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Siti del patrimonio culturale del popolo KhoiSan KhoiSan heritage sites, South Africa

Magda Minguzzi

Senior Lecturer e coordinatrice scuola di dottorato. School of Architecture, Nelson Mandela University. magda.minguzzi@mandela.ac.za

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KhoiSan heritage sites, South Africa. A project of cooperation in between the Nelson Mandela University and the indigenous community of the Metropolitan area of

Port Elizabeth The long history of repression experienced by the First Indigenous Peoples of South Africa, the KhoiSan, is dense and seems to have no ends: started with the arrival of the Dutch in 1652, confirmed through the apartheid regime, and still largely in place today. This escalation that started with the exclusion of the indigenous people from the use of the territory, the resources, and sacred sites, and has led to the current situation of separation between the places of pre-colonial cultural heritage and the society to which this heritage belongs: the indigenous one. In fact, the KhoiSans don’t have the right to their sacred and heritage places, even of access. But it does not end here, because with the imposition of the colonialist narrative the places of memory have been covered under a veil of total forgetfulness, ignored and currently mostly unknown. Starting from the concept of "origin" and “palimpsest” (Corboz, 1983) we will explore techniques of cultural re-appropriation and de-colonization of the territory practiced at Nelson Mandela University (Port Elizabeth). The case study is a research project of which the KhoiSan Chiefs are co-authors. This work is based on the research supported in part by the National Research Foundation of South Africa. Grant Numbers: 116254.* l lavoro di ricerca sui siti precoloniali situati nella provincia dell’Eastern Cape, in Sud Africa, ha avuto inizio nel 2015, l’anno successivo al mio arrivo a Port Elizabeth, alla Nelson Mandela University, e attualmente ancora in corso. Qui, con un gruppo di ricerca composto da capi del popolo KhoiSan, studenti e colleghi – utilizzando un metodo partecipativo1 e multidisciplinare – visitiamo e documentiamo i luoghi che i capi indicano essere appartenenti alla loro cultura (img. 01), come per esempio grotte con dipinti rupestri, resti di strutture per la pesca costruite lungo la costa, parti di foreste con sorgenti d’acqua che la comunità riconosce come appartenenti ai loro avi, e in ogni caso luoghi dove sono stati compiuti particolari eventi o ritrovamenti significativi (img. 02). Siti con cui i capi vogliono ristabilire il legame interrotto a causa della lunga storia di repressione subita, come verrà descritto più avanti nel testo. L’obbiettivo finale della ricerca è quello di fondare il primo archivio del patrimonio KhoiSan nella regione dell’Eastern Cape.

È importante sottolineare che le visite ai siti condotte con i capi sono momenti unici e forse saranno per lungo tempo irripetibili, in quanto alcuni di questi luoghi per essere raggiunti richiedono l’attraversamento di terreni privati, e l’accesso è legato al permesso da parte dei proprietari terrieri. Questo processo è a volta difficoltoso, perché nasconde tutta la paura dell’esproprio

01. Capi del popolo KhoiSan e membri della comunità parte del gruppo di ricerca con Dr. Magda Minguzzi. KhoiSan Chiefs and community members part of the group of research, with Dr. Magda Minguzzi. Ernst Struwig

Siti del patrimonio culturale del popolo KhoiSan

Un progetto di cooperazione tra l’Università Nelson Mandela e la comunità indigena di Port Elizabeth, Sud Africa

della terra, legata alla presenza di segni inconfondibili appartenenti al patrimonio culturale indigeno. Una paura soprattutto legata alla mancanza di una chiara legislazione. Questo però cela anche una triste verità: il popolo KhoiSan non ha alcun diritto sui propri luoghi sacri e sul patrimonio.

Margini: storico, sociale e fisicoterritoriale

L’arrivo dei colonialisti2 – prima gli olandesi seguiti dagli inglesi – a partire dal 1652, e la successione di eventi a seguire, ha significato per i KhoiSan, l’inizio di una escalation di diseguaglianze e oppressione: una lenta e penosa perdita di qualsiasi diritto e libertà di espressione, di qualsiasi pratica legata alla loro cultura, stile di vita3 e religione. In altre parole ha portato una drastica interruzione del loro legame indissolubile con la terra e le sue risorse che è alla base della filosofia di vita indigena.

Il primo atto di marginalizzazione territoriale iniziò con la delimitazione delle terre, attraverso l'uso di recinzioni, su cui si trovavano risorse naturali fondamentali per la vita degli indigeni e del loro bestiame. Le delimitazioni di territorio attraverso le proprietà private si accompagnarono al divieto di usare e attraversare le terre e visitare i siti sacri, come grotte e rifugi con dipinti rupestri; e successivamente, dopo il 1800, in generale, di muoversi liberamente sul territorio.

Qui, in Sud Africa, come altrove, il principio legale che fu applicato dai colonialisti per occupare i terreni è il “di fatto di Terra Nullius”: terra che non appartiene a nessuno. Siccome i terreni non erano delimitati secondo un uso occidentale, era una ragione sufficiente per dichiararli liberi di essere occupati. Un approccio di potere nei confronti del territorio, che affonda le sue radici nella proprietà terriera e in quella privata diffusasi in tutta Europa, a partire dalla rivoluzione agraria e proseguito con quella industriale. Un fenomeno strutturato sul capitalismo e caratterizzato da una visione egocentrica del territorio (Jakob, 2009; Bird, 1996).

I luoghi della memoria allora col tempo si sono fatti irraggiungibili, sono diventati luoghi al margine territoriale e sociale; sospesi, in una dimensione spazio-temporale al limite, dove è solo la memoria tramandata da generazione a generazione attraverso la narrazione a mantenerne un contatto vivo.

L’atto successivo di questo crescendo di repressione inizia con il regime dell’apartheid, ufficialmente in vigore dal 1948 al 1994, ma le cui leggi in sostanza formalizzarono una situazione che era già da molto tempo pratica diffusa. Qui ci interessa evidenziare in particolare la Population Registration Act, 1950 che richiedeva a ogni cittadino di essere classificato e registrato secondo tre principali gruppi razziali: neri, bianchi e “misti”. Ed è con questa legge che il popolo KhoiSan venne fatto rientrare nelle categorie "mista" assieme a malesi e cinesi, e dunque il loro gruppo etnico venne ufficialmente cancellato. A tutt’oggi manifestazioni e movimenti pacifici si battono per eliminare questa classificazione che rimane per la maggior parte ancora in uso.

Parallelamente al progetto di estinzione etnica, il sistema di segregazione venne applicato anche all’organizzazione spaziale della città, suddivisa essenzialmente in tre aree principali: il centro degli affari, dove tutti potevano recarsi durante il giorno per lavoro (se in possesso di permesso di lavoro e di pass4), la periferia localizzata in zone privilegiate dal punto di vista territoriale dove i bianchi risiedevano, e le township dove neri e “misti” si dovevano recare subito dopo il lavoro. Le aree di residenza dei bianchi erano divise dalle altre attraverso l’uso di pesanti fasce infrastrutturali. E dopo quasi trent’anni di democrazia la situazione non è cambiata di molto e i KhoiSan continuano a vivere in una situazione di segregazione spaziale.

Vediamo allora chiaramente come il colonialismo lentamente ma inesorabilmente ha instaurato una politica delle marginalizzazione del popolo indigeno e dei loro luoghi, sottraendoli di proposito da qualsiasi forma di narrativa sia essa storica, del patrimonio architettonico e culturale, del bene comune.

in Sud Africa i luoghi dell’origine sono diventati, col passare del tempo, margine e fragilità che si palesa a più livelli: storico, sociale, e fisicoterritoriale

02. Visita ad una grotta con arte rupestre. Nella foto Lucy Vosloo parte del gruppo di ricerca. Site visit at a cave with rock art. In the picture Lucy Vosloo, component of the group of research. Magda Minguzzi

03. Mappa del Sud Africa con i siti pre-coloniali con le trappole per la pesca (in rosso) e indicazione dell’area di ricerca (quadrato tratteggiato). Maps of South Africa with fish trap’s sites (in red). Indicated also the area of research (dotted square). Magda Minguzzi

Dell’origine

André Corboz (1983) ci insegna che il territorio può essere visto come un palinsesto o come il risultato di diversi processi che prendono forma nel corso del tempo. Se da un lato il territorio si modifica a causa di processi spontanei, dall’altro subisce modifiche causate dall’uomo. Gli abitanti di un territorio cancellano e modificano incessantemente i segni del suolo e questi interventi rendono il territorio come una sorta di manufatto. Qualcosa che è paragonabile a un progetto collettivo che si stabilisce tra la superficie topografica e la popolazione insediata nelle sue pieghe.

Nel nostro caso possiamo certo affermare che l’origine del territorio Sud Africano è stato plasmato dai KhoiSan. Ci sono tracce indelebili, luoghi, materiali di archivio che parlano di questa origine. Quello che manca è il riconoscimento dell’importanza di questi luoghi come appartenenti al patrimonio dell’umanità. Siamo testimoni di un doppio scollamento: dei luoghi con la loro cultura di appartenenza e, più in generale, dei luoghi con la memoria storica. Crediamo allora che processi di riappropriazione culturale – ovvero atti concreti che portino ad una de-colonizzazione del territorio – siano fondamentali per instaurare un equilibrato rapporto con l’origine, con i luoghi fondanti. Attraverso il nostro lavoro di ricerca, basato su inclusività, metodo partecipativo e interdisciplinare, cerchiamo di ri-attivare quella sospensione spazio-temporale che la storia colonialista ha imposto. Atti che vogliono anche riattivare il dibattito attorno al valore insito della cultura indigena e dei suoi luoghi, in armonia con il territorio e l’ambiente, e fondati su principi di sostenibilità.

Dal 2017-2019 ci siamo concentrati sullo studio dei siti costieri, in particolare sulle trappole per la pesca (img. 03). Probabilmente le più antiche strutture create dall’uomo in questa parte del territorio, rimaste parzialmente intatte, realizzate con pietre assemblate a formare muri, alti non più di 1 metro, per lo più a pianta circolare o semi-circolare, disposte nella zona intercotidale costiera. Queste strutture, sfruttando il cambio di maree, intrappolano i pesci di piccola-media taglia che un tempo venivano catturati con l’uso di lance. Gli archeologi ci insegnano che sono state costruite da comunità che vivevano lungo la costa e che i colonialisti di insediamento chiamarono Strandlopers: colui che cammina lungo la spiaggia.

Non è difficile immaginare che il camminare dei KhoiSan lungo il percorso, la linea, che è rappresentata dalle coste, con l’alternarsi di lunghe spiagge e zone rocciose, era legato all’osservare e studiare sistematicamente per conoscere approfonditamente gli elementi naturali: correnti marine, maree e cicli lunari, movimenti astrali, venti. E naturalmente cicli e migrazioni stagionali di pesci, mammiferi e animali commestibili. Una sapienza e una integrazione olistica – quella verso gli elementi naturali e animali – che era alla base della vita lungo la costa. E da qui questi elementi architettonici hanno iniziato a punteggiare lo spazio tra terra e acqua, e a creare una successione di “eventi”, punti di riferimento del vasto territorio costiero.

La prima occasione per mettere in pratica concretamente atti di decolonizzazione territoriale che coinvolgessero un vasto pubblico, è stata la performance internazionale The Spirit of Water del 2017. Un evento dove contestualmente, in diverse città costiere, artisti5 in collaborazione con comunità locali hanno sviluppato diverse performance al fine di muovere l’attenzione pubblica, attraverso l’uso dell’arte come mezzo, sulle minacce che incombono sugli ambienti marini:

04. Staff e studenti della scuola di Architettura, Nelson Mandela University, durante il rilievo delle trappole per la pesca pre-coloniali a Cape Recife, Port Elizabeth. Staff and student from the School of Architecture of the Nelson Mandela University during the site survey of the fish-traps in Cape Recife, Port Elizabeth. Magda Minguzzi

inquinamento, eccessiva pesca e costruzione abusiva delle coste. E in Port Elizabeth abbiamo deciso di esplorare assieme al tema menzionato, quello del patrimonio culturale, della memoria e senso di appartenenza.

Il 6 maggio 2017, il giorno stabilito internazionalmente per l’esecuzione della performance, i rappresentanti del popolo KhoiSan (come discendenti degli Strandlopers) hanno praticato antichi rituali, come la "cerimonia di purificazione" del sito e dell’anima dei partecipanti, usando l'incenso tradizionale. Momento culminante è stato l’incontro di tutti i presenti – comunità KhoiSan, studenti e staff della Nelson Mandela University, e in generale coloro che hanno avvertito l’urgenza di partecipare a questo evento unico – davanti al fuoco, simbolo ancestrale. Ognuno ha alimentato il fuoco, e successivamente si è seduto formando un cerchio, per sottolineare l'importanza di essere presenti e condividere quel momento e luogo specifico.

La performance è stata un atto metaforico di connessione tra la realtà che ci è contemporanea – distinta dall’inquinamento e sfruttamento delle risorse –, e un tempo passato, in cui gli esseri umani erano in armonia con Madre Terra e l'oceano; e per i KhoiSan un'indagine sulle loro radici e sul senso di appartenenza a questi siti, oggi.

Gli outputs del rituale sono stati un cortometraggio prodotto dalla Nelson Mandela University e proiettato internazionalmente, una mostra itinerante che è servita come strumento di condivisione e dibattito tra i membri KhoiSan e di educazione per i bambini delle scuole che l’hanno visitata numerosi, e una video-intervista divenuta parte del programma MOOC della University of Southampton (UK).

Il passo successivo ci ha visti impegnati nel rilievo scientifico e ridisegno di tutti i siti con trappole per la pesca situati nell’Eastern Cape. Una lavoro di documentazione che ha contribuito non solo a sviluppare la conoscenza e sensibilità degli studenti della scuola di architettura (img. 04) ma anche delle autorità locali designate ignare della presenza di queste strutture.

In conclusione, questa ricerca, a noi esterni ma indigeni a nostro modo, ci sta dando la possibilità di sentirci una comunità unita, nell’assistere al "ritorno a casa" dei KhoiSan, nel loro territorio, perché in un certo senso, nel corso dei secoli, sono diventati "stranieri" nella loro terra e devono combattere quotidianamente per vedere riconosciuti i loro diritti.*

NOTE 1 – Ci tengo a sottolineare questo aspetto della “partecipazione” della comunità indigena in ogni fase della ricerca: dall’indagine preliminare alla diffusione dei risultati. Lo scopo è quello di ottenere e trasmettere una visione e un messaggio che sia il più possibile condiviso e dunque che rifletta la cultura e il pensiero KhoiSan. 2 – Il Sud Africa fu governato dagli Olandesi dal 1652 al 1795 e dal 1803 al 1806. La sovranità inglese subentrò dopo il Congresso di Vienna del 1815. 3 – Prima dell’inizio della politica colonialista di insediamento, quello del popolo indigeno era uno stile di vita basato essenzialmente su movimenti nel territorio – nomadismo delimitato territorialmente e transumanza – legati alle stagioni e alle risorse naturali di sostentamento, come fonti di acqua, utili per le popolazioni e per gli animali allevati, animali selvatici da cacciare, piante e radici da utilizzare come cibo e come medicine. 4 – Il pass-book, era una sorta di passaporto interno progettato per separare la popolazione, gestire l'urbanizzazione, i movimenti durante il giorno nel territorio, e allocare il lavoro. Prima degli anni '50, questa legislazione si applicava in gran parte agli uomini sotto la classificazione razziale di neri o “misti”, e si tentò di applicarla alle donne negli anni '10. Il suo uso è stato effettivamente concluso nel 1986. 5 – Partecipanti al progetto: Benin, Ouidah: Flavia Vaccher; Croazia, Zara: Josip Zanki, Matija Zdunić; Italia, Venezia: Davide Skerlj; Messico, San Luis Potosí: Manolo Cocho with DRY collective group; South Africa, Port Elizabeth: Magda Minguzzi, KhoiSan community based in Mandela MetroPort Elizabeth; United States, Brooklyn: Ethan Cornell, Justin Frankel, Megan Suttles, Jimi Pantalon, eXtll.

BIBLIOGRAFIA - AA.VV., (2009), “Burdened by race: Coloured identities in southern Africa”, UCT press, Cape Town. - Augé M. (1993), “Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità”, Elèuthera, Milano. - Bartolomei, E. (2017), “Dieci comandamenti in una mano e la spada nell’altra”, in Bartolomei, E., Carminati, D., Tradardi, A. (a cura di), “Esclusi: la globalizzazione neoliberista del colonialismo di insediamento”, Derive Approdi, Roma, pp. 15-20. - Bird, D. R. (1996), “Nourishing terrains: Australian Aboriginal views of landscape and wilderness”, Australian Heritage Commission. - Cavanagh, E. (2013), “Settler Colonialism and Land Rights in South Africa”, Palgrave Macmillan, London. - Corboz, A. (1983), “Il territorio come palinsesto”, in Viganò P. (1998) (a cura di), “Ordine sparso. Saggi sull'arte, il metodo, la città e il territorio”, Franco Angeli, Milano, pp. 177-191. - Jakob, M. (2009), “Il Paesaggio”, Il Mulino, Bologna. - Lange, M., E., Müller Jansen, L., Fisher, R. C., Tomaselli, K. G., Morris, D. (2013), “Engraved landscape. Biejse Poort: many voices”, Multiprint Pretoria. - Veracini, L. (2017), “Introduzione al colonialismo di insediamento” in Bartolomei, E., Carminati, D., Tradardi, A. (a cura di), “Esclusi: la globalizzazione neoliberista del colonialismo di insediamento”, Derive Approdi, Roma, pp. 33-44. - Wolfe, P. (2006), “Settler colonialism and the elimination of the native”, in “Journal of Genocide Research”, vol. 4, n. 8, pp. 387-409.

PER APPROFONDIRE - https://ebet.mandela.ac.za/EBET-News/Origin-of-Things - https://oceansciences.mandela.ac.za/Engagement/TheSpirit-of-Water - https://vimeo.com/287152801

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