ISSN 2384-9029
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OFFICINA* Bimestrale on-line di architettura e tecnologia N.09 novembre-dicembre 2015 ISSN 2384-9029 Rivista consultabile e scaricabile gratuitamente su : www.officina-artec.com/category/publications/officina-magazine
DIRETTORE EDITORIALE
HANNO COLLABORATO A QUESTO NUMERO:
Emilio Antoniol
Gennaro Afeltra, Lorenzo Brini, Claudio Brunello, Nicolò Brunello, Alessandro Bruzzone, Diletta Causin, Eleonora Cunico, Marta De Momi, Francesco Dellai, Ezio Gabrieli, Enej Gala, Silvia
COMITATO EDITORIALE
Gasparotto, Agnese Giovanetti, Paolo Levaggi, Beatrice Menniti, Francesco Nordio, Sara Pavan,
Valentina Covre
Maurizio Polese, Sara Sagui, Roberto Sartor
Francesca Guidolin Daria Petucco REDAZIONE Margherita Ferrari Valentina Manfè
IMPAGINAZIONE GRAFICA
Chiara Trojetto
Margherita Ferrari
PROGETTO GRAFICO Valentina Covre Margherita Ferrari Chiara Trojetto
EDITORE Self-published by Associazione Culturale OFFICINA* info@officina-artec.com ArTec - Archivio delle Tecniche e dei materiali per l’architettura e il disegno industriale Università Iuav di Venezia Copyright © 2014 OFFICINA*
Stamani m’è piovuta nel cervello un’idea «Buon giorno, mastr’Antonio», disse Geppetto. «Che cosa fate costì per terra?» «Insegno l’abbaco alle formicole.» «Buon pro vi faccia.» «Chi vi ha portato da me, compar Geppetto?» «Le gambe. Sappiate, mastr’Antonio, che son venuto da voi, per chiedervi un favore.» «Eccomi qui, pronto a servirvi», replicò il falegname, rizzandosi su i ginocchi. «Stamani m’è piovuta nel cervello un’idea.» «Sentiamola.» «Ho pensato di fabbricarmi da me un bel burattino di legno: ma un burattino maraviglioso, che sappia ballare, tirare di scherma e fare i salti mortali. Con questo burattino voglio girare il mondo, per buscarmi un tozzo di pane e un bicchier di vino: che ve ne pare?» Il dialogo d’apertura è tratto da Le avventure di Pinocchio di Carlo Collodi e rappresenta una delle prime immagini che sono sorte nella mia mente pensando al tema dell’autoproduzione. In esse sono celati molti interessanti spunti di riflessione sul tema, a partire proprio dal titolo scelto per questo editoriale. Si parte da un’idea, originale, meditata a lungo o “piovuta nel cervello” come nel caso di mastro Geppetto, alla quale si accompagna una volontà forte: quel “fabbricarmi da me” che caratterizza l’attività autoprodotta. Il risultato deve però essere un’opera di alto design, un “burattino maraviglioso, che sappia ballare, tirare di scherma e fare i salti mortali”. È così che le competenze dell’abile artigiano si intrecciano con quelle della mente creativa, il designer, con uno scopo semplice e preciso come ci racconta Collodi: fare della propria arte un lavoro. Ma tale motivazione non va confusa con il mero desiderio di ricchezza; ciò che Geppetto cerca sono “un tozzo di pane e un bicchier di vino” che bastino per il suo sostentamento e per continuare ad autoprodurre
Chiara Trojetto
le proprie idee.
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ESPLORARE Dal curtain wall alla finestra di Emilio Antoniol Gianni Berengo Gardin. Venezia e le grandi navi di Valentina Manfè A 2 Architetti/Artigiani di Francesca Guidolin
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6 in copertina: Fabbro indonesiano immagine di Francesco Dellai, 532DISTIL *
*532DISTIL nasce a Trento nei primi mesi del 2015, dall’idea di un gruppo di amici legati dall’amore per il disegno, la grafica e la fotografia. Ci occupiamo di comunicazione nel campo del graphic e web design. www.532distil.com ≥
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DESIGN AUTOPRODOTTO introduzione di Chiara Trojetto Il designer auto-produttore di Silvia Gasparotto Log&Bones, in direzione ostinata e contraria di Paolo Levaggi e Alessandro Bruzzone Omologie di Emilio Antoniol Identity Containers e Light Inside di Claudio Brunello e Nicolò Brunello Creatività, originalità, luce e colore di Ezio Gabrieli L’unicità materica dell’irregolarità di Maurizio Polese, in collaborazione con Valentina Manfè Concetti veri, orologi finti di Lorenzo Brini Quando il libro non è un prodotto di Sara Pavan
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Osservatorio del Paesaggio del Medio Piave di Roberto Sartor e Sara Sagui IN PRODUZIONE Fare carta con... di Valentina Covre
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VOGLIO FARE L’ARCHITETTO Costruire sul costruito di Francesca Guidolin, Gennaro Afeltra, Eleonora Cunico e Agnese Giovanetti IMMERSIONE Oltre lo scarto a cura di Margherita Ferrari
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La fibra tessile di Margherita Ferrari MICROFONO ACCESO Open Design Italia a cura di Chiara Trojetto
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CELLULOSA Un mondo di finestre a cura di Emilio Antoniol
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(S)COMPOSIZIONE Un cassetto di calze di lana. Questo è sicurezza. di Chiara Trojetto
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ESPLORARE
Dal curtain wall alla finestra 25 novembre e 02 dicembre 2015 Ex-Cotonificio Santa Marta, Università Iuav di Venezia involucrotrasparente.officina-artec.com ≥
Gianni Berengo Gardin. Venezia e le grandi navi 22 ottobre 2015 – 06 gennaio 2015 Negozio Olivetti Piazza San Marco, Venezia www.negoziolivetti.it/gianni ≥
Il convegno affronta il tema dell’involucro trasparente analizzando tale sistema tecnologico in due giornate di studio, rispettivamente dedicate alle facciate continue e alle finestre. Partendo da alcune attività di ricerca sviluppate (2014-2015) in collaborazione tra l’Università Iuav di Venezia e alcune aziende del territorio, con il finanziamento dalla Regione del Veneto, il seminario si propone di instaurare un primo tavolo di discussione su tali argomenti, coinvolgendo ricercatori, aziende e gli Ordini professionali in un percorso di confronto e approfondimento. Obiettivo del seminario è quello di indagare le potenzialità di sviluppo nel settore serramentistico affrontando temi quali l’innovazione di prodotto, l’efficienza energetica, la sostenibilità dei processi produttivi e dei prodotti, la loro certificazione e la corretta posa in opera, senza trascurare gli aspetti progettuali e di integrazione tra l’involucro trasparente e l’edificio.
Il bianco e nero permette di cogliere la matericità essenziale delle forme, concentrandosi sull’oggetto e sulla tematica che la fotografia gli permette di comunicare. Gianni Berengo Gardin nasce in Liguria nel 1950 e si dedica a reportage fotografici, spingendosi molto spesso in tematiche sociali e raccontando l’architettura con la fotografia. Dal 2013 al 2014 realizza una serie di scatti fotografici che raccontano il passaggio delle grandi navi nel bacino veneziano ed è proprio il negozio Olivetti di Piazza San Marco a Venezia ad ospitare questa sequenza fotografica che ordinatamente si sviluppa in tutti i suoi spazi. Percorrendo questa mostra si può godere di una duplice emozione data dagli scatti fotografici del maestro ligure e al tempo stesso dallo spazio che li ospita. Il negozio Olivetti è caratterizzato da una serie di dettagli architettonici ad opera dell’architetto veneziano Carlo Scarpa al quale, nel 1957, Adriano Olivetti ha commissionato il progetto per questo negozio, spinto dal principio che gli spazi dedicati alla produzione e al lavoro dovessero avere elevate qualità estetiche.
di Emilio Antoniol
di Valentina Manfè
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A 2 Architetti/Artigiani 26 novembre 2015, dalle 14.30 alle 20.00 Teatro Accademico, Castelfranco Veneto, Treviso www.architettidellacastellana.it ≥
Sarà lo stretto rapporto tra il lavoro dell’architetto e quello dell’artigiano il tema della conferenza che si svolgerà a Castelfranco Veneto il 26 novembre, dal titolo A 2 Architetti/Artigiani. La conferenza, a cura dell’Associazione Architetti della Castellana è l’ultimo degli appuntamenti che annualmente l’associazione organizza sui temi dell’architettura, dell’urbanistica e del design. L’argomento di quest’anno, l’architetto e il suo dialogare con i protagonisti della produzione artigianale, si inserisce all’interno del più ampio dibattito sul mestiere, che oggi più che mai sperimenta una fase di transizione e la necessità di reinventarsi, di trovare nuovi modelli di produzione, di sviluppo e di azione. Il rapporto tra idea progettuale e mondo della costruzione e del “fare architettura” ne contraddistingue l’operato. L’evento, oltre che un dibattito, sarà l’occasione di conoscere diverse esperienze di questo rapporto tra progetto e cantiere nelle esperienze nazionali e internazionali con aziende del settore.
Tra i relatori che presenteranno le esperienze di progetto saranno presenti l’arch. Tommaso Corà e Albino Celato (dell’Azienda De Castelli), con la presentazione “Pocket Landscape”, l’arch. Toti Semerano e Vittorino Lucietti “La gravità è una nevrosi”. Nella seconda parte l’arch. Miguel Rodriguez con lo studio XMADE di Barcellona presenteranno “Artigianato e/o tecnologia”, e infine l’arch. Ing. Paolo Faccio e Giancarlo Baggio (dell’Azienda Baggio) presenteranno un contributo sul tema “conservazione e miglioramento sismico della camera picta di A. Mantegna”. La conferenza si svolgerà presso il Teatro Accademico, con ingresso libero e la possibilità di ottenere crediti formativi per gli architetti iscritti all’ordine nell’ambito dell’aggiornamento professionale continuo (per informazioni www.architettidellacastellana.it). Un’occasione per rivolgere lo sguardo indietro, alla tradizionale sinergia tra saperi manuali e progettualità intellettuali che forse dopo l’allontanamento degli ultimi decenni, necessita di essere più fortemente rivalutata e sviluppata.
di Francesca Guidolin
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L’AUTOPRODUZIONE DECLINATA NELL’ARTE E NELL’ARTIGIANATO
Italian history books relate at 1935 as the year in which, among other facts, Mussolini declared war against Ethiopia. One of the consequences was that the League of Nations convicted Italy to prohibition of trade with foreign countries for several months. This and autarchy characterized the fascist regime, and they generated the need to find alternatives to the goods that were no longer available. The magazine “Domus” in December of the same year launched an appeal to industry to find alternatives to foreign products which had to be Italian in materials and design. An example was the Lanital, an alternative material to wool, obtained from casein, a component of the milk; the manufacturing company, SNIA Viscose, asked two artists to think of a work to disseminate the new material: Tommaso Marinetti and Bruno Munari worked respectively on texts and illustrations and, in 1937, the “Poem of the dress of milk” was published. What this premise describes is only one among many possible examples of a historical moment in which self-production is not an isolated initiative, but a phenomenon more or less vast originated from specific problems that subsequently involve not only the industry production, but also the world of creativity and culture. Nowadays self-production is still a topic of great relevance: after a long period in which innovation and creativity were considered something immaterial linked to thought and in which the “handmade” was a category closely linked to the artistic dimension and craftsmanship, a certain type of industry starts again to having interest in the craftsman. For the one who
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knows how to physically realize, who knows the material, who is able to experiment on it and thus to produce innovation. This period sees the rediscovery of the pleasure and benefits of the “self” production and the craftsmanship even by categories that until a few decades ago would have never been interested in manual labor: the case of the many graduates who combine knowledge and culture to inventiveness required by the profession undertaken. It is likely that these marriages generate ideas and innovative, fresh, smart products. The contribution of the different authors that the reader will find in the following pages is just a glimpse of the vastness, heterogeneity and importance that the issue is having on the productive and intellectual world of a nation that on creativity and excellence has so much to say.
coinvolto non solo il settore produttivo, ma anche il mondo dei creativi e degli intellettuali. Anche oggi l’autoproduzione è un argomento di forte attualità: dopo un lungo periodo in cui l’innovazione e la creatività erano considerate qualcosa di esclusivamente immateriale legato al pensiero e in cui il “fatto a mano” era una categoria strettamente legata alla dimensione artistica e artigianale, un certo tipo di industria torna ad avere interesse per l’artigiano. Per colui che sa realizzare fisicamente, che conosce la materia, che è in grado di sperimentare su di essa e di produrre dunque innovazione. Questo periodo vede la riscoperta del piacere e dei vantaggi del realizzare “da sé” e delle tecniche artigianali anche da parte di categorie che fino a pochi decenni fa mai si sarebbero interessate ad un lavoro manuale: è il caso dei numerosi laureati che uniscono il sapere dato dagli anni sui libri alla manualità e all’inventiva richiesta dalla professione intrapresa. È facile che da questi “matrimoni” nascano idee e prodotti inediti, freschi, attuali, smart. Il contributo dei diversi autori coinvolti che il lettore troverà nelle prossime pagine non è che un assaggio della vastità, dell’eterogeneità e dell’importanza che il tema autoproduzione sta avendo sul mondo produttivo e intellettuale di una nazione che sul tema creatività ed eccellenza ha molto da dire.
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Francesco Dellai
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l 1935 è un anno ricordato nei libri di storia per la dichiarazione di guerra che Mussolini fece all’Etiopia. Tra le conseguenze del fatto vi fu la condanna dell’Italia da parte della Società delle Nazioni al divieto di effettuare scambi commerciali con l’estero per alcuni mesi. Questo fatto, unito all’autarchia che comunque caratterizzava il regime fascista, generò la necessità di trovare delle alternative per sopperire ai fabbisogni soddisfatti dalle merci non più disponibili. La rivista “Domus” nel dicembre dello stesso anno lanciò un appello al mondo industriale per trovare delle alternative di qualità ai prodotti stranieri che fossero italiane nei materiali e nella progettazione. Un esempio fu il Lanital, materiale alternativo alla lana, ottenuto a partire dalla caseina, componente del latte; la società produttrice, SNIA Viscosa, chiese a due artisti di pensare ad un’opera per divulgare il nuovo materiale: Tommaso Marinetti e Bruno Munari lavorarono rispettivamente ai testi e alle illustrazioni e, nel 1937, venne pubblicato il “Poema del vestito di latte”. Quanto descritto in questa premessa non è che uno fra i numerosi possibili esempi di momento storico in cui l’autoproduzione non è stata un’iniziativa isolata, ma un fenomeno più o meno vasto originato da specifiche problematiche che ha in seguito
di Chiara Trojetto
Il designer auto-produttore Modalità e configurazioni nel contesto contemporaneo
Silvia Gasparotto è dottoranda presso l’Università Iuav di Venezia in Scienze del Design. È collaboratrice alla didattica nel laboratorio di design del prodotto all’Università di San Marino tenuto da Marcello Ziliani. e-mail: silvia.gasparotto@gmail.com
The self-production practice in the design discipline has a long tradition that takes its origins form the idea of craftsmanship first established by William Morris; than, this topic passes through the work of Enzo Mari and the Italian movement of radical design during the ‘70s and the ‘80s. Nowadays the self-production in the design field has become very diffuse, adding, to the traditional techniques, the new technologies of digital fabrication. All self-producer designers are much more free to ideate and create whatever they think than those who work for companies. In this contemporary context is possible to identify different types of self-producer designers to describe and differentiate the designer role in this new scenery: The designer as the craftsman itself ; the designer and the craftsman; the designer and the digital fabrication technologies.
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di Silvia Gasparotto
egli ultimi anni il fenomeno dell’autoproduzione nel design sembrerebbe aver subito un incremento quantitativo. A supportare questa ipotesi sono le molte fiere organizzate da qualche anno in Italia e in Europa (Made ≥, Open Design Italia ≥, Source ≥, Operae ≥) e la recente apertura di portali web dedicati alla promozione e alla vendita dei prodotti creati direttamente dai designer (Crowdyhouse ≥, Etsy ≥, 1ofa100 ≥, code0039 ≥, Internoitaliano ≥). Nonostante questo fenomeno stia numericamente crescendo nel contesto contemporaneo, non si può certo dire che sia una assoluta novità. La questione riguardante l’autoproduzione è infatti storicamente legata da una parte al dibattito tra lavorazione industriale e artigianale, dall’altra alla ricerca di una maggiore autonomia progettuale da parte del designer. Nel primo caso la discussione è spesso stata associata ad una critica del sistema industriale che tende a limitare la scelta del consumatore attraverso prodotti “imposti” e standardizzati. Tra i primissimi oppositori della natura industriale del design ci fu William Morris assieme al movimento inglese Arts&Craft. La convinzione del gruppo era quella di sostenere e promuovere i valori, la sostenibilità e la qualità dell’opera artigiana in opposizione alla standardizzazione e alla “bruttezza” degli oggetti prodotti in serie, simbolo di un lavoro disumanizzato e disumanizzante. I momenti storici in cui è riaffiorato un sentimento critico rispetto alla produzione industriale, sono stati spesso accompagnati anche da una negativa valutazione della società dei consumi: ne sono un esempio i movimenti di radical design negli anni ‘80 che proponevano una visione dell’individuo non solo come consumatore, ma anche come “essere pensante” in grado di riconoscere la qualità e il grado di profondità di un progetto. Anche Enzo Mari, negli stessi anni, volle dare un suo contributo al dibattito con la mostra e la conseguente pubblicazione del 1974 entrambe intitolate Autoprogettazione. Attraverso quest’opera Mari ha tentato, con fine quasi educativo, di far comprendere alle persone l’importanza del proget-
to e la sua qualità rendendo pubblici (oggi diremo con licenza open source) i disegni dei suoi progetti e permettendo a tutti gli interessati di autoprodursi un oggetto d’arredo con l’ausilio di legno, chiodi e martello. L’altro suo obiettivo era quello di mettere in luce il “problema di concepire il design per una società che non sia opulenta, di instaurare una metodologia progettuale che non sia necessariamente il superamento continuo di parametri economici dati”. Il secondo filone che porta il designer ad avvicinarsi all’autoproduzione viene originato dalla volontà di ottenere una maggiore autonomia progettuale, autonomia che in molti casi è stata ottenuta attraverso una parziale mutazione della figura del progettista: da semplice designer a designer-imprenditore. Uno dei primi a sperimentare questa possibilità fu Gino Sarfatti che nel 1939 fondò l’azienda Arteluce, per la quale progettò egli stesso almeno 600 apparecchi illuminanti. Un altro importante progettista-imprenditore è Paolo Rizzatto, che nel 1978 assieme a Riccardo Sarfatti fondò la società Luceplan, per la quale progettò dei pezzi storici, come ad esempio la lampada Titania assieme ad Alberto Meda. La dinamica che conduce al giorno d’oggi i designer a diventare autoproduttori ha degli elementi che derivano dalla fusione delle due differenti tradizioni: da una parte vi è un riavvicinamento alle lavorazioni artigiane (analogiche, ma anche digitali), più accessibili e malleabili delle lavorazioni industriali, dall’altra c’è un desiderio diffuso di poter controllare autonomamente il ciclo complessivo di vita del prodotto e di vedere realizzati i propri progetti. All’in-
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negli ultimi anni il fenomeno dell’autoproduzione nel design sembrerebbe aver subito un incremento quantitativo
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terno di tale contesto i progettisti che dedicano parte del proprio tempo lavorativo a questo tipo di progetti sono moltissimi (su Crowsyhouse, ad esempio, i designer iscritti sono oltre 650) e, grazie ai canali di diffusione di dati, informazioni e le reti di distribuzione globali non hanno più la necessità di strutturarsi come vera e propria impresa. Le attuali configurazioni del moderno designer autoproduttore possono però essere molteplici. Di seguito sono riportati alcuni esempi che tentano di fare un po’ di chiarezza in un panorama molto variegato. Il designer è l’artigiano In questo caso è il designer stesso ad essere allo stesso tempo progettista e artefice dei propri prodotti abbinando l’abilità progettuale a quella manuale. Un esempio di questo approccio è possibile ritrovarlo in Controprogetto ≥: un gruppo formato da quattro designer di Milano (Valeria Cifarelli, Matteo Prudenziati, Davide Rampanelli, Alessia Zema) che hanno voluto operare non solo come progettisti, ma anche come veri
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e propri produttori. La loro storia inizia all’interno dell’esperienza di riqualificazione urbana partecipata della Stecca degli Artigiani, una vecchia fabbrica nel quartiere Isola che ospitava molte botteghe artigiane. Tutti i loro progetti sono pezzi unici o piccole serie realizzate a partire da materiale riciclato e di scarto. Dicono di loro stessi: “Non abbiamo mai avuto paura di sporcarci le mani, di faticare a estrarre i chiodi e le viti che nessuno voleva estrarre, un processo che nessuna macchina può fare. Abbiamo scoperto che sotto la pelle ingrigita dal tempo, il legno resta protetto, e che spesso la storia incisa nel materiale è ciò che lo rende unico e che non di difetti si tratta ma di carattere.” Il designer e l’artigiano Un altro approccio è quello dato dal binomio artigiano-designer. In questo caso non è il designer stesso a produrre i propri progetti, ma un artigiano di fiducia che attraverso la sua maestranza e abilità è in grado di realizzare in modo accurato gli oggetti proposti. Qui il concetto di autoproduzione è spurio, lievemente contaminato,
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la questione riguardante l’autoproduzione è storicamente legata da una parte al dibattito tra lavorazione industriale e artigianale, dall’altra alla ricerca di una maggiore autonomia progettuale da parte del designer
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anche se si ritiene possa rientrare nel quadro generale in primis perché spesso il designer è presente e collabora con l’artigiano nella fase di lavorazione del prodotto, poi perché gli oggetti finali non sono venduti da aziende terze, ma dal designer stesso. Esempi di questa tipologia di autoproduzione sono i lavori di Breaking the Mould ≥: un gruppo eterogeneo di designer e artigiani che cercano di esplorare e sperimentare nuove lavorazioni nell’ambito della produzione vetraia muranese. Il gruppo si è formato nel 2011 ma è ancora attivo con proposte di collezioni annuali. Il gruppo è composto dal collettivo AUT (Riccardo Berrone, Federico Bovara, Luca Coppola), Chiara Onida, Marco Zito e Anna Perugini (designer), Tommaso Cavallin (scienziato dei materiali) Matteo Stocco (video maker) e Dario Stellon direttore di produzione dell’azienda Salviati.
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i progettisti che dedicano parte del proprio tempo lavorativo a questo tipo di progetti sono moltissimi: su Crowsyhouse, ad esempio, i designer iscritti sono oltre 650
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Il designer e le tecnologie di fabbricazione digitale Infine, in tempi recenti, sebbene ancora in fase evolutiva, accanto all’artigianato classico si sta sempre più diffondendo l’artigianato 2.0 che utilizza gli strumenti di fabbricazione digitale per la creazione di oggetti singoli o piccole serie. In questo caso il designer ha da una parte la possibilità di produrre e vendere autonomamente i pezzi autoprodotti, dall’altra di diffondere o vendere il progetto stesso in modo che venga prodotto localmente (open manufacturing). L’approccio del designer alla fabbricazione digitale è ben sintetizzato da Keystones, uno dei lavori dello studio Minale-Maeda ≥ fondato dai due designer a Rotterdam nel 2006. Keystones riduce il progetto ad un unico pezzo stampato in 3D che connette le parti necessarie alla costruzione di vari oggetti d’arredo come ad esempio tavoli, attaccapanni o librerie. Il progetto nasce nel 2012, ma subisce un’evoluzione nel 2014: vengono infatti creati differenti tipologie di ganci per fare in modo che si possano creare differenti strutture connettendo numerosi materiali e moltiplicando, in questo modo, la varietà di oggetti che si possono immaginare e creare. Il progetto nasce dalla volontà di sperimentare le potenzialità dei materiali stampati in 3D assieme ai materiali classici, come ad esempio il legno, approfondendo, in questo modo il binomio analogico-digitale. ♦
IMMAGINI 01 - Il team di Controprogetto. Immagine di Controprogetto. 02 - Artigiani intenti nella lavorazione del vetro. Immagine dell'azienda Salviati. 03 - Tavolo composto da materiali di riciclo. Immagine di Controprogetto. 04 - Collezione “Venice>>First”. Immagine di Breaking the mould. 05 - Keystones. Immagine di Studio Minale-Maeda. 06 - Collezione “Venice>>First”. Immagine di Breaking the mould. BIBLIOGRAFIA - Alessi C., “Dopo gli anni zero, il nuovo design Italiano”, Bari, Editori Laterza, 2014. - Bassi A., “Design, Progettare gli oggetti quotidiani”, Bologna, Il Mulino, 2013. - Gershenfeld N., “Fab: the coming revolution on your desktop-from personal computers to personal fabrication”, Cambridge MA, Basic Books, 2005. - Mari E. con Facchinelli E., “Dibattito critico” in “L’erba voglio”, n. 16, 1974. - Mari E., “Autoprogettazione?”, Mantova, Edizioni Corraini, 2002. - Mari E., “25 modi per piantare un chiodo”, Milano, Mondadori, 2011. - Sennet R., “L’uomo artigiano”, Milano, Feltrinelli, 2008.
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Log & Bones, in direzione ostinata e contraria Un processo di autoproduzione che utilizza il legno in maniera anticonvenzionale
Paolo Levaggi, nato a Genova nel 1986, laureato in architettura, è falegname presso presso F.lli Levaggi snc, di cui ne è titolare. e-mail: paolo.lewa@gmail.com Alessandro Bruzzone, nato a Genova nel 1986, è architetto e designer, lavora e sperimenta pratiche di riuso e autoproduzione con il collettivo Gruppo Informale. e-mail: al.bruzzone@gmail.com
Log & Bones is a project born from an experiment: we try to mix the project design with the executive design, to determinate the product quality. The ground level of this research is rapresented by the stool: it is the basic element and the symbol of our path. It is developed with a poetical approach and an engaging process. In fact the wood is worked plumb to the tree fibres, so we can observe and read its history.
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di Paolo Levaggi e Alessandro Bruzzone
og & Bones è un progetto nato tra il 2014 e il 2015 scaturito dall’amicizia tra Paolo e Alessandro, due amici che hanno condiviso dapprima il percorso universitario in architettura e successivamente la passione per l’autoproduzione. Alessandro lavora in un collettivo di architetti che realizza progetti e oggetti personalizzati attraverso pratiche di riuso e riciclo. Paolo è invece entrato nell’azienda di famiglia dove da tre generazioni si costruiscono sedie artigianali. Due figure che in un certo senso divengono complementari: da un lato Alessandro fa della progettazione architettonica e d’interni il suo pane quotidiano sperimentando l’autocostruzione per dare forma alle sue idee con un approccio personalizzato; dall’altro Paolo si sforza nell’apprendere quello che è un mestiere antichissimo e affascinante, il falegname, seguendo la sola strada che porta a raggiungere tale obiettivo, la “pratica quotidiana” e continua seguendo l’insegnamento dei maestri di bottega. Due sensibilità diverse e simili allo stesso tempo, due modi di vivere il progetto e di mettersi reciprocamente in gioco spostandosi continuamente dal piano progettuale a quello tecnico-manuale; con un grande vantaggio rispetto alla classica collaborazione designer-artigiano: quello di parlare la stessa lingua e di muoversi (quasi sempre) sulla stessa lunghezza d’onda. Ed è proprio ciò che emerge nella loro idea di autoproduzione: “Per noi è il processo che colma la distanza tra idea e fabbricazione, progetto e oggetto; è l’unione tra la conoscenza della testa e quella delle mani”. Queste parole esprimono esattamente il senso della ricerca di Paolo e Alessandro: un filo diretto tra idea e oggetto. Una strada che, malgrado sia senza dubbio la più breve da percorrere, è tutt’altro che facile e priva di difficoltà: se da un lato è infatti necessaria una solida cultura del progetto, dall’altro non si può trascurare l’aspetto manuale e costruttivo perchè contribuisce in maniera decisiva a determinare la qualità dell’oggetto finito. Attraverso questo dialogo prende forma il progetto Log & Bones
che inizia prendendo in considerazione l’elemento “0” dell’ambiente domestico: lo sgabello. Come spesso accade negli oggetti di design contemporaneo non mancano le ispirazioni dal mondo popolare o agricolo: lo sgabello che il pastore utilizza per la mungitura, piccolo leggero e facilmente maneggiabile, o lo sgabello nella sua forma più arcaica ed elementare, quello ricavato dal ceppo posto in piedi verticalmente, sono solo alcuni degli esempi che hanno animato l’immaginario dei due giovani designer. Ma come fare a condensare degli archetipi in un pezzo di design contemporaneo? Come dargli un tratto unico e caratterizzante? Quest’ultima domanda ha trovato la sua risposta quando Paolo e Alessandro hanno fatto una scelta coraggiosa: lavorare il legno nella maniera non convenzionale e cioè perpendicolarmente alla direzione delle fibre invece che parallelamente come avviene solitamente in falegnameria. Ciò significa utilizzare non assi di legno ma vere e proprie sezioni di tronco andando a creare dei dischi che costituiranno il piano di seduta dello sgabello. Questa scelta comporta non poche difficoltà nella lavorazione perchè in questo modo il legno, proprio per il fatto che l’azione degli utensili è contraria alla direzione delle fibre, oppone una “naturale” resistenza al taglio e alla finitura delle superfici. Inoltre in fase di stagionatura l’umidità contenuta all’interno delle cellule si disperde in maniera estremamente più rapida dando luogo a fenomeni di spaccatura e fessurazione. Per contro ciò che regala il pezzo finito agli occhi dell’osservatore è ciò che di più suggestivo la lavorazione del legno possa regalare: una vera e propria impronta dell’albero, una traccia visibile del trascorrere del tempo su di esso, una carta d’identità in cui attraverso la lettura degli anelli di accrescimento è possibile conoscere oltre che l’età della pianta al momento del taglio, anche la sua storia evolutiva, l’andamento delle stagioni, la presenza di anni siccitosi o di inverni particolarmente rigidi. La sezione del disco è lavorata al tornio per smussarne il profilo e snellirne l’aspetto laterale senza perdere spessore, e quindi solidità, nel punto di innesto con le gambe. Infine la spaccatura (normal-
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una vera e propria impronta dell’albero, una traccia visibile del trascorrere del tempo su di esso
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crediamo nell’energia interiore di un oggetto costruito a mano. È pieno di vita e possiede l’unicità al tempo stesso grezza e raffinata di un amuleto
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mente l’essicazione da luogo ad un’unica grande spaccatura) diviene anch’essa elemento caratterizzante del progetto, sigillata con un butterfly joint o incastro a farfalla, realizzato con un tassello di essenza e colore diversi rispetto a quelli del tronco, un accorgimento estetico-strutturale molto usato dai falegnami nordamericani che ricuce e irrobustisce il piano di seduta impreziosendolo. Ancora dal tornio prendono forma gli elementi di sostegno: le gambe appunto, elementi conici stondati all’estremità e posizionati con un’inclinazione tali da conferire un aspetto fresco, semplice e al contempo rifinito al prodotto. Con lo stesso principio hanno preso forma gli altri oggetti della stessa famiglia: il tavolino e l’appendiabiti. Nel primo caso la sezione dell’albero diventa il piano del tavolo e le gambe incastrate in modo simile allo sgabello si moltiplicano per caratterizzare l’elemento. Per l’appendiabiti la sezione di tronco, più spessa, è smussata su entrambi i lati in modo da diventare supporto a incastro per gli elementi porta abiti. Le essenze utilizzate sono varie: cedro del libano, rovere, faggio, ulivo, ciliegio, sono solo alcune; la selezione dei tronchi da cui inizia la produzione è documentata fin dal momento del taglio dell’albero: la sua energia interiore è custodita in un oggetto costruito a mano, espressione dell’unicità al tempo stesso grezza e raffinata di un amuleto. ♦
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IMMAGINI 01 - Una fase della lavorazione della sezione: la preparazione del disco. 02 - Lo sgabello: elemento primordiale dell’ambiente domestico. 03 - Il piano dello sgabello con gli anelli di accrescimento ben leggibili. 04 - Gli sgabelli Log&Bones: per la loro lavorazione ognuno è un pezzo unico. 05 - Sgabello e appendiabiti. 06 - Log&Bones, dietro le quinte. Immagini di Log&Bones. LINK UTILI www.logbones.com ≥
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Omologie Un laboratorio di autoproduzione sostenibile
Emilio Antoniol è architetto Ph.D. in tecnologia dell’architettura e-mail: antoniolemilio@gmail.com
Omologie is a small company founded in January 2015 between Milan and Marcianise (CE). It is the result of the experiences gained by the three founding partners in the interior design in the last twenty years. The Omologie’s activities cover various design areas including the design of objects and furniture for indoors and outdoors up to the advice for both the interior and for the landscape design. Omologie, however, is primarily a laboratory for testing new ideas, where the products are partly self-produced and partly assigned to the work of skilled craftsmen. To summarize the Omologie’s idea and his way of working three basic concepts should be named: the honesty of people, materials and production methods, the durability of the products and their simplicity.
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di Emilio Antoniol
mologie è una piccola realtà nata nel gennaio 2015 tra Milano e Marcianise (CE) dall’esperienza nell’interior design maturata nel corso degli ultimi vent’anni dai tre soci fondatori. L’attività di Omologie si estende in diversi ambiti del design comprendendo la progettazione di oggetti e arredamento per interni ed esterni fino ad attività di consulenza sia per l’interior che per il landscape design. Un laboratorio di autoproduzione Omologie è però principalmente un laboratorio di sperimentazione di nuove idee, dove i prodotti vengono in parte direttamente autoprodotti, in parte affidati all’opera di artigiani specializzati. L’autoproduzione è stata una scelta “naturale”, legata in primo luogo al metodo di lavoro adottato dallo studio nell’attività di progettazione di interni che vede spesso l’impiego di oggetti di propria produzione, disegnati e realizzati direttamente in laboratorio. L’autoproduzione, pur aumentando sensibilmente i costi finali del prodotto, consente infatti un maggior controllo sulle finiture, sui materiali e sul processo produttivo consentendo così di ottenere risultati migliori sia sul piano formale che su quello tecnico. Alla realizzazione in laboratorio si affiancano lavorazioni o attività affidate a specialisti esterni che collaborano con Omologie seguendo una precisa “filosofia produttiva”. Questa fa della versatilità, della semplicità d’uso e dell’utilizzo di materiali naturali sostenibili, con finiture poco artefatte, le caratteristiche essenziali dell’attività di Omologie. I risultati di questo pensiero sono prodotti semplici e funzionali quali Tipo da spiaggia, pocket b. e la serie corteccia. La prima è una seduta, pratica e minimale, realizzata in legno massello trattato con cera d’api e lavorato con tecniche manuali, completata da un sedile in tessuto di canapa ≥, materiale scelto per il suo basso impatto ambientale. La sedia è accompagnata da un coperchio/vassoio con il fondo in multistrato placcato e i lati in legno massello, che la rende ancora più versatile permettendo
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di usare Tipo da spiaggia anche come piano di appoggio portatile. La libreria pocket b., anch’essa in legno massello trattato solo con cera d’api, è interamente realizzata ad incastro senza componenti metallici. La libreria è dotata di un sistema di divisori mobili, sempre in legno, per sostenere i libri e si adatta con facilità a diversi stili di arredamento. La serie di lampade da terra Corteccia è invece caratterizzata dalla base in fusione di ottone che inverte il tradizionale rapporto base/stelo in una lampada da terra, scegliendo una lavorazione preziosa ed impegnativa per un componente, la base, che in alcuni casi viene realizzato con un lamiera verniciata e riveste un ruolo secondario nell’oggetto. Una produzione sostenibile Tutti i prodotti di Omologie sono eseguiti manualmente, utilizzando nel 95% dei casi legni massello finiti con prodotti naturali quali cera d’api, olio di Tung o gommalacca. L’intera produzione è quindi basata sulla volontà di non trattare superficialmente i prodotti con vernici, senza alterare così il colore del legno con coloranti superficiali, quali lacche al poliestere o poliuretaniche. Allo stesso modo sono esclusi dalla produzione i solventi derivati da idrocarburi che sono sostituiti dal limonene, un solvente naturale che viene estratto dagli agrumi. Le lavorazioni per la protezione del legno (ceratura, laccatura con gommalacca o con olio di Tung) vengono eseguite interamente a mano, usando tecniche tradizionali e presentano tempi di esecuzione più lunghi di quelli tipici dei processi industriali, soprattutto a causa dell’incidenza dell’asciugatura naturale. Tuttavia ciò con-
Omologie è un laboratorio di sperimentazione di nuove idee, dove i prodotti vengono in parte direttamente autoprodotti in parte affidati all’opera di artigiani specializzati
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la sostenibilità si riversa anche nell’aspetto della qualità dei prodotti, caratterizzati dalla semplicità e dalla durabilità
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sente di mantenere inalterate le caratteristiche del materiale, conservandone aspetto, colore e trama superficiale. Tra i metalli viene preferito l’ottone, sia in fusione a cera persa che modellato per estrusione, mentre come tessuti vengono usati la canapa naturale oppure un tessuto rigenerato a base di pelli di recupero e poliestere riciclato. Anche in questo caso si cercano quindi soluzioni attente all’ambiente. La stessa attenzione si presenta poi anche negli aspetti più operativi dell’attività quali l’imballaggio dei prodotti finiti, realizzato in semplice carta riciclata senza l’uso di polistirolo o altri materiali di origine industriale. Infine, la filosofia della sostenibilità si riversa anche nell’aspetto della qualità dei prodotti, caratterizzati dalla semplicità e dalla durabilità, con l’intento di creare un oggetto da tramandare in famiglia e non legato alle mode momentanee. Purtroppo queste scelte influiscono in modo rilevante sul costo finale del prodotto ma, anche in questo caso, l’autoproduzione offre un vantaggio: il non essere “governati” dal profitto, potendo quindi investire sull’idea di qualità. Una qualità che passa per tre aspetti fondamentali: un progetto rispettoso della propria filosofia, artigiani competenti ed appassionati e materiali di pregio. Per riassumere Omologie e il suo modo di lavorare si possono quindi richiamare tre concetti basilari: l’onestà delle persone, dei materiali e dei metodi di produzione, la durabilità dei prodotti e la loro semplicità, poiché è in questa che ha sede la vera essenza dell’autoproduzione. ♦
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IMMAGINI 01 - Dettaglio della libreria pocket b. 02 - Il laboratorio di Omologie. 03 - Una delle lampade della serie corteccia. 04 - Tipo da spiaggia, dettagli. 05 - La libreria pocket b. realizzata senza componenti metallici. Immagini di Omologie. LINK UTILI Omologie di F.Guerriero www.omologie.com ≼
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Identity Containers e Light Inside Emozione all’interno
Claudio Brunello è art director di Brunello Art&Design. Nicolò Brunello è responsabile fotografia, grafica e web di Brunello Art&Design. e-mail: info@brunelloartedesign.com
The compositions of Brunello Art & Design (Claudio and Nicolò Brunello) are shaped on the principle of change. They are halfway between matter and life, inhabiting the thin gap where the matter becomes mind and thoughts solidify. The produced objects are simple and light, with the use of LEDs and materials such as wood, plexiglass and metal. They reflect their ability to occupy both the physical and the emotions space. Combining the aesthetics of italian design with contemporary art, the beauty and the contents are melted inside the object. Great importance is given to the container, often in plexiglass for its transparency, charm and modernity. Its size has been carefully calculated to encourage and maximize the void that exists between the material/sign and the sign/matter which become content themselves.
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di Claudio Brunello e Nicolò Brunello
e composizioni della Brunello Art & Design (Claudio e Nicolò Brunello) sono plasmate sul principio del cambiamento, stanno a metà strada tra materia e vita abitando quel sottile interstizio, dove la materia diventa idea e i pensieri si solidificano. Gli oggetti prodotti sono delicati, semplici, leggeri, con l’uso della luce LED e materiali come legno, plexiglass e metallo, riflettono la loro capacità di occupare sia lo spazio fisico che quello delle emozioni. Gli Identity Containers realizzati nel 2014, impiegano il plexiglass come strumento di un esperimento narrativo per creare uno spazio solido ma visivamente trasparente, oggetti al confine tra scultura e scrittura, nei quali sono inseriti messaggi finalizzati a suscitare emozioni positive in chi li osserva. Sono opere di piccolo formato, singole o associate tra loro come fossero tessere autonome di un grande mosaico, difendono la loro unicità interagendo con l’ambiente circostante e tramandano nel tempo ciò che apprendono, la conoscenza e il sapere che diventa esperienza. Essenziali, come calligrammi giapponesi, sono il risultato di un percorso e di un preciso stato d’animo, unico ed irripetibile, fonte di energia e vitalità. Anche il vuoto che esiste tra la teca di plexiglass e il materiale in essa inserito, non è uno spazio vacuo, ma denso in quanto ricco di possibilità in procinto di realizzarsi. Uno spazio che impalpabile e dinamico spinge l’osservazione a indagare sulla disposizione del tutto. Nel contenitore Relazioni del 2014, le strisce in policarbonato con impressi i nomi di tutte le nazioni del mondo, sono sistemate in modo di incastrarsi una sull’altra. Qui ogni piega rappresenta un confine, è una linea netta di demarcazione che esclude ed allo stesso tempo sottolinea il senso di appartenenza che il genere umano stabilisce nel tempo. L’esigenza di espandere la linea degli Identity Containers, deriva dal fatto che non la si poteva allargare ulteriormente senza un valore aggiunto importante. Nasce la linea Light Inside che a nostro modo
il giusto porre diventa piacere del contatto visivo
di vedere può essere illimitata in quanto l’unico limite è la non fantasia. Il contenitore diventa superficie e il contenuto diventa traccia, la luce intercetta l’incisione effettuata da laser, dalla trasparenza del materiale (PMMA) ne scaturisce una comunicazione affascinante, essenziale e silenziosa. Una sensazione di sospensione, di galleggiamento e d’attesa è evidente. Il soggetto Lifetime, rappresentazione di una sezione d’albero, contiene e narra il tempo di vita di un eterno compagno dell’uomo, evidenziandone gli anelli di crescita, il tempo che lascia traccia del suo passaggio nella sorta di raggiera che si viene a creare con la disidratazione della materia vegetale. La base realizzata (a scelta) con i pregiati legni padouk e noce, evidenzia il valore del soggetto rappresentato. Sempre dedicato al mondo vegetale il soggetto O2 è formato da una base cubica, realizzata con tipologie di legni diversi che dà genesi, in un tempo non definito, ad un albero privo di foglie che non si presentano in caduta ma in ascesa. Ad una più attenta osservazione, esse sono presenti in forme di lettere alfabetiche o simboli che disperdendosi nell’aria diffondono il sapere acquisito dall’uomo. Il legno come padre dell’evoluzione umana. Il soggetto Op-Art è omaggio alla corrente artistica emersa con forza alla fine degli anni ’60 del secolo scorso: l’Optical art. Utilizzando un disegno risalente al 1973 dell’artista Claudio Brunello, inciso a laser su PMMA, si crea un effetto ottico tridimensionale, interessante e coinvolgente che invita al movimento. Omaggio al grande scienziato del ‘900, Albert Einstein, è Matter?: questa stele in plexiglass dipinta di nero diventa una lavagna sulla quale vari calcoli si sommano e si sovrappongono, facendo emergere la sua formula più celebre. La base è realizzata in legno di noce o a scelta in legno padouck o PMMA. 12 è altro soggetto interessante, una sorta di segnatempo composto da una base tonda di differenti legni con dodici stele di plexiglass di varia lunghezza che possono essere spostate a piacimento, quasi a significare che la durata del tempo non è in successione ma può essere arbitraria in base alle proprie emozioni. Oggetto dalla
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il vuoto di materiali e l’assenza di segno diventano contenuto
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forte connotazione architettonica con rimandi di carattere tribale, il numero 12 evoca numerosi significati in vari campi: chimico, filosofico, simbolico, religioso e astronomico. In WAYs, la trasparenza del PMMA utilizzato in strisce piegate e sovrapposte, indica direzioni trasparenti e labirintiche. La luce gioca con questa disposizione, creando riflessi ed abbagli: qui l’immaginazione ha totale arbitrio. Synapse è un contenitore interamente occupato da fili di nylon che si presentano contorti e annodati, non si percepisce né inizio né fine; un legame complesso, sintetico, che attraversato dalla luce LED crea fascino ed emozione. La visione è coinvolta nella ricerca di un possibile percorso, suggerendo connessioni che ci portano in un non luogo e direzione dall’indefinita complessità. Dialogos è il soggetto che più sconfina nell’arte concettuale, assumendo il ruolo di scultura. Minimale nell’aspetto, carica di atavici rimandi è composta da una base in metallo con evidenti bulloni di fissaggio cita in tal modo l’industrializzazione che come conseguenza ha privato l’uomo della sua identità. Identità ricercata nei
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due sovrastanti steli neri che nei lati interni recano inciso e illuminato da LED le prime declinazioni del verbo essere: io sono, tu sei, anche in lingua inglese. Consapevolezza e giudizio si presentano alternate e in continuo confronto, interrogativo perenne dell’esistenza umana. Oggetto/soggetto, empatia, condivisione e dichiarazione d’identità, parole di luce che forano il buio e concettualmente illuminano. Gli Identity Containers e Light Inside sono produzioni della Brunello Art & Design tutte da scoprire; contenitori di emozioni positive che irradiano sensazioni piacevoli nell’ambiente in cui sono collocate. Calamitano l’attenzione di chi le guarda inducendo a concedersi il tempo per osservarle e a girare non solo attorno, ma a sconfinare fino ad addentrarsi in esse, perché non sono soltanto forma, ma anche spazio-tempo. ♦
IMMAGINI 01 - Relazioni (2014); plexiglass e policarbonato, 32x32x8 cm. Immagine di Claudio Brunello. 02 - Lifetime (2015); legno, plexiglass e LED, 32x35x8 cm. Immagine di Nicolò e Claudio Brunello. 03 - Matter? (2015); legno, plexiglass verniciato e LED, 32x35x8 cm. Immagine di Nicolò e Claudio Brunello. 04 - O2 (2015); legno, plexiglass e LED, 11x63x11 cm. Immagine di Nicolò e Claudio Brunello. LINK UTILI Brunello Art & Design www.brunelloartedesign.com ≥
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Creatività, originalità, luce e colore Le prerogative delle lampade Gabrik
Ezio Gabrieli è designer, artigiano. Ama il design e la relazione fisica ed emozionale che crea con ciò che lo circonda. E per questo ha scelto di coniugare materiali industriali con una fonte primaria, la luce. e-mail: mail@gabrik.it
Gabrik lamps are quality artisan products made in small series. The lamps are made by assembling joints and hydraulic pipes with lampshades made of wood or colored polypropylene. The decision to self-produce my lamps was initially due to the desire to control costs and to have complete control on the product quality. In my opinion self-production is: to look for, to invent, to try and try again, to overcome with patience and determination difficulties and failures to achieve a functional, useful and beautiful product.
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di Ezio Gabrieli
l mio percorso nel mondo dell’autoproduzione inizia nel comparto orafo di Valenza (AL). Dopo essermi diplomato, ho lavorato come dipendente in alcune importanti aziende orafe di Valenza, ricoprendo ruoli di “modellista”, responsabile di produzione e responsabile delle relazione esterne. In seguito ho svolto attività autonome nel settore della grafica, del marketing e nella prototipazione rapida, sia come consulente che come artigiano. Le competenze da me maturate nella progettazione artistica, nelle lavorazioni manuali e nell’organizzazione del lavoro mi hanno infine spinto ad intraprendere un’attività differente, quella del designer. L’obiettivo che mi ero prefissato era quello di progettare, produrre artigianalmente e commercializzare particolari lampade per interni, realizzate con componenti in metallo utilizzati normalmente nel settore idraulico. Il design di tali prodotti è il risultato di un attento studio nel rapporto tra le proporzioni e le caratteristiche tattili dei giunti in ghisa, dei tubi zincati e dei rubinetti in ottone che, abbinati ad efficienti lampadine LED, donano al prodotto un particolare tocco industrial-chic che consente loro di inserirsi facilmente in molti scenari di interior design. Dato il carattere prettamente artigianale dell’impresa, tutte le mansioni relative alla progettazione, alla costruzione e alla commercializzazione dei prodotti sono svolte principalmente da me (solo alcune fasi, come la lavorazione al laser dei paralumi è svolta in esterno) e danno quindi forma ad un oggetto autoprodotto. Per questa tipologia di complemento di arredo ho sviluppato un design molto lineare e materico che potesse inserirsi facilmente in differenti contesti. Il concetto di “stile contemporaneo” ottenuto utilizzando materiali e oggetti di recupero è sempre più in uso, anche grazie a blog e aziende di settore che lo stanno diffondendo. Partendo da questi presupposti, l’idea iniziale si è quindi sviluppata soffermandosi su aspetti pratici quali: l’uso di componenti che non
necessitano molta rifinitura prima di essere assemblati, l’utilizzo di cablaggi elettrici già pronti, la facilità di montaggio delle lampade senza attrezzature specifiche e il posizionamento in settori di mercato alternativi, anche mediante l’utilizzo di nuovi mezzi di comunicazione e di vendita. Le lampade Gabrik sono prodotti artigianali di qualità. Realizzate in piccola serie con un elevato standard di produzione senza sacrificare gli aspetti “rustici” dei materiali utilizzati, permettono di occupare un settore di mercato privo di concorrenza diretta, in cui l’acquirente pone particolare attenzione ad aspetti emozionali legati all’utilizzo di materiali di recupero e all’incontro tra presente e passato. I giunti e i tubi zincati utilizzati provengono da importanti aziende italiane ed europee. Con l’esperienza ho imparato a riconoscere la qualità dei prodotti e, quando mi reco nei magazzini per procurami i pezzi, inizia per me una specie di caccia al tesoro volta ad identificare il componente migliore per i miei scopi. Rientrato in laboratorio, dopo aver pulito e selezionato i tubi, inizia il lavoro di adattamento per il loro nuovo ruolo. Progettati e realizzati secondo logiche industriali, essi richiedono una cura particolare, intervenendo su filettature e difetti di fusione per ottenere il perfetto allineamento dei pezzi. In ogni lampada che realizzo c’é sempre qualche particolare differente che la rende unica e diversa dalle altre. Caratteristica peculiare del prodotto sono poi i paralumi che realizzo nel mio laboratorio. Inizialmente utilizzavo paralumi in stoffa ma le mie realizzazioni sembravano anonime e non catturavano il mio interesse; mi sono quindi adoperato per creare dei paralumi che si potessero adattare meglio alle caratteristiche delle mie creazioni. Ho identificato nel legno un componente importante per il design delle lampade da tavolo e, dopo qualche prova con il laser per trovare la texture ideale per far filtrare la luce, sono riuscito a realizzare dei paralumi del tutto originali. In contrapposizione al legno, proprio recentemente ho deciso di realizzare dei paralumi colorati che ottengo da fogli di polipropilene traslucido; questi, giocando con la luce e il colore, vogliono rendere le mie lampade più allegre e ironiche.
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autonomia creativa, curiosità laboriosa, coraggioso viaggio intrapreso per conoscere e costruire se stessi attraverso l’operare con le mani e la mente
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La scelta di autoprodurre le mie lampade è stata inizialmente dovuta alla volontà di contenere i costi e di avere il controllo completo sulla qualità dei prodotti. È un percorso che ho iniziato un paio di anni fa e che si è rivelato impegnativo, coinvolgente ma anche divertente. Mi permette di crescere interiormente e di confrontarmi con persone diverse; mi obbliga ad impegnarmi a fondo per risolvere le problematiche che, di volta in volta, mi trovo di fronte anche se non è sempre semplice prendere decisioni immediate, soprattutto per quanto riguarda gli aspetti di marketing del prodotto. Inizialmente quando ho redatto il business-plan per il mio percorso d’impresa ho stabilito come priorità lo sviluppo dei prodotti e l’organizzazione aziendale, ma ora dovrò dedicare lo stesso impegno per posizionare in modo efficace la mia linea di lampade nel mercato globale del web. ♦
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cercare, inventare, provare e riprovare, superare con pazienza e determinazione le difficoltà degli inevitabili fallimenti per ottenere un prodotto funzionale, utile e bello 05
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IMMAGINI 01 - Edo. 02 - Gioia ed Elisa. 03 - Diva. 04 - Le componenti delle lampade Gabrik. 05 - Fasi di lavorazione. 06 - Robot. 07 - Schema di produzione della lampade Gabrik. Immagini di Ezio Gabrieli. LINK UTILI www.gabrik.it ≼
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L’unicità materica dell’irregolarità
Maurizio Polese è co-fondatore di Delamont, insegna post-produzione allo Iuav ed è stato fotografo industriale. e-mail: polese.maurizio@gmail.com Valentina Manfè è architetto. e-mail: valentinamanfe@yahoo.it
Delamont is an artisan company that produces furnishings that perform their specific function in the most simple way, trying to bring a balance in houses and spaces that we live every day, recalling the natural environment and the dimension of manual processed craft, which is lost in serial industrial objects . Materials as solid wood, iron, glass and stone are utilized and tested from ancient times, naturally subjected to processes that affect them, and they are developed and used showing right away the possible defects, rust, stains, cracks, to prevent the effects of aging which lead to obsolescence.
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di Maurizio Polese, in collaborazione con Valentina Manfè
a produzione industriale negli ultimi decenni, sulla spinta dell’ideologia occidentale che esalta permanenza, simmetria, grandezza e perfezione, ci ha portato un’estetica degli oggetti di uso comune modellata dall’avanzamento tecnico e l’uso massiccio di macchine necessarie ad aumentare la produttività ha diffuso un’inconscio tecnologico che semplifica e crea uniformità nel nostro ambiente costruito che viviamo quotidianamente. Nel caso dell’arredamento o dell’architettura di interni, l’ambiente che ne è derivato fa uso di materiali omologhi, tolleranze ristrette e superfici tendenti all’ideale; difetti intrinsechi al materiale, più estetici che strutturali, come le crepe che si formano naturalmente nel legno massello, sono diventati intollerabili. Il legno viene lavorato per essere reso omogeneo, ridotto in fogli o scaglie, incollato, e spesso sostituito da laminati plastici che ne ripropongono l’aspetto. Il tempo però modifica inesorabilmente i materiali, che cambiano aspetto, si ossidano, si macchiano, si velano, sfuggono al nostro controllo invecchiando, portandoci a sostituire gli oggetti solo per aver perso l’aspetto estetico fresco e ideale del nuovo, pur mantenendo la funzionalità. Anche la produzione artigiana si è così adeguata a rispettare questi canoni, dove comunemente si ritiene che la capacità di neutralizzare l’irruzione del casuale sia proporzionale alla qualità della fattura di un oggetto, poiché di fronte a ciò che sfugge al controllo l’uomo prova sempre un disappunto. Così facendo si tende a costruire un ambiente sempre più artificiale, ma si mente sull’origine dei materiali e ci si allontana dall’ambiente naturale, imperfetto, e in continuo mutamento. Nello scorso secolo, parallelamente e in contrasto all’ordine e al controllo industriale, nell’arte si sviluppano correnti informali e materiche, rappresentazioni caotiche senza ordine razionale, con la materia a volte liscia a volte rugosa, ma sempre con un richiamo al magma informe. Delamont è un’azienda artigiana che si occupa di produrre princi-
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palmente oggetti per l’arredamento; è nata, come per molti lavori derivati da passioni, dal piacere di fare le cose manualmente: la necessità di nuovi mobili ci portava a costruirli da noi prima di acquistarli nei negozi. I nostri studi, da perito meccanico e geometra, e poi da ingegnere e architetto, i nostri lavori da carpentiere, imbianchino, fotografo industriale per l’arredamento e la vita tra grandi città e piccoli paesi dove la natura è parte prevalente del paesaggio e della vita quotidiana, ci hanno dato una formazione tale da permetterci di convogliare aspetti diversi come l’artigianato, l’industria, l’arte e la natura. Produrre in autonomia è un processo difficile, si ha a che fare con le attività più svariate per cui servono fantasia, tecnica e conoscenze di svariate materie, e comporta svariate difficoltà, tentativi e fallimenti, ma porta molti stimoli e gratificazioni. La sede dell’attività è stata scelta in un luogo con una lunga storia, un edificio del 1850, che fu sede di una centrale elettrica dagli anni ‘20 dello scorso secolo, al centro di uno dei Borghi più belli d’Italia, lontana di proposito dalle aree industriali, perchè per pensare ad un ambiente migliore per le altre persone è necessario viverlo in prima persona. Qui, in un ufficio showroom con un piccolo laboratorio, progettiamo, realizziamo i prototipi e rifiniamo i prodotti, anche se una parte delle lavorazioni deve essere necessariamente affidata ad artigiani della zona, che possiedono strumenti e spazi più adatti a lavorare grossi pezzi. Abbiamo iniziato a sviluppare artigianalmente oggetti, mobili e complementi d’arredo, partendo spontaneamente dal legno e aggiungendo l’acciaio dolce, lavorato come nella carpenteria industriale (il ferro), uniti a volte a vetro, pietra, cemento. Rispetto a materie plastiche come il PVC il legno è ricavato ecologicamente, è in grado di ricrescere, può durare molto a lungo, è biodegradabile e può essere reimmesso nel ciclo naturale alla fine del suo utilizzo. Preferiamo usare legni che crescono localmente, salvo alcune necessità o richieste particolari, per avere un rapporto diretto con la nostra terra e per evitare di trasportare merci da una parte all’altra
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del mondo; alcuni sono legni antichi, trovati per caso, rimasti alle intemperie o nei fienili per decenni, altri li acquistiamo nelle segherie della zona, piuttosto che nei magazzini degli importatori, avendo così la sicurezza di usare legno certificato proveniente dalla buona gestione forestale, e spesso facendoci raccontare anche la storia degli alberi, come l’enorme rovere tagliato in un giardino del centro città, il cedro del cimitero, o il platano caduto per il temporale. Ci permettiamo di usare legno massello con i suoi pregi ma soprattutto con quelli che sono visti come difetti. Generalmente al giorno d’oggi si evita di usare legno di grosso spessore così come ricavato dal tronco perchè instabile, tendente a creparsi, a ritirarsi, a imbarcarsi e torcersi, anche se ben stagionato (il legno manifesta un continuo scambio di umidità con l’aria che provoca ritiri o rigonfiamenti) e vengono adottati una serie di accorgimenti per compensare questo divario dal materiale ideale; i compensati e i multistrati sono realizzati incollando fogli ottenuti con coltelli tangenti a tronchi che ruotano; così facendo però la forma originaria dell’albero viene annullata, le venature rimangono solamente un elemento decorativo: la produzione di un pannello comporta una distruzione del materiale originario. Utilizzare del legno massello lascia visibile la sua origine, mostra la porzione di albero da cui è stato ricavato rimandando continuamente al mondo naturale e portando la consapevolezza di usare una parte di quello che è stato un essere vivente.
una delle cose che più cerchiamo di evitare è falsificare il materiale
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In opposizione al legno, naturale, caldo, massiccio, uniamo il ferro, un materiale di origine industriale, più sottile, più freddo, visivamente più leggero. Il ferro può essere visto come materia grezza, con le saldature lasciate a vista e la superficie ossidata: generalmente, nelle lavorazioni industriali le saldature vengono levigate, nascoste, perché fuoriescono dal controllo perfetto del materiale; lasciandole evidenti noi vogliamo ricordare la natura magmatica della materia, un fluido ribollente e incontrollabile quando ancora è incandescente e luminoso. Quando non è presente l’ossido nero dovuto alle lavorazioni a caldo (la calamina) lasciamo arrugginire di proposito la superficie, per mostrare le lavorazioni subite o per anticipare gli effetti del tempo sul metallo. La scelta di questi materiali ha più ragioni: sono usati dall’antichità e collaudati da secoli, sono inoltre solidi e pesanti, danno un senso di robustezza agli oggetti e sono materiali dalla vita lunghissima; il loro trattamento nella manutenzione è noto a tutti. Cerchiamo di scongiurare le rotture sovradimensionando le strutture e speriamo di scongiurarne l’obsolescenza prevenendo i cambiamento che il tempo potrebbe portare, introducendone i suoi effetti fin dal processo creativo (l’ossidazione del metallo, le macchie nel legno, le crepe e le screpolature), poiché una delle cose che più cerchiamo di evitare è falsificare il materiale. Tutte le lavorazioni sono fatte manualmente, o attraverso l’uso di piccole macchine e utensili comandate dalla mano dell’operatore. Non siamo interessati a raggiungere la perfezione riproducibile come nella produzione seriale ed anzi lasciamo il segno di queste irregolarità. Nel realizzare un oggetto cerchiamo di tener conto dei dieci prin-
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la possibilità di uscire dal condizionamento sociale o mediatico esistente nel proprio rapporto con l’ambiente
cipi per un buon design proposti da Dieter Rams¹, di tutti tranne del primo: i nostri prodotti non pretendono di essere innovativi, quanto piuttosto vogliamo proporre una visione su quello da cui ci stiamo allontanando. Cerchiamo di dare un’alternativa al gusto dominante del mondo commerciale che propone novità continue, e vogliamo mostrare la possibilità di uscire dal condizionamento sociale o mediatico esistente nel proprio rapporto con l’ambiente. Lo fece già Enzo Mari², designer italiano, negli anni ‘70 proponendo un catalogo di disegni per costruire da sé mobili con solo delle tavole, una sega e dei chiodi, una provocazione anti-industriale, ma molto pragmatica. Non vogliamo negare le possibilità date dalla ricerca e dalla tecnologia, le usiamo quotidianamente e sarebbe folle ignorarle, ma produciamo oggetti che svolgano la loro specifica funzione nel modo più semplice possibile e che riportino un equilibrio nelle case e negli spazi che viviamo quotidianamente, richiamando l’ambiente naturale e la dimensione manuale dei processi artigianali. ♦
NOTE 1- Dieter Rams (1932) è un designer tedesco, conosciuto principalmente per il lavoro in Braun dal 1961 al 1995 che ha influenzato profondamente il mondo del design industriale. 2- Enzo Mari (1932) è un designer italiano, teorico dell’aspetto sociale del design e del suo ruolo nella vita quotidiana. IMMAGINI 01 - Particolare di un tavolo in legno di olmo e pietra. 02 - Lavorazioni manuali in laboratorio. 03 - La sede di Delamont con alcuni prodotti. 04 - Due sgabelli in castagno e ferro nella casa del cliente. 05 - Particolare di un tavolo consolle. Immagini di Maurizio Polese. LINK UTILI www.delamont.it ≥ Greenpeace, guida alla scelta del legno ≥
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Concetti veri, orologi finti Una storia toscana
Lorenzo Brini è designer. e-mail: lorenzobrini@hotmail.it
At a table of a country festival in late summer, waiting for one of the typical local dishes that delays in coming. In this context Nullame is born. It’s a product developed by two Tuscan friends (either designer, Lorenzo, the other engineer, Francesco), linked to the concept of a contemplated time, not a counted one. Nullame is free of hands, it’s the antithesis of today’s digital time that moves on the phone, on the dashboard of the car, on the microwave and less and less on the wrist. It’s a philosophy expressed by only three elements of wood (rosewood or olive, used for the case and the dial) and leather (au naturel tanned, for the strap), two materials that age generating an “organic” time and that, assembled together, give life to many different combinations.
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di Lorenzo Brini
volte le storie nascono dalle sagre. Questa è una storia di autoproduzione che si narra nei luoghi della Toscana dal capoluogo alla provincia di Pisa, un racconto che comincia a incubarsi negli spazi anonimi di poli universitari in periferia per prendere forma nelle serate tra amici in garage. Fino a sbocciare in un concetto chiaro e concreto, intorno a un tavolino da sagra mentre si aspettano i piatti che non arrivano mai. La prima volta che mi è venuta l’idea di disegnare un prodotto legato al concetto del tempo ero tornato in facoltà per ricuperare gli ultimi esami nonché la discussione di tesi. Il tempo era un tema ricorrente, lo sentivo, lo annusavo, lo rigiravo tra le mani. Nello stesso periodo mi è capitato di andare con un amico a una sagra di zona, nel pisano: era fine estate. Abbiamo ordinato il solito repertorio di piatti rustici e una pizza: questi però non arrivavano, mentre i minuti si dilatavano in mezze ore, poi un’ora, un’ora e mezza.. Come riempire il tempo? Nella mia testa stavo cercando degli oggetti, elaborando mentalmente concetti e forme al fine di trovare qualcosa che potesse essere coerente con il momento che vivevo. Di oggetti ne abbiamo tirati fuori tanti durante l’attesa, io e Francesco, di cui uno era un orologio senza tempo. Francesco, da bravo ingegnere tendente alla concretizzazione, ha voluto approfondirlo per capire come sarebbero state le ipotetiche qualità e fattezze. Tanti racconti che riguardano la creazione degli oggetti nascono proprio nei momenti di svago nei quali siamo più distratti oppure a cena o ad un aperitivo quando non pensiamo ad andare oltre la superficie astratta dei discorsi. Se c’è la fortuna di catturare un mezzo discorso e di lavorarlo con il pensiero applicato, può venirne fuori qualcosa che lì per lì piace davvero, anche solo per gioco. Io e Francesco siamo partiti così, in un momento come quello che ho appena descritto. Nei giorni successivi abbiamo discusso a cosa può servire un orologio senza tempo per arrivare a una filosofia di tempo non contato ma contemplato (niente di nuovo), privo di lan-
cette, l’antitesi del tempo digitale di oggi che si sposta sul cellulare, sul cruscotto della macchina, sul microonde e sempre meno sul polso. Poi le nostre zone di origine, famose per il loro patrimonio artigianale del legno e del cuoio, ci hanno ricordato che avevamo a disposizione un linguaggio materiale di alta qualità con cui esprimere tale filosofia. Siccome la sentivamo nostra, ci siamo detti perché non provare a creare una piccola campionatura per regalare l’oggetto agli amici? Più siamo andati avanti più abbiamo capito come meglio realizzare l’oggetto e di conseguenza come sviluppare la produzione delle sue componenti in maniera coerente con il messaggio del progetto. Abbiamo scelto di utilizzare materiali di ricupero presi dagli artigiani e produttori nelle nostre zone e dopo qualche mese è nato Nullame: l’orologio che non segna nulla, ma proprio perché non segna il tempo ne genera un altro “organico”, fatto di legno naturale che invecchia come noi e può diventare più funzionale di quanto non si pensi. Il nulla, unito a un concetto naturale come il fogliame, ha dato vita al Nullame. Sì, è un bracciale. Sì, è un orologio finto. E sì, quando lo guardi e ti rendi conto del nulla che può darti qualcosa, ti viene da sorridere. Nullame è interamente realizzato in Toscana con i materiali di ricupero che selezioniamo sul luogo. Il legno è utilizzato per la cassa e il quadrante. Per la cassa può essere un legno nobile come il palissandro oppure rappresentativo della Toscana come l’ulivo. Viene messo in una macchina a controllo numerico con una precisione millimetrica per la tornitura in modo da ricavarne i cilindri che si tagliano successivamente in casse individuali. Il quadrante è ricavato invece dalle sfoglie di legno, tagliate con una traforatrice manuale ad alta velocità. Per realizzare il cinturino prendiamo il cuoio conciato al vegetale che viene accuratamente tagliato, cucito e rifinito con le fibbie. Anche se gli elementi sembrano pochi, tre in totale, la varietà produce un’infinità di combinazioni grazie ai quadranti in impiallacciatura e soprattutto al legno, unico e irripetibile per venatura e colore. Nella rete creata dalla nostra autoproduzione ci sono varie figure
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il progetto comunica il concetto del tempo contemplato invece che contato
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esprime non solo il bello dell’autoproduzione ma anche del sostegno di realtà artigiane
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importantissime con cui collaboriamo. Io sono il designer e curo l’aspetto e la produzione mentre Francesco si occupa della parte web, social, amministrativa e manageriale. Oltre a noi due la rete si espande in due settori. Da una parte il cuore delle nostre operazioni, ovvero gli artigiani che producono gli elementi semilavorati che noi assembliamo in prodotto finito. I mastri falegnami hanno i laboratori a Ponsacco, città del mobile e il nostro punto di partenza, mentre i nostri artigiani del cuoio rappresentano l’expertise del distretto industriale di Santa Croce sull’Arno, poco distante da Ponsacco stesso. Dall’altra parte ci confrontiamo regolarmente con amici e esperti di web programming, comunicazione, moda, fotografia e videomaking. È un dualismo di rapporti che troviamo estremamente dinamico perché comunichiamo sia con realtà locali che digitali; la nostra rete si amplia ma non perde di vista l’importanza del territorio che è una parte essenziale del nostro progetto oltre alla filosofia contenuta nel concept. Esponiamo il Nullame alle fiere, in alcuni negozi sul territorio italiano, sugli e-commerce compreso il nostro sito e infine siamo rappresentati da un distributore in Svezia. A Open Design Italia, l’ultima fiera alla quale abbiamo partecipato a Trento, siamo stati selezionati per il premio Demo Giovani Artisti Italiani. Lì abbiamo avuto modo di conoscere l’azienda lombarda Riva1920 che ci ha invitato a esporre successivamente alla Festa del Legno a Cantù, un’esperienza importante per conoscere uno degli esponenti più importanti della massima eccellenza in Italia per il settore del legno. Procediamo a piccoli passi, come sempre, continuando a “giocare” con le nostre idee per condividere questo oggetto. Questo perché infine il tempo è importante, è un tema che tocca tutti noi, ed è bello comunicarlo in un modo laterale. ♦
IMMAGINI 01 - Nullame in alcune delle possibili conformazioni, date dalla combinazione di legni e cuoi di diversa natura. 02, 04 - I materiali di Nullame in una vista ravvicinata. 03 - L’esploso assonometrico mette in evidenza il sistema di assemblaggio. 05 - Le fasi che anticipano il prodotto finito. 06 - Il tempo “organico” che ritorna al polso. Immagini di Nullame. LINK UTILI www.nullame.com ≥
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Quando il libro non è un prodotto Come i fumetti autoprodotti contribuiscono a cambiare il mondo
Sara Pavan è fumettista del gruppo Ernestvirgola, cura l’area autoproduzioni del TCBF e la sezione animazione di FMKFestival. Ha curato “Il potere sovversivo della carta” (AgenziaX, 2014) sul fumetto indie&diy in Italia. e-mail: sarapav@gmail.com
In mainstream publishing, the obsolescence of a book arrives in six months and the culture is just a side effect of some of the products that turns the market. A DIY book is not a product. It can be an object, if printed on paper, but its purpose is not to generate income. Behind every DIY activity there is an interest, instead, which is a different concept from the previous. An good example is Gelati festival in Genoa, dedicated to DIY comics. It takes place near Via della Maddalena where crime runs quietly its business. This festival makes finally visible the place and its citizens. It allows to bring audience, things, ideas that otherwise would have never entered in that neighborhood, and it also means create an opportunity for the “invisibles” who live there to stumble into culture and beauty. It’s with actions like these that selfpublishing and DIY scene help to change the world! And it’s a power in the hands of everyone of us.
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di Sara Pavan
arlare di “autoproduzione” in editoria fa storcere il naso a molti: c’è chi crede si tratti solo di autori mediocri disposti a pagare una specie di editore pur di vedere il proprio libro stampato da “qualcuno”; per altri il pensiero va ai pamphlet ciclostilati degli anni settanta, roba sporca e cattiva, roba “contro”. Ciò che non è allineato al mainstream è chiamato “controcultura”. Ma oggi non è l’essere “contro” a connotare l’autoproduzione: la differenza sta nel “come si fa” più che nel “cosa si fa”. Il ‘come’ è amore per la carta che si esprime in edizioni curate nei minimi dettagli, impreziosite da interventi a mano e grafiche da urlo (perché la bellezza è un motivo sufficiente per vivere ed è cultura); il “come” è l’uso del web non per promuovere un prodotto, ma per condividere gratuitamente contenuti culturali (è così che si espande a macchia d’olio una visione del mondo). Per autoprodursi, certo, serve la giusta dose di egocentrismo: senza quella chi avrebbe il coraggio di esporsi? Però, se chi fa autoproduzione fosse mosso soltanto dal proprio narcisismo, una volta riconosciuto dal mainstream, abbandonerebbe totalmente il DIY (Do It Yourself ). Nel mondo del fumetto, il mio habitat, non succede. Perché in questa scena indipendente e autoprodotta la visione della cultura è la stessa che ha portato alla nascita delle palestre popolari all’interno dei centri sociali (per una “cultura” dello sport come via per la socialità e la salute, fuori dalle logiche di mercato dei centri fitness) o alla nascita degli orti urbani autogestiti dai cittadini per il recupero di zone di degrado seguendo i principi della permacultura (che è appunto “cultura”) e molti altri esempi di cittadinanza attiva in progetti condivisi (le radio libere, le etichette indipendenti di musica, le compagnie teatrali sperimentali,...). Nell’editoria mainstream l’obsolescenza di un titolo arriva in sei mesi e la cultura è solo un effetto collaterale di alcuni dei prodotti che fanno girare il mercato. Nell’editoria indie&diy il libro non è un prodotto. Può essere un oggetto, se viene stampato, ma il suo
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l’autoproduzione di un fumetto è un’azione rivoltosa, la fanno donne e uomini con la passione per il cambiamento (D. Toffolo)
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fine non è quello di generare guadagno. Dietro al libro c’è invece un “interesse”, un concetto ben distinto e non sovrapponibile al precedente. Quando c’è un interesse per qualcosa, si mette a disposizione il proprio tempo anche gratuitamente, un investimento che non è fatto (solo) di denaro, ma di notti insonni, del dannarsi nella ricerca e nell’approfondimento, di trasferte interminabili, di rinuncia al protagonismo perché più teste ragionano meglio di una. Succede che nell’inseguire quell’interesse si tolga qualcosa alla propria famiglia per offrirlo alla comunità (che però è comunque un dare anche alla famiglia) e, come quando si è innamorati, si urli ai quattro venti quali cose bellissime si sono scoperte, spinti dal piacere che dà condividerle. Alcuni, di primo acchito, diffidano di chi pare non avere un tornaconto personale da quello che fa (ma c’è interesse, anche se non c’è guadagno!). Altri, che prima vedevano nel fumetto un medium limitato, aprono gli occhi e si dicono “Caspita, posso usare il fumetto anche per altro” e soprattutto c’è chi, vedendo quanti riescono a realizzare solo con le proprie forze albi e riviste, si dice “Posso farlo anch’io!”. Insomma, tra spiriti simili ci si riconosce e il bello sta proprio nel condividere esperienze, darsi consigli, fare progetti assieme, incoraggiarsi a vicenda, talvolta anche inconsciamente. L’esempio lampante di tutto questo è il festival Gelati ≥ di Genova, dedicato proprio al fumetto DIY; sembra un festival di ricerca come altri (e far vedere in periferia le figate che succedono al centro
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ciò che non è allineato al mainstream è chiamato “controcultura”. Ma oggi non è l’essere contro che connota l’autoproduzione: la differenza sta nel come si fa più che nel cosa si fa
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nell’editoria mainstream l’obsolescenza di un titolo arriva in sei mesi e la cultura è solo un effetto collaterale di alcuni dei prodotti che fanno girare il mercato. Nell’editoria indie&diy il libro non è un prodotto
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del mondo è di per sé una bella cosa, con un’utilità anche sociale) e le grafiche, la gente che lo organizza, le storie e le illustrazioni che arrivano in città sono bellissime. Se fossimo a Milano sarebbe il classico evento pieno di hipster che se la tirano dicendo che loro il fumetto “x” lo avevano letto prima di tutti. E invece qui anche il vernissage si trasforma in resistenza sociale perché il tutto si svolge per lo più attorno a Via della Maddalena, il cui nome dice tutto: lì ci stanno le prostitute. In quel quartiere, dalle dieci del mattino alle sette di sera la criminalità gestisce i suoi affari in tutta tranquillità, alla luce del sole. In quella zona alcune strade sono chiuse a chiave da cancelli perché non ci passi nessuno se non i residenti. Nei sottoscala dei palazzi dove sono parcheggiati i bidoni per la raccolta differenziata c’è la luce blu per impedire alla gente di farsi in vena. Organizzare un festival di fumetti proprio lì significa rendere visibile quel luogo e le persone che lo abitano; e portarci gente, cose, idee che altrimenti in quel quartiere non entrerebbero mai, significa anche creare l’occasione per gli “invisibili” che lì vivono e lavorano di incappare nella cultura e nel bello. È proprio con iniziative come queste che l’autoproduzione contribuisce a cambiare il mondo! E si tratta di un potere nelle mani di tutti. ♦
06 IMMAGINI 01 - Autoproduzioni in libera consultazione al Museo WOW – Spazio Fumetto di Milano, ottobre 2014. Immagine di Sara Pavan. 02 - Sara Pavan, “Pale Blue Dot”, mostra omaggio a Charlie Hebdo al Museo Wow di Milano (febbraio 2015). 03 - Gelati Fanzine Festival 2014 exibition. Immagine di Noømood Emanuela Bava. 04 - Logo festival Gelati 2015. 05 - Autoproduzioni in libera consultazione al Museo WOW – Spazio Fumetto di Milano, ottobre 2014. Immagine di Sara Pavan. 06 - Gelati Fanzine Festival 2015, Genova. Immagine di Stefania Bianucci. 07 - Sara Pavan, illustrazione di copertina per “La fidanzata di Godzilla” (Agostoni P., Agenzia X, Milano 2013). BIBLIOGRAFIA - Pavan S. (a cura di), “Il potere sovversivo della carta”, Agenzia X, Milano, 2014. LINK UTILI - “Il potere sovversivo della carta” (Agenzia X, 2014), Introduzione; link per download gratuito. ≥ - “Femore Meraviglioso” da antologia Ernest 2, ott. 2013; “Number 35 Is The One”, Toastzine °2, sett. 2014; “Pale Blue Dot”, mostra omaggio a Charlie Hebdo al Museo Wow di Milano, febb. 2015; link per download gratuito dei fumetti più recenti di Sara Pavan. ≥
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PORTFOLIO
Osservatorio del Paesaggio Medio Piave
Roberto Sartor si occupa dello sviluppo di progetti di ricerca e racconto dei luoghi, educazione al paesaggio, innovazione sociale. www.robertosartor.it Sara Sagui è architetto e attualmente lavora come assistente fotografa. e-mail: sarasagui@gmail.com
In 2014, Roberto Sartor and Sara Sagui have curated and coordinated, under the supervision of Alessandra Chemollo, a project based on the survey of the area of the thirteen municipality that have adhered to the Osservatorio del Paesaggio Medio Piave. The project consists of an experimental method of research and production of images centered on the interaction between photography and citizens, theorists, local administrators and experts. This has been the key factor for a deeper reading of the examined territory which has identified noteworthy case studies as well as interesting issues. The photography campaign has been organized thanks to the involvement of three professional photographers and has produced an assortment of images now part of the Archivio Fotografico Osservatorio del Paesaggio Medio Piave.
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di Roberto Sartor e Sara Sagui
el 2014 l’Associazione fuori_vista ha sviluppato un progetto di indagine conoscitiva degli ambiti territoriali dei tredici comuni che hanno aderito all’Osservatorio del Paesaggio Medio Piave1. Il progetto è la sperimentazione di un metodo di ricerca e di produzione di immagini fondato sull’interazione tra fotografia e cittadini, teorici, amministratori ed esperti locali, con la convinzione che, per descrivere un luogo, è necessario coinvolgere tutti coloro che con le loro attività partecipano alla sua forma. L’attivazione di un dialogo con gli “attori” del territorio oggetto di studio ne ha permesso una lettura più complessa e articolata: la relazione tra comitato scientifico dell’Osservatorio, fotografi e cittadini sviluppata in fase di ricerca ha permesso di evidenziare casi di studio specifici e rappresentativi ed acquisire un insieme di immagini in grado di descrivere i valori e le criticità del territorio del medio corso del Piave, che attualmente costituiscono la base dell’archivio fotografico dell’Osservatorio. Questa operazione determina il carattere innovativo del progetto e ha permesso inoltre di sperimentare nuove modalità di comunicazione sui temi che riguardano il paesaggio, promuovendo pratiche di partecipazione. Il progetto, curato da Roberto Sartor e Sara Sagui sotto la supervisione di Alessandra Chemollo, è stato articolato in tre fasi/azioni principali. Nel corso della prima fase sono state svolte attività di ricerca finalizzate all’acquisizione di conoscenze preliminari sul territorio in esame e all’individuazione di tematiche d’interesse. Il progetto è stato presentato alle Amministrazioni comunali dei 13 paesi che compongono l’Osservatorio del Paesaggio Medio Piave e che hanno collaborato alla costruzione di una rete di contatti locali. Successivamente, una serie di incontri con associazioni e cittadini, hanno permesso di individuare le tematiche di interesse su cui sviluppare il progetto fotografico: sono state coinvolte ed intervista-
te circa 20 persone, che hanno fornito informazioni utili riguardo la storia locale, i valori e le problematiche/criticità del territorio in esame. L’esito di questa prima fase di ricerca è stata la produzione di alcune mappe tematiche e una serie di registrazioni audio. Durante la seconda fase è stata realizzata un’esperienza formativa rivolta ai giovani dai 16 ai 22 anni residenti nei 13 comuni: Io sono P, workshop di fotografia e racconto del paesaggio. Il laboratorio si è svolto dal 3 al 7 Settembre 2014 nella sede dell’Osservatorio a Breda di Piave e ha visto la partecipazione di 7 ragazzi 2 che hanno prodotto un lavoro fotografico collettivo. Le attività proposte nei cinque giorni di workshop hanno permesso ai ragazzi di imparare cosa significa raccontare una storia attraverso le immagini, svolgendo esercizi pratici, realizzando mappe partecipate del territorio, incontrando giovani fotografi3 che hanno fatto conoscere i loro progetti. I ragazzi hanno quindi prodotto dei piccoli progetti personali di comunicazione, aventi come filo conduttore il tema del fiume Piave: le immagini realizzate, riorganizzate in una sequenza collettiva, sono andate a formare il primo nucleo dell’Archivio Fotografico dell’Osservatorio.
La terza fase ha coinciso con l’organizzazione e la produzione di una campagna fotografica, avvenuta dall’ 8 al 14 Settembre 2014 grazie al coinvolgimento di tre fotografi professionisti riconosciuti a livello nazionale: Cosmo Laera (www.cosmolaera.com ≥), Laura Fiorio (www.laurafiorio.com ≥) e Davide Virdis (www.davidevirdis.it ≥). I fotografi hanno lavorato sul territorio, parteWWndo dalla ricerca e dalla rete di contatti costruita nella prima fase del progetto: le immagini sono andate ad implementare quelle già realizzate, costituendo così la base dell’Archivio Fotografico dell’Osservatorio del Paesaggio Medio Piave. Il progetto ha prodotto: - 350 fotografie realizzate da fotografi professionisti. - 120 fotografie realizzate dai partecipanti al workshop Io sono P. - 1 audio-documentario di 27 minuti. - Mappe tematiche. - Materiale di comunicazione (stampa e web).
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l’attivazione di un dialogo con gli “attori” del territorio oggetto di studio ne ha permesso una lettura più complessa e articolata
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01 - Spresiano - Visnadello, di Laura Fiorio. 02 - Santa Lucia di Piave, di Laura Florio. 03 - San Biagio di Callalta - Fagarè, di Davide Virdis.
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il progetto è la sperimentazione di un metodo di ricerca e di produzione di immagini fondato sull’interazione tra fotografia e cittadini, teorici, amministratori ed esperti locali
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04 - Breda di Piave - San Bartolomeo, di Cosmo Laera. 05 - Backstage workshop “Io sono P” – Visita a Villa Spineda – Dal Vesco, di Laura Fiorio. 06 - Backstage workshop “Io sono P” – Mappe tematiche, di Sara Sagui. 07- Backstage workshop “Io sono P” – Visita alla casa di Goffredo Parise, di Sara Sagui. 08 - Backstage workshop “Io sono P”, di Roberto Sartor.
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09 - Sopralluogo con i fotografi a Ponte di Piave, di Sara Sagui. 10, 11, 12 - Fotografi al lavoro, di Roberto Sartor. 13 - Zenson di Piave, di Davide Virdis. 14 - Cimadolmo, di Cosmo Laera.
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sperimentare nuove modalitĂ di comunicazione sui temi che riguardano il paesaggio, promuovendo pratiche di partecipazione 12
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NOTE 1 - I 13 comuni che hanno aderito all’ente Osservatorio del Paesaggio Medio Piave sono: Breda di Piave, Cimadolmo, Mareno di Piave, Maserada sul Piave, Ormelle, Ponte di Piave, San Biagio di Callalta, Salgareda, San Polo di Piave, Santa Lucia di Piave, Spresiano, Susegana, Zenson di Piave. 2 - Anna Camerotto, Berenice Zanardo, Carlotta Serafin, Edy Caliman, José Fogliarini, Federico Marchiori, Lucia Sacchet. 3 - Christian Guizzo, Giacomo Streliotto, Massimo Branca e Dario Antonini del Collettivo Fotosocial. LINK UTILI www.fuorivista.org ≥ Per restare aggiornati sulle attività e sulle iniziative promosse dall’Osservatorio Paesaggio Medio Piave visitare la pagina Facebook ≥
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IN PRODUZIONE
Fare carta con... Una nuova vita per gli scarti di lavorazione nella produzione della carte ecologiche Favini
Valentina Covre è architetto e dottoranda in Nuove tecnologie per il territorio, la città e l’ambiente - Tecnologia dell’architettura. e-mail: v.covre@gmail.com
Paper production has originated between the second century BC and the first century AD, with the transition from the papyrus leaves and parchment to a new material made by cellulose derived from bamboo, hemp, mulberry. Appearance in Europe in the 12th century AD, the paper began to change and evolve in its chemical composition, with the gradual introducrion of cotton and flax, cellulose extracted from wood and natural glue. The Favini paper mill, based in Rossano Veneto, brings back the principles that allow to obtain paper from natural products and from production wastes, giving rise to many innovative ranges of paper for design applications and packaging. Shiro and Crush are two lines of paper produced with algae or the agro-industrial wastes of citrus fruits, hazelnuts, almonds, corn, coffee, kiwi, olives. They are dried, micronized and added to the dough in variable percentages. To these lines we can add Remake, the recent line of papers with the residues of the leather manufactoring, 100% recyclable and compostable.
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a carta è, ad oggi, il supporto scrittorio più diffuso ed economico, disponibile in decine di varianti di colore, grammatura, formato, spessore e finitura. Essa è costituita prevalentemente da cellulosa, il polimero organico più diffuso in natura, e completata con collanti, additivi e cariche che ne conferiscono le caratteristiche di finitura, di resistenza e di idoneità alla scrittura. La produzione della carta ha tuttavia subito negli ultimi secoli grandi cambiamenti legati principalmente alla trasformazione del processo produttivo dal modello artigianale a quello industriale. Comparsi in Europa attorno al XII secolo d.C., i fogli di carta andarono a sostituirsi ad altri supporti scrittori diffusi fino ad allora come ad esempio il papiro, il più antico supporto flessibile utilizzato in Egitto già dal 3000 a.C. e ricavato dagli steli dell’omonima pianta palustre diffusa in tutto il Mediterraneo meridionale. Altro materiale largamente impiegato per la scrittura fino al primo rinascimento è stata la pergamena, ottenuta dalla lavorazione della pelle animale, che consentiva il riutilizzo dei rotoli previa raschiatura dei testi preesistenti. Anche la carta ha origini piuttosto antiche; secondo le principali fonti documentali essa fu scoperta tra il II secolo a.C. e il I secolo d.C. in Cina, dove veniva prodotta ricavando la cellulosa da molteplici varietà di piante tra
di Valentina Covre cui il bambù, la canapa e il gelso. Attraverso la Persia e con la dominazione Araba del sud dell’Europa la carta si diffuse anche in Occidente portando con sé importanti innovazioni in ambito produttivo. Prima fra tutte l’uso degli stracci in lino e cotone per ricavare la materia prima per i fogli. I tessuti in lino e cotone erano materiali estremamente pregiati da cui era possibile ricavare cellulosa quasi pura attraverso un processo di triturazione seguito da un bagno in acqua calda e calce (lisciviazione) e da una fase di macerazione che portava alla produzione di una sospensione fibrosa: la pasta di carta. Questa veniva raccolta in appositi telai dotati di una griglia metallica dalle maglie sottili dove, grazie ad un costante scuotimento, andava a formarsi il foglio di carta che veniva, in seguito, essiccato e lisciato. Affinché il foglio sia adatto a ricevere l’inchiostro è inoltre necessario che esso sia “collato” cioè che sia presente tra le fibre una sostanza che impedisca all’inchiostro di diffondersi liberamente. Nelle prime produzioni cartarie venivano utilizzati a tale scopo prodotti naturali come amidi di frumento, gelatine animali o, più tardi, resine naturali come la colofonia. A partire dalla fine del ‘700 la sempre maggiore richiesta di carta e la sempre più scarsa reperibilità di stracci portò a sperimentare nuovi metodi produttivi che miravano ad estrarre la cellulosa direttamente dal legno: dalla sua polpa, grazie allo sviluppo dell’industria chimica, si ottenne una pasta costituita
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l’attenzione al recupero delle caratteristiche più peculiari e antiche della carta quali l’uso di prodotti naturali o di recupero come avveniva con gli stracci usati nel medioevo
in buona parte da cellulosa ma contenente anche lignina e emicellulose, sostanze che rendono la carta più soggetta a degrado. Furono così introdotti processi chimici di sbiancamento e purificazione della cellulosa ai quali si affiancarono la sostituzione dei prodotti naturali per la collatura con prodotti quali l’allume di bauxite e altri composti di sintesi. Le attuali tecnologie industriali per la produzione della carta consentono di ottenere fogli delle più svariate tipologie, colorazioni e finiture. La chimica consente inoltre di realizzare prodotti di qualità, controllati e certificati anche grazie all’adozione degli standard FSC (Forest Stewardship Council). Tuttavia alcuni esempi ed esperienze volgono l’attenzione al recupero delle caratteristiche più peculiari e antiche della carta quali l’uso di prodotti naturali o di recupero come avveniva con gli stracci usati nel medioevo. Favini è una di queste realtà. La storia della cartiera risale al 1736 quando la grande richiesta di materia prima da parte della stamperia Remondini di Bassano del Grappa, produttrice di scatole, illustrazioni
sacre, carte da parati e da gioco esportate in tutta Europa, portò alla nascita di una serie di cartiere nella Valsugana e nelle aree limitrofe tra cui Rossano Veneto (Vicenza), sede della cartiera Favini. L’esistente mulino per la lavorazione di farine e cereali venne quindi trasformato in stabilimento cartario su autorizzazione della Serenissima Repubblica di Venezia, permettendo alla produzione di sfruttare i vantaggi dati dalla vicinanza a un componente fondamentale della carta, ancor più della cellulosa, che ne permette la stampabilità e la stabilità : l’acqua. Cresciuta e rinnovatasi negli anni, oggi Favini è tra le aziende di riferimento a livello mondiale nella realizzazione di specialità grafiche innovative a base di materie prime principalmente naturali (cellulosa, alghe, frutta, noci) destinate al packaging dei prodotti realizzati dai più importanti gruppi internazionali del settore luxury e fashion così come al segmento cartotecnica, con articoli di cartoleria per scuola e ufficio. Costante è però in Favini l’impegno in innovazione volto soprattutto alla sostenibilità e
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nel 2012 Favini lancia Crush, una nuova gamma di carte ecologiche ottenuta sostituendo fino al 15% della cellulosa vergine con scarti di frutta e agrumi derivanti dalle lavorazioni agroindustriali
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qualità del prodotto finale. Una prima attenzione dell’azienda riguarda la politica di recupero dell’acqua durante la produzione e l’utilizzo di un impianto biologico che depura la porzione di acqua da reimmettere nell’ambiente secondo i parametri prestabiliti, i più restrittivi d’Italia data la collocazione dell’impianto nel bacino scolante della laguna di Venezia. Dalla stessa filosofia di pensiero nei primi anni ’90 nasce inoltre Alga Carta, ottenuta utilizzando le alghe infestanti della laguna veneziana grazie ad uno speciale processo produttivo brevettato da Favini. Le alghe grezze sono essiccate, micronizzate e aggiunte all’impasto in percentuali variabili dal 5%
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al 20%, dando così vita ad una carta ecologica oggi facente parte della gamma Shiro, la linea che unisce l’innovazione di prodotto con l’uso di biomasse rinnovabili non legnose e fibre riciclate e che ha costituito il fulcro generatore di una serie di successive proposte. Oltre ad Alga Carta fanno parte della gamma Shiro anche Shiro Tree Free, realizzata con fibre di bambù, linters di cotone (sottoprodotto della lavorazione del cotone) e bagassa (residuo della lavorazione della canna da zucchero) così come Shiro Echo, realizzata con 100% di cellulosa riciclata post-consumo. Le sue fibre derivano da aziende specializzate che provvedono a depurare il macero raccolto (separando la cellulosa da materiali non fi-
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brosi come per esempio la plastica), deinchiostrarlo e riportarlo a uno stadio tale per essere reimmesso in produzione. Dopo questa prima esperienza e ulteriori anni di sperimentazione in laboratorio, nel 2012 Favini lancia Crush, una nuova gamma di carte ecologiche ottenuta sostituendo fino al 15% della cellulosa vergine con scarti di frutta e agrumi derivanti dalle lavorazioni agroindustriali. In particolare Favini si inserisce nella catena della produzione agroalimentare riutilizzando il pastazzo depectinizzato, un sottoprodotto della lavorazione degli agrumi e di altri prodotti alimentari, generalmente disidratato e destinato alla produzione di mangimi animali, biopellet o alla
discarica. L’intero processo si svolge nello stabilimento di Rossano Veneto dove gli scarti agroindustriali vengono micronizzati in un mulino sperimentale appositamente realizzato all’inizio degli anni ‘90 e miscelati con cellulosa vergine e fibre riciclate post consumo (in quantità che raggiungono anche il 25% nell’impasto) certificate FSC. Oltre ai sottoprodotti della filiera degli agrumi, l’azienda utilizza anche i residui di kiwi, mais, caffè, mandorle, nocciole, olive, lavanda e ciliegie che, immessi nell’impasto, instaurano con esso un legame fisico-chimico e danno così vita a una gamma cromatica ispirata alle colorazioni dei prodotti inseriti. Non solo, ogni prodotto agroindustriale conferisce un
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aspetto tattile diversificato (le caratteristiche del mais rendono la carta più morbida, quelle con mandorle e nocciole risultano al tatto più grezze), esattamente come differente è l’effetto dell’impiego di fillers come il carbonato di calcio rispetto al caolino, al biossido di titanio o al talco in termini di opacità e di colore. Le esperienze di riutilizzo di materiali di scarto per la produzione di carta non si sono però fermate qui e Favini ha lanciato, negli ultimi due anni, altri prodotti ispirati a tale filosofia produttiva. I primi nascono da progetti avviati con aziende del campo alimentaree ed enologico quali Barilla, Pedon e Veuve Clicquot: dalla collaborazione con esse hanno rispettivamente avuto origine Cartacrusca ≥, realizzata con i residui della lavorazione del grano dei mulini Barilla, inseriti nell’impasto in sostituzione al 20% della cellulosa vergine, Crush Fagiolo ≥, ottenuta attraverso i fagioli di scarto e certificata per il contatto con gli alimenti e la più recente linea di packaging Naturally Clicquot 3 ≥ la cui carta deriva per il 25% dalle bucce degli acini spremuti per la produzione dello champagne francese. Il secondo è un prodotto, il cui lancio è avvenuto solo poche settimane fa, denominato Remake. Con Remake, Favini porta il concet-
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to di up-cycling nel settore cartario ad un livello ancora più alto proponendo un prodotto che contiene fino al 25% di residui di lavorazione del cuoio e della pelle in sostituzione alla cellulosa da albero. Anche in questo caso vengono utilizzati prodotti di scarto generalmente destinati alla produzione di cuoio rigenerato, fertilizzanti o destinati alla discarica per ridurre il quantitativo di cellulosa e quindi l’impatto ambientale del prodotto. Il risultato è una carta interamente compostabile e riciclabile, sulla cui superficie vellutata sono visibili i microcomponenti in cuoio: essi le conferiscono, nelle sue sei gradazioni cromatiche, un tratto distintivo di unicità ed eleganza Quasi a voler richiamare l’antica pergamena, Ramake reinventa quindi la carta che torna ad essere un materiale di alta qualità non solo sul piano della finitura ma anche, e soprattutto, per l’idea che sta alla base del prodotto, un’idea frutto di anni di esperienza e innovazione volta a fare della sostenibilità uno dei punti di forza di Favini. I materiali di scarto delle diverse lavorazioni (agrumi, cereali, cuoio, frutta, legumi) vengono quindi recuperati da Favini dando loro una nuova vita, un valore aggiunto che fa di questo processo un riferimento sostenibile, economico, innovativo. ♦
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con Remake, Favini porta il concetto di up-cycling nel settore cartario ad un livello ancora più alto
IMMAGINI 01 - La filosofia e il processo di Crush descritto dall’illustratore Peter Grundy attraverso il ciclo di vita degli agrumi, dalla pianta fino alla carta. 02 – La cellulosa giunge allo stabilimento sotto forma di semilavorati di fibre pressate senza l’aggiunta di ulteriori prodotti. Essa proviene da aree soggette a piantagione e certificate FSC del Nord e Est Europa, della penisola iberica, del Nord e Sud America. 03 - Gli scarti agroindustriali vengono micronizzati in un mulino interno allo stabilimento Favini per poi essere inseriti nell’impasto. 04 – Gli strumenti di lavoro del colorista: la calibrazione del colore della carta avviene principalmente grazie a un dosatore impostato secondo ricette messe a punto da Favini. Risulta fondamentale l’occhio esperto di un operatore per la correzione manuale del colore per ciascuna produzione. 05 - Gli sfridi della produzione vengono suddivisi e accatastati per colore per poi essere re-immessi in percentuale nel ciclo produttivo di carta. 06 - Cellulosa vergine, cellulosa ricavata da carta riciclata post-consumo, sfridi della produzione. A questi si aggiungono i molti altri componenti dell’impasto per la produzione delle carte Favini: acqua, residui agroalimentari micronizzati, collanti naturali, scarti di cuoio. 07 - La copertina del campionario di Remake, ispirato agli stessi colori della linea lanciata. 08 - Le variazioni cromatiche delle carte Remake, ottenute inserendo nell’impasto fino al 25% di residui della lavorazione del cuoio. CONTATTI AZIENDA
Favini S.r.l. Via Alcide De Gasperi, 26, 36028 Rossano Veneto, Vicenza www.favini.com ≥ tel. +39 0424 547711 info@favini.com
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VOGLIO FARE L’ARCHITETTO
Costruire sul costruito Lo spazio che non c’era
Francesca Guidolin è architetto, dottoranda di ricerca presso Iuav di Venezia. e-mail: arch.francesca.guidolingmail.com Gennaro Afeltra è architetto. e-mail:gennaro_afeltra@hotmail.it Eleonora Cunico è dott.ssa in architettura. e-mail: cunicoeleonora@gmail.com Agnese Giovanetti è architetto. e-mail: agnese.giovanetti@gmail.com
Today the importance of safeguarding the build areas has becoming an important issue for architecture. Working by stratification seems to be a natural tendency in the renovation processes, due not only to the possibility to implement the existing spaces, but also by doing it in a customization way. The project here shown has been made during the Master Housing 20122013 of the University of Architecture Roma Tre. It is an example of a practice that today is more and more popular: the addition of space in elevation. This kind of actions can allow not only a quality improvement of the building, but also it can constitute an interesting way of functional requalification, to improve the densification of the area, and to create a wider range of residential typologies, as for accessible and energ y saving units. After a careful study of lightweight technologies, the choice focused on the technolog y of wood: an x-lam structure to ensure full sustainability of the intervention.
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di Francesca Guidolin, Gennaro Afeltra, Eleonora Cunico e Agnese Giovanetti
l futuro delle nostre città vedrà una progressiva gestione e crescita per implosione, una costruzione stratificata su ciò che già c’è, senza invadere altri spazi. “Si è sempre costruito sul costruito […] ci vuole più abilità, ci vuole più sottigliezza a costruire sul costruito”1. Protesi, parassiti e superfetazioni: addizionare e sopraelevare (di Francesca Guidolin) “Protesi”, “Parassita”, “Superfetazione” sono termini che oggi si sentono sempre più spesso riferiti all’intervento sul costruito2 . L’atto di “collocare innanzi” o l’atteggiamento del “commensale” alla tavola dell’ospite, o di “concepire sopra un altro concepimento” - tali sono, etimologicamente i significati dei termini utilizzati fanno riferimento a un campo semantico che, dalla biologia e medicina, trasla a quello architettonico. La descrizione dell’atteggiamento è chiara: un gesto sovrascritto, l’appoggiarsi su una struttura preesistente, e trarne vantaggio nello stabilirsi di una relazione simbiotica. Le attuali innovazioni in termini di materiali e sistemi costruttivi permettono oggi una maggiore leggerezza delle strutture di addizione e il conseguente aumento delle possibilità di intervento nei confronti di tipologie edilizie e contesti anche vincolati.
Gli esempi nordeuropei e, in generale, gli interventi nei centri abitati sembrano avere un comune denominatore: la necessaria differenziazione formale e architettonica (spesso anche materiale) tra l’esistente e l’aggiunta. Dallo storico Teatro di Marcello a Roma, alla Maison de Verre di Pierre Chareau, sono molti gli esempi, fin dall’antichità che mostrano questa prassi di riconversione e recupero del costruito, così come sono molte le teorizzazioni del caso, dalla Ville spatiale di Yona Friedman, alle più recenti megastrutture olandesi, o la tendenza a lavorare per sovrapposizione nelle recentissime realizzazioni di Edouard François (114 logements sociaux, Champigny-sur-Marne, 2006-2012) e Jean Nouvel (Horizons Tower, Boulogne-Billancourt, 2009-2011). La propensione alla stratificazione sembra essere una tendenza naturale nella rifunzionalizzazione del costruito, dovuta non solo alla possibilità di implementare gli spazi esistenti, ma di farlo personalizzandoli. Non è infatti un caso che molti degli esempi riguardino la tipologia residenziale in cui in una certa misura la gestione della spazialità e dell’interfaccia interno/esterno deve essere lasciata all’abitante. La possibilità di intervenire in modo personalizzato, grazie all’utilizzo di sistemi costruttivi a secco dall’alto potenziale di velocità d’intervento e reversibilità, incrocia i bisogni che oggi si registrano nei quartieri di edilizia (ad es. l’edilizia pubblica) culturalmente multietnici.
Costruire in sopraelevazione, infine, risulta particolarmente interessante, poiché permette di unire all’aumento della densità residenziale elevati standard qualitativi. MasterHousing: sopraelevare a Bolzano (di Gennaro Afeltra, Eleonora Cunico, Agnese Giovanetti) Preservare le aree libere densificando il costruito è un tema che ha assunto un ruolo di primo piano nel dibattito internazionale sulla sostenibilità delle trasformazioni urbane. Si tende a diminuire gli interventi che prevedono nuove espansioni verso l’esterno delle
città o attraverso demolizioni e ricostruzioni, si sperimenta sempre più la possibilità di agire per misurate sovrapposizioni di volumi, lavorando sui fabbricati esistenti; una strategia d’interventi che prevede azioni puntuali e discrete, senza alterazioni del tessuto urbano, ma affrontate in maniera incisiva integrando alle sovrapposizioni, interventi di riqualificazione energetica del patrimonio edilizio esistente. Il lavoro proposto in MasterHousing, master di II livello promosso dall’Università di Roma Tre (a.a. 2013-2014), ha dato la possibilità di lavorare sulla riqualificazione di un edificio residenziale esistente, situato nella città di Bolzano
e di proprietà dell’IPES (Istituto per l’Edilizia Sociale della provincia autonoma di Bolzano). Obiettivo della committenza, con cui si è avuto un continuo confronto, era la riqualificazione energetica di un edificio e la progettazione dell’aumento di cubatura concesso (20% secondo la normativa vigente), impiegato per la creazione di 12 alloggi, posizionati in copertura ed al piano rialzato. “L’architettura è il gioco sapiente, rigoroso e magnifico dei volumi sotto la luce”3. Da queste parole di Le Corbusier deriva il concetto primario del progetto proposto: la semplificazione.
il futuro delle nostre città vedrà una progressiva gestione e crescita per implosione, una costruzione stratificata su ciò che già c’è
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L’obiettivo è stato quello di creare volumi rigorosi, semplici geometricamente, che non “appesantiscano” l’edificio esistente, già particolarmente complesso ed articolato. La riqualificazione energetica del fabbricato esistente, attraverso cui si è migliorata la sua classe energetica fino alla classe B, è stata integrata ad una riqualificazione architettonica e funzionale, riguardante l’intero edificio ed in particolar modo i suoi prospetti. L’eliminazione dei riferimenti ai diversi piani in prospetto, del coronamento irregolare e degli archi nelle logge, attuata attraverso l’inserimento di un isolamento termico a cappotto, ci ha permesso di raggiungere la semplificazione ricercata. Le logge esistenti, si sono trasformate in vere e proprie serre solari con funzione bioclimatica, divenendo un nuovo ambiente dell’alloggio, fruibile in ogni stagione attraverso la regolazione dell’apertura o della chiusura delle vetrate colorate. La palette di colori utilizzata per l’intero progetto è stata scelta in seguito ad un’attenta analisi dei palazzi del centro storico di Bolzano e nello specifico dei loro prospetti e cromie. Il cuore dell’antico borgo medievale è, infatti, caratterizzato da facciate composte da una sequenza di tratti architettonici diversi per epoca, stili e colori. Per le vie di Bolzano si alternano facciate gotiche con i tradizionali erker tirolesi (“finestra a golfo”: tipiche finestre sporgenti, molto diffuse nei territori di origine tedesca), palazzi in stile barocco con decorazioni a stucco di colori
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pastello, porticati di diverse altezze e decorazioni a fresco ed architetture razionaliste degli anni ‘30. Il nuovo intervento ha previsto una sopraelevazione con struttura leggera in legno, destinata alla creazione di 8 alloggi di diverse metrature. La soprelevazione è stata caratterizzata da logge colorate, in continuità con quelle create ai piani sottostanti e da lucernari, che emergono dal tetto verde come veri e propri elementi tecnologici, studiati per garantire una migliore illuminazione e ventilazione degli appartamenti. Per quanto riguarda la struttura utilizzata,
alla scelta della struttura è seguito lo studio dei pacchetti tecnologici e dei materiali, cosa che permette di scegliere le soluzioni migliori in termini di sostenibilità
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dopo un attento studio delle tecnologie leggere, la scelta si è focalizzata sul legno: una struttura portante in x-lam, per garantire una piena sostenibilità dell’intervento. Alla scelta della struttura è seguito lo studio dei pacchetti tecnologici e dei materiali (caratteristiche e ciclo di vita), cosa che permette di scegliere le soluzioni migliori in termini di sostenibilità, qualità dei materiali ed efficienza energetica dell’intervento, tenendo conto del comportamento invernale ed estivo dell’involucro. Il progetto intende essere, quindi, una sperimentazione di riqualificazione architettonica ed energetica del patrimonio edilizio esistente; un modello di trasformazione urbana che incida sulla qualità della vita dei cittadini, realizzabile riducendo gli sprechi e sopperendo alla richiesta di alloggi, evitando allo stesso tempo nuove costruzioni. L’auspicio per i prossimi anni è di continuare su questa strada, incentivando l’uso di tecnologie e materiali sostenibili, in primo luogo il legno, materiale estremamente versatile, dalle caratteristiche ecologiche, ideale per la creazione di moduli residenziali componibili. ♦
NOTE 1 - Per una trattazione del concetto di protesi in architettura, vedere M. Wigley, “Prosthetic Theory: the Discipling of Architecture”, Assemblage 15, 1991. E per il concetto di “Parassita”, S. Marini, “Architettura parassita: strategie di riciclaggio per la città” Quodlibet, Macerata, 2007. 2 - R. Piano, la città del futuro è nel rammento di aree dismesse e abbandonate. Intervento «Rammendo e rigenerazione. Un nuovo Rinascimento per il tessuto urbano», alla Fiera di Bergamo (www.bergamonews.it – 24/01/2015 ≥). 3 - Le Corbusier, (traduzione italiana a cura di P. Cerri e P. Nicolin), “Verso un’architettura”, Milano, Longanesi, 1973. BIBLIOGRAFIA - “Innesti, sovrapposizioni, estensioni” in “L’industria delle costruzioni” n.396, luglio-agosto 2007. - Marini S., “Architettura parassita: strategie di riciclaggio per la città” Quodlibet, Macerata, 2007. - Melet E., Vreedenburgh E., “Rooftop Architecture, building on an elevated surface” NAi Publishers, Rotterdam, 2005. - Le Corbusier, (traduzione italiana a cura di P. Cerri e P. Nicolin), “Verso un’architettura”, Longanesi, Milano, 1973. - Collana “Guide Pratiche” del Master CasaClima, a cura di C. Benedetti, BozenBolzano University Press, 2012-13-14. - “Social Housing in Italia”, in Urbanistica Tre, i Quaderni #06, gennaio-marzo 2015. ≥ IMMAGINI 01 - Gli erker di Bolzano, tradizionali “finestre a golfo” e studio delle cromie per il progetto di Afeltra, Cunico, Giovanetti esito del master Masterhousing dell’Università degli Studi Roma Tre. Immagine di Afeltra, Cunico, Giovanetti. 02 - Rendering del progetto di Afeltra, Cunico, Giovanetti: esito del master Masterhousing dell’Università degli Studi Roma Tre. Immagine di Afeltra, Cunico, Giovanetti. 03 - Foto inserimento del progetto di Afeltra, Cunico, Giovanetti esito del master Masterhousing dell’Università degli Studi Roma Tre. Immagine di Afeltra, Cunico, Giovanetti. 04 - Intervento di riqualificazione con sopraelevazione di un edificio multipiano, Bolzano, 2013, condotto dall’azienda Loghouse ≥. Le fasi del cantiere: posa delle pareti e del solaio. L’utilizzo del sistema in legno x-lam permette una maggiore leggerezza e velocità di posa in opera. Immagine di Loghouse. LINK UTILI Master Housing, Roma Tre. ≥
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IMMERSIONE
Oltre lo scarto I vincitori del concorso RiAction si raccontano
Margherita Ferrari è dottoranda in tecnologia dell’architettura presso l’Università Iuav di Venezia. e-mail: margheritaferrari27@gmail.com
The sensibility to the scrap and the creativity of young designers are the main actors in RiAction. It is a competition to elaborate the waste in new objects (it is promoted by Legambiente Veneto and the association La Mente Comune, with the sponsorship of Symbola and Regione Veneto, the contribution of Veritas S.p.A. and Hilton Molino Stucky Hotel). RiAction has been organized in four categories: “Visual arts” and “Design upcycling”, which in turn have been separated in under 20 and over 21. Four categories, four winners, four stories! They describes own experiences, their attempts and their satisfactions. They are people with several background, but they have the same purpose: winning the competition! of course, but also they want to “create”. They try to go beyond the object and to give it a “new” life, like a lamp, tools for Hilton guests, stylish walls or mystic figure, between the man and the nature...
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iamo sempre più sensibili al “rifiuto”, inteso come scarto e quindi come perdita di un bene: perché di questo si tratta, ovvero di attribuire ad esso un valore anche dopo la sua fase d’uso, magari in un’altra forma. Questa attenzione, combinata con creatività, può dar vita a particolari oggetti di design, i cui dettagli e l’attenzione materiale ne fanno delle vere e proprie opere. Il concorso RiAction (promosso da Legambiente Veneto e dall’associazione La Mente Comune, con il patrocinio di Symbola e della Regione del Veneto, e l’importante contributo di Veritas S.p.A. e Hilton Molino Stucky Hotel), ha infatti messo in luce questo aspetto, invitando i partecipanti alla creazione di opere proprio a partire dai rifiuti. Il concorso è stato ambientato nel particolare contesto veneziano, più precisamente in riferimento all’Hilton Molino Stucky Hotel, al quale infatti è stato dedicato l’articolo “Riciclare con creatività” (OFFICINA* 07 ≥). Ora però è tempo di dare spazio ai vincitori, di raccontare le loro opere, ma soprattutto le loro esperienze. Quattro categorie, quattro vincitori: “Arti visive e plastiche” e “Design upcycling”, suddivise a loro volta in under 20 e over 21. Prova dopo prova, hanno saputo creare delle vere e proprie opere: c’è chi di questa
a cura di Margherita Ferrari strategia ne ha fatto un vero e proprio mestiere, come Beatrice Menniti con la creazione di MiCreo, chi invece si è lasciato ispirare come Francesco Nordio e Enej Gala, che negli scarti di legno e tessuto hanno ritrovato e rielaborato una figura ibrida, tra il mondo umano e quello naturale, con una particolare riflessione sulla consapevolezza del travestimento. Chi invece, come Marta De Momi e Diletta Causin e tutti i loro compagni di classe, sono stati incitati alla partecipazione al concorso dalla propria docente, la prof.ssa Stella Petruzzelli (IIS, Marco Polo - Liceo Artistico, laboratorio di scenografia): una volta recuperati i materiali presso l’Hilton Molino Stucky Hotel (con l’importante contributo di Christine Bodikian - Receiving and purchasing specialist), i giovani studenti hanno dato il loro meglio, creando abiti, giochi per bambini, gioielli e oggetistica di vario tipo, sperimentando e lavorando i materiali a disposizione. Nonostante le diverse esperienze, i quattro vincitori hanno saputo interpretare al meglio quello che era l’obiettivo del concorso, portandosi a casa un bagaglio che va oltre la mera vittoria. E ora diamo voce allo “scarto” e a coloro che lo hanno reiterpretato!
interpretare in maniera creativa una questione a cui l’azienda è costantemente sottoposta
E luce fu (di Marta De Momi) Arti visive e plastiche, under 20 Un giorno la nostra insegnante ci ha parlato di questo concorso, e pochi giorni dopo ci siamo ritrovati presso l’Hilton Hotel Mulino Stucky a raccogliere il materiale e da qui è iniziato tutto il mio progetto di sperimentazione: progetto però non è esattamente il termine corretto per definire questo mio percorso... direi più un’avventura. Mi sono subito rimboccata le maniche per creare un’opera per la categoria artistica e la mia ricerca prima di tutto è stata nel materiale e nella sua composizione. I materiali messi a disposizione erano molti e di varia natura: ho iniziato a lavorare subito con la plastica, in modo particolare con i giocattoli abbandonati e i secchielli. Di questi prodotti ho lavorato la materia prima di tutti, creando elementi che potessero essere utili per la composizione della lampada. Così per un mese ho continuato a lavorare sia sulla materia stessa che sulla composizione degli elementi. C’era però qualcosa che non mi convinceva e non ero mai soddisfatta dei miei risultati. Pian piano mi sono sempre più dedicata alla plastica dei secchielli, abbandonando così le forme dei giocattoli. Lavorando la plastica mi sono resa conto dei suoi pregi e dei difetti e gradualmente sono riuscita a risaltarla come piaceva a me: ho iniziato così a grattare la superficie, ottenendo un effetto “grezzo” che mi è imme-
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diatamente piaciuto! Allo stesso tempo però mi sono resa conto quanto fosse difficile modellarne le dimensioni, visto il suo spessore: così ho scelto di sfruttare la sua “naturale” curva, quella appunto del secchiello! Ho iniziato a tagliare pezzi differenti, per ricreare una serie variegata di forme. Il processo di assemblaggio vero e proprio è stato probabilmente quello che mi ha messo più in difficoltà: sia dal punto di vista creativo che di fattibilità. Non sapevo come disporre questi pezzi così singolari e allo stesso tempo come collegarli tra loro: provando e riprovando, anche per questione di tempi ormai stretti, sono riuscita infine a creare la mia lampada! Nonostante le numerose prove e le difficoltà che ho avuto soprattutto in quest’ultima fase, mi sono ritenuta soddisfatta della mia opera: quando l’ho accesa mi sono resa conto del lavoro fatto e ben riuscito... nonostante qualche punto di colla a caldo di troppo: su questo “punto” la prossima volta farò maggiore attenzione!
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Hiltools (di Diletta Causin) Design upcycling, under 20 La difficoltà iniziale è stata appunto scegliere “cosa” produrre, poiché il bando del concorso distingueva le due categorie “Arti visive e plastiche” e “Design upcycling”. Ho iniziato così a leggere attentamente il bando, a curiosare anche tra i lavori dei compagni che nel frattempo loro proseguivano con il concorso... mentre io restavo a pensare! Ma pian piano l’idea è maturata, soprattutto in merito all’utilità che questa mia creazione avrebbe potuto avere all’interno del contesto dell’Hilton Hotel Molino Stucky: quindi qualcosa rivolto ai clienti ma anche al personale stesso. Per questo motivo la mia direzione è stata quella verso la categoria “Design upcycling”. Da qui l’idea di realizzare “strumenti” di uso quotidiano, come un porta penne, un porta badge, un astuccio o un portamonete: non avevo ancora esattamente chiaro “cosa” avrei prodotto, ma sapevo che volevo realizzare una linea per Hilton. Non mi ero programmata un obiettivo, avrei dovuto provare in base ai materiali messi a disposizione in particolar modo con l’ecopelle; ricordo di aver fatto anche dei tentativi con altri, ma senza ottenere grandi risultati. Parallelamente ho portato avanti l’idea di creare un marchio per questa linea, lavorando quindi sia sullo stesso termine, che sulla font stessa: Hiltools, dall’idea appunto
di creare tools per Hilton. E poi mi sono sbizzarrita su come realizzare graficamente questo marchio. Forse tralasciando un po’ il fulcro della creazione: i tools! Così ho ripreso in mano forbici e fili e mi sono data alla creazione di astucci, porta badge, porta penne... Ma come potevo raccontare questo lavoro? Come descrivere le fasi di questa mia creazione, della linea Hiltools? Con un video! Così ho iniziato a riprendere le mie lavorazioni, per riassumere le fasi più importanti di questa mia produzione. Mi sono divertita molto in questo lavoro e vincere mi ha ripagato molto! Mi piace molto questo settore e penso che proseguirò su questa strada!
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non avevo ancora esattamente chiaro cosa avrei prodotto, ma sapevo che volevo realizzare una linea per Hilton
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Ajdi (di Francesco Nordio e Enej Gala) Arti visive e plastiche, over 21 Il nostro progetto è partito da una riflessione sui travestimenti: ogni divisa, costume o indumento particolare che indossiamo comporta una piccola o grande trasformazione interiore. Interpretiamo personaggi, giochiamo ruoli, cambiamo il nostro modo di camminare, muoverci, comportarci, ma anche di pensare e di percepire. Solitamente subiamo passivamente tali condizionamenti, quando decidiamo di metterci un travestimento assumiamo un ruolo più attivo e aumentiamo la nostra consapevolezza. Riflettendo su questo aspetto, abbiamo deciso di progettare e costruire un travestimento in grado di allontanare dall’umano e avvicinare a una condizione psico-fisica mostruosa, rocciosa e animalesca. Abbiamo quindi pensato di offrire ai visitatori la possibilità di sperimentare su loro stessi queste sensazioni, pensieri e movimenti inediti (dal denso contenuto esperienziale e in grado di scatenare interessanti scarti critici) utilizzando un costume collettivo che premettesse di mettere assieme, in un unico grande corpo, quattro persone, portandole quindi a vedersi non più come individui, e nemmeno come singole entità, ma come una parte, un pezzo, un arto, poiché ogni partecipante era portato a controllare un singolo arto del “mostro”. Una componente essenziale dell’opera è la funzione fortemente ludica, legata al carneva-
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lesco e all’infantile. Essa facilita la fruizione e l’elaborazione dei contenuti, anche complessi. Per la forma del “mostro” ci siamo ispirati alla leggenda degli Ajdi proveniente dalla mitologia della tradizione Slovena: gli Ajdi erano dei giganti di sembianze umane che a volte si solidificavano o meglio si tramutavano in rocce, cime di monti o pareti particolari. Venivano spiegate così alcune forme dei monti delle Alpi Giulie. La più famosa è Ajdovska deklica, la figlia degli Ajdi, che aiutava la gente a trasportare merci pesanti nella valle di Trenta e che finì vittima di un sortilegio. Il costume rappresenta una creatura ibrida, al limite tra organico ed inorganico, tra umanoide e animalesco: un gigante in atto di trasformarsi in montagna ma anche una montagna in atto di trasformarsi in gigante (venendo attivato/animato e disattivato). Abbiamo realizzato il costume con i materiali scartati dall’Hilton Molino Stucky Hotel e messi a disposizione per il concorso RiAction: principalmente assi di legno, tessuti (per la struttura e la copertura), federe e cuscini (per gli arti). Il risultato è stato esposto ed è stato testato con successo durante l’evento della Fondazione Bevilacqua La Masa per il Festival delle Arti di Giudecca e Sacca Fisola, trovando una risposta meravigliata e contenta da parte del pubblico.
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un travestimento in grado di allontanare dall’umano e avvicinare a una condizione psico-fisica mostruosa, rocciosa e animalesca
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“...tutti devono progettare: in fondo è il miglior modo per non essere progettati.” (E. Mari)
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Parete in pallets retroilluminata (di Beatrice Menniti) Design upcycling, over 21 La parete in pallets retroilluminata è un arredo su misura, dal forte impatto estetico. È interamente realizzata con assi di pancale, smontati levigati e ritrattati con prodotti naturali, per ottenere l’aspetto cromatico desiderato. L’altro materiale che contribuisce al valore estetico è l’opalino, plexiglass di color bianco latte e permeabile alla luce. Tutti i nostri progetti sono studiati in modo approfondito, dalla forma, al più piccolo particolare costruttivo. Infatti, nel caso della parete abbiamo studiato una modalità di montaggio modulare/componibile, in modo da facilitare la manutenzione della parte tecnica di illuminazione. All’interno dei moduli in legno e opalino, sono state cablate circa 20 metri di strip led, fissate a muro e con un disegno a serpentina. La parete fa parte di una linea di arredi, Wood and light, composti da legno riciclato – assi di bancale, doghe di letti, assi da ponte – intervallati dall’opalino. L’utilizzo delle strip led garantisce un notevole risparmio energetico. 11
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Gli arredi Wood and light trasformano gli spazi, caratterizzando l’ambiente di giorno, con il particolare accostamento dei materiali ed emettendo luce di sera. MiCreo oltre a essere un gruppo creativo è anche associazione culturale; è un laboratorio in cui si svolgono pratiche sociali di auto-progettazione e auto-costruzione. All’interno dell’associazione si promuove la ricerca di strumenti, materiali e conoscenze, per realizzare e dar forma ai propri progetti. La filosofia è quella del “mi progetto e mi costruisco”. Promuove l’assunzione di comportamenti ecologicamente corretti e socialmente partecipati: organizziamo laboratori creativi per bambini, laboratori di progettazione partecipata e autocostruzione per ragazzi, workshop di falegnameria e DIY per adulti, e servizio sharing degli spazi e delle attrezzature della nostra officina. Il nostro obbiettivo, il nostro sogno è diventare un “laboratorio aperto e condiviso” attivo sul territorio, in cui l’artigianato tradizionale e digitale possano dialogare all’interno di una community virtuosa, in cui trovare assistenza, formazione e scambio di competenze. ♦
IMMAGINI 01 - La lampada. Immagine di Marta De Momi. 02, 03 - La costruzione della lampada: lavorazione della plastica e composizione degli elementi. Immagine di Marta De Momi. 04, 05 - Hiltoos. Immagine di Diletta Causin. 06 - Ajdi, costume in uso. Immagine di Enej Gala. 07, 08 - La progettazione di Ajdi, la struttura e il rivestimento. Immagini di Enej Gala. 09, 10 - Parete retroilluminata. Designer: Beatrice Menniti; makers: Beatrice Menniti, Valentina Morandi, Walter Imparato. Immagine di Francesco De Angelis. 11 - Architetti Beatrice Menniti e Simona Ciccarelli, fondatrici di MiCreo. Immagine di Francesco De Angelis. 12 - Ajdi. Immagine di Enej Gala. LINK UTILI www.micreo.org ≼
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DECLINAZIONI
di Margherita Ferrari Locuzione generica per indicare un filamento elementare isolato o raggrupato ( filaccia), di elevata lunghezza in rapporto al diametro, flessibile e fine, di origine naturale (animale, vegetale, minerale) o artificiale (tecnofibre organiche e inorganiche) e generalmente trasformabile in filato e, conseguentemente, in tessuto. Le fibre si distinguono in: fibre naturali animali (da bulbo pilifero oppure da ghiandole serigene), fibre naturali vegetali (da seme, da fusto o libro, da foglia, da frutto), fibre naturali minerali (da roccia), fibre artificiali organiche (da polimeri naturali o da polimeri sintetici), fibre artificiali inorganiche (da polimeri sintetici). Le principali caratteristiche e proprietà in base alle quali le fibre vengono valutate e classificate sono: - combustibilità (capacità di bruciare) - coibenza (capacità termoisolante) - elasticità (capacità di deformarsi e riassumere la forma originaria) - estensibilità (capacità di allungamento sotto l’azione di trazione) - feltrabilità (capacità delle fibre di compenetrarsi sotto l’azione combinata del calore e di sollecitazione meccaniche) - igroscopicità (propensione ad assorbire umidità) - tenacità (grado di resistenza meccanica e di coesione) - titolo (grado di finezza espresso in peso per unità di lunghezza o massa lineica; unità di misura è il tex). Giorgio Boaga (diretto da), “Dizionario dei materiali e dei prodotti”, Utet, Torino, 1998
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La fibra tessile
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MICROFONO ACCESO Un’importante ed effervescente mostra-mercato dedicata al design autoprodotto di piccola serie
Open Design Italia a cura di Chiara Trojetto Chiara Trojetto è architetto e artigiana per passione per Du Pelli. e-mail: chiaratrojetto@gmail.com
Elena Santi and Laura Succini are, along with Valentina Croci, scientific advisor, the curators of Open Design Italia, an event dedicated to the self-made design of small series. The latest edition, which was attended also by OFFICINA*, selected for the category communication design, was held in Trento on a weekend in late May. The spaces of the fair hosted many designers from around the world, selected through the Open Design Italia 2015 competition, that exhibited their products and ideas dedicated mostly to the product, interior and fashion design. Among the guests, members of the international jury that awarded several prizes and awards, including the Living prize and the Prezi prize, representatives of several companies who met the designer in intense business to business meetings and the lecturers for the many conferences and presentations on the theme of self-made design in its various shades.
Elena Santi e Laura Succini sono, assieme a Valentina Croci, consulente scientifico, le curatrici di Open Design Italia, evento dedicato al design autoprodotto di piccola serie. L’ultima edizione, a cui ha partecipato anche OFFICINA* per la categoria communication design, si è svolta a Trento in un weekend di fine maggio. I locali della fiera hanno ospitato designer provenienti da tutto il mondo, selezionati attraverso il concorso Open Design Italia 2015, che hanno esposto i loro prodotti dedicati per lo più al product, all’interior e al fashion design. Tra gli ospiti, i membri della giuria internazionale che ha assegnato diversi premi e riconoscimenti, tra cui il premio Living e il premio Prezi, i rappresentanti di diverse aziende consolidate che hanno incontrato i designer in intensi incontri business to business e i relatori per le numerose conferenze e presentazioni dedicate al tema dell’autoproduzione nelle sue diverse sfumature. Open Design Italia: iniziamo l’intervista chiedendoti di spiegare ai nostri lettori di cosa si tratta, come nasce. Ricordo che qualche anno fa l’evento si è svolto a Venezia negli spazi dell’Università Iuav, mentre l’edizione 2015 a Trento: è bello che diffondiate la cultura del design autoprodotto spostando la manifestazione in città diverse. Open Design Italia nasce dall’esperienza fatta da persone che oggi ne curano l’evento, mettendo la propria professionalità di designer e progettisti e non solo, ritenendo importante creare un evento internazionale con un bando di concorso che crei una vetrina per un design di piccola serie, dove si conosca l’intera filiera produttiva: progettista, azienda, artigiano che creano gli oggetti esposti. Non a caso nel 2012 abbiamo inserito la carta d’identità dell’oggetto all’interno del catalogo. Dal 2010 con la prima edizione a Modena siamo cresciuti in numero di espositori e domande per il bando, portando la seconda edizione a Bologna e nel 2012-2013 è stata realizzata a Venezia. Il cambio delle città è arrivato da un lato per creare networking e far conoscere l’evento, dall’altro perchè Open Design Italia ha ricevuto molti riconoscimenti come una delle 10 realtà creative più importanti in Italia, selezionato dall’evento Nuovitalians della Telecom, TedxBologna, partneship con l’Ambasciata Olandese in Italia, istituti di cultura a Berlino, crescendo in fama e in relazioni con altri territori nazionali ed internazionali. Pensando al design autoprodotto a molti vengono subito in mente degli oggetti fatti a mano, a cavallo con l’artigianalità, invece con queste due parole
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Open Design Italia ha ricevuto molti riconoscimenti come una delle 10 realtà creative più importanti in Italia
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ci si può riferire a progetti anche molto eterogenei. Nel 2010 la parola autoproduzione era vista come rappresentativa di un fenomeno alternativo al design industriale, per quanto riguarda l’Italia. In Europa molti designer avevano scelto la strada del design di piccola serie. L’azienda Seletti, esempio positivo, per prima ha conosciuto alcuni nostri espositori ed i loro oggetti e li ha inseriti nel catalogo. Nel 2015 possiamo dire che molto sta cambiando, le aziende di arredo e di prodotto vedono che gran parte degli oggetti proposti in Open Design Italia sono oggetti da poter inserire nei loro cataloghi perché capiscono che non sono prototipi o solo idee, ma prodotti pronti alla commercializzazione. Riprendendo l’ultima domanda: quali sono i settori più promettenti, in cui si respira maggiormente aria di innovazione? Sicuramente dopo Expo 2015, molti designer stanno rivedendo e reinventando i prodotti legati al mondo del cibo, reinventando anche prodotti che riprendono in parte la tradizione ed il saper fare artigiano. Quello che cambia è il modo in cui ciò viene realizzato, magari con supporto di stampanti 3D e l’utilizzo di materiali come il legno e la ceramica sperimentati in forme diverse. OFFICINA* era presente all’ultima edizione di ODI, selezionata per la categoria “communication design” in quanto rivista totalmente autoprodotta. Cosa
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ne pensi di questo settore dell’editoria? Non c’è dubbio che il mondo digitale abbia lasciato sempre meno spazio al mondo dell’editoria, ma OFFICINA* come altri progetti, ha trovato un modo diverso di approccio e di coinvolgimento con il cliente finale. L’editoria deve reinterpretare la tradizione lasciando spazio a nuove idee, reinterpretando il sistema di distribuzione dell’informazione. (Self)Made in Italy: punti di forza e debolezze. In Italia abbiamo molti punti di forza, ma bisogna essere bravi a fare un passo indietro capendo i limiti, ovvero bravi nelle idee e progetti, nella tradizione del saper fare, ma meno nel confrontarsi con il mondo internazionale per conoscere meglio il cliente finale e chi vuole un oggetto in piccola serie. Il networking che sta creando Open Design Italia serve proprio a questo: a conoscere e confrontarsi, migliorando il progetto, trovando sinergie. Ad esempio un prodotto ben realizzato in Italia può trovare un buon mercato di vendita magari in Giappone, oppure in Olanda. Essere presenti ad eventi come il nostro aiuta a far crescere il designer prima, durante e dopo. Per i nostri nonni autoprodurre era normale e necessario, poi il boom industriale ha cancellato in buona parte quello stile di vita. Nel 2015 parliamo di autoproduzione come nicchia del mondo del design, ma, talvolta, anche come necessità (penso ad esempio a luoghi poco accessibili come alcune località montane) o come scelta: tornerà ad essere la normalità? Credo che si debba usare la parola prassi per ricordarci il normale processo della progettazione qualunque essa sia, autoprodotta o industriale, ovvero capire il potenziale del singolo territorio dove si produce, la peculiarità del progettista, le finalità dove si vuole arrivare a vendere, l’umiltà di saper ascoltare i consigli di esperti che al tempo dei nostri nonni era chi aveva viaggiato e studiato ed il coraggio di vedere avanti. In fondo ci è stato insegnato: “Di necessità virtù”. Da quando abbiamo iniziato Open Design Italia nel 2010, molti hanno calcato la stessa idea di evento, ma la differenza tra noi e gli altri eventi è che cerchiamo di ingrandire e migliorare il progetto dal bando di concorso ai partner che coinvolgiamo creando sinergie internazionali anche con realtà diverse. Per noi la normalità è selezionare progetti e designer che abbiano vere potenzialità ed i risultati ottenuti lo confermano. ♦
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quello che cambia è il modo in cui ciò viene realizzato, magari con supporto di stampanti 3D e l’utilizzo di materiali come il legno e la ceramica sperimentati in forme diverse
IMMAGINI 01 - Laura Succini e Elena Santi, le curatrici della manifestazione. 02 - Una delle conferenze organizzate all’interno dell’evento Open Design Italia. 03 - Istantanee della manifestazione. 04 - Gli incontri B2B (business to business). Immagini di Davide Menis e Giacomo Brini. LINK UTILI www.opendesignitalia.net ≥
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sullo scaffale
CELLULOSA
Un mondo di finestre Finestre sul mondo. 50 scrittori, 50 vedute. Matteo Pericoli EDT 2015
A partire dal 2012 la mia attività professionale si è strettamente legata ad un tema, quello della finestra, connaturato da un’inesauribile capacità di adattarsi ai più svariati ambiti di indagine: dalla tecnologia all’architettura, passando per la letteratura, l’arte o il cinema. Tre anni di dottorato di ricerca sull’argomento mi sono così valsi l’onorifico titolo di “talebano” della finestra. Che la mia passione per l’argomento fosse talebana (dal termine pashtō ṭālib «studente») non v’è dubbio; che fosse endemica tra gli architetti è però una scoperta che ho fatto solo più di recente. Tra i “patiti di finestre” va annoverato anche Matteo Pericoli, architetto e disegnatore milanese che, a partire dal 2010, ha curato la rubrica Windows on the World del New York Times, raccogliendo i disegni delle viste dalle finestre di scrittori, accompagnati da un loro testo. Il libro Finestre sul mondo. 50 scrittori, 50 vedute (pubblicato nella versione originale in inglese nel 2014) riprende tale formato riportando 50 disegni autografi di Pericoli accompagnati da altrettanti testi di scrittori provenienti da tutto il mondo. Il risultato è
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un viaggio attorno al pianeta visto dagli occhi, o meglio dalle finestre, di noti e meno noti nomi della letteratura contemporanea. Paesaggi urbani, scene di vita quotidiana o sterminati orizzonti naturali incorniciati da esili profili o da elaborate cornici di finestra, fanno da sfondo alle opere degli scrittori suscitando in loro ricordi, riflessioni, ispirazione ma anche irritazione o, talvolta, disagio. La finestra trova così un posto speciale nella mente degli autori trasmettendo la precisa sensazione che “[…] una finestra sia, in definitiva, qualcosa di più che un punto di contatto o di separazione dal mondo esterno. È anche, e forse soprattutto, una specie di specchio che riflette i nostri sguardi verso l’interno, verso di noi e sulla nostra stessa vita” (Pericoli 2015, pag. 3).
a cura di Emilio Antoniol
Jacques Séguéla, Non dite a mia madre che faccio il pubblicitario... Lei mi crede pianista in un bordello Lupetti, 1986
David Gauntlett La società dei makers. La creatività dal fai da te al Web 2.0 Marsilio, 2013
Beppe Finessi (a cura di) Inventario 10. Tutto è progetto Corraini, 2015
(S)COMPOSIZIONE
Un cassetto di calze di lana. Questo è sicurezza.
Linus, in Charles M. Schulz, Peanuts, 1950/2000
Immagine di Chiara Trojetto
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