland. 5 – Si tratta di un fenomeno che si verifica quando le precipitazioni superano la capacità di infiltrazione dell’acqua nel suolo determinando uno scorrimento superficiale. 6 – Questa espressione riconosce gli interventi di piccola entità dimensionale, spesso sostenuti da gruppi di cittadini attraverso budget limitati (Talen, 2014). In questa famiglia possono essere inserite le iniziative che una recente ricerca ha identificato con le espressioni di “pop-up urbanism”, “city repair” o “tactical urbanism”. BIBLIOGRAFIA - Adobati, F., Garda, E. (2019), “Land return: le azioni di de-sealing per il recupero del suolo nei contesti urbani”, in “Territorio”, vol. 90, pp. 154-162. - Baiocco, R., Savoldi, P. (2016), “Città, beni collettivi e protagonismo sociale”, in Munarin, S., Velo, L. (a cura di), “Urbanistica prima e dopo”, Donzelli, Roma, pp. 295-299. - Beatley, T. (2000), “Green Urbanism: Learning from European Cities”, Island Press, Washington. - Brears, R. (2018), “Blue and Green Cities”, Palgrave Macmillan, Londra. - Cellamare, C., (2019), “Città fai-da-te. Tra antagonismo e cittadinanza”, Donzelli Editore, Roma. - Iveson, K. (2013), “Cities within the City: Do-It-Yourself Urbanism and the Right to the City”, in “International Journal of urban and Regional Research”, vol. 37, n. 3, pp. 941-956. - Kabish, N., Qureshi, S., Haase, D. (2015), “Human–environment interactions in urban green spaces”, in “Environmental Impact Assessment Review”, vol. 50, pp. 25-34. - Lanzani, A. (2015), “Città territorio urbanistica tra crisi e contrazione”, Franco Angeli, Milano. - Mazza, L. (2015), “Spazio e cittadinanza”, Donzelli, Roma. - Merlini, C. (2019), “L’eventualità della demolizione. Forme, Situazioni e lin¬guaggi”, in “Archivio di Studi Urbani e Regionali”, vol. 129, pp. 26-48. - Pasqui, G. (2017), “Urbanistica oggi”, Donzelli, Roma. - Pavia, R. (2015), “Il passo della città: temi per la metropoli futura”, Donzelli, Roma. - Perini, K., Sabbion, P. (2017), “Urban Sustainability and River Restoration”, Wiley Blackwell, Hoboken. - Rosenzweig, M. (2003), “Win-win Ecology”, Oxford University Press, Oxford. - Secchi, B. (2000), “Prima lezione di urbanistica”, Laterza, Roma-Bari. - Talen, E. (2014), “Do-it-Yourself Urbanism”, in “Journal of Planning History”, vol. 14, n. 2, pp. 135-148. - Tobias, S., Conen, F., Duss, A., Wenzel, L., Buser, C., Alewell, C. (2018), “Soil sealing and unsealing: State of the art and examples”, in “Land Degrad”, vol. 29, pp. 2015-2024.

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Linda Roveredo Assegnista di ricerca ICAR/14, Dipartimento Politecnico di Ingegneria e Architettura, Università degli Studi di Udine. linda.roveredo@uniud.it

La città inclusiva

01. Vista panoramica di Borgo Grazzano, tratta dal progetto di ricerca “La città inclusiva”. Panoramic view of Borgo Grazzano, drawn from research “La città inclusiva”. Linda Roveredo

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L’esperienze di ricerca in Borgo Grazzano The Inclusive City “The inclusive city” is an experimentation that takes place in the intermediary city of the suburbs, homogeneous pieces of city born from the hybridisation of urban and rural culture, today at risk of depopulation. In this prospective Borgo Grazzano in Udine plays a significant role. The demographic contraction has fragmented it with around 10.000 m2 unused buildings. They represent a formidable opportunity to give houses and spaces to families and activities without additional use of land and mostly reversing the current deterioration that is characterizing Grazzano as other urban suburbs.* “La città inclusiva” è una sperimentazione che si colloca nella città intermedia dei borghi, pezzi omogenei di città nati dall’ibridazione della cultura urbana e contadina, oggi a rischio spopolamento. In questa prospettiva Borgo Grazzano a Udine ricopre un ruolo di rilievo. La contrazione demografica a cui è soggetto lo ha frammentato con circa 10.000 m2 di edifici dismessi. Questa condizione costituisce un’opportunità di dare casa e spazio a famiglie e attività senza nuovo consumo di suolo e, soprattutto, invertendo la tendenza al degrado che sta caratterizzando Grazzano come altri borghi urbani.*

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egli ultimi trent’anni in Italia, mentre le città crescevano causando una forte dispersione abitativa, al loro interno si sono aperti vuoti costituiti non solo da grandi aree industriali dismesse, ma anche dal lento e graduale svuotamento di tessuti “ordinari”, con appartamenti, uffici e negozi1. Questo sistema articolato di spazi porosi, soprattutto nelle città di medie dimensioni, erode l’intensità della vita sociale e può investire sia tessuti consolidati che parti di città più recenti. Oggi, di conseguenza, le città risultano frammentate da spazi dismessi, mentre l’inarrestabile esodo della popolazione fuori dalla città consolidata, alla ricerca di soluzioni abitative più economiche, sta generando un’espansione del tessuto urbano e un conseguente consumo di suolo. Questa proliferazione di spazi vuoti, edifici abbandonati e infrastrutture inutilizzate si ripropone a scale differenti all’interno dei tessuti urbani della città diffusa, talvolta in maniera preordinata, talvolta in maniera del tutto spontanea. La fragilità di questi pezzi di città, al di là delle ripercussioni che può avere sul piano territoriale e ambientale, costituisce anche un grave problema sul piano antropologico, sociologico, economico e politico, creando una forma di deprivazione della densità degli spazi e della varietà culturale che caratterizzano la città come tale. Le cause di questa condizione possono essere molteplici e stratificate, eppure la loro indagine, seppur importante, a volte trascende dal conferire un valore aggiunto all’individuazione di soluzioni tese al suo miglioramento. La società è in continua evoluzione e porta con sé mutamenti nelle pratiche abitative, nelle categorie di utenza, nelle relazioni e nel modo di vivere la città. Questa mutevolezza si riflette anche sul tessuto urbano che ha spesso visto cambiare radicalmente interi settori attraverso mutamenti dello spazio, delle attività e dei flussi. In tal senso, risulta fondamentale considerare le situazioni di degrado offerte dal territorio come opportunità, al fine di individuare gli strumenti necessari atti ad avviare modali-

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02. Planimetria generale della città di Udine, tratta dal progetto di ricerca “La città inclusiva”. Plan of Udine, from the research project “La città inclusiva”. Linda Roveredo

tà di azione capaci di rendere reversibile un fenomeno che compromette l’identità di un luogo. L’obiettivo fondamentale è un cambiamento di prospettiva e di visione rispetto ai modi

le città risultano frammentate da spazi dismessi di intervento possibili. La città è costituita da un insieme di materiali urbani dinamici e potenzialmente innovativi che spesso devono solo essere volti a una trasformazione. Prospettive per la rigenerazione urbana di Borgo Grazzano Partendo da queste premesse, la ricerca La città inclusiva2 ha sviluppato la sua attività indagando tale condizione all’interno del territorio del Friuli Venezia Giulia, caratterizzato da città di medio-piccole dimensioni che, in particolare, offrono a questo tema una casistica ampia.

L’investigazione ha preso origine alla luce di un’indagine condotta su un frammento intermedio di città, la città dei borghi, nata storicamente dall’ibridazione della cultura urbana e di quella contadina, oggi a rischio spopolamento. Il borgo, a cui difficilmente viene attribuita una definizione univoca, assume nella città media del nord Italia il carattere di espansione storica di piccole dimensioni, solitamente limitrofa alla cinta muraria. In particolare Borgo Grazzano, oggetto della ricerca, è uno dei borghi della città di Udine3, soggetto a una forte contrazione demografica che ne sta compromettendo la vivacità. Assumendo questa condizione, il caso studio ricopre un ruolo di rilievo: non solamente per le evidenti peculiarità di natura architettonico/paesaggistica ma anche per tutta una serie di attività di stampo culturale-aggregativo. La mappatura del Borgo ha individuato circa 10.000 m2 in diverse unità immobiliari non utilizzate4. Questo sor-

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03. Lettura per layer di borgo Grazzano, tratta dal progetto di ricerca “La città inclusiva”. Layers analysis of Borgo Grazzano, from the research project “La città inclusiva”. Linda Roveredo

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prendente dato, per quanto suscettibile di margini d’errore, vista la delicata natura dell’analisi, rappresenta una importante opportunità di dare casa e spazio a famiglie e attività senza nuovo consumo di suolo e invertendo la tendenza al degrado che sta caratterizzando Grazzano come altri borghi urbani. Borgo Grazzano può essere quindi considerato come un insieme di frammenti. Questa condizione trasfigurata in una visione unitaria mira alla costruzione di un nuovo dispositivo abitativo/commerciale che risponda in maniera articolata ai bisogni differenziati di diversi soggetti sociali, più che al ripristino di una condizione passata. Grazzano è, senza dubbio, un pezzo di città da preservare, ma allo stesso tempo è anche un tessuto urbano che deve essere ricucito e rigenerato come parte della città, favorendo la sua interazione con il resto del sistema insediativo. In quest’ottica è stata dedicata particolare attenzione alla catalogazione degli immobili rilevati secondo una serie di parametri, quali il livello di piano, la dimensione, il tipo di affaccio, la posizione, ecc. e alla lettura degli spazi aperti, definiti secondo il loro carattere percettivo. L’approccio ha consentito di definire un abaco di interventi che non costituisce un elenco chiuso ma bensì aperto e in divenire, in grado di rispondere agli spunti e alle sollecitazioni sollevati, definendo un nuovo scenario progettuale. Le azioni progettuali individuate, focalizzate principalmente sullo spazio aperto, infatti, si pongono la finalità di reintrodurre nel quartiere le condizioni e i servizi suburbani che in passato hanno favorito la migrazione degli abitanti al di fuori del tessuto consolidato. Sulla base di queste considerazioni, l’indagine ha sviluppato un progetto con una duplice dimensione, fisica e gestionale, in sinergia tra loro. La prima è finalizzata a generare inclusività, ad attrarre e accogliere nuove categorie di utenza per riabitare questa parte di città; la seconda, invece, vista la delicata condizione del campo di indagine, si prefigura, di pari passo, la realizzazione di un piano strategico, immaginando una commistione tra iniziativa pubblica e privata.

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04. Abaco degli interventi, tratto dal progetto di ricerca “La città inclusiva”. Catalogue of interventions, from the research project “La città inclusiva”. Linda Roveredo

Il concetto di inclusione è qui inteso come un processo strumentale in grado di innescare una rigenerazione5 che agisca sul tessuto urbano, sociale, culturale e ambientale, ponendo al centro dell’attenzione l’uomo e le sue esigenze. La particolarità dello stato di Grazzano ha portato la sperimentazione allo sviluppo di un progetto di cohousing diffuso alla scala di quartiere. La creazione di nuove residenze meglio attrezzate alla vita cittadina e luoghi per il lavoro capaci di accogliere ogni tipo di attività, dall’artigianato al coworking, è tesa a favorire la messa in moto di processi rigenerativi indispensabili alla ripresa sociale ed economica di una parte di città così importante. La proposta progettuale sviluppa interventi fisici e sociali, approfondendo anche l’aspetto economico-gestionale. Gli interventi, volti a migliorare la qualità della vita attraverso l’implementazione dei servizi e della crescita sociale, favoriscono processi di mitigazione della margi-

presenza di vegetazione incolta, trasformato in parcheggio o deposito di oggetti. La sua mancanza di definizione, oltre a favorire fenomeni di abbandono o di degrado, a volte porta alla creazione di spazi critici. La sua introversione, allo stesso tempo, offre protezione e favorisce la costituzione di spazi preferenziali di relazione, intesi come estensione dello spazio domestico a supporto della residenza6. Legare questi spazi alla rete dei percorsi urbani e favorire aperture facilmente riconoscibili nella città consente la loro fruizione ed evita l’insorgere di situazioni di disagio. Altre volte si configura come spazio aperto, in zone prossime all’edificato, come piano omogeneo di supporto ai volumi edilizi o cerniera tra pubblico e privato, diventando una sorta di proiezione dell’ambiente interno. In Borgo Grazzano si identifica in fasce di separazione tra abitazione e strada o in un vicoli chiusi a supporto della residenza. La flessibilità di questi spazi permette il conferimento di molteplici significati con lo scopo di generare nuove forme d’uso per le pratiche sociali. Ad esempio, intervenendo sulla sezione della carreggiata è possibile articolare lo spazio a ridosso dell’edificato con stazioni di bike/ car sharing, piattaforme multimediali, spazi per il gioco o la sosta che, oltre a fornire nuovi servizi condivisi al quartiere, aumentano la rete delle relazioni sociali. Lo spazio stradale, quindi, assume una nuova definizione avvicinandosi all’idea di woornef olandese7 (Infussi, 2011).

la rigenerazione urbana di Grazzano è una sfida culturale prima ancora che tecnico-edilizia nalità. Lo spazio aperto, ricco e articolato all’interno del borgo, diventa il punto di inizio della trasformazione urbana definendo maggiormente il suo carattere anche attraverso permeabilità e accessibilità, molto spesso negate. La percezione di esso, precorrendo l’asse viario all’interno del quartiere, è quasi sempre negata, oscurata dalla cortina edilizia continua che caratterizza il borgo; ma una lettura dettagliata ne fa trasparire la disomogeneità che si declina in forme e gradi di apertura differenti. Spesso assume un carattere chiuso rispetto al contesto urbano. Si configura a corte, con accesso limitato e controllato, privo di servizi o attrezzature, caratterizzato dalla

Conclusioni Tornare ad abitare Grazzano vuol dire, da un lato, conservarne il carattere di borgo e, dall’altro, permettere interventi edilizi che introducano nel corpo denso della città esistente, quelle infrastrutture e quelle forme dell’abitare che possano attrarre nuovi abitanti, nuove imprese, nuove iniziative. La rigenerazione urbana di Grazzano è una sfida culturale prima ancora che tecnico-edilizia.

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05. Sezione di progetto, tratto dal progetto di ricerca “La città inclusiva”. Project section, from the research project “La città inclusiva”. Linda Roveredo

Questo approccio non è da considerarsi come una soluzione esaustiva, bensì come una strategia che, in un’ottica di crescita intelligente, costituisca un incipt verso l’inclusione. La riqualificazione del patrimonio architettonico esistente e la valorizzazione sociale mirano a costruire le condizioni per generare un sistema di welfare urbano e di rapporti sociali che arresti lo spopolamento di questi luoghi. Guardare a frammenti di città differenti, caratterizzati da questa condizione e disseminati all’interno del contesto friulano rappresenta lo strumento operativo per individuare temi e questioni inerenti alla trasformazione e dismissione degli spazi della città di medie dimensioni e al loro potenziale politico e sociale. L’obiettivo è quindi quello di individuare una casistica ampia e non omogenea, che permetta di rispondere in maniera articolata agli spunti e alle sollecitazioni prodotte dall’analisi del caso di Borgo Grazzano; una casistica capace di esemplificare le procedure da attuare all’interno del territorio, sulle quali riflettere e immaginare possibili ricadute nella realizzazione di nuove soluzioni progettuali.*

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NOTE 1 – La periurbanizzazione è un processo di progressivo spopolamento e disuso dei centri cittadini, a favore della creazione di nuovi insediamenti urbani più o meno vicini alle grandi città o alle grandi vie di comunicazione. Fonte: ISTAT (2017). Forme, livelli e dinamiche dell’urbanizzazione in Italia. 2 – “La città inclusiva” è un’investigazione che si colloca all’interno dell’Officina “Rigenerare la città e il territorio” nell’ambito del progetto di ateneo “Cantiere Friuli” dell’Università degli Studi di Udine (responsabili di ricerca: Christina Conti, Giovanni La Varra; assegnista di ricerca: Linda Roveredo). 3 – Udine: centro provinciale di confine con meno di 100 mila abitanti, di antica vocazione agricola manifatturiera ed oggi centro universitario con prospettive di sviluppo turistico strategico in una lettura territoriale di centro Europa. 4 – Unità immobiliari non utilizzate: in questa categoria sono compresi immobili sfitti, in vendita, in disuso o addirittura in rovina. 5 – La rigenerazione urbana è un processo che non comprende solamente azioni di recupero, rinnovo e riqualificazione, bensì richiama un ventaglio di azioni più ampio nonché un intreccio di saperi e tecniche diverse. Alla sua base vi è l’obiettivo di migliorare le condizioni urbanistiche, socio-abitative, socioeconomiche, ambientali e culturali dell’ambiente urbano, attraverso la riqualificazione dell’ambiente costruito, la riorganizzazione dell’assetto urbanistico, il risanamento dell’ambiente mediante l’inserimento di infrastrutture ecologiche e spazi verdi, l’incremento della biodiversità all’interno dell’ambiente urbano e il contrasto dell’esclusione sociale. 6 – Gianfrate, V., Longo, D. (2017), “Urban micro-design. Tecnologie integrate, adattabilità e qualità degli spazi pubblici.”, FrancoAngeli, Milano. 7 – Woornef olandese è uno spazio condiviso in cui è assente la separazione netta tra specializzazioni funzionali. BIBLIOGRAFIA - Cervesato, A., Pecile, A., Roveredo, L. (2019), “Spazi aperti condivisi come catalizzatori di nuova inclusione” in Baratta, A.F.L., Conti, C., Tatano, V. (a cura di), “Abitare inclusivo. Il progetto per una vita autonoma e indipendente”, Anteferma Edizioni, Conegliano. - Conti, C., Garofolo, I. (a cura di) (2013), “Progettare accessibile. Esperienze di ricerca didattica”, Edizioni Pendragon, Bologna. - Crisci, M., et al. (2014), “Urban sprawl e shrinking cities in Italia. Trasformazione urbana e redistribuzione della popolazione nelle aree metropolitane”, Istituto di ricerche sulla popolazione e le politiche sociali, Roma. - Dessì, V. (2007), “Progettare il comfort urbano. Soluzioni per un’integrazione tra società e territorio”, Sistemi Editoriali, Napoli. - Gianfrate, V., Longo, D. (2017), “Urban micro-design. Tecnologie integrate, adattabilità e qualità degli spazi pubblici.”, FrancoAngeli, Milano. - Infussi, F. (a cura di) (2011), “Dal recinto al territorio. Milano, esplorazioni nella città pubblica”, Mondadori, Milano. - La Varra, G. (a cura di) (2016), “Architettura della rigenerazione urbana. Progetti, tentativi, strategie”, Forum Editrice, Udine - Reale, L. (a cura di) (2012), “La città compatta. Sperimentazioni contemporanee sull’isolato europeo”, Gangemi, Roma.

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Rosaria Revellini Dottoranda di ricerca in Nuove Tecnologie e Informazione per l’Architettura, la Città e il Territorio, Università Iuav di Venezia. rrevellini@iuav.it

Nuovi confini urbani

01. Vilnius, Lituania – Intervento di riqualificazione urbana, DO Architects. Vilnius, Lithuania – Urban riqualification, DO Architects. Norbert Tukaj

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Forme fisiche e sociali di protezione degli spazi pubblici nella città contemporanea New Urban Boundaries In the contemporary city we are witnessing a rapid process of closure of social life spaces in order to face the growing human application for protection. Today new urban barriers are placed in the public spaces to defend them. This operation creates new physical and perceptive boundaries and it denies the qualities of openness and plurality belonging to these spaces. The duality (safe space – insecure space) generated by this process has an impact on people well-being, therefore a reflection on this matter is needed.* Nella città contemporanea si sta assistendo a un rapido processo di chiusura degli spazi della socialità per far fronte alla crescente domanda di protezione da parte del cittadino, il cui sentimento di paura è mutato nel tempo. Oggi nuove barriere urbane sono poste a difesa degli spazi pubblici, il che contribuisce alla creazione di nuovi confini, fisici e percettivi, nonché alla negazione delle qualità di apertura e pluralità appartenenti agli stessi spazi. La dualità che viene a generarsi (spazio sicuro – spazio insicuro) provoca ricadute sul benessere delle persone, rendendo pertanto necessaria una riflessione sul tema.*

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a città è influenzata da una eterogeneità di fenomeni che, spesso troppo velocemente, incidono sui processi di trasformazione della stessa e sulle percezioni e le abitudini del cittadino (residente, turista, city user). In quanto scenario naturale dello sviluppo economico, dello scambio politico e culturale, lo spazio pubblico urbano costituisce il luogo della quotidianità in cui si alimentano le relazioni sociali, luogo delle principali attività collettive in cui si manifestano i bisogni e i dissensi delle persone. Negli ultimi decenni, per far fronte alla crescente domanda di protezione da parte dell’uomo, gli spazi a cielo aperto hanno subito notevoli cambiamenti fisici e percettivi, specialmente attraverso processi di “chiusura” che hanno determinato la creazione di “nuovi confini” e modificato la loro fruizione da parte della collettività. Non è raro che tali processi provochino disagi ed esclusione sociale, pertanto occorre considerare molteplici aspetti – socio-antropologici, politici, economici, climatici – in ambito di progettazione urbana e, nello specifico, rispetto al tema della sicurezza al fine di assicurare salute e benessere al cittadino. Garantire la sicurezza in città è infatti un compito molto complesso e per perseguirlo realmente sarebbe necessario un ripensamento a larga scala dello spazio pubblico attraverso tecnologie, progetti, strategie, nonché tramite processi di riqualificazione in cui gli obiettivi di sicurezza siano perfettamente integrati alla forma stessa dello spazio. A tale complessità il più delle volte però si contrappongono azioni di “militarizzazione” della città con l’adozione di barriere fisiche e sociali che non considerano le possibili conseguenze negative sull’ambiente costruito e sulle persone. A partire dall’osservazione delle più recenti trasformazioni urbane che mirano a rendere la città più “sicura”, la riflessione che segue si basa sull’analisi della letteratura in materia per poter ricostruire un quadro sintetico sull’evoluzione del rapporto paura collettiva-sicurezza urbana e comprendere meglio il modo in cui tali trasformazioni influiscano sullo spazio pubblico e di conseguenza sulla comunità.

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02. Esempi di blocchi in cemento posizionati lungo i percorsi più “sensibili” del centro storico a Genova. Examples of concrete blocks which are positioned along the most “sensible” paths of the historic center in Genoa. Rosaria Revellini

Paura e (in)sicurezza urbana Le “paure in città”1 sono mutate e aumentate nel tempo, anche in maniera inversa all’effettiva crescita del rischio (Selmini, 2004): dapprima l’uomo ha cercato di difendere la propria abitazione contro atti vandalici, situazioni di degrado o rapine, ma progressivamente la sua attenzione si è spostata al quartiere e alla città tutta, minacciata sempre più da fenomeni incontrollabili come gli attacchi terroristici e, paradossalmente, il turismo di massa. Negli anni ’60 nascono le prime teorie statunitensi sulla sicurezza urbana tese a dare una risposta principalmente alla richiesta di protezione della casa e del quartiere. In particolare, Jane Jacobs propone una lettura “passiva” della città, attraverso forme di controllo sociale dall’interno dell’abitazione verso l’esterno, attivando il cosiddetto “occhio sulla strada”2 che permetterebbe di avere forme di vigilanza spontanee. Successivamente Oscar Newman, invece, rielabora questa teoria in modo “attivo”, suggerendo al cittadi-

rantire una costante presenza di persone. Negli stessi anni il tema della sicurezza urbana viene introdotto anche in Italia4. Oggi però l’uomo contemporaneo ha spostato l’attenzione – e le paure – sulla città, luogo in cui si sente fortemente minacciato in particolare dopo la caduta del muro di Berlino e con la fine della Guerra Fredda, anche se il suo sentimento di insicurezza è cresciuto soprattutto a seguito dell’attacco terroristico alle Twin Towers (Calaresu, 2013). Questi fenomeni così complessi e violenti, come gli attacchi terroristici, hanno provocato una dilatazione degli spazi della paura che oggi non riguardano più unicamente le zone periferiche o degradate, bensì tutta la città contemporanea (Acierno, 2003) i cui spazi necessitano di specifiche forme di protezione. Negli anni sono state sperimentate molteplici soluzioni con l’obiettivo di difendere lo spazio pubblico e la collettività dalle minacce cui la città è esposta, ma queste non sempre consentono di perseguire pienamente gli obiettivi di benessere e sicurezza determinando invece la creazione di “nuovi confini urbani”. Il posizionamento di barriere, siano esse fisiche o sociali, sembra offrire una risposta immediata, sebbene piuttosto superficiale rispetto alla complessità del tema, alla richiesta di sicurezza specie in contesti come i centri storici in cui è difficile pensare a più ampi interventi di riqualificazione. La presenza di “nuovi confini urbani”, inoltre, può condizionare le persone nell’uso dello spazio e nei comportamenti quotidiani a causa della continua dualità “dentro-fuori” (spazio protetto e sicuro – spazio indifeso e insicuro) che si viene a creare. La dicotomia sicurezza-libertà5 dovrebbe avere, quindi, una posizione centrale nel dibattito politico e culturale per provare a superarla e garantire alle persone un reale benessere in città. La sicurezza urbana, intesa come “bene pubblico che afferisce alla vivibilità e al decoro della città”6, è infatti fondamentale per la tutela del singolo e della collettività, ma il conseguimento della stessa non deve influire

l’uomo contemporaneo ha spostato l’attenzione sulla città, luogo in cui si sente fortemente minacciato no modalità per agire in prima persona a difesa del proprio quartiere3 (Cardia, 1999; Acierno, 2003; Selmini, 2004). È opportuno citare inoltre J. Q. Wilson e G. L. Kelling che negli anni ’80 introducono la teoria delle broken windows, secondo la quale limitare i fenomeni criminosi e di degrado contribuirebbe alla riduzione dei crimini stessi, quindi alla percezione di maggiore ordine e legalità in città. Alla luce di ciò, negli anni ’90 nascono i primi manuali sulla crime prevention, in cui vengono riportate le principali indicazioni per la progettazione di spazi urbani sicuri, come la realizzazione di una buona illuminazione stradale, di spazi verdi e di percorsi lineari e ben identificabili, al fine di ga-

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03. Piazza Duomo, Milano. Le barriere new jersey. Piazza Duomo, Milan. The new jersey barriers. Giovanni Gambardella

negativamente sulla qualità del vivere, come si ritiene stia accadendo oggigiorno. Dentro – Fuori: barriere urbane a confronto L’adozione di barriere fisiche e sociali a difesa dello spazio pubblico non necessariamente rassicura la collettività e, anzi, alle volte le stesse acuiscono la distanza tra le persone e lo spazio. Da un lato, infatti, le barriere fisiche definiscono “nuovi confini” tangibili e costituiscono spesso un ulteriore ostacolo alla fruizione dello spazio, dall’altro quelle sociali, pur rimanendo “invisibili”, incidono direttamente sulla libertà d’azione delle persone in quanto dettano precise regole comportamentali. Le barriere fisiche come dissuasori, fioriere o barriere anti-autobomba vengono generalmente posizionate a difesa degli spazi pubblici a cielo aperto7 per impedire o limitare gli

accessi di mezzi su ruote (img. 02), a differenza di cancelli, cordoli o catene per lo più utilizzati per vietare la fruizione e contrastare il degrado dei piccoli spazi residuali8, specie nei centri storici. Tutti questi sistemi, però, rispondendo al solo obiettivo di proteggere lo spazio pubblico, sono spesso

difendere lo spazio pubblico e la collettività dalle minacce cui la città è esposta, determinando però “nuovi confini urbani”

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qui collocati senza rispettare alcun criterio pianificatore, contribuendo così al processo di frammentazione urbana. Nella maggioranza dei casi le aree “sensibili” delle città vengono protette con blocchi monolitici in cemento – so-

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04. Le barriere new jersey sul lato della piazza fungono da seduta grazie al sistema SitMi progettato dal gruppo Lascialascia. The new jersey barriers on the square side are used as a seat thanks to the SitMi system designed by Lascialascia. Giovanni Gambardella

prattutto barriere new jersey in Italia – che, posti lungo il perimetro dell’area interessata, alterano la percezione degli spazi e possono incidere in modo negativo anche sulle condizioni di accessibilità urbana. Negli anni sono stati adottati diversi espedienti per rendere tali elementi esteticamente più gradevoli e provare a dar loro una funzione: a Milano, per esempio, sono state condotte operazioni di “abbellimento” dai writers in alcune zone della città (img. 03) ma anche di “rifunzionalizzazione”, come nel caso dei new jersey in Piazza XXV Aprile. Qui, infatti, alle barriere in cemento sono stati sovrapposti elementi lignei modulabili che ne hanno permesso una trasformazione in panchina (img. 04). Tale operazione si è rivelata funzionale ma, al contempo, ha anche mutato la percezione dell’elemento new jersey che, da simbolo della divisione e del pericolo, è diventato arredo urbano e veicolo di socialità nella piazza. Diversamente da quelle fisiche, le barriere sociali – che non sono visibili e spesso non se ne conosce l’esistenza –

si determinano in seguito all’adozione di regolamenti di sicurezza urbana da parte dei comuni9 con l’obiettivo di contrastare le situazioni di degrado sociale che potrebbero assecondare l’insorgere di fenomeni criminosi o quelle di degrado fisico che provocherebbero danni al patrimonio pubblico e privato. Benché si agisca sempre in difesa della città, gli effetti che ne conseguono sono in prevalenza negativi perché di fatto viene ridotta, limitata e disciplinata la fruizione dello spazio pubblico. Un esempio è il divieto di “arrampicarsi, sdraiarsi o sedersi”10 nei luoghi pubblici o aperti al pubblico disposto dal comune di Roma e che, limitatamente al sedersi, ha destato particolare eco nel caso della scalinata di Trinità dei Monti11. Sebbene se ne debba garantire la tutela e il decoro, infatti, è opportuno ricordare che “la pura contemplazione non appartiene all’architettura” (Bellini, 1998) e pertanto una sua adeguata fruizione non è solo auspicabile ma necessaria a trasmetterne il valore collettivo. Come a Roma, in molte altre città d’arte italiane12 l’adozione di regolamenti di sicurezza urbana – e in alcuni casi anche di piccoli sistemi di protezione fisici – è mirata in modo particolare a contrastare il fenomeno del turismo di massa che ormai non può essere più considerato come una risorsa per la città ma anzi costituisce un ulteriore ostacolo nello spazio pubblico, avendo inoltre compromesso il rapporto affettivo tra spazio pubblico e comunità residente (Lauria, 2017). L’attuale dibattito su questi sistemi di protezione – specie nel caso delle barriere fisiche – coinvolge architetti, urbanisti, pianificatori, ma anche artisti, che molto spesso si confrontano solamente sull’immagine di tali elementi piuttosto che sulla possibilità di sperimentare azioni di difesa più complesse, riducendo di fatto la questione “sicurezza urbana” a una semplice riflessione di ordine estetico e di decoro urbano. Affinché possa essere colta la complessità del tema, risulterebbe invece necessaria una progettazione più complessa che integri sicurezza e

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05. Nørrebro, Copenhagen. Un particolare della “piazza nera”. Nørrebro, Copenhagen. A frame of the “black square”.Torben Eskerod

sostenibilità, guardando ai diversi rischi esterni cui la città è sottoposta, da quelli climatici a quelli terroristici, sebbene ciò non risulti sempre possibile (Coaffee e Boscher, 2008). Citando alcuni interventi riqualificazione nella città di Copenaghen che hanno lavorato in questa direzione, si può notare come le stesse forme, le giaciture dei corpi e i dislivelli del suolo sono articolati al fine di integrare gli obiettivi di sicurezza nell’assetto stesso dello spazio. Si tratta per esempio di Superkilen progettato da Topotek 1 + BIG Architects + Superflex (img. 05) o di Israels Plads progettato da Sweco Architects + COBE, spazi pubblici di grandi dimensioni in zone diverse della città danese sicuri e inclusivi, in cui i confini sono completamente dissolti. Conclusioni Parlare di sicurezza urbana vuol dire parlare di sicurezza sociale, climatica, politica, economica e quindi del governo di molteplici aspetti, il che difficilmente risulta possibile. Di contro, associare alla sicurezza urbana unicamente la lotta al terrorismo, e al vandalismo in generale, può portare a forme di controllo e di difesa dello spazio pubblico che rispondono solo in parte alle esigenze della collettività. L’articolo, sebbene in maniera sintetica, prova a evidenziare le contraddizioni generate da queste forme di difesa dello spazio pubblico che, generando di fatto “nuovi confini urbani”, molto spesso acuiscono la percezione di insicurezza dell’uomo invece che limitarla. L’adozione dei sistemi di protezione qui descritti rimane una risposta poco esaustiva a un tema tanto complesso come quello della sicurezza. Pertanto, un approccio più inclusivo che unisca sicurezza e sostenibilità ambientale – intesa nel suo senso più ampio – da perseguire attraverso la collaborazione tra amministrazioni, progettisti e cittadini si ritiene non solo auspicabile ma necessario affinché i confini generati dalla paura possano essere superati e soprattutto possa essere restituita allo spazio pubblico la sua vocazione di essere un luogo di apertura e di pluralità.*

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NOTE 1 – Espressione ripresa dal titolo del libro “Paure in città: strategie ed illusioni delle politiche per la sicurezza urbana”, a cura di G. Amendola (2003). 2 – In “Death and life of great American cities” di Jane Jacobs del 1961. 3 – In “Defensible space” di Oscar Newman del 1972. 4 – “A partire dell’inizio degli anni ’90, quando uscì a Bologna il primo numero della rivista dal significativo titolo Sicurezza e territorio [..] il tema è andato assumendo una rilevanza crescente, fino a diventare oggetto in maniera diffusa e ormai sistematica delle politiche pubbliche locali” (Selmini, 2004, p. 9). 5 – Per libertà si intende l’effettiva possibilità di fruire la città senza “ostacoli” fisici e psicologici. 6 – La definizione è ripresa dall’ordinamento italiano in materia: art. 4 del D.L. 20/02/2017, n. 14 (convertito con modificazioni dalla L. 18/04/2017, n.48). 7 – Piazze, luoghi simbolo della città o ritenuti “sensibili”. 8 – Sono spazi “minori” e di “scarso valore” generalmente in condizioni di degrado che si configurano come “tappeti sotto i quali nascondere le scorie che la città produce incessantemente” (Lauria, 2017, p.63). 9 – La L. 125/2008 demanda al sindaco il compito di “adottare provvedimenti [..] al fine di prevenire e di eliminare i gravi pericoli che minacciano l’incolumità pubblica e la sicurezza urbana”. 10 – Titolo II, capo I, art. 4, punto 1a e 1b della Delibera Assemblea Capitolina n. 43/2019. 11 – Nel 2016 erano state poste temporaneamente delle “cancellate anti-bivacco” per evitare i bivacchi di giorno e di notte dopo il restauro della scalinata. 12 – Per esempio Firenze (2014) e Venezia (2019). BIBLIOGRAFIA - Acierno, A. (2003), “Dagli spazi della paura all’urbanistica per la sicurezza”, Alinea, Firenze. - Amendola, G. (1995), “Le forme urbane della paura”, in “Urbanistica”, n. 104, pp. 16-19. - Amendola, G. (1997), “La città postmoderna. Magie e paure della metropoli contemporanea”, Gius. Laterza & Figli, Bari. - Amendola, G. (a cura di) (2011), “Insicuri e contenti. Ansie e paure nelle città italiane”, Liguori, Napoli. - Bellini, A. (1998), “La pura contemplazione non appartiene all’architettura”, in “TeMa”, vol. 1, pp. 2-4. - Calaresu, M. (a cura di) (2013), “La politica di sicurezza urbana. Il caso italiano 19942009”, FrancoAngeli, Milano. - Cardia, C. (1999), “Sicurezza urbana”, in “Costruire”, n. 193, pp. 83-90. - Coaffee, J., Boscher, L. (2008), “Integrating counter-terrorist resilience into sustainability”, in “Urban Design and Planning”, n. 161, pp. 75-83. - Gehl, J. (1991), “Vita in città. Spazio urbano e relazioni sociali”, Maggioli, Rimini. - Gehl, J. (2017), “Città per le persone”, Maggioli, Rimini. - Lauria, A. (a cura di) (2017), “Piccoli spazi urbani. Valorizzazione degli spazi residuali in contesti storici e di qualità sociale”, Liguori, Napoli. - Selmini, R. (2004), “La sicurezza urbana”, Il Mulino, Bologna.

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Infrastrutture 63,6

La visione geografica dell’Italia si anima e si deforma seguendo le direttrici infrastrutturali, determinando una maggiore o minore facilità di spostamento dai comuni ai poli urbani, così come sono stati definiti e individuati dal Dipartimento per lo sviluppo e la coesione economica (DPS) nella Strategia Nazionale per le Aree Interne. Questo indice di accessibilità, elaborato dal PRIN Territori post-metropolitani come forme urbane emergenti: le sfide della sostenibilità, abitabilità e governabilità (2010-2011), sembra invece contraddire la dotazione regionale in km delle reti di trasporto che presenta un rapporto meno favorevole nelle aree che risultano maggiormente accessibili. A cura di Stefania Mangini

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2 24,

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To sc an Um a bri a Ma rch e Laz io Abru zzo Molise

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Basilicata a Calabri a Sicili a egn Sard

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ia Ligur ge ia Adi bard lto Lom o-A lia ntin Giu Tre ia to ez gna ne en Ve a -V uli -Rom Fri ilia Em

1,9

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Km di rete ferroviaria per 100.000 abitanti

Fonte: Elaborazioni Istat su dati Rfi - 2016

di rete autostradale per 10.000 autovetture

Fonte: Elaborazioni su dati Ministero delle infrastrutture e dei trasporti Aiscat e Automobile Club d'Italia - 2016


INDICE DI ACCESSIBILITÀ STRADALE AI POLI URBANI - 2014 Fonte: PRIN “Territori post-metropolitani come forme urbane emergenti: le sfide della sostenibilità, abitabilità e governabilità” - 2010-2011

TEMPO MEDIO DI PERCORRENZA MAGGIORE DI 60 MINUTI TEMPO MEDIO DI PERCORRENZA COMPRESO TRA 45 E 60 MINUTI TEMPO MEDIO DI PERCORRENZA COMPRESO TRA 30 E 45 MINUTI

TORINO PORTA SUSA 15˙000

TEMPO MEDIO DI PERCORRENZA COMPRESO TRA 15 E 30 MINUTI

REGGIO EMILIA AV MEDIOPADANA 2˙000

TEMPO MEDIO DI PERCORRENZA MINORE DI 15 MINUTI

BOLOGNA CENTRALE AV 159˙000

FIRENZE BELFIORE 3˙000

ROMA TIBURTINA 140˙000

NAPOLI AFRAGOLA 12˙000

TRANSITI GIORNALIERI NELLE STAZIONI ALTA VELOCITÀ Fonte: Trenitalia - 2019 PASSEGGERI NEGLI AEROPORTI ITALIANI Fonte: Assaeroporti - Associazione Italiana Gestori Aeroporti, 2019 RETE FERROVIARIA RETE AUTOSTRADALE


Sara Salvador Laureata in Scienze Sociologiche presso l’Università degli Studi di Padova. sara.salvador.2811@gmail.com

el 2018 ricorre il settantesimo anniversario della Nakba palestinese, termine che viene utilizzato per indicare la “catastrofe” avvenuta nel 1948 e che ha portato all’esodo senza ritorno di oltre 750.000 palestinesi. Ad oggi, su una popolazione complessiva che raggiunge quasi i 13 milioni, almeno 8 milioni di palestinesi sono forcibly displaced, ovvero sfollati forzati in tutto il mondo. Fin dalla sua creazione, lo stato di Israele ha messo in atto politiche di annessione territoriale, colonizzazione e trasferimenti forzati della popolazione nativa, negando ai rifugiati palestinesi un compenso a fronte delle gravi violazioni subite. Da settant’anni, il popolo palestinese è costretto a battersi quotidianamente non solo per il proprio presente, per il diritto di vivere in pace nella propria terra, ma anche per preservare il proprio passato, il patrimonio storico e l’identità culturale. Negli ultimi anni, il governo israeliano ha infatti attuato politiche volte alla cancellazione della memoria, nonché della presenza di questo popolo, sia a livello nazionale che internazionale. Col fine di coprire l’apartheid, si è creato un potente strumento di propaganda che ha diffuso nel mondo la narrazione sionista dominante. Una versione della storia che ha, esternamente, trasformato il popolo palestinese in terroristi, e internamente, ha smesso di considerarli esseri umani. Nonostante la decisione della comunità internazionale di ignorare i propri obblighi e le proprie responsabilità davanti alle leggi del diritto internazionale, il popolo palestinese non ha invece rinunciato a chiedere il rispetto dei propri diritti fondamentali, il diritto al ritorno alle proprie terre e all’autodeterminazione. Questo progetto fotografico nasce dall’esigenza di condividere la mia esperienza in Palestina attraverso le storie di vita quotidiana e le immagini raccolte nelle principali città e nei campi profughi palestinesi tra aprile e ottobre 2018. Le foto scelte mirano a portare l’osser-

vatore nel cuore della Palestina. Tanti aggettivi sono stati utilizzati impropriamente, nel corso degli anni, per descriverla. Santa, promessa, libera, oppressa, frammentata: epiteti che cercano di definirla, ma che finiscono per veicolare un’immagine parziale di una terra dalle mille sfumature e sfaccettature. La “terra degli aranci tristi”, come venne definita da uno dei suoi più illustri romanzieri, Ghassan Kanafani. Il percorso fotografico segue due macro filoni: il primo è un viaggio nell’architettura dell’occupazione messa in atto da Israele nei Territori Palestinesi Occupati. Un’oppressione militare pianificata nei minimi dettagli, che si concretizza in: - 98 checkpoint fissi, più circa 2.900 flying checkpoint (posti di blocco temporanei); - un muro la cui altezza varia da 9 a 12 metri e la cui lunghezza raggiunge attualmente 570 km ma che a progetto finito raggiungerà 810 km; - circa 250 insediamenti illegali, costruiti su terre, villaggi e sorgenti palestinesi. Nonostante la violenza, l’odio e la sofferenza a cui ho assistito in tutta la sua banalità più spaventosa, sono stata spesso colta da una Palestina autentica e umana. Trasmettere questa bellezza è il tentativo della seconda parte del percorso fotografico, che vuole essere una contro-narrazione, un palcoscenico sul quale ammirare il patrimonio culturale, le tradizioni e l’identità palestinese per far conoscere una terra palpitante di vita, colma di bellezza, dove la luce danza fra macerie, speranza e dolore.* Under the Olive Tree. A Journey behind the Wall For seventy years, the Palestinian people have been forced to fight to secure their everyday rights, but also to preserve their past, historical heritage and cultural identity. Since 1948, year that saw the exodus of over 750,000 people, the Israeli government has in fact implemented policies aimed at erasing the memory of the Palestinan population. This photographic presentation offers a journey into Israeli occupation architecture, and, at the same time, a counter-narrative aimed to admiring the Palestinian cultural heritage, traditions and identity.*

“Se gli olivi conoscessero le mani che li hanno piantati, il loro olio si trasformerebbe in lacrime” Mahmoud Darwish

BIBLIOGRAFIA - Darwish, M. (2014), “Una trilogia Palestinese”, E. Bartuli, R.ciucani, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano. - Kanafani, G. (2012), “La terra degli aranci tristi e altri racconti”, C. Brancaccio, Amicizia Sardegna-Palestina, Cagliari. - Pappe, I. (2014), “Storia della Palestina moderna. Una terra, due popoli”, Giulio Einaudi editore s.p.a, Torino.


Sotto l’albero d’ulivo. Un viaggio dietro il muro

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un muro alto fino a 12 metri e la cui lunghezza raggiunge attualmente 570 km ma che a progetto finito raggiungerĂ 810 km

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01. No caption needed, Bethlehem 2018. 02. Parte del muro di apartheid a Betlemme. Part of the apartheid wall in Betlehem. 03. Soldato israeliano controlla il checkpoint di Betlemme durante il Ramadan, 2018. Israeli soldier patrols the checkpoint during Ramadan, Bethlehem 2018. 04. Scolaresca attende l’autorizzazione dei soldati israeliani per attraversare il checkpoint di Bab al Zawiya, Al Khalil. Class awaits the authorization of Israeli soldiers to cross the Bab al Zawiya checkpoint, Al Khalil. 05. Soldati israeliani irrompono in un’abitazione palestinese nella città di Al khalil. Israeli soldiers break into a Palestinian home in the city of Al khalil.

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ad oggi, almeno 8 milioni di palestinesi sono sfollati forzati in tutto il mondo

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06. Dall’inizio del 2005, ogni mattina i bambini attendono dal villaggio di Tuba l’arrivo di una pattuglia dell’esercito israeliano incaricata di accompagnarli lungo il percorso più breve che, passando tra l’insediamento israeliano di Ma’on e l’avamposto illegale di Havat Ma’on, porta al villaggio di At-Tuwani, dove si trova la scuola elementare. La scorta ha il compito di proteggere i bambini dalle violenze dei coloni israeliani dell’avamposto di Havat Ma’on. Since the beginning of 2005, the children have been waiting every morning from the village of Tuba for the arrival of an Israeli army patrol in charge of accompanying them along the shortest route which, passing between the Israeli settlement of Ma’on and the Illegal outpost of Havat Ma’on, leads to the village of At-Tuwani, where the primary school is located. The escort is charged with protecting children from the violence of Israeli settlers at the Havat Ma’on outpost. 07. Capo beduino del villaggio di Al Khan Al Ahmar. Il villaggio è sotto ordine di demolizione da svariati anni da parte del governo israeliano, che smantellandolo potrebbe annettere le colonie illegali a Gerusalemme. Bedouin Head of the village of Al Khan Al Ahmar. The village has been under demolition orders for several years by the Israeli government, which dismantling it could annex illegal colonies to Jerusalem. 08. Ahed Tamimi dipinta sul muro di Apartheid dall’artista italiano Jorit, Betlemme. Ahed Tamimi painted on the Apartheid wall by the Italian artist Jorit, Bethlehem. 09. Una delle donne dell’Ibdaa Cultural Center, campo profughi di Dheisheh, Betlemme. Woman from Ibdaa Cultural Center, Dheisheh refugee camp, Betlehem.


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10 10. Bambine nella città di Jenin. Little girls in Jenin. 11. Bambini giocano a calcio davanti ad uno dei 18 checkpoint presenti nella città vecchia di Al Khalil, Hebron. Children play football in front of one of the 18 checkpoints in the old city of Al Khalil, Hebron. 12. “La libertà che guida il popolo”, Al Khalil. “Liberty leading the people”, Al Khalil.


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a journey behind the wall


Nicola Auciello Architetto, NA3 Architetti, docente di progettazione IED. nicola@na3.it

Lo spazio in attesa Sulla Costa. La forma del costruito mediterraneo non accreditato Stefanos Antoniadis Anteferma, 2019 (cover design Margherita Ferrari)

The Waiting Space A voice changes according to the body that lets it out, and according to the passing time. Antoniadis’ gaze, focusing on the unacknowledged Mediterranean buildings, can be assimilated to the silence or the sound of a voice, as it is unique and rich of elements that constantly change. Some emergent keywords extracted from the book are uniqueness and transformation, vocabulary and form, gaze and photography, beauty and restlessness. This last binomial (contrast) implies that every time we look at a pearl we forget that it’s the disease of the shell: the pearl would never be born without the disease, as well as the landscape would not welcome the hope of a new wonder without accidents of the built environment and its ruins.*

La visione di un paesaggiomosaico silenzioso in attesa di una voce l tempo di uno spazio trova la sua declinazione in una continua trasformazione, nel rivelare ciò che esiste ed è valido per il presente; il paesaggio vive e si trasforma con esso: solo il tempo potrà attribuirgli il giusto consenso rendendo il mosaico del costruito atemporale. È la conclamata differenza tra i progetti immaginati e reali, quest’ultimi hanno necessità di convivere assieme al tempo, anche se silenziati. Le rovine, sulle quali Antoniadis punta lo sguardo, godono, talvolta, di un soporifero e pacifico silenzio in attesa di una fervida voce. Mi è naturale paragonare il complesso lavoro di ricerca dell’autore al silenzio o suono di una voce, elementi unici e in continua trasformazione: una voce cambia a seconda del corpo che abita e del tempo che l’attraversa. Unicità vs Trasformazione I segmenti di paesaggio costiero indagati nel libro sono di fatto omologhi ma allo stesso tempo unici. L’unicità consta in una continua trasformazione/ contaminazione che la storia ha determinato su quel territorio. Di fatto sono le continue alterazioni fisiche e antropiche, anche apparentemente incoerenti, che insistono sulle coste, oggetto di indagine, a determinare quella esatta forma del costruito. È un po’

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quello che accade in enologia: i vigneti autoctoni sono unici, appartengono esattamente a un determinato paesaggio, territorio, e non possono essere piantumanti altrove, essi sono il frutto di tutto ciò che assorbono proprio in quel luogo, e ne fanno sintesi dichiarando unicità e irripetibilità. Si tratta quindi di unicità costruita sulla trasformazione e non su una perenne autosomiglianza, dunque alloctona. I manufatti analizzati sono a riposo, da tempo, ma continuano a respirare, ad assorbire, a muoversi – e a commuovere – tramite il proprio tempo vissuto. Vengono assembrati in un originale vocabolario di forme, di immagini, dalle quali molteplici sono le occasioni di pensiero. Vocabolario vs Forma Il vocabolario è una raccolta consolidata, ma è anche un lessico in continua evoluzione ( forse perché non esistono collezioni davvero consolidate). È un insieme di segni (ma anche immagini) concordati, con la possibilità di essere integrati al tempo presente con nuove parole, che piacciano o meno (il caso della parola “petaloso”, giusta o sbagliata che sia,

IL LIBRO


Elementi del vocabolario del paesaggio. Elements of landscape vocabulary. S. Antoniadis, 2016

denuncia effettivamente questa cruciale caratteristica “aperta” delle raccolte). Questa caratteristica evidenzia anche una modalità comportamentale consolidata: in pochi si sentono di rischiare nell’investigazione di un lessico non accreditato, specie in tempi di sovrabbondanza di segni, perché significa rischiare, attuare una selezione, assumersi delle responsabilità, metterci la faccia. Significa occuparsi di nuove forme e nuovi termini nella gestione dei quali, magari, non si è inizialmente forti e preparati. Definiamo manufatti forme che non sono nate dalla natura ma che l’uomo ha pensato e costruito; a volte, nel completo abbandono, stato di rovina, rimangono silenti fino a quando non venga restituito il modo di liberarne la ragione d’esistenza, risvegliando forma e funzione e diventando finalmente “architetture parlanti”. Nel silenzio hanno continuato a vivere, hanno assorbito lo scorrere del tempo, sono invecchiate affrontando climi e usi diversi e sono state di sicuro protagoniste di svariate trasformazioni sociali e paesaggistiche. Perciò è solo l’uomo a determinare lo spazio costruito, la sua forma, la sua funzione, il suo silenzio, la sua voce o il suo rumore. La voce del risveglio che Antoniadis cerca e individua sulla costa del Mediterraneo è frutto del suo inedito e

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sensibile sguardo, partecipativo, corale, condivisibile. Sguardo vs Fotografia Le operazioni raccolte nel libro evidenziano come l’osservare una rovina da altra angolazione permetta di valutarne la sensatezza o meno della demolizione della stessa. Ecco che questa strategia, basata sulla sensorialità di uno sguardo - e quindi sul meccanico strumento fotografico - permette di ridimensionare non solo radicalmente ciò che è considerato patrimonio o rifiuto, ma di dilatare il concetto di bellezza insita in un luogo, oltre a innescare possibili ragionamenti per una nuova economia territoriale. Uno sguardo che cattura immagini cariche di un sensibile bagaglio culturale, capace di risvegliare il recondito senso di bellezza, premessa di speranza proprio intorno a noi, che quando non accreditata può tramutarsi in inquietudine. Bellezza vs Inquietudine In un certo senso la bellezza è negli occhi di chi osserva, ma soprattutto quando lo sguardo dell’osservatore non l’esaurisce e rimanda a un

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ulteriore significato. “Sulla costa. La forma del costruito mediterraneo non accreditato” va oltre rispetto a quello che il sensibile può offrire: lo sguardo non riesce a catturare la totalità del significato dunque c’è un rinvio verso l’ineffabile, ma che l’autore con più linguaggi - parola, disegno e fotografia razionalizza e giustifica. Quando osserviamo una rovina ci comportiamo come quando scorgiamo una perla in una conchiglia. Ogni volta che ammiriamo la perla ci dimentichiamo che essa stessa è la malattia della conchiglia. Senza la malattia non sarebbe nata la perla così come senza incidenti del costruito il paesaggio e le rovine non abbraccerebbero l’auspicio di nuova meraviglia.*



Lo storico quartiere “Bexiga” nella contemporaneità The Historical “Bexiga” District in Contemporary Times

Giulia Vercelli Architetto laureato presso il Politecnico di Torino con doppia laurea e master di ricerca post-laurea presso la Universidade Estadual de Campinas (Unicamp), Brasile vercelli.giulia@gmail.com

Scorcio del Bexiga in tutta la sua densità e complessità. Glimpse of the Bexiga in all its density and complexity. Giulia Vercelli

I CORTI

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Interpretazioni equivoche di quali siano i valori culturali locali, appoggiate da una legislazione urbanistica che non prevede piani di tutela specifici, hanno portato negli ultimi decenni a gravi perdite di beni architettonici che testimoniano l’evoluzione della città di San Paolo, in Brasile, e in particolare dello storico quartiere Bexiga. Il Bexiga1 è fin dalla sua origine un quartiere dinamico, sinonimo di accoglienza e convivenza multietnica: da periferia malsana dove si insediarono gli immigrati – prevalentemente italiani – alla fine del XIX secolo a quartiere popolare ad alta densità abitativa oggi, localizzato tra il polo economico e il polo commerciale di San Paolo. La sua posizione strategica lo rende al centro di molte tensioni socio-economiche: da un lato la pressione del mercato immobiliare che spinge affinché venga dato il via libera alla espropriazione e verticalizzazione dell’area, dall’altro la resistenza dei residenti appartenenti a ceti sociali poco abbienti e una legislazione di protezione del patrimonio storicoarchitettonico che crea vincoli senza proporre effettive strategie di intervento. Le prime iniziative finalizzate alla preservazione del quartiere risalgono agli anni Ottanta del secolo scorso, con la pubblicazione nel 1984 dell’Inventario Generale del Patrimonio Ambientale, Culturale e Urbano della città di San Palo (IGEPAC), uno strumento inedito per l’individuazione delle aree antiche della città, al fine di sussidiare future politiche di preservazione e pianificazione urbana. Nonostante il pionierismo di quest’inventario e il vincolo di tutela del quartiere ufficializzato nel 2002 dal Dipartimento del Patrimonio Storico (DPH), non è seguito nessun piano di intervento specifico per proteggere il Bexiga. Inoltre le nuove direttive del Piano Direttore Strategico emanate nel 2014 propongono avanzamenti per l’ottimizzazione dello spazio urbano, ma non contemplano in alcun modo la preservazione del patrimonio costruito come elemento di memoria e risorsa. La mancanza di piani di sviluppo specifici per quest’area non fa altro che aumentarne la vulnerabilità, il degrado e la marginalizzazione. Ma è proprio l’unione di questi fattori che lo rende terreno fertile per la sperimentazione progettuale tipo-morfologica. Per permettere una riflessione sulla conformazione attuale del Bexiga e sulla perma-

BIBLIOGRAFIA - Muratori, S. (1959), “Storia per una operante storia urbana di Venezia”, Consiglio Nazionale delle Ricerche, Roma. - Caniggia, G., Maffei, G. (1979), “Lettura dell’edilizia di base”, Marsilio, Venezia. - Diêgoli L.R. (1986), “Inventario geral do patrimônio ambiental e cultural: metodologia”, Departamento do Patrimônio Histórico, São Paulo. - Del Panta, A. (2000), “I tipi edilizi proposti da Saverio Muratori come strutture di comprensione della città”, in “Quasar”, n. 23, pp. 121-128.

NOTE 1 – Nome popolarmente attribuito a una regione della città di San Paolo, più precisamente alla lottizzazione originale dell’attuale Bela Vista. Pur non essendo il nome Bexiga ufficialmente riconosciuto dall’amministrazione comunale, viene qui considerata come quartiere con proprie caratteristiche storiche, sociali e culturali. 2 – Saverio Muratori (Modena, 1910 – Roma, 1973) fu architetto e storico italiano, oltre a professore presso le Università di Venezia e Roma. Considerato il fondatore di una nuova metodologia per lo studio dell’architettura e dell’urbanistica. 3 – Per vedere i risultati di questo studio consultare la tesi: Vercelli, G. (2018), “Reinventariar para preservar. O histórico Bairro do “Bexiga” na contemporaneidade”, sviluppata sotto la guida della Prof.ssa Regina Andrade Tirello all’interno del Programma di Pós-Graduação em Arquitetura Tecnologia e Cidade (PPG-ATC) della Unicamp.

nenza dei suoi valori storici, una possibile strategia di intervento parte dalla lettura morfologica basata sulle teorie di Saverio Muratori2 di analisi tipo-morfologica dell’ambiente costruito. Il Bexiga è un luogo in cui le permanenze storiche mancano ancora di valutazioni, in grado di associarle correttamente (e rivelare il loro protagonismo) al processo di sviluppo della città. È necessario innanzitutto analizzare e comprendere la memoria costruita e puntare, senza compromettere il paesaggio culturale consolidato, verso un futuro sostenibile di riqualificazione del quartiere che tenga conto delle esigenze contemporanee della popolazione che lo abita. A tal fine, tutte le stratificazioni temporali “la cui conservazione è necessaria per la civiltà” devono essere rispettate e integrate (Muratori, 1963). Si ritiene che proprio il metodo “muratoriano” sia adatto all’analisi del tessuto storico del Bexiga, caratterizzato da una particolare stratigrafia temporale che, erroneamente, è spesso vista da molti come un processo di perdita di identità del patrimonio3. Attraverso lo studio della forma urbana e la lettura della stratificazione temporale e culturale del Bexiga contemporaneo si può progettare un futuro sostenibile, sfidando la logica delle rapide e apatiche trasformazioni della megalopoli brasiliana.*



Pieni e Vuoti: una grande riserva di spazio Fullness and Emptiness: a Large Space Reserve

Paola Careno Laureanda in architettura presso l’Università Iuav di Venezia. carenopaola@gmail.com

Latomia di cava Gonfalone. Latomia of Gonfalone quarry. Paola Careno

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Immaginiamo gli abitanti di Tecla1, dove poco si riesce a vedere della città ma solo cantieri dove si lavora all’infinito. Immaginiamo adesso la voce di Giancarlo Giannini che, nei panni del marchese di Acquafurata nel film La stanza dello scirocco2, descrive: “nelle giornate di vento, quando la sabbia che viene dal deserto copre tutto, non c’è posto più dolce e più fresco per aspettare che questo caldo afoso finisca; e allora mi ricordo che tutti si rifugiavano qui dentro e ci restavano senza muoversi, immobili, fermi e aspettavano e aspettavano […]”. Densità, dinamismo e rumore da una parte; vuoto, stasi e silenzio dall’altra. La medesima contraddizione in termini caratterizza la città di Ragusa, il cui territorio è sezionato da numerose cave, vallate più o meno profonde, scolpite dall’azione dell’acqua e del vento nella roccia calcarea. Cava Santa Domenica e Cava Gonfalone sono le più prossime alla città. Nei versanti della prima, dopo il terremoto del 1693, per far fronte a un’ingente quantità di materiale da costruzione, vennero scavate latomie3 che in seguito furono riutilizzate come ricovero di animali o per attività collaterali all’estrazione della pietra, come la produzione di calce. Sono enormi aggrottati sostenuti da pilastri in pietra a forma quadrangolare di circa un metro e mezzo e da cinque a dieci metri di altezza. La latomia di Cava Gonfalone, invece, venne scavata tutta a punta di piccone per ricavare il materiale da costruzione per Ragusa dopo l’elezione a provincia del 1929 e conta una superficie di circa 20.000 metri quadri. Il percorso dalla città alle latomie, lungo i versanti della cava, tra la folta vegetazione e piante di acanto, assomiglia a una catabasi: i rumori del sopra-suolo si fanno sempre più ovattati fino a svanire, si avverte il suono dell’acqua che scorre, il gocciolio dall’intradosso della volta degli aggrottati e subentra la percezione del fuori-scala. Storie scomparse e spazi vuoti che possiedono caratteristiche scultoree e tettoniche impressionanti. “Questa armonia fra pieni e vuoti colpisce anche perché non è mai fissata e definitiva, ma anzi è sempre diversa da sé stessa e in divenire, come se le pesantissime quinte della scena venissero lentamente e inesorabilmente spostate ogni giorno, con il risultato che non esiste un’immagine delle cave, ma l’immagine che si percepisce in un dato momento,

BIBLIOGRAFIA - Galletti, I., Ruggeri R. (1996), “ Itinerari lungo le cave Iblee e non solo”, in “Speleologia Iblea”, n. 6, pp. 5-11. - Iacono, G. ( 1994), “Indagine storica sugli aggrottati di Ragusa”, in “Speleologia Iblea”, n. 4, pp. 7-24. - Secchiari, L. (2015), “La caverna e la cava. Simbolismo e tecnologia” in Croatto, G. e Boschi, A., “Filosofia del nascosto. Costruire, pensare, abitare nel sottosuolo”, Marsilio, Venezia, pp. 45-54. - Virilio, P. e Burkhard, F. (2005), “Abbiamo bisogno del sottosuolo”, in “Domus”, n. 879, pp. 108-112.

NOTE 1 – Tecla è una delle città invisibili descritta nell’omonimo libro da Italo Calvino al Cap VIII, “Le città e il cielo”. n. 3. 2 – “La stanza dello scirocco” è un film del 1998 diretto dal regista Maurizio Sciarra. La pellicola è tratta dall’omonimo romanzo di Domenico Campana del 1986. 3 – Il termine Latomia, dal greco gr. λατομίαι, comp. di λᾶς “pietra” e tema di τέμνω “tagliare”, indica più propriamente cave di pietra nella quale, nell’antichità, spesso venivano condannati ai lavori forzati delinquenti comuni, prigionieri di guerra e avversari politici. Oggi il termine è comunemente usato per indicare cave di pietra da taglio da cui si ricava materiale da costruzione.

unico e irripetibile, come lo scorrere degli attimi nel tempo” (Secchiari, 2015). Quali scenari per il loro prossimo futuro? Interessante il colloquio tra Paul Virilio e François Burkhardt che, in un articolo intitolato Abbiamo bisogno del sottosuolo, auspicano un ritorno al “Tellurismo” che è il rapporto con la terra, consapevoli che l’aviazione e i grattacieli hanno contribuito a plasmare un mondo “de-tellurizzato”. Considerano l’architettura sotterranea come la prosecuzione della Land Art in quanto volta a reintrodurre l’arte nel terreno, nel suo fondamento. Mostrano come arte e terreno siano legati perché l’origine dell’arte è l’arte funeraria. Affermano che l’architettura sotterranea è il luogo delle immagini perché l’origine delle immagini è l’ombra e ci fanno notare come oggi i musei di arte contemporanea espongono, più che pitture o sculture, immagini o percorsi, come le sequenze video di Chris Marker o di Bill Viola, ad esempio. La chiave di volta del discorso è quasi un sillogismo. Se i musei di arte contemporanea sono gallerie di immagini e percorsi, e se l’ipogeo è il luogo della proiezione di immagini, possono allora le cave, le latomie e la grande riserva di spazi sotterranei più in generale, essere considerati i futuri musei di arte contemporanea?*



Le tendenze della densificazione in altezza High-density Trends

Martina Belmonte Dottoranda in Tecnologia dell’architettura – Università Iuav di Venezia mbelmonte@iuav.it

Una vista dell’Interlace: un complesso residenziale ad alta densità abitativa realizzato nel 2013 a Singapore. A view of Interlace: a high-density residential complex completed in 2013 in Singapore. Jérémy Binard

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Secondo le Nazioni Unite entro il 2050 la popolazione mondiale raggiungerà i 10 miliardi, intensificando il processo di migrazione – già in atto – dalle aree suburbane verso le città che dovranno, necessariamente, essere in grado di accogliere simili volumi di abitanti. Il dibattito su quale dovrebbe essere la conformazione di queste città del futuro è aperto e le opinioni sono differenti. Il timore è che alcune delle funzioni fondamentali potrebbero essere messe in secondo piano, dando precedenza al problema – imponente – di creare spazi per accogliere i cittadini. Non si tratta però solo di dare una forma al “contenitore” ma anche di capire come esso possa funzionare in termini di mobilità, infrastrutture, spazi aperti e di lavoro, oltre che di socializzazione. Nella maggior parte delle soluzioni avanzate si rintraccia una predisposizione per la costruzione in altezza: costruire in verticale potrebbe permettere di minimizzare l’utilizzo del suolo assicurando una massimizzazione della densità abitativa. Niente di nuovo per il tipo dell’edificio alto che, sin dalla seconda metà dell’Ottocento, risponde alla domanda di spazio (e di massimizzazione dell’investimento economica). Il Council on Tall Buildings on Urban Habitat (CTBUH), ente di riferimento internazionale per gli edifici alti e lo sviluppo urbano sostenibile, redige ogni anno un report dettagliato riguardo il settore. Sebbene nel 2019 l’esponenziale picco di realizzazioni pare abbia subito un lieve rallentamento, le analisi condotte “indicate the growing interest of creating horizontal habitat at height in increasingly crowded, vertical cities”1 (CTBUH, 2019). Il grattacielo, spesso etichettato con accezione negativa un single-standing building2 (Safarik e Wood, 2019), pare si stia orientando verso una maggiore complessità e apertura verso il contesto, trovando validi alleati sia negli sky-bridge3 che nella conformazione a cluster. Dalla prima applicazione nel 1986 come collegamento pedonale nelle iconiche Petronas Towers, il dispositivo sky-bridge ha visto una notevole evoluzione: dalla piscina panoramica in sommità delle torri del Marina Bay Sands, passando per i tre piani di tunnel colorati che attraversano le nove torri del Linked Hybrid di Steven Holl, fino ai collegamenti pensati per la socializzazione dei complessi residenziali ad alta densità abitativa come il Pinnacle@ Duxton. Quello che si deduce osservando i progetti di torri collegate tra loro è il valore che questi spazi in quota stanno assumendo, permettendo alle persone che ne usufruiscono di godere di momenti tipici della città ma

BIBLIOGRAFIA - Al-Kodmany, K., Ali, M. A. (2016), “The Future of the City: Tall Buildings and Urban Design”. WIT Press, Southampton, UK. - “CTBUH Tall Buildings” in “2019. CTBUH Year in Review”. www. skyscrapercenter.org (presa visione maggio 2020). - Safarik, D., Ursini, S, Wood, A. (2016), “Megacities: setting the scene”. “CTBUH Journal” IV, pp. 30-39. - Safarik, D., Wood, A. (2019), “Skybridges: A History and a View to the Near Future. “International Journal of High-Rise Buildings”, vol. 8 (1), pp. 1-18.

NOTE 1 – Indicano il crescente interesse nel creare habitat orizzontali in altezza sempre più affollati, città verticali. 2 – Edifici indipendenti. 3 – Uno spazio definito, attrezzato o meno a ospitare servizi, che collega orizzontalmente due o più edifici.

lontani dal caos e dalla congestione delle strade, beneficiando, fattore non trascurabile, di viste privilegiate. Se è vero che le città del futuro avranno un marcato carattere verticale, forse questa ricerca di un collegamento orizzontale potrebbe risultare una conseguenza necessaria. L’estremizzazione di questo processo si vede nel modello insediativo dell’Interlace, una serie di blocchi residenziali a sviluppo orizzontale, impilati l’uno sull’altro in maniera irregolare, a dimostrazione della potenzialità che gli edifici alti hanno di creare spazi urbani di qualità in altezza, abbandonando il preconcetto di progettare i grattacieli come icone isolate e autoreferenziali. Il futuro potrebbe essere quello di una “città nella città”, una sotto-unità indipendente, fornita di proprie infrastrutture e servizi che si inserisce all’interno di un sistema più ampio. Per ora è impossibile stabilire quali saranno le configurazioni delle città future, tuttavia, il grattacielo pare si stia spogliando della tipica rigidità formale e stia vivendo un processo di trasformazione verso soluzioni più complesse e dinamiche. Forse le visioni futuristiche, utopiche, di Corbett, Hilberseimer e Sant’Elia potrebbero diventare futuri punti di riferimento.*


Giacomo Checchin Part II Architectural assistant. giacomo.checchin@libero.it

London, Grenfell Tower The research is extracted from the thesis “London, Grenfell Tower. To build a different story “, which traces the history of the skyscraper, from its construction, to its redevelopment, until the tragic fire that occurred in 2017. The aim of the research is to develop a retrospective project capable of responding to the adaptation needs of the building to the exogenous and endogenous changes specified by the client, developing the design aspects related to safety and fire prevention, the costs of which are economically supported by an expansion of the tower itself.* el corso degli anni ’60 la ricerca di una soluzione architettonica alla necessità di ospitare 3.000 persone nell’area nord di Kensington si tradusse nella realizzazione di edifici a scala urbana, collegati alla mobilità veloce da parcheggi interrati e attraversati da collegamenti pedonali in quota, che avrebbero dovuto creare una rete tra i servizi in armonia con le abitazioni e i numerosi spazi aperti. Nei primi anni ’70 Clifford Wearden and Associates progettarono Grenfell Tower come parte di questo grande complesso residenziale che prese il nome di Lancaster West Estate. La torre era caratterizzata dalla struttura a telaio con travi prefabbri-

cate, dai solai e i pilastri ottagonali in cemento armato che ne scandivano i prospetti e da una visuale privilegiata verso Hyde Park e del cuore di Londra. Dal 14 giugno 2017 Grenfell Tower è nota per il tragico incendio che la distrusse, ma nel 2012 il suo rinnovamento rappresentava invece il culmine di un grande progetto di riqualificazione urbana all’interno del Borough di Kensington and Chelsea. L’obiettivo del progetto era sostanzialmente quello di estendere la vita della torre introducendo nel progetto realizzato negli anni ’70 i concetti di sostenibilità ambientale ed economica, e adattando i sistemi integrati esistenti alle nuove prassi sociali e ai loro

spazi. Infatti gli interventi sulla torre prevedevano principalmente di allineare lo standard dell’involucro esterno con gli standard attuali, ottimizzare l’uso dello spazio interno, creare nuovi alloggi, migliorare l’ingresso e l’aspetto dell’edificio e dell’area di Lancaster West in generale. A partire da queste necessità di adattamento dell’edificio ai cambiamenti esogeni ed endogeni specificati nel 2012 è stato sviluppato in questa ricerca un progetto retrospettivo che rispetta i criteri e gli obiettivi che la committenza aveva prefissato e risolve i nodi progettuali relativi alla sicurezza e alla prevenzione incendi attraverso l’addizione di un nuovo volume in gra-

01. Planivolumetrico dell’area di Lancaster West. Al centro Grenfell Tower; ad ovest le torri di Silchester Estate e la stazione di Latimer Road; a nord Notting Hill Methodist Church e Kensington Aldrdge Academy, ad est Kensington Leisure Centre; a sud Lancaster West Estate, Saint Clement Church e Saint Francis of Assisi Catholic Primary School. Giacomo Checchin

Londra, Grenfell Tower

Metodi e possibilità di ampliamento degli edifici a torre

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02. Modelli delle possibili configurazioni di addizione. In ordine a partire da sinistra 2a, 2b, 2C, 2d, 2e. Possible addition configurations. In order from left 2a, 2b, 2C, 2d, 2e. Giacomo Checchin 03. Figura architettonica e strategia costruttiva. Architectural figure and construction strategy. Giacomo Checchin

do anche di sostenere economicamente l’intero progetto. Tale ampliamento è oggetto di una indagine metodologica che lavora sul e con il margine della torre, inteso come confine adattivo, comparando diverse soluzioni strutturali, formali e distributive al fine di determinare in modo analitico la soluzione architettonica capace di realizzare al meglio gli obiettivi prefissati. La dimensione ideale del progetto, collocato nel passato, e la concreta necessità di trovare soluzioni architettoniche al tema dell’addizione nel caso specifico di Grenfell Tower, hanno condotto a sviluppare cinque ipotesi preliminari, in cui l’ampliamento - che contiene principalmente una seconda scala di sicurezza e nuove abitazioni- si

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declina in diverse morfologie (img. 02). La prima proposta si configura come un volume separato costituito da una struttura indipendente (2a). La seconda appare come un volume sospeso sopra la torre costituito da travi reticolari in acciaio che poggiano sul nucleo centrale esistente (2b). La terza configurazione appare come l’unione delle prime due: il volume dell’ampliamento è separato e collegato allo stesso tempo a quello originario sia lateralmente che in sommità; la nuova struttura è agganciata al core a partire dal ventiquattresimo piano (2c). Nella quarta proposta il nuovo volume avvolge la torre ad est e le due strutture collaborano (2d). L’ultima configurazione prevede che il volume si sviluppi lungo due lati e sopra l’edificio

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e due travi reticolari li uniscano mantenendo la struttura autonoma rispetto a quella esistente (2e). A determinare l’espressione di queste proposte e al contempo la loro validità sono diversi aspetti di carattere sia qualitativo che quantitativo. I primi sono il prodotto di un’analisi interpretativa del sito che vincola l’addizione a mantenere ad ovest i rapporti volumetrici e visivi con le torri di Silchester Estate e a valorizzare ad est il paesaggio urbano di Londra. I fattori quantificabili di cui si è tenuto conto sono legati alla necessità di limitare eventuali interventi di consolidamento per dare la possibilità agli inquilini di abitare la torre durante le fasi di costruzione e ridurre quindi le spese dell’operazione.


Per ogni proposta sono stati confrontati i dati relativi alla quantità di superficie esistente oggetto di modifica con quella aggiunta, la stima del costo di ogni intervento e il periodo di tempo durante il quale l’edificio rimane inaccessibile. Lo studio del soleggiamento e della proiezione reciproca dell’ombra della torre e del suo ampliamento ha concluso l’analisi dei modelli (img. 03). Lo studio ha dimostrato una maggiore efficacia della prima configurazione, non solo per quanto riguarda la capacità delle torri di collaborare e adattarsi l’una all’altra una volta conclusi i lavori, ma anche quella di convivere durante il processo di costruzione grazie ai circoscritti interventi di consolidamento che consentono ai residenti di permanere nelle loro abitazioni riducendo i costi. Durante la prima fase di costruzione hanno luogo gli interventi di consolidamento delle colonne dei primi tre piani della torre esistente, con conseguente accesso alla torre dal lato est. Nella seconda fase l’accesso torna a essere permanente a sud e comincia la costruzione dell’addizione. Una volta terminata, si procede alla modificazione di un solo appartamento per ogni piano e alla creazione dei collegamenti in acciaio tra le due torri. Infine si utilizzano i ponteggi per realizzare il nuovo rivestimento di Grenfell Tower riducendo i valori di trasmittanza da 0,243 W/m2K a 0,186 W/m2K. La scelta di creare un volume separato, oltre a facilitare la costruzione, permette sia di accedere da ogni piano della torre esistente a una seconda via di fuga percorrendo la stessa quota, sia di rispettare l’altezza minima standard negli appartamenti dell’ampliamento superando il limite imposto dall’esigue dimensioni dell’altezza di interpiano e dello spessore del solaio della torre esistente, tramite lo sfasamento regolare delle quote dei solai dei nuovi appartamenti. Per questa ragione l’ampliamento presenta un numero di piani inferiore rispetto a Grenfell Tower e allo stesso tempo una continuità nei percorsi e nelle vie d’esodo (img. 04). La soluzione di questo nodo distributivo e costruttivo conferisce alle piante dei piani tipo

04. Sezione longitudinale e sviluppo della torre nei suoi piani tipo. Legenda: in grigio l’esistente, in nero l’addizione. Longitudinal section and tower typical plans. Legend: the existing in gray, the addition in black. Giacomo Checchin

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5c 05. Principio insediativo. Legenda: in grigio l’esistente, in nero l’addizione. Settlement principle. Legend: the existing in gray, the addition in black. Giacomo Checchin 1. Sala polivalente 2. Hall di ingresso agli uffici 3. Hall di ingresso agli appartamenti 4. Asilo nido

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06. Esploso assonometrico. Axonometric view. Giacomo Checchin 1. Sala polivalente 2. Uffici 3. Hall di ingresso 4. Asilo nido 5.Pub 6. Boxing club 7.Appartamenti 8. Giardino di inverno

dell’addizione la forma di un cono ottico che mette a fuoco il panorama verso la città senza ostacolarne la vista dagli appartamenti esistenti, garantendo anzi un’illuminazione ottimale. Se riqualificare la torre in relazione a un ampliamento ha richiesto soprattutto risposte a fattori esogeni, la riqualificazione stessa in relazione al contesto urbano ha coinvolto anche fattori endogeni, legati alla trasformazione dell’utilizzo e della concezione degli spazi realizzati negli anni ’60 e ’70. Il principio insediativo mira a creare quindi un nuovo sistema di relazioni distributive e visuali con questi spazi al fine di favorire le interazioni sociali e le attività consolidate nell’area. Ad est,

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in corrispondenza dell’ingresso alla galleria commerciale ubicata laddove originariamente vi erano i garage di Lancaster West Estate, nascono quindi uffici e una sala polivalente semicircolare (5a). Ad ovest l’asilo nido, in origine al piano primo, è stato spostato al piano terra stabilendo una connessione di percorsi nel verde con la scuola elementare Saint Francis of Assisi e Kensington Alderidge Academy (5b). Alla quota del piano del camminamento si è scelto di implementare funzioni sociali e di aggregazione creando due nuovi collegamenti verticali che conducono a Kensington Leisure Centre e Latimer Road Station (5c). Le soluzioni architettoniche adot-

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tate e quelle ipotizzate mettono in luce le potenzialità progettuali che derivano dalle necessità dettate dalla prevenzione incendi e dall’adeguamento energetico e dimostrano come il progetto di rinnovamento di Grenfell Tower avrebbe potuto essere un’importante occasione di sviluppo e riqualificazione urbana.*

BIBLIOGRAFIA - Cheshire, J., Uberti, O. (2016), “London: The Information Capital: 100 maps and graphics that will change how you view the city”, Penguin Books Ltd, London. - Gras, C. (2019), “Nigel Whitbread, 1938-2019”, in “Riba Journal” vol. 126, n. 11, p. 112. - Val, P. (2016), “Verso una nuova costruttività. Frammenti per un linguaggio della rigenerazione del passato prossimo”, Il Poligrafo, Padova.


Matteo Isacco Dottore in Architettura, laurea magistrale in Culture del Progetto presso l’Università Iuav di Venezia. matteoisacco@gmail.com

Anatomy of an Urban Void in the Postapocalyptic City The central area of ​​Warsaw is characterized by an inhomogeneous urban fabric produced through the overlapping of interrupted urban drawings. Gaps of different size and morphology, old buildings and fragments of the wall belonging to the “Little Ghetto”, risk to be deleted from the city and from human consciousness because of the urban transformations that are taking place. It’s an exceptional documentary material that helps create dialogue for the present and a civil cohabitation with the consciousness of the past, that needs to be protected and regenerated with the construction of memorial places in order to create an extended museum of the present.* ssendo stata la devastazione di Varsavia non un effetto della guerra ma la conseguenza di un progetto meticoloso comprendente la distruzione dei suoi archivi documentali, la lettura delle modifiche urbane degli ultimi 80 anni si basa anzitutto sul confronto tra le fotografie aeree prese prima e dopo la distruzione della città. Vengono considerate, a partire dallo stato attuale dell’area di Wola, le soglie storiche 1935 e 1945: la prima rappresenta lo stato della forma urbana in corrispondenza del completamento della città realizzata dalla fine del XIX secolo che appare com-

patta e caratterizzata dall’assemblaggio degli isolati secondo un principio combinatorio: corti singole e multiple con innesti di attività produttive. La seconda, scattata dai sovietici, mostra da un lato la geografia della distruzione totale, dall’altro della permanenza delle tracce strutturali della città prebellica, conservate nell’orditura dei tracciati e nelle impronte ancora parzialmente leggibili degli isolati urbani, delle emergenze monumentali e delle grandi opere infrastrutturali. Dal confronto emerge con evidenza la discontinuità dei disegni urbani, rivelando come la città attuale sia sta-

interpretare il passato attraverso l’assenza generata dal vuoto rimasto

01. Inquadramento. Framing. Matteo Isacco

Anatomia di un vuoto urbano nella città post-apocalittica Progetto per il Museo del Ghetto di Varsavia tra le rovine dell’ex area Haberbusch i Schiele 62

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02. Mutamento morfologico strutturale. Planimetria della zona centrale di Varsavia nel 1939, Planimetria delle rovine sopravvisute alle distruzioni del 1943-44, Planimetria di Varsavia contemporanea e degli edifici sopravvisuti. Structural Morphological Change. Plan of the central area of Warsaw in 1939, Plan of the ruins surviving the destructions of 1943-44, Plan of contemporary Warsaw and of the surviving buildings Framing. Matteo Isacco

ta ricostruita ex novo all’interno del medesimo contesto. La ricostruzione postbellica rappresenta un mutamento morfologico strutturale che ha ridefinito il suo disegno urbano, sovvertendo l’originario rapporto tra pieni e vuoti, introducendo un salto di scala e di significato urbano. L’area scelta è il grande vuoto urbano dell’ex impianto industriale della Brewer Haberbusch i Schiele localizzato sul margine nordoccidentale dell’ex Ghetto piccolo, incluso nel recinto del ghetto dal novembre 1940 al dicembre 1941 per utilizzare manodopera schiava. L’area attuale comprende due isolati un tempo attraversati da ul. Krochmalna, ancora leggibile come impronta nel suolo, presentandosi come una sorta di esteso cratere all’interno della città, perimetrato da dei frammenti sopravvissuti alla distruzione, tra i quali alcuni tratti del muro originale del Ghetto. Il tema del frammento architettonico diviene qui elemento centrale. Le tracce, i frammenti possono essere ricostituiti come palinsesto narrativo, capace di interpretare il passato attraverso l’assenza generata dal vuoto rimasto. Reinterpretarli progettualmente non significa quindi musealizzarli ma ricollocarli nella città attuale. Il fine è quello di realizzare un Museo del Ghetto, attività effettivamente in atto ma ancora priva di una sede, come occasione di rigenerazione di un’area urbana per una sua restituzione a fini di uso collettivo e memorialistico. Il fulcro del progetto sarà il cosiddetto Archivio Ringelblum, che con-

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03. Pianta del piano di scavo. Excavation level plan. Matteo Isacco

il fulcro del progetto sarà l’Archivio Ringelblum, che conserva al suo interno le testimonianze raccolte durante gli anni del Ghetto sulla vita e sullo sterminio ebraico 63


04. Sezioni di fondazione, teatro e bibloteca. Basement sections, theater and library. Matteo Isacco 05. Sezioni archivio Ringelblum e luogo della riflessione. Section of Archive Ringelblum and meditation place. Matteo Isacco

la nuova architettura potrà riconoscere le tracce del passato come palinsesto morfologico

serva le testimonianze raccolte durante gli anni del Ghetto sulla vita e sullo sterminio ebraico al suo interno, all’epoca contenuto all’interno di tre latte e oggi conservato nell’istituto di ricerca storica ZIH-Zydowski Institut Historicny, ma sostanzialmente inaccessibile al pubblico. Il fruitore potrà accedervi attraverso un percorso introduttivo che si realizzerà mediante la rilettura architettonica dei frammenti ancora oggi persistenti al di sotto della città. L’archivio sarà collocato all’interno delle cantine, tra i pochi elementi ancora presenti in forma di rovina dentro il grande vuoto urbano. Il materiale verrà esposto per mezzo di diciotto colonne vetrate che assu-

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mono responsabilità narrativa e valore di monumento funebre: la reinterpretazione della funzione storica dei silos verticali, che anticamente venivano utilizzati per la conservazione della birra, si tradurrà nella concretizzazione del concetto di “colonne della Memoria”. Il risultato finale sarà la realizzazione di due sale contenenti una “foresta” di colonne dalle quali si irradieranno fasci di luce ad illuminare il materiale esposto. L’intervento all’interno si prefigge di creare una relazione e un’esperienza attiva con la rovina, assegnando all’intervento anche una funzione di dispositivo disvelatore dell’opera architettonica.

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06. Sezione Agorà. Agorà section. Matteo Isacco

I documenti diventeranno così una testimonianza attiva attraverso la collocazione espositiva, ma soprattutto tramite la fruizione dinamica da parte dei visitatori che diverranno così a loro volta testimoni della memoria. Il progetto vuole stabilire una riconnessione della città attuale con quella distrutta nel XX secolo, è attraverso un approccio archeologico al sito che la nuova architettura potrà riconoscere le tracce del passato come palinsesto morfologico, elemento essenziale del presente. Gli spazi esterni saranno coinvolti nel processo di riattribuzione di forma e significato, mediante un rimodellamento del terreno per riportare in luce le campate voltate in mattoni

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che costituivano il basamento dell’industria e implementando il sistema con spazi da adibire a centro ricerche, auditorium, teatro e biblioteca. I frammenti della città presente e del drammatico passato di Varsavia potranno dialogare entro un nuovo equilibrio. Un museo della città e non un museo nella città.*

BIBLIOGRAFIA - Bierut, B. (1951), “Le Plan sexennal de reconstruction de Varsovie. Le composition graphique, les diagrammes, le plans et le perspectives out eterno ètablis d’arpese la documentazione et lei projects du bureau d’urbaniste de Varsovie”, Ksiazka i Wiedza, Varsavia. - Ferlenga, A. (2014), “Le strade di Pikionis”, LetteraVentidue, Siracusa. - Morpurgo, G. (2018), “Varsavia-Walicòw: sezione archeologica della città post-apocalittica”, in “Territorio 84”, pp. 9-20. - Morpurgo, G. (2017), “Continente Varsavia: da metropoli a necropoli alle origini della segregazione/periferia”, in “Ananke”, 82, pp. 62-66. - Morpurgo, G. (2017), “The Ghetto ‘tradition’ in contemporary European cities: memory, narrative and reissues”, in “Eutopia”, pp. 1-3. - Riva, U., De Curtis, A. (2015), “Figurazione. Alla ricerca della forma”, Marinotti, Milano. Il contributo riportato è l’esito della tesi di laurea in Architettura discussa presso l’Università Iuav di Venezia, relatore prof. Alberto Ferlenga, correlatore Guido Morpurgo.

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Elisa Boschi Architetto laureato in Architettura per il Progetto Sostenibile e abilitato Sez. A presso Politecnico di Torino. elisa.boschi20@gmail.com

The Limitless Periurban Island In the 1950s, the uncontrolled and limitless growth of Italian cities towards rural borders contributed to the development of semi-intensive residential urban areas without the necessary structures in which people organize themself (Cassigoli, Piano, 2017). What can be done today to make these areas at the geographical, social and economic limits “less at the margins”? Provide people-oriented answers for a social, urban-architectural regeneration and for the enhancement of latent territorial resources. An intervention of this type is foreseen for the Turin case of Falchera.* l concetto di “periferia”, oggi, implica una dimensione sia geografica, sia socioeconomica; il tradizionale significato di “ambito con la massima distanza geografica e cronologica dal centro situato nel cuore antico”, ha perso valore e le implicazioni in termini di disagio. Si rileva sempre più vulnerabilità nei territori “più centrali” e, viceversa, servizi e nuove centralità nelle aree sul confine cittadino senza univoca corrispondenza, pertanto, fra aree “periferiche” e aree “marginali” (Istat, 2017a). L’analisi condotta con dati statistici1 e interviste, in ottica di dualismo centro-periferia, assevera quanto affermato, mostrando un miglioramento

della criminalità e della percezione del degrado a favore delle periferie metropolitane, di almeno 10 punti percentuali, e un aumento delle percentuali (da 7,2% a 8,7%) di intervistati impauriti dai reati in centro città. Si evidenzia, però, ancora il forte divario centro-periferia nell’accessibilità dei servizi, poichè la lontananza dal centro metropolitano e la difficoltà di collegamento con i mezzi pubblici, continuano a essere discriminante per la fruizione dei servizi, eccetto gli uffici comunali più raggiungibili in periferia (Istat, 2017a). Torino conferma la mancanza di una periferia “funzionale”, che presenti servizi accessibili (di diverso tipo), con diminuzione significativa verso il

sempre più vulnerabilità nei territori “più centrali”, servizi e nuove centralità nelle aree periurbane

01. Agglomerati a Falchera (Nuova). Agglomerations in Falchera (Nuova). Alessandra Caretto

L’isola periurbana senza limiti Il caso torinese del quartiere Falchera

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L'IMMERSIONE


perimetro comunale delle sezioni2 con luoghi per attività commerciali, artigianali, istituzionali, sociali, sanitarie, culturali e sportive, ma tra le realtà urbane italiane mostra una distribuzione equilibrata nella varietà di servizi, forse effetto dei programmi di riqualificazione urbana in numero rilevante non solo nelle sezioni centrali (4.959), ma anche periferiche (1.481) (Da Rold, 2019). Si esplicita, di fronte a tali problemi, la necessità di rigenerare le città: in primis, con una risposta ai bisogni, people-oriented, creando i mezzi per l’inclusione sociale, migliorando la sicurezza degli spazi pubblici, progettando servizi periurbani accessibili e creando un mercato del lavoro locale (ASviS, 2020). Poi, conservando l’eredità di noto valore storico-architettonico, da promuovere come risorsa e adeguare a nuovi tipi familiari e alle nuove richieste energetico-prestazionali ed impiantistiche, come il Comune di Torino ha già iniziato a fare con il progetto periferie AxTo. Emblematico è Falchera, territorio periferico (5 km dal centro) “ai margini” con vulnerabilità sociale e materiale3 elevata (Istat, 2017b), in cui dal 1999 è in corso un processo di sviluppo locale partecipato e di rigenerazione urbana con il Progetto Speciale Periferie gestito attivamente in loco dal Comitato per lo Sviluppo della Falchera in contatto con le altre associazioni del territorio. Anzitutto, si è cominciato a promuovere un’immagine positiva del quartiere con attività culturali e feste di sapore paesano, reminiscenza della terra natia degli abitanti. Falchera, infatti, è sempre stata legata alla cronaca nera, attenzionata dai mass-media, contro cui la popolazione si mobilitò; oggi, la vecchia fama per piccola criminalità e degrado sociale non è più attuale. Italiani e stranieri, in numero elevato (Istat, 2017b) poiché ai primi posti delle graduatorie per l’edilizia popolare, si sono integrati con buoni rapporti di vicinato nei condomini. L’insicurezza è percepita solamente in relazione a stili di vita diversi e alla frequentazione di persone con percorsi di criminalità (De Leo, Alba, Grassi, 2009). I giovani, vittima della vecchia fama, faticano a trovare lavoro – “quando mi

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02. Collegamenti con la città: il tram 4. Connections to the city: Tram 4. Alessandra Caretto

convocano e sono costretto a dire che vivo in Falchera […] il lavoro che prima ti promettevano non te lo danno più” (De Leo, Alba, Grassi, 2009) – come confermano il tasso di disoccupazione e l’indicatore di grave deprivazione materiale4 (Istat, 2017b). Falchera, 4,31 km² di estensione (tre volte maggiore rispetto alla media dei quartieri torinesi) con densità abitativa medio-alta (Istat, 2017b), è uno storico quartiere-satellite, di risalto urbanistico-architettonico, di edilizia popolare operaia, edificato tra il 1954 e il 1958 e nato per essere autosufficiente. L’architetto e urbanista Giovanni Astengo aveva previsto un centro civico, per rendere il complesso una “comunità” anziché un “dormitorio”, come scrisse su Urbanistica nel 1952, ma si realizzarono solamente una chiesa, una scuola elementare e alcuni uffici pubblici (Dolcetta, Maguolo, Marin, 2015), mentre i trasporti e i “servizi di prossimità” non furono più costruiti per le numerose modifiche al progetto volute dagli abitanti, come ricorda il veterano del quartiere5. Negli anni Settanta, in seguito al costante aumento demografico, Falchera si ampliò a nord con uno sviluppo urbanistico e architettonico diverso (torri di 10 piani e edifici a schiera di 4 piani) e nel 1976 si dotò di un piccolo centro commerciale pubblico, a un piano fuori terra, per convenzione tra Comune di Torino e Cooperativa CE.VE.DA. (De Leo, Alba, Grassi, 2009).

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Gli abitanti al mattino avevano difficoltà ad “andare a lavorare a Torino” (Caselli, 2004), poiché gli unici collegamenti con la città erano il bus 50 e Strada Cuorgnè; Falchera, chiudendosi in sé, si tramutò in emarginazione. Percepita come paese, nel tempo ha costruito una forte identità, che unisce anziani e giovani nei rispettivi tavoli sociali. In tale realtà, i due mercati rionali contribuiscono a tenere vivi gli spazi pubblici con relazioni e tradizioni; oggi, si aspira a un loro rinnovamento, prendendo spunto da programmi d’azione strategici di respiro europeo, già avviati

03. Terraferma all’orizzonte. Mainland on the horizon. Alessandra Caretto


in altri mercati torinesi, per la creazione di reti urbane di interesse da altre zone (Caramaschi, 2014), investendo sulla qualità delle coltivazioni locali nei 120 nuovi orti urbani rilocalizzati, bonificati e consegnati nel 2018. L’isolamento dei trasporti è stato rotto nel 2006, con il prolungamento della linea tramviaria 4, che percorre la città da sud a nord e ha agevolato la mobilità. La trasformazione si è completata con l’attivazione di stazione Stura e del Servizio Ferroviario Metropolitano, rendendo Falchera un centro tra la città e l’hinterland, specialmente per raggiungere le stazioni di Torino Porta Susa e Torino Lingotto (Culicchia, 2019). Ora i giovani “potrebbero andare altrove […]

ma sentono l’appartenenza, preferiscono restare qui, comprano le birre e poi vanno in piazza”6; così, hanno cominciato ad usare la Biblioteca come spazio sociale di ritrovo e confronto e per corsi o conferenze, in mancanza di altri luoghi (Culicchia, 2019). La struttura svolge attività con scuole e associazioni del territorio, per attrarre nuovi lettori dai Comuni limitrofi e da Piazza Rebaudengo, avendo un tasso di prestito inferiore ai reali frequentatori. Mantenere continuità nei servizi pubblici, come la biblioteca, l’anagrafe e l’ufficio postale, in un territorio così periferico, è problematico, soprattutto a fronte della diminuzione di popolazione che emigra non appena raggiunge il

04. Rigenerazione urbana e Social Housing a Falchera. Intervento Falchera: quando il S.H. incide sulla vita sociale del quartiere. Urban regeneration and Social Housing in Falchera. Falchera intervention: when the S.H. affects the social life of the neighborhood. Urbanpromo

05. Social Housing in progetto. Ortofoto su “Laghetti Falchera”. Social Housing planned. Orthophoto on “Laghetti Falchera”. www.torinoclick.it

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diploma o, di più, la laurea. Il Comune sta scommettendo, risanando edifici dismessi, su mantenimento ed ampliamento della rete di servizi, ad esempio, sociali – come la “Comunità alloggio e Centro diurno socio terapeutico per persone con disabilità” – a vantaggio della creazione di interessi biunivoci verso il sistema locale, di occupazione ed integrazione sociale7. L’attuale realtà commerciale è costituita da attività in forma di impresa individuale (72,3%)8 ed “essenziale”, rivolta al soddisfacimento di fabbisogni di ordine primario, incapace di un richiamo da altre zone, data anche la vicinanza dell’Auchan e del centro commerciale Settimo Cielo. Reputo che, attualmente, il Quartiere abbia potenziale per nuovi insediamenti economici specializzati: celeri connessioni con il centro (tram 4 e SFM), bassi costi di affitto dei locali, posizione strategica a ridosso dell’autostrada TOMI e patrimonio naturale9 unico in città. I “Laghetti Falchera”, degradati da discariche abusive e da ex-orti urbani selvaggi, sono una risorsa socioeconomica non trascurabile su cui dal 2015, nell’ambito del Programma Integrato di Sviluppo Locale (Pisl) elaborato nel 2007, si sta agendo con la riqualificazione ambientale a parco pubblico e agricolo. Riforestazione del paesaggio visivo e sonoro antistante la tangenziale con 840 alberi, un percorso ciclo-pedonale da collegare a Corona Verde, giochi per bambini e percorsi fitness, un’area attrezzata per pic-nic e una piccola spiaggia, ideale per attività di birdwatching, data la particolare avifauna, e il beneficio di un’occupazione stagionale, con la costruzione di una club house per attività di bar/ristorazione e per la gestione di attività didattiche e di loisir e di un vivaio con serra fissa per la manutenzione del parco. Il flusso di persone previsto nel tragitto centro-parco e gli obiettivi d’inclusione sociale con spazi aperti anche all’utenza esterna, ottimizzando i collegamenti con la stazione Stura e con la nuova fermata del 4, di presidio della sicurezza – esercizi commerciali a piano terra a integrazione dei già presenti a Falchera – , di creazione di un contesto abitativo-sociale più qua-

L’IMMERSIONE


06. Falchera guarda in alto. Falchera looks up. Alessandra Caretto

percepita come paese, Falchera ha costruito una forte identità

07-08. Falchera Vecchia: architetture d’ispirazione inglese. Dettagli. Falchera Vecchia: English-inspired architectures. Details. Alessandra Caretto

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litativo per gli individui “deboli” (minoranze etniche, nomadi, famiglie a rischio povertà10, disoccupati, lavoratori temporanei/part-time, anziani soli, disabili, figli in cerca di riavvicinamento alla famiglia d’origine, giovani nuclei) hanno stimolato una proposta di progetto, in accordo con il PEC (2019), di social housing (img. 04) nell’area tra Falchera e il Parco dei Laghetti. Si prevedono 340 appartamenti, di cui il 70% in locazione convenzionata e il 30% rent to buy (Boleso, Cifani, 2019). Non si può ancora scommettere sulla buona riuscita di una rigenerazione così embrionale, ma si può intravedere grazie all’avviato social housing nel limitrofo quartiere di Pietra Alta, Sharing Torino. Posso, però, affermare di aver rilevato che per una riqualificazione così ambiziosa si necessiti anche, e soprattutto, di una conoscenza approfondita del tessuto sociale da parte di architetti e urbanisti, che spesso sottovalutano l’indagine dei bisogni concreti di chi vive una “realtà marginale”. Oggi, infatti si evidenzia la necessità primaria di una progettazione qualitativa, attenta all’attrezzatura dello spazio e alla sua accessibilità diretta e fruizione sicura. Un quartiere periferico, non potendo sostituire i ruoli simbolici e rappresentativi di un centro cittadino, risalterà nel contesto urbano per nuove e significative centralità, per architetture di elevato interesse progettuale e programmi di promozione territoriale, sociale ed economica (Petrillo, 2018).*

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NOTE 1 – Dati derivanti dall’indagine Istat (Istat, 2017a, 2017b) nazionale quinquennale (2016) o da interviste svolte personalmente ad Enti/Associazioni sul territorio (2019). 2 – Riferimento alla suddivisione del territorio utilizzata da Istat (Istat, 2017a). Diminuzione, da centro a periferia, delle sezioni con servizi culturali da 6279 a 27, commerciali ed artigianali da 8041 a 15, istituzionali, sociali, sanitari da 6198 a 442, sportivi da 5832 a 450 (MiBACT, 2017). 3 – Indice di esposizione di alcune fasce di popolazione a situazioni di incertezza della propria condizione sociale ed economica. Falchera ha un indice di 102,30 e oltre (Istat, 2017b). 4 – Stimato attraverso i dati dell’indagine campionaria sul reddito e le condizioni di vita delle famiglie; indica il numero di famiglie non in grado di soddisfare un insieme di bisogni ritenuti essenziali (Istat, 2017a). 5 – Rodolfo Michele Grasso, nato nel 1941 al villaggio SNIA, ha visto la costruzione dei due insediamenti di Falchera e conobbe Giovanni Astengo. Nel 1999 ha fondato il Comitato per lo Sviluppo della Falchera, iniziando un percorso di rigenerazione urbana, tutt’ora in corso. 6 – Da intevista diretta, 2019. 7 – Da intevista diretta, 2019. 8 – Dato elaborato dall’Osservatorio del Centro per l’Impiego della Città di Torino; esplicita il peggioramento delle condizioni di vita dal 2005 al 2015. 9 - Si noti che i “Laghetti Falchera” non sono sempre esistiti. Nacquero per via indiretta dall’estrazione di terra e ghiaia per livellare il terreno per la costruzione di Falchera Nuova (De Leo, Alba, Grassi, 2009). 10 – Famiglie il cui reddito è inferiore al 60% del reddito medio nazionale. BIBLIOGRAFIA - “Laghetti Falchera, approvato il Pec”, in “TorinoClick”, 26 febbraio 2019, (www.torinoclick.it/?p=82420). - ASviS (2020), “La rigenerazione delle periferie, una sfida per il Paese”, in “Ansa.it”, 27 gennaio 2020. - Boleso, P., Cifani, P. (2019), “FASP – Intervento Falchera: quando il SH incide sulla vita sociale del quartiere”, in “Social Housing: Progetti sociali che creano nuovi tessuti urbani”, Urbanpromo, Torino, 12-15 novembre 2019. - Caramaschi, S. (2014), “Keep it Local. I mercati urbani, spazi pubblici chiave di rigenerazione urbana e ambientale”, Quaderni della Ri-vista, Firenze University Press, Firenze. - Caselli, S. (2004), “Falchera ha 50 anni ‘Ma un borgo così non si trova più’”, in “La Repubblica”, 24 settembre 2004. - Cassigoli, R., Piano, R. (2017), “La responsabilità dell’architetto. Conversazione con Renzo Cassigoli”, Passigli Editori, Firenze. - Culicchia, G. (2019), “Il miracolo della Falchera dove una biblioteca riesce ad abbattere i muri”, in “La Stampa”, 18 agosto 2019. - Da Rold, C. (2019), “Non tutte le periferie sono uguali. Torino la citta più “equilibrata”, in “Il sole 24 ore”, 1 luglio 2019. - De Leo, A., Alba, M., Grassi, U. (2009), “L’altra storia Vent’anni dopo: Falchera Nuova”, Redazione “Gente di Falchera”, Torino. - Dolcetta, B., Maguolo, M., Marin, A. (2015), “Giovanni Astengo urbanista. Piani progetti opere”, Il Poligrafo, Padova. - Istat (2017a), “Commissione parlamentare di inchiesta sulle condizioni di sicurezza e sullo stato di degrado delle città e delle loro periferie. Dossier. Le informazioni provenienti dalle indagini campionarie”, Roma. - Istat (2017b), “Commissione parlamentare di inchiesta sulle condizioni di sicurezza e sullo stato di degrado delle città e delle loro periferie. Cartogrammi del Comune di Torino”, Roma. - MiBACT (2017), “Demix. Atlante delle periferie funzionali metropolitane”, Pacini Editore, Pisa. - Petrillo, A. (2018), “La periferia nuova. Disuguaglianza, spazi, città”, Franco Angeli, Milano.


Beatrice Balducci Dottoranda in Architecture, Urban and Interior Design presso il Politecnico di Milano. beabalducci@gmail.com Chiara Torregrossa Laureata in Architecture presso il Politecnico di Milano. chiara.torregrossa93@gmail.com

Perspective Ballarò This article briefly presents our thesis which originated from a reflection on the role of the architect and architecture in particularly run-down neighbourhoods. Ballarò, in Palermo, is a complex place in which big problems and important resources coexist. Despite the potential design, this kind of contexts haven’t yet been addressed with appropriate tools and approaches. The proposed strategy deals with some issues and, besides being significant for the specific condition, can also offer a starting point for method and be useful for other critical situations.* alermo, snodo del Mediterraneo posizionato fra tre continenti, è incubatrice e caleidoscopio di problematiche globali. Nonostante il ricco patrimonio culturale, quarant’anni di controllo criminale e disfunzioni politiche hanno lasciato sulla città segni pesantissimi impedendo qualsiasi progettualità. Ballarò, nel centro storico, è il quartiere in cui questa ambivalenza è visibile in ogni sua parte. Marginalità sociale, centralità spaziale e storica qui coesistono. Dal primo dopoguerra il quartiere ha sofferto dell’espansione rapida e incontrollata della città che, creando nuove centralità, ha lasciato il centro

storico in una situazione di marginalità sia per condizioni sociali che per posizione. Le asimmetrie e disuguaglianze create non solo hanno ampliato la distanza centro-periferia, ma hanno modificato la relazione centro moderno-centro storico trasformandola in centro-margine. Allo stesso tempo Ballarò è un luogo in continua trasformazione che mantiene un dialogo con la città, nonostante vi siano aree più o meno introverse determinate dalla conformazione densa di vicoli stretti ed edifici precari. Animato dalla presenza vitale dell’unico mercato storico ancora attivo, mostra la coesistenza come prassi e quotidianità: flussi migratori, stratificazione culturale e architettonica, abusivismo, as-

sociazionismo di reazione, criminalità organizzata e abbandono. La pluralità del quartiere si riversa nel suo spazio pubblico che risulta esasperato, maltrattato, stratificato di pratiche diverse e spesso dominato da attività criminali che comportano l’assenza di spazi neutri. Lo spazio pubblico di Ballarò di fatto non è pubblico. La nostra strategia “Prospettiva Ballarò”1 parte da una profonda conoscenza del contesto, delle sue specificità e intelligenze sociali e prevede una serie di azioni tattiche2 sullo spazio pubblico considerato come boundary object (Star, Griesemer, 1989)3. La ricerca vede proprio nella progettazione di questo il motore di un possibile miglioramento della qualità della vita del

01. Il tessuto urbano di Ballarò. The urban fabric of Ballarò. Beatrice Balducci, Chiara Torregrossa

Prospettiva Ballarò

Una strategia per lo spazio pubblico di un quartiere marginale

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L’IMMERSIONE


lo spazio pubblico di Ballarò di fatto non è pubblico

quartiere e si inserisce nell’interazione tra amministrazione, istituzioni e associazioni, già avviata da SOS Ballarò4, riconoscendo in questa un “episodio di innovazione” da assorbire e agevolare (Healey, 2007). Il lavoro è cominciato attraverso campagne di osservazione diretta in due diversi periodi dell’anno. Il primo impatto è stato piuttosto traumatico: il contesto era caotico, lacerato, difficile da comprendere e ci sembrava quasi senza speranze. Dagli incontri dei primi giorni sono emerse due diverse descrizioni che rappresentano le due facce della medaglia di Ballarò: quella tremenda di un territorio segnato e dominato dalla criminalità e quella bellissima di una grande forza di reazione da parte delle associazioni. Ne sono seguiti sopralluoghi a varie ore del giorno e incontri con tutti quei soggetti che, in un modo o nell’altro, lavorano per il quartiere. Abbiamo così collezionato una serie di spaccati del contesto molto diversi fra loro che, insieme alle nostre osservazioni dirette, ci ha portato a comprendere l’estrema complessità di Ballarò. Abbiamo quindi compreso la necessità di andare oltre singoli interventi fini a se stessi per formulare una visione d’insieme che faccia emergere le potenzialità del quartiere. Abbiamo poi constatato come gli strumenti di progettazione convenzionali, sia “dal basso” che “dall’alto”, sperimentate nel

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02. Conflitti quotidiani a Ballarò.Daily conflicts in Ballarò. Beatrice Balducci, Chiara Torregrossa

03. Il mercato del riuso/rubato.The flea market. Beatrice Balducci, Chiara Torregrossa

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“prospettiva Ballarò” parte da una profonda conoscenza del contesto, delle sue specificità e intelligenze sociali

04. Masterplan. Beatrice Balducci, Chiara Torregrossa

corso del tempo non abbiano funzionato. Se i processi partecipativi, rallentati per la molteplicità di voci, non hanno intercettato tutti quegli attori, positivi e negativi con un ruolo decisivo per la vita del quartiere, i progetti top-down sono stati spesso contrastati dalla popolazione, peggiorando le condizioni, o agevolando processi di gentrification. La strategia dunque si pone nel mezzo: considera l’attenzione alle necessità della popolazione e la capacità di intercettare le innovazioni esistenti dei processi “dal basso” integrando l’operatività e la qualità attuativa di quelli “dall’alto”. Vengono così selezionati trenta spazi molto differenti per le loro poten-

zialità spaziali e/o dannose criticità esistenti. Questi sono accomunati dal fatto di essere negati al quartiere: rovine inagibili, spazi murati da pratiche abusive o illecite, spazi aperti usati in maniera impropria. Per gestire la complessità di questi luoghi la strategia delinea strumenti sia progettuali che attuativi. I luoghi individuati sono stati suddivisi in base al loro potenziale intervento: gli inneschi primari hanno una forte influenza sul quartiere perché luoghi cardine sia per posizione che per riconoscimento da parte degli abitanti; gli interventi di potenziamento rinforzano l’azione dei primi essendo strettamente collegati a essi; gli opzionali sono luoghi che pur non

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avendo particolare criticità renderebbero più solido e continuo l’intero sistema. Quattro approcci delineano diverse tipologie di intervento a seconda delle caratteristiche spaziali e di uso: guerrilla, per i luoghi governati da norme criminali, prevede una preliminare installazione temporanea (pop-up) per sensibilizzare gli abitanti a un uso diverso dello spazio e una successiva realizzazione in tempi brevi dell’intervento; “liberazione” è l’approccio che apre quegli spazi fisicamente chiusi restituendoli sotto forma di spazio pubblico; “consolidamento” migliora le condizioni di spazi aperti o piazze esistenti che, sottoutilizzate o esasperate da pratiche abusive, non sono perce-

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una metodologia che lavora attraverso la trasformazione di spazi marginali in risorse

05.Guidebook: analisi. Guidebook: analysis. Beatrice Balducci, Chiara Torregrossa. Graphic inspired by Eva LeRoi

piti come bene comune; e “supporto scolastico” mira al miglioramento degli spazi aperti delle scuole del quartiere e della loro relazione con l’esterno. Considerando il tipo di approccio e l’interferenza in fase di realizzazione degli interventi con il quartiere e le sue attività, vengono definiti dei range temporali, da brevi (settimane) a lunghi (mesi-anni), e diverse tipologie di cantiere. Questi vengono concepiti come “cantiere-evento”5, momenti di inclusione della comunità attraverso occasioni di informazione e formazione professionale ed eventi culturali con risonanza alla scala della città. Ulteriore senso di appartenenza può essere creato attraverso workshop di costruzione partecipata in cui le piazze vengono finalizzate collettivamente. La strategia si concretizza in un guidebook in cui sono catalogati gli interventi e vengono fornite delle linee guida progettuali semplici ma mirate, come l’utilizzo di nuova pavimentazione, la dotazione di illuminazione, sedute e verde urbano. “Prospettiva Ballarò” non è un prototipo di azione attuabile in qualsiasi condizione fragile ma fornisce una metodologia che lavora sull’unicità di ogni contesto attraverso la trasformazione di spazi marginali in risorse. Quello che è stato il motore della nostra ricerca progettuale è qualcosa che abbiamo imparato a Ballarò: riuscire

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06. Guidebook: linee guida progettuali. Guidebook: project guidelines. Beatrice Balducci, Chiara Torregrossa. Graphic inspired by Eva LeRoi

a individuare nel caos la bellezza e le risorse latenti, che vanno preservate e portate alla luce partendo dalla durezza dei problemi per trarne la forza.* NOTE 1 – Titolo della tesi svolta dalle autrici dell’articolo. 2 – In “The Sociology of Planning: Thought and Social Interaction” (1975) Lindblom sostiene che la pianificazione strategica deve utilizzare e favorire le interazioni delle intelligenze sociali esistenti. 3 – Nell’accezione di Galison (1997) il “boundary object” è quell’oggetto di confine che può interessare simultaneamente i divergenti attori in campo. 4 – SOS Ballarò, costituito nel 2015, è un coordinamento delle varie associazioni di Ballarò che strutturandosi in assemblee pubbliche, cercano di coinvolgere il maggior numero di persone possibile in una discussione politica sulle condizioni del quartiere. 5 – Dioguardi in “Ripensare la città” (2001) propone una diversa concezione del cantiere che da ferita nella città

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diviene un evento: un’occasione straordinaria di comunicazione col territorio e di inclusione degli abitanti. BIBLIOGRAFIA - Capursi, V., Giambalvo, O. (2006), “Al centro del margine. Standard di vita in un quartiere del centro storico di Palermo”, FrancoAngeli, Milano. - Dioguardi, D. (2001), “Ripensare la città”, Donzelli Editore, Roma. - Lindblom, C.E. (1975), “The Sociology of Planning: Thought and Social Interaction”, in Bornstein, M. (a cura di), “Economic Planning East and West”, Ballinger, Cambridge. - Healey, P. (2007), “Urban complexity and spatial strategies: Towards a relational planning for our times”, Routledge, Londra.


Irene Manzini Ceinar ERSC-funded MPhil/PhD student at the Bartlett School of Architecture, University College London. irenemanzinic@gmail.com

Urban Effects of Coworking Spaces for Urban Transformation The increase of coworking spaces has been particularly intense after the outbreak of the global crisis in 2008, participating in some cases in the process of urban transformation of the local context. These spaces, defined by some ‘resilient’, if recognised as part of a wider intervention strategy, can contribute to the change of the perception of the place through interventions aimed at improving the quality of the urban space and the local cultural offer, attracting investments for the benefit of the community.* ontesto La transizione iniziata dalla crisi economica del 2008 ha marcato un cambiamento profondo in termini della struttura lavorativa, seguito da un graduale collasso del paradigma dell’occupazione stabile (Castells, 1996; Lewis et al., 2014; Merkel, 2018). Le conseguenze della globalizzazione sono emerse nell’indebolimento degli spazi di lavoro standard, producendo una condizione di insicurezza che ha reso fragile il concetto classico di ufficio (Giddens, 1991; Neilson e Rossiter, 2005; Waite, 2009). Per affrontare il processo di trasformazione avviato in città quali Londra e New York sono emerse nuove forme di

cooperazione lavorativa, chiamati spazi di coworking (Spinuzzi, 2012; Ross e Ressia, 2015), capaci di rinnovarsi e muoversi in modo fluido in termini economici e spaziali. Gli spazi di coworking (SdCW) si stanno espandendo in tutto il mondo in un’economia di rete in cui la competitività e la digitalizzazione sono fattori chiave per il mercato. Per definizione, gli SdCW sono ambienti di ufficio open-space in cui i professionisti lavorano a fianco di altri professionisti non affiliati, pagando un’iscrizione (Spinuzzi, 2012; Gandini, 2015). Nonostante la recente svolta neoliberale degli SdCW, la presenza di spazi gestiti in modo indipendente il cui

cambiamento in termini della struttura lavorativa, seguito dall’indebolimento degli spazi di lavoro standard

01. Peckham Levels, Londra: The Ramp coworking space. Wecoffee website

Spazi di coworking per la trasformazione urbana

Processi spaziali e impatto urbano in prossimità degli spazi di coworking

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L’IMMERSIONE


02. Peckham Levels, Londra: Frank’s Café di libero utilizzo per i membri dello spazio. Frank’s Café with open access for members of the coworking. Peter Landers

scopo è beneficiare il contesto locale attraverso attività imprenditoriali, è rimasto un componente chiave. Questi spazi resilienti (Cossu e Gandini, 2019) abbracciano l’evoluzione del lavoro in una direzione di flessibilità e indipendenza, prediligendo un rapporto profondo con il contesto e potenziando effetti spill-over e cross-fertilization (Montanari, 2018).

sono emerse nuove forme di cooperazione lavorativa, chiamati coworking OFFICINA* N.29

Casi studio Questo articolo mira ad investigare le modalità in cui gli SdCW si relazionano con il contesto socio-geografico in cui sono collocati, analizzando sperimentazioni in differenti contesti per identificare azioni e reazioni emerse da e verso lo spazio urbano circostante. Adottando una metodologia multiple case studies (Yin, 2009), si evidenzia il ruolo che hanno avuto Peckham Levels a Londra e Centre for Social Innovation a New York, all’interno del processo di rigenerazione urbana avvenuto nelle rispettive aree geografiche. Peckham Levels (img. 01) nasce dalla riattivazione di un ex parcheggio multipiano, di proprietà del Southwark Council, convertito a SdCW temporaneo su proposta di Make-Shift nel 2014 per incentivare la rigenerazione dell’area, all’epoca caratterizzata da deprivazione sia sociale che spaziale. Alcuni interventi tattici hanno anticipato la messa in uso di Peckham Levels. In particolare, l’apertura di un

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cinema al piano inferiore nel 1994 e l’apertura di Frank’s Café all’ultimo piano nel 2009 (img. 02), come strategia dell’organizzazione artistica Bold Tendencies CIC a supporto delle attività culturali locali. Lo spazio fu aperto temporaneamente nel 2017 per attirare i creativi altamente qualificati (McWilliams, 2015) e di conseguenza attività commerciali. L’idea alla base del progetto era di contribuire alla formazione lavorativa della comunità, versando il 10% dei profitti derivanti dallo SdCW in un fondo di investimento comunitario. L’impatto positivo ha sottoposto l’area a un’intensa rigenerazione che ha portato una diminuzione drastica della criminalità e un investimento di capitali pubblici significativi (Local Government Association, 2019). Gli interventi che hanno portato all’apertura dello spazio e lo SdCW stesso, sono stati fattori decisivisi per la trasformazione della percezione del luogo, e a febbraio 2019 l’amministrazione ha annunciato l’estensione del contratto di locazione dell’edificio da cinque a otto anni, con possibile estensione a 20 anni (Lott-Lavigna, 2019). Nel caso di New York, il Meatpaking District negli anni ’90 era prevalentemente utilizzato per la rimessa di autoveicoli e stoccaggio di merci dall’Hudson River Harbour. Nel 2012, grazie alla disponibilità di spazi vacanti a basso costo, la società RXT


03. Centre for Social Innovation, New York. Irene Manzini Ceinar

Real Estate ha fondando Centre For Social Innovation (CSI) (img. 03). Nel 2014 il progetto dell’High Line anticipò l’obbiettivo di animare il quartiere, localizzando le opportunità del mercato immobiliare, attraendo ingenti capitali nell’intero distretto e aumentandone drasticamente il valore economico. Oggi, CSI implementa le dinamiche urbane cercando di mitigare l’iper-gentrificazione (Nathan, 2017) e supportando la comunità locale. CSI funge oggi da backup per il distretto, lavorando in partnership sia con Hudson Yard per fornire supporto tramite corsi formativi per i residenti locali, sia con Hudson Guild, che ha realizzato Chelsea Housing, ad oggi il

più grande progetto di housing sociale nell’area (img. 04). I due casi analizzati possono essere considerati come exemplary (Yin, 2009) del fenomeno degli SdCW resilienti, in quanto: i. rappresentano casi di rigenerazione urbana di edifici non utilizzati, ma centrali nei rispettivi tessuti urbani, elemento che caratterizza gli SdCW utilizzati per le politiche di rigenerazione urbana (Waters-Lynch et al., 2016); ii. accolgono tipi di lavoro creativo e ad alta intensità di innovazione (Capdevila, 2019); iii. si collocano in stretta relazione con la comunità locale, promuovendo partnership e attraendo investimenti nel quartiere (Kleinhans et al., 2017), iv. sono sorti in aree deprivate, prevalen-

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temente industriali, con forti carenze di servizi pubblici e strutture per l’aggregazione comunitaria (Bailey, 2012). Conclusioni I casi studio raccontano come il contesto in cui gli SdCW si collocano costituisca un elemento centrale per definirne il proprio ruolo nella trasformazione della percezione del luogo. La parentesi temporale può variare da una presenza dello SdCW in modo temporaneo in una fase iniziale, agendo come attivatore per l’intero quartiere come nel caso di Peckham Levels a Londra, oppure sedimentandosi nel lungo periodo come Centre for Social Innovation a New York, fungendo

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04. Chelsea Housing nella West 25 Street, New York. Irene Manzini Ceinar

spazi di coworking resilienti che abbracciano un’etica comunitaria, in rapporto profondo con il contesto

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da ancoraggio per la comunità locale nella ricerca di sostenibilità economica ed affermandosi nelle pratiche bottom-up di quartiere. Tuttavia, i casi presentano limiti e punti di forza degli SdCW nell’influenzare la rigenerazione urbana in un’area con tempistiche, modalità e impatti differenti dipendentemente dal contesto urbano in cui sono collocati. È quindi necessario riferirsi al coworking come una soluzione non finita, ma come un’iniziativa parte di una strategia più ampia basata su interventi mirati a migliorare la qualità dello spazio urbano e dell’offerta culturale locale, attraendo investimenti a beneficio della comunità locale.*

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BIBLIOGRAFIA - Gandini, A., Cossu, A. (2019), “The Third Wave of Coworking: ‘Neo-corporate’ Model versus ‘Resilient’ Practice”, European Journal of Cultural Studies. - Gandini, A. (2015), “The rise of coworking spaces: a literature review”, Ephemera Theory and Politics in Organisation. - Lott-Lavigna, R. (2019), “One Year On, Peckham Levels Is Struggling to Keep Its Promises”, VICE Online Journal. - Montanari, F. (2018), “Ecosistema Creativo”, FrancoAngeli, Milano. - Nathan, N. (2017), “The fast growth of co-working spaces in London”, LSE Business Review, London. - Spinuzzi, C. (2012), “Working Alone Together: Coworking as Emergent Collaborative Activity”, SAGE.


Maura Manzelle Docente a contratto Università Iuav di Venezia. manzelle@iuav.it

The Wall that is (not) In the collective imagination the Berlin Wall is a margin “par excellence”. Rereading that segregation today helps us to understand how deeply it affected the city’s – and the entire territory’s – structure; leading to demolition, altered accessibility, difficult connections, and a mental map of the urban space that differed from its physical plan. This paper aims to retrace those margins, recording the forms and outcomes of the attempts to saturate and mend the physical and perceived margins of the public space.* a pianta turistica di Berlino riporta inaspettatamente, ancora oggi con segno deciso, il tracciato del muro di divisione tra le due parti di città, come se fisicamente fosse ancora lì (img. 07). Segnale turistico? Memoria storica? Ferita aperta? Ricucitura in atto? Schema consolidato nella memoria collettiva? Effettiva, persistente divisione tra due realtà, non soltanto a Berlino? Percorrere il tracciato del muro, eretto nel 1961, emblema della Guerra Fredda, alla luce di questi interrogativi, porta oggi a frequentare un margine interno, a volte denso a volte rarefatto, che permette di registrare diverse forme e diversi esiti dei tentativi di saturare il vuoto, o reinterpretarlo come luogo pubblico, in ogni caso di ricucire i lembi fisici, oltre che sociali e culturali.

Infatti nell’immaginario comune il muro di Berlino è uno dei margini per antonomasia, avendo separato fisicamente, politicamente, socialmente, due modelli di sviluppo per 28 anni, cui sommare i precedenti 16 di gestione per settori di influenza post Seconda guerra mondiale: la parte ovest della città, controllata da americani, francesi e britannici, la parte est controllata dai sovietici. La divisione fisica tra le due parti stabilita in una notte nel 1961 con filo spinato, per impedire l’esodo della popolazione da est a ovest, venne in seguito consolidata e

strutturata attraverso la costituzione di una fascia di sicurezza di ampiezza variabile denominata “striscia della morte” perchè i tentativi di oltrepassarla venivano controllati con le armi e molte furono le vite perse per fuggire, delimitata appunto da due muri alti circa 3-3,5 m, eretti con varie tecniche costruttive, nel corso del tempo sempre più resistenti e articolati sia spazialmente che con l’ausilio di tecnologie di rilevamento. Per far posto a questa complessa struttura di controllo del territorio che riassumiamo nel termine “muro”, alla mancata ricostruzione postbellica si sommò la

01. Memoria e monito accompagnano i percorsi pubblici lungo il tracciato del muro. Memories and admonishments line the public paths tracing the wall. Marina Dragotto

Il muro che (non) c’è

Forme e figure dei margini interni a Berlino 1989-2019

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dopo la caduta del muro, lo smantellamento analogamente ebbe dimensione urbana e territoriale

demolizione integrale o parziale di tutti gli edifici sul suo tracciato, determinando una diversa percorribilità degli spazi pubblici, trasporti e connessioni impossibili o difficili, una diversa organizzazione della città e un diverso sviluppo delle sue parti che hanno ancora oggi ripercussioni sulla riunificazione. In realtà il confine fortificato tra le due Germanie aveva ampia estensione, ricordata oggi nel Grenzmuseum Schifflersgrund, istituita negli anni ’50 come esito della divisione post bellica delle due Germanie, con pesanti restrizioni all’attraversamento e quindi del numero di vie stradali, fluviali e ferroviarie, con un conseguente ridisegno territoriale1. Dopo la caduta del muro a Berlino nel novembre 1989, lo smantellamento analogamente ebbe sia dimensione urbana che territoriale, accompagnato dalla necessità di ripristinare le vie di comunicazione e di effettuare lo sminamento – si stima fino al 1995 – in un’intera fascia, dove la popolazione e gruppi ambientalisti di impegnarono in un’opera di rimboschimento e dove si moltiplicarono punti informativi, musei, monumenti commemorativi soprattutto dei molti tentativi di fuga conclusi con tragiche conseguenze. Dal 2004 la fascia verde sul tracciato del muro - la Grünes Band Deutschland – è stata protetta e inserita nella European Green Belt. Questo aspetto memoriale e di monito è effettivamente anche legato al fatto che il tracciato del muro, ed alcuni punti topici, costituiscono meta di tu-

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02. Distruzione della struttura della città storica - Senatsverwaltung für Bau- und Wohnungswesen, (1991), Bericht n. 2 “Pariser Platz” . The destruction of the city’s historical structure - Senatsverwaltung für Bau- und Wohnungswesen, (1991), Bericht n. 2 “Pariser Platz”. Kritische Rekostruction des Bereichs

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03. Pista ciclabile lungo il tracciato del muro. Bicycle path where the wall once stood. Marina Dragotto 04. Spazi collettivi e ricreativi lungo Mauerpark dove la popolazione ha chiesto che venisse lasciato un parco senza ricostruire . Recreational/community spaces along the Mauerpark, where people asked a park be left without reconstruction. Marina Dragotto

rismo - si potrebbe indagare se più vicino alla rispettosa commemorazione o al dilagante “turismo catastrofico”, con veri e propri tour organizzati da agenzie turistiche, cui associo la possibilità di acquistare pezzi del muro a prezzi modici anche in internet. Il bisogno di “vedere oltre” il muro inizialmente aveva radici nel bisogno di mantenere contatti in senso biunivoco con parenti e amici rimasti dall’altra parte, ma la Germania occidentale, anche come segnale politico, non ha mai ostacolato ma anzi incoraggiato le relazioni, che invece per l’Est era strategico controllare; oggi la pressante richiesta di “vedere” e “toccare” i resti del muro sono argomento di riflessione.

Infatti, alla caduta del muro, le istanze di musealizzazione che hanno portato ad alcuni interventi di salvaguardia2 vedevano contrapposte le istanze a favore di una rimozione totale e veloce, e solo nel 2006 il Senato ha adottato un “Piano generale per ricordare il muro di Berlino”. Se gli anni ’80 sono stati segnati dalla grande stagione di attività dell’IBA3 per la ricostruzione di Berlino Ovest, la caduta del muro nel 1989 aprì nuove questioni disciplinari e possibilità, inizialmente rappresentate nel concorso del 1991 per Potsdamer Platz e Leipziger Platz – uno dei punti simbolo del passaggio del muro – cui seguirono le realizzazioni di Renzo Piano, Christoph Kohlbecker,

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Helmut Jahn, Lauber + Wöhr, Richard Rogers, Arata Isozaki, Rafael Moneo, Steffen Lehmann, Hans Kollhoff. Questa esperienza sfociò in un serrato dibattito sulla forma della città che sotto la direzione di Hans Stimmann e dei concetti di “identità, permanenza, modernizzazione”4, portò alla ripresa della città ottocentesca5 e alla “ricostruzione critica” (img. 02) del “Planwerk Innenstadt” del 19996. Le problematiche aperte furono quindi non solo inerenti il tipo di città da costruire e quale rapporto con la forma del passato istituire, ma quelle legate al ruolo delle archi-stars, piuttosto che alla continuità dell’immagine urbana, quelle sulla relazione possibile tra le due città, sul ruolo dei resti.7

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la fascia presenta squarci lasciati alla memoria, ricuciture, ricostruzioni, parchi lineari, piste ciclabili, musei

05. Il cimitero di Invalidenfriedhof, parco urbano attraversabile, tagliato dai resti del muro. The Invalidenfriedhof cemetery, a crossed by urban park, cut out from wall’s remains. Marina Dragotto

Margine interno della città duale, la fascia del muro presenta ancora oggi squarci urbani lasciati alla memoria8, tentativi di ricuciture più o meno fragili, ricostruzioni, parchi lineari, luoghi di rivendicazione sociale e di socialità alternative (img. 04), la pista ciclabile Berliner Mauerweg (img. 03), luoghi di musealizzazione. Oltre a frammenti sparsi o tracce a terra del muro o dei tunnel di fuga inglobate nella pavimentazione degli spazi pubblici come vicino alla porta di Brandeburg o a Potsdamer Platz, rimangono in essere un tratto nella Topografia del Terrore tra Checkpoint Charlie (per la zona è stato annunciato nel 2019 un intervento di riqualificazione con un nuovo museo,

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edifici residenziali e spazi pubblici)9 e Potsdamer Platz, altro tratto lungo la Sprea nel quartiere di Friedrichshain nota come East Side Gallery per il fatto che i resti sono ricoperti di graffiti - alcuni segmenti all’interno del cimitero di Invalidenfriedhof (img. 05), un tratto a nord di Bernauer Straße (img. 06) - trasformata nel memoriale Gedenkstätte Berliner Mauer nel 1999, comprendendo un centro visitatori, una installazione lineare sul tracciato della striscia della morte che espone ricordi delle storie di fuggitivi verso Berlino Ovest (img. 01), il Centro documentale con la torre di osservazione e la Cappella della Conciliazione10, costruita sul sito della Versöhnungskirche, distrutta nel 1985

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in quanto sulla striscia di confine; in quest’area sono anche apprezzabili gli interventi di ricostruzione di palazzine residenziali a ricucitura del tessuto urbano e saturazione della fascia di confine, anche se spesso rimangono visibili le facciate mute degli edifici tagliati per la sua istituzione. Ma non solo le tracce del muro rendono ancora perfettamente distinguibili le due parti di città: nel periodo di divisione è stato sviluppato un diverso modello insediativo - già nella ricostruzione post bellica segnata a Ovest da una volontà di rifondazione e più tardi dall’attività dell’IBA - realizzato attraverso diverse tecniche costruttive, privilegiando ad est in un primo


06. Bernauer Straße: il parco lineare commemorativo, le costruzioni tagliate per la costruzione del muro e della fascia, nuove costruzioni residenziali a ricucitura del tessuto urbano. Bernauer Straaße: the linear memorial park, the buildings demolished for the wall and death zone, new residential buildings mending the urban fabric. Marina Dragotto

periodo un monumentalismo socialista ben rappresentato dalla Karl Marx Allee e in seguito, motivato dalla richiesta di produzione di grandi quantità di alloggi in tempi brevi, l’industrializzazione pesante cui si accompagnava la sistematica demolizione delle case ottocentesche; un diverso modello di trasporti pubblici con una rete tramviaria nella zona est, smantellata invece nella zona ovest tra gli anni ’50 e ’60 a favore di una rete di autobus e di metropolitana e solo negli ultimi anni ripristinata; una separazione delle infrastrutture urbane, come la gestione dell’energia e delle risorse idriche, e delle conoscenze tecnico documentarie in merito; un diverso sviluppo economico e produt-

tivo, che gli abitanti della Germania est ancora lamentano non esser stato recuperato, a favore di un assistenzialismo perdurante nei loro confronti. In sintesi tutti i fattori che solitamente stabiliscono la continuità di un territorio e che si esprimono in coerenza di espressione spaziale e gestionale si sono trasformati in fattori di destabilizzazione della popolazione, con effetti che hanno una ripercussione sullo sviluppo della città e sulla sua riunificazione fisica. Ancora oggi chi è diventato adulto nel periodo del muro attraversa la città seguendo una mappa mentale dello spazio urbano diversa da quella fisica: se nel periodo del muro questo confine

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ha concorso a dare una identità e una precisa identificazione del luogo in cui ci si trovava, oggi la sua rimozione non ha cancellato dalle menti e dalla consuetudine percorsi e relazioni tra luoghi stabilite quando il muro c’era. La richiesta di produzione di alloggi in tempi brevi, che ha portato nel dopoguerra le due parti di città a una espansione verso l’esterno secondo diversi modelli, oggi rinnovata, comporta solo frammentari interventi nei luoghi del muro, soggetti oltretutto ancora alla possibilità di richiesta di restituzione dei lotti sia da parte degli Ebrei che delle famiglie fuggite nel dopoguerra, con vertenze circa la proprietà che ancora oggi impediscono di fatto una solu-

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la pianta turistica di Berlino riporta il tracciato del muro tra le due parti di città

07. Pianta turista di Berlino, 2019. A map for touring Berlin, 2019

zione unitaria e impongono interventi puntuali e occasionali.11 Una rilettura degli interventi, che potrà essere approfondita, porta a prendere coscienza di quanto profondamente abbia inciso quel muro nella struttura della città e del territorio, costituendo una guida di luoghi non risolti all’interno di una delle capitali europee.12*

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NOTE 1 – Il confine era articolato in una fascia anche di alcuni chilometri, disboscata, con torrette, barriere, fossati, bunker, sensori, mine antiuomo, fari, strade di pattugliamento, fino alle fortificazioni delle coste del Baltico e fluviali. 2 – Si veda il caso del frammento alla Niederkirchnerstraße, posto sotto protezione come monumento nel 1990. 3 – IBA “Internationale Bauausstellung Berlin”, istituzione per il rinnovamento urbano della città, sviluppò il dibattito e si fece promotore della ricostruzione; era divisa in due organi, dedicati ai nuovi interventi (“Neubau-IBA”, diretta dall’architetto Josef Paul Kleihues) e al recupero di parti storiche (“Altbau-IBA” diretta dall’architetto Hardt-Waltherr Hämer). 4 – Direttore della pianificazione urbana dal 1991 al 2006. 5 – Il dibattito sviluppato dagli intellettuali dell’Est e dell’Ovest per la difesa della città ottocentesca e per la riflessione disciplinare sui caratteri della città è ben rappresentato dal lavoro, fortemente osteggiato all’Est, pubblicato agli inizi degli anni ‘80 dalla rivista “Form+Zweck” direttore Hein Köster. 6 – Il piano fu curato da Bernd Albers e Dieter Hoffmann-Axthelm. Informazioni si possono trovare in http://www.stadtentwicklung. berlin.de/planen/planwerke/de/planwerk_innenstadt/. 7 – La critica sulla autorefenzialità e sull’invecchiamento precoce del linguaggio di molte architetture prodotte negli anni dell’IBA si sviluppò nelle riviste di architettura già negli anni ’90. La consultazione delle riviste consente di seguire lo sviluppo del dibattito sulla ricostruzione; “Casabella” ha seguito con continuità le vicende della città di Berlino, con particolare attenzione ai concorsi e progetti degli anni ’80; si veda inoltre “Lotus” (1994), n. 80 “Berlino capitale” e “Abitare” (1996) n. 352, “Germania da Berlino verso est”. Per un approfondimento sistematico sulle scelte operate nella pianificazione urbana si vedano i rapporti pubblicati dal Senatsverwaltung für Bau- und Wohnungswesen e dal Senatsverwaltung für Stadtenwicklung, Umweltschutz und Technologie negli anni ’90. 8 – Sul ruolo della memoria e sul problema del risarcimento delle lacune nella continuità edilizia urbana si veda ad esempio la soluzione alternativa al risarcimento costituita dall’opera dell’artista francese Christian Boltanski che nel 1990 nel quartiere di Mitte, tra due edifici in Grosse Hamburger Strasse dove sorgeva un palazzo distrutto da una bomba nella seconda guerra mondiale, ha ideato un monumento proprio all’edificio che oggi non c’è più installando sulle pareti dei due palazzi adiacenti delle targhe su cui sono riportati il nome, la professione, la data di nascita e di morte degli abitanti dell’edificio (“Das Fehlende Haus” – “La casa mancante“, Große Hamburger Straße 15-16 , Berlino, 1990). 9 – Si veda l’intervento condotto dalla società : https:// www.trockland.com/. 10 – Architetti Peter Roth e Rudolph Sass.

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11 – Ringrazio per il proficuo colloquio e le indicazioni Ludovica Scarpa, storica della città. 12 – Sul sito del “Senatsverwaltung für Stadtentwicklung und Wohnen” è possibile consultare cartografie e plastici che documentano le trasformazioni urbane attuate e in atto, in particolare dedicando una categoria alle nuove costruzioni dal 1990, ossia dal crollo del muro fino alle strategie per la Berlino del 2030. BIBLIOGRAFIA - Bernt, M., Grell, B., Holm, A. (2013), “The Berlin Reader. A Compendium on Urban Change and Activism”, Urban Studies, Verlag, Biedefeld. - Desyllas, J. (1997), “Berlin in Transition. Using Space Syntax to analyse the relationship between land use, land value and urban morphology” in “Space Syntax. First International Symposium, Proceedings Volume I Spaces Syntax Today”. - Elkins, T.H., Hofmeister, B. (1988), “Berlin: the spatial structure of a divided city”, Metheun, London. - Frank, S. (2016), “Wall Memorials and Heritage. The heritage industry of Berlin’s Checkpoint Charlie”, Routledge, London. - Geist, J.F., Kürvers, K. (1989), “Das Berliner Mietshaus 1945-1989”, Prestel -Verlag, München. - Haeussermann, H., Kapphan, A. (2004), “Berlin: from divided into fragmented city” in “The Greek Review of Social Research”, n. 113, pp. 25-61. - Harrison, H. (2019), “After the Berlin Wall: Memory and the Making of the New Germany, 1989 to the Present”, Cambridge University Press, Cambridge. - Moss, T. (2009), “Divided City, Divided Infrastructures: Securing Energy and Water Services in Postwar Berlin”, in “Journal of Urban History” 35(7), pp. 923–942. - Pumpf, P. (1995), “La città dei concorsi: Berlino del ‘dopo muro’” in “Rassegna: problemi di architettura e dell’ambiente”, n. 61, pp. 45-55. - Santacesaria, M. “A Berlino dove prima c’era il muro: realizzazioni” in “L’industria italiana del cemento”, n. 787, pp. 398-414. - Spagnoli, L. (1993), “Berlino. La costruzione di una città capitale”, CittàStudi, Torino. - “Stadt Bauwelt” (1991), n. 12 “Nach Berlin! Nach Berlin!” - Staub, A. (1991), “Post-wall Berlin”, in “Progressive architectur: Pensil points”, n. 12, pp. 93-95. FILMOGRAFIA - Wilder, B. “Uno, due, tre” (1961). - Wenders, W. “Il cielo sopra Berlino” (1987). - Haußmann, L. “Sonnenallee” (1999). - Becker, W. “Good Bye, Lenin” (2003). - Henckel von Donnersmarck, F. “Le vite degli altri” (2006). - Geschonneck, M. “In times of fading light” (2017). - Dresen, A. “Gundermann” (2018).


Annalisa Comes Insegnante nella scuola superiore di II grado, scrittrice e traduttrice. Doctor Europaeus in “Philology, Literature and Linguistic”, Université de Lorraine - Università degli Studi di Verona, 2019. alisacomes@hotmail.com

The Shadow of Ruins and the Margins of Society in Vasco Ascolini’s Photography Through the analysis of two photographic groups: the ruins of the body (House of Hospitalization and psychiatric hospitals) and the museum ruins (Ivry-sur-Seine’s depot), it is noted that Vasco Ascolini’s photography is not only vision, but testament and interpretation of reality and its more fragile margins; for this reason the theme of the ruins is a particularly dear theme, rich in suggestions and echoes.* l tema delle rovine è un tema particolarmente caro al fotografo emiliano Vasco Ascolini, ricco di suggestioni, di enigmi, di echi, come è evidente in esposizioni e raccolte dai titoli evocativi come Il sentimento delle rovine, Cartoline dall’Egitto, Evocazioni con Rovine e ancora Le emozioni della memoria. Non a caso Jacques Le Goff lo ha definito un “immortalatore di rovine”. Rovine di pietra, di paesaggi, di oggetti, ma anche rovine dell’umano: corpi afflitti e malati, ai margini della società, all’ombra della vita e della storia. È proprio all’ombra e alle ombre, infatti, – nell’ampia gradazione dei neri e con un ritmo incalzante –, che Vasco Ascolini affida il raccordo della narrazione,

01. Senza titolo (1968). Casa di ricovero per anziani, Reggio Emilia. Vasco Ascolini

L’ombra delle rovine e i margini della società nella fotografia di Vasco Ascolini

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drammatizzando la visione e il racconto stesso, e spingendo la pratica fotografica fino alla vertigine e all’ossimoro dei limiti del visibile (Vertigine dell’ombra era appunto il titolo di una retrospettiva del fotografo a Palazzo Magnani di Reggio Emilia nel 2008). Fotografie scattate in epoche e condizioni diverse (dal 1968 al 2001), anziani di case di ricovero, paesaggi e oggetti di ospedali psichiatrici ormai abbandonati e statue malate in attesa di una qualche cura, sembrano colti sul momento di apparire in scena o di abbandonarla. Corpi e luoghi si affacciano fra un sipario calato e un dietro le quinte. La scrittrice recentemente scomparsa Pia Pera racconta nel suo ultimo libro Al giardino ancora non l’ho detto (2016, p. 23): Mentre cerco di fare ordine in casa […] mi casca l’occhio sul libro di Woodward, Tra le rovine. Mi torna in mente la mia fascinazione per l’idea che la vera bellezza affiori negli edifici quando ormai soccombono al tempo, a forze contro cui non sono in grado di resistere – terremoti, ma anche: vento, acqua, tarme, topi. In una parola, l’abbandono. Il mio proposito a lungo, troppo a lungo rimandato di scrivere una botanica delle rovine. Non ho più tempo di farlo, mi chiedo però: adesso che il corpo decade, affiora forse una bellezza d’altro genere? O forse, anche per gli edifici, non è una bellezza quella che affiora nel rovinare. Traspare forse l’anima in procinto di andarsene? E che bellezza sia proprio questo, intravedere nella caducità l’invisibile? La bellezza espressa, colta dalla fotografia di Vasco Ascolini è proprio in questa apparizione dell’invisibile nella caducità, nella fragilità e nella malattia. Nel 1968 Ascolini fotografa i pazienti di una casa di ricovero per anziani di Reggio Emilia. Non sono fotografie sociali o di denuncia, sono invece fotografie civili, politiche nel senso più alto

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è proprio all’ombra e alle ombre che Vasco Ascolini affida il raccordo della narrazione

02. Senza titolo (1968). Casa di ricovero per anziani, Reggio Emilia. Vasco Ascolini

03. Senza titolo (1968). Casa di ricovero per anziani, Reggio Emilia. Vasco Ascolini

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04. Senza titolo (1968). Casa di ricovero per anziani, Reggio Emilia. Vasco Ascolini

la rovina dei corpi (e il corpo in rovina), rinvia all’assenza ma è anche fragile rivelazione

del termine. Qui, la rovina dei corpi (e il corpo in rovina), rinvia all’assenza – uomini e donne, corpi dimenticati, “marginalizzati”, esiliati dalla vita, dal tempo, dalla storia, – ma è anche fragile rivelazione di bellezza. Come sottolineano le finestre e le porte quasi sempre aperte o socchiuse – dove lo sguardo si situa ora vicino, in interno, ora lontano, in esterno. I corpi e i volti sono in rapporto a queste aperture, a questi fragili margini, confini dell’esclusione, dell’esilio, dell’essere fuori dalla natura, dalla storia, dalla famiglia, dalla compagine umana. Ascolini ha più volte affermato come il nero fosse “funzionale a dare l’idea

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della solitudine” e quasi tutta la critica ha sottolineato come la sua maniera di trattare il buio sia “la caratteristica più saliente del suo linguaggio”, “l’ombra non corrode” ma abbraccia, (Ascolini, 2015, p. 31). Non a caso, forse, fra tutte, la foto più drammatica è proprio una fotografia bianca, chiarissima, in cui la luce si sgrana e invade non solo lo spazio della visione, ma tracima all’esterno, seguendo la direttiva dello sguardo e del gesto doloroso della donna, la cui drammaticità è acuita dal suo essere non al centro della composizione ma di lato. Anche le fotografie che ritraggono architetture e oggetti di ospedali psichiatrici (San Lazzaro di Reggio

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05. Senza titolo (1998). Ospedale Santa Maria della Pietà, Roma. Vasco Ascolini

Emilia, San Servolo di Venezia e Santa Maria della Pietà di Roma; i musei di Antropologia di Bologna e Firenze, il Museo Lombroso a Torino, il museo della Medicina di Atene e il Museo della Scienza de la Villette a Parigi) non hanno un intento di testimonianza o di denuncia e risultano molto diverse da quelle di artisti quali Stefano Perego, Andrea Star Reese, George Georgiou o Jeremy Harris. Ascolini opera qui in un senso documentario, rifiutando, per sua stessa ammissione, ogni estetismo. L’odore, il silenzio, la desolazione di queste rovine non sono tanto nello stato di abbandono in cui versano, ma nel loro suscitare domande a cui sembra impossibile rispondere.

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06. Senza titolo (1998). Ospedale Santa Maria della Pietà, Roma. Vasco Ascolini

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l’odore, il silenzio, la desolazione di queste rovine non sono tanto nello stato di abbandono in cui versano, ma nel loro suscitare domande a cui sembra impossibile rispondere

07. Senza titolo (1968). Casa di ricovero per anziani, Reggio Emilia. Vasco Ascolini

08. Senza titolo (1998). Ospedale Santa Maria della Pietà, Roma. Vasco Ascolini

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09. Senza titolo (1996-1997). Ivry-sur-Seine. Vasco Ascolini

Ecco un letto vuoto, un semplice rettangolo di ferro, addossato al capo di una finestra chiusa. La luce non vi scivola, arranca e si riflette nelle lenzuola appena scostate, – come se qualcuno si fosse appena alzato, lasciando una misteriosa impronta, – nella “vela” di una camicia di forza in alto, fino a emanare gli ultimi chiari sporchi bagliori sui lacci ordinatamente posati sulla sponda, in primo piano. Ecco dei camici che emergono appena da uno sfondo buio e inquietante: a chi appartengono? O una sghemba struttura di legno che ospita valigie e pacchetti accatastati in una eterna, inutile attesa: Chi li ha lasciati? Quali i volti? Quali le storie? Il tema della malattia percorre anche un ultimo, insolito gruppo di fotografie. Fra il 1996 e il 1997, Vasco Ascolini fotografa a più riprese centinaia di statue malate collocate in un deposito in attesa di restauro o di nuova collocazione (in interno ed esterno; esposte per la prima volta a Torino, presso la Galleria Weber&Weber nel 2016). Si tratta di statue, gruppi marmorei, modelli in

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gesso presenti in una vecchia officina un tempo adibita al regolamento delle acque fluviali di Ivry-sur-Seine, vicino all’omonimo corso d’acqua –, nel dipartimento della Val-de-Marne, a pochi chilometri da Parigi. Ascanio Kurkumelis, curatore del catalogo, ha evidenziato come questo Deposito figure sia “l’immagine della storia di un’umanità migrante”. Gruppi marmorei, corpi, frammenti non si impongono in una isolata visione di attesa, ma in una narrazione di movimento. Ecco, i margini, il senso, le funzioni si confondono: se prima il corpo degli uomini e delle donne assumeva una fissità quasi statuaria, ora qui le statue sembrano ritrovare un corpo tutto umano. La fotografia di Ascolini è anche questa capacità straordinaria, poco comune e straniante di dare agli “oggetti” che fotografa una vita un destino completamenti nuovi.*

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BIBLIOGRAFIA - Ascolini, V. (2003), “Une incertaine folie”, catalogo della mostra, Lille. - Ascolini, V. (2015), “Deposito figure”, catalogo della mostra, Reggio Emilia. - Augé, M. (2004), “Rovine e macerie. Il senso del tempo”, Bollati Boringhieri, Milano. - Imbert, D. (1986), “Aux origines du fonds de sculpture du dépôt d’Ivry : la politique de commande de la ville de Paris dans les débats de la troisième République”, in “La Sculpture du XIXe siècle, une mémoire retrouvé, les fonds de sculpture. Rencontres de l’Ecole du Louvre, La Documentation française”, Paris. - Parmiggiani, S. (2007), “Vasco Ascolini. La vertigine dell’ombra. Fotografie 1965-2007”, Skira, Milano. - Parodi, C., Porazzo, S. (a cura di) (2005), “Una incerta follia, una incerta normalità. Vasco Ascolini”, catalogo della mostra, Pinacoteca Civica, Palazzo Gavotti, Savona, 3-18 novembre 2005. - Pera, P. (2016), “Al giardino ancora non l’ho detto”, Ponte alle Grazie, Milano. - Woodward, C. (2008), “Tra le rovine. Un viaggio attraverso la storia, l’arte e la letteratura” (trad. it. di L. Sosio), Guanda, Milano.


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SOUVENIR


Letizia Goretti Dottoranda in Composizione architettonica tematica cultura visuale presso l’Università Iuav di Venezia. letizia.goretti@yahoo.it

Memoria di un pino che non era lì Parigi, XVème arrondissement

Lo scrittore Roger Caillois, in Petit guide du XVe arrondissement à l’usage des fantômes (1977), ricorda la trasformazione del quartiere, la continua ricostruzione, durante gli anni sessanta, effettuata con una “fretta febbrile”: le antiche abitazioni demolite e sostituite da edifici massicci, grandi e omogenei. Quel pino non era lì, è arrivato – dopotutto – a cose fatte.*

Memory of a Pine Tree that was not there Paris, XVème arrondissement The writer Roger Caillois, in “Petit guide du XVème arrondissement à l’usage des fantômes” (1977), recalls the transformation of the neighbourhood, the continuous reconstruction, during the Sixties, carried out with a “feverish rush”: the old houses demolished and replaced by massive, large and homogeneous buildings. That pine tree was not there, it came – after-all – once things (were) done.*

OFFICINA* N.29

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Diluire la densità

a cura di

Distanza Ravvicinata Storie del Wyoming / 1 Annie Proulx Minimum Fax 2019 (cover design Agnese Pagliarini e Patrizio Marini)

nnis del Mar si sveglia prima delle cinque, col vento che scuote il caravan, sibilando attraverso la porta di alluminio e gli infissi dei finestrini. Le camicie appese a un chiodo sono leggermente smosse dallo spiffero d’aria. Si alza, grattandosi la grigia risalita di pelo pubico intorno all’ombelico, si strascina al fornelletto del gas, versa del caffè avanzato in un pentolino di ceramica sbreccata; la fiamma lo avvolge di blu. Apre il rubinetto e piscia dentro il lavandino, s’infila camicia e jeans, gli stivali consumati, di cui preme i tacchi contro il pavimento per calzarli meglio. Il vento picchia su tutta la lunghezza curva del caravan, e sotto il suo rombo

cupo avverte lo sfregare di sassolini e sabbia. Sull’autostrada potrebbe mettersi male con il bilico per il trasporto dei cavalli. Deve preparare tutto e filarsela dalla fattoria quel mattino stesso. Il ranch è di nuovo in vendita e si sono liberati anche dell’ultimo dei cavalli, hanno saldato tutti i conti il giorno prima, col padrone che diceva ‘Datele a quegli squali dell’agenzia immobiliare, io non ne voglio più sapere’, e consegnava a Ennis le chiavi. Può darsi che debba restare con la figlia sposata fino a che non troverà un altro lavoro, eppure è pervaso da un senso di piacere perché ha sognato Jack Twist. Il caffè riscaldato sta bollendo ma riesce a spegnerlo prima che coli

fuori, lo versa in una tazza macchiata e soffia sul liquido nero, lasciando che una scena del suo sogno gli scorra davanti agli occhi. Se non ci pensa troppo sopra potrebbe nutrirgli la giornata, riportandolo ai vecchi tempi, a quei tempi di gelo sulla montagna, quando erano padroni del mondo e niente sembrava sbagliato. Il vento si abbatte sul caravan come fosse un carico di spazzatura che straborda da un camioncino, poi si acquieta, cessa, lascia che per un po’ ci sia silenzio”. Dall’ultimo racconto della raccolta Brokeback Mountain.*

Storie della farfalla William T. Vollmann Minimum Fax, 2019 (cover design Agnese Pagliarini e Patrizio Marini)

Se la strada potesse parlare James Baldwin Fandango Libri, 2018 (cover design Francesco Sanesi)

sullo scaffale

Archivio dei bambini perduti Valeria Luiselli La Nuova Frontiera, 2019 (cover design Flavio Dionisi)

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CELLULOSA


Spiagge “Passammo l’estate su una spiaggia solitaria”. Franco Battiato, Summer on a solitary beach, La voce del padrone, 1981 Immagine della redazione

(S)COMPOSIZIONE



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