ISSN 2532-1218
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n. 31, ottobre-novembre-dicembre 2020
Adattamento
Primo rifugio di Matteo Fontana Come nello spazio così sulla terra. Come al caldo così al freddo. La coperta isotermica trova spesso impiego in situazioni di emergenza data la sua versatilità e leggerezza. Addosso a richiedenti asilo appena sbarcati da un gommone dopo giorni in mare. Addosso a escursionisti soccorsi su vette innevate. Tra i riflessi e le increspature di questo film sottile c'è una seconda pelle, un primo rifugio. Studente Master in Architecture – Università Iuav di Venezia
Stefania Mangini
Cambiamenti Nel 1859 Charles Darwin, il naturalista inglese considerato il padre dell’evoluzionismo, pubblica la sua più importante opera: L’origine delle specie. In un’epoca ancora fortemente radicata alle idee creazioniste, il pensiero di Darwin è rivoluzionario in quanto, pur non negando una possibile origine divina della vita, affronta il tema della varietà e della variabilità che caratterizzano le differenti specie, introducendo il concetto di selezione naturale come meccanismo di riproduzione e diffusione della specie stessa. Nella teoria darwiniana gli individui più adatti all’ambiente hanno più possibilità di sopravvivere e di riprodursi tramandando alle generazioni future alcuni caratteri ereditari: in questo modo le popolazioni cambiano nel tempo, mutando di generazione in generazione fino a dar vita a una nuova specie. Contrastata da molti, la teoria trovò tuttavia anche ferventi sostenitori che, negli anni seguenti, declinano il concetto di selezione naturale in altri ambiti come quello economico o sociale. Se da un lato il “darwinismo economico” aprì a scenari di mercato libero e senza regole, dall’altro il “darwinismo sociale” teorizzato da Spencer, offrì il pretesto per giustificare azioni colonialiste e razziste, basate sul principio della superiorità della razza. Oggi, in un periodo di cambiamenti climatici e pandemie, in cui lo spettro di un collasso economico - oltre che sociale - si fa sempre più concreto e in cui la tecnica (techne), faro del nostro secolo, si sta dimostrando incapace di offrire risposte concrete ai drammi in atto, il dibattito sull’evoluzione della nostra specie pare essersi del tutto assopito a fronte di una rassegnazione all’esistenza, quasi come se la nostra sopravvivenza, le nostre comodità e le nostre abitudini ci fossero date a priori, indipendentemente da ciò che succede là fuori. La nostra epoca non immagina più un uomo posto al centro dell’universo da un Dio creatore, ma un uomo che si pone al centro del proprio mondo grazie “all’universo di mezzi” di un tecnica ormai priva di alcun fine se non quello di generare altri mezzi per incrementare all’infinito la sua efficienza (Galimberti, Psiche e Techne, p. 681). Eppure, rileggendo Darwin, la sopravvivenza di una specie – anche della nostra - non è data dalla capacità di cambiare il mondo, ma dalla possibilità di adattarsi alla natura contingente che il presente ci impone. Emilio Antoniol
Direttore editoriale Emilio Antoniol Direttore artistico Margherita Ferrari Comitato editoriale Letizia Goretti, Stefania Mangini Comitato scientifico Federica Angelucci, Stefanos Antoniadis, Sebastiano Baggio, Matteo Basso, MariaAntonia Barucco, Martina Belmonte, Viola Bertini, Giacomo Biagi, Paolo Borin, Laura Calcagnini, Piero Campalani, Fabio Cian, Federico Dallo, Doriana Dal Palù, Francesco Ferrari, Jacopo Galli, Michele Gaspari, Silvia Gasparotto, Giovanni Graziani, Francesca Guidolin, Beatrice Lerma, Elena Longhin, Filippo Magni, Michele Manigrasso, Michele Marchi, Patrizio Martinelli, Cristiana Mattioli, Fabiano Micocci, Magda Minguzzi, Corinna Nicosia, Maurizia Onori, Damiana Paternò, Elisa Pegorin, Laura Pujia, Fabio Ratto Trabucco, Silvia Santato, Gerardo Semprebon, Chiara Scarpitti, Giulia Setti, Ianira Vassallo, Luca Velo, Alberto Verde, Barbara Villa, Paola Zanotto Redazione Martina Belmonte (copy editor), Paola Careno (impaginazione), Letizia Goretti (photo editor), Stefania Mangini (grafica), Silvia Micali (traduzioni), Arianna Mion, Rosaria Revellini, Libreria Marco Polo, Sofia Portinari (impaginazione), Elisa Zatta (traduzioni) Web Emilio Antoniol Progetto grafico Margherita Ferrari
OFFICINA* “Officina mi piace molto, consideratemi pure dei vostri” Italo Calvino, lettera a Francesco Leonetti, 1953
Trimestrale di architettura, tecnologia e ambiente N.31 ottobre-novembre-dicembre 2020
Adattamento
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Direttore responsabile Emilio Antoniol Registrazione Tribunale di Treviso n. 245 del 16 marzo 2017 Pubblicazione a stampa ISSN 2532-1218 Pubblicazione online ISSN 2384-9029 Accessibilità dei contenuti online www.officina-artec.com Prezzo di copertina 10,00 € Prezzo abbonamento 2020 32,00 € | 4 numeri Per informazioni e curiosità www.anteferma.it edizioni@anteferma.it
OFFICINA* è un progetto editoriale che racconta la ricerca. Tutti gli articoli di OFFICINA* sono sottoposti a valutazione mediante procedura di double blind review da parte del comitato scientifico della rivista. Ogni numero racconta un tema, ogni numero è una ricerca. OFFICINA* è inserita nell’elenco ANVUR delle riviste scientifiche per l’Area 08. Hanno collaborato a OFFICINA* 31: Maria Pia Amore, Federico Alcaro, Martin Argyroglo, Elisa Brusegan, Greta Bruschi, Alessio Busato, Laura Calcagnini, Irene Caputo, Alessandra Carlini, Elena Cirnigliaro, Francesca Dal Cin, Matteo Fontana, Luna Kappler, Andrya Kohlmann, Rafael Lorentz, Magda Minguzzi, Claudia Morea, Domenico Patassini, Michele Prendini, Federico Stefani, Massimo Triches, Roy Wroth.
Adattamento Adaptation n•31•ott•dic•2020
Primo rifugio First Refuge Matteo Fontana
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INTRODUZIONE
Adattamento: tra reazione e azione progettuale Adaptation: design reaction or action Laura Calcagnini
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Dispositivi semplici Simple Design Strategies Elisa Brusegan, Massimo Triches
Riprogettare i confini Redesigning Borders
22 30 36
PORTFOLIO
Fenêtres sur tour. Tentatives d’épuisement d'une vue parisienne Windows onto Tower. Attempts to exhaust a Parisian View Martin Argyroglo
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IL LIBRO
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I CORTI
64 68
Alterità e risignificazioni Otherness and New Signification
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Verso una manifattura glocale Towards a Glocal Manufacturing Claudia Morea
Elena Cirnigliaro
Percorrere un’area archeologica Going through an Archaeological Site
L’ARCHITETTO
Super Montréal 2042 Alessio Busato
Margin as a Space of Action Margine come spazio di azione
Global warming e restauro Global Warming and Restoration Greta Bruschi
48
INFONDO
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SOUVENIR
90
AL MICROFONO
Non sarei come sono, se sapessi come non esserlo I wouldn't be like this, if I knew how to not be like this Michele Prendini
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Maria Pia Amore
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Gli attivatori urbani Urban Activators
Andrya Kohlmann, Rafael Lorentz
Città in equilibrio mobile Cities in Mobile Equilibrium Luna Kappler
Federico Alcaro, Domenico Patassini
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Bonifiche a cura di Stefania Mangini
Alessandra Carlini
Irene Caputo
ESPLORARE a cura di Letizia Goretti
Vivere senza margini Live without Borders
L’IMMERSIONE
Il litorale dinanzi all’innalzamento del livello medio del mare Seashore street facing average sea level rise Francesca Dal Cin
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Siti del patrimonio culturale del popolo KhoiSan KhoiSan heritage sites, South Africa Magda Minguzzi
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When the Human exceeds the Real Quando l’umano supera il reale Roy Wroth
Doppio senso! Double Meaning! Letizia Goretti
Come la tempesta Vaia sia diventata tangibile poesia How the Vaia storm became tangible poetry con Federico Stefani, a cura di Arianna Mion
94 95
CELLULOSA
Dalle parole allo spazio a cura dei Librai della Marco Polo (S)COMPOSIZIONE
Changes
Emilio Antoniol
Ruines è un viaggio nel tempo e fuori dal tempo. Le fotografie sono dei frammenti di paesaggio in cui s’intravede il passaggio dell’uomo. Scenari vuoti e poetici, impregnati di malinconia, ma che invitano ad andare oltre con lo sguardo e con la mente. Le immagini di Josef Koudelka sono tutte accumunate dalla presenza invisibile dell’essere umano: il passaggio dell’uomo, testimonianza di un mondo che fu. LG
À l’affiche ! 22 settembre 2020 - 21 febbraio 2021 BnF | François-Mitterrand www.bnf.fr
Il manifesto cinematografico è senza tempo; il cinema non si è mai separato da questo strumento visuale. La mostra À l’affiche ! raggruppa alcuni dei manifesti cinematografici più celebri conservati alla BnF, dalla nascita del cinema dei fratelli Lumiere ai nostri giorni. In questa lunga sequenza d’immagini – l’esposizione si estende su buona parte del corridoio allée Julien Cain – si sussegue la mutazione dell’estetica e delle tecniche di stampa:
Letizia Goretti
Josef Koudelka, fotografo ceco naturalizzato francese, non ha bisogno di particolari presentazioni. Diventato famoso dopo aver documentato la Primavera di Praga (1968), ha continuato a immortalare nei suoi scatti racconti di vita quotidiana ai margini della società, ma anche paesaggi naturali e spazi urbani attraverso il suo sguardo poetico. La serie Ruines (Rovine) riassume un progetto personale di Koudelka durato trenta anni, durante i quali il fotografo ha attraversato 20 paesi per raccogliere, visualmente, le rovine della cultura greca e latina. Un viaggio dalla Syria all’Italia, passando dalla Turchia alla Grecia, dalla Giordania alla Francia e attraversando tanti altri paesi. In mostra sono presenti 110 immagini in bianco e nero, molte delle quali inedite. L’esposizione non segue una linea divisa per luoghi o cronologica: in realtà non esiste nessuna logica. L’installazione sospesa, ideata da Jasmin Oezcebi, permette di vagare tra le stampe fotografiche, senza dover seguire il “solito” percorso imposto. Si è liberi di girovagare tra le stampe facendosi guidare dai propri occhi, scrutando i siti archeologici attraverso dei rapidi aller et retour di paese in paese. Ma perché documentare le rovine? È lo stesso Koudelka che ci dà la risposta. All’ingresso dell’esposizione un grande pannello riporta una sua frase: “le rovine non sono il passato, sono il futuro. Tutto intorno a noi, un giorno, sarà in rovina”.
Letizia Goretti
Josef Koudelka. Ruines 15 settembre – 6 dicembre 2020 BnF | François-Mitterrand www.bnf.fr
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dalla litografia alla stampa offset, dal disegno al fotomontaggio, fino alla stampa digitale. I codici grafici dei poster, inoltre, a volte sono stati adattati dalla distribuzione cinematografica internazionale secondo il gusto estetico del paese di diffusione, creando delle differenti versioni per lo stesso film. L’affiche di apertura è del pittore e illustratore Marcellin Auzolle – manifesto che creò per la pellicola L’Arroseur Arrosé dei fratelli Lumiere nel 1896 – per poi proseguire con Le Fantôme de l'Opéra, Le Charme des fleurs, Le Testament d'Orphée, Metropolis, Psychose… Il manifesto cinematografico, anche se dalle origini è una forma pubblicitaria, rappresenta la maestria de l’affichiste (cartellonista). Il mestiere del cartellonista o illustratore cinematografico è molto complesso, come sottolinea l’affichiste francese Léo Kouper: “il regista ha 1h30 o 2h per raccontare una storia, il cartellonista ha un secondo”. In questo secondo egli deve saper usare con destrezza l’arte dell’intrigo senza mostrare esplicitamente il contenuto del film. Ma questa figura geniale è rimasta spesso nell’ombra, uscendo talvolta allo scoperto agli occhi dei collezionisti o di amatori occasionali. Oggi il manifesto cinematografico è un vero e proprio “oggetto” da collezione, fino ad arrivare ai paradossi del collezionismo, cioè offrire cifre esorbitanti come nel caso della vendita del manifesto originale di Metropolis battuto all’asta per 1,2 milioni di dollari. L’esposizione è “una passeggiata panoramica attraverso più di un secolo di cinema”, seguendo un filo cronologico, essa ripercorre le tappe più importanti del manifesto e la sua funzione, le tendenze estetiche e l’attività dei suoi creatori poiché il manifesto è un’opera entrata a far parte della memoria cinematografica e anche della nostra. LG
ESPLORARE
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A cura di Laura Calcagnini. Contributi di Federico Alcaro, Greta Bruschi, Elisa Brusegan, Irene Caputo, Alessandra Carlini, Elena Cirnigliaro, Domenico Patassini, Massimo Triches.
Laura Calcagnini Ricercatore TDa, Dipartimento di Architettura, Università degli Studi Roma Tre. laura.calcagnini@uniroma3.it
Adattamento: tra reazione e azione progettuale
Adaptation: design reaction or action
"L’architettura è l’adattarsi delle forme a forze contrarie” J. Ruskin
"Architecture is the adaptation of forms to opposing forces" J. Ruskin
L’adattamento è la capacità che ha un organismo o un sistema ambientale di adeguarsi al modificarsi delle condizioni esterne. È un concetto trans-scalare e trans-disciplinare e può, più specificatamente, essere inteso sia come capacità di un utente di garantire l’assolvimento dei propri bisogni in contesti ostili o in continuo cambiamento, sia come una proprietà di un organismo architettonico nella gestione dei cambiamenti del nostro modo di vita e declinato rispetto a più ampie strategie nel progetto di architettura e della città. In riferimento a un organismo architettonico, l’adattamento spesso determina la necessità di riuso e adeguamento del patrimonio esistente, edificio o spazio pubblico, e l’impiego di tecnologie per mantenere in vita spazio e architettura. In questa direzione si inseriscono parte dei contributi di questo numero di OFFICINA*, tra essi quello di Cirnigliaro, nel quale l’adattamento è presentato come una capacità dell’uomo ad agire sugli spazi comuni per adattarli ai propri bisogni. Tale capacità, secondo l’autrice, getta le basi per una proposta sulla trasformazione degli spazi pubblici che, come ella stessa afferma “non prevede progetti definitivi e pronti all’uso. Piuttosto, considera le potenzialità di elementi adattabili”. Il concetto di adattamento inteso come capacità del costruito passa per la disamina di Bruschi nel mettere in evidenza i fattori di vulnerabilità dell’architettura storica e l’esigenza di modelli interpretativi e predittivi del comportamento del manufatto che possano innescare una conservazione programmata come strategia di adattamento ai cambiamenti climatici e al deterioramento materico del costruito. Con una diversa attitudine e attraverso un racconto architettonico avvincente, il concetto di adattamento nei contesti storici è esplicitato anche nel saggio di Carlini: in esso viene dipanata la questione relativa al rapporto tra architettura e archeologia, rapporto che “impone alla città un continuo processo di adattamen-
Adaptation is the ability that an organism or an environmental system has to adapt itself to changing external conditions. It is a trans-scalar and trans-disciplinary concept and can be understood both as the ability of a user to guarantee the fulfillment of their needs in hostile or constantly changing contexts, and as a property of an architectural organism in the management of changes in our way of life. It can be declined with respect to broader strategies in the design of architecture and the city. With reference to an architectural organism, adaptation often determines the need for reuse and adaptation of the existing heritage, building or public space, and the use of technologies to maintain space and architecture. Part of the contributions of this issue of OFFICINA* fit into this direction. In the Cirnigliaro’s paper, adaptation is presented as a human ability to act on common spaces to adapt them to their needs. This ability, according to the author, lays the foundations for a proposal on the transformation of public spaces which, as she herself states, "does not provide for definitive and ready-to-use projects. Rather, it considers the potential of adaptable elements”. The concept of adaptation as a capacity of the built passes through Bruschi's paper in highlighting the vulnerability issues of historical architecture and the need for interpretative and predictive models of the building behavior that could trigger programmed conservation as an adaptation strategy to climate change and to the material deterioration of buildings. With a different attitude and through a compelling architectural story, the concept of adaptation in historical contexts is also made explicit in Carlini's essay: in it the question relating to the relationship between architecture and archeology is unraveled, a relationship that "imposes a continuous process of adaptation aimed at ensuring that the heritage
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ADATTAMENTO
Ancore, Cap Ferret 2017. Margherita Ferrari
OFFICINA* N.31
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to teso a far sì che il patrimonio sia fruibile e accessibile nel modo più inclusivo possibile”. Le architetture dei casi studio mostrano il potenziale di approcci progettuali e tecnologici sapienti in paesaggi in continua trasformazione. Il tema dell’adattamento è enucleato nel contesto della marginalità nei contributi di Triches e Brusegan e in quello di Caputo. La condizione di marginalità è a tutti gli effetti quella che maggiormente mina le condizioni di stabilità delle risorse e delle comunità e dove le strategie di adattamento sono maggiormente manifeste. Nelle condizioni di marginalità le condizioni di reciprocità tra comunità e ambiente divengono manifesto della capacità di adattamento come declinato nel primo contributo citato. Analogamente, ma ad una scala progettuale più ridotta, il secondo articolo presenta alcuni strumenti del design che consentono un adattamento “eticamente determinante” attraverso nuove forme di comunicazione in grado di “creare un’eco collettiva”, e attribuendo ruolo fondamentale nel processo di adattamento a un approccio partecipativo e pragmatico. Infine Alcaro e Patassini, indagando il contesto peculiare dei campi profughi, riconoscono come in questi luoghi transitori “si producano energie” per rispondere in modo adattativo a questioni sociali. Essi descrivono come questi luoghi così speciali divengano un vero e proprio “dispositivo per la transizione, dotato di autonomia e, per forza di cose, di permanenza”, esempio dunque sia di processo e sia di luogo adattivo. Dalla lettura di questo numero emerge come ciò che è adattivo sia in grado di aumentare l'efficienza di un organismo nel procurarsi o utilizzare le risorse esistenti, costituendosi come un fattore intrinseco di un prodotto o di un processo, spesso declinato sui più ampi temi dell’emergenza e della temporaneità. In sintesi un concetto di adattamento inteso oltre che come una capacità insita in un organismo, come una caratteristica ad esso fornita in forma previsionale e progettuale. E dunque una nostra nuova responsabilità progettuale.*
were usable and accessible in the most inclusive way possible ". The architectures of the case studies show the potential of design approaches and skilled technologists in constantly changing landscapes. The theme of adaptation is set out in the context of marginality in the contributions of Triches and Brusegan and in that of Caputo. The condition of marginality is in effect the one that most undermines the conditions of stability of resources and communities and where adaptation strategies are most evident. In the conditions of marginality, for the firsts authors, the reciprocity between community and environment become manifest of the ability to adapt as described. Similarly, but on a smaller design scale, Caputo presents some design tools that allow an "ethically decisive" adaptation through new forms of communication capable of "creating a collective echo", and attributing a fundamental role in the adaptation process to a participatory and pragmatic approach. Finally Alcaro and Patassini, investigating the specific context of the refugee camps, recognize how in these transitory places "energies are produced" to respond in an adaptive way to social questions. They describe how these very special places become a real "device for transition, endowed with autonomy and, inevitably, permanence", therefore an example of both process and adaptive place. From the reading of this issue it emerges that what is adaptive is able to increase the efficiency of an organism in procuring or using existing resources, constituting itself as an intrinsic factor of a product or process, often declined on the broader themes of emergency and temporariness. In short, a concept of adaptation intended not only as an inherent capacity in an organism, but also as a characteristic provided to it in a forecasting and planning form. And therefore our new design responsibility.*
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ADATTAMENTO
Margini, Venezia 2016. Margherita Ferrari
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Elisa Brusegan Architetto, Dottore in Composizione Architettonica presso UniversitĂ Iuav di Venezia. arch.elisa.brusegan@gmail.com
Massimo Triches Architetto, Dottore in Composizione Architettonica presso UniversitĂ Iuav di Venezia. massimo.triches@gmail.com
Dispositivi semplici
01. La sorgente termale Grand Prismatic Spring, Parco Nazionale di Yellowstone, USA. Grand Prismatic Spring, Yellowstone National Park, USA. Elisa Brusegan
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ADATTAMENTO
Forme di adattamento ai luoghi di margine
I
l termine “margine” identifica uno spazio fisico o astratto che, seppur di dimensioni variabili, presenta caratteristiche specifiche tali da distinguerlo dal suo contesto più prossimo1. Esso è riconosciuto come luogo solamente nel momento in cui una determinata comunità — o, in termini ecologici, popolazione — riesce ad abitarlo o viverlo, almeno temporaneamente, grazie alle proprie capacità di adattamento2. La differenza che identifica il margine dall'intorno può essere molto netta e coinvolgere parametri ambientali o caratteristiche socioeconomiche fondamentali per la sopravvivenza. In questi casi, occupare il margine e dotarlo di senso può diventare molto difficile. Tuttavia è possibile individuare alcuni esempi nei quali i luoghi dove la vita umana è fortemente minacciata da problemi climatici, sociali o politici vengono comunque abitati. Nelle strategie di adattamento attuate in tali circostanze dai gruppi umani è possibile osservare delle similitudini rispetto ai meccanismi messi in atto da alcuni organismi che vivono in condizioni estreme, come ad esempio alghe e batteri termofili. Il Parco Nazionale di Yellowstone è una delle più grandi concentrazioni di fenomeni geotermici dell’intero pianeta. Questi luoghi, ritratti nelle suggestive istantanee in bianco e nero del fotografo statunitense Ansel Adams (Stillman, 2010), sono caratterizzati da pozze d’acqua animate da un vibrante caleidoscopio dai colori vivaci e cangianti che ne definisce i bordi. Si tratta di ambienti acquatici con temperature che raggiungono o superano il punto di ebollizione e che spesso presentano concentrazioni molto elevate di particolari elementi chimici quali lo zolfo e il ferro. Rappresentano quindi delle situazioni di grave pericolo per gli esseri umani e gli animali. Nonostante la loro natura inospitale, le pozze geotermiche sono teatro di paesaggi spettacolari caratterizzati da cromie complesse e cangianti. A comporle sono i batteri termofili, gli unici esseri in grado di abitare questi luoghi. Il biologo Thomas Dale Brock, che negli anni Sessanta ne ha scoperto l’esistenza nel noto parco americano, definisce
Simple Design Strategies The ability of thermophilic organisms to adapt to extreme situations, generates processes of spatial transformation that highlight the mutual relationship between community and environment. The ability to adapt to marginal conditions depends on the simplicity of their cellular structure. Similarly, in many marginal areas of natural and anthropic ecosystems, human beings have developed works, forms of aggregation, settlement strategies characterized by a simple and essential structure. The article aims to describe some examples, highlighting how simplicity is often a determining feature for adaptation and existence of human communities in marginal areas.* La capacità di adattamento degli organismi termofili alle situazioni limite per la sopravvivenza genera dei processi di trasformazione dei luoghi che evidenziano la relazione reciproca tra comunità e ambiente. L’abilità di adattarsi alle condizioni marginali dipende dalla semplicità della loro struttura cellulare. Analogamente, in molti ambiti di margine degli ecosistemi naturali e antropici, l’uomo ha sviluppato opere, forme di aggregazione, strategie d’insediamento caratterizzate da una struttura semplice ed essenziale. L’articolo intende illustrarne alcuni esempi, evidenziando come questa sia spesso una caratteristica determinante per l’adattamento e quindi l’esistenza delle comunità umane nelle aree marginali.*
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02. La vita lungo il Great Green Wall. Life along the Great Green Wall. Courtesy of The Great Green Wall Press Kit
“termofili” quegli organismi in grado di vivere a temperature superiori a 50°C3. I batteri capaci di crescere ad alte temperature sono molti e si possono ritrovare in diversi gruppi filogenetici. Per questo motivo le pozze di Yellowstone non presentano un'unica tonalità ma sfumature sempre diverse l'una dall'altra. Brock spiega anche che negli ambienti acquatici nessun animale multicellulare vive a temperature superiori a 50°C e che sopra i 60°C si trovano solo alcuni procarioti, la cui struttura cellulare risulterebbe più termostabile. Tra essi, sopra i 90°C, riuscirebbero a riprodursi solo gli archeobatteri. Con un diametro generalmente compreso fra 1 e 5 µm, le cellule procariote sono normalmente molto più piccole di quelle eucariote, il cui asse maggiore è compreso invece fra i 10 e i 50 µm. Inoltre presentano una struttura alquanto semplice. La cellula eucariota è caratterizzata dal nucleo che racchiude il patrimonio genetico e dagli organuli, ossia corpuscoli delimitati da una membrana e preposti allo svolgimento di funzioni specifiche. Queste strutture sono circondate dalla massa gelatinosa del citoplasma, a sua vol-
geotermiche di Yellowstone, risieda in tale semplicità. Gli organismi piccoli ed essenziali riescono non solo ad abitare questi spazi marginali ma anche a modificarli attraverso variazioni cromatiche apprezzabili a una dimensione molto più grande rispetto alla loro. Queste caratteristiche, proprie degli organismi termofili, sono paragonabili alle pratiche e alle strategie di adattamento messe in atto dall’uomo al fine di occupare i luoghi marginali del pianeta, compresi quelli più insalubri o arbitrariamente interdetti per ragioni economiche, politiche o sociali. Tali ambiti sono storicamente mutevoli: si formano, si trasformano (in termini dimensionali, morfologici e caratteristici) e scompaiono. Inoltre non sono determinati solamente dalle condizioni fisiche, ambientali e climatiche del pianeta terra, bensì sono sempre più influenzati dalla componente antropica4. Si pensi ad esempio alle grandi aree deforestate dell’Africa tropicale. Il Global Forest Resources Assessment 2020 della FAO evidenzia come nel decennio 2010-2020 la deforestazione in Africa sia accelerata rispetto al decennio precedente, passando da 3,4 a 3,9 milioni di ettari annui (FAO, 2020, p. 3). Oltre all'aumento della popolazione e all'espansione dell'agricoltura il fenomeno è causato dal diffuso utilizzo del legname come combustibile domestico. Si tratta infatti di una soluzione molto economica, dal momento che il materiale è disponibile gratuitamente e il lavoro di donne e bambini non viene pagato. Le comunità rurali della fascia tropicale, dove la presenza di foreste è prevalente, devono perciò adattarsi per sopravvivere in queste aree di margine in cui la deforestazione altera gli ecosistemi forestali causando una perdita di biodiversità e l'erosione del suolo da parte del vento nella stagione secca e da parte dell'acqua nella stagione delle piogge. La legna viene utilizzata prevalentemente negli ambienti domestici per cucinare. Qui l'assenza di camini e il tipo di combustione generano un inquinamento atmosferico
Elsa è un dispositivo semplice che si adatta alle condizioni locali modificandole su ampia scala ta protetta dall'esterno attraverso una membrana cellulare. La cellula procariota invece è priva di nucleo e organuli (ad eccezione dei ribosomi, necessari alla sintesi delle proteine) e il DNA occupa liberamente una regione del citoplasma, senza essere delimitato da alcuna membrana. I dati raccolti dal biologo americano evidenziano che all'aumentare della temperatura la struttura delle specie si semplifica (Brock, 1985, p. 133). Sembra dunque che la fondamentale strategia di adattamento, che consente la sopravvivenza negli ambienti acquatici inospitali delle pozze
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ADATTAMENTO
molto pericoloso per la salute. L'OMS ha calcolato che il tempo medio di esposizione al fumo varia da 3 a 17 ore al giorno e che le persone più esposte sono donne e bambini (Starter, 2013, p. 18). La salute è dunque minacciata, oltre che dai raccolti scarsi e dall’estremizzarsi degli eventi climatici, anche dalle malattie respiratorie che essi sviluppano negli ambienti malsani, bui e fumosi, dove si svolge la cottura del cibo5. In alcuni di questi luoghi di margine, in Togo, Ghana, Sierra Leone, Etiopia, Burundi, Zimbabwe, i progetti europei Be.Bi e Biochar Plus hanno introdotto una strategia progettuale che lavora alla scala dell'oggetto per migliorare globalmente la sopravvivenza delle comunità di margine6.Si tratta di Elsa, una piccola stufa pirolitica a uso domestico, sviluppata da uno spin-off dell’Università di Udine. Realizzabile da chiunque tagliando dei fogli di lamiera sulla base di una sagoma, ha le forme semplici di un tubo dalla ghiera dentellata e un coperchio conico. Con pochi strumenti e scarsa esperienza di lavoro è possibile costruire una stufa completa in quindici minuti. Bruciando i residui agricoli e di altra biomassa presenti in loco attraverso la pirolisi, Elsa produce l’energia utile a cucinare senza deforestare ulteriormente il territorio. Gli scarti delle diverse colture possono essere così riutilizzati, rendendo la stufa un oggetto adattabile alle pratiche agricole e alle esigenze specifiche di ogni comunità. Dal momento che con la pirolisi a bruciare non è il legno o il carbone ma il gas rilasciato dalla rottura della biomassa determinata dal calore in un ambiente privo di ossigeno, la fiamma non emette fumi (anidride carbonica, particolato) nell’ambiente, migliorando la salubrità dell’aria. Inoltre il materiale di risulta (il biochar), è ricco di carbone vegetale: se utilizzato come additivo nel terreno, soprattutto in determinati suoli con alta acidità e meno strutturati, aumenta la loro capacità di trattenere i nutrienti e l’acqua e diminuisce i tempi di germinazione, prolungando così la stagione fertile e migliorando la resilienza ai fenomeni di siccità e agli eventi estremi. I campi
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03. EAHR, Infrastruttura scolastica a Zaatari, Giordania, 2016 – 2017. EAHR, Educational facility near Zaatari, Jordan, 2016 - 2017. Martina Rubino, archdaily.com
coltivati prendono dunque il posto dei suoli aridi, migliorando la sopravvivenza delle comunità locali (Starter, 2013). Come gli organismi termofili, anche Elsa è un dispositivo piccolo, semplice, che si adatta alle condizioni locali apportando delle modifiche apprezzabili a una scala molto più ampia, poiché riduce l'inquinamento ambientale dei villaggi, migliora i suoli e mitiga gli effetti del cambiamento climatico. Laddove il margine appare sterile, rigido e non modificabile, anche l’arte ha la capacità di progettarlo e renderlo abitabile, almeno temporaneamente, attraverso installazioni semplici che tuttavia mirano a generare nuove relazioni umane che combattono la marginalità sociale. È il caso del muro di circa 650 miglia che divide gli USA dal Messico e che ha dato forma e materia a circa un terzo del confine tra i due stati. Il Border Wall, conosciuto anche come the Barrier, the Great Wall of Mexico, the Border Fence, ha modificato i centri urbani e le aree naturali che attraversa, sovrapponendosi
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04. JR, Giants, Kikito and the Border patrol, Tecate, Border Mexico-USA, 2017. John Francis Peters / NYT via Redux
con indifferenza ai diversi tessuti ecologici, culturali, sociali. Trentasei leggi sono state derogate o sospese per facilitarne la costruzione, inclusi importanti provvedimenti per la tutela
Come strumento di protesta, in diverse località lungo il confine si sono manifestate opere e performance artistiche. Nella città messicana di Tecate l’artista francese JR ha installato, nel 2017 per un mese, una gigantografia in bianco e nero di un bambino, Kikito, rivolta verso la California. Poco lontano ha allestito un tavolo per circa cento persone, parte in Messico e parte negli USA, decorandone la superficie con l’immagine di due occhi umani. Per un giorno, tale la durata dell’installazione artistica, le persone dei due fronti si sono riunite attorno al tavolo a mangiare. Gli architetti Rael e San Fratello hanno progettato diversi interventi tipologici lungo il muro, per trasformarlo da un margine interdetto a un dispositivo di socialità per le comunità limitrofe. A Sunland Park, nel New Mexico, hanno realizzato tre altalene basculanti installate con il fulcro al centro del muro in modo da porsi esattamente per metà in
il muro da margine interdetto a dispositivo di socialità per le comunità limitrofe ambientale e la protezione del patrimonio storico dei nativi americani. La costruzione del muro, cominciata negli anni Novanta in Texas e Arizona, ha adottato tipologie costruttive variabili e sviluppate anche su più layers paralleli, in relazione alla topografia, al numero di attraversamenti, alla disponibilità di risorse militari. Profili metallici, cemento armato, filo spinato, binari ferroviari, rete metallica e altri ancora sono i materiali utilizzati per costruire la barriera, oltre a dispositivi tecnologici come sensori aerei o sotterranei, basati sul calore e il movimento.
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Messico e metà negli USA e consentire, almeno temporaneamente, ai bambini di giocare insieme. Il muro diventa così un “Teeter-Totter Wall”: favorisce le relazioni umane e, attraverso le leve che azionano le altalene, esprime simbolicamente la dipendenza reciproca tra l’economia degli USA e quella del Messico. Gli autori hanno concepito anche altri interventi partecipati e interattivi, come lo Xylophone Wall (una installazione sonora), il Burrito Wall (una cucina open-air con un bancone per cenare contemporaneamente sui due lati), il Library Wall (che trasforma il muro in un doppio scaffale promuovendo il dialogo e lo scambio culturale attraverso il confine). Inoltre con il Wildlife Wall essi propongono di articolare la barriera con aperture per il libero passaggio degli animali e sinuose passerelle dotate di punti di osservazione per le persone sui due lati (Rael, 2017). Elsa, Kikito e i progetti di Rael e San Fratello per il Border Wall, sono alcuni esempi di strategie di adattamento messe in pratica dell’essere umano per poter sopravvivere nei luoghi di margine resi inospitali da criticità ambientali o da politiche di emarginazione e controllo sociale. Tali interventi hanno la capacità di materializzare scelte progettuali semplici, espresse da gesti essenziali nella forma e nella struttura, che mirano a ristabilire un equilibrio tra l’uomo e questi luoghi marginali. L’equilibrio si esprime attraverso opere riconducibili alla piccola dimensione dell’oggetto ma che, tuttavia, consentono di interagire e di trasformare il paesaggio anche a scale che trascendono quella oggettuale: la scala del territorio (contesto fisico) o quella della comunità (contesto sociale). L’armonia con il proprio ambiente è dunque fondamentale anche per l’esistenza dell’uomo, così come avviene per le altre specie in natura (Latouche, 2012). Questo legame, specialmente nelle aree marginali, è espresso da progetti e interventi che si adattano al contesto e al tempo stesso lo trasformano, analogamente alle sfumature cromatiche degli organismi termofili nelle pozze geotermiche di Yellowstone.*
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05. ELSA stove - Be.Bi. project, EU-ACP Science and Technology Programme; design Università di Udine and Blucomb. Courtesy of Biochar plus informative brochure, p. 4 NOTE 1 – Nel vocabolario Treccani il termine “màrgine” è riconducibile a “la parte estrema ai due lati, o tutto intorno, di una superficie qualsiasi”; a “ciascuno dei quattro spazi bianchi che delimitano al suo contorno una pagina scritta o stampata”; al “limite, in una posizione di confine, in una situazione che non è più o non è ancora quella di riferimento”. 2 – Per adattamento si intende la capacità di un organismo, inteso non come singolo elemento bensì come sistema, di accordarsi alle condizioni che gli sono esterne al fine di garantire la sopravvivenza della specie (Olivier, 1977). 3 – La temperatura limite per la vita nell’acqua liquida non è ancora stata definita ma è probabilmente è compresa tra i 110° e i 200° C, perché temperature superiori distruggerebbero gli aminoacidi e i nucleotidi (Brock, 1985). 4 – Latouche riconosce diverse famiglie di limiti, o margini, geografici, territoriali, ecologici, economici, politici, culturali, morali, ecc. all’interno dei quali è inscritta la condizione umana (Latouche, 2012). 5 – L'inquinamento dell'aria indoor è la più importante causa di morte tra i bambini di età inferiore a 5 anni nei paesi in via di sviluppo, più di malaria, tubercolosi e AIDS (Starter s.r.l, 2013, p.18; disponibile su https://www.afro.who.int/health-topics/air-pollution). 6 – BeBi è un progetto di trasferimento tecnologico svolto tra il 2009 e il 2013 nell’ambito del ACP Science and Technology Program finanziato dalla Comunità Europea. Biochar Plus, suo naturale proseguimento dal 2014 al 2018, ha esteso la cooperazione scientifica a UNIDO, Unione Africana, al Centro di ricerca ECREEE della Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (Ecowas). I partner italiani sono Università di Udine e Starter. BIBLIOGRAFIA - Brock, T.D. (1978), “Thermophilic microorganisms and life at high temperatures”, SpringerVerlag, New York. - Brock, T.D. (1985), “Life at high temperatures”, in Science, 11 ottobre 1985, Vol. 230, Issue 4722, pp. 132-138. - FAO (2020), “Global Forest Resources Assessment 2020 – Key findings”, FAO, Rome. - Latouche, S. (2012), “Limite”, Bollati Boringhieri, Torino. - Olivier, G. (1977), “L’ecologia umana”, Garzanti, Milano. - Rael, R. (2017), “Borderwall as Architecture: A Manifesto for the U.S.-Mexico Boundary”, University of California Press. - Starter, (2013), “A story of cooperation with Western Africa on biochar technology transfer”, Starter, Udine. - Stillman, A.G. (2010), “Ansel Adams in the National Parks. Photographs from America’s wild places”, Little Brown and Company, New York-Boston-London.
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Irene Caputo Dottoranda di Ricerca presso Politecnico di Torino. irene.caputo@polito.it
Riprogettare i confini
01. Teeter Totter Wall. Design: Studio Rael San Fratello, 2019. Ronal Rael
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Gli strumenti del design come veicolo di messaggi di cambiamento Redesigning Borders Building border barriers forces people to change their daily lives, creating new needs for adaptation to the territory, to personal relationships and to cultural concepts. Citizens are therefore induced to ask what their role might be in promoting themselves as proponents of a pro-active and ethically crucial adaptation. This paper aims to reflect on how the typical design tools can bring a voice to these needs, through more symbolic and provocative languages or more pragmatic and functional approaches.* Erigere barriere costringe le popolazioni a modificare la propria quotidianità, crea nuove necessità di adattamento al territorio, ai rapporti personali e alle concezioni culturali. Ciò porta i cittadini stessi a domandarsi quale possa essere il proprio ruolo nel promuoversi artefici di un adattamento propositivo ed eticamente determinante. Il presente contributo si pone l’obiettivo di riflettere sul valore che gli strumenti tipici del design possano apportare nel dar voce a queste esigenze, attraverso linguaggi più simbolici e provocatori o approcci più pragmatici e funzionali.*
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il 1989: i Mauerspechte (letteralmente i “picchi del muro”) picconano concitatamente facendo cadere grandi lastre di cemento. Crolla così il Muro di Berlino1, scintilla che farà scaturire profonde riflessioni sul concetto di confine tra luoghi e identità culturali. Eppure, a trent’anni dalla caduta, il numero di muri eretti tra Stati o aree etnico-culturali è aumentato: fino agli anni ’90 se ne contavano una quindicina, ad oggi se ne annoverano più di 702 (img. 02). Senza addentrarsi in considerazioni storico-politiche, per leggere tale fenomeno ci si potrebbe soffermare sulle riflessioni che Karl Popper elabora dal Dopoguerra sulla differenza tra “società aperte” e “società chiuse” (Popper, 1945)3. Egli identifica come “aperte” quelle società contraddistinte da un diffuso concetto di tolleranza e spinta al cambiamento, permeate dalla volontà di potenziare le relazioni tra l’individuo e la collettività. Le “società chiuse” sarebbero invece caratterizzate dal tentativo di ostacolare i normali processi di cambiamento, dalla rigidità delle proprie tradizioni e da una sorta di passività collettiva. I muri eretti a delimitare confini sono l’oggettivazione di frontiere che circoscrivono la libertà di pensiero. L’espediente politico più utilizzato per giustificare i muri che oggi dividono i Paesi è la necessità del controllo dei flussi migratori, addossando allo “straniero” la responsabilità del declino sociale ed economico di un paese, velando così il malfunzionamento di uno stato sociale indebolito e i difetti strutturali della globalizzazione. Queste barriere non sono costruite per la sicurezza, ma per un senso di sicurezza. La distinzione è sostanziale, poiché sottolinea che ciò che soddisfa in primis l’innalzamento di un muro non è tanto un'esigenza materiale quanto mentale. Le barriere costringono le popolazioni a modificare la propria quotidianità e creano nuove necessità di adattamento al territorio, ai rapporti personali e alle concezioni culturali. Ciò porta i cittadini a domandarsi quale possa
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02. Sintesi grafica delle principali barriere divisorie tra Stati attualmente esistenti. Graphical summary of the main existing border barriers between States. Irene Caputo
essere il proprio ruolo nel promuoversi artefici di un adattamento propositivo ed eticamente determinante. Le riflessioni sui muri di confine e sui flussi migratori sono un fenomeno che da tempo influenza il dibattito sociopolitico internazionale. La disciplina del design può e deve interrogarsi sull’evoluzione della propria ricerca e dei propri strumenti, inserendosi attivamente in questi dibattiti contemporanei. Pur mantenendosi sempre all’interno del proprio raggio di intervento, essa può essere in grado di attivare processi operativi atti a sensibilizzare anche sulle conseguenze di azioni di natura politica. Vere e proprie azioni di critical design, concetto introdotto per la prima volta da Anthony Dunne nel suo libro Hertzian Tales del 1999 e che interpreta la disciplina del design come uno strumento per porre domande significative atte a far scaturire profonde riflessioni sulle possibili ricadute di scelte strategiche contemporanee (siano esse di natura tecnologica, economica o politica). Il critical design è un approccio speculativo, concettuale, provocatorio, che non porta sempre nell’immediato allo sviluppo di oggetti “utili”, quanto piuttosto a riflessioni la cui utilità è insita nella capacità di aiutare altri progettisti a prevenire e dirigere i risultati di sperimentazioni future. Produce un pensiero e una visione a lungo termine, proponendo soluzioni alternative che suggeriscono dei possibili cambiamenti e stimolano discussioni e dibattiti sulle future implicazioni sociali, culturali ed etiche delle decisioni che si prendono oggi. A titolo esemplificativo riportiamo di seguito alcuni interventi progettuali che propongono una lettura critica di tali processi: progetti nati con lo scopo di ridurre la diffidenza e di narrare con strumenti diversi il concetto e il valore della diversità culturale. Dal 2009 lo Studio Rael San Fratello (Oakland, California) utilizza come luogo di sperimentazione progettuale il muro tra Stati Uniti e Messico, il “muro di Tijuana”, da tempo tema di scottante attualità e divisione politica. Con il progetto Teeter Totter Wall (img. 01)
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a differenza dei confini terrestri, le frontiere marittime sono ancora poco delineate poiché particolarmente contese dato il loro obiettivo economico crescente in termini di trasporti e risorse disponibili ADATTAMENTO
03. Locandina del documentario Connected Walls di Sebastien Wielemans, 2014. Poster of the web-documentary Connected Walls by Sebastien Wielemans, 2014. Studio I-k-o
del 2019 hanno collocato a Sunland Park tre altalene saliscendi per consentire ai bambini separati dalla barriera di giocare insieme: questo spazio diventa così emblematicamente luogo di condivisione e riconnessione. Interessante è anche l’esperienza interattiva Connected Walls (img. 03), conclusasi nel 2014 con la realizzazione di un documentario curato da Sebastien Wielemans. Il progetto nasce per creare particolare consapevolezza riguardo le barriere presenti tra Stati Uniti e Messico, e tra Marocco e le città autonome spagnole di Ceuta e Melilla. Il documentario è composto da singoli video che trattano tematiche differenti: testimoni diretti narrano come azioni della loro vita quotidiana siano state influenzate dai rispettivi muri. Gli strumenti di partecipazione interattiva presenti sulla piattaforma web hanno permesso agli utenti di diventare
protagonisti attivi nella scelta dei temi elaborati dei realizzatori del documentario. Alla classica concezione dei muri intesi come barriere fisiche artificiali, dobbiamo aggiungere i “muri marittimi”, confini naturali con funzioni analoghe a quelle assunte dalle frontiere di terra. La loro definizione non è così immediata: a differenza dei confini terrestri, le frontiere marittime sono ancora poco delineate poiché particolar-
i muri creano nuove esigenze di adattamento al territorio, ai rapporti personali e alle concezioni culturali
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mente contese dato il loro obiettivo economico crescente in termini di trasporti e risorse disponibili (Tetrais, Papin, 2018)4.
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04. The everymigrant's guide to illegal border crossings. Design: Marta Monge, 2017. Enrica Maggiora
un ironico manuale raccoglie alcune testimonianze della forma più spontanea di progettazione e permette agli oggetti di tutti i giorni di raccontare storie di migrazioni, senza giudicare le ragioni della clandestinità
La provocatoria The everymigrant's guide to illegal border crossings (img. 04), realizzata nel 2017 dalla designer Marta Monge, si presenta come una “guida tascabile all'immigrazione clandestina”. L'opuscolo di “istruzioni” è una raccolta di strumenti autocostruiti e realmente utilizzati dai migranti che affrontano un lungo viaggio via mare, con dettagliate istruzioni per il montaggio e l'uso. Questo ironico manuale raccoglie alcune testimonianze della forma più spontanea di progettazione e permette agli oggetti di tutti i giorni di raccontare la storia di queste migrazioni, senza giudicare le ragioni della clandestinità. Molte altre sono le iniziative progettuali legate al superamento dei confini di mare, alcune delle quali narrate attraverso la piattaforma blog Design for Migration che raccoglie una piccola selezione di contributi italiani ed europei che affrontano i problemi delle migrazioni letti attraverso una prospettiva progettuale.
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05. Sintesi grafica di alcuni progetti inseriti in una scala di lettura tra simbolico e provocatorio. Graphic synthesis of some projects inserted in an analysis scale between symbolic and provocative. Irene Caputo
Tra queste troviamo, ad esempio, l’iniziativa Solo in cartolina, una campagna italiana di social design nata nel 2018. Una vera e propria “chiamata alle arti” online che denuncia le morti dei migranti nel Mar Mediterraneo, supportando le attività di sicurezza delle ONG. O ancora Safe Passage Bags, un progetto di upcycling del 2015 promosso dalla ONG greca “Lesvos Solidarity” e strutturato sotto forma di workshop. Il risultato di questo laboratorio è stata la realizzazione di borse prodotte dai rifugiati stessi e dalle persone che vivono a Mitilene (unità periferica di Lesbo), rispondendo così in un solo modo a due problemi di notevole importanza: fornire un’attività lavorativa ai rifugiati della ONG e risolvere l’impatto eco-ambientale dei salvagenti abbandonati. Le borse sono state infatti realizzate con i giubbotti di salvataggio lasciati sulle coste dell’isola greca di Lesbo (oltre 100.000 pezzi) e utilizzati dai rifugiati che hanno attraversato il Mar Egeo dalla Turchia. In questo modo ogni borsa porta con sé la storia di un viaggio forzato, simbolo di dolore e speranza: è un promemoria che cerca di raccontare come nessuno lasci la propria casa e nessuno metta in pericolo sé stesso e la propria famiglia, a meno che il mare non sia più sicuro della terra. Sono numerosi gli esempi progettuali che potrebbero essere ancora qui riportati (img. 05): gli strumenti tipici del design si prestano a dar voce a molteplici esigenze sociali, permettendo alle singole volontà espressive di unirsi e creare un’eco collettiva attraverso linguaggi più simbolici e provocatori o approcci più pragmatici e funzionali. Qualsiasi forma comunicativa adottata si pone comunque sempre nell’ottica di trasmettere un messaggio e sensibilizzare riguardo alle sfide del presente.*
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NOTE 1 – La caduta del muro fu motivata dall’apertura della frontiera fra Austria e Ungheria: il 9 novembre 1989 il governo della Repubblica Democratica Tedesca annullò il divieto di raggiungere la zona ovest della città. Il giorno seguente, si aprirono le prime brecce nel muro e iniziò la sua distruzione. 2 – Dati estrapolati da uno studio sviluppato da Élisabeth Vallet, Josselyn Guillarmou e Zoé Barry (“Raoul Dandurand Chair of Strategic and Diplomatic Studies”, University of Quebec at Montreal, 2015) e riportati in tre report speciali curati dal Washington Post nell’ottobre del 2016. 3 – Nello scritto “La società aperta e i suoi nemici”, del 1945, Karl Popper rielabora e approfondisce un concetto sviluppato nel 1932 dal filosofo francese Henry Bergson in “Le due fonti della morale e della religione”. 4 – Ad eccezione dell'alto mare libero, in quanto non suscettivo d'appropriazione da parte degli Stati singoli (l’espressione è sinonimo di “acque internazionali”). BIBLIOGRAFIA - Dunne, A. (1999), “Hertzian tales: electronic products, aesthetic experience and critical design”, The MIT Press, Cambridge (Massachusetts). - Dunne, A., Raby F. (2013), “Speculative Everything: Design, Fiction, and Social Dreaming”, The MIT Press, Cambridge (Massachusetts). - Ferrari, G. (2019), “I muri che ci separano. Da Berlino al Messico: quando le democrazie hanno paura”, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano). - Popper, K. R. (2018), “La società aperta e i suoi nemici”, Armando editore, Roma. - Rael, R. (2017), “Borderwall as Architecture. A Manifesto for the U.S.-Mexico Boundary”, University of California Press, Oakland (California). - Tetrais, B., Papin, D. (2018), “Atlante delle frontiere”, Add editore, Torino. - Vallet, E. (2014), “Borders, Fences and Walls. State of Insecurity?”, Routledge, University of Quebec at Montreal (Canada).
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Federico Alcaro Architetto, laureato all’Università Iuav di Venezia. alcarofederico@gmail.com
Domenico Patassini Urbanista. Insegna Cultura della valutazione all’Università Iuav di Venezia. domenico.patassini@iuav.it
Vivere senza margini
01. Calais, campo profughi nel 2016. Calais, refugee camp in 2016. Malachybrowne, Flickr
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Inerzie e transizioni nei campi profughi
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Live without Borders The contemporary world is affected by unprecedented mass migration. An important role is represented by the “transition settlements”, places of passage for moving populations often “designed” by institutions and actors of cooperation, but which host different forms of self-organization. Camps of refugees represent just one of the typologies of these settlements. They are only apparently disconnected places: it is the absence of margins and the apparent separation that create "spaces" and "places", which allow and guide adaptation, which give it a meaning.* Il mondo contemporaneo è interessato da migrazioni di massa senza precedenti. Un aspetto rilevante è costituito dagli “insediamenti di transizione”, luoghi di passaggio di popolazioni in movimento spesso “progettati” da istituzioni e attori di cooperazione, ma che ospitano diversificate forme di autoorganizzazione. I campi-profughi rappresentano una tipologia di questi insediamenti. Sono luoghi solo apparentemente sconnessi: sono l’assenza di margini e l’apparente separazione che creano “spazi” e “luoghi”, che consentono e orientano l’adattamento, che lo significano.*
rontiere Linee di fuga accompagnano la formazione e la conflittualità intrinseca degli insediamenti umani e, nella geografia delle frontiere, configurano itinerari assimilabili a spezzate aperte (A) o chiuse (C). Come confermano le migrazioni di lungo periodo, l’apertura e la chiusura sono da intendersi come gradienti di circolarità a raggio variabile piuttosto che direzioni. I nodi di queste spezzate sono ragioni e luoghi di contatto, di transito o di (ri)fondazione, di permanenza o di oblio, depositi di conflitti planetari. L’apertura indica uscite, abbandoni, movimenti senza ritorno, ritorni ritardati o indotti, “rimbalzi”. La chiusura allude invece a circolarità attribuibili a volontà, bisogni, urgenze o risorse, ma anche a resistenze, memorie, nostalgie o identità. Dietro questi “fenomeni” operano “politiche di evacuazione”, di sfollamento e di reinsediamento1, dovute a una pluralità di ragioni, spesso interdipendenti, ma che hanno in comune la frontierizzazione del pianeta2, il filtraggio del movimento. Queste politiche producono configurazioni diverse: riserve, zone di confinamento, campi profughi, ghetti, slum, bantustan (come in Sud Africa), campi di concentramento, nuovi villaggi e resettlement, zone speciali. Da queste si sviluppano, per sovrapposizione e condense, pezzi di città, come accade con i campi Saharawi in Marocco e in Algeria o con i campi palestinesi in Libano e Siria. La striscia di Gaza, ad esempio, è una manifestazione parossistica di queste configurazioni. Ma se queste, sorvegliate e spesso militarizzate, neutralizzano il movimento di milioni di persone non è affatto detto che le persone non contino, che non rientrino “nel computo della contabilità politica o del calcolo economico” (Mbembe, 2019). La loro emarginazione è un investimento politico e spesso una risorsa giocata quando serve nei “tavoli della menzogna”. Movimenti Il mondo contemporaneo è interessato da migrazioni di massa senza precedenti, di natura diversa dal passato, geograficamente connotate e con tendenza all’aumento.
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02. El Aayun, uno dei campi profughi Saharawi (Algeria) nel 2018. El Aayun, one of the Sahrawi refugee camps (Algeria) in 2018. Google Maps/Google Earth
Alla fine del 2018, 71 milioni di persone vengono definite “vittime dello sfollamento forzato a seguito di persecuzioni, conflitti, violenze o violazioni dei diritti umani” dall'UNHCR (UNHCR, report 2019). Di questi, tra i 20 e i 25 milioni sono definiti rifugiati, concentrati principalmente in Asia (oltre 8 milioni) e in Africa (più di 9 milioni) e dei 30 milioni che hanno varcato un confine, quattro su cinque si sono fermati nel paese accanto. Circa 3 milioni di rifugiati sono considerati “in procinto di rimpatrio”, presupposto di altre sofferenze. Si stima, infine, che più di 40 milioni di persone abbiano subito spostamenti forzati (IDP) nei propri paesi a causa di violenza interna e guerre3. L’Internal Displacement Monitoring Centre stima in 17,2 milioni le persone spinte alla migrazione interna per disastri ambientali nel 2019. Le cause sono dovute all’urbanizzazione fuori controllo di megalopoli, mega city e regioni densamente urbanizzate. Il fenomeno è concentrato per più del 70% in Asia sud-orientale e nella regione del Pacifico, e per il 16% in Africa.
Queste cifre sono approssimazioni spesso contestate. Esse escludono un numero considerevole di rifugiati non riconosciuti, e quindi considerati clandestini: rifugiati afgani, descritti come “invisibili” al momento dell'attacco americano in ottobre-novembre 2001; esiliati da paesi dell'Africa centrooccidentale o dal Medio Oriente che, considerati clandestini, vengono catturati, bloccati e respinti nel tentativo di attraversare i confini europei; rifugiati somali, eritrei, etiopi o ruandesi, descritti come “auto-stabiliti”. Alcuni preferiscono sfidare l'illegalità, entrando in reti solidaristiche che solo l’ignoranza o la semplificazione definiscono informali, piuttosto che essere rinchiusi nei campi. Altri vagano senza alcun riconoscimento ufficiale del loro status di rifugiato. Retorica I margini accolgono gli “insediamenti di transizione” (transition settlement), luoghi di passaggio di popolazioni in movimento. Si tratta di insediamenti generalmente progettati da
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03. La “terra sospesa” di Kakuma (Kenya) nel 2020. The “suspended land” of Kakuma (Kenya) in 2020. Google Maps/Google Earth
istituzioni e attori di cooperazione secondo logiche di emergenza, ma che ospitano diversificate forme di auto-organizzazione. In molti casi sono spontanei, ammessi in luoghi imposti o condivisi. I Campi-profughi (Cp) rappresentano una tipologia particolare di questi insediamenti, dove l’appartenenza culturale è garanzia provvisoria e condizione per ridefinire nella quotidianità equilibri, confini e gerarchie. Un Cp si forma per ragioni ambientali, climatiche o geo-politiche, per diseguaglianze insostenibili: nasce per l’azione asimmetrica di fattori di espulsione e di attrazione. A volte questi fattori sembrano alludere a presunti vuoti in realtà luoghi in cui la tensione è bassa e la terra riconosciuta come bene comune da tempi remoti. Ma appena organizzato, il campo crea proprie energie e capacità di sviluppo che vanno oltre le motivazioni all’origi-
ne. Il mondo post-urbano (o post-metropolitano), alla ricerca di nuove centralità “reticolari” e planetarie, tende a trasformare in “normalità” questi processi, generando nuovi profughi, mettendo alla prova la definizione della Convenzione di Ginevra, ma soprattutto le politiche di interazione culturale.
il mondo contemporaneo è interessato da migrazioni di massa senza precedenti, di natura diversa dal passato, geograficamente connotate e con tendenza all’aumento
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Il Cp può essere una aggregazione/densificazione difensiva spontanea che cerca o non cerca legittimazione, che non
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si fa omologare. Più frequentemente, può essere un tentativo di ridurre il movimento incontrollato (e vulnerabile) in cui aiuti umanitari si combinano a processi-limite: un evento emergenziale, utilizzato come dispositivo di protezione destinato a garantire la sicurezza fisica, alimentare e sanitaria di persone in difficoltà. Il contrario di “non-luogo”: neppure la “terra sospesa” di Kakuma lo è (Boano, Floris, 2005). I Cp non sono spazi isolati (lo conferma la loro “mappa planetaria”) e tantomeno nodi di una rete specializzata: sono, al contrario, “risposte”, parte di itinerari “forzati” che connettono diversità e, a loro modo, sfidano il “locale”, metabolizzandolo, divenendo “generatori”. Ne è un esempio il refugee complex di Dadaab in Kenya (trasformatosi da campo a complesso insediativo). Composto da quattro campi con oltre 210.000 persone, la maggior parte fuggite dalla guerra civile in Somalia, ospita anche profughi provenienti da Uganda, Sudan e Repubblica Democratica del Congo. Progettato per 90.000 abitanti, interagisce con l’intorno
autorità francesi veniva motivata da ragioni simili alle politiche di contrasto agli insediamenti illegali, alla loro “energia critica”. All’interno dei Cp si producono, infatti, energie peculiari che rispondono in modo adattativo alle improcrastinabili domande sociali, ma che costruiscono anche futuro. In questi luoghi di transizione, le persone in movimento cambiano le proprie condizioni di vita e di ciò che le circonda, modificando la transitorietà stessa. Le conseguenze di questi cambiamenti incidono profondamente sulle formazioni sociali e sulle forme insediative rendendo il campo un dispositivo per la transizione, dotato di autonomia e, per necessità, di permanenza. In sintesi, se i campi sono luoghi con apparenti confini, non sono confinati in mezzo al nulla: semmai occupano un luogo altro o di altri, apparentemente sconnessi e frammentati. L’assenza di margini e l’apparente separazione creano spazi e luoghi che consentono e orientano l’adattamento. Nati come soluzione temporanea, i campi profughi diventano veri e propri insediamenti in cui si attivano processi di densificazione, riempimento e formazione di tessuti insediativi, evidenziando l’importanza dei luoghi di transizione come sperimentazione: generatori di diritti, giustizia socio-spaziale e culture di governance.
i campi profughi diventano veri e propri insediamenti in cui si attivano processi di densificazione, riempimento e formazione di tessuti insediativi alimentando l’economia informale e, a detta del governo keniano, la criminalità e il terrorismo islamico. Per queste ragioni all’inizio del 2019 ne è stata proposta la chiusura con rimpatrio di tutti i rifugiati somali. Per qualche tempo, un altro esempio è stata la “giungla” di Calais sulla Manica, base di partenza per i migranti verso la Gran Bretagna. Il campo, sviluppatosi spontaneamente, raggiunse i 10.000 abitanti con servizi sociali e di culto e una certa autonomia organizzativa. La sua distruzione da parte delle
Localizzazione, ciclo di vita e forma I Cp possono essere nodi di spezzate aperte (A) o chiuse (C) a seconda delle condizioni ambientali locali e geopolitiche. Nel primo caso accompagnano l’uscita o l’abbandono di luoghi negati, invivibili, sotto stress o minaccia e, nelle difficoltà o nell’ impossibilità del ritorno, si affidano a distanze maggiori, vanno oltre soglie di non ritorno. Nel secondo garantiscono una distanza e un tempo di sicurezza (oltre una soglia), spezzando solo in parte i legami con i luoghi e le ragioni della fuga. Nel primo caso la disponibilità all’oblio e all’inedito, al nuovo, è molto elevata, vi sono meno inerzie. Queste emergeranno eventualmente più tardi con
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04. Il complesso dei campi profughi di Dadaab in Kenya nel 2020. The refugee complex of Dadaab in Kenya in 2020. Google Maps/Google Earth
l’affiorare di memoria e nostalgia, spesso con richieste di aiuto o in circuiti solidaristici. Ciò può connotare atti di fondazione e di permanenza, così come specifiche modalità di transito. Nel secondo caso, anche per ragioni di distanza spazio-temporale e per prossimità di soglia, le inerzie sono maggiori e minore è la disponibilità all’oblio e all’inedito. Il nuovo è temporaneo e più forti sono le resistenze. Per genesi, i Cp possono appartenere a uno dei due profili A e C, e transitare dall’uno all’altro. Vengono così meglio caratterizzati (e compresi) localizzazione, ciclo di vita e forma. La localizzazione ha ragioni contingenti: può essere strategica o tattica, urbana, periurbana, extra-urbana, rurale, isolata, confinata o, letteralmente, “sul confine”, un’ipotesi di sua negazione. Se aiuta a identificare un’appartenenza fisica, geografica, ambientale, rinvia necessariamente a una rete within o trans-boundary. Se la prima appartenenza evidenzia condizioni più o meno favorevoli dal punto di vista degli ecosistemi naturali, la seconda indica livelli di emarginazione
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o inclusione sia in rete within che trans-boundary. In ogni caso, si tratta di condizioni fondative e vitali per l’insediamento, con effetti diffusivi in A e di densificazione in C. Un secondo connotato è il ciclo di vita del Cp che può assumere configurazioni lineari, irregolari, cicliche, catastrofiche o di altro genere al variare di fattori interni ed esterni. Lineare o ciclico può apparire il ciclo di vita di un Cp nato da una emergenza “controllata” o ripetuta, da politiche deliberate di punizione collettiva o di razzismo istituzionale, mentre la più frequente irregolarità deriva da improvvisi turbamenti interni o da stress esogeni. La configurazione ciclica è propria di C, mentre le altre tendono a manifestarsi in A. Localizzazione e ciclo di vita sono connessi, si condizionano l’un l’altra, possono spiegare le ragioni della trasformazione o della stabilizzazione, della transitorietà o della dissoluzione. Il tessuto insediativo di Cp (la sua matrice) muta con la localizzazione e con il ciclo di vita: può svilupparsi da uno o più generatori, simultanei o in sequenza, in grado di formare clu-
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05. Calais, mappa delle etnie nel campo profughi nel 2016. Calais, refugee camp ethnic map in 2016. Malachybrowne, Flickr
ster contigui per aggiunte “ancorate” a nodi o centri provvisori; ma può anche svilupparsi per partizioni incrementali, in modo paratattico, oppure per impianto su base gerarchica. Localizzazione, ciclo di vita e forma connotano le spezzate, i loro gradienti di chiusura e apertura, così come i rapporti fra fissità e movimento, fra visibilità e invisibilità attorno a pianificati hotspot. Campo L’oggetto Cp e la sua descrizione potrebbero rendere superfluo il riferimento al concetto di “campo”. In realtà, lo qualificano valorizzando la nozione critica introdotta da Bourdieu che definisce il campo come un “sistema di linee di forza” (Bourdieu, 1971): artistiche, religiose, sportive, linguistiche e così via, in condizioni di maggiore o minore libertà. Le linee di forza configurano ragioni di scambio fra posizioni e ruoli in strutture di potere definite (Bourdieu, 1992) ma non necessariamente intenzionali, definendo uno spazio di vita.
Il problema è tracciare queste forze, mapparle, scoprire dove vanno e da dove vengono, per quali ragioni, dove si intersecano. Queste dinamiche possono essere alimentate dall’esterno, acquisendo inerzia interna (autonomia) che accoglie e modifica gli ingressi per uscite anche irregolari. Ma l’inerzia potrebbe ridursi. Chi attraversa il campo non è più lo stesso e la differenza è attribuibile alle ragioni di attraversamento, ma soprattutto ai contatti che connotano i percorsi del movimento. Come abbiamo visto, i Cp sono insediamenti in formazione che mantengono caratteri di provvisorietà o che, in alcune permanenze, trovano ragioni per diventare centri urbani o vere e proprie città. Non sono mai “non-luoghi”: anzi, ne delegittimano il senso. Alcuni campi si riproducono nella transizione, si mantengono provvisori con dotazioni necessarie per la vivibilità di chi c’è, fluttuano per composizione sociale, regole e forme. Altri costruiscono una propria base inerziale, stabile, che resta e alimenta la provvisorietà,
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sono nodi di rotte, di reti migratorie, luoghi negoziali appartenenti a discorsi geopolitici che pongono, oltre al diritto all’insediamento, il diritto globale alla mobilità
la transitorietà e il transito. In entrambi i casi si formano inediti diritti (e doveri) all’insediamento, una particolare declinazione del “diritto alla città” a la Lefebvre (Lefebvre, 1968). Nei Cp operano spesso strutture di potere imposte dall’esterno, ma, come nelle istituzioni totali o nei contesti informali, si possono sviluppare strutture di potere e di controllo interne. Esse generano forme di privatizzazione dello spazio pubblico, contrapponendosi alle dinamiche di progettazione e costruzione di “spazi comuni”. Contrarie all’omologazione, queste ultime consentono di sperimentare forme organizzative e di vita alternative. Qui si formano peculiari diritti all’abitare, all’interazione sociale, al movimento. Diritti provvisori per localizzazione, ciclo di vita e forma dei Cp, per loro appartenenza ad A o a C. Il concetto di campo apre allo stesso concetto di posturbano. Così, i Cp possono essere “margini”, ma più spesso sono “isole”, “confinamenti” quasi mai isolati: sono nodi di rotte, di reti migratorie, luoghi negoziali appartenenti a discorsi geopolitici che pongono, oltre al diritto all’insediamento, il “diritto globale alla mobilità”, con le loro genesi. Così si distinguono dalle periferie urbane, da favelas o slum, dagli insediamenti informali. In queste situazioni di transito e di passaggio, o di nuova stabilità, si manifestano dinamiche che portano alla produzione di figure quali l’escluso, lo straniero (Agier, 2015). Dipende dai luoghi: la stabilità può diventare fondazione oppure affronto, e in questo caso viene distrutta come avvenuto con la “giungla” di Calais. Implicazioni Le ragioni, la numerosità e la vitalità dei Cp nel mondo contemporaneo invitano a uno sguardo meno emergenziale, a uno sguardo planetario. Si tratta di un “sistema parallelo” (anche se integrato) di insediamenti dotati di statuto proprio, in cui transizione e permanenza si alimentano a vicenda: insediamenti che dilatano (e annullano) i confini fra stati e regioni, propongono nuovi margini e marginalità, ridefinendone i significati. Sono anche ombre inquietanti dei lager del XXI secolo e delle
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politiche di esternalizzazione delle frontiere (Perocco, 2019). Pur essendo frequentati da popolazioni-campione “costrette”, ci ricordano che viviamo in un continuo stato di transizione tra confini e margini, il cui attraversamento è problematico: non appena ci muoviamo, i confini e i margini cambiano, alcuni scompaiono, altri si generano; si offrono come opportunità e rituale rapporto con l’altro. Secondo il “paradigma biopolitico della società del presente” (Agamben, 1990), i campi diventano “uniche opzioni possibili” in un'epoca post-politica del controllo. Diventano icone del potere, del suo esercizio nel mondo. Da misura provvisoria, lo stato d’eccezione diventa normalità, bio-politica che giustifica qualsiasi violenza sulla nuda vita, che “scarica” in paesaggi densi e mutevoli ragioni ed esiti di conflitti. Qui non abitano “masse in eccesso”, ma popolazioni-test, e le transitorietà (a dispetto di Bauman) sono solo apparentemente congelate. Così, la distinzione fra mobilità e sedentarietà tende a dissolversi.* NOTE 1 - Su dinamiche ed effetti delle politiche di sfollamento e reinsediamento si veda il lavoro di Cernea M., “Resettlement and Development. The Bankwide Review of Projects Involving Involuntary Resettlement 1986-1993”, The World Bank, Environment Department, Aprile 1994. 2 - Intervista a Mbembe A., di Mascat J., “Frontiere e politiche dell’inimicizia”, il Manifesto, 3/12/2019. 3 - Si veda anche IEG, 2019, “World Bank Group Support in Situations Involving ConflictInduced Displacement”. A differenza di approcci contigui all'ecologia sociale, IEG adotta approcci valutativi orientati alla ‘teoria del cambiamento’ in un’ottica ibrida di sviluppo e di aiuto umanitario. BIBLIOGRAFIA - Agamben, G. (1990), “La comunità che viene”, Bollati Borighieri, Torino. - Agier, M. (2015), “Anthropologie de la ville”, Puf, Parigi. - Boano, C., Floris, F. (2005), “Città nude. Iconografia dei campi profughi”, FrancoAngeli, Milano. - Bourdieu, P., “Intellectual field and creative project”, Collier McMillan, London, pp. 161-188. - Bourdieu, P. (1992), “Les règles de l’art: gènese et structure du champ literaire”, Éditions du Seuil, Parigi. - Lefebvre, H. (1968), “Le droit à la ville”, Éditions Anthropos, Parigi. - Mbembe, A. (2019), “Necropolitics (Theory in Forms)”, Duke University Press Books, Durham. - Perocco, F. (2019), “Tortura e migrazioni”, Edizioni Cà Foscari, Venezia. - UNHCR (2019), “Global Report 2019”, New York.
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Elena Cirnigliaro Ingegnere edile, laureata in Ingegneria edile – Architettura presso l’Università degli Studi di Catania. cirnigliaroelena@gmail.com
Gli attivatori urbani
01. Urban vision: tre uomini osservano lo “spettacolo urbano” di piazza Duomo, Catania. Urban vision: three men observing the daily “urban show” in piazza Duomo, Catania. Elena Cirnigliaro
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Nuove forme di progettualità degli spazi pubblici Urban Activators This work aims to analyze how to meet the new needs of citizens born in the digital age. It combines theoretical studies and field observations. What emerges is the necessity to rediscover an ancient principle: man is the protagonist of cities, playing both a passive and active role. What follows is an innovative proposal on the transformation of public spaces, which does not consist of a permanent readyto-use design. Instead, this new strategy considers the potential of adaptable elements, apparently unnecessary compared to what is needed, but able to reawaken citizen participation.* Questo studio si interroga su quali strategie progettuali possano soddisfare i nuovi bisogni dei cittadini, figli dell’era digitale. Da studi teorici e osservazioni sul campo, emerge l’esigenza di ristabilire l’uomo come protagonista della realtà urbana, non solo nel suo ruolo passivo, ma anche in quello attivo. Si individua una nuova strategia di trasformazione degli spazi pubblici, che non prevede progetti definitivi e pronti all’uso. Piuttosto, essa considera le potenzialità di elementi adattabili e apparentemente superflui, ma capaci di risvegliare gli istinti partecipativi della comunità.*
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econdo il dossier dell’ONU World Urbanization Prospects 2018, più di metà della popolazione mondiale risiede in aree urbane. Per questo motivo, si può affermare che, per migliorare la qualità di vita dell’uomo, è necessario interrogarsi sui suoi bisogni in quanto cittadino e su quali siano le migliori strategie per soddisfarli. Chiaramente, in questa ricerca di interesse globale, è fondamentale il contributo proveniente dal campo urbanistico. Tempo di cambiamenti Questo studio si inserisce in un quadro piuttosto complesso. Infatti, la più importante rivoluzione del nostro tempo – la “digitalizzazione” – sembra aver generato un uomo con desideri inediti e in continuo mutamento. Abituato a una nuova realtà virtuale, caratterizzata dal continuo flusso di informazioni, dall’infinità dei dati e delle possibilità, egli rifugge l’ordine urbano consolidato, ormai estraneo alla dinamicità spazio-temporale della sua epoca. Un esempio di questa silenziosa contestazione si ritrova nell’attività del parkour, che traccia nello spazio pubblico traiettorie libere, diverse da quelle previste (Purini, 2007). Con l’obiettivo di soddisfare queste nuove necessità, finora le teorie progettuali hanno seguito due direzioni principali. Da un lato, diversi studiosi hanno suggerito di porre al centro dell’attenzione il cittadino, di riscoprire la “dimensione umana” degli spazi pubblici, cioè osservarli e progettarli alla piccola scala, dal punto di vista dell’uomo che cammina, e non dall’alto come un aviatore (Jacobs, 1969; Gehl, 2010). L’altro importante indirizzo riguarda gli approcci progettuali partecipativi. Nati nel secolo scorso, oggi trovano la massima espressione nel Tactical urbanism: sotto tale nome si inquadrano l’hacktivism, l’agopuntura urbana, il movimento DIY, l’urbanismo opensource e altri interventi che mirano a migliorare la qualità di vita urbana con l’aiuto dei cittadini, in modo rapido, temporaneo, economico, informale e a volte anti-autoritario (De Carlo,
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2005; Courage, 2013). Le due teorie si conciliano nella proposta di Carlo Ratti di adottare un sistema ibrido, la sintesi di processi top-down e bottom-up, che possa coniugare il progettare “per” e “con” la gente (Ratti, 2017). La ricerca di nuove risposte Purtroppo, al di là delle teorie, permangono ancora dei limiti. Da una parte, il continuo mutare dei bisogni rende necessario non solo concentrarsi sul punto di vista umano ma anche sul suo sviluppo nel tempo. Dall’altra, spesso, almeno nella pratica, la partecipazione dei cittadini è un fenomeno assente o ristretto a una nicchia di persone accorte; inoltre, finisce di esistere nel momento in cui il progetto diventa realtà fisica. Partendo dalle problematiche esaminate, l’obiettivo di questo contributo è quello di individuare una nuova strategia progettuale degli spazi pubblici, che miri all’appagamento dei cittadini attraverso il loro coinvolgimento attivo, diffuso e continuativo nell’organizzazione degli spazi aperti della città. Si tenga a mente, però, che l’indagine riguarda tessuti già urbanizzati e si concentra solo sull’aspetto architettonico, sociologico e urbanistico del tema. L’approccio conoscitivo di questa analisi è stato sia teorico che pratico. A un’indagine approfondita e multidisciplinare dal punto di vista letterario è seguita l’analisi di interessanti metodi progettuali, con esiti più o meno positivi sulla trasformazione dello spazio pubblico. Infine, l’osservazione diretta di singoli fenomeni urbani – avvenuta attraversando la città a piedi – ha permesso di fare chiarezza sulle reali possibilità di partecipazione dei cittadini. Pertanto, il metodo scientifico adottato è stato sia deduttivo che induttivo, attraverso modalità che rifuggono la generalizzazione di fatti puntuali ma considerano la dimensione umana. Infine, il momento più importante della ricerca è stato quello di sintesi e messa a sistema di tutte le informazioni ricavate.
Aperture, frammenti, azioni Quali metodi progettuali hanno le potenzialità per stimolare le azioni dell’uomo e renderle in grado di trasformare gli spazi pubblici esistenti? Il primo approccio analizzato riguarda l’architettura “aperta esplicita”, cioè quella che, per la stessa volontà dell’artista, viene portata a termine dall’utente, nel momento in cui la fruisce (Eco, 1997, p. 36). Ne è un esempio il metodo della costruzione aperta del gruppo Elemental: abitazioni a metà, che per scarsità di risorse potranno essere completate col tempo e autonomamente, un sistema capace di crescere secondo il principio dell’incrementalità (Raggi, 2018). L’opinione di questo studio è che tale concetto possa estendersi al progetto dello spazio pubblico urbano, facendo sì che esso venga portato a termine dallo stesso fruitore. In tale circostanza, è auspicabile anche la possibilità di riduzione del sistema, cioè degli interventi reversibili. Il secondo approccio analizzato riguarda l’architettura dei frammenti, che trova massimo riscontro nella tecnica dell’agopuntura urbana. Teorizzata e applicata da vari esperti, tra cui Casagrande Laboratory, essa prevede piccoli interventi ma con un grande impatto, da collocare opportunamente sul tessuto urbano esistente (Lerner, 2011; Lambertini, 2011). Il principale vantaggio dei sistemi di frammenti è che essi possono coniugare la piccola e la grande scala: diffusi su tutta la città, possono trasformarla, senza però perdere la necessaria attenzione alla dimensione umana (img. 02). Contemporaneamente, dall’osservazione diretta di singoli fenomeni urbani è emerso un fattore positivo: l’azione del cittadino è un fenomeno in atto. Un uomo si appoggia allo schienale di una panchina fissa perché è lì che arriva l’ombra in quel momento; una piazza rimane deserta mentre un anziano siede scomodamente vicino al semaforo. Queste sono azioni, feedback della popolazione (img. 01). D’altronde, una reazione allo spazio è inevitabile, è un
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02. Stair Squares: intervento di agopuntura urbana di Mark Reigelman. Brooklyn Borough Hall, New York. Stair Squares: urban acupuncture by Mark Reigelman. Brooklyn Borough Hall, New York. Mark Reigelman
istinto primordiale; ciò che alimenta l’idea di un cittadino inattivo è il fatto che spesso questi gesti siano compiuti inconsapevolmente. Eppure, basta guardarsi intorno con più attenzione per notare anche azioni consapevoli: il parabrezza di uno scooter usato come sistema di ombreggiamento di un’edicola votiva, un cestino dei rifiuti urbani trasformato in sottovaso. Piccole azioni che potrebbero essere grandi se la staticità degli spazi pubblici non le ostacolasse. La miccia inestinguibile Affinché il cittadino sia stimolato ad agire, ad adattare gli spazi comuni ai propri bisogni, è necessario progettare luoghi che non si limitino a permettere l’azione ma che siano essi stessi un impulso per l’uomo, una miccia inestinguibile che susciti istinti partecipativi. Proprio per la loro funzione, definiamo questo tipo di opere “attivatori urbani”: attivatori di idee, di coscienze, di azioni. La strategia proposta è una forma di progettualità ibrida, così come intesa da Ratti, poiché presenta processi top-down – l’ideazione degli attivatori urbani, ad opera del progettista – che implicheranno inevitabilmente sviluppi bottom-up – le conseguenze degli attivatori urbani, ad opera dei cittadini. Si enunciano i principi alla base di questo nuovo metodo progettuale; essi potrebbero tradursi in interventi dalle più disparate e valide alternative fisiche. Tuttavia, al fine della migliore comprensione di tali concetti, si illustrerà anche l’interpretazione dell’autore sulla materializzazione degli attivatori urbani. Essi sono diversi elementi, puntuali, che possono essere sommati in modo diffuso al tessuto esistente, per garantire un impatto esteso sul territorio. Ogni attivatore è legato agli altri dalla stessa configurazione di partenza e soprattutto da un unico obiettivo; pertanto, è una parte di un
sistema. A sua volta, ciascuno di essi è un’unità composta da diversi frammenti: anche un bambino deve poter agire fisicamente sul loro componente più piccolo, poter influire sulla trasformazione della città. È necessario che all’interno dell’attivatore siano presenti anche degli elementi convenzionali (una seduta, ad esempio), che possano identificarlo chiaramente come uno spazio pubblico, distinguendolo da una bizzarra opera d’arte. Ciò è fondamentale affinché il cittadino ne fruisca attivamente. La loro rivoluzione consiste nell’essere un sistema aperto, sviluppabile secondo il principio di incrementalità, come le abitazioni di Aravena. Ciò significa che essi si prestano all’integrazione. Tuttavia, più in linea con la definizione di Eco, sono anche elementi temporanei, flessibili, reversibili: la comunità potrebbe decidere di spostarli così come di eliminarli e sostituirli con qualcos’altro. L’azione del cittadino è garantita dal fatto che gli attivatori urbani nascono volutamente per risaltare come un contenitore, una “cornice”, che vuole essere completata con un contenuto, i “quadri” della comunità. Per fare ciò, gli elementi che compongono l’attivatore devono giocare con gli istinti più naturali del cittadino. Si è rilevato, a tal proposito, che spesso, negli spazi pubblici, le azioni integrative dell’uomo si manifestano attraverso meccanismi di
gli attivatori urbani nascono volutamente per risaltare come una cornice che vuole essere completata con un contenuto, i quadri della comunità
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appoggio o sospensione di oggetti. Quindi, simbolicamente, gli attivatori urbani dovrebbero emergere come un sistema di ganci e piani d’appoggio. Per il resto, la loro manifestazione fisica è lasciata al libero arbitrio del cittadino. A conferma di tali principi, si notino le seguenti carat-
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03. Interpretazione dell’autore sui principi dell’attivatore urbano. Pianta, assonometria e flessibilità. Author’s interpretation on the principles of urban activators. Plan, axonometric projection and flexibility. Elena Cirnigliaro
teristiche emergenti dal progetto dell’autore (img. 03): pur identificabile come uno spazio pubblico, l’attivatore urbano, nella sua configurazione iniziale, appare come uno spazio da completare, da risolvere; esso è composto da frammenti, elementi leggeri, facili da ruotare, spostare, comporre, sti-
nibili presentano dei ganci, delle insenature o degli sbalzi di appoggio, stimolando l’integrazione. Possiamo dire che, in sé, questo sistema manca dello stretto necessario per soddisfare in modo diretto i bisogni dei cittadini nello spazio pubblico: esso non crea zone d’ombra, non prevede la presenza del verde, di fontane o di un riparo dalla pioggia. Tuttavia, ha la capacità di raggiungere tale scopo in maniera indiretta, poiché può essere trasformato e ritrasformato in tutte queste cose dai diretti interessati, al cambiare del luogo, del tempo e dei bisogni dell’uomo. Le configurazioni che l’attivatore urbano può assumere in base a queste variabili possono e devono essere le più disparate. Quelle ipotizzate dall’autore (img. 04, 05), relativamente alla sua proposta, hanno un puro scopo esplicativo. Sarebbe quantomeno inopportuno pensare di poter
l'appagamento dei cittadini attraverso il loro coinvolgimento attivo, diffuso e continuativo nell’organizzazione degli spazi aperti della città pare, eliminare; i componenti più piccoli hanno dimensioni sempre inferiori ai venti, trenta centimetri, per essere manovrabili anche da un bambino; quasi tutti i moduli compo-
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prevedere i possibili risultati della partecipazione continuativa dei cittadini: essi sono infiniti (img. 06). Rispetto a molte altre strategie di rigenerazione degli spazi pubblici, quella proposta in questo studio prevede interventi rapidi ed economici, nonché reversibili. Inoltre, è possibile immaginare che, una volta avviato questo tipo di processo su dei nuovi elementi della realtà urbana, esso possa stimolare l’azione della comunità anche su ciò che lo circonda, con beneficio degli spazi pubblici preesistenti, altrimenti condannati alla staticità. In conclusione, gli attivatori urbani sono, in ogni loro parte, il contenitore di sé stessi e di ciò che l’uomo desidera aggiungervi, modificare, eliminare nel tempo. Essi non contengono nulla, se non lo spazio adattabile del loro margine. Per questo, qualcuno potrebbe ritenerli superflui. Invece, l’opinione di tale contributo è che, proprio per questa loro caratteristica, tali elementi possano diventare il fulcro della partecipazione all’interno di tessuti saturi di forme e contenuti imposti. In breve, strategie generatrici di azione urbana.* BIBLIOGRAFIA - Courage, C. (2013), “The Global Phenomenon of Tactical Urbanism as an Indicator of New Forms of Citizenship”, in “Engage Journal”, n. 32, pp. 88-97. - De Carlo, G. (2005), “Architecture’s Public”, in Blundell Jones, P., Petrescu, D., Till, J. (a cura di), “Architecture and participation”, Spon Press, London, pp. 3-22. - Eco, U. (1997), “Opera aperta. Forma e indeterminazione nelle poetiche contemporanee”, Bompiani, Milano. - Gehl, J. (2010), “Cities for people”, Island Press, Washington D.C.. - Jacobs, J. (1969), “Vita e morte delle grandi città. Saggio sulle metropoli americane”, Einaudi, Torino. - Lambertini, A. (2011), “Agopuntura urbana”, in Corrado, M., Lambertini, A. (a cura di), “Atlante delle nature urbane. Centouno voci per i paesaggi quotidiani”, Editrice Compositori, Bologna, pp. 30-32. - Lerner, J. (2011), “Acupuntura urbana”, Editora Record, Rio de Janeiro. - Purini, F. (2007), “Spazio pubblico”, in “Enciclopedia Italiana di scienze, lettere ed arti, Appendice VII”, Istituto della Enciclopedia italiana, Roma. - Raggi, F. (2018), “La pratica come teoria”, in “Domus”, n. 1028, pp. 38-41. - Ratti, C. (2017), “La città di domani. Come le reti stanno cambiando il futuro urbano”, Einaudi, Torino. 04-05. Flessibilità degli attivatori urbani nel tempo. Flexibility of urban activators over time. Elena Cirnigliaro 06. Flessibilità degli attivatori urbani nel tempo. Opzioni infinite. Flexibility of urban activators over time. Endless options Elena Cirnigliaro
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Alessandra Carlini Architetto, PhD Università degli Studi Roma Tre, Dipartimento di Architettura. alessandra.carlini@uniroma3.it
Percorrere un’area archeologica
01. Domus dell’Ortaglia a Brescia. Xiquinhosilva, Flickr
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Dall’accessibilità all’inclusività per la costruzione di paesaggi della memoria Going through an Archaeological Site Adaptation as the ability to re-establish the relationships between things, interpreting two possible spatial and cognitive relationships that the architectural project can establish with historical contexts: working as to bring out the reuins as an homogeneous system; working to complete the fragment. Twenty years after the first experiments on accessibility in the archaeological site, the paper offers a reflection on the experience gained, focusing on case studies that can re-read functional data within a strategy of fruition and perception of the site.* Adattamento come capacità di ristabilire relazioni tra le cose, interpretando due possibili relazioni, spaziali e cognitive, che il progetto di architettura può instaurare con contesti storici e stratificati: lavorando in modo da far emergere i resti come un sistema omogeneo; lavorando sul completamento del frammento. A vent’anni dalle prime sperimentazioni sull’accessibilità in area archeologica, il saggio propone una riflessione sull’esperienza maturata, soffermandosi sui casi studio in grado di rileggere il dato funzionale all’interno di una strategia di fruizione e percezione del sito.*
l rapporto tra architettura e archeologia impone alla città un continuo processo di adattamento. La città modifica il suo assetto quando lo scavo stratigrafico riporta alla luce un sito alterando equilibri, proporzioni e continuità fisiche. L’archeologia, una volta aperta alla fruizione, incontra lo spazio pubblico e con esso tutto il portato di valori della contemporaneità: patrimonio culturale ed esigenze di accessibilità e inclusione si intrecciano con i temi architettonici legati al senso del luogo. Pierre Nora per primo definisce un “luogo della memoria” come “una unità significativa […] che la volontà degli uomini o il lavoro del tempo ha reso un elemento simbolico di una qualche comunità […]. [Un luogo della memoria] rende visibile ciò che non lo è” (Nora, 1992, p. 20). Tuttavia, affinché la memoria sedimentata resti viva e vitale, è necessario un progetto di fruizione in grado di guidare l’osservazione delle cose mettendo in relazione più scale spaziali; un progetto capace di indurre un’operazione di disvelamento che si compia percorrendo l’area archeologica. A partire dal dibattito degli anni Novanta del Novecento (Augé, 2004; Manieri Elia, 1998; Ricci, 1996) ormai si riconosce, in ambito scientifico, il valore della fruizione come forma di tutela e consolidamento della memoria di un luogo. Allo stesso tempo è ormai decaduta l’illusorietà dell’intervento mimetico sostenendo piuttosto la necessità di governare il cambiamento, di adeguarsi, di gestire il modificarsi delle condizioni imponendo la qualità del progetto di architettura (Carbonara, 1976; Manacorda et al., 2009; Vescovo, 1997; Baracco e Caprara, 2012). A circa vent’anni dalle prime sperimentazioni su parterre archeologici, il saggio propone una riflessione sull’esperienza architettonica maturata, soffermandosi sui casi studio in grado di rileggere il dato funzionale del Design for all1 all’interno di una strategia di fruizione e percezione del sito. Fruizione, accessibilità e comunicazione: la reintegrazione del frammento Il superamento delle barriere architettoniche è ormai al centro di ogni intervento di fruizione, ma non sempre i di-
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spositivi realizzati, pur rispettando le prescrizioni normative e il criterio di reversibilità, riescono a risolvere l’accessibilità in termini di inclusione. In contesti storici e stratificati la discontinuità fisica, la fragilità dei parterre e la consistenza materiale dei resti, presentano la materia storica nella forma del frammento isolato imponendo la necessità di un progetto di architettura in grado di rileggere le parti all’interno di una scala più ampia di relazioni per favorire la capacità di comunicazione del sito. La distanza tra accessibilità e inclusione si misura, in questi casi, sulla capacità di risolvere i temi funzionali nell’ottica della reintegrazione del frammento. L’architettura può instaurare, in questo senso, due possibili relazioni con l’archeologia; relazioni efficacemente sintetizzate dall’immagine della reintegrazione pittorica attraverso l’applicazione del rigatino2 (img. 02), lavorando in modo da far emergere i resti come un sistema omogeneo, oppure lavorando in modo che preesistenze e nuovo intervento possano integrarsi andando a costituire, insieme, un nuovo sistema omogeneo. Due casi studio testimoniano come questi approcci abbiano prodotto cultura architettonica dimostrando la propria efficacia nel tempo, al punto da essere, ancora oggi, un riferimento stabile nella letteratura di settore.
02. Applicazione del rigatino nel restauro pittorico: in alto, i resti emergono come sistema omogeneo; in basso, si propone il completamento del frammento. Application of the “rigatino” in pictorial restoration: above, the remains emerge as a homogeneous system; below, the completion of the fragment is proposed. Carlini, 2009
che recupera l’assetto distributivo originario delle Domus con un nuovo sistema di dispositivi che si sovrappone alle preesistenze facendo emergere il parterre archeologico per contrasto3. La fruizione viene assicurata da un sistema di passerelle che si muove parallelamente al piano del parterre archeologico, risolvendo organicamente, secondo l’approccio Design for all, i problemi di tutela legati alla calpestabilità dei pavimenti musivi, di accessibilità legati alla discontinuità del suolo e di comunicazione legati alla musealizzazione in situ (img. 01). L’ampliamento dei percorsi di visita dei Mercati di Traiano (Roma, Luigi Franciosini e Riccardo d’Aquino, 1998-2004) lavora nella direzione del completamento del frammento: i dispositivi si pongono “tra” le preesistenze e colmano le lacune4. Il progetto
caratteri morfologici e criteri percettivi guidano le scelte in merito alla posizione e all’articolazione dei dispositivi, per consentire una fruizione consapevole dei reperti e del contesto urbano L’intervento per la fruibilità delle Domus dell’Ortaglia (Brescia, GTRF. Giovanni Tortelli Roberto Frassoni Architetti Associati, 2001-2003), definisce una rete di percorsi
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03. Domus dell’Ortaglia a Brescia, dettaglio di pavimento romano a mosaico del secolo II d.C. Domus dell’Ortaglia in Brescia, detail of a Roman mosaic floor, 2nd century AD. Wikicommons
rende pienamente fruibile il complesso archeologico operando sui parterre e sulla riconnessione altimetrica. I dispositivi scelgono di volta in volta le geometrie più adatte per non entrare in concorrenza con quelle massive dei resti antichi; accompagnano ed esaltano le giaciture delle masse murarie senza interferire con la percezione spaziale della strada; preferiscono i luoghi di bordo, aderendo alle parti solide e intercettando il sistema dei marciapiedi. Caratteri morfologici e criteri percettivi guidano le scelte in merito alla posizione e all’articolazione dei dispositivi, studiati in modo da consentire una fruizione consapevole dei reperti e del contesto urbano nel quale sono inseriti. Così, la passerella che conduce al Giardino delle Milizie punta percettivamente sullo spigolo della torre favorendo la lettura plastica e spaziale della sua mole muraria mentre, nella direzione opposta, il fuoco visivo intercetta la Loggia della Casa dei Cavalieri di Rodi spiegando la plurisecolare stratificazione di monumenti che ha occupato l’area dopo l’età imperiale.
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Allo stesso modo, il sistema di passerelle realizzate sulle Domus dell’Ortaglia trova le sue ragioni nella volontà di assecondare la comprensione dell’impianto residenziale e la lettura del ricco apparato decorativo che caratterizza gli ambienti scavati, facendo emergere, al negativo, gli ambiti domestici. Il sistema sopraelevato, appoggiato sulle creste murarie, risponde coerentemente a più esigenze: risolve l’accessibilità generalizzata; consente, in una prima fase di apertura del complesso, la convivenza delle operazioni di restauro conservativo e visita degli scavi; musealizza in situ i reperti. Le scelte materiche spiegano ancora una volta il diverso rapporto tra architettura e archeologia descritto dai due casi studio. Nella sistemazione delle Domus dell’Ortaglia, il piano dei nuovi percorsi di visita e l’involucro di protezione vengono trattati con lo stesso carattere materico e cromatico. Si scelgono toni scuri e freddi per i nuovi interventi, in modo da far risaltare, per contrasto, i toni caldi e
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04. Mercati di Traiano. Alessio Nastro Siniscalchi, Wikicommons
variopinti del parterre archeologico: il rosso e il giallo del mattone, i colori delle terre delle malte, la policromia delle tessere musive dei pavimenti, le decorazioni degli intonaci delle pareti e degli affreschi dei soffitti ricollocati secondo l’originaria posizione (img. 05). Ai Mercati di Traiano le scelte materiche cercano continuità con i materiali dell’edilizia storica già presenti: il legno e il ferro, trattati in modo da accentuarne l’opacità
grana, per risarcire le pavimentazioni originali e dare continuità ai percorsi di visita. In entrambi gli esempi illustrati viene scartata l’ipotesi del progetto standardizzato, del dispositivo funzionale ripetibile e sempre uguale a sé stesso indipendentemente dal contesto in cui viene inserito. Si propone piuttosto una soluzione site specific accompagnando le esigenze funzionali dentro le specificità del luogo in termini di percezione, di condizioni di suolo e di orientamento.
il rapporto tra architettura e archeologia impone alla città un continuo processo di adattamento a scapito della lucentezza, per le strutture che superano i dislivelli; le pietre da taglio e i conglomerati cementizi, rifiniti in superficie in modo da controllarne ruvidezza e
Pezzo o parte? Il paesaggio urbano e rurale è in continua trasformazione e il patrimonio culturale è oggetto di investimenti semantici che variano al variare del contesto culturale. Del resto, anche l’archeologia di oggi è stata architettura costruita e vissuta, espressione delle necessità dell’abitare, oggetto di processi complessi di riuso e adattamento.
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La comprensione e il rispetto dei caratteri propri del luogo sollevano questioni didattiche e pedagogiche dello scavo definendo uno dei parametri qualitativi di ogni intervento di valorizzazione come già evidenziato dalla Carta di Venezia del 1964 che, all’art. 9, sottolineava la necessità “di conservare e mettere in rilievo i valori formali e storici del monumento”. I casi studio illustrati affrontano i temi di fruizione, protezione e messa in opera all’interno di una strategia di comunicazione del sito che utilizza il progetto di architettura come strumento capace di mettere ordine, stabilire gerarchie, ricucire relazioni fisiche e percettive, gestire il rapporto tra la scala del dettaglio e la percezione generale del contesto rifiutando la mera soluzione prestazionale o utilitaristica in favore della costruzione di un paesaggio della memoria. La ricchezza del palinsesto storico, frutto di modificazioni diacroniche, viene ricondotta dentro un sistema di relazioni spaziali e percettive che usa il controllo visivo come forma di adattamento nel promuovere i valori dello spazio pubblico e della società inclusiva. La fruizione diventa allora un’esperienza di conoscenza che educa all’osservazione delle cose restituendo l’archeologia non come pezzo isolato, ma come parte di un sistema (Arnheim, 1971, p. 3). Così, possono trovare ancora ragione le parole con le quali Georg Simmel spiegava il rapporto che, in un organismo urbano, lega il tutto alle sue parti: “Certo, l’idea del corso storico delle cose non è mai silente a Roma. Ma la cosa meravigliosa è che anche qui, nella dimensione temporale, gli elementi sembrano essere tanto distanti gli uni dagli altri solo per mostrare in modo ancora più potente, incisivo e completo l’unità nella quale, tuttavia, si fondono” (Corecco e Zürcher, 2017, p. 42).*
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05. Musealizzazione in situ delle Domus dell’Ortaglia, Brescia (GTRF. Giovanni Tortelli Roberto Frassoni Architetti Associati, 2001-2003). I toni scuri e freddi dei nuovi interventi sono studiati in modo da far risaltare, per contrasto, i toni caldi e variopinti del parterre archeologico. Musealization in situ, Domus dell’Ortaglia, Brescia (GTRF. Giovanni Tortelli Roberto Frassoni Architetti Associati, 2001-2003). The dark and cold tones of the new interventions are designed to bring out the warm tones of the archaeological parterre. Domus Ortaglia Brescia by Stefano Bolognini. Wikimedia Commons, 2019 NOTE 1 – Quadro normativo: l.n. 118/1971 art. 27; l.n. 13/1989; d.m. n. 236/1989. Per un approfondimento del concetto di “Design for all” si veda: Arenghi, 2007. Inoltre, per un approfondimento dei temi legati al superamento della nozione di accessibilità in favore di quella di inclusività, si veda: Dichiarazione di Stoccolma EIDD 9-05-2004, Assemblea Annuale Istituto Europeo per il Design e la Disabilità; Linee guida per la redazione del Piano di eliminazione delle barriere architettoniche nei musei, complessi museali, aree e parchi archeologici, 6-07-2018, MiBACT. 2 – Il rigatino è una tecnica pittorica reversibile utilizzata nel restauro per colmare le lacune dell’immagine al fine di recuperarne l’unità figurativa. Secondo l’approccio brandiano si ottiene con l’applicazione di un minuto tratteggio colorato, dato generalmente ad acquerello, in modo da garantirne l’identificazione rispetto alle parti originali dell’opera restaurata. Per un approfondimento: Brandi, 1963; Carbonara, 1976. 3 – L’intervento è inserito nel più esteso complesso museale del convento di Santa Giulia che ospita il Museo della Città di Brescia e coinvolge i resti di due Domus romane del IV sec. d.C. rinvenute nell’antico orto del convento, l’Ortaglia, da cui l’area archeologica trae il nome. Direzione scientifica: Rossi F., Stella C., Morandini F.. 4 – L’intervento è inserito nel complesso museale dei Fori Imperiali a Roma. L’intervento riguarda le aree comprese tra Via Biberatica, Via Salita del Grillo e Giardino delle Milizie, mai state aperte al pubblico fino al 2001. Direzione scientifica: Ungaro L.; Consulenti: Vescovo F., Carbonara G.. BIBLIOGRAFIA - Arenghi, A. (2007), “Design for all. Progettare senza barriere architettoniche”, Utet, Torino. - Arnheim, R. (1971), “Entropia e arte. Saggio sul disordine e l’ordine”, Einaudi, Milano. - Augè, M. (2004), “Rovine e macerie. Il senso del tempo”, Bollati Boringhieri, Torino. - Baracco, L., Caprara, G. (2012), “Guidelines to overcome architectural barriers in cultural heritage sites”, Gangemi, Roma. - Brandi, C. (1963), ”Teoria del restauro”, Einaudi, Torino. - Carbonara, G. (1976), “La reintegrazione dell’immagine”, Bulzoni, Roma. - Carbonara, G. (2006), “La musealizzazione delle domus romane a Brescia”, in “L'Architetto italiano”, n. 12, pp. 64-67. - Corecco, F., Zürcher, C. (2017) (a cura di), “Georg Simmel. Roma, Firenze, Venezia”, Meltemi, Milano. - D’Aquino, R., Franciosini, L., Ungaro, L. (2002), “Interventi ai Mercati di Traiano, Roma”, in “Area” n. 62, pp. 78-83. - Manacorda, D.; Santangeli Valenzani, R.; Franciosini, L.; Pallottino, E.; Picciola, S.; Carlini, A.; Porretta, P. (2009) (a cura di), “Arch.it.arch. Dialoghi di archeologia e architettura. Seminari 2005-2006,” Quasar, Roma. - Manieri Elia, M. (1998), “Topos e progetto. Temi di archeologia urbana a Roma”, Gangemi, Roma. - Nora, P. (1992), “Les Lieux de Mémoire”, vol. 3, Gallimard, Parigi. - Ricci, A. (1996), “I mali dell’abbondanza”, Lithos, Roma. - Tortelli, G., Frassoni, R. (2009), “Santa Giulia, Brescia. Dalle domus romane al museo della città”, Mondadori Electa, Milano. - Vescovo, F. (1997), “Adeguamento degli edifici storici. Progettare per tutti senza barriere architettoniche”, Maggioli Editore, Rimini.
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Greta Bruschi Assegnista UniversitĂ Iuav di Venezia. gbruschi@iuav.it
Global warming e restauro
01. I danni al complesso di Villa Toderini-Fini-Piva a seguito del tornado del luglio 2015 in Riviera del Brenta (VE). Damage to the Villa Toderini-Fini-Piva following the tornado of July 2015 in Riviera del Brenta (VE). Greta Bruschi
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Adattamento, miglioramento o manutenzione? Note per una possibile conservazione delle architetture storiche Global Warming and Restoration The effects of global warming nowadays overlap with the common problems of conservation, amplifying critical issues. The decrease of performance due to decay of materials, the lack of maintenance, the effects of inconsistent alterations further aggravate this overlapping phenomenon. It is urgent to deal with the issue of adaptability of historical constructions in order to develop a diagnostic and evaluation methodology convenient for the intervention phase, as well as to establish a maximum degree of transformability not to overpass as for preserving the peculiarities that characterise each architecture.* Gli effetti del global warming si sovrappongono ai consueti problemi di conservazione, generando fenomeni di esaltazione delle criticità, aggravati dall’impoverimento delle prestazioni per il decadimento dei materiali, l’assenza di manutenzione e la presenza di trasformazioni incoerenti. Diventa urgente affrontare la questione della possibile trasformabilità del costruito storico allo scopo di mettere a punto una metodologia di valutazione utile per la fase di intervento, fondamentale nello stabilire quel grado di adattamento capace di conservare il carattere proprio di ciascuna architettura.*
egli ultimi anni si è assistito a un crescente manifestarsi di eventi meteorologici estremi che hanno causato ingenti perdite in termini sociali, economici, ambientali e in relazione ai beni culturali tangibili e intangibili. Il tema dell'adattamento al cambiamento climatico è stato fino ad oggi declinato, negli studi internazionali, in relazione a fenomeni già in atto quali lo scioglimento dei ghiacciai polari e dei ghiacciai montani, la desertificazione o l’acidificazione dei mari. Da alcuni anni sono in corso studi e riflessioni sul ruolo della pianificazione territoriale, urbanistica e ambientale per contrastare gli impatti locali dei cambiamenti climatici, mentre sono ancora limitati gli approfondimenti che riguardano le incidenze dei cambiamenti climatici al patrimonio storico costruito, soprattutto in merito alle possibilità di intervento. Il patrimonio architettonico infatti, sottoposto a un incremento delle sollecitazioni esterne, evidenzia ulteriormente il proprio carattere di fragilità. Se, come si afferma nel Programma Strategico Nazionale di Adattamento ai Cambiamenti climatici (SNAC)1: “I sistemi architettonici e urbani sono in prevalenza artificiali e quindi dotati di una modesta resilienza, la loro capacità di adattamento va affidata a un'azione antropica”2, risulta allora necessario avviare una serie di attività di interpretazione di questi specifici fenomeni di rischio, coordinando a livello istituzionale e territoriale obiettivi e azioni, e prevedendo anche il coinvolgimento dei cittadini. Da queste considerazioni emerge quindi la necessità di dotarsi di strumenti di analisi e controllo coerenti con la accresciuta domanda di prestazioni. Tali strumenti potranno così indirizzare futuri codici di buona pratica mediante l’identificazione di procedure di monitoraggio e controllo, pratiche manutentive e interventi per la conservazione dell’architettura storica. Clima e architettura Nel quadro del dibattito critico sulla definizione del carattere del costruito diffuso storico, le caratteristiche funzionali, formali e tecnologiche sono solo in parte ricondotte alla cul-
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tura locale (Rapaport, 1969) e più ampliamente riconosciute come determinate dagli effetti del clima. In quest’ottica è possibile mettere in evidenza quesiti relativi alla adattabilità/trasformabilità del costruito storico qualora il fattore climatico venga a mutare. Gli studi pubblicati negli anni ’40-’50 da Jean Dollfus, geografo e viaggiatore francese, illustrano interessanti analogie riscontrate tra il clima e l’apparato formale architettonico che tradizionalmente si sviluppa nelle diverse regioni del mondo secondo le caratteristiche della zona climatica (Dollfus, 1954). In base al campionamento delle abitazioni e alla loro messa a sistema Dollfus individua dei “caratteri termostabili” ovvero corrispondenze tra caratteri architettonici dell’architettura vernacolare (forme e sistemi di copertura, chiusure verticali, aperture) e zone climatiche. Negli anni ’60, presso l'Università di Princeton, i fratelli Olgyay cercarono di codificare i dati climatici studiati da Dollfuss elaborando un metodo basato sullo studio delle incidenze climatiche (sole, vento, orientamento) finalizzato alla progettazione del nuovo, che permettesse di individuare una connessione tra gli elementi dell’architettura storica (esposizione, ombreggiamento, captazione solare, materiali) e le condizioni climatiche ambientali (Olgyay, 1962). Questi contenuti verranno in seguito ulteriormente declinati da Sigfried Giedion e Reyner Banham nelle rispettive interpretazioni relative all’evoluzione dell’architettura (Giedion, 1958; Banham, 1978). Oggi pertanto risulta imprescindibile prendere in esame quegli indicatori (umidità, temperatura, vento, livello del mare, azioni combinate con inquinanti atmosferici) tali da costituire, a seguito dei significativi cambiamenti climatici rilevati, i fattori di rischio più significativi per la conservazione del costruito.
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02. Tavole che esemplificano i caratteri formali delle architetture tradizionali nel mondo, tratte da Dollfus (c.1954), tav. 71, Italia, Lombardia, Emilia; tav. 74, Italia, Sud. Panels that exemplify the formal characteristics of traditional architectures in the world, taken from Dollfus (c.1954), pan. 71, Italy, Lombardy,Emilia; pan.74, Italy, Sud. Jean Dollfus
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03. Sovrapposizione delle macrofasce climatiche e dei tipi di copertura identificati dai fratelli Olgyay (c.1962), rielaborazione dell’autore. Overlap of climatic macro-bands and types of roofs identified by the Olgyay brothers (c.1962), reworked by the author. Greta Bruschi
Cambiamenti climatici e vulnerabilità dell’architettura storica Vagliando i fattori di rischio estrinseci (piovosità, vento, innalzamento del livello del mare, presenza di agenti inquinanti), è possibile determinare i fattori di vulnerabilità dell’edificio. Lo studio dei diversi materiali che costituiscono i beni diffusi sul territorio evidenzia il ruolo predominante dell’acqua come fattore di degrado diretto e indiretto dei materiali costituenti le architetture storiche. I modelli di previsione indicano che durante il XXI secolo la dissoluzione chimica dei materiali lapidei carbonatici sarà dovuta principalmente alle precipitazioni e all’aumento della concentrazione di CO2 atmosferica. Le regioni mediterranee, particolarmente ricche di monumenti e siti archeologici in materiale lapideo, continueranno a sperimentare un alto livello di rischio da stress termico, con valori a volte superiori ai 200 eventi all'anno alla fine del secolo. È inoltre previsto l’aumento della decoesione dei materiali da costruzione porosi per effetto dell’incremento dei cicli di cristallizzazione/solubilizzazione di sali in tutta Europa, inclusa l’Italia, mentre si avrà una generale riduzione dei danni prodotti dai cicli di gelo e disgelo3. In riferimento alle regioni montane, il mutamento del microclima locale sta già influendo sui processi di degrado dei materiali impiegati nelle architetture tradizionali, in particolare il legno. La modifica del tenore delle precipitazioni estive e invernali e la trasformazione delle precipitazioni invernali, sotto forma di pioggia anziché neve, incidono sulla variazione dei tenori di umidità determinando
un rischio di degrado maggiore per i materiali lignei, che risultano più facilmente attaccabili sia da insetti xilofagi sia da muffe e funghi quando l’umidità raggiunge o supera il 20% di umidità relativa. L’indagine conduce quindi all’analisi dei nodi costruttivi, prendendo in considerazione la loro collocazione all’interno della fabbrica (copertura, chiusure verticali e orizzontali, attacco a terra). A titolo esemplificativo, in relazione alla variazione dei regimi di piovosità, l’intensificarsi dei fenomeni pluviometrici estremi mette già a dura prova i sistemi di smaltimento delle acque meteoriche in copertura, da un lato scardinando le procedure di controllo e manutenzione del costruito acquisite
obiettivo è non stravolgere il costruito, bensì conservare quel carattere di invarianza proprio di ciascuna architettura storica e dei complessi costruiti che caratterizzano il paesaggio
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nel tempo e dall’altro rendendole poco efficaci ed economicamente non soddisfacenti. Si considerano a tale proposito due casi studio significativi. In merito all’architettura diffusa veneziana, i canali di gronda in pietra caratterizzati da una concavità minima non sono più sufficienti a regimentare le frequenti intense precipitazioni. Le trasformazioni in corso, attraverso la realizzazione di scossaline metalliche e rialzi in filari di mattoni, a incrementare la portata della gronda, sono ormai una realtà diffusa in tutto il centro storico. Si notano soluzioni difformi,
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04. Architettura diffusa veneziana: variazioni delle trasformazioni dell’attacco al cielo, in relazione dell’aumento di portata d’acqua dei canali di gronda sommitali. Venetian traditional architecture: changes in the transformations in relation to the increase in water flow of the upper eaves canals. Greta Bruschi
più o meno efficaci o compatibili con il contesto storico, mentre dove manca l’intervento di incremento della capacità, l’intonaco risulta segnato dalle percolazioni a evidenziare la mancata manutenzione dei giunti del canale di gronda lapideo (img. 04). Per quanto riguarda un caso di architettura monumentale, l’intervento svolto in copertura a Villa Barbaro a Maser, a replicare l’assetto già accertato del sistema di smaltimento delle acque meteoriche, testimonia la mancata efficienza rispetto agli attuali regimi pluviometrici. La fuoriuscita di acqua piovana determina l’accelerazione del degrado degli intonaci storici e fenomeni di permanenza di umidità all’attacco a terra, per il mancato smaltimento d’acqua, individuabile dalla presenza di
citando Viollet-le-Duc) necessitano di essere messi in luce al fine di evidenziare il rischio di perdere testimonianze materiali e storiche (cultura immateriale). Tale rischio si evidenzia nel caso di interventi di adeguamento o effettuati a danno avvenuto - senza un progetto complessivo - a seguito della modifica delle condizioni climatiche (rischio antropico). I risultati desunti dalle metodologie di lettura e interpretazione dell'architettura, confrontati con i dati relativi a interventi di restauro pregressi, permettono di affinare la definizione di modelli interpretativi e successivamente predittivi del comportamento del manufatto. Tali modelli a loro volta possono indirizzare strategie di tutela non più incentrate sull'emergenza, ma basate su programmi di indagine, di controllo e infine di intervento. Come nella consueta prassi della conservazione, per quanto riguarda gli interventi, si rende necessario, prima di agire direttamente sul manufatto, il condizionamento del contesto attraverso la progettazione di interventi indiretti finalizzati ad allontanare le cause di degrado in relazione agli scenari previsti e ai fattori di rischio locali.
l’analisi dei caratteri delle architetture è fondamentale nello stabilire gli aspetti di resilienza patine biologiche in corrispondenza degli scarichi. Il carico di pioggia determina anche dei problemi di stabilità e resistenza delle gronde stesse in relazione ai sostegni del sistema di raccolta in copertura non più sufficienti (img 05). L’analisi dei caratteri costruttivi, della loro vulnerabilità e dei rischi derivanti da trasformazioni incongrue, risulta fondamentale per stabilire gli aspetti di resilienza e il grado di trasformabilità. Obiettivo è non stravolgere il costruito, bensì conservare quel carattere di invarianza proprio di ciascuna architettura storica e dei complessi costruiti che caratterizzano il paesaggio. I caratteri delle architetture (o il “temperamento”
La conservazione programmata Come si evince dalle azioni programmate già in atto relative alla riduzione di vulnerabilità derivante dai cambiamenti climatici, è derimente il progetto della manutenzione, prioritario a tutte le scale (paesaggi, infrastrutture, architetture). Ragionare in termini di “conservazione programmata” (Benatti et al., 2014) significa considerare un nuovo (o di nuovo) un approccio che riconosca il ruolo determinante di attività di limitato impatto
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(piccole manutenzioni, ispezioni, monitoraggi). Ovvero ripensare a un metodo che includa in un medesimo quadro strategico quell’insieme di azioni, conoscenze e decisioni che, agendo direttamente sul bene e sulle condizioni del contesto in cui è inserito, e coinvolgendo soggetti diversi, concorra a preservalo. Il restauro è quindi inteso come una delle tappe di un percorso più lungo, nel corso del quale si formano quelle sensibilità che contribuiscono a rendere i fruitori più consapevoli del valore del bene e delle competenze richieste per la sua conservazione. La programmazione delle attività manutentive e di cura quotidiana riveste già un ruolo di una certa importanza nelle strategie sperimentate a livello europeo4. A partire da queste riflessioni, le Linee Guida per la redazione dei piani di manutenzione e del consuntivo scientifico pubblicate nel 2003 (Della Torre, 2003) e adottate da Regione Lombardia nel 2005, hanno proposto un diverso approccio e un metodo per la redazione del documento previsto dalla norma. Le difficoltà e le resistenze che incontra il radicamento delle “buone pratiche” della conservazione programmata sono note e dipendono da condizioni strutturali e da atteggiamenti consolidati. Il piano di conservazione risulta quindi essere una necessità e, in riferimento agli interventi, soprattutto se occorsi in assenza di manutenzione, il rischio (in questo caso antropico) che si evince leggendo tra le righe della Strategia Nazionale di Adattamento ai Cambiamenti Climatici (SNAC)4 ricalca quanto già si è affermato ovvero che si possa verificare una tendenza al rinnovamento e rifacimento/ripristino anziché alla conservazione. Il prezzo è una ulteriore perdita di materia storica, l’omologazione dei caratteri costruttivi delle architetture, la perdita delle specificità e differenziazioni locali.*
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05. Villa Barbaro a Maser (TV), architettura storica monumentale, dettagli del prospetto in affaccio sul ninfeo: mancanza di efficacia del sistema di smaltimento delle acque meteoriche. Villa Barbaro a Maser (TV), historical monumental architecture, details of the front facing the nymphaeum: lack of effectiveness of the meteoric water disposal system. Greta Bruschi NOTE 1– Strategia Nazionale di Adattamento ai Cambiamenti climatici (SNAC), approvata con il decreto direttoriale n.86 del 16 giugno 2015 http://www.pdc.minambiente.it/sites/default/files/allegati/ Strategia_nazionale_adattamento_cambiamenti_climatici.pdf (ultimo accesso in maggio 2020). 2 – Piano Nazionale di Adattamento ai Cambiamenti Climatici PNACC - Prima stesura per la consultazione pubblica Luglio 2017 http://www.minambiente.it/sites/default/files/archivio_immagini/adattamenti_climatici/documento_pnacc_luglio_2017.pdf (ultimo accesso in maggio 2020). 3 – Nel caso dell'area del Veneto si veda http://www.arpa.veneto.it/temi-ambientali/agrometeo/file-e-allegati/approfondimenti/Clima_Comunita_Montane.pdf (ultimo accesso in maggio 2020). 4 – In particolare alle attività di Monumentenwacht Vlaanderen in alcune province del Belgio e di Maintain Our Heritage (MOH) nel Regno Unito, che ha permesso l’avvio di un programma specificamente dedicato alla cura del patrimonio ecclesiastico - GutterClear - e la sperimentazione, nel biennio 2002-2003, di un servizio di ispezione e manutenzione del sito di Bath. BIBLIOGRAFIA - Banham, R. (1978), “Ambiente e tecnica nell'architettura moderna”, Laterza, Bari. - Benatti, E., Borgarino, M. P., Della Torre, S. (2014), “Planet beni architettonici. Uno strumento per la conservazione programmata del patrimonio storico-architettonico” in Della Torre, S. (a cura di), “Proceedings of the International Conference Preventive and Planned Conservation” book 4, Nardini Editore, Firenze. - Della Torre, S. (2003), “La conservazione programmata del patrimonio storico-architettonico. Linee guida per il piano di manutenzione e consuntivo scientifico”, Guerini e Associati, Milano. - Dollfus, J. (1954), “Aspects de l'architecture populaire dans le monde”, A. Morance, Parigi. - Giedion, S. (1958), “Architecture, you and me”, Harvard University Press, Cambridge Massachusetts. - Olgyay, V. (1990, c.1962), “Progettare con il clima: un approccio bioclimatico al regionalismo architettonico”, Nuova ed. F. Muzzio, Padova. - Rapoport, A.(1969), “House form and culture”, Pearson Education, U.S.
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Bonifiche La struttura attuale del territorio italiano è il risultato di numerosi interventi di bonifica finalizzati ad ampliare le superfici coltivate e a garantire l’equilibrio idrogeologico delle zone minacciate da piene e alluvioni. Operazioni di drenaggio e colmata, manufatti e reti idriche hanno nel tempo costruito un paesaggio della bonifica che pur essendo custode di un patrimonio culturale straordinario, spesso, non è sufficientemente valorizzato perché artificiale e dettato dalla mano dell’uomo. A cura di Stefania Mangini
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Martin Argyroglo Fotografo. Picturing architecture, contemporary & performing arts.
martin-argyroglo.com
e mai una volta nella vita abbiate provato il piacere di stare alla finestra, come curiosi o annoiati voyeurs o — avvolti da una sensazione di oppressione esistenziale, confinati e isolati — osservato la solitudine altrui, allora potrete facilmente sperimentare un senso di immedesimazione in alcuni dipinti di Edward Hopper1; nel fotoreporter newyorkese Jefferies, interpretato magistralmente da James Stewart nel capolavoro cinematografico di Hitchcock, Rear windows; nelle parole di Chodasevič in Finestre sul cortile o nella serie di foto di Martin Agryroglo. Jefferies è bloccato in casa per giorni con una gamba ingessata. Osserva assiduamente le dinamiche degli inquilini nei palazzi circostanti che tengono le finestre spalancate perché è estate. Vede un pianista, una ballerina, una coppia senza figli che riserva tutte le attenzioni su un cagnolino, osserva le strane manovre di un omicida. C’è una contrapposizione, in termini di dinamicità e staticità, tra ciò che avviene al di là e al di qua della finestra. Chodasevič, nelle sue memorie, racconta che amava stare alla finestra quando era bambino. Poco prima della cacciata degli intellettuali, nel 1922, lasciò la Russia Sovietica e si stabilì a Parigi. Nel 1924 compose Finestre sul cortile contenuta nella sua ultima raccolta di poesie “La notte europea” (1927). La finestra diventa punto di osservazione privilegiato per guardare e guardarsi, guardare fuori e inevitabilmente guardarsi dentro. Martin Agryroglo, invece, che solitamente fotografa architetture o scene di performance dal vivo ed è abituato ad un lavoro dinamico e in movimento, è costretto al confinamento dalle con-
tingenze pandemiche. Il suo lavoro viene interrotto con l’inizio del lockdown e per ingannare la noia e continuare a fotografare decide, da casa sua — in cima ad una torre nel nord-est di Parigi — di catturare momenti di vita negli edifici del suo quartiere. Nasce così la serie di foto Finestre sulla torre — confinamento 2020 — Tentativi di esaurimento di una vista parigina.* Windows onto Tower. Attempts to exhaust a Parisian View If ever once in your life you have felt the pleasure of standing at the window, as curious or bored voyeurs or — enveloped in a feeling of existential oppression, confined and isolated — observed the solitude of others, then you can easily experience a sense of empathy in some paintings by Edward Hopper; in the New York photojournalist Jefferies, masterfully played by James Stewart in Hitchcock’s cinematic masterpiece, "Rear Windows"; in the words of Chodasevič in "Windows on the courtyard" or in the series of photos of Martin Agryroglo. Martin Agryroglo, who usually photographs architecture or live performance scenes and is accustomed to a dynamic and moving work, is forced to confinement by pandemic contingencies. His work is interrupted with the beginning of the lockdown and to cheat boredom and continue to photograph decides, from his home — on top of a tower in the northeast of Paris — to capture moments of life in the buildings of his neighborhood.*
NOTE 1 – Si vedano “Night windows” e/o “Office in a small city” di Edward Hopper. 01
Fenêtres sur tour. Tentatives d’épuisement d'une vue parisienne
fotografo confinato, fotografo giorno per giorno da una torre di Place des Fêtes a Parigi, XIXème arrondissement
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Gemono pentole, piatti, pianole, Le balie ninnano bambini urlanti. Con un sorriso un sordo siede alla finestra, sedotto dal suo stesso silenzio Estratto da "Finestre sul cortile" in "La notte europea e altre poesie", di V. ChodaseviÄ?, trad. it di C. Graziadei, Parma, Guanda 1992.
Luna Kappler Dottoranda in Infrastrutture e Trasporti presso il DICEA — Sapienza, Roma. luna.kappler@uniroma1.it
Città in equilibrio mobile La città adattiva. Il grado zero dell’urban design Michele Manigrasso Quodlibet, 2019 (cover design Sandra Maglio)
Cities in Mobile Equilibrium. Designing with Climate between Time and Change Living with climate impacts cities should recognize change as a necessity. The search for equilibrium in instability means to be open to disturbance and volatility, instead of stability. Adaptation becomes a process developed through time and planning scenarios. Manigrasso explores international specific strategies and experiences in an unambiguous way, focusing on a layered design concept. Flexibility, fitting technological solutions, physical and community networks are the key-aspects that public authorities and practitioners should pursue.*
Progettare con il Clima tra tempo e cambiamento a convivenza globale delle città con gli effetti indotti dalle alterazioni del clima è spesso conflittuale o persino traumatica all’insorgere di manifestazioni improvvise e inattese. La ricerca di equilibrio nell’instabilità che caratterizza la condizione di provvisorietà dell’urbano è il tentativo di risolvere quelle fragilità che vengono esibite di fronte alle sfide climatiche. L’equilibrio auspicato non è elastico, ma mobile, capace non solo di convivere con le perturbazioni, ma soprattutto di cambiare. Una città che impara dai traumi e si modifica è la nuova città adattiva che Manigrasso invoca nel suo recente libro, chiedendosi come possa mutare l’approccio alla pianificazione. Il progetto dell’autore è ambizioso e tale deve essere quando si mira a una lettura vasta e consapevole del presente. Il perché del libro è esplicitato e chiaro nella lettura: è l’interesse d’indagine accompagnato dalla volontà di cogliere tramite la diversità dei contesti internazionali e situazioni incrociate, il carattere di specificità dell’adattamento rispetto ai luoghi, specificità che rimane insita nelle strategie, nella pianificazione e nel progetto come atto critico. Il clima è nel testo, così come per le città, cornice e contesto assieme: cornice come atmosfera, ossia le coordinate del piano in cui le città trovano a muoversi e contesto come materia di
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ricerca e di progetto. Ed è proprio nel progetto che viene interamente ricollocata la possibilità di cambiamento, in particolare nella sua facoltà di usare coscienziosamente un linguaggio multiscalare e strumenti multidisciplinari. Il volume procede con linearità nella scrittura e nella struttura. Le quattro parti che lo compongono seguono i passi necessari per una esaustiva consapevolezza del problema, tracciando un quadro complessivo e argomentato di politiche e pratiche e valutando il caso italiano, che mai sembra soddisfare le aspettative, se non nel metodo e nei buoni propositi. Palinsesto e processi metamorfici I casi di studio presentati interpretano il concetto di città palinsesto (Corboz, 1983). Si tratta infatti di luoghi caratterizzati da una stratificazione necessaria, talvolta abrasi e riscritti dalle visibili tracce delle risposte date nel tempo al depauperamento delle risorse ecologiche che ha favorito squilibri sistemici. La metamorfosi riguarda fattori endogeni ed esogeni, la governance e i processi, le dinamiche sociali e la forma urbana. Gestire la trasformazione allora implica la comprensione cosciente dei rischi multisettoriali dei cambiamenti climatici e un’illuminata capacità di intervento da parte di un attivo ecosistema di attori con competenze complementari e integrabili.
IL LIBRO
Flessibilità e tecnologia La natura del progetto si confronta con la concezione del tempo, inteso non più come una successione lineare, bensì come discreto e non ricorsivo per l’instabilità dirompente dovuta agli shock non prevedibili. La mancanza di possibilità anticipatorie rende l’incertezza materia di lavoro. Flessibilità e tecnologia, dunque, rappresentano l’una la dimensione dinamica degli scenari di progetto e i gradi di libertà lasciati agli spazi fisici, l’altra l’insieme di strumenti perfettibili e adattivi che consente di mitigare gli impatti senza tradire la forma urbana. Reti spaziali e sociali La prototipazione di azioni sperimentali annuncia risposte di sistema e la definizione di reti spaziali estese nelle quali l’equilibrio su vasta scala si raggiunge attribuendo agli sviluppi locali e agli spazi aperti un ruolo cardine. La consapevolezza della questione climatica richiama azioni dal basso che attivano e catalizzano reti sociali di attori civici organizzati e non.
01. Possibili mutazioni del paesaggio fluviale. Possible changes in river landscape. M. Manigrasso, 2019
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Immagini e sintesi visiva La comunicazione visiva è ponderata, affidata al bianco e nero essenziale, grazie al quale la sottrazione del colore come dato sensoriale evita distrazioni. Si serve di immagini con brevi didascalie che documentano le strategie e
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i casi di studio, fotografie di spazi nelle quali il ritmo di elementi naturali e architetture emerge dalle intensità di luci e ombre. Gli schemi a pagina intera accompagnati da didascalie approfondite, sono elaborazioni dell’autore comparative, di sintesi concettuale o tecnica (sezioni e transetti) di soluzioni di urban design. Sfide aperte La proposta di passi metodologici (in particolare nel caso di Pescara) vede la programmazione come sistema informativo che incorpora molteplici livelli di conoscenza, poi esibiti nel tempo. La città adattiva di Manigrasso ha almeno due sfide aperte: come dotarsi di sofisticati apparati di analisi dei fenomeni e dei dati e come convincere il pubblico e la politica ad attuare i cambiamenti adattivi. Da qui rimane come prospettiva la necessità di stabilire un patto autentico tra decisori, urbanisti e innovatori di prodotto, di processo e di organizzazione da impegnare a ideare e trasferire alle città soluzioni e strumenti multisettoriali.* BIBLIOGRAFIA - Corboz, A. (1983), “Le territoire comme palimpseste”, in Diogène, n. 121, pp. 14-35.
Alterità e risignificazioni Otherness and New Signification
Maria Pia Amore Architetto e Dottore di Ricerca in Architettura, DIARC – Università degli Studi di Napoli Federico II. mariapia.amore@unina.it
Da limite a margine: i 72 manicomi italiani come oggetti isolati e dentro i rispettivi contesti. From limit to margin: the 72 italian asylums as isolated objects and in their own contexts. Maria Pia Amore
I CORTI
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Può, e se sì come, un’architettura nata per separare, dismessa la funzione fortemente determinante la sua forma, diventare un altro spazio? In che modo la stessa architettura introversa può aprirsi, nel rispetto della propria identità e memoria, rispondendo alle contemporanee logiche del riciclo dell’esistente? Nell’attraversare un campo di indagine dai confini incerti, la formulazione della domanda di ricerca – che si è più volte ricalibrata durante il triennio del dottorato1 – ha tenuto fermamente al centro un oggetto molto specifico, l’architettura manicomiale costruita in Italia tra Otto e Novecento, in dismissione dal 1978: solo quando si è spostato il punto di vista, muovendo lo sguardo dall’elemento concluso e introverso, chiuso nel suo “recinto”, a una sua appena più ampia considerazione urbana, si sono delineate le inedite potenzialità degli "spazi altri" asilari (Foucault, 1984). Non solo la funzione – custodialistica più che terapeutica – ma anche l’architettura in termini di posizione, di dimensione, di morfologia e persino di estetica, è stata determinante nella costruzione dell’alterità di questi luoghi: gli ex manicomi sono assunti come occasione di rimodulazione del pensiero progettuale capace di mettere a fuoco il “superamento del limite” (della forma e della funzione nel tempo, sia trascorso che a venire) attraverso lo “spessore utile” del margine2. Il concetto di margine richiama un’idea di labilità, di deformabilità, di flessibilità che si oppone alla rigidezza dell’architettura asilare3: il carattere di queste aree è instabile e mutevole, gli elementi di riferimento e gli assetti cui ancorarsi sono deboli – fasce di mezzo, passaggio di stato tra intorni differenziati, intervalli, zone di transizione, spazi “in-formi”, aree senza contorni netti. Il confine netto del manicomio supera la sua natura di isolante barriera per diventare perno di una “struttura unificante” (Lynch, 1960) che può permettere penetrazioni di visuale o di movimento, ancorandosi, con differenti profondità, nelle aree laterali. Questo spazio flessibile e ambiguo è individuato, lungo il perimetro, dalle diverse combinazioni di interno (manicomio) ed esterno (città) in relazione ai differenti gradi di accessibilità intesa come permeabilità all’attraversamento e all’uso come “spazio pubblico”. Attraverso una serie di descrizioni, di schematizzazioni e di interpretazioni, evidentemente segnate da
BIBLIOGRAFIA - Foucault, M. (1984), “Des espaces autres”, in “Architecture, Mouvement, Continuité”, n. 5, pp. 46-49; trad. it. in Vaccaro, S. (a cura di) (2001), “Spazi altri. I luoghi delle eterotopie”, Mimesis, Milano. - Lynch, K. (1960), “The Image of the City”, Massachusetts Institute of Technology, Cambridge; trad. it. (1980), “L’immagine della città”, Marsilio, Padova.
NOTE 1 – Il contributo prende corpo dalla tesi di dottorato in Architettura – area tematica Il progetto di architettura per la città, il paesaggio e l'ambiente, SSD ICAR 14 – dal titolo "Relazioni inedite. La definizione del margine tra gli ex manicomi e la città: Appunti per un inventario". 2 – Il lavoro sui margini, significativo anche per molte altre forme di enclaves, assume nel caso degli ex manicomi, in relazione alla potenza del portato semantico dei suoi limiti e recinti, un valore paradigmatico. 3 – L’architettura manicomiale è fortemente caratterizzate da una stringente necessità di separare nettamente il dentro e il fuori, i sani e i matti, gli uomini e le donne, i curabili e i cronici.
una logica progettuale, il tema della potenziale riconnessione tra manicomi e città prende corpo in termini rigorosamente disciplinari e, quindi, esplicitamente parziali. Si sono tracciate eterogenee letture degli ex complessi manicomiali nei loro contesti urbani e territoriali, individuando i diversi “spazi di margine” ricondotti a una casistica esemplificativa - margine come spazio di permeabilità, di filtro, di separazione, di frattura, di esclusione. La forma con cui questi potenziali spazi di riconnessione vengono identificati e rappresentati, nelle schede che danno corpo sperimentale alla ricerca assumono il senso di precisi “indirizzi”, a un tempo generali e particolari, per il progetto di conservazione/trasformazione del patrimonio manicomiale.*
Verso una manifattura glocale Towards a Glocal Manufacturing
Claudia Morea Dottoranda in Design, Università degli studi di Firenze. claudia.morea@unifi.it
Designer Maker User, Design Museum - Londra, Dalla sedia Thonet alla stampante 3D. Designer Maker User, Design Museum - London, From Thonet chair to 3D printer. Claudia Morea
I CORTI
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Open source Nell’Antica Grecia sapere e conoscenze legate all'artigianato appartenevano alla collettività, tanto
Democratizzazione Nell’era digitale, l’innovazione maggiore non corrisponde con le nuove tecnologie bensì con la loro democratizzazione, la diffusione su larga scala e la facilità di accesso di quei sistemi di produzione e comunicazione che fino a poco fa erano disponibili solo a governi, tecnici e imprenditori onerosi. Il computer stesso, finchè utilizzato solo da tecnici, è stato uno strumento migliorativo, ma interconnettendosi e diventando accessibile a molti ha spontaneamente permesso l’emergere di nuovi scenari di utilizzo che hanno portato quella innovazione culturale che ha profondamente segnato le nostre abitudini (Anderson, 2012). Piccoli produttori locali profondamente legati a un territorio, oggi hanno la possibilità di comunicare a livello globale la loro storia a bassi costi attraverso siti web, social media, piattaforme e metodi efficaci come lo storytelling; internet ha consentito di aumentare il confronto tra pari e di entrare in contatto diretto con i propri utenti, ampliando così enormemente la rete di benefici. Contemporaneamente anche gli utenti abituati a un'offerta sempre più ampia ricercano sempre più prodotti specifici, affidandosi a produttori marginali che proprio così sopravvivono grazie alla rete globale. Se la produzione di massa ha permesso a pochi di guidare l'offerta per i molti, adesso gli equilibri cambiano. Risulta molto complesso valutare vantaggi e svantaggi di un mondo iperconnesso, d’altronde l’innovazione culturale è legata al fermento di connessioni tra popoli, al confronto e allo scambio di conoscenze che portano nuova conoscenza. Internet consente un'accelerazione delle connessioni tra singolo e comunità, tra singolo e singolo, tra comunità e comunità, da cui deriva l’impennata d’innovazione della nostra epoca.
Agevolati da nuovi software di progettazione e prototipazione, sistemi di apprendimento digitali, sistemi open source, makerspace e networking, si fanno avanti dai margini nuovi progettisti e imprenditori, autori della desktop manufacturing, che sembrano scardinare il sistema centralizzato a favore di uno diffuso e resiliente.
BIBLIOGRAFIA - Anderson, C. (2012), “Makers. The New Industrial Revolution”, Crown Business, New York. - Manzini, E. (2015), “Design, when everybody designs. An introduction to design for social innovation”, The MIT Press, Cambridge & London. - Sennett, R. (2008), “The craftsman”, Yale University Press, New Haven & London.
che il genio stesso non era identificato col singolo ma era frutto della crescita collettiva di tutta la comunità. Sebbene il copyright di oggi ci allontani molto da questa visione, la diffusione di sistemi open source, invece, fa intravedere un ritorno a una conoscenza diffusa (Sennett, 2008). I programmatori di Linux, professionisti che lavorano nell'anonimato per migliorare un sistema comune, come i produttori e i progettisti che adottano licenze Creative Commons per diffondere loro progetti diversamente, rendendoli così sempre modificabili e quindi migliorabili, incoraggiano una crescita collettiva in cui gli stessi mezzi sono a disposizione di tutti. Questi nuovi attori fanno parte dello scenario “SLOC - Small, Local, Open and Connected ” (Manzini, 2015), in cui al ritorno a una scala umana e di comunità, ovvero locale, vengono affiancati i vantaggi del network, cioè della scala globale. Si arriva così a una profonda trasformazione delle opportunità offerte da ciò che è small e local, che risultano vantaggiose sia per il singolo che per l'intero sistema, acquisendo maggiore capacità di resilienza. In questo scenario vengono meno i margini, ogni luogo riacquista valore e si moltiplicano le possibilità di crescita sostenibile.*
Alessio Busato Architetto a La Rochelle, Francia. Laureato in Architettura presso l’Università Iuav di Venezia. lss.busato@gmail.com
Super Montréal 2042. Design explorations on car spaces for the city of tomorrow In an historical context in which the relationship between man-car-urban space is still an inevitable reality, the electric, shared and selfdriving car is taking on an increasingly leading role. With it, Montreal becomes a promoter of the change in the values linked to the use of the traditional car. It is thus possible to define a new spatiality for the city by defining a new relationship between man, city and car. Whether such a change is a utopian or dystopian one, it will only depend on how well prepared the city is. Is Montreal ready?* olti sono i piani di sviluppo che la municipalità di Montréal, in Canada, ha redatto in questi ultimi anni, elencando iniziative e azioni possibili da compiere entro il 2042. Attraverso una nuova spinta tecnologica, vuole tornare ad essere una città modello, raggiungendo nuovamente il successo della manifestazione universale, Expo 1967. Nel settembre 2017 il governo canadese ha investito oltre 200 milioni di dollari per sviluppare un piano strategico per rendere la città un hub sull’AI, mentre il Québec ha stanziato 100 milioni di dollari per i prossimi cinque anni per finanziare l’intelligenza artificiale e la ricerca sui big data, cercando di rendere la città uno dei più grandi centri di ricerca di
01. Manifesto Super Montréal 2042: Cartolina dal 2042, il quattrocentesimo anniversario dalla fondazione della città. Super Montréal 2042 poster: Postcard from 2042, the 400th anniversary of the city’s founding. Alessio Busato, Matilde Miuzzi
Super Montréal 2042
Esplorazioni progettuali sugli spazi dell’auto per la città di domani
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L'ARCHITETTO
CITTÀ
BASSA ALTA
Di fronte
DENSITÀ
Asfalto Asfalto
Asfalto
Asfalto Asfalto Strada
Asfalto Strada
Garage Asfalto
Garage Asfalto Strada
Garage Asfalto Asfalto
Garage Asfalto Asfalto Strada
Asfalto
Asfalto Strada
Asfalto Asfalto Strada
Asfalto Asfalto
Asfalto Asfalto
Asfalto Asfalto Strada
Asfalto Asfalto Asfalto Strada
Asfalto Asfalto Asfalto
Garage Asfalto
Garage Asfalto Strada
Garage Asfalto Asfalto Strada
Garage Asfalto Asfalto
Garage Asfalto Asfalto
Garage Asfalto Asfalto Strada
Garage Asfalto Asfalto Asfalto Strada
Garage Asfalto Asfalto Asfalto
Garage Garage Asfalto Asfalto
Garage Garage Asfalto Asfalto Strada
Garage Garage Asfalto Asfalto Asfalto Strada
Garage Garage Asfalto Asfalto Asfalto
Asfalto
Garage Asfalto
Garage Asfalto
Garage
In between
Stazione di servizio
Parcheggi pubblici
Strada
Sul retro
Asfalto
02. Catalogo dei luoghi potenziali in un tessuto campione all’interno della città. Catalog of potential places in a sample fabric within the city. Alessio Busato, Matilde Miuzzi
base al mondo con particolare riguardo alle autovetture autonome. L’intelligenza artificiale è vista ora come una risorsa strategica per l’intera comunità: si potrebbe decidere di rinunciare alla proprietà di un veicolo in favore di mezzi elettrici, automatici e condivisi. La condivisione di veicoli autonomi avrà un impatto importante sull’efficienza dell’utilizzo dei trasporti: una macchina condivisa può sostituire fino a 9 auto private. Si potrebbe concretamente creare un nuovo sistema totalmente integrato come combinazione tra il trasporto pubblico e quello privato. La rete infrastrutturale diverrebbe così connessa e intelligente in maniera efficiente e completa, realizzando un sistema di trasporto
OFFICINA* N.31
che integra un numero di servizi come bike sharing, car sharing e trasporto di massa in un unico viaggio. Le corsie di viaggio dei veicoli potrebbero occupare solo lo spazio stradale necessario per spostare le persone in modo efficiente. La cartolina Montréal 2042 (img. 01) traduce gli obiettivi che la città stessa vuole raggiungere per migliorare la qualità di vita dal proprio interno; oggi questi obiettivi sono solo un elenco. È stato quindi inevitabile chiederci dove e come la città può intraprendere tali sfide interrogando gli spazi di Montréal. Who gets city space? In un contesto storico in cui il rapporto tra uomo-automobile-spazio
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urbano è un’inevitabile realtà, a Montréal il numero di veicoli in circolazione continua ad aumentare con un indice tre volte maggiore della crescita di popolazione: attualmente abbiamo un’automobile ogni due cittadini e mezzo. Un secolo fa, quando l’era automobilistica attraversò la città, essa rispose non adattando auto e camion ai vari usi della strada, ma con una radicale e incessante eliminazione delle strade urbane, sostituendo case e marciapiedi con parcheggi e rimuovendo tutti gli ostacoli dal traffico urbano, compresi i pedoni, eliminando cioè la vita di strada. La superficie necessaria alla strada è stata calcolata e progettata sulle autovetture in movimento e su quelle fer-
03. Scenario 2019. Alessio Busato, Matilde Miuzzi
me, creando l’attuale rapporto di mono funzionalità e specializzazione assumendo un carattere fisico e territoriale. L’auto è la protagonista, il pedone in attraversamento è invece considerato un fastidioso e tollerato contrattempo. Il rapporto che intercorre tra uomo‐ automobile‐spazio urbano a Montréal è quindi percepito nella necessità di ineludibile cambiamento, come anche in altri contesti mondiali. Esplorazioni progettuali Per comprendere appieno la struttura urbana si è proceduto analizzando le caratteristiche della morfologia urbana di Montréal, individuando le diverse tipologie dei tessuti stradali. Questi sono chiaramente individuabili e caratterizzati da differenti connotazioni morfo-tipologiche: tessuti radia-
04. Scenario 2030: in giallo le obsolescenze. Scenario 2030: obsolescence in yellow. Alessio Busato, Matilde Miuzzi
li, tessuti gerarchici, un tessuto irregolare, comprendente l’area di prima espansione e le grandi aree industriali e infine tre differenti tipologie di griglia rappresentanti il 57% dell’intero suolo urbanizzato. La griglia, basata sul modello Jeffersoniano, prevalente all’interno del tessuto urbano, è stata indagata campionando tutte le tipologie stradali in essa esistenti: Autoroute sopraelevata; Autoroute; strada urbana, Boulevard; strada urbana, Avenue; strada urbana locale distinte in tipologia A, B e vicolo. Un’ulteriore analisi all’interno di questi campioni ha fatto emergere un abaco che ne confronta come le spazialità critiche di oggi (spazio strada; spazio auto privato; spazio edificato; stazioni di servizio, parcheggi privati e pubblici, in superficie e interrati) possano
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trasformarsi in spazialità potenziali (spazio pubblico; spazio privato; pista ciclabile; spazio verde) per la città del 2042 (img. 02). La strada è stata ripensata riproponendo il cittadino come protagonista, dimostrando che è possibile adattare le nuove tecnologie per la mobilità alle città, e non viceversa. Con le strade ridisegnate per soddisfare i bisogni delle persone, anche gli stessi utenti potrebbero adattarsi facilmente al cambiamento e le periferie diventerebbero luoghi di commercio e mobilità condivisa, non parcheggi. Le corsie di viaggio dei veicoli potrebbero occupare solo lo spazio stradale necessario per spostare le persone in modo efficiente e le strade non attraverserebbero la città, ma la collegherebbero diventando luoghi che fanno muovere la
L'ARCHITETTO
Nuovo verde pubblico Nuovi spazi per la comunità
Eliminazione cordoli
Nuova corsia per la fermata
Nuovi corridoi urbani
Conversione garage privati
Nuovo fronte pedonale
Nuovo verde privato Nuovi edifici residenziali Nuovi spazi ricreativi privati Nuova pista ciclabile
Annessioni
Ampliamenti residenziali
05. Scenario 2042: in giallo le obsolescenze; in rosso le potenzialità. Scenario 2042: obsolescence in yellow; potential in red. Alessio Busato, Matilde Miuzzi
città: scindendo la strada dalla casa, si consentirebbe alla prima di funzionare e alla seconda di riprendere contatto con la natura. Per una Super Montréal 2042 siamo partiti dall’esplorazione di questi innumerevoli spazi dedicati all’auto per riformularne le funzioni e le identità dei singoli luoghi e permettere di leggere e abitare la città di domani in modi diversi (img. 03-06) tentando di tradurre il cambiamento nelle pratiche e nelle possibili relazioni sociali catalogando e misurando i luoghi che diverranno possibili scarti futuri: “Come suggeriscono le ormai storiche letture venturiane di Las Vegas, viene quasi naturale confrontarle con altri mondi in rovina, rappresentati da Piranesi, Canaletto o Clerisseau o altri artisti che coglievano le avvisaglie di un nuovo paesaggio nel
OFFICINA* N.31
06. Visione dal 2042: esplorazioni progettuali all’interno dei luoghi potenziali. Vision from 2042: design explorations within potential places. Alessio Busato, Matilde Miuzzi
disgregarsi del vecchio [...] Sono ‘pezzi’ di un nuovo paesaggio in attesa di forma” (Ferlenga, 1999). Super Montréal 2042 propone un possibile modello per il proprio contesto urbano e probabilmente non solo. L’inedita relazione tra uomo‐automobile‐spazio urbano che si verrà a creare nel 2042 a Montréal dovrà rispondere a questioni all’interno della città, manifestando necessità, ma anche potenzialità di rigenerazione, riuso e riciclo. Da qui forse, anche i temi legati all’espansione urbana, fino ad oggi considerata irrefrenabile, potranno trovare possibili nuove riformulazioni. Il problema non è il cambiamento, ma gestire il cambiamento.*
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NOTE Progetto di tesi in collaborazione con Matilde Miuzzi. BIBLIOGRAFIA - Fabian, L. (2014), “New urban question, ricerche sulla città contemporanea 2009-2014”, Aracne, Roma. - Fabian, L., Munarin, S. (2017), “Re-cycle Italy: atlante”, LetteraVentidue, Siracusa. - Fabian, L., Pellegrini, P. (2010), “On mobility 2: riconcettualizzazioni della mobilità nella città diffusa Venezia”, Università Iuav di Venezia, Marsilio, Venezia. - Ferlenga, A. (1999), “Auto / Strade / Città”, in Casabella, n. 670, pp. 58-81. - La Cecla, F. (1995), “Bambini per strada”, Franco Angeli, Milano. - Secchi, B. (2010), “On mobility. Infrastrutture per la mobilità e costruzione del territorio metropolitano: linee guida per un progetto integrato”, Marsilio, Venezia. - Zardini, M., Borasi, G. (2007), “Sorry, out of gas: architecture’s response to the 1973 oil crisis”, Corraini, Mantova.
Andrya Kohlmann Architetto, dottoranda presso l’Università Federale del Rio Grande do Sul (Brasile). andryakohlmann@gmail.com Rafael Lorentz Dottorando presso l’Università Iuav di Venezia e l’Università della Svizzera Italiana. rdclorentz@gmail.com
Margine come spazio di azione: l’ibridazione e il progetto per il Centro Danese di Architettura L’articolo investiga il ruolo del “margine” nella composizione del Centro Danese di Architettura, progetto dello studio OMA completato a Copenhagen nel 2018 e fortemente caratterizzato dalla coesistenza di funzioni diverse all’interno del volume generale. Esempio di quello che viene definito come “edificio ibrido contemporaneo”, il progetto per il DAC si basa sulla concezione del margine tra i differenti componenti come uno spazio di azione in grado di generare la dinamica interattiva necessaria per renderlo un promotore di trasformazione urbana.* ybridization is a term used to basically define the ambition to create an object able to condense the simultaneous existence of different or even opposite elements. The hybrid is a new context seeking the conditions for the emergence of a potential that such elements don’t hold when isolated and, as any synthesis, finds in mediation its fundamental gesture. In architecture, what differentiates the so-called hybrid building from the mere overlapping of functions, is the role that it tends
to assume in the city through scale (Fenton, 1985), overcoming the limits of action of a single artefact to become a wider ensemble in what could be described as an “urban fragment”. The urban event defined as the contemporary hybrid building, rises in the city defined by free market interests as a typology able to gather an answer, mainly through formal articulation, to the ways of living of globalized society and to the integrative challenges of the post-industrial city, in what Steven Holl calls “localized social condensers”1. Hybrid´s transformative potential is based on the efficient conception of an interactive dynamic, rendering permeable the boundaries
between different elements and transforming margins from dividing limits into spaces of action. A paradigmatic example of this typology can be found in the project by OMA for the Danish Architecture Centre (DAC), completed in Copenhagen in 2018 (img. 01). Built in the city’s central area, on a lot facing the harbour in the south edge of Slotsholmen island - where many important cultural and governmental organs are located - the building is defined as a structure at urban scale, containing the BloxHub – agent dedicated to the support of innovative companies - commercial spaces such as cafés, restaurant and gym, and also residential apartments (img. 02).
01. General view of the building from Christians Brygge. Andrya Kohlmann
Margin as a Space of Action
Hybridization and the Project for the Danish Architecture Centre
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L'ARCHITETTO
the integrative potential of hybridization is based more on connection than on proximity, more from peripheral space than from the nucleus
02. Contesto urbano. Urban context. Andrya Kohlmann
The DAC, a centre aimed at the promotion of cultural activities related to architecture, becomes a trigger of the urban dynamic, housing not only exhibition spaces but also offices, meeting rooms and auditorium, occasionally used also by third-part partners. The presence of such a large number of functions in a single building, each of them requiring specific types of space and levels of accessibility, would normally tend to the reproduction of division. The strategy applied by OMA however manages to fill the space fragmentation by generating multiple connections in spatial and visual levels. Both in plan and in section, it is possible to observe how the design concept is based on the incorporation
OFFICINA* N.31
of Christians Brygge into the general volume, which wraps the street completely, becoming a connective element between the two portions of the site and so allowing an effective relation between city and harbour (img. 03). The overcoming of the traffic barrier is possible in three ways of which the most direct links transversally the DAC’s underground foyer - located precisely beneath the road - to ground floor level through a sequence of public stairs. A second path is possible in the setting of semi-public spaces, using the inner connections created between workspaces that find in the restaurant, café and exhibition spaces a point of contact. A third level of integration belongs exclusively to the pri-
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vate sphere of apartments located in the two highest levels, only accessed through the circulation towers. Central in the composition is the space of the DAC, which constitutes the inner core around which other elements are additionally distributed. In that sense, beyond physical connection, the centre’s exhibition spaces also play a role of inner court, both on a symbolic level, by creating a convergence point of contrasting elements, and on a functional one, by providing the visual integration and illumination required in the innermost portions of the volume (img. 04). In that sense, the margin’s dissolution is translated also in the building’s materiality, assuming an absolutely neutral value in the glass
ACCESSO CITTÀ/PORTO
03. DAC, diagram of upper levels and transversal section. Andrya Kohlmann, Rafael Lorentz
façade that provides flexibility to receive different functions as well as the transparency of a spatiality with no “interior”. This condition can be clearly understood as essential for the success of the system’s composition, while at the same time indicates a strong restriction in the nature of the activities performed, which must be willing to accept a certain no-privacy condition. However, the positive dynamic of complementarity between elements verified in the DAC building is activated through the construction of “bridge spaces”, such as the public stairs, the restaurant or the auditorium, elements defining the boundaries of each inner component and simultaneously offering opportunities for the positive
overlapping of complementary activities (img. 05). This strategy is often applied in the design of hybrid buildings2 as it enlarges circulation spaces, strengthening the idea of “urban fragment”, therefore encouraging interaction between different users and providing the necessary condition for the creation of a sense of community. The integrative potential of hybridization in that sense is more based on connection than on closeness, more on peripheral spaces than on core, both at building and urban levels. These characteristics find parallel in some important concepts developed by Koolhaas such as “cross-programming” and “congestion”3. The first is presented as the intentional introduction of
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the hybrid is a context that seeks the condition for the emergence of an interactive potential between different elements and, like any synthesis, has its fundamental gesture in mediation L'ARCHITETTO
04. Inner view of DAC’s central exhibition space. Andrya Kohlmann
05. External view of main entrance. Andrya Kohlmann
unexpected programs within different types of buildings, while congestion is understood as the amplification of density in order to reach more activities and users in different buildings and/or situations. Both concepts are connected, since density and congestion would be the way to optimize the few available spaces in the metropolis, while cross-programming would be the way to make this reality possible. Margins, as seen on the DAC building, assume a fundamental role in the project, in fact they can be taken as the main instrument to translate these concepts in palpable values such as vitality, sense of community and social interaction, all of them increasingly necessary for the project of a contemporary city.*
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NOTE 1 - Steven Holl, preface in: Fernández, A. (2011) “This is Hybrid: an analysis of mixed-use buildings”, a+t architecture Publishers, Vitoria-Gasteiz. 2 – Another example of a hybrid building that is formed starting from “bridge spaces” is the Linked Hybrid, a project by Steven Holl in Beijing. 3 – These concepts are developed throughout Koolhaas career in publications such as “Delirious New York” and “S, M, L, XL”. BIBLIOGRAFIA - Brandão, M. (2017), “The Big Building - Housing and Complex Design Strategies”, THÈSE N.7454, EPFL, Lausanne. - Castells, M. (2010), “The Rise of the Network Society”, Blackwell, London. - Fenton, J. (1985), “Hybrid Buildings”, Pamphlet Architecture, n.11, San Francisco. - Fernández, A. (2011), “This is Hybrid: an analysis of mixed-use buildings”, a+t architecture Publishers, VitoriaGasteiz. - Holl, S. (2014), “Hybrid Buildings”, Oz, v. 36, Manhattan. - Koolhaas, R. (1978), “Delirious New York”, Oxford University Press, New York. - Koolhaas, R. (2006), “Junkspace: per un ripensamento radicale dello spazio urbano”, Quodlibet, Macerata.
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- Koolhaas, R.; Mau, B. (1995), “S, M, L, XL”, The Monacelli Press, New York. - Schmid, S. (2019), “A history of Collective Living”, Birkhauser, Basel. - Zellner, P. (1999), “Hybrid Space: new forms in digital architecture”, Thames & Hudson, London.
Michele Prendini Laureato in Architettura e Culture del Progetto, Università Iuav di Venezia. micheleprendini@gmail.com
I wouldn't be like this, if I knew how to not be like this. Towards the development of a circular economy in the homeless community of Leeds Too many people are still living on the streets nowadays, without a place to call home. Most of us do not even notice their existence, pretending not to see them when we pass them by. My work tries to offer to homeless people a new opportunity, a new life, and throw light on their situation. Through the recycling of plastic materials, homeless people can play an active role in the city streets, becoming part of a community. The final result is a series of urban bivouacs, made by the homeless, autonomous, and capable of offering them welcoming environments and different services.*
I
ntroduzione e obiettivi Tra il 2018 e 2019 ho trascorso un anno a Leeds, nel Regno Unito, dove ho avuto la fortuna di essere coinvolto in diverse attività di volontariato legate al mondo dei senzatetto della città. La loro situazione e la ricerca di possibili soluzioni alla questione dei senza fissa dimora è diventato perciò il tema principale della mia tesi di laurea Molti di loro non vogliono essere aiutati, hanno paura delle autorità, preferendo la loro condizione a un eventuale cambiamento, perché non preparati ad affrontarlo. L'obiettivo del mio lavoro è la ricerca
di un’alternativa alla loro condizione nomade, attraverso un percorso che possa offrirgli i mezzi per una nuova vita, senza costringerli a cambiare. Sono perciò partito dal presupposto di renderli parte attiva del progetto, trasformandoli in un’opportunità per la città stessa. Il riciclaggio delle materie platiche svolge un ruolo fondamentale in questa operazione: raccolti dai senzatetto, i rifiuti vengono poi riutilizzati come materiale edile, assumendo così un nuovo ruolo. Tutto ciò si concretizza attraverso il restauro di Temple Works, un ex mulino di lino. Grazie ad esso infatti è possibile creare un centro per le attività dei senzatetto e le organizzazioni benefiche con essi coinvolte. Questo spazio consente loro di lavorare insieme e sviluppare diverse attività, la principale delle quali è proprio il riciclaggio dei rifiuti di plastica per creare materiali da costruzione. Man mano che la comunità cresce e vengono raccolti fondi, la produzione di plastica aumenta e viene utilizzata per creare una serie di strutture abitative per il centro città, locali sicuri che consentono ai senzatetto diversi tipi di attività. Attraverso questi bivacchi la città viene colonizzata, diventando una casa per i vagabondi di Leeds (img. 02). Riciclaggio e bivacchi La plastica è un materiale che ci circonda ogni giorno, in qualsiasi situazione. Durante il mio periodo alla Leeds
01. Campioni di elementi in plastica riciclata. Samples of recycled plastic elements. Michele Prendini
Non sarei come sono, se sapessi come non esserlo Verso lo sviluppo di una economia circolare nella comunità di senzatetto di Leeds 72
L'ARCHITETTO
02. Strategia. Strategy. Michele Prendini
OFFICINA* N.31
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RIFUGIO URBANO
LAVANDERIA
CUCINA
03. Cinque tipologie di bivacchi urbani. Five typologies of urban bivouacs. Michele Prendini
Beckett University, ho avuto la fortuna di sperimentare nel laboratorio dell’università il riciclaggio dei rifiuti plastici. Ho pertanto creato alcuni esempi di materiali da costruzione, come mattoni o pannelli (img. 01). Questo tipo di riciclaggio è molto semplice e può essere effettuato a qualsiasi scala, da un livello semi-artigianale fino a quello industriale. Si può utilizzare una pistola termica e fondere il materiale in uno stampo oppure inserire il tutto in un forno industriale per lavorare con quantità maggiori. La leggerezza e la facile lavorabilità dei prodotti plastici ben si presta all’edilizia, soprattutto unite all’economicità dei suddetti processi produttivi. L’implementazione di questo materiale nella progettazione dei bivacchi è quindi un passaggio
molto importante. L’utilizzo di elementi plastici a incastro, infatti, permette un più facile montaggio, nonché una produzione modulare di queste architetture. Tali elementi vengono uniti, inoltre, a uno strato di EPS e grafite (15 cm), in modo da svolgere anche la funzione di isolante. Le ridotte dimensioni dei bivacchi, unite allo strato isolante, permettono, grazie al calore corporeo dei residenti, di non necessitare di un sistema di riscaldamento. È comunque prevista una eventuale stufa elettrica in caso di temperature molto fredde. A tutto ciò è poi seguita una ricerca riguardo alla sicurezza di questi elementi. I materiali plastici impiegati sono infatti di tipo HDPE, LDPE e PP, termoplastiche quindi che, in caso di incendio, potrebbero fondersi nuovamente,
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attraverso questi bivacchi la città viene colonizzata, diventando una casa per i vagabondi di Leeds
L'ARCHITETTO
spazio religioso, di preghiera o contemplazione, non dedicato a una specifica religione ma aperto alla condivisione, collocato vicino alla Chiesa di St. George già sede di un dormitorio per senzatetto. Il quinto e ultimo bivacco è quello dei bagni pubblici, collegato a una sede universitaria, in un punto ben servito del centro cittadino (img. 03).
CAPPELLA
BAGNI PUBBLICI
Conclusioni Lo sviluppo di questi bivacchi fornisce un’alternativa ai dormitori della città. Quest’ultimi infatti non sono sufficienti e richiedono l’osservanza di numerose regole, spesso non accettate dai senzatetto. Offrendogli invece una serie di servizi, attraverso i bivacchi urbani è possibile rendere la loro vita nomade più vivibile e sicura, senza però obblighi o costrizioni. Queste piccole architetture non invasive possono rappresentare il loro primo passo verso una vita più stabile, un modo per tornare nella società. La loro gestione comune gli offre l’occasione di misurarsi con delle responsabilità, regalandogli un senso di appartenenza e comunità a essi estraneo.* BIBLIOGRAFIA - Gulhane, S., Gulhane, S. (2017), “Analysis of Housing Structures Made From Recycled Plastic”, in “IRA-International Journal of Technology & Engineering”, pp. 45-55. - Van Wabeeke, L. (2002), “Flame retardant plastics: a general review”, in “International Polymer Science and Technology”, vol. 29, n. 2, pp. 1-5.
rilasciando gas nocivi per l’uomo. Per tale motivo all’interno del processo di riciclaggio vanno inseriti specifici additivi con funzione ritardante. Molto importante per i bivacchi è anche l’autonomia. Questi infatti cercando di essere indipendenti attraverso la raccolta dell’acqua piovana, l’utilizzo di una guaina fotovoltaica, delle vasche chimiche, possono essere montati sopra qualunque superficie in asfalto o calcestruzzo senza l’uso di fondazioni. La struttura portante è realizzata in pultruso, con montaggio a secco, rendendo così trasporto e messa in esecuzione rapidi ed economici. Tipologie I bivacchi urbani hanno la funzione di rendere la città più accogliente, of-
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frendo una serie di servizi a chi si trova in condizioni di vagabondaggio. Il primo tipo che ho sviluppato è un rifugio temporaneo che possa ospitare fino a quattro persone, con un piccolo vano bagno e funge da prototipo per tutti gli altri. Le soluzioni costruttive che ho sviluppato in questo caso, infatti, sono state poi utilizzate nuovamente in tutte le altre unità. Il secondo bivacco è la lavanderia, collocata vicino ad alloggi studenteschi. Ciò permette di collegarne i servizi per la manutenzione e rende più sicuro, connesso e visibile il bivacco. Il terzo è la cucina, posta vicino al Kirkgate Market, il mercato centrale della città, che può fornire ai senzatetto donazioni e prodotti invenduti. Il quarto bivacco è la cappella, uno
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04. Bivacco Cucina, vicino al Leeds Kirkgate Market. Kitchen Bivouac, near Leeds Kirkgate Market. Michele Prendini
Francesca Dal Cin PhD candidate in Urbanism, Universidade de Lisboa. francescadalcin@fa.ulisboa.pt
Le inondazioni danneggiano le città costiere, come riportato dall’IPCC. La Commissione Europea ha dichiarato che le aree urbane, esposte alle inondazioni e all’erosione, sono spesso mal equipaggiate per adattarsi ai cambiamenti climatici. La ricerca si concentra sulla strada litoranea costiera portoghese, la parte più vulnerabile alle inondazioni, dove persistono sistemi fissi e flessibili che si interfacciano con la città consolidata. L’obiettivo è comprendere, attraverso l’analisi morfologica, le caratteristiche degli elementi che compongono il margine delle città portoghesi, esercizio necessario per la progettazione delle misure di adattamento.* a vulnerabilità1 delle aree urbane costiere alle inondazioni, causate dal cambiamento climatico, è elevata. A causa dell’imprevedibilità degli effetti dell’innalzamento del livello del mare sulle coste, in quanto non uniformi e poiché variano notevolmente da regione a regione e su una serie di scale temporali (Nicholls et al., 2010), sono esposti ogni anno milioni di persone e migliaia di miliardi di dollari di beni su scala globale (Hallegatte et al., 2011; Hanson et al., 2011). Focus della ricerca sono gli insediamenti urbani presenti sul litorale portoghese che si estende per 943 km, ed è il maggiormente esposto nell’Unione Europea, agli effetti dell’innalzamento del livello medio del mare.
Si stima che le aree colpite saranno 903,1 km2 nel 2050, esponendo 59.530 edifici e 145.550 residenti; dato che aumenta a 1.146 km2 (le aree a delta del fiume sono incluse nella stima) con 82.000 edifici e 224.830 residenti nel 2100 (Antunes et al., 2019). Il dato si aggrava in quanto nella zona costiera si trovano la maggior parte delle grandi città dove vive circa il 70% della popolazione nazionale, il dato aumenta fino all’80% nei mesi estivi, soprattutto nella regione dell’Algarve (Sud del Portogallo) a causa del turismo. Inoltre le principali attività economiche del Paese si trovano lungo la costa e contribuiscono a circa l’85% del prodotto interno lordo (PIL) nazionale (Andrade et al., 2002).
Il paesaggio costiero portoghese, oggi vulnerabile, ha subito negli anni successive e differenti trasformazioni urbane che hanno concorso a renderlo un sistema complesso, in cui persistono elementi fissi – architettonici, patrimoniali, religiosi, ma anche infrastrutturali – e flessibili – allestimenti temporanei per il tempo libero – che si interfacciano con la città storica e moderna. Lo stretto rapporto con il mare ha contribuito a definire l’immagine di questo territorio, che dal XIX secolo è stato considerato abitabile, e la formazione dell’elemento urbano della seashore street. Questa è uno spazio urbano lineare, da un lato limitato dagli edifici e dall’altro aperto verso l’oceano, dove si
01. Localizzazione Territoriale. Territorial localisation. Francesca Dal Cin
Il litorale dinanzi all’innalzamento del livello medio del mare Analisi morfologica delle città Portoghesi in riva al mare 76
L’IMMERSIONE
Seashore street facing average sea level rise.Morphological analysis of Portuguese waterfront cities’ edge As reported by the IPCC, flooding damage coastal cities . The European Commission stated that the urban areas, exposed to flooding and erosion, are often not equipped for adapting to climate change. The research focuses on the Portuguese seashore street, which is the most vulnerable part to flooding, where fixed and flexible systems that interface with the consolidated city persist. The aim is, through morphological analysis, to define and organise the characteristics of each element that composes the Portuguese cities’ edge, necessary to design the adaptation measures.* he vulnerability1 of coastal urban areas to flooding caused by climate change is high. Due to the unpredictable effects of sea level rise on the coast, as they are uneven and vary greatly from region to region and on a number of time scales (Nicholls et al., 2010), millions of people and thousands of billions of dollars of goods are exposed each year on a global scale. (Hallegatte et al., 2011; Hanson et al., 2011). The focus of the research is on the urban settlements of the Portuguese coast, which extends for 943 km and is the most exposed, in the European Union, to the effects of the rise in average sea level. It is estimated that the affected areas will be 903.1 km2 in 2050, exposing 59,530 buildings and 145,550 residents; as it increases to 1,146 km2 (river delta areas are included in the estimate) with 82,000 buildings and 224,830 residents in 2100 (Antunes et al., 2019). This data is aggravated by the fact that in the coastal area are located most of the large cities and where about 70% of the national population lives, the figure increases to 80% in the summer months, especially in the Algarve region (South of Portugal) due to tourism. In addition, the main economic activities of the country are located along the coast and contribute to about 85% of the national gross domestic product (GDP) (Andrade et al., 2002). The Portuguese coastal landscape, today vulnerable, has undergone various urban transformations throughout
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the years that have contributed to making it a complex system, in which fixed elements – architectural, patrimonial, religious, but also infrastructural – and flexible – temporary installations for the free time – that interface with the historical and modern city, persist. The close relationship with the sea has helped to define the image of this territory, which has been considered uninhabitable since the 19th century, and the formation of the urban element of seashore street. The seashore street is a linear urban space, on the one hand limited by buildings and on the other open towards the ocean, where spaces of aggregation such as squares and open spaces develop. Over the years there have been different forms of use of this space between the city and the water: from fishing to port activity, until today, when it is more characterized as a leisure space and tourist place. In the article two coastal cities, Cascais and Sesimbra (img. 01), are analyzed through the elementary decomposition of the elements that characterize their seashore street space (img. 02-03). The methodological approach proposed for the characterization of seashore street considers the knowledge of the site and its evolution necessary to understand the future evolutionary dynamics (Proença, 2018).
The process of formation of the seashore streets in Cascais and Sesimbra begins through the simple regularization of the coastal territory. In the first phase of occupation, to protect the inhabited nucleus from the dangers that came from the sea, such as piracy phenomena, several defensive elements, such as walls and fortresses, were built. The fortress of Sesimbra was built in 1568/1570 and the one in Cascais in 1642. Various systems of articulation between the city and the water such as ramps, stairs, piers or quays used for fishing activities were built in the free space between the city and the water. The beach, in fact, was the backdrop of the city and was used as a warehouse for boats, a place for drying fish and sewing nets. With the construction of the seashore street, which began in 1899 in Cascais and in 1934 in Sesimbra, the city’s scene began to be rethought; the public space became a place for walking and staying. In fact, for example, it is documented that the seafront of Sesimbra had Art Nouveau street furniture, fixed artefacts (benches and street lamps) and furniture (kiosks), until the storm of 1941 that destroyed the coast. Until the 1960s, together with the seashore street, infrastructure elements for fishing and port activities, such as the quay and pier, coexisted and were demolished to make room for tourist activity.
02. Cascais, Evoluzione morfologica. Cascais, Morphological Evolution. Francesca Dal Cin & formaurbis LAB
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sviluppano spazi di aggregazione come piazze e spazi aperti. Negli anni si sono susseguite differenti forme di utilizzo di questo spazio tra la città e l’acqua: dalla pesca all’attività portuale, oggi invece è maggiormente caratterizzato come spazio di svago e luogo turistico. Nell’articolo sono analizzate due città costiere, Cascais e Sesimbra (img. 01), attraverso la scomposizione elementare degli elementi che ne caratterizzano lo spazio della seashore street (img. 02-03). L’approccio metodologico proposto per la caratterizzazione delle seashore street considera necessaria la conoscenza del sito e la sua evoluzione per comprendere le dinamiche evolutive future (Proença, 2018). Il processo di formazione della seashore streets in Cascais e in Sesimbra, inizia attraverso la semplice regolarizzazione del territorio costiero. Nella prima fase di occupazione per proteggere il nucleo abitato dai pericoli che provenivano dal mare, quali fenomeni di pirateria, furono costruiti diversi elementi difensivi quali mura e fortezze. La fortezza di Sesimbra fu costruita nel 1568/1570 e quella di Cascais nel 1642. Diversi sistemi di articolazione tra la città e l’acqua quali rampe, scale, moli o banchine che servivano all’attività della pesca furono costruiti nello spazio libe-
ro tra la città e l’acqua. La spiaggia, infatti, era il retroscena della città ed era utilizzato come magazzino per le barche, luogo per l’essicazione del pesce e la ricucitura delle reti. Con la costruzione della seashore street, iniziata nel 1899 a Cascais e nel 1934 a Sesimbra, si inizia a ripensare la scena della città; lo spazio pubblico diviene luogo di passeggio e di permanenza. Infatti, per esempio, è documentato che sul lungomare di Sesimbra fossero presenti arredi urbani liberty, manufatti fissi (panchine e lampioni) e mobili (chioschi), sino alla tempesta del 1941 che distrusse il litorale. Fino agli anni ’60 del 900 coesistevano, insieme alla seashore street, elementi infrastrutturali per la pesca e le attività portuali, quali banchina e molo, che furono demoliti per fare spazio all’attività turistica. Lo spazio urbano consolidato della seashore street, oggi, a causa dell’innalzamento del livello medio del mare necessita di interventi di adattamento urbani efficaci per impedire l’allagamento, come previsto nello scenario 20502. Come si evince dalle piante e dalle sezioni sia nel caso di Cascais che di Sesimbra, lo spazio urbano che verrà colpito dall’innalzamento del livello medio del mare non sarà limitato esclusivamente allo spazio pubblico
della seashore street bensì l’allagamento comporterà maggiori vulnerabilità agli edifici prossimi della linea d’acqua. L’esercizio necessario della scomposizione degli elementi, nello spazio tra la città e il mare, è fondamentale per comprendere le relazioni spaziali e le dinamiche delle forme (Caniggia, 1963, p. 46) che compongono il sistema urbano complesso (Rossi, 1964, p. 60). La leggibilità costruita a partire dalla memoria morfologica e morfogenetica degli elementi che compongono la città è un valore della sua forma (Proença S. B., 2014, p. 34) che permette di delineare nuove regole per l’adattamento ai cambiamenti climatici. L’adattamento dei sistemi urbani richiede la modifica strutturata della dimensione spaziale (Biesbroek, 2009) e legislativa in modo coordinato con le pratiche del governo del territorio di carattere ordinario, tutto ciò è possibile attraverso la conoscenza del territorio e degli eventi climatici (Maragno, 2020). La lettura della vulnerabilità dei territori costieri colpiti dalle inondazioni richiede dati e informazioni che molte volte risultano incompleti, l’utilizzo dell’analisi morfologica può fornire ai pianificatori e progettisti strumenti utili a definire misure di adattamento urbane efficaci.*
03. Sesimbra, Evoluzione morfologica. Sesimbra, Morphological Evolution. Francesca Dal Cin & formaurbis LAB
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L’IMMERSIONE
sible through knowledge of the territory and climate events (Maragno, 2020). Reading the vulnerability of coastal areas affected by flooding requires data and information that are often incomplete, the use of morphological analysis can provide planners and designers with useful tools to define effective urban adaptation measures.* NOTE 1 – Secondo la definizione dell’IPCC (1995), la vulnerabilità di un territorio ai cambiamenti climatici è misurata dal danno potenziale che può essere prodotto e dal grado di modifica del sistema. According to the IPCC definition (1995), the vulnerability of a territory to climate change is measured by the potential damage that can be produced and the degree of system change. 2 – Negli scenari illustrati nelle immagini 02, 03, 04, il livello +5 metri d’altezza (dipendente dalla combinazione di differenti fattori, quali la proiezione dell’innalzamento del livello del mare, le tempeste, le inondazioni improvvise, gli effetti del ciclo delle maree e l’ondulazione) è condizionato dalle informazioni topografiche disponibili ed è stato precedentemente testato dal team di ricerca del progetto “Urbanized Estuaries and Deltas. In search for a comprehensive planning and governance. The Lisbon case”. In the scenarios shown in images 02, 03, 04, the level +5 meters (depending on the combination of different factors, such as sea level rise projection, storms, flash floods, tidal cycle effects and ripple) is conditioned by the available topographic information and has been previously tested by the research team of the project “Urbanized Estuaries and Deltas. In search for a comprehensive planning and governance. The Lisbon case”.
04. Cascais e Sesimbra, scenario 2019 – 2050 SLR. Cascais and Sesimbra, scenario 2019 - 2050 SLR. Francesca Dal Cin & formaurbis LAB
The consolidated urban space of the seashore street, today, due to the rise in the average sea level requires effective urban adaptation measures to prevent flooding, as foreseen in the 2050 scenario2. As can be seen from the plans and sections in the case of both Cascais and Sesimbra, the urban space that will be affected by the rise in average sea level will not be limited exclusively to the public space on the seashore street, but the flooding will lead to greater vulnerability to the buildings next to the water line. The necessary exercise of decomposition of the elements, in the space between the city and the sea, is fun-
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damental to understand the spatial relationships and dynamics of forms (Caniggia, 1963, p. 46) that make up the complex urban system. (Rossi, 1964, p. 60) The legibility built from the morphological and morphogenetic memory of the elements that make up the city is a value of its form (Proença, 2014, p. 34) that allows to outline new rules for adaptation to climate change. The adaptation of urban systems requires the structured modification of the spatial dimension (Biesbroek, 2009) and the legislative dimension in a coordinated way with the practices of ordinary territorial government, all this is pos-
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BIBLIOGRAFIA - Antunes, C., Rocha, C., Catita, C. (2019), “Coastal flood assessment due to sea level rise and extreme storm events: A case study of the atlantic coast of Portugal’s mainland” in “Geosciences”, n. 9(5), pp. 6-8. - Biesbroek, G.R., Swart, R.J., Van Der Knaap, W.G. (2009), “The mitigation–adaptation dichotomy and the role of spatial planning” in “Habitat Int”, n. 33, pp. 230-237. - Caniggia, G. (1963), “Lettura di una città: Como”, Centro Studi Storia Urbanistica. - Hallegatte, S., Ranger, N., Mestre, O., Dumas, P., Corfee-Morlot, J., Herweijer, C., & Wood, R. M. (2011), “Assessing climate change impacts, sea level rise and storm surge risk in port cities: A case study on Copenhagen” in “Climatic Change”, n. 104(1), pp. 113-137. - Hanson, S., Nicholls, R., Ranger, N., Hallegatte, S., CorfeeMorlot, J., Herweijer, C., Chateau, J. (2010), “A global ranking of port cities with high exposure to climate extremes” in “Climatic Change”, n. 104, pp. 89-111, documento disponibile su https://doi. org/10.1007/s10584-010-9977-4 (ultimo accesso luglio 2020). - IPCC (1996), “Climate Change 1995: A report of the Intergovernmental Panel on Climate Change” in “Environmental Science & Technology”, n. 48(8), pp. 4596-4603. - Maragno, D. (2020), “Le città e il cambiamento climatico: strategie possibili”, in “Dialoghi urbani”, rivista online del gruppo Città & Territorio dell’Unione Culturale, documento disponibile su https://www.unioneculturale.org/2020/09/dialoghi-urbani/ (ultimo accesso luglio 2020). - Nicholls, R.J. (2010), “Impacts and responses to sea-level rise” in Church, J.A., Woodworth, P.L., Aarup, T., and Wilson, W.S., “Sea-level Rise and Variability”, Wiley-Blackwell, Chichester, United Kingdom, pp.17-43. - Proença, S.B. (2014), “A resistência da forma urbana. A persistência dos traços na forma da cidade. Em O Tempo e a Forma” in “Cadernos Murb Morfologia Urbana”, pp. 33-49. - Proença, S.B. (2018), “Reading and interpreting Portuguese Atlantic seashore streets in sea level rise context. Transitional Streets” in “Narrating Stories of Convivial” Streets, pp. 1-8. - Rossi, A. (1964), “Considerazioni sulla morfologia urbana e la tipologia edilizia”, pp. 59-69, in Caja M., Malcovati S. (2010), “Tipologia architettonica e morfologia urbana”, Lampi di Stampa, Cologno Monzese. - Viganò, P. (1999), “La città elementare”, SKIRA, Milano.
Magda Minguzzi Senior Lecturer e coordinatrice scuola di dottorato. School of Architecture, Nelson Mandela University. magda.minguzzi@mandela.ac.za
KhoiSan heritage sites, South Africa. A project of cooperation in between the Nelson Mandela University and the indigenous community of the Metropolitan area of Port Elizabeth The long history of repression experienced by the First Indigenous Peoples of South Africa, the KhoiSan, is dense and seems to have no ends: started with the arrival of the Dutch in 1652, confirmed through the apartheid regime, and still largely in place today. This escalation that started with the exclusion of the indigenous people from the use of the territory, the resources, and sacred sites, and has led to the current situation of separation between the places of pre-colonial cultural heritage and the society to which this heritage belongs: the indigenous one. In fact, the KhoiSans don’t have the right to their sacred and heritage places, even of access. But it does not end here, because with the imposition of the colonialist narrative the places of memory have been covered under a veil of total forgetfulness, ignored and currently mostly unknown. Starting from the concept of "origin" and “palimpsest” (Corboz, 1983) we will explore techniques of cultural re-appropriation and de-colonization of the territory practiced at Nelson Mandela University (Port Elizabeth). The case study is a research project of which the KhoiSan Chiefs are co-authors. This work is based on the research supported in part by the National Research Foundation of South Africa. Grant Numbers: 116254.*
l lavoro di ricerca sui siti precoloniali situati nella provincia dell’Eastern Cape, in Sud Africa, ha avuto inizio nel 2015, l’anno successivo al mio arrivo a Port Elizabeth, alla Nelson Mandela University, e attualmente ancora in corso. Qui, con un gruppo di ricerca composto da capi del popolo KhoiSan, studenti e colleghi – utilizzando un metodo partecipativo1 e multidisciplinare – visitiamo e documentiamo i luoghi che i capi indicano essere appartenenti alla loro cultura (img. 01), come per esempio grotte con dipinti rupestri, resti di strutture per la pesca costruite lungo la costa, parti di foreste con sorgenti d’acqua che la comunità riconosce come appartenenti ai loro avi, e in ogni caso luoghi dove sono
stati compiuti particolari eventi o ritrovamenti significativi (img. 02). Siti con cui i capi vogliono ristabilire il legame interrotto a causa della lunga storia di repressione subita, come verrà descritto più avanti nel testo. L’obbiettivo finale della ricerca è quello di fondare il primo archivio del patrimonio KhoiSan nella regione dell’Eastern Cape. È importante sottolineare che le visite ai siti condotte con i capi sono momenti unici e forse saranno per lungo tempo irripetibili, in quanto alcuni di questi luoghi per essere raggiunti richiedono l’attraversamento di terreni privati, e l’accesso è legato al permesso da parte dei proprietari terrieri. Questo processo è a volta difficoltoso, perché nasconde tutta la paura dell’esproprio
01. Capi del popolo KhoiSan e membri della comunità parte del gruppo di ricerca con Dr. Magda Minguzzi. KhoiSan Chiefs and community members part of the group of research, with Dr. Magda Minguzzi. Ernst Struwig
Siti del patrimonio culturale del popolo KhoiSan Un progetto di cooperazione tra l’Università Nelson Mandela e la comunità indigena di Port Elizabeth, Sud Africa 80
L’IMMERSIONE
della terra, legata alla presenza di segni inconfondibili appartenenti al patrimonio culturale indigeno. Una paura soprattutto legata alla mancanza di una chiara legislazione. Questo però cela anche una triste verità: il popolo KhoiSan non ha alcun diritto sui propri luoghi sacri e sul patrimonio. Margini: storico, sociale e fisicoterritoriale L’arrivo dei colonialisti2 – prima gli olandesi seguiti dagli inglesi – a partire dal 1652, e la successione di eventi a seguire, ha significato per i KhoiSan, l’inizio di una escalation di diseguaglianze e oppressione: una lenta e penosa perdita di qualsiasi diritto e libertà di espressione, di qualsiasi pratica legata alla loro cultura, stile di vita3 e religione. In altre parole ha portato una drastica interruzione del loro legame indissolubile con la terra e le sue risorse che è alla base della filosofia di vita indigena. Il primo atto di marginalizzazione territoriale iniziò con la delimitazione delle terre, attraverso l'uso di recinzioni, su cui si trovavano risorse naturali fondamentali per la vita degli indigeni e del loro bestiame. Le delimitazioni di territorio attraverso le proprietà private si accompagnarono al divieto di usare e attraversare le terre e visitare i siti sacri, come grotte e rifugi con dipinti rupestri; e successivamente, dopo il 1800, in generale, di muoversi liberamente sul territorio.
in Sud Africa i luoghi dell’origine sono diventati, col passare del tempo, margine e fragilità che si palesa a più livelli: storico, sociale, e fisicoterritoriale
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Qui, in Sud Africa, come altrove, il principio legale che fu applicato dai colonialisti per occupare i terreni è il “di fatto di Terra Nullius”: terra che non appartiene a nessuno. Siccome i terreni non erano delimitati secondo un uso occidentale, era una ragione sufficiente per dichiararli liberi di essere occupati. Un approccio di potere nei confronti del territorio, che affonda le sue radici nella proprietà terriera e in quella privata diffusasi in tutta Europa, a partire dalla rivoluzione agraria e proseguito con quella industriale. Un fenomeno strutturato sul capitalismo e caratterizzato da una visione egocentrica del territorio (Jakob, 2009; Bird, 1996). I luoghi della memoria allora col tempo si sono fatti irraggiungibili, sono diventati luoghi al margine territoriale e sociale; sospesi, in una dimensione spazio-temporale al limite, dove è solo la memoria tramandata da generazione a generazione attraverso la narrazione a mantenerne un contatto vivo. L’atto successivo di questo crescendo di repressione inizia con il regime dell’apartheid, ufficialmente in vigore dal 1948 al 1994, ma le cui leggi in sostanza formalizzarono una situazione che era già da molto tempo pratica diffusa. Qui ci interessa evidenziare in particolare la Population Registration Act, 1950 che richiedeva a ogni cittadino di essere classificato e registrato secondo tre principali gruppi razziali: neri, bianchi e “misti”. Ed è con que-
sta legge che il popolo KhoiSan venne fatto rientrare nelle categorie "mista" assieme a malesi e cinesi, e dunque il loro gruppo etnico venne ufficialmente cancellato. A tutt’oggi manifestazioni e movimenti pacifici si battono per eliminare questa classificazione che rimane per la maggior parte ancora in uso. Parallelamente al progetto di estinzione etnica, il sistema di segregazione venne applicato anche all’organizzazione spaziale della città, suddivisa essenzialmente in tre aree principali: il centro degli affari, dove tutti potevano recarsi durante il giorno per lavoro (se in possesso di permesso di lavoro e di pass4), la periferia localizzata in zone privilegiate dal punto di vista territoriale dove i bianchi risiedevano, e le township dove neri e “misti” si dovevano recare subito dopo il lavoro. Le aree di residenza dei bianchi erano divise dalle altre attraverso l’uso di pesanti fasce infrastrutturali. E dopo quasi trent’anni di democrazia la situazione non è cambiata di molto e i KhoiSan continuano a vivere in una situazione di segregazione spaziale. Vediamo allora chiaramente come il colonialismo lentamente ma inesorabilmente ha instaurato una politica delle marginalizzazione del popolo indigeno e dei loro luoghi, sottraendoli di proposito da qualsiasi forma di narrativa sia essa storica, del patrimonio architettonico e culturale, del bene comune.
02. Visita ad una grotta con arte rupestre. Nella foto Lucy Vosloo parte del gruppo di ricerca. Site visit at a cave with rock art. In the picture Lucy Vosloo, component of the group of research. Magda Minguzzi
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03. Mappa del Sud Africa con i siti pre-coloniali con le trappole per la pesca (in rosso) e indicazione dell’area di ricerca (quadrato tratteggiato). Maps of South Africa with fish trap’s sites (in red). Indicated also the area of research (dotted square). Magda Minguzzi
Dell’origine André Corboz (1983) ci insegna che il territorio può essere visto come un palinsesto o come il risultato di diversi processi che prendono forma nel corso del tempo. Se da un lato il territorio si modifica a causa di processi spontanei, dall’altro subisce modifiche causate dall’uomo. Gli abitanti di un territorio cancellano e modificano incessantemente i segni del suolo e questi interventi rendono il territorio come una sorta di manufatto. Qualcosa che è paragonabile a un progetto collettivo che si stabilisce tra la superficie topografica e la popolazione insediata nelle sue pieghe. Nel nostro caso possiamo certo affermare che l’origine del territorio Sud Africano è stato plasmato dai KhoiSan. Ci sono tracce indelebili, luoghi, materiali di archivio che parlano di questa origine. Quello che manca è il riconoscimento dell’importanza di questi luoghi come appartenenti al patrimonio dell’umanità. Siamo testimoni di un doppio scollamento: dei luoghi con la loro cultura di appartenenza e, più in generale, dei luoghi con la memoria storica. Crediamo allora che processi di riappropriazione culturale – ovvero atti concreti che portino ad una de-colonizzazione del territorio – siano fon-
damentali per instaurare un equilibrato rapporto con l’origine, con i luoghi fondanti. Attraverso il nostro lavoro di ricerca, basato su inclusività, metodo partecipativo e interdisciplinare, cerchiamo di ri-attivare quella sospensione spazio-temporale che la storia colonialista ha imposto. Atti che vogliono anche riattivare il dibattito attorno al valore insito della cultura indigena e dei suoi luoghi, in armonia con il territorio e l’ambiente, e fondati su principi di sostenibilità. Dal 2017-2019 ci siamo concentrati sullo studio dei siti costieri, in particolare sulle trappole per la pesca (img. 03). Probabilmente le più antiche strutture create dall’uomo in questa parte del territorio, rimaste parzialmente intatte, realizzate con pietre assemblate a formare muri, alti non più di 1 metro, per lo più a pianta circolare o semi-circolare, disposte nella zona intercotidale costiera. Queste strutture, sfruttando il cambio di maree, intrappolano i pesci di piccola-media taglia che un tempo venivano catturati con l’uso di lance. Gli archeologi ci insegnano che sono state costruite da comunità che vivevano lungo la costa e che i colonialisti di insediamento chiamarono Strandlopers: colui che cammina lungo la spiaggia.
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Non è difficile immaginare che il camminare dei KhoiSan lungo il percorso, la linea, che è rappresentata dalle coste, con l’alternarsi di lunghe spiagge e zone rocciose, era legato all’osservare e studiare sistematicamente per conoscere approfonditamente gli elementi naturali: correnti marine, maree e cicli lunari, movimenti astrali, venti. E naturalmente cicli e migrazioni stagionali di pesci, mammiferi e animali commestibili. Una sapienza e una integrazione olistica – quella verso gli elementi naturali e animali – che era alla base della vita lungo la costa. E da qui questi elementi architettonici hanno iniziato a punteggiare lo spazio tra terra e acqua, e a creare una successione di “eventi”, punti di riferimento del vasto territorio costiero. La prima occasione per mettere in pratica concretamente atti di decolonizzazione territoriale che coinvolgessero un vasto pubblico, è stata la performance internazionale The Spirit of Water del 2017. Un evento dove contestualmente, in diverse città costiere, artisti5 in collaborazione con comunità locali hanno sviluppato diverse performance al fine di muovere l’attenzione pubblica, attraverso l’uso dell’arte come mezzo, sulle minacce che incombono sugli ambienti marini:
L’IMMERSIONE
04. Staff e studenti della scuola di Architettura, Nelson Mandela University, durante il rilievo delle trappole per la pesca pre-coloniali a Cape Recife, Port Elizabeth. Staff and student from the School of Architecture of the Nelson Mandela University during the site survey of the fish-traps in Cape Recife, Port Elizabeth. Magda Minguzzi
inquinamento, eccessiva pesca e costruzione abusiva delle coste. E in Port Elizabeth abbiamo deciso di esplorare assieme al tema menzionato, quello del patrimonio culturale, della memoria e senso di appartenenza. Il 6 maggio 2017, il giorno stabilito internazionalmente per l’esecuzione della performance, i rappresentanti del popolo KhoiSan (come discendenti degli Strandlopers) hanno praticato antichi rituali, come la "cerimonia di purificazione" del sito e dell’anima dei partecipanti, usando l'incenso tradizionale. Momento culminante è stato l’incontro di tutti i presenti – comunità KhoiSan, studenti e staff della Nelson Mandela University, e in generale coloro che hanno avvertito l’urgenza di partecipare a questo evento unico – davanti al fuoco, simbolo ancestrale. Ognuno ha alimentato il fuoco, e successivamente si è seduto formando un cerchio, per sottolineare l'importanza di essere presenti e condividere quel momento e luogo specifico. La performance è stata un atto metaforico di connessione tra la realtà che ci è contemporanea – distinta dall’inquinamento e sfruttamento delle risorse –, e un tempo passato, in cui gli esseri umani erano in armonia con Madre Terra e l'oceano; e per i KhoiSan un'indagine sulle
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loro radici e sul senso di appartenenza a questi siti, oggi. Gli outputs del rituale sono stati un cortometraggio prodotto dalla Nelson Mandela University e proiettato internazionalmente, una mostra itinerante che è servita come strumento di condivisione e dibattito tra i membri KhoiSan e di educazione per i bambini delle scuole che l’hanno visitata numerosi, e una video-intervista divenuta parte del programma MOOC della University of Southampton (UK). Il passo successivo ci ha visti impegnati nel rilievo scientifico e ridisegno di tutti i siti con trappole per la pesca situati nell’Eastern Cape. Una lavoro di documentazione che ha contribuito non solo a sviluppare la conoscenza e sensibilità degli studenti della scuola di architettura (img. 04) ma anche delle autorità locali designate ignare della presenza di queste strutture. In conclusione, questa ricerca, a noi esterni ma indigeni a nostro modo, ci sta dando la possibilità di sentirci una comunità unita, nell’assistere al "ritorno a casa" dei KhoiSan, nel loro territorio, perché in un certo senso, nel corso dei secoli, sono diventati "stranieri" nella loro terra e devono combattere quotidianamente per vedere riconosciuti i loro diritti.*
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NOTE 1 – Ci tengo a sottolineare questo aspetto della “partecipazione” della comunità indigena in ogni fase della ricerca: dall’indagine preliminare alla diffusione dei risultati. Lo scopo è quello di ottenere e trasmettere una visione e un messaggio che sia il più possibile condiviso e dunque che rifletta la cultura e il pensiero KhoiSan. 2 – Il Sud Africa fu governato dagli Olandesi dal 1652 al 1795 e dal 1803 al 1806. La sovranità inglese subentrò dopo il Congresso di Vienna del 1815. 3 – Prima dell’inizio della politica colonialista di insediamento, quello del popolo indigeno era uno stile di vita basato essenzialmente su movimenti nel territorio – nomadismo delimitato territorialmente e transumanza – legati alle stagioni e alle risorse naturali di sostentamento, come fonti di acqua, utili per le popolazioni e per gli animali allevati, animali selvatici da cacciare, piante e radici da utilizzare come cibo e come medicine. 4 – Il pass-book, era una sorta di passaporto interno progettato per separare la popolazione, gestire l'urbanizzazione, i movimenti durante il giorno nel territorio, e allocare il lavoro. Prima degli anni '50, questa legislazione si applicava in gran parte agli uomini sotto la classificazione razziale di neri o “misti”, e si tentò di applicarla alle donne negli anni '10. Il suo uso è stato effettivamente concluso nel 1986. 5 – Partecipanti al progetto: Benin, Ouidah: Flavia Vaccher; Croazia, Zara: Josip Zanki, Matija Zdunić; Italia, Venezia: Davide Skerlj; Messico, San Luis Potosí: Manolo Cocho with DRY collective group; South Africa, Port Elizabeth: Magda Minguzzi, KhoiSan community based in Mandela MetroPort Elizabeth; United States, Brooklyn: Ethan Cornell, Justin Frankel, Megan Suttles, Jimi Pantalon, eXtll. BIBLIOGRAFIA - AA.VV., (2009), “Burdened by race: Coloured identities in southern Africa”, UCT press, Cape Town. - Augé M. (1993), “Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità”, Elèuthera, Milano. - Bartolomei, E. (2017), “Dieci comandamenti in una mano e la spada nell’altra”, in Bartolomei, E., Carminati, D., Tradardi, A. (a cura di), “Esclusi: la globalizzazione neoliberista del colonialismo di insediamento”, Derive Approdi, Roma, pp. 15-20. - Bird, D. R. (1996), “Nourishing terrains: Australian Aboriginal views of landscape and wilderness”, Australian Heritage Commission. - Cavanagh, E. (2013), “Settler Colonialism and Land Rights in South Africa”, Palgrave Macmillan, London. - Corboz, A. (1983), “Il territorio come palinsesto”, in Viganò P. (1998) (a cura di), “Ordine sparso. Saggi sull'arte, il metodo, la città e il territorio”, Franco Angeli, Milano, pp. 177-191. - Jakob, M. (2009), “Il Paesaggio”, Il Mulino, Bologna. - Lange, M., E., Müller Jansen, L., Fisher, R. C., Tomaselli, K. G., Morris, D. (2013), “Engraved landscape. Biejse Poort: many voices”, Multiprint Pretoria. - Veracini, L. (2017), “Introduzione al colonialismo di insediamento” in Bartolomei, E., Carminati, D., Tradardi, A. (a cura di), “Esclusi: la globalizzazione neoliberista del colonialismo di insediamento”, Derive Approdi, Roma, pp. 33-44. - Wolfe, P. (2006), “Settler colonialism and the elimination of the native”, in “Journal of Genocide Research”, vol. 4, n. 8, pp. 387-409. PER APPROFONDIRE - https://ebet.mandela.ac.za/EBET-News/Origin-of-Things - https://oceansciences.mandela.ac.za/Engagement/TheSpirit-of-Water - https://vimeo.com/287152801
Roy Wroth Adjunct professor, University of Tennessee at Chattanooga. roy@wroth.co
Quando l’umano supera il reale L’adattamento descrive il nostro “annidamento” nel sistema biologico terrestre e le nostre radicali capacità di superare e trasformare quello stesso sistema. Le nuove teorie sull’adattamento emergenti nel dominio della biologia si dimostrano promettenti contributi a un approccio sistemico alla città e a nuove metafore con cui immaginare e intervenire nelle aree urbane. L’adattamento come metafora urbana possiede un passato travagliato, che necessita di riconsiderare i modi in cui il linguaggio capitalista ha influito sulla città. Gli attuali modelli, tra cui l’“approccio per capacità” di Amartya Sen, anticipano le opportunità che questa nuova prospettiva potrebbe offrire all’urbanistica.* n L’architettura della città, Aldo Rossi went out of his way to signal disapproval for some terms that were just entering wide usage and have since become nearly ubiquitous: “urban organism” and “urban fabric”. It seems Rossi felt that the city lacked a specific kind of self-unity and organic animation that the analogies suggest. If anything, he was drawn to the exquisite corpse as a metaphor; with the Analogous City he was concerned not with finding totalizing myths to describe the city, but with understanding the city’s many analogical patterns as they emerged over its history (Rossi, 1982).
The urban organism, a tangential element to the “naive functionalism” Rossi critiqued in the 1960s, has now taken a central place in our imagination and conceptualization of the city. The idea of the city as an organism following natural laws, or natural processes, such as decay, contagion, or adaptation, has a troubled history. Natural metaphors may be helpful in building a science of the city; but it is certain that they also become players in the urban dynamic, and take on lives of their own. The study of urbanism reaches a sobering moment of maturity when it realizes that such ideas are more securely
placed among the materials studied than among the tools of analysis. To frame something as “real” is not an objective or timeless scientific determination, rather a bracketing within currently accepted terms of a human conversation. Humans contribute to the real, imagining and then making artifacts that did not exist in, and could not come from, any process in nature. When we make new artifacts, we fundamentally change the world around us, both its contents and the procedures of its operation going forward. Even as every creative act and every human product may advance the state
01. Guancheng district, Dongguan City, Guangdong, China. Roy Wroth
When the Human exceeds the Real
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of the ‘real’, the focus here is the city, a composite creation of great complexity, including tangible and intangible elements, persisting over time, and engaging with its environment. The city’s lifespan, the whole urbanization cycle, includes settlement, the division and aggregation of land, structuration and densification, population flows, the propagation of urban cultures, forms of expansion, and dissolutions. In the course of becoming human, we have gradually exceeded the mechanisms of evolution. Concepts of survival and selection, whatever their merits for the rest of nature, have ceased to solely determine outcomes for the human species. For a few millennia now, we have travelled a more complex path, transiting our biological heritage, our extraordinary instrumental and linguistic capabilities, both individual and collective, and our status as self-aware protagonists1. Adaptation is a framework for simultaneously understanding our embeddedness in the Earth’s biological system, and our radical capabilities to exceed and transform that system. Across the natural sciences, we are now recognizing that the capability to exceed current conditions is widely shared across all forms of life and in fact may be fundamentally constitutive of life itself. Smith and Morowitz, in their towering 2016 work The Origin and Nature of Life on Earth, position adaptation as primarily a systems property unifying agents and their environments. The authors argue that life is a single global phenomenon, comprising both states (of matter) and processes, and forming the biosphere (the fourth geosphere). Instances of adaptation in individuals and species take a supportive role relative to the dynamism inherent in the system’s fundamentals. It is a subtle but profound change, relinquishing the extraordinary, singular role that adaptation (viz. natural selection via random mutation of individuals) played in conventional Darwinian theory (Smith and Morowicz, 2016). In defense of that conventional definition of adaptation, the physical sci-
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new approaches to adaptation in the life sciences can provide alternate metaphors for urbanism
02. Yue Man Building, Kwun Tong district, Hong Kong SAR, China. Roy Wroth
ences have been fighting a long rearguard battle with the most fixed of ideas: teleology. Long considered incompatible with the scientific method, the idea of a teleological cause, the image of a teleological state, nevertheless haunts all popular science explanations of evolution, and much of its professional discourse as well (Deacon, 2012). Even at its most restrained, telos reveals itself in the idea that prevailing variations must be “better”, more fit, than those they replaced2. Systems biology critics to adaptation do not deny the role played by mechanisms of chance mutation and selection, rather they question its central place in the narration of life’s origins and the maintenance of the biosphere.
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Textbook science paints a picture of life as fragile, unique and miraculous, both at its onset and in its typical state. Such determinism is misleading, not because it is somehow false, but because it is simply not enough. Life might have taken, might be taking, so very many deterministic paths, and not one of them is, for scientists like Stuart Kauffman, robust enough to explain the persistent stability of Earth’s biosphere. These thinkers propose an alternate model of the origins and persistence of life on Earth, founded upon the inherent resilience of life’s energy flows, chemistries, and molecular mechanics. Clearly the new “systems biology” view of adaptation also makes more
social space is the locus of human participation in adaptation; social space is “where” the human exceeds the real room for the messy mix of culture, technology, and nature that now frames human life. Adaptation as metaphor – social, cultural and political ideas and values that shape our distribution of resources, our use of technology, and our choices about effort and risk – all of these are the levers of further human growth and the perpetuation of the species. As we increase our reliance on social relations, cultural frameworks, and technology to maintain our basic physical needs (and this is practically the definition of urbanization), social space becomes the vital dimension of our environment, and in some respects becomes an environment of its own. We are tempted to look for analogues
of the evolutionary process within social space; here adaptation may be operative and it may be metaphor, but it certainly plays by different rules than those governing it in the physical world. Paulo Freire (2014) describes agency as a series of “limit-acts” that free us from “limit-situations”. Social space is the locus of human participation in adaptation; social space is “where” the human exceeds the real. Urban space is physical, but not “natural”. It is space that has been produced - made or remade in the image of human sociality, as a container for social meanings and social relations. Henri Lefebrve insists that all space is produced, and de Certeau seems to add that even “found” space is “made” space, because in the act of reading the space we frame it in human (social) terms, and thereafter treat it as part of “our” world (Lefebrve, 1992; de Certeau, 2011). For Merleau-Ponty (2013) the character and even dimensions of space are entirely overtaken by our perceptions and projections, always in the service of “making sense”, and all meaning is finally social meaning3. As we remake physical space, the practices of urbanism are still essential creative acts that expand the conditions for life, but we cannot return, as Rossi admonished, to a “naive functionalism”:
we manipulate physical space “as” social space, and “for” social purposes. We can now reassess the validity of adaptation as mechanism and as metaphor in the urban dynamic. Is the city a “natural” phenomenon, an appropriate subject of objective scientific study? Can we expect adaptation, or some close analogue, to be at work upon the “body” of the city? We are each ethical beings, capable often of conceiving of and committing to our own agency in the “becoming” of the world around us. Subjectively, we experience these moments of participation as empowering acts of self-liberation, but to an outside observer, it might appear that we are acting as predictable members in a larger system, especially if our values and motivations stem from a finite number of common paradigms. From afar, such a system will exhibit the characteristics of a “natural” system, and surely the mechanism of adaptation, or some close analogue of it, can be observed at work, and surely some forms of scientific observation are suited to this system, and could contribute positively if we proceed with some modesty. Like the rest of human institutions, capitalism operates through metaphor, a cluster of empowering and disempowering stories that pave the
03. View from Ruanchung School, Guancheng district, Dongguan City, Guangdong, China. Roy Wroth
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way for a now almost universal subjection of local and communal values and sovereignties to the global imperatives, not of a monarch but of a system of financial networks. There is a fully-fledged Darwinism embedded in the rhetoric of capitalism, one whose effect is to declare (with the certitude of Natural Law) the inevitability of the market as arbiter of fitness in all human affairs, including the urban realm. Even very sympathetic observers seem unable to decouple the social and the economic in the modern (capitalist) urban paradigm, like Luis Bettencourt “cities as interaction networks” (2013), or David Engwicht “cities exist to maximise exchange” (2007). The metaphor of “city as organism” is an integral element in the legitimating narratives of capitalism. In this view, the unifying “‘organic” element uniting the modern city (whose presence Rossi dared to doubt) might well be sovereign capital. Adaptation, as an “organic” metaphor, ends up legitimating the power of economic interests, in a language that sidesteps the political4. To question the alliance of urbanism and economics, as many have done at least since May ’68 (Dunham-Jones, 1998), does not only mean to make room for various socialisms within urban policy objectives, it means perhaps to question
the work of the next century will be to rebalance city and countryside based on the sober facts of resilience
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much of urbanization itself: its forms and its purported inevitability. Maybe the new science of systems biology will provide alternate metaphors for the city. Adaptation may emerge as a metaphor of co-creation, reimagined in support of the creative capabilities of local socialities. Altruism may be more free to engender new resource flows, in the service of social aims, and more likely to be embodied and reinforced in the patterns of urbanism and cultural practice (Ostrom, 2015). We possess the capabilities to defeat scarcity, both as a factor in lived experience and as a political metaphor fueling conflict, disenfranchisement and the underdevelopment of human beings. The consequences for urbanism are profound: reexamining the drivers and limits of urbanization as a human phenomenon, rather than a phenomenon of global capitalism may lead us quite far from the consensus positions of present-day “realists” on nearly every critical dimension of the urbanization cycle. Finding a clearer view of human participation in the processes of life can lead us to new and recovered ideas in the political realm, which could center on Amartya Sen (2001) and Martha Nussbaum’s (2011) capabilities framework. And the city will retain its central role: supporting human experience through the concerted elimination of obstacles to human development. We must claim urban space, as it is produced, or perhaps recovered from economic indenture, for human use, as human “habitat”. We must assert “rights to the city” even as we dismantle some of capital’s unconscious privileges, so deeply embedded in city life. The voices of an emerging ecological urbanism suggests that the work of the next century will be to rebalance city and countryside based on the sober facts of resilience, free from the fictions of the growth economy. In the vision of thinkers like Paola Viganò, a “both/and” future awaits us, with human habitation at many densities, under many political paradigms, and in a range of engagements with the cybernetic. As we look within, reexamining some of the
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metaphors of urbanism, we also look out, beyond the established urbanism of late capitalism to other urbanisms: to the favela, to the metropolitanism(s) of the global south, and to various other opportunities for the reinvention or rediscovery of the urban within the exurban (Viganò, 2013).* NOTE 1 – We claim these capabilities as distinguishing marks of the human species, yet we find them across the spectrum of life. For the use of tools, Stewart Kauffman (1993) states that all living organisms evolve by modifying their environments; and Lee Smolin (1999) believes that a principle of adaptivity animates nature at the quantum and cosmological scales. For the use of language, see Roger Penrose (2000), for whom the concepts of signal and enunciation are fundamental to the biosphere itself and even to cosmology. 2 – And in the concept of a “current state” of evolution, the snapshot that shows progress toward an end, or at least ”forward” (Deacon, 2012). 3 – Beyond social space are the new spaces of the cybernetic, where we produce social meanings with almost no anchor in the physical. For now the definition of the real still centers on our precarity as biological creatures (Haraway, 2016). 4 – Ivan Illich (1990) calls for a politics restored to its full function, in which disabling myths have been exposed. BIBLIOGRAFIA - Bettencourt, L. (2013), “The Kind of Problem a City Is”, Santa Fe Institute Working Papers 2013-03-008. - De Certeau, M. (2011), “The Practice of Everyday Life”, University of California Press, Oakland, CA. - Deacon, T. W. (2012), “Incomplete Nature: How Mind Emerged from Matter”, W. W. Norton & Company, New York. - Dunham-Jones, E. (1998), “The Generation of ‘68-Today; Tschumi, Koolhaas and the Institutionalization of Critique,” Proceedings of the 86th ACSA Annual Meeting, 1998, Magasin for Modern Arkitektur, 1999. - Engwicht, D. (2007), “Reclaiming Our Cities and Towns: Better Living with Less Traffic”, New Catalyst Books, Gabriola, BC. - Freire, P. (2014), “Pedagogy of the Oppressed: 30th Anniversary Edition”, Bloomsbury Publishing USA, New York. - Haraway, D. J. (2016), “Staying with the Trouble: Making Kin in the Chthulucene”, Duke University Press, Durham, NC. - Illich, I. (1990), “Tools for Conviviality”, Marion Boyars, London. - Kauffman, S. A. (1993). “The Origins of Order: SelfOrganization and Selection in Evolution”, Oxford University Press, New York. - Lefebvre, H. (1992), “The Production of Space”, WileyBlackwell, Hoboken, NJ. - Merleau-Ponty, M. (2013), “Phenomenology of Perception”, Routledge, London. - Nussbaum, M C. (2011). “Creating Capabilities”, Harvard University Press, Cambridge, MA. - Ostrom, E. (2015), “Governing the Commons”, Cambridge University Press, Cambridge, England. - Penrose, R. (2000), “The Large, the Small and the Human Mind”, Cambridge University Press, Cambridge, England. - Rossi, A. (1982), “L’architettura della città”, MIT Press, Cambridge, MA. - Sen, A. (2001), “Development as Freedom”, Oxford University Press, New York. - Smith, E., Morowitz, H. J. (2016), “The Origin and Nature of Life on Earth: The Emergence of the Fourth Geosphere”, Cambridge University Press, Cambridge, England. - Smolin, L. (1999), “The Life of the Cosmos”, Oxford University Press, New York. - Viganò, P. (2013), “Urbanism and Ecological Rationality”, in: Pickett S., Cadenasso M., McGrath B. (eds) “Resilience in Ecology and Urban Design”, Future City, vol 3. Springer, Dordrech.
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SOUVENIR
Letizia Goretti Dottoressa di ricerca in Composizione architettonica tematica Cultura visuale presso l’Università Iuav di Venezia. letizia.goretti@yahoo.it
Doppio senso! Petite ceinture XIVème, Paris
“Un percorso che è un percorso, senza essere un percorso” (Un chemin, Jean Tardieu). L’inizio della poesia potrebbe essere la descrizione sintetica della Petite ceinture, la prima linea ferroviaria urbana di Parigi costruita sotto il Secondo Impero. Dopo anni di abbandono, la Petite ceinture ha trovato una nuova strada: è diventata una voie verte. Al momento sono accessibili solo alcune sezioni, ma il percorso è ancora in corso!*
Double meaning! Petite ceinture XIVème, Paris
“A path that is a path, without being a path” (Un chemin, Jean Tardieu). The beginning of the poem could be the concise description of the Petite ceinture, the first urban railway line in Paris, built under the Second Empire. After years of neglect state, the Petite ceinture has found a new route: it has become a “voie verte”. Only some sections are currently accessible, but the path is still on going!*
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Come la tempesta Vaia sia diventata tangibile poesia
Design e adattamento climatico si incontrano in un cubo di legno Arianna Mion ariannamion0@gmail.com
How the Vaia storm became tangible poetry. Design and climate adaptation meet in a wooden cube In October 2018, a terrible storm had a massive impact on the Dolomites area, particularly on the Vaia forest, where millions of trees were torn down. Hit by the tragic event, a group of young people decided to turn a negative moment into something positive and unique: a cubic soundbox created from the fallen trees wood, and a new tree planted for every cube sold. Through the valorization of the territory, expert local hands and quality sound design give shape to a new object, which embodies the soul of the Vaia wood, also by making a sustainable use of it.*
01. Federico Stefani di Vaia srl.
“Ho scoperto, così, che i grandi boschi sono le città e quelli piccoli i paesi e i villaggi dentro ai quali scorre la vita e dove gli uomini vi abitano in compagnia dei loro drammi, dei dolori, delle gioie. Gli alberi sono come noi e noi siamo come gli alberi, ognuno con il proprio carattere, struttura fisica, fortuna e disgrazia. Osservando le piante, tutti ci possiamo riconoscere nell’una o nell’altra perché anch’esse, come noi, possiedono una personalità, un modo di vivere, un’educazione, una cultura” (Corona, 1998, p. 18). Il Vaia Cube, prodotto da mani sapienti e legno “tragicamente storico”, ha tra le sue funzioni principali l’amplificazione del suono dei nostri smartphones. Colpiti dalla visione degli effetti della tempesta su Vaia, un gruppo di giovani ha scelto di dare vita ad un prodotto che potesse racchiudere in sé l’essenza stessa della foresta. Ne abbiamo parlato con Federico Stefani, 29 anni, trentino e fondatore di Vaia srl. Attraverso il Vaia Cube e la conseguente ri-piantumazione di nuove piante, ritenete che oltre a dare nuova vita ad un’area boschiva distrutta, stiate anche mettendo in atto un’opera collettiva di adattamento al cambiamento climatico assieme ad una valorizzazione culturale-antropologica del territorio? Quello che facciamo noi è una cosa molto concreta e semplice come recuperare una materia prima e lavorare con le comunità locali e ri-impiantare foreste. Qualcosa che sia resiliente e che cerca di coinvolgere in ogni sua forma ed in ogni fase della filiera la comunità locale. Sicuramente l’impatto a livello quantitativo non è così importante, perché si parla di 40 milioni di alberi abbattuti e il nostro progetto è comunque piccolo, ma quello che noi vogliamo concretamente è un’azione che possa essere d’ispirazione per tante altre. Quindi, fare le cose con un senso o una logica rappresentando quelli che sono i nostri valori e la nostra idea di vedere il mondo. Credo che la parola che possa descrivere il nostro progetto sia resilienza. Ad oggi abbiamo venduto 12.000 cubes e per ogni cube c’è un albero piantato. Chiaramente non è un’azione che può essere improvvisata, dato che il terreno dev’essere pronto ad accogliere i nuovi alberi, infatti noi svolgiamo anche uno studio sul terreno, la pulizia dei boschi e cerchiamo di preparare quest’ultimi ad accogliere l’albero. Ciò significa lavorare con boscaioli ed artigiani locali, sul territorio, che abbiamo coinvolto dicendo “noi vogliamo dare un senso a questi alberi e raccontare la storia di questo territorio”. Inoltre, collaboriamo poi con Etifor, uno spin-off dell’Università di Padova, che va proprio ad analizzare in modo scientifico la foresta. La nostra volontà è di ricreare quella biodiversità che è venuta a mancare e di cercare di rispondere
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02. L’unicità del Vaia Cube. Vaia srl
in modo concreto creando una foresta che sia più rappresentativa di quello che è la biodiversità di quel territorio. Noi, comunque, non siamo determinanti per il cambiamento climatico a livello quantitativo, però quello che fa la differenza, nel nostro caso, è il nostro modus operandi di lavorare con la comunità locale, per dare un sollievo alla stessa, la quale è stata duramente colpita dalla tempesta di Vaia, creando tutto a km0. Il Vaia Cube è un oggetto passivo di per sé, che non consuma energia, ma che si inserisce in un’ottica di economia circolare. Per concludere, questo nostro modus operandi può essere esportato anche ad altre realtà che potrebbero essere vincenti e si, fare il cambiamento. Il ruolo della foresta nella contemporaneità: tra la riscoperta dell’ecologismo e promesse politiche (in)compiute. Siete dell’opinione che la fase antropocenica che stiamo vivendo abbia pesantemente influito sugli eventi catastrofici di Vaia o che essi siano piuttosto il frutto di cataclismi naturalmente provocati? Sicuramente i venti forti sono un andamento naturale e l’impatto avuto sulla foresta Vaia è stato causato da particolari temperature che non sono solite per questa parte del mondo. Per cui, senza dubbio, un riscaldamento globale e un cambio di correnti hanno provocato violenze e raffiche di vento. Certamente, inoltre l’aspetto antropologico ha acuito quel problema in quel determinato luogo. Bisogna però ricordare che si parla, ad ogni modo, dell’evento climatico più drammatico degli ultimi 50 anni in Europa. Siamo quindi di fronte ad un fenomeno che ha segnato il panorama delle Dolomiti: 442 comuni coinvolti, oltre 42 mi-
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VAIA www.vaiawood.eu info@vaiawood.eu
lioni di alberi abbattuti e 42.000 ettari di bosco interessati in 4 regioni distinte, quali Trentino Alto Adige, Friuli-Venezia Giulia, Veneto e Lombardia. Il design è una forma d’arte, funzionale. Proprio come il vostro Vaia Cube: non solo esteticamente bellissimo, ma anche estremamente duttile nell’amplificare il suono dell’oggetto probabilmente più usato da ognuno di noi quotidianamente: lo smartphone. Suono e design si accompagnano in questa vostra opera d’arte consapevolmente ecologica. In che misura, secondo voi, il design contemporaneo sta attingendo dai movimenti ecologisti attuali? E soprattutto, è un interesse reale o, come troppo spesso purtroppo avviene anche in altri ambiti, si può parlare di greenwashing?
il Vaia Cube è un oggetto passivo di per sé, che non consuma energia, ma che si inserisce in un’ottica di economia circolare
03. Il Vaia Cube in dettaglio. Vaia srl
C’è chi utilizza questo trend per fare greenwashing e invece, c’è chi ci crede veramente. Per fortuna, questo trend fa si che la direzione sia chiara: dal punto di vista economico determinate dinamiche non proprio ecologiste prevalgono, perché poi quello che fa una differenza nel mercato in tante occasioni è il prezzo. Però, in questi mesi, mi sono confrontato con tante realtà e posso dire che le persone hanno voglia di essere coerenti con i propri valori; per cui sono fiducioso nonostante non dobbiamo arrenderci. È comunque un processo lungo, fatto non solo dalle imprese, ma anche da una visione che include la gestione pubblica. Parlando di design, quest’ultimo è il disegno di un oggetto che si integra con la sua funzionalità. A tal proposito, io penso che il disegno ora si interroghi sulla sua utilità e che non sia più fine a se stesso, ma bensì che sia una funzione per creare qualcosa. Ovviamente, tutto è design intorno a noi se ci pensiamo: c’è chi fa design in modo più strutturale con una finalità e dei valori dietro, e c’è chi non per forza lo fa per portare un concetto. È il valore della tua sostenibilità come impresa, come persona che vive il mondo, che porta all’interno del design determinati valori. Le due cose di per sé sono distinte, però si stanno andando ad abbracciare, perché la storia e il momento in cui viviamo vanno fortunatamente in quella direzione. Nonostante ciò, il mondo è ancora così complesso e la strada da fare è ancora tanta. L’aspetto della sostenibilità in ambito produttivo e logistico sta assumendo sempre più rilievo. Al riguardo, qual è l’impatto ambientale del processo produttivo della Vaia srl? Inoltre, considerando che il vostro progetto è di origine territoriale, ma di respiro internazionale, come viene gestita la catena distributiva in Italia e all’estero? In Trentino la produzione dell’energia è al 100% rinnovabile e noi lavoriamo con piccole-medie imprese, artigianali, familiari, che hanno un’attenzione particolare verso il territorio. La filiera del Vaia Cube è 100% locale, venendo dalle foreste dove è avvenuta la tempesta Vaia, fino alle segherie e ai nostri falegnami. Inoltre, tutto il packaging è certificato FSC e, ad esempio, è realizzato con carta riciclata dalla lana, carta riciclata dalle alghe e carta riciclata dai cartoni. Ogni pezzo ha una sua storia ed è coerente con quelle che sono le cose che diciamo, sino alla ri-piantumazione dell’albero appunto in quelle foreste dove noi andiamo a prendere gli alberi abbattuti. La parte meno sostenibile è la spedizione, di questo ne siamo più che consapevoli. Però, è anche l’unico modo per far arrivare una storia e un pezzo delle Dolomiti a casa delle persone che vogliono sostenere quel progetto ed esserne parte. Un’altra questione molto interessante sono i punti vendita, a tal proposito abbiamo degli ambasciatori sul territorio: teatri, musei, librerie, dei luoghi di incontro
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è il valore della tua sostenibilità come impresa, come persona che vive il mondo, che porta all’interno del design determinati valori
04. Dall’artigiano. Vaia srl
dove le persone, che sostengono di far parte del nostro progetto Vaia, possono acquistare il Vaia Cube direttamente lì. Per noi infatti, i (nostri) punti vendita locali permettono di mantenere viva la comunità essendo presidi di legalità e di socialità, di incontri tra le persone. “La sera del 29 ottobre il suono delle piante che cadevano schiantate ha riempito l’aria, restituendoci un passaggio sonoro sconosciuto e terribile, la voce di un mondo che ora grida aiuto, che dichiara la sua fine di un modo di essere delle montagne e delle foreste, degli alberi e delle rocce” (Favero et al., 2019, p. VIII). Il vento non si può toccare in modo tangibile, ma si sente. Il suono è anche uno dei principi del Vaia Cube, il quale, a suo modo, incarna la sonorità di quell’area. Potendo affermare che vi è uno stretto legame tra suono e territorio, non pensate che state contribuendo ad esprimere simbolicamente l’identità acustica di Vaia? A tal proposito, avete rilevato delle modifiche e/o alterazioni dell’acustica in tale area, in seguito alla tempesta del 2018? Ogni luogo ha i suoi profumi ed i suoi suoni. I suoni della natura sono straordinari ed ogni giorno cambiano in base al vento e agli animali che stanno in quel luogo. Per cui sicuramente le Dolomiti, in ogni loro angolazione hanno dei suoni unici che le rendono così, ma quelli degli animali che popolavano le foreste distrutte non ci sono più. C’è il silenzio in determinate aree e questo è abbastanza riscontrabile se si va a passeggiare in quelle zone, ad esempio. Io ed i ragazzi di Vaia siamo persone che vivono il territorio e questo progetto è proprio nato da là, per cui il legame con i profumi ed i suoni è qualcosa che abbiamo perso completamente. Per fortuna si può tuttora vivere e camminare in posti in cui gli alberi non sono ancora stati abbattuti. Del resto sul nostro sito abbiamo creato, per l’appunto, una sezione dove si possono riascoltare i suoni naturali.*
BIBLIOGRAFIA - Favero, P., Sandro, C. (2019), “C’era una volta il bosco. Gli alberi raccontano il cambiamento climatico. Sarà una pianta a salvarci?” Hoepli, Torino. - Corona, M. (1998), “Le voci del bosco”, Edizioni Biblioteca dell’Immagine, Pordenone.
OFFICINA* N.31
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Dalle parole allo spazio
posta, possono farsi sentire; dall’altra, perché sento che si è in parte realizzato uno degli assunti che sono sempre stati alla base del mio modo di vedere qualsiasi lingua: la lingua viene fatta dai suoi parlanti. La ‘scompostezza’ del dibattito pubblico può sicuramente risultare fastidiosa, ma dobbiamo reggerla: non tutti hanno la fortuna di ‘nascere imparati’, non tutti sono informati, è probabile che le stesse obiezioni (spesso sciocche e disinformate) verranno riproposte spesso, ma non si può più pretendere che parlino solo coloro che hanno studiato: l’elitismo deve rimanere solo una brutta tentazione. Vorremmo davvero tornare a un dibattito in cui solo poche persone parlano per tutti? Io, pur riconoscendo che scendere tutti i giorni nella mischia dei social è una fatica enorme, penso di no.
L’abbondanza di discussione metalinguistica, per quanto talvolta estenuante, può farci bene. In fondo, prima c’erano i linguisti – almeno alcuni linguisti – che osservavano i parlanti con sguardo entomologico, sperimentando tra l’altro grande difficoltà nel trovare esempi spontanei di determinate varietà – ad esempio l’italiano popolare o quello completamente informale – dovendoli cercare nelle lettere di migranti o in altri contesti tutto sommato complicati da censire (come le scritte nei bagni); adesso abbiamo la possibilità di andare in rete, osservare tutti i luoghi dove le persone discutono e trarne un’infinità di esempi. Una vera pacchia, insomma. Certo, il gioco si è fatto più duro. Apparentemente, la maggiornaza delle persone che stanno in rete pensa di avere un’opinione perfettamente informata su qualsiasi argomento, e lo si vede anche in campo linguistico: ognuno ritiene di avere pieno diritto a dire la sua, pur essendo un semplice parlante di quella lingua. Al contrario, parlare una lingua non ci dice nulla riguardo alle conoscenze metalinguistiche che possiamo avere riguardo a essa: in altre parole, potremmo essere degli ottimi parlanti nativi di italiano senza avere idea di come l’italiano effettivamente funzioni”.*
Educare al pensiero ecologico Rosa Tiziana Bruno Topipittori, 2020
Matematica e politica Chiara Valerio Einaudi, 2020
Femminili Singolari Vera Gheno Effequ 2019
decisamente eccitanteessere un linguista, di questi tempi. Lo è ancora di più essere una linguista. È eccitante perché mai come ora si discute di lingua un po’ in ogni contesto, non solo tra professionisti o specialisti, e di questo occorre ringraziare, decisamente, i social network. Umberto Eco riteneva che i social network avessero dato voce a “legioni di imbecilli” che prima, al massimo, sproloquiavano al bar, mentre adesso hanno lo stesso diritto di parola di un premio Nobel. Molti considerano questo come un fatto disdicevole, devo dire che a me, invece, la nuova situazione piace molto. Intanto perché la rete ha dato diritto di parola a legioni di persone che prima non avevano voce in capitolo, mentre adesso, per quanto in maniera sovente scom-
a cura di
sullo scaffale
Ambienti animali e ambienti umani Jakob von Uexkull Quodlibet, 2010
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CELLULOSA
Changes “(Turn and face the strange) Ch-ch-Changes Just gonna have to be a different man” David Bowie, Changes, Hunky Dory, 1971 Immagine di Emilio Antoniol
(S)COMPOSIZIONE