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Riprogettare i confini Redesigning Borders

Riprogettare i confini

Gli strumenti del design come veicolo di messaggi di cambiamento

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Redesigning Borders Building border barriers forces people to change their daily lives, creating new needs for adaptation to the territory, to personal relationships and to cultural concepts. Citizens are therefore induced to ask what their role might be in promoting themselves as proponents of a pro-active and ethically crucial adaptation. This paper aims to reflect on how the typical design tools can bring a voice to these needs, through more symbolic and provocative languages or more pragmatic and functional approaches.*

Erigere barriere costringe le popolazioni a modificare la propria quotidianità, crea nuove necessità di adattamento al territorio, ai rapporti personali e alle concezioni culturali. Ciò porta i cittadini stessi a domandarsi quale possa essere il proprio ruolo nel promuoversi artefici di un adattamento propositivo ed eticamente determinante. Il presente contributo si pone l’obiettivo di riflettere sul valore che gli strumenti tipici del design possano apportare nel dar voce a queste esigenze, attraverso linguaggi più simbolici e provocatori o approcci più pragmatici e funzionali.* il 1989: i Mauerspechte (letteralmente i “picchi del muro”) picconano concitatamente facendo cadere grandi lastre di cemento. Crolla così il Muro di Berlino1, scintilla che farà scaturire profonde riflessioni sul concetto di confine tra luoghi e identità culturali. Eppure, a trent’anni dalla caduta, il numero di muri eretti tra Stati o aree etnico-culturali è aumentato: fino agli anni ’90 se ne contavano una quindicina, ad oggi se ne annoverano più di 702 (img. 02). Senza addentrarsi in considerazioni storico-politiche, per leggere tale fenomeno ci si potrebbe soffermare sulle riflessioni che Karl Popper elabora dal Dopoguerra sulla differenza tra “società aperte” e “società chiuse” (Popper, 1945)3. Egli identifica come “aperte” quelle società contraddistinte da un diffuso concetto di tolleranza e spinta al cambiamento, permeate dalla volontà di potenziare le relazioni tra l’individuo e la collettività. Le “società chiuse” sarebbero invece caratterizzate dal tentativo di ostacolare i normali processi di cambiamento, dalla rigidità delle proprie tradizioni e da una sorta di passività collettiva.

I muri eretti a delimitare confini sono l’oggettivazione di frontiere che circoscrivono la libertà di pensiero. L’espediente politico più utilizzato per giustificare i muri che oggi dividono i Paesi è la necessità del controllo dei flussi migratori, addossando allo “straniero” la responsabilità del declino sociale ed economico di un paese, velando così il malfunzionamento di uno stato sociale indebolito e i difetti strutturali della globalizzazione. Queste barriere non sono costruite per la sicurezza, ma per un senso di sicurezza. La distinzione è sostanziale, poiché sottolinea che ciò che soddisfa in primis l’innalzamento di un muro non è tanto un'esigenza materiale quanto mentale.

Le barriere costringono le popolazioni a modificare la propria quotidianità e creano nuove necessità di adattamento al territorio, ai rapporti personali e alle concezioni culturali. Ciò porta i cittadini a domandarsi quale possa

02. Sintesi grafica delle principali barriere divisorie tra Stati attualmente esistenti. Graphical summary of the main existing border barriers between States. Irene Caputo essere il proprio ruolo nel promuoversi artefici di un adattamento propositivo ed eticamente determinante.

Le riflessioni sui muri di confine e sui flussi migratori sono un fenomeno che da tempo influenza il dibattito sociopolitico internazionale. La disciplina del design può e deve interrogarsi sull’evoluzione della propria ricerca e dei propri strumenti, inserendosi attivamente in questi dibattiti contemporanei. Pur mantenendosi sempre all’interno del proprio raggio di intervento, essa può essere in grado di attivare processi operativi atti a sensibilizzare anche sulle conseguenze di azioni di natura politica. Vere e proprie azioni di critical design, concetto introdotto per la prima volta da Anthony Dunne nel suo libro Hertzian Tales del 1999 e che interpreta la disciplina del design come uno strumento per porre domande significative atte a far scaturire profonde riflessioni sulle possibili ricadute di scelte strategiche contemporanee (siano esse di natura tecnologica, economica o politica). Il critical design è un approccio speculativo, concettuale, provocatorio, che non porta sempre nell’immediato allo sviluppo di oggetti “utili”, quanto piuttosto a riflessioni la cui utilità è insita nella capacità di aiutare altri progettisti a prevenire e dirigere i risultati di sperimentazioni future. Produce un pensiero e una visione a lungo termine, proponendo soluzioni alternative che suggeriscono dei possibili cambiamenti e stimolano discussioni e dibattiti sulle future implicazioni sociali, culturali ed etiche delle decisioni che si prendono oggi. A titolo esemplificativo riportiamo di seguito alcuni interventi progettuali che propongono una lettura critica di tali processi: progetti nati con lo scopo di ridurre la diffidenza e di narrare con strumenti diversi il concetto e il valore della diversità culturale. Dal 2009 lo Studio Rael San Fratello (Oakland, California) utilizza come luogo di sperimentazione progettuale il muro tra Stati Uniti e Messico, il “muro di Tijuana”, da tempo tema di scottante attualità e divisione politica. Con il progetto Teeter Totter Wall (img. 01)

a differenza dei confini terrestri, le frontiere marittime sono ancora poco delineate poiché particolarmente contese dato il loro obiettivo economico crescente in termini di trasporti e risorse disponibili

03. Locandina del documentario Connected Walls di Sebastien Wielemans, 2014. Poster of the web-documentary Connected Walls by Sebastien Wielemans, 2014. Studio I-k-o

del 2019 hanno collocato a Sunland Park tre altalene sali- protagonisti attivi nella scelta dei temi elaborati dei realizscendi per consentire ai bambini separati dalla barriera di zatori del documentario. giocare insieme: questo spazio diventa così emblematica- Alla classica concezione dei muri intesi come barriere mente luogo di condivisione e riconnessione. fisiche artificiali, dobbiamo aggiungere i “muri marittimi”,

Interessante è anche l’esperienza interattiva confini naturali con funzioni analoghe a quelle assunte Connected Walls (img. 03), conclusasi nel 2014 dalle frontiere di terra. La loro definizione non è così con la realizzazione di un documentario cura- immediata: a differenza dei confini terrestri, le frontiere to da Sebastien Wielemans. Il progetto nasce per creare marittime sono ancora poco delineate poiché particolarparticolare consapevolezza riguardo le barriere presenti tra Stati Uniti e Mes- i muri creano nuove esigenze di sico, e tra Marocco e le città autonome spagnole di Ceuta e Melilla. Il documen- adattamento al territorio, ai rapporti tario è composto da singoli video che trattano tematiche differenti: testimoni personali e alle concezioni culturali diretti narrano come azioni della loro vita quotidiana siano state influenzate dai rispettivi muri. mente contese dato il loro obiettivo economico crescenGli strumenti di partecipazione interattiva presenti sulla te in termini di trasporti e risorse disponibili (Tetrais, piattaforma web hanno permesso agli utenti di diventare Papin, 2018)4 .

un ironico manuale raccoglie alcune testimonianze della forma più spontanea di progettazione e permette agli oggetti di tutti i giorni di raccontare storie di migrazioni, senza giudicare le ragioni della clandestinità

04. The everymigrant's guide to illegal border crossings. Design: Marta Monge, 2017. Enrica Maggiora

La provocatoria The everymigrant's guide to illegal border crossings (img. 04), realizzata nel 2017 dalla designer Marta Monge, si presenta come una “guida tascabile all'immigrazione clandestina”. L'opuscolo di “istruzioni” è una raccolta di strumenti autocostruiti e realmente utilizzati dai migranti che affrontano un lungo viaggio via mare, con dettagliate istruzioni per il montaggio e l'uso. Questo ironico manuale raccoglie alcune testimonianze della forma più spontanea di progettazione e permette agli oggetti di tutti i giorni di raccontare la storia di queste migrazioni, senza giudicare le ragioni della clandestinità.

Molte altre sono le iniziative progettuali legate al superamento dei confini di mare, alcune delle quali narrate attraverso la piattaforma blog Design for Migration che raccoglie una piccola selezione di contributi italiani ed europei che affrontano i problemi delle migrazioni letti attraverso una prospettiva progettuale.

05. Sintesi grafica di alcuni progetti inseriti in una scala di lettura tra simbolico e provocatorio. Graphic synthesis of some projects inserted in an analysis scale between symbolic and provocative. Irene Caputo Tra queste troviamo, ad esempio, l’iniziativa Solo in cartolina, una campagna italiana di social design nata nel 2018. Una vera e propria “chiamata alle arti” online che denuncia le morti dei migranti nel Mar Mediterraneo, supportando le attività di sicurezza delle ONG. O ancora Safe Passage Bags, un progetto di upcycling del 2015 promosso dalla ONG greca “Lesvos Solidarity” e strutturato sotto forma di workshop. Il risultato di questo laboratorio è stata la realizzazione di borse prodotte dai rifugiati stessi e dalle persone che vivono a Mitilene (unità periferica di Lesbo), rispondendo così in un solo modo a due problemi di notevole importanza: fornire un’attività lavorativa ai rifugiati della ONG e risolvere l’impatto eco-ambientale dei salvagenti abbandonati. Le borse sono state infatti realizzate con i giubbotti di salvataggio lasciati sulle coste dell’isola greca di Lesbo (oltre 100.000 pezzi) e utilizzati dai rifugiati che hanno attraversato il Mar Egeo dalla Turchia. In questo modo ogni borsa porta con sé la storia di un viaggio forzato, simbolo di dolore e speranza: è un promemoria che cerca di raccontare come nessuno lasci la propria casa e nessuno metta in pericolo sé stesso e la propria famiglia, a meno che il mare non sia più sicuro della terra.

Sono numerosi gli esempi progettuali che potrebbero essere ancora qui riportati (img. 05): gli strumenti tipici del design si prestano a dar voce a molteplici esigenze sociali, permettendo alle singole volontà espressive di unirsi e creare un’eco collettiva attraverso linguaggi più simbolici e provocatori o approcci più pragmatici e funzionali. Qualsiasi forma comunicativa adottata si pone comunque sempre nell’ottica di trasmettere un messaggio e sensibilizzare riguardo alle sfide del presente.*

NOTE 1 – La caduta del muro fu motivata dall’apertura della frontiera fra Austria e Ungheria: il 9 novembre 1989 il governo della Repubblica Democratica Tedesca annullò il divieto di raggiungere la zona ovest della città. Il giorno seguente, si aprirono le prime brecce nel muro e iniziò la sua distruzione. 2 – Dati estrapolati da uno studio sviluppato da Élisabeth Vallet, Josselyn Guillarmou e Zoé Barry (“Raoul Dandurand Chair of Strategic and Diplomatic Studies”, University of Quebec at Montreal, 2015) e riportati in tre report speciali curati dal Washington Post nell’ottobre del 2016. 3 – Nello scritto “La società aperta e i suoi nemici”, del 1945, Karl Popper rielabora e approfondisce un concetto sviluppato nel 1932 dal filosofo francese Henry Bergson in “Le due fonti della morale e della religione”. 4 – Ad eccezione dell'alto mare libero, in quanto non suscettivo d'appropriazione da parte degli Stati singoli (l’espressione è sinonimo di “acque internazionali”).

BIBLIOGRAFIA - Dunne, A. (1999), “Hertzian tales: electronic products, aesthetic experience and critical design”, The MIT Press, Cambridge (Massachusetts). - Dunne, A., Raby F. (2013), “Speculative Everything: Design, Fiction, and Social Dreaming”, The MIT Press, Cambridge (Massachusetts). - Ferrari, G. (2019), “I muri che ci separano. Da Berlino al Messico: quando le democrazie hanno paura”, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano). - Popper, K. R. (2018), “La società aperta e i suoi nemici”, Armando editore, Roma. - Rael, R. (2017), “Borderwall as Architecture. A Manifesto for the U.S.-Mexico Boundary”, University of California Press, Oakland (California). - Tetrais, B., Papin, D. (2018), “Atlante delle frontiere”, Add editore, Torino. - Vallet, E. (2014), “Borders, Fences and Walls. State of Insecurity?”, Routledge, University of Quebec at Montreal (Canada).

Domenico Patassini

Urbanista. Insegna Cultura della valutazione all’Università Iuav di Venezia. domenico.patassini@iuav.it

Vivere senza margini

Live without Borders The contemporary world is affected by unprecedented mass migration. An important role is represented by the “transition settlements”, places of passage for moving populations often “designed” by institutions and actors of cooperation, but which host different forms of self-organization. Camps of refugees represent just one of the typologies of these settlements. They are only apparently disconnected places: it is the absence of margins and the apparent separation that create "spaces" and "places", which allow and guide adaptation, which give it a meaning.*

Il mondo contemporaneo è interessato da migrazioni di massa senza precedenti. Un aspetto rilevante è costituito dagli “insediamenti di transizione”, luoghi di passaggio di popolazioni in movimento spesso “progettati” da istituzioni e attori di cooperazione, ma che ospitano diversificate forme di autoorganizzazione. I campi-profughi rappresentano una tipologia di questi insediamenti. Sono luoghi solo apparentemente sconnessi: sono l’assenza di margini e l’apparente separazione che creano “spazi” e “luoghi”, che consentono e orientano l’adattamento, che lo significano.*

Inerzie e transizioni nei campi profughi

Frontiere Linee di fuga accompagnano la formazione e la conflittualità intrinseca degli insediamenti umani e, nella geografia delle frontiere, configurano itinerari assimilabili a spezzate aperte (A) o chiuse (C). Come confermano le migrazioni di lungo periodo, l’apertura e la chiusura sono da intendersi come gradienti di circolarità a raggio variabile piuttosto che direzioni. I nodi di queste spezzate sono ragioni e luoghi di contatto, di transito o di (ri)fondazione, di permanenza o di oblio, depositi di conflitti planetari. L’apertura indica uscite, abbandoni, movimenti senza ritorno, ritorni ritardati o indotti, “rimbalzi”. La chiusura allude invece a circolarità attribuibili a volontà, bisogni, urgenze o risorse, ma anche a resistenze, memorie, nostalgie o identità.

Dietro questi “fenomeni” operano “politiche di evacuazione”, di sfollamento e di reinsediamento1, dovute a una pluralità di ragioni, spesso interdipendenti, ma che hanno in comune la frontierizzazione del pianeta2, il filtraggio del movimento. Queste politiche producono configurazioni diverse: riserve, zone di confinamento, campi profughi, ghetti, slum, bantustan (come in Sud Africa), campi di concentramento, nuovi villaggi e resettlement, zone speciali. Da queste si sviluppano, per sovrapposizione e condense, pezzi di città, come accade con i campi Saharawi in Marocco e in Algeria o con i campi palestinesi in Libano e Siria. La striscia di Gaza, ad esempio, è una manifestazione parossistica di queste configurazioni. Ma se queste, sorvegliate e spesso militarizzate, neutralizzano il movimento di milioni di persone non è affatto detto che le persone non contino, che non rientrino “nel computo della contabilità politica o del calcolo economico” (Mbembe, 2019). La loro emarginazione è un investimento politico e spesso una risorsa giocata quando serve nei “tavoli della menzogna”.

Movimenti

Il mondo contemporaneo è interessato da migrazioni di massa senza precedenti, di natura diversa dal passato, geograficamente connotate e con tendenza all’aumento.

02. El Aayun, uno dei campi profughi Saharawi (Algeria) nel 2018. El Aayun, one of the Sahrawi refugee camps (Algeria) in 2018. Google Maps/Google Earth

Alla fine del 2018, 71 milioni di persone vengono definite “vittime dello sfollamento forzato a seguito di persecuzioni, conflitti, violenze o violazioni dei diritti umani” dall'UNHCR (UNHCR, report 2019). Di questi, tra i 20 e i 25 milioni sono definiti rifugiati, concentrati principalmente in Asia (oltre 8 milioni) e in Africa (più di 9 milioni) e dei 30 milioni che hanno varcato un confine, quattro su cinque si sono fermati nel paese accanto. Circa 3 milioni di rifugiati sono considerati “in procinto di rimpatrio”, presupposto di altre sofferenze. Si stima, infine, che più di 40 milioni di persone abbiano subito spostamenti forzati (IDP) nei propri paesi a causa di violenza interna e guerre3. L’Internal Displacement Monitoring Centre stima in 17,2 milioni le persone spinte alla migrazione interna per disastri ambientali nel 2019. Le cause sono dovute all’urbanizzazione fuori controllo di megalopoli, mega city e regioni densamente urbanizzate. Il fenomeno è concentrato per più del 70% in Asia sud-orientale e nella regione del Pacifico, e per il 16% in Africa.

Queste cifre sono approssimazioni spesso contestate. Esse escludono un numero considerevole di rifugiati non riconosciuti, e quindi considerati clandestini: rifugiati afgani, descritti come “invisibili” al momento dell'attacco americano in ottobre-novembre 2001; esiliati da paesi dell'Africa centrooccidentale o dal Medio Oriente che, considerati clandestini, vengono catturati, bloccati e respinti nel tentativo di attraversare i confini europei; rifugiati somali, eritrei, etiopi o ruandesi, descritti come “auto-stabiliti”. Alcuni preferiscono sfidare l'illegalità, entrando in reti solidaristiche che solo l’ignoranza o la semplificazione definiscono informali, piuttosto che essere rinchiusi nei campi. Altri vagano senza alcun riconoscimento ufficiale del loro status di rifugiato.

Retorica

I margini accolgono gli “insediamenti di transizione” (transition settlement), luoghi di passaggio di popolazioni in movimento. Si tratta di insediamenti generalmente progettati da

03. La “terra sospesa” di Kakuma (Kenya) nel 2020. The “suspended land” of Kakuma (Kenya) in 2020. Google Maps/Google Earth

istituzioni e attori di cooperazione secondo logiche di emer- ne. Il mondo post-urbano (o post-metropolitano), alla ricerca genza, ma che ospitano diversificate forme di auto-organiz- di nuove centralità “reticolari” e planetarie, tende a trasforzazione. In molti casi sono spontanei, ammessi in luoghi im- mare in “normalità” questi processi, generando nuovi profuposti o condivisi. I Campi-profughi (Cp) rappresentano una ghi, mettendo alla prova la definizione della Convenzione di tipologia particolare di questi insediamenti, dove l’apparte- Ginevra, ma soprattutto le politiche di interazione culturale. nenza culturale è garanzia provvisoria e condizione per ridefinire nella quotidiani- il mondo contemporaneo è interessato tà equilibri, confini e gerarchie. Un Cp si forma per ragioni ambientali, da migrazioni di massa senza climatiche o geo-politiche, per diseguaglianze insostenibili: nasce per l’azione precedenti, di natura diversa dal asimmetrica di fattori di espulsione e di attrazione. A volte questi fattori sembrano passato, geograficamente connotate e alludere a presunti vuoti in realtà luoghi in cui la tensione è bassa e la terra riconocon tendenza all’aumento sciuta come bene comune da tempi remoti. Ma appena organizzato, il campo crea proprie energie e Il Cp può essere una aggregazione/densificazione difensicapacità di sviluppo che vanno oltre le motivazioni all’origi- va spontanea che cerca o non cerca legittimazione, che non

si fa omologare. Più frequentemente, può essere un tentati- autorità francesi veniva motivata da ragioni simili alle politiche vo di ridurre il movimento incontrollato (e vulnerabile) in cui di contrasto agli insediamenti illegali, alla loro “energia critiaiuti umanitari si combinano a processi-limite: un evento ca”. All’interno dei Cp si producono, infatti, energie peculiari emergenziale, utilizzato come dispositivo di protezione de- che rispondono in modo adattativo alle improcrastinabili dostinato a garantire la sicurezza fisica, alimentare e sanitaria mande sociali, ma che costruiscono anche futuro. In questi di persone in difficoltà. Il contrario di “non-luogo”: neppure luoghi di transizione, le persone in movimento cambiano le la “terra sospesa” di Kakuma lo è (Boano, Floris, 2005). proprie condizioni di vita e di ciò che le circonda, modificando

I Cp non sono spazi isolati (lo conferma la loro “mappa pla- la transitorietà stessa. Le conseguenze di questi cambiamenti netaria”) e tantomeno nodi di una rete specializzata: sono, al incidono profondamente sulle formazioni sociali e sulle forme contrario, “risposte”, parte di itinerari “forzati” che connet- insediative rendendo il campo un dispositivo per la transiziotono diversità e, a loro modo, sfidano il “locale”, metaboliz- ne, dotato di autonomia e, per necessità, di permanenza. zandolo, divenendo “generatori”. Ne è un esempio il refugee In sintesi, se i campi sono luoghi con apparenti confini, non complex di Dadaab in Kenya (trasformatosi da campo a com- sono confinati in mezzo al nulla: semmai occupano un luoplesso insediativo). Composto da quattro campi con oltre go altro o di altri, apparentemente sconnessi e frammentati. 210.000 persone, la maggior parte fuggite dalla guerra civile L’assenza di margini e l’apparente separazione creano spain Somalia, ospita anche profughi provenienti da Uganda, Su- zi e luoghi che consentono e orientano l’adattamento. Nati dan e Repubblica Democratica del Congo. come soluzione temporanea, i campi profughi diventano veri

Progettato per 90.000 abitanti, interagisce con l’intorno e propri insediamenti in cui si attivano processi di densificazione, riempimento e formazione di tesi campi profughi diventano veri e propri suti insediativi, evidenziando l’importanza dei luoghi di transizione come sperimeninsediamenti in cui si attivano processi tazione: generatori di diritti, giustizia socio-spaziale e culture di governance. di densificazione, riempimento e Localizzazione, ciclo di vita e forma formazione di tessuti insediativi I Cp possono essere nodi di spezzate aperte (A) o chiuse (C) a seconda delle condizioni ambientali locali e geopolitialimentando l’economia informale e, a detta del governo ke- che. Nel primo caso accompagnano l’uscita o l’abbandono niano, la criminalità e il terrorismo islamico. Per queste ra- di luoghi negati, invivibili, sotto stress o minaccia e, nelle gioni all’inizio del 2019 ne è stata proposta la chiusura con difficoltà o nell’ impossibilità del ritorno, si affidano a dirimpatrio di tutti i rifugiati somali. stanze maggiori, vanno oltre soglie di non ritorno. Nel se-

Per qualche tempo, un altro esempio è stata la “giungla” di condo garantiscono una distanza e un tempo di sicurezza Calais sulla Manica, base di partenza per i migranti verso la (oltre una soglia), spezzando solo in parte i legami con i luoGran Bretagna. Il campo, sviluppatosi spontaneamente, rag- ghi e le ragioni della fuga. Nel primo caso la disponibilità giunse i 10.000 abitanti con servizi sociali e di culto e una cer- all’oblio e all’inedito, al nuovo, è molto elevata, vi sono meno ta autonomia organizzativa. La sua distruzione da parte delle inerzie. Queste emergeranno eventualmente più tardi con

04. Il complesso dei campi profughi di Dadaab in Kenya nel 2020. The refugee complex of Dadaab in Kenya in 2020. Google Maps/Google Earth

l’affiorare di memoria e nostalgia, spesso con richieste di aiuto o in circuiti solidaristici. Ciò può connotare atti di fondazione e di permanenza, così come specifiche modalità di transito. Nel secondo caso, anche per ragioni di distanza spazio-temporale e per prossimità di soglia, le inerzie sono maggiori e minore è la disponibilità all’oblio e all’inedito. Il nuovo è temporaneo e più forti sono le resistenze.

Per genesi, i Cp possono appartenere a uno dei due profili A e C, e transitare dall’uno all’altro. Vengono così meglio caratterizzati (e compresi) localizzazione, ciclo di vita e forma.

La localizzazione ha ragioni contingenti: può essere strategica o tattica, urbana, periurbana, extra-urbana, rurale, isolata, confinata o, letteralmente, “sul confine”, un’ipotesi di sua negazione. Se aiuta a identificare un’appartenenza fisica, geografica, ambientale, rinvia necessariamente a una rete within o trans-boundary. Se la prima appartenenza evidenzia condizioni più o meno favorevoli dal punto di vista degli ecosistemi naturali, la seconda indica livelli di emarginazione o inclusione sia in rete within che trans-boundary. In ogni caso, si tratta di condizioni fondative e vitali per l’insediamento, con effetti diffusivi in A e di densificazione in C.

Un secondo connotato è il ciclo di vita del Cp che può assumere configurazioni lineari, irregolari, cicliche, catastrofiche o di altro genere al variare di fattori interni ed esterni. Lineare o ciclico può apparire il ciclo di vita di un Cp nato da una emergenza “controllata” o ripetuta, da politiche deliberate di punizione collettiva o di razzismo istituzionale, mentre la più frequente irregolarità deriva da improvvisi turbamenti interni o da stress esogeni. La configurazione ciclica è propria di C, mentre le altre tendono a manifestarsi in A.

Localizzazione e ciclo di vita sono connessi, si condizionano l’un l’altra, possono spiegare le ragioni della trasformazione o della stabilizzazione, della transitorietà o della dissoluzione.

Il tessuto insediativo di Cp (la sua matrice) muta con la localizzazione e con il ciclo di vita: può svilupparsi da uno o più generatori, simultanei o in sequenza, in grado di formare clu-

05. Calais, mappa delle etnie nel campo profughi nel 2016. Calais, refugee camp ethnic map in 2016. Malachybrowne, Flickr

ster contigui per aggiunte “ancorate” a nodi o centri provvisori; ma può anche svilupparsi per partizioni incrementali, in modo paratattico, oppure per impianto su base gerarchica.

Localizzazione, ciclo di vita e forma connotano le spezzate, i loro gradienti di chiusura e apertura, così come i rapporti fra fissità e movimento, fra visibilità e invisibilità attorno a pianificati hotspot.

Campo

L’oggetto Cp e la sua descrizione potrebbero rendere superfluo il riferimento al concetto di “campo”. In realtà, lo qualificano valorizzando la nozione critica introdotta da Bourdieu che definisce il campo come un “sistema di linee di forza” (Bourdieu, 1971): artistiche, religiose, sportive, linguistiche e così via, in condizioni di maggiore o minore libertà. Le linee di forza configurano ragioni di scambio fra posizioni e ruoli in strutture di potere definite (Bourdieu, 1992) ma non necessariamente intenzionali, definendo uno spazio di vita.

Il problema è tracciare queste forze, mapparle, scoprire dove vanno e da dove vengono, per quali ragioni, dove si intersecano. Queste dinamiche possono essere alimentate dall’esterno, acquisendo inerzia interna (autonomia) che accoglie e modifica gli ingressi per uscite anche irregolari. Ma l’inerzia potrebbe ridursi. Chi attraversa il campo non è più lo stesso e la differenza è attribuibile alle ragioni di attraversamento, ma soprattutto ai contatti che connotano i percorsi del movimento.

Come abbiamo visto, i Cp sono insediamenti in formazione che mantengono caratteri di provvisorietà o che, in alcune permanenze, trovano ragioni per diventare centri urbani o vere e proprie città. Non sono mai “non-luoghi”: anzi, ne delegittimano il senso. Alcuni campi si riproducono nella transizione, si mantengono provvisori con dotazioni necessarie per la vivibilità di chi c’è, fluttuano per composizione sociale, regole e forme. Altri costruiscono una propria base inerziale, stabile, che resta e alimenta la provvisorietà,

sono nodi di rotte, di reti migratorie, luoghi negoziali appartenenti a discorsi geopolitici che pongono, oltre al diritto all’insediamento, il diritto globale alla mobilità

la transitorietà e il transito. In entrambi i casi si formano inediti diritti (e doveri) all’insediamento, una particolare declinazione del “diritto alla città” a la Lefebvre (Lefebvre, 1968). Nei Cp operano spesso strutture di potere imposte dall’esterno, ma, come nelle istituzioni totali o nei contesti informali, si possono sviluppare strutture di potere e di controllo interne. Esse generano forme di privatizzazione dello spazio pubblico, contrapponendosi alle dinamiche di progettazione e costruzione di “spazi comuni”. Contrarie all’omologazione, queste ultime consentono di sperimentare forme organizzative e di vita alternative. Qui si formano peculiari diritti all’abitare, all’interazione sociale, al movimento. Diritti provvisori per localizzazione, ciclo di vita e forma dei Cp, per loro appartenenza ad A o a C.

Il concetto di campo apre allo stesso concetto di posturbano. Così, i Cp possono essere “margini”, ma più spesso sono “isole”, “confinamenti” quasi mai isolati: sono nodi di rotte, di reti migratorie, luoghi negoziali appartenenti a discorsi geopolitici che pongono, oltre al diritto all’insediamento, il “diritto globale alla mobilità”, con le loro genesi. Così si distinguono dalle periferie urbane, da favelas o slum, dagli insediamenti informali. In queste situazioni di transito e di passaggio, o di nuova stabilità, si manifestano dinamiche che portano alla produzione di figure quali l’escluso, lo straniero (Agier, 2015). Dipende dai luoghi: la stabilità può diventare fondazione oppure affronto, e in questo caso viene distrutta come avvenuto con la “giungla” di Calais.

Implicazioni

Le ragioni, la numerosità e la vitalità dei Cp nel mondo contemporaneo invitano a uno sguardo meno emergenziale, a uno sguardo planetario. Si tratta di un “sistema parallelo” (anche se integrato) di insediamenti dotati di statuto proprio, in cui transizione e permanenza si alimentano a vicenda: insediamenti che dilatano (e annullano) i confini fra stati e regioni, propongono nuovi margini e marginalità, ridefinendone i significati. Sono anche ombre inquietanti dei lager del XXI secolo e delle politiche di esternalizzazione delle frontiere (Perocco, 2019). Pur essendo frequentati da popolazioni-campione “costrette”, ci ricordano che viviamo in un continuo stato di transizione tra confini e margini, il cui attraversamento è problematico: non appena ci muoviamo, i confini e i margini cambiano, alcuni scompaiono, altri si generano; si offrono come opportunità e rituale rapporto con l’altro.

Secondo il “paradigma biopolitico della società del presente” (Agamben, 1990), i campi diventano “uniche opzioni possibili” in un'epoca post-politica del controllo. Diventano icone del potere, del suo esercizio nel mondo. Da misura provvisoria, lo stato d’eccezione diventa normalità, bio-politica che giustifica qualsiasi violenza sulla nuda vita, che “scarica” in paesaggi densi e mutevoli ragioni ed esiti di conflitti. Qui non abitano “masse in eccesso”, ma popolazioni-test, e le transitorietà (a dispetto di Bauman) sono solo apparentemente congelate. Così, la distinzione fra mobilità e sedentarietà tende a dissolversi.*

NOTE 1 - Su dinamiche ed effetti delle politiche di sfollamento e reinsediamento si veda il lavoro di Cernea M., “Resettlement and Development. The Bankwide Review of Projects Involving Involuntary Resettlement 1986-1993”, The World Bank, Environment Department, Aprile 1994. 2 - Intervista a Mbembe A., di Mascat J., “Frontiere e politiche dell’inimicizia”, il Manifesto, 3/12/2019. 3 - Si veda anche IEG, 2019, “World Bank Group Support in Situations Involving ConflictInduced Displacement”. A differenza di approcci contigui all'ecologia sociale, IEG adotta approcci valutativi orientati alla ‘teoria del cambiamento’ in un’ottica ibrida di sviluppo e di aiuto umanitario.

BIBLIOGRAFIA - Agamben, G. (1990), “La comunità che viene”, Bollati Borighieri, Torino. - Agier, M. (2015), “Anthropologie de la ville”, Puf, Parigi. - Boano, C., Floris, F. (2005), “Città nude. Iconografia dei campi profughi”, FrancoAngeli, Milano. - Bourdieu, P., “Intellectual field and creative project”, Collier McMillan, London, pp. 161-188. - Bourdieu, P. (1992), “Les règles de l’art: gènese et structure du champ literaire”, Éditions du Seuil, Parigi. - Lefebvre, H. (1968), “Le droit à la ville”, Éditions Anthropos, Parigi. - Mbembe, A. (2019), “Necropolitics (Theory in Forms)”, Duke University Press Books, Durham. - Perocco, F. (2019), “Tortura e migrazioni”, Edizioni Cà Foscari, Venezia. - UNHCR (2019), “Global Report 2019”, New York.

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