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ISSN 2532-1218

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n. 18, luglio-agosto-settembre 2017

Fuoco


Al fuoco! di Giulia Pecol Giulia è un architetto. Vive un po’ qua e un po’ là. Un giorno troverà il suo posto ma nel frattempo continua a disegnare.


Margherita Ferrari

Calore e tempo Per secoli l’uomo ha creduto che il calore fosse un fluido, il “calorico”, che spostandosi all’interno degli oggetti rendeva percepibile il fenomeno termico. Solo alla fine dell’Ottocento James Clerk Maxwell e Ludwig Eduard Boltzmann dimostrarono che non esiste alcun fluido di tale natura ma che il calore è dovuto allo spostarsi e allo scontrarsi degli atomi e delle molecole che costituiscono la materia stessa. Il fisico Carlo Rovelli, in Sette brevi lezioni di fisica (Adelphi, 2014), ci spiega poi come questa scoperta porti con sé ripercussioni sorprendenti e inaspettate: se infatti è comunemente accettato che il calore si sposti dalle cose calde a quelle più fredde non lo è altrettanto che questo fenomeno, apparentemente ovvio, sia la causa fondamentale dell’esistenza del tempo. “La differenza tra passato e futuro esiste solo quando c’è calore”: un cucchiaino freddo che si scalda se immerso nel tè bollente o un pendolo che, per attrito, genera calore e lentamente si ferma, sono esempi lampanti portati da Rovelli per mostraci come “il fenomeno fondamentale che distingue il futuro dal passato è il fatto che il calore va dalle cose più calde alle cose più fredde”. Questa prospettiva, in cui il calore diventa il metro per misurare lo scorrere del tempo, si intreccia a pieno titolo con l’evoluzione umana. Partendo dal mito prometeico della scoperta del fuoco fino alla prima rivoluzione industriale dove carbone e vapore, sostituendo la combustione del legno, hanno dato una prima forte accelerazione allo sviluppo umano, la ricerca di fonti energetiche più efficienti è stata un elemento fondante della crescita della nostra civiltà. La scoperta di idrocarburi dal maggior potere calorifero, fra tutti il petrolio e i suoi derivati, e gli esperimenti di fissione e fusione nucleare hanno infine aperto l’era contemporanea, proiettando l’uomo in un futuro in cui tutto è più veloce e quindi, più caldo. Eppure, oggi, la consapevolezza che alcuni limiti ambientali sono già stati superati spinge l’umanità a cercare altre forme di energia naturali, che “scaldano meno” e così facendo si adeguano maggiormente al tempo della natura basato su cicli lenti e ripetuti; un tempo che oscilla in modo ridondante, dove caldo e freddo, moto e quiete si ripetono giorno dopo giorno, di anno in anno, fuori dal controllo dell’uomo. Un tempo, quello naturale, dominato dalla confusione, dal caotico spostarsi e scontrarsi degli atomi in cui il passaggio dal caldo al freddo e il conseguente scorrere del tempo, sono frutto del caso e della probabilità. Una Confusione che richiama quella cantata da Lucio Battisti, “figlia della solita illusione” dell’uomo di poter dominare il mondo, l’energia e con essa il tempo. Emilio Antoniol


OFFICINA* Direttore editoriale Emilio Antoniol Direttore artistico Margherita Ferrari Comitato scientifico Fabio Cian (direttore), Sebastiano Baggio, Matteo Basso, MariaAntonia Barucco, Viola Bertini, Piero Campalani, Federico Dallo, Doriana Dal Palù, Francesco Ferrari, Michele Gaspari, Silvia Gasparotto, Giovanni Graziani, Michele Marchi, Patrizio Martinelli, Cristiana Mattioli, Corinna Nicosia, Fabio Ratto Trabucco, Chiara Scarpitti, Barbara Villa, Carlo Zanchetta, Paola Zanotto Redazione Valentina Manfè (esplorare), Margherita Ferrari (portfolio), Paolo Borin (BIMnotes), Francesca Guidolin (microfono acceso), Libreria Marco Polo (cellulosa) Copy editor Emilio Antoniol (caposervizio), Luca Casagrande, Margherita Ferrari Impaginazione Margherita Ferrari Grafica Stefania Mangini, Luca Casagrande Photo editor Letizia Goretti Testi inglesi Giorgia Favero, Antonio Sarpato Web e social media Emilio Antoniol, Luca Casagrande, Margherita Ferrari Progetto grafico Margherita Ferrari

“Officina mi piace molto, consideratemi pure dei vostri” Italo Calvino, lettera a Francesco Leonetti, 1953

Trimestrale di architettura e tecnologia N.18 lug-set 2017 Fuoco

Proprietario Associazione Culturale OFFICINA* e-mail info@officina-artec.com Editore Incipit Editore S.r.l. Sede legale via Asolo 12, Conegliano, Treviso e-mail editore@incipteditore.it Stampa Press Up, Roma Tiratura 300 copie Chiuso in redazione il 19 agosto 2017, con bibite fresche e frutta Copyright opera distribuita con Licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale Condividi allo stesso modo 4.0 Internazionale L’editore si solleva da ogni responsabilità in merito a violazioni da parte degli autori dei diritti di proprietà intelletuale relativi a testi e immagini pubblicati.

Direttore responsabile Emilio Antoniol Registrazione Tribunale di Treviso n. 245 del 16 marzo 2017 Pubblicazione a stampa ISSN 2532-1218 Pubblicazione online ISSN 2384-9029 Accessibilità dei contenuti online www.officina-artec.com Abbonamenti e-mail abbonamenti@incipiteditore.it online www.incipiteditore.it Prezzo di copertina 10,00 € HANNO COLLABORATO A QUESTO NUMERO: Loris Agostinetto, Jessica Barichello, Alice Callegaro, Tiziana Gallon, Antonio Girardi, Filippo Magni, Denis Maragno, Salvatore Martire, Francesca Mauro, Francesco Musco, Ingrid Paoletti, Giulia Pecol, Maurizio Polese, Giuliano Ros, Paolo Scarparo, Matteo Silverio, Caterina Trevisan, Sara Verones, Flavia Zaffora, Carlo Zanchetta.


INDICE

n•18•lug•set•2017

ESPLORARE

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a cura di Valentina Manfè

Fuoco

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introduzione di Margherita Ferrari

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Architetture per l’energia Flavia Zaffora

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Venezia Città Metropolitana climateproof Filippo Magni, Denis Maragno, Francesco Musco, Sara Verones

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Foreste che infiammano il clima Alice Callegaro

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Energie rinnovabili 2.0 Matteo Silverio

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Elettricità rinnovabile dal Sole Jessica Barichello

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Jellyfish Barge Antonio Girardi

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InFondo a cura di Emilio Antoniol e Luca Casagrande

PORTFOLIO

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Tutto a fuoco Maurizio Polese

IN PRODUZIONE

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Proteggersi dal Sole, sfruttare la sua energia Emilio Antoniol

speciale BIOMASSA

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La sostenibilità di un combustibile antico Loris Agostinetto, Salvatore Martire

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Energia dalle biomasse Emilio Antoniol

VOGLIO FARE L’ARCHITETTO

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La carbon footprint degli incendi boschivi Francesca Mauro

IMMERSIONE

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Fare impresa responsabile Luca Casagrande

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Osare fare Ingrid Paoletti

BIM NOTES

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La costruzione del valore Carlo Zanchetta, Paolo Scarparo

MICROFONO ACCESO

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Gianni Silvestrini a cura di Francesca Guidolin

CELLULOSA

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Falena e fiamma a cura dei Librai della Marco Polo

(S)COMPOSIZIONE

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Confusione Emilio Antoniol

Al fuoco! Giulia Pecol


ESPLORARE

Venice Climate Lab 28-29 settembre 2017 Venezia www.veniceclimatelab.net

57. Esposizione Internazionale d’Arte 13 maggio - 26 novembre 2017 La Biennale di Venezia www.labiennale.org “L’arte di oggi testimonia la parte più preziosa dell’umanità. È luogo per eccellenza della riflessione, dell’espressione individuale e della libertà.” Con queste parole la curatrice Christine Macel presenta la 57. Esposizione Internazionale d’Arte. Una mostra dedicata, principalmente, all’incontro e al dialogo tra gli artisti e il pubblico. Aspetto che viene messo in luce anche con un evento collaterale molto interessante: tutti i venerdì e sa-

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Chiara Cartuccia

The boat is leaking. The captain lied. 13 maggio - 26 novembre 2017 Fondazione Prada, Venezia www.fondazioneprada.org Un progetto culturale, non una semplice mostra, quello messo in atto da Udo Kittelmann all’interno dello splendido Ca’ Corner della Regina a Venezia. Il percorso espositivo si sviluppa sui tre livelli del palazzo, i protagonisti del progetto sono lo scrittore e regista Alexander Kluge, la scenografa e costumista Anna Viebrock e l’artista tedesco Thomas Demand; il curatore osserva come la collaborazione nasca “dalla comune consapevolezza, a livello emotivo e teorico, delle criticità del nostro presente e della complessità del mondo in cui viviamo”. Ognuno degli artisti porta con sé la sua arte e il suo linguaggio. Fotografie e immagini in movimento, oggetti e scenografie, un palcoscenico e alcuni piedistalli da circo, le sedute di un cinema e un’aula di giustizia, la riproduzione di un dipinto di Angelo Morbelli; anche l’allestimento, realizzato con materiali di riciclo, è parte dell’esposizione, in un susseguirsi di sensazioni, atmosfere e metafore. Il percorso non può quindi essere compiuto in fretta o distrattamente, necessita di tempo e di concentrazione: i mezzi di comunicazione utilizzati sono molto diversi e il visitatore diventa parte della scena, non più solo spettatore. Tiziana Gallon

oggi ritorna riproponendone l’approccio metafisico degli anni passati. Una Biennale fatta da artisti nuovi, ben 103 dei 120 artisti invitati sono infatti presenti per la prima volta in mostra, una scelta coraggiosa quella di Christine Macel, che esprime tutta la sua fiducia nel mondo dell’arte. Caterina Trevisan

bato, durante i sei mesi dell’esposizione, un artista terrà una Tavola Aperta incontrando il pubblico a pranzo, per instaurare un dialogo incentrato sul proprio lavoro artistico. Filo conduttore di questa Biennale è l’Umanesimo, non inteso come ideale artistico da seguire, né in quanto celebrazione dell’uomo come essere perfetto. Si tratta invece di un Umanesimo che sottolinea la capacità dell’uomo, attraverso l’arte, di dominare quelle forze brutali che impoverirebbero la condizione umana. Le opere esposte in Viva Arte Viva, questo il titolo dell’esposizione, vengono scoperte attraverso un viaggio, forma ricorrente tra gli autori umanisti, tra i nove padiglioni della mostra. Ognuno affronta temi differenti e attualissimi allo scopo di ricordarci che l’arte è davvero l’ultimo baluardo, “un giardino da coltivare al di là delle mode e degli interessi specifici, rappresentando una valida alternativa all’indifferenza”. Il viaggio inizia nel Padiglione degli artisti e dei libri, nel quale ci si interroga sul modo di fare arte oggi. Tra studi di artisti che sono sempre più spazi collettivi di lavoro, nei quali all’artista sono richieste diverse competenze e qualifiche. Nel Padiglione della gioia e della pace siamo “costretti” a rapportarci con le nostre emozioni meno nobili quali la paura, l’ansia o l’aggressività, frutto dell’epoca in cui viviamo, scossa continuamente da conflitti, guerre e disuguaglianze. Si prosegue poi nel Padiglione della Terra dove vengono indagati temi quali l’ecologia, la trasformazione industriale e lo sfruttamento delle risorse terrestri. Fino all’ultimo dei padiglioni quello del tempo e dell’infinito. Il tempo, sempre indagato come tematica dagli artisti di ieri,

Amanti. Passioni umane e divine 21 maggio - 8 ottobre 2017 Illegio di Tolmezzo (UD) www.illegio.it Giunta alla sua XIII edizione, la mostra di Illegio non offre solo un’esposizione di opere d’arte, seppure di altissimo livello, ma intende coinvolgere l’uomo contemporaneo, impaurito, smarrito e sradicato, in un percorso esistenziale capace di pro-vocare nel suo intimo quelle domande fondamentali di senso che, sole, possono riportarlo in cammino verso il lógos. Quest’anno in particolare la visita alla mostra s’impone più che mai come cammino meditativo, esperienziale e iniziatico, attraverso i luoghi universali dell’amore (le passioni animiche, la sofferenza psicologica, l’eticità dei legami), fino ad avvicinare il piano teologale (l’incontro con lo Sposo, la misericordia divina). Il piccolo ma vitale borgo di Illegio/Dieç in Carnia ha saputo promuovere negli anni “l’incontro della fede con la bellezza in un laboratorio di promozione sociale e di evangelizzazione innovativa” (Geretti A.), incrementando nel contempo un prezioso senso di topofilia negli abitanti stessi. Nell’epoca del trionfalismo tecnologico avvertiamo l’imbarazzo “per esser stati capaci di mille progressi tranne che di un progresso nell’amare” (Geretti A.). La mostra di Illegio ci ricorda che “là dove smarrisce le tracce della trascendenza, l’esistenza si autonega, ricade su di sé, cosa tra le cose, senza rinvio, senza ulteriorità” (Galimberti U.), per condurci alla suprema domanda: l’amore sarà più forte della morte? Giuliano Ros La forza delle immagini 3 maggio - 24 settembre 2017 Fondazione Mast, Bologna www.mast.org


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Canova, Amore e PsychĂŠ stanti (1787). Crediti: Giuliano Ros


Secondo lo storico greco Erodoto la morte e la risurrezione di una fenice nella mitologia araba avvenivano attraverso processi innescati dal sole, che bruciava la fenice una volta morta e, riscaldandone le ceneri, le dava nuova vita. Questo è solo uno dei numerosi esempi in cui la figura del sole veniva contemplata come fonte di vita e ancora oggi è presente nella simbologia di numerose religioni: si tratta di una risorsa a cui l’uomo ha sempre ambito, al fine di riprodurne il calore e la luminosità, e il fuoco non è altro che lo strumento terreno che gli ha permesso di fare tutto questo. Tuttavia a determinarne l’utilità, l’efficacia e la pericolosità, è la modalità con la quale esso viene impiegato. In questo numero di OFFICINA* il fuoco assume numerose sembianze, da fonte energetica a strumento di distruzione, esso è un’energia che l’uomo non sempre riesce a controllare: il fuoco così, inesorabilmente, vince e brucia. Le alte temperature e la siccità accrescono il rischio imputato a questo elemento e, non da meno, l’errore umano (o l’ignoranza) può essere causa di incendi mortali. Diviene necessario dunque imparare a gestire questa energia, per far si che essa sia prima di tutto una risorsa e non tanto un pericolo. Un suo uso più consapevole incide significativamente sui cambiamenti climatici grazie alla According to the Greek historian Herodotus, who wrote about riduzione del numero di incendi e quindi di emissioni di Arab mythology, the death and resurrection of a phoenix occurred fumi nell’atmosfera, o ancora mediante lo sfruttamento through processes triggered by the sun. It burned the phoenix once di energie naturali come quella solare, a scapito di alit died and, warming its ashes, gave it a new life. This is just one of tre fonti in esaurimento. Le ricerche scientifiche e gli the many examples in which the figure of the sun was contemplated approfondimenti proposti in questo numero derivano as a source of life and it is still present in the symbology of many da ambiti disciplinari molto differenti tra loro, dai religions. It represents a resource that men have always sought to microscopici processi molecolari alle strutture arreproduce its heat and brightness: fire is the ground instrument that chitettoniche e urbane e, tuttavia, hanno in comune allowed us to do all this. However the fire utility, effectiveness and un carattere molto forte: quello della progettazione hazard are determined by its utilization. e della gestione dell’energia. Solo così l’uomo può In this issue of OFFICINA* fire takes on many forms, from energy source to destruction tool. It is an energy that men cannot always control: acquisire le competenze per trasformare questa in fact fire inexorably wins, and burns. High temperatures and droughts forza insita nel nostro pianeta e utilizzarla nella increase the risk and, not least, the human error (or ignorance) can be the maniera più appropriata, per il bene della nocause of deadly fires. stra vita e della Terra. It is necessary to learn how to manage this energy, to make it a resource first and not a danger. A conscious use impacts significantly on climate change by reducing the number of fires and emitting fumes into the atmosphere, or by exploiting natural energy, such as solar energy, at the expense of other exhausted sources. The scientific researches and the studies proposed in this issue belong to very different disciplines, from microscopic molecular processes to architectural and urban structures, however they share a very strong character: the design and management of energy. Only in this way men can acquire the skills to transform this inherent strength in our planet and use it in the most appropriate way, for the good of our lives and the Earth.



Architetture per l’energia Fuoco (e ceneri) di una rivoluzione

Flavia Zaffora è dottore di ricerca in Architettura, Progettazione Architettonica, Dipartimento di Architettura, Università degli Studi di Palermo. e-mail: flavia.zaffora@gmail.com

If we recognize in the industrial buildings the roots of modern architecture, the mutation of the meaning which the architectures for the energy go towards, the ones animated at the beginning of the 20th century by the fée électricité, can sum up the contemporary concept of fire. Defined as the revolution of 20th century, the discovery and the application of electricity triggered on a process which never stopped and that made energy the true key to enter into the contemporary age. Beyond the obsolescence and the use of traditional fuels, electricity is potential energy still contained in the objects and able to produce new values; true energy, allowing devices to work, and including the metabolism, the heating, the air conditioning, the lighting; in the end, it becomes immaterial energy, of fluxes and ideas, information and goods. Former power stations become nowadays new interpreters of the relationship between city and landscape. Fire, as agent of transformation, is, still today, the most noble among the four elements of architecture.

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elcome to the machine (again) Quando Marinetti pubblicava il suo Manifesto del Futurismo, nel 1909, le ciminiere delle fabbriche e delle centrali elettriche segnavano già da quasi un secolo il volto delle città europee; cavi e connessioni aeree ne oscuravano il cielo di giorno e di notte i lampioni a filamento illuminavano le strade, le piazze e presto anche le case. A più di un secolo di distanza dallo slancio futurista, la meccanizzazione, la produzione in serie, la standardizzazione, hanno segnato il passaggio cruciale a un mondo di servizi finalmente accessibile a un gran numero di persone e alla nascita del comfort (Giedion, 1948). Il focolare domestico, come nucleo intorno al quale riunirsi, si moltiplica in ogni stanza, sostituito nelle funzioni tecniche dell’illuminazione e del calore dalla lampadina e del termosifone, in quelle simboliche dalla televisione. Con la nascita di internet e l’avvento dei computer, anche la televisione perde la sua centralità: siamo ormai dentro alla terza età della macchina, una macchina fatta di connessioni invisibili, che utilizza energie e flussi immateriali. È l’età del digitale: la “fata elettricità” dell’inizio del secolo scorso ha accentuato la sua dimensione virtuale, è diventata schiava (Guillemin, 1995) e, a sua volta, ci ha reso tutti suoi schiavi. Il crollo della fede assoluta nella macchina, spiegata da Lewis Mumford nel 1934 in Technics and Civilization, che profetizzava una dissociazione tra capitalismo e tecnica che avrebbe dovuto rendere la macchina un insieme di strumenti dei quali servirsi, e non su cui fare completo affidamento, non si è mai veramente avverato. Negli anni Settanta, la copertina di Wish you were here dei Pink Floyd (img. 02) testimonia icasticamente la vittoria della macchina e del capitalismo, e il prevalere di un materialismo senza senso (Mumford, 1934), metafora dell’alienazione e del disagio esistenziale dell’uomo moderno.


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L’attuale consapevolezza della dipendenza dalla “macchina” modifica la percezione e l’utilità delle architetture per l’energia, le quali, oltre a incarnare l’evoluzione dell’idea archetipica del fuoco primigenio attorno a cui si costruisce la casa e senza il quale, ancora oggi, essa non è concepibile, esprimono un nuovo concetto di energia ancora contenuta in manufatti la cui funzione si è esaurita. Accogliere di nuovo la macchina significa, in questo caso, emanciparsene, vale a dire utilizzare i manufatti per l’energia appartenenti al secondo Novecento e ormai obsoleti, per costruire un immaginario diverso finalizzato, invece, alla produzione di beni immateriali, che consentano alle città di riappropriarsi di spazi rimasti esclusi dalle dinamiche urbane e finalmente di nuovo partecipi di una relazione consapevole dei suoi margini col territorio. Black out Detonatori dell’immaginario del Novecento (Gubler, 1995), le architetture per la produzione di energia vanno oggi incontro a un declino inesorabile, nella necessità di ridurre gli inquinanti e con l’avvento delle nuove tecnologie che determinano l’obsolescenza di gran parte dei manufatti concepiti nella seconda parte del secolo scorso. Come la nascita dell’industria segna l’origine dell’architettura moderna, così il suo crepuscolo contribuisce alla definizione di un nuovo paesaggio nelle città, il dross (Berger, 2007), punti in cui la luce, momentaneamente, si spegne: spazi in attesa. Ma se “le fabbriche della prima metà del secolo sono già siti

quali nuove cattedrali della modernità, le centrali elettriche della seconda generazione, ormai in via di dismissione, possono essere ancora oggi metafore di sviluppo nella terza età della macchina

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archeologici” (Tronti, 1998), a cui è possibile attribuire valore monumentale, cosa sono quelle della seconda metà? Se, infatti, seppure a fatica, il Technikdenkmäler, letteralmente “monumento tecnico”, è riconosciuto come tale in Germania sin dall’inizio del secolo scorso, il patrimonio industriale della seconda generazione è ancora troppo “giovane”, una machine chaude, per la quale è necessario un processo di “raffreddamento” (Tornatore, 2004). Il riconoscimento di valore per oggetti architettonici “giovani” è tuttora difficile e si scontra con l’idea, ancora oggi diffusa, che la modernità non abbia lo stesso valore che si tributa all’antichità. L’associazione del termine “moderno” a quello di “monumento” da parte di Alois Riegl nel 1903 risulta ancora adesso un’audace riflessione su ciò che può essere considerato degno di tutela e cosa no. D’altro canto, l’essere “macchine calde” implica il contenere ancora in sé un focolaio di energia in parte inespresso e la riattivazione di un metabolismo è, per questo, più semplice, perché consente il reinserimento nei cicli di trasformazione delle città quando il processo di obsolescenza non si è del tutto attuato. In particolare, le centrali elettriche, cattedrali moderne della religione del XX secolo, costituiscono un patrimonio che, a partire dagli anni Cinquanta, si specializza come tipologia riconoscibile, passando dal castello turrito e dalla poetica del brick (img. 01) al grande involucro funzionale; per loro stessa concezione, a differenza di altri tipi industriali, le centrali elettriche incidono con forza il territorio, perché la loro ubicazione, a causa delle necessità tecnologiche, le sposta ai margini o al di fuori delle aree urbane. Oggi, pertanto, tali insediamenti costituiscono importanti occasioni di riciclo, espressioni della relazione tra rus e urbs, chiavi di volta dello sviluppo dei tessuti urbani contemporanei tra città e infrastrutture, in luoghi ibridi di cui questi estesi complessi possono ancora oggi farsi interpreti. Superata la dicotomia nuovo-antico, nel difficile riconoscimento di un valore dell’architettura elettrica del Moderno, si tratta di compiere un’operazione tipica della contemporaneità: spegnere per riaccendere, riattivare, cioè, nuovi cicli di vita, ripensandone la funzione in chiave di produzione culturale, che superi il concetto di museificazione in voga per le architetture della prima metà del Novecento1 e che inter-

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preti, invece, l’ideale incarnato all’epoca della loro concezione, la cui genericità perturbante può oggi rivelarsi cruciale nella potenzialità di riuso nei luoghi di margine, cerniera tra la scala del paesaggio delle infrastrutture e quella urbana. Mutazioni “Brutta, sporca e cattiva”2 , l’immagine dell’industria insieme spaventa e affascina sin dalle sue origini: proprio nella sua antinomia di simbolo del progresso e incarnazione dei mali della modernità, la fabbrica, nell’obsolescenza, si carica della condizione di rovina moderna. Il riferimento al celebre film di Ettore Scola non è nuovo e si rivolge spesso ai simboli controversi della contemporaneità, industrie, strade, periferie, oltre che ovviamente ai gruppi umani “altri”. L’iconografia della fabbrica è sempre ambigua, legata da un lato alle visioni cupe ottocentesche tratteggiate da Dickens nella sua Coketown e riprese da Lowry negli anni Cinquanta (img. 05) e, dall’altro, alle estatiche narrazioni futuriste, anche queste non prive di contraddizioni (img. 03); la dicotomia rimane tuttora irrisolta. Eppure, se si interpreta ancora una volta la centrale elettrica quale portatrice del “fuoco archetipico”, nella sua decadenza essa attraversa una metamorfosi che incarna il concetto di rovina quale promessa di vita (Fiorani, 2009), il ritorno a un’energheia aristotelica pura, in cui il prodotto dell’uomo rinasce colto come opera della natura (Simmel, 1903). Nella percezione stessa della rovina in generale e con particolare riferimento a quella industriale, è presente il concetto di metamorfosi (Barbanera, 2009): attraverso l’abbandono, l’oggetto si libera, diventa bene comune, materiale di esplorazione, di esperienza estetica, ispirazione di sentimenti di nostalgia e malinconia. La trasformazione della materia in rovina la carica di un’alterità radicale (Edensor, 2005) che sfugge alle precedenti definizioni e intesse così relazioni differenti con ciò che la circonda, modificando a sua volta la percezione stessa dei luoghi: la rovina industriale, figlia delle esigenze della produzione, una volta raggiunta l’obsolescenza cessa di appartenere al mondo vorticoso dal quale era stata concepita e la sua esistenza è legata al tempo stesso del suo decadimento: un molteplice concetto di temporalità, che ha in sé un passato veloce, un presente lentis-


la mutazione della rovina elettrica in forza viva, attraverso il progetto di architettura, contribuisce a una trasformazione positiva degli spazi residuali della cittĂ contemporanea

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simo, un futuro incerto oltre la decadenza. Persa la sua primigenia funzione, il progetto di architettura ha, allora, il ruolo di reinserire questa “macchina” all’interno delle dinamiche culturali della città, provando a instaurare un nuovo equilibrio tra i valori dell’oggetto ormai trasfigurato, per cui la trasformazione fisica è intimamente legata alla dimensione temporale, che entra nel progetto come tema cruciale soprattutto in relazione alla scala dei complessi nei quali si opera; la mano del progettista, all’inizio più evidente, deve avere la capacità di imprimere una direzione chiara, definendo le relazioni ma lasciando liberi i dettagli. Il progetto di architettura accelera, così, il tempo ultimo della trasformazione, con l’obiettivo di reimmettere tali “rovine” nei processi di sviluppo dei tessuti contemporanei, alla luce dei valori che esse contengono ancora e in relazione ai territori dei quali costituiscono elemento di riconoscibilità e identità3. La centrale elettrica, perché concepita essa stessa per produrre energia, è di per sé simbolo dell’architettura industriale in toto, da un lato origine dell’architettura moderna, dall’altro espressione dell’ingegno umano. La sua metamorfosi, guidata dal progetto di architettura, innesca nuove dinamiche di riappropriazione di intere aree rimaste intercluse, o escluse, dalla

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crescita delle città; proprio per la sua particolare ubicazione, il riciclo dell’architettura industriale moderna può giocare un ruolo cruciale nel progetto delle fasce periurbane, riattivando così frammenti in abbandono in un’ottica di “riaccensione” urbana sistemica, attraverso la lente degli scenari e in equilibrio tra intervento progettuale e trasformazione spontanea (Edensor, 2005). Da rovina oggetto di contemplazione, seppure sublime, l’architettura per l’energia subisce una mutazione di significato; essa è oggi portatrice e produttrice di un fuoco tramutatosi in cenere, che nella cenere si dissimula ma, seppur ritiratosi, resta come altro da sé (Derrida, 1984): una cenere da cui una nuova rivoluzione nasce, con una fede, non più assoluta ma conscia dei propri limiti, nel fuoco dell’ingegno umano per uno sviluppo consapevole delle città del futuro.▲


NOTE 1 – Si guardi la Bankside Power Station di Londra, ora Tate Modern o la Central Tejo di Lisbona, Museo dell’Elettricità: le condizioni di recupero erano facilitate dall’ubicazione all’interno del nucleo urbano. 2 – Dal film di Ettore Scola, “Brutti, sporchi e cattivi”, del 1976, sulle miserie morali e fisiche degli abitanti della periferia romana, dalle quali non esiste possibilità di riscatto. 3 – È da esempio l’esperienza del Dottorato in Architettura di Palermo, sulle centrali elettriche in Sicilia di Giuseppe Samonà, nata dalla collaborazione con il proprietario, l’Enel, il quale, riconosciuto il valore della centrale di Augusta, ne ha affidato lo studio al Dipartimento di Architettura, che ha avviato le ricerche del XXVI ciclo e un workshop internazionale per proporre degli scenari e strategie generali di trasformazione. Si veda la tesi di dottorato dell’autrice, “Codice classico e linguaggio moderno. Le centrali termoelettriche di Giuseppe Samonà”, tutor Prof. A. Sciascia, e di Laura Sciortino, “La centrale termoelettrica di Giuseppe Samonà, 1955-56. Progetto di restauro”, tutor Prof. E. Palazzotto, cotutor Prof. M. Panzarella, Icar/14, Dipartimento di Architettura di Palermo, marzo 2016. Gli esiti del workshop sono pubblicati in E. Palazzotto (a cura di), “Re_Power Station. Reuse of Augusta Power Station”, Caracol, Palermo, 2016. IMMAGINI 01 - Battersea Power Station, Londra, di Giles Gilbert Scott, risalente al 1930. Crediti: Aurelien Guichard. 02 - La copertina dell’album dei Pink Floyd Wish you were here. Crediti: Harvest. 03 - Paesaggio urbano, 1940 (dettaglio). Crediti: Mario Sironi, collezione privata. 04 - Industrial landscape, 1955. Crediti: Laurence Stephen Lowry, Tate, London 2017. 05 - Fotomontaggio sul Carroponte di Sesto San Giovanni, Milano, oggi utilizzato per eventi culturali e musicali. Crediti: Flavia Zaffora. BIBLIOGRAFIA - Barbanera M., “Relitti riletti. Metamorfosi delle rovine e identità culturale”, Bollati Boringhieri, Torino, 2009. - Berger A., “Drosscape: Wasting Land Urban America”, Princeton Architectural Press, 2007. - Derrida J., “Quel che resta del fuoco”, Sansoni Editore, Firenze, 1984. - Edensor T., “Industrial ruins. Space, Aesthetics And Materiality”, Berg, New York, 2005. - Fiorani D., “Architettura, rovina, restauro”, in Barbanera M., “Relitti riletti. Metamorfosi delle rovine e identità culturale”, Bollati Boringhieri, Torino, 2009, pp. 339-355. - Giedion S., “Mechanization takes command”, Oxford University Press, 1948. - Gubler J., “Introduzione”, in “Rassegna. Problemi dell’architettura e dell’ambiente”, 1995, n. 63, pp. 4-5. - Guillemain H., “Il miracolo quotidiano. L’elettricità domestica nella Francia tra le due guerre”, in “Rassegna. Problemi dell’architettura e dell’ambiente”, 1995, n. 63, pp. 18-23. - Mumford L., “Technics and Civilization”, Lowe and Brydone, London, 1934. - Simmel G., “Die Ruine”, in “PhilosophischeKultur. Gesammelte Essays”, Klinkhardt, Leipzig, 1911, pp. 125–133, tr. it. a cura di Gianni Carchia, “La rovina”, in “Rivista estetica”, 1981, n. 8, pp. 121-127. - Tornatore J.L., “Beau comme un haute fourneau. Sur le traitement en monument des restes industriels”, in “L’Homme”, 2004, n. 170, pp. 79-116. - Tronti M., “Fabbrica”, in “Casabella”, 1998, n. 651/652, pp. 3-5.

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Venezia Città Metropolitana climateproof Il progetto SEAP_Alps come esempio innovativo di governance climatica locale

Filippo Magni, Denis Maragno, Francesco Musco, Sara Verones

This paper aims to present the experience of the Metropolitan City of Venice within the European project SEAP_Alps, in order to add a further element of investigation to the field of sustainable energy planning at the local level. The main objective of the project is to promote energy planning at local level by sharing a common methodology among Participant Partners. This is essential to address climate change, as energy use is mainly responsible for it. Local Authorities, in addition to the daily work of land security, play a key role in the mitigation process, but as generally acquired, mitigation is not sufficient since climate change is already taking place: adaptative measures must be considered as well. The two options’ approach (mitigation and adaptation) in the energy planning process is thus essential. Following this principle, an ad hoc methodology for drafting Sustainable Energy Action Plans (SEAP) for the metropolitan city of Venice, has been created, promoted and implemented.

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n un contesto come quello veneziano, un governo di area vasta, intermedio tra comune capoluogo e regione, può svolgere un ruolo essenziale nella programmazione, nella pianificazione e nella gestione delle politiche ambientali. In questa prospettiva il Piano Strategico della Città Metropolitana di Venezia avrà un ruolo fondamentale, sia come strumento di indirizzo per le amministrazioni locali, sia come strumento di raccordo verso il livello di pianificazione regionale con particolare attenzione al Piano Territoriale Regionale di Coordinamento (il PTRC, nella versione 2009 e nella variante a valenza paesaggistica del 2013, contiene riferimenti espliciti nell’apparato normativo al rapporto tra assetto territoriale e politiche per il clima). Se da un lato il Patto dei Sindaci, principale movimento europeo che vede coinvolte le autorità locali e regionali che si impegnano volontariamente ad aumentare l’efficienza energetica e l’utilizzo di fonti rinnovabili e i relativi PAES (Piani d’Azione per l’Energia Sostenibile), ha sicuramente accelerato il dibattito sulla riconversione sostenibile delle città italiane, i risultati concreti nel panorama nazionale risultano ancora modesti, poche sono infatti le città che hanno realmente avviato la progettazione di lavori sulla base delle indicazioni contenute nei PAES (Musco, 2014). Grazie alla collaborazione tra l’Università Iuav di Venezia e la Città Metropolitana di Venezia nell’ambito di un progetto europeo denominato SEAP_Alps, il percorso teorico metodologico approfondito in letteratura, ha trovato lo spazio per una prima applicazione pratica, fornendo al quotidiano e capillare lavoro di messa in sicurezza del territorio veneziano le basi per la costruzione del futuro piano clima.


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La ricerca in azione: il progetto SEAP_Alps come esperimento di governance climatica locale Il progetto SEAP_Alps, in cui dodici partner europei hanno potuto confrontarsi e mettere a frutto differenti esperienze a supporto di oltre quaranta Comuni pilota nella stesura di PAES innovativi1, ha permesso di avere una preziosa base di applicazione pratica che un approccio puramente teorico non avrebbe potuto definire e, al contempo, ha confermato le ipotesi desunte dallo studio della letteratura scientifica in materia di pianificazione climatica locale. La fase di ricerca-azione ha preso avvio con l’adattamento della metodologia di costruzione di un PAES (ideazione, implementazione, monitoraggio e miglioramento) al contesto normativo locale, per poi passare a un momento di affiancamento e supporto (con una formazione continua) dei partner e delle autorità locali coinvolte in merito a come utilizzare la metodologia e gli strumenti a essa connessi. L’esito di questo percorso, iniziato nel 2014, sarà la costruzione e l’implementazione di PAES “di nuova generazione”2, progettati grazie all’utilizzo di una nuova metodologia. La necessità di creare collaborazione e confronto tra ricercatori e stakeholder, sia per quanto riguarda la definizione dei problemi da indagare, sia per ciò che concerne l’applicazione pratica della ricerca (Cunningham, 1976), è stata resa possibile da un lungo e intenso processo di capacity building. Questo percorso si è basato sulla necessità di “costruire a partire da ciò che già esiste”, utilizzando e rafforzando le capacità già esistenti a livello locale.

l’esito di questo percorso, iniziato nel 2014, sarà la costruzione e l’implementazione di PAES di nuova generazione

A seguito del prezioso lavoro svolto negli ultimi anni dalla Città Metropolitana di Venezia, questo processo (che normalmente implica tempi lunghi e richiede un coinvolgimento di lungo termine degli attori locali) è stato più semplice ed efficace, soprattutto perché il successo di azioni di formazione e coinvolgimento non è stato considerato come una spesa (di tempo, denaro, output), bensì come un investimento lungimirante in termini di sostenibilità. Il lavoro di ricerca relativo alla stesura di una metodologia specifica3 per l’area veneziana si è basato sul miglioramento della metodologia proposta dal progetto SEAP_Alps, comune a tutti i partner e disponibile sul web. In questo modo, la predisposizione dei nuovi PAES è stata sia arricchita nella parte di analisi dell’esistente (in termini di strategie, indirizzi politici e ricerca di azioni climateproof già

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previste ma non ancora messe a sistema), sia migliorata nella sua parte di analisi di rischi e vulnerabilità (grazie all’uso delle tecnologie ICT di remote sensing4) e di connessione con gli strumenti ordinari di governo del territorio. La proposta metodologica per il territorio veneziano ha avuto quindi come finalità quella di integrare i risultati e le azioni messe in campo dai Comuni all’interno dei propri strumenti, in vigore o in corso di redazione, con le necessità legate agli impatti potenziali rilevati all’interno delle aree pilota, in particolare quei fenomeni estremi legati alla gestione dell’acqua e del calore urbano. Metodologia Iuav specifica per la Città Metropolitana di Venezia Il valore dei processi di integrazione dell’adattamento all’interno degli strumenti di governo del territorio, ben evidenziato dalla letteratura di settore, rappresenta una questione molto complessa, che si avvale del contributo di diverse discipline e rispetto alla quale il dibattito internazionale è ancora molto acceso (Olhoff e Schaer, 2009; Mukheibir e Ziervogel, 2007). Di fatto, come testimonia la vasta gamma di definizioni ritrovabili all’interno del panorama scientifico e la molteplicità di approcci metodologici per la valutazione delle vulnerabilità e dei rischi, non vi è ancora un approccio in grado di soddisfare all’unanimità i soggetti preposti a prendere decisioni in materia di pianificazione territoriale (img. 02).

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Per questo motivo è compito delle singole comunità scegliere ciò che funziona meglio per le loro esigenze (Corfee-Morlot et al., 2009): alcune comunità potrebbero decidere di implementare l’intero ciclo di politiche di adattamento, altre potrebbero preferire l’esclusione completa di un passaggio, o lo sviluppo di una versione semplificata o, ancora, intraprendere solo una valutazione del rischio e della vulnerabilità. La scelta dipenderà quindi da diversi fattori, come ad esempio la disponibilità di risorse finanziarie, le competenze tecniche, i dati rilevati, ecc. La metodologia proposta da Iuav è stata costruita per essere il più flessibile e orientabile possibile, per assistere al meglio le comunità locali nella formulazione tanto di piani d‘azione per l’energia sostenibile (PAES) quanto di altri tipi di piani legati al clima come i Piani di Adattamento Locale (PAL) o di attuazione di alcuni passi di essi. Inoltre, al fine di rendere la metodologia più accessibile, anche ai meno esperti e a principianti nel campo del cambiamento climatico, in alcuni casi, si è ricorso a una semplificazione dei concetti. La struttura di questa metodologia (img. 03) è stata costruita sulla base della sintesi operata tra diverse metodologie esistenti, analizzate durante il corso del progetto e di seguito rappresentata nei sei passaggi chiave. Riflessioni sul progetto SEAP_Alps L’occasione fornita dal progetto SEAP_Alps ha permesso di rilevare la presenza di forti volontà ed entusiasmo riguardo al tema dell’adattamento a livello locale, riconoscendo che le


la presentazione di misure no-regret o low-regret e di soluzioni win-win già realizzate da altre città europee e italiane, come Bologna, Ancona e Padova, ha facilitato la riduzione della resistenza politica verso l’inserimento di misure di adattamento nella pianificazione locale

02

1

A nalisi strategie proposte dal piano di assetto del territorio

si considera l’agenda politica dell’amministrazione comunale tradotta nelle strategie generali del pat

6

2

Monitoraggio vengono proposte delle soluzioni per il monitoraggio delle azioni previste dal piano

5

Sintesi di progetti e azioni già in essere

oltre alle strategie proposte vengono sinteticamente elencati tutti i progetti/ azioni che altri enti pubblici o pubblico-privati hanno avviato sul terriotrio

3

Strumenti legati alle nuove azioni

- selezione degli strumenti già abili ad implementare nuove zioni proposte - interrogazione degli stessi in caso di necessità attraverso logiche premiali o vincolistiche

A nalisi delle nuove vulnerabilità

attraverso il supporto tecnologico della Città Metropolitana di venezia si analizza il territorio comunale per far emergere le principali/nuove vulnerabilità

4

Proposta di nuove azioni

vengono definiti nuovi tipi di azioni per rispondere alle vulnerabilità emerse dall’analisi

amministrazioni pubbliche stanno cominciando a considerare l’adattamento (e non più solo la mitigazione) come un’opportunità per migliorare sostenibilità urbana e qualità della vita dei propri cittadini. Gli assessori locali, supportati dai tecnici comunali e da specifici stakeholder, sono stati capaci di vedere come le vulnerabilità e i rischi legati al cambiamento climatico possono essere trasformati in opportunità significative. La presentazione di misure no-regret o low-regret e di soluzioni win-win già realizzate da altre città europee e italiane, come Bologna, Ancona e Padova, ha facilitato la riduzione della resistenza politica verso l’inserimento di misure di adattamento nella pianificazione locale (EEA, 2013). Il progetto ha inoltre dimostrato che, laddove sono l’Unione Europea o altri enti superiori di supporto a fornire il frame di sviluppo delle capacità di adattamento (Musco et al., 2015; Musco e Magni, 2014) e lo scambio di informazioni riguardo a buone pratiche esistenti, allora le città sono più propense a intraprendere un percorso locale di adattamento, impegnandosi nel fare rapidi progressi nello sviluppo di strategie, non più solo decarbonized ma anche climate proof. Il ruolo dell’UE nel fornire metodologie coerenti a creare e sostenere l’impegno politico nella partecipazione a tale processo (indirizzo top-down fornito, in questo caso, dall’iniziativa del Patto dei Sindaci) risulta quanto mai importante perché le amministrazioni locali sentono il bisogno di direttive europee e regolamenti sovraordina-

03

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Vulnerabilità

Goal

Target

aumento ventilazione riduzione calore immagazinato

formazione isole di calore urbano

diminuzione temperature

riduzione cunsumi energetici

deflusso difficoltoso

gestione integrata delle acque meteoriche (invarianza idraulica)

Azione creare corridoi verdi

riduzione calore immagazinato/ riduzione radiazione incidente

modificare la geometria degli edifici (rapporto fra altezza media e larghezza del canyon) aumentare riflettanza ed emissività delle superfici edifici aumentare riflettanza ed emissività delle superfici pavimentate

riduzione radiazione incidente

aumentare ombreggiamento verde

riduzione rapporto di Bowen (trasformazione calore sensibile in calore latente)

preservare prati e boschi e aree rimaste libere dalla edificazione aumentare superfici vegetate- tetti e prati aumentare superfici pavimentazione vegetale diminuire pavimentazioni impermeabili

riduzione flusso antropogenetico

azioni già previste dal Piano di Mitigazione

aumento permeabilità superfici

creare pozzi e trincee di infiltrazione diminuire pavimentazioni impermeabili aumentare superfici pavimentate vegetale

aumento tempo di corrivazione del bacino/riduzione dell’impatto inquinante

creare zone umide (cunette erbose e filtri vegetali)

separazione delle acque di prima pioggia/riduzione dell’impatto inquinante

creare aree di accumulo creare vasche di ritenzione lagune

aumento tempo di corrivazione del bacino/riduzione della portata di picco

creare laghetti artificiali e zone di laminazione controllare gli organi di intercettazione

AUTORI Filippo Magni è urbanista, dottore di ricerca (Ph.D.) in Pianificazione e Politiche Pubbliche per il Territorio, è assegnista di ricerca presso l’Università Iuav di Venezia, mail: fmagni@iuav.it. Denis Maragno è urbanista, dottore di ricerca (Ph.D.) in Nuove tecnologie informazione territorio e ambiente, è assegnista di ricerca presso l’Università Iuav di Venezia, mail: denis.maragno@iuav.it. Francesco Musco è architetto e urbanista, dottore di ricerca (Ph.D.) in Analisi e Governo dello Sviluppo Sostenibile, è Professore associato di Pianificazione urbanistica e ambientale presso l’Università Iuav di Venezia, mail: francesco.musco@iuav.it. Sara Verones è ingegnere, dottore di ricerca (PhD) in Urban and regional planning. Lavora per APRIE - Agenzia per le risorse idriche e l’energia della provincia Autonoma di Trento, mail: sara.verones@ provincia.tn.it.

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ti per essere nelle condizioni ottimali di agire sull’adattamento (Mühlmann et al., 2014). Sebbene infatti la concreta implementazione delle strategie di adattamento ha luogo principalmente a livello locale, l’UE conserva ancora un ruolo significativo nel creare le condizioni che permettono alle città di intraprendere tale processo (EC, 2009). Al di là della metodologia impiegata per SEAP_Alps, appare significativo sottolineare come i contenuti e gli obiettivi di tale progetto possano essere intesi, non solo per la Città Metropolitana di Venezia ma in linea più generale, come l’ultimo punto evolutivo di un percorso incentrato sullo sviluppo sostenibile e resiliente delle città europee. A Venezia, tale percorso è partito dalla tutela ambientale e ha seguito i passi compiuti all’interno dei suoi piani (dai piani delle acque ai PAES) che progressivamente sono avanzati dai temi della sostenibilità energetica per la mitigazione delle cause dell’effetto serra, all’integrazione delle politiche di adattamento ai cambiamenti climatici. Le esperienze sinergiche maturate in questi anni, tra amministrazioni locali ed ente metropolitano, con il supporto tecnicoscientifico dell’Università, indicano una delle possibili vie, replicabile anche in altri contesti, per l’adattamento del livello locale ai cambiamenti climatici. Il favore incontrato e l’ampia partecipazione di Comuni, istituzioni e associazioni, indica che sarebbe un grande errore abbandonare questo percorso proprio nel momento in cui cominciano a emergere i primi aspetti positivi. Una Città Metropolitana dotata in tutta la sua componente locale di tali strumenti di governo climate proof indirizzati da un unico cappello metodologico, identificabile con il futuro

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piano clima metropolitano, permetterebbe sicuramente la diffusione con maggiore velocità ed efficacia della sensibilità verso un approccio integrato di mitigazione ed adattamento ai cambiamenti climatici (img. 04). Perché un tale processo metodologicoamministrativo abbia successo sarebbe inoltre fondamentale ripensare l’organizzazione (e le competenze) delle singole pubbliche amministrazioni che compongono la Città Metropolitana e del modo in cui sono chiamate a collaborare tra loro e con le professionalità del mondo accademico e lavorativo, portandole progressivamente verso l’approccio interdisciplinare e sistemico che le problematiche moderne richiedono. Come si è visto, però, per poter raggiungere tale scopo diviene indispensabile rendere capillare e uniforme l’uso di strumenti ICT, di linee guida tecniche per agevolare la condivisione delle conoscenze, di un vocabolario unico per lo studio e l’applicazione dei più innovativi processi climate proof, riconducibili al ciclo virtuoso di: analisi delle necessità, programmazione degli interventi, misurazione degli effetti delle politiche attuate e ricalibratura di nuovi interventi. In tal senso, Venezia può apparire ancora un caso emblematico in rapporto al contesto urbanistico nazionale: gli sforzi pianificatori e di programmazione territoriale condotti nel suo ambito non possono infatti astenersi dal confrontarsi con le priorità di messa in sicurezza del territorio che, se non inserite in contesti, tavoli e strumenti di ampie vedute, rischiano di essere viste come ottemperanze e non come elementi valorizzabili nella visione strategica della futura Città Metropolitana.▲


NOTE 1 – In cui, oltre a interventi per contrastare il cambiamento climatico, sono state incluse anche azioni di adattamento, spesso ancora poco diffuse. 2 – Ai PAES già adottati invece offrirà la possibilità di essere rivisti e integrati con l’inserimento di un allegato tecnico di adattamento. 3 – La metodologia è stata sviluppata da un gruppo di lavoro dell’Università Iuav di Venezia e il Servizio ambiente della Città Metropolitana di Venezia, con la collaborazione attiva di 10 amministrazioni comunali della Città Metropolitana di Venezia: Campolongo Maggiore, Chioggia, Dolo, Fiesso d’Artico, Jesolo, Santa Maria di Sala, San Donà di Piave, San Michele al Tagliamento, Pramaggiore e Vigonovo. 4 – Le tecnologie dell’informazione e della comunicazione, acronimo TIC (in inglese Information and Communication Technology, la cui sigla è ICT), sono l’insieme dei metodi e delle tecnologie che realizzano i sistemi di trasmissione, ricezione ed elaborazione di informazioni. IMMAGINI 01 - Resilienza-Venezia. Crediti: Magni F.,2016. 02 - Confronto fra metodologie di supporto alla pianificazione climate proof. Crediti: Magni F., 2015. 03 - Sintesi concettuale della metodologia costruita da Iuav. Crediti: SEAP_Alps (Musco F., Magni F., Verones S., Maragno D., 2015). 04 - Prontuario di Azioni di adattamento per la Città Metropolitana di Venezia. Crediti: SEAP_Alps (Musco F., Magni F., Verones S., Maragno D., 2015). 05 - Infogravica sul progetto SEAP_Alps.Crediti: Magni F., Magnabosco G., 2016. BIBLIOGRAFIA - Corfee-Morlot J., Cochran I., Teasdale P., “Cities and climate change: Harnessing the potential for local action. Competitive cities and climate change”, OECD, 2009, Paris, p. 78. - Cunningham B., “Action Research: Towards a procedural model”, in “Human relations”, n.3, 1976. - EC, “White paper - Adapting to climate change: towards a European framework for action” (Commission Publication No. COM/2009/0147 final), 2009. - EEA, “Adaptation in Europe - addressing risks and opportunities from climate change in the context of socio-economic developments”, Report N. 3/2013. EEA, Copenhagen, 2013. - Mühlmann P., Westerlind Wigström A., Robrecht H., “EU Cities Adapt. Un progetto pilota per aumentare la capacità adattiva delle città in Europa”, in Musco F., Zanchini E. (a cura di), “Il clima cambia le città. Strategie di adattamento e mitigazione nella pianificazione urbanistica”, Franco Angeli, Milano. 2014, pp. 304 - 325 - Mukheibir P., Ziervogel G., “Developing a Municipal Adaptation Plan (MAP) for Climate Change: the City of Cape Town”, in “Environment & Urbanization”, 2007, n 19(1), pp. 143–158. - Musco F., “Verso un piano clima dell’area metropolitana di Venezia”, in “Agenda metropolitana ambiente”, a cura di N. Benatelli, Venezia, Provincia di Venezia, 2014. - Musco F., Magni F., “Mitigazione ed Adattamento: le sfide poste alla pianificazione del territorio”, in Musco F., Fregolent L. (a cura di), “Pianificazione urbanistica e clima urbano. Manuale per la riduzione dei fenomeni di isola di calore urbano”, Il Poligrafo, Padova, 2014, pp. 115-134 - Musco F., Verones S., Magni F., Maragno D., Dalla Fontana M., “Venezia città metropolitana resiliente. Dal progetto SEAP_ Alps verso il piano clima metropolitano”, Università Iuav di Venezia, Venezia, 2015. - Olhoff A., Schaer C., “Screening tools and guidelines to support the mainstreaming of climate change adaptation into development assistance. A stocktaking report prepared for UNDP”, New York, 2009.

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Foreste che infiammano il clima Dal Neolitico ai giorni nostri, incendiare per ottenere suolo disponibile per le coltivazioni

Alice Callegaro è dottoranda in Scienze Ambientali presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia, Dipartimento di Scienze Ambientali, Informatica e Statistica, Campus Scientifico di Via Torino, Mestre (VE). e-mail: alice.callegaro@unive.it

The chemical mechanisms that occur during a forest fire event generate high quantity of particulate matter, greenhouse gases and a lot of other compounds which affect atmospheric dynamics, biogeochemical cycles of the elements and create persistent haze of unbreathable air. Since the Neolithic, fires were used by men for land clearance. First farmers and ranchers needed to grow cereals and to graze cattle, and fire was the fastest way to obtain free lands for these purposes. Nowadays, fire still remains the most used and cheapest instrument to get new lands ready for plantations. The worst threat from fires seems to be happening in Indonesia, where companies are uncontrollably burning a lot of forests, both legally and illegally, and selling the burned fields to palm oil firms, in a big fire-business at the expenses of the environmental quality. Local and global climate changes, air pollution, worsening human health and biodiversity loss are the outcomes of this increasingly intense biomass-burning process.

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na foresta in fiamme fa immediatamente pensare al calore dell’elemento fuoco, ma non sempre si è consapevoli di come nemmeno la più piccola scintilla si sarebbe potuta generare senza la presenza degli altri elementi: aria, acqua e terra. Il ruolo dell’aria è duplice perché contiene l’ossigeno, gas comburente indispensabile per l’alimentazione del fuoco e perché trasporta con il vento le particelle che si generano durante l’incendio. L’acqua non è solo uno degli strumenti più utilizzati per domare gli incendi, dolosi, programmati o casuali, ma è prima di tutto uno dei prodotti della reazione di combustione. La mancanza d’acqua, ad esempio durante i periodi di siccità, favorisce le condizioni per l’innesco di nuovi incendi, in quanto la vegetazione secca è più facilmente soggetta a essere bruciata velocemente. Periodi di elevate precipitazioni, al contrario, inibiscono gli incendi ma allo stesso tempo facilitano la crescita rigogliosa della vegetazione, che in un secondo momento diventa potenziale biomassa da combustione, costituendo il vero e proprio combustibile. L’elemento terra risulta alla fine esposto e pronto ad accogliere nuova vita e spesso l’uomo ne prende possesso per sfruttarne le potenzialità. Al di là della connessione tra gli elementi, l’incendio costituisce un vero e proprio processo chimico: la combustione della biomassa inizia con una prima fase di essicazione con rilascio di acqua e composti volatili; poi, all’aumentare della temperatura, si ha la pirolisi del combustibile, cioè la rottura termica delle molecole in esso contenute che danno origine a sottoprodotti con effetti sulle dinamiche atmosferiche e sulla salute umana (Langmann et al., 2009). In base alla tipologia di vegetazione bruciata (savana, steppe, foreste pluviali, foreste di conifere) si ha produzione di gas serra, gas in tracce e particolato atmosferico che inf luisco-


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no sulla radiazione solare incidente e sulla formazione delle nuvole. Si stima che gli incendi nelle regioni tropicali, le più soggette a questi fenomeni, siano responsabili di emissioni di gas serra quantificabili tra 2 e 5 Pg (1015 grammi) di carbonio all’anno (Crutzen e Andreae, 1990; Bond, 2013). Al momento della combustione l’azoto contenuto nella biomassa viene rilasciato come azoto molecolare e, analogamente a carbonio e fosforo, può essere trasportato con il particolato atmosferico. Si assiste così una diminuzione nei quantitativi di questi nutrienti negli ecosistemi e variazioni nei loro cicli biogeochimici (Bond, 2013). Le emissioni degli incendi vegetazionali sono costituite anche da black carbon1, il cui trasporto verso le zone polari e la successiva deposizione sulle superfici ghiacciate e nevose (Langmann et al., 2009) portano alla diminuzione dell’albedo2 , aumentando la capacità di queste aree sensibili di assorbire il calore del sole e quindi di scaldarsi e fondersi più velocemente. Anche la salute umana può subire delle ripercussioni per via degli incendi e delle combustioni in genere. Più le particelle immesse nell’atmosfera da incendi, riscaldamenti domestici e traffico sono fini, più profondamente possono penetrare all’interno del nostro sistema respiratorio, causando malattie cardiovascolari e respiratorie. L’Unione Europea stabilisce il valore medio annuale limite di PM2.53 pari a 25 µg/m3 , da ridurre a 20 µg/m3 entro il 2020 (Direttiva 2008/50/CE), valori-soglia spesso superati

gli incendi nelle regioni tropicali sono responsabili di emissioni di gas serra quantificabili tra 2 e 5 Pg (1015 grammi) di carbonio all’anno

Tabella A Fonte di fuoco o attività incendiaria

(TgC anno-1)

C esposto

C rilasciato

Agricoltura itinerante

(TgC anno-1)

N/C

N rilasciato

(% in peso)

(TgN anno-1)

1000-2000

500-1000

1

5-10

Deforestazione

500-1400

200-700

1

2-7

Incendi di savana

400-2000

300-1600

0,6

2-10

Legna da ardere

300-600

300-600

0,5

1,5-3

500-800

550-800

1-2

2700-6800

1800-4700

Rifiuti agricoli Totale

5-16 15-46

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modern human dispersals

more

industrial combustion

Global fire

vegetation burning

O2 (%)

The Americas

Europe

less 40 30

Atmosphere

Asia / Australia

Austronesian colonizations

20 10 0 440 30

Climate CO2 x modern

CO2 (ppm)

20

400 360

10

320

0

280

glacial-interglacial cycles

medieval warm period

SO

EN

y

lit

na

so

a se

we

r

he

at

e fir

GLOBAL WARMING

240 200

Vegetations

angiosperms trees terrestrial plants

anthropogenic invasive spp.

C4 grasslands

Humans domestic fire

agricolture fire foreign fire

satellite fire monitoring mechanized fire fighting industrial fire

bipedalism

1 bya

100 mya

10 mya

1 mya

100 kya

10 kya

1 kya

100 ya

10 ya

1 ya

months

days

near future

distant future

02

e in parte associati all’aumento della frequenza estiva degli incendi boschivi. Nel 2015 in Veneto su sedici stazioni di monitoraggio ARPAV, nove hanno mostrato valori fuori norma. Bruciare per coltivare Gli incendi naturali, e la loro influenza su clima terrestre ed evoluzione di flora e fauna, sono documentati in archivi sedimentari e rocciosi risalenti anche a centinaia di milioni di anni fa. Tra 1,5 e 1 milione di anni fa l’Homo erectus cominciò a controllare il fuoco e si pensa che l’inizio dell’uso volontario di veri e propri incendi risalga a 200-400 mila anni fa (Bond, 2013; Crutzen e Andreae, 1990). Ma è a partire dal periodo Neolitico (iniziato parallelamente al periodo geologico dell’Olocene, intorno a 11.700 anni fa) che si può osservare come eventi incendiari, ricostruiti grazie all’analisi di carote di sedimento e di ghiaccio, possano essere associati alle attività umane e all’aumento di popolazione e di aree coltivate in molte zone geografiche. Appiccare un incendio aveva e ha lo scopo di liberare con efficacia i terreni, convertire le foreste in pascoli, alternare le coltivazioni e rimuovere la vegetazione secca in modo da incrementare la produttività agricola e la crescita delle piante. Tuttavia l’attribuzione alle attività umane di cambiamenti del regime degli incendi a lungo termine e a scala continentale rimane ancora tema di dibattito (Marlon et al., 2013). Si stima che nelle foreste tropicali sia racchiuso un quinto del carbonio totale mondiale (Bond, 2013) e il ruolo delle foreste nel contrastare l’aumento dei gas serra in atmosfera è cruciale. Tuttavia, a causa degli incendi, questo processo di immagazzinamento dei gas serra viene arrestato e, al contrario, l’Intergovernamental Panel on Climate Change afferma che

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a partire dell’età preindustriale la deforestazione e il cambiamento nelle pratiche agricole hanno contribuito per il 25% all’incremento dell’anidride carbonica in atmosfera. Se da un lato è possibile giustificare i comportamenti dell’uomo del Neolitico, non consapevole degli impatti ambientali delle sue attività, al giorno d’oggi gli effetti negativi di alcuni comportamenti umani sono scientificamente documentati e non più accettabili. Attualmente, il monitoraggio delle aree incendiate è poco efficiente, soprattutto nei paesi in via di sviluppo dove contadini e compagnie agricole e industriali non possono essere controllati in modo efficace. Eppure, grazie ad immagini satellitari, le zone in questione sono riconoscibili in modo sempre più approfondito (Langmann et al., 2009). Nell’attuale scenario di cambiamento climatico, una delle sfide per il genere umano riguarderà la capacità di monitorare il regime naturale degli incendi e lo sfruttamento intensivo del suolo, considerandone gli impatti climatici, ecosistemici e sulla salute umana. Da non tralasciare inoltre è il fatto che ad oggi non è possibile predire come evolverà il clima a livello locale (Bond, 2013) ma si prevede che l’incremento della siccità e della popolazione in alcune aree geografiche saranno determinanti nell’aumentare la frequenza di incendi violenti (Bowman et al., 2009). Il caso dell’Indonesia Il Sud Est Asiatico e in particolare l’Indonesia è una regione in cui negli ultimi decenni si stanno verificando frequenti ed estesi incendi forestali e di aree umide (wetlands). Questi territori, un tempo incontaminati, stanno affrontando l’erosione, la desertificazione, la sottrazione di nutrienti nel suolo e la perdita di biodiversità. Le aree urbane così come le foreste, dove il cielo è oscurato dalla polvere e dalla fuliggine dovu-


Grafico A Produzione Primaria Terrestre gC/m2anno 0 1-300 301-600 601-1200 1201-1553

Grafico B Numero incendi all’anno 0 1-4 5-19 20-49 50-99 100-199 200-499 > 500 03

eventi incendiari ricostruiti grazie all’analisi di carote di sedimento e di ghiaccio sono associati alle attività umane e all’aumento della popolazione e delle aree coltivate

te alle emissioni antropiche e agli incendi, si presentano oggi come zone insalubri per la popolazione umana e per gli animali, come ad esempio gli oranghi (Swarna Nantha e Tisdell, 2009). Negli anni 1997/1998 l’Indonesia è stato uno dei maggiori inquinatori dell’aria, con emissioni pari a 0,81-2,57 Gt (giga tonnellate) di carbonio e oggi detiene il primato della maggiore deforestazione mondiale. Nel 2012 la deforestazione in Indonesia ha colpito ben 840 mila ettari contro i 460 mila del Brasile, che negli ultimi anni ha cercato di avviare efficaci politiche di controllo (Arunarwati Margono et al., 2014). Durante gli eventi di El Niño4 le condizioni aride che si verificano nella zona portano a un aumento degli incendi e la densa cappa di fumo permane per mesi sopra le popolazioni locali e degli stati vicini. Una volta degradate, le wetlands diventano ancora più facilmente assoggettabili dalle fiamme, causando un meccanismo di feedback amplificativo difficile da gestire, riducendo le possibilità di recupero e riconversione delle terre. Soprattutto a Sumatra e nel Kalimantan Orientale (Borneo) il fuoco viene usato dai nativi, senza percezione della sua pericolosità, per eliminare la vegetazione che impedisce l’accesso alle aree di pesca, liberare terre per le coltivazioni o per i pascoli e respingere gli insetti vettori di malattie. Ma il fenomeno che più impatta sulla distruzione delle foreste indonesiane è il land grabbing: società locali impe-

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gnate negli incendi di terre e foreste al fine di ottenere lotti edificabili o coltivabili (soprattutto per palma da olio e albero della gomma) che vengono poi concessi, in cambio di denaro, ad altre compagnie che si occupano della semina delle colture. La rendita economica che ne deriva sarebbe legale se il territorio interessato fosse proprietà di privati mentre, nella maggior parte dei casi, le aree incendiate sono di proprietà dello Stato (Purnomo et al., 2017). Si tratta di un vero e proprio mercato di terreni bruciati ready-to-plant, un business del fuoco con profitti economici a discapito della qualità dell’ambiente. Il valore assegnato ai terreni disboscati con il fuoco va da 665 a 856 $ per ettaro, 3.800 $ con la palma da olio già piantata. Il denaro ricavato è distribuito tra il gruppo di organizzatori (68% del guadagno) che gestiscono transazioni e coltivazioni, i membri delle comunità locali che si occupano degli incendi (22%) e i pochi privilegiati dei villaggi che amministrano i documenti (10%). Questi soggetti fanno parte di un élite di mecenatismo che può influenzare i processi decisionali a livello distrettuale e nazionale, ostacolando le capacità del governo di allocare efficientemente le risorse economiche (Purnomo et al., 2017). La domanda mondiale di olio di palma è cresciuta esponenzialmente negli ultimi anni, incentivando l’uso del fuoco come strumento più veloce e a buon mercato per ottenere terre libere. In questo modo l’olio di palma rimane il grasso vegetale economicamente più conveniente, “con la più alta resa produttiva rispetto agli altri oli vegetali” e quindi il più usato nei settori alimentare, cosmetico e dei biocarburanti, ma anche il più controverso per i suoi risvolti sull’ambiente e per gli ancora dibattuti effetti sulla salute umana. Ridurre gli incentivi a favore di questi attori, a piccola e grande scala, è cruciale e può attuarsi solo diminuendo la domanda di queste terre. Il 4 aprile 2017 l’Unione Europea, uno dei maggiori importatori di olio di palma, ha chiesto al governo indonesiano un certificato di produzione, in modo da arrivare nel 2020 all’eliminazione dal mercato europeo degli oli vegetali prodotti in modo non sostenibile, per contrastare sia la deforestazione sia

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un vero e proprio mercato di terreni bruciati ready-to-plant, un business del fuoco con profitti economici a discapito della qualità dell’ambiente

lo sfruttamento dei lavoratori. Nonostante non sia vincolante, la richiesta non è stata apprezzata dal Gapki (Indonesia Oil Palm Producer Association), che la trova svantaggiosa e vuole rivalersi su queste misure, sostenendo che l’economia indonesiana è principalmente basata sull’olio di palma (35 milioni di tonnellate di olio di palma prodotte nel 2016, con 11,6 milioni di ettari di piantagioni), che fornisce lavoro a 16 milioni di persone e sostentamento alle comunità locali. La faccenda è in continua e veloce evoluzione ma è di difficile interpretazione, controversa per le implicazioni sociali e a volte carente di trasparenza. Se principi di sostenibilità ambientale e sociale, misure anticorruzione ed efficienza burocratica venissero messi al primo posto in termini di priorità politiche, non si assisterebbe al ritmo attuale di consumo di suolo e altre risorse, con la prospettiva di un futuro amaro per le prossime generazioni. Sembra invece che venga completamente dimenticata l’interconnessione tra gli elementi fuoco, aria, acqua e terra, fondamenti dell’unico e solo pianeta Terra da cui “l’elemento vita” può trarre la linfa essenziale.▲


NOTE 1 – Particelle di carbone molto piccole (diametro fino a 2.5 µm) formatesi negli eventi di combustione incompleta di biomassa e combustibili fossili. 2 – Potere riflettente di una superficie che varia da 1 (la totalità della luce è riflessa, oggetto perfettamente bianco) a 0 (la totalità della luce è assorbita, oggetto nero). 3 – Polveri sottili respirabili che possono penetrare profondamente nei polmoni in quanto hanno un diametro inferiore a 2.5 µm. 4 – Gli eventi ENSO (El Eiño-Southern Oscillation) sono fenomeni climatici periodici (3-7 anni) di riscaldamento delle acque del Pacifico Centro-Meridionale che comportano alterazione delle correnti marine ed atmosferiche e di conseguenza variazioni climatiche, ad esempio una maggiore aridità in Indonesia e Australia e una maggiore piovosità nelle coste di Ecuador, Perù, Cile. IMMAGINI 01 - Fumo e incendi da Sumatra. Crediti: NASA Goddard Space Flight Center. 02 - Schema quali-quantitativo dell’attività globale del fuoco nel corso del tempo, relazionata ad attività umane e a cambi vegetazionali. Le linee tratteggiate indicano periodi di incertezza. Crediti: Bowman et al., Fire in the Earth system, Science, 2009. 03 - Produzione primaria terrestre dovuta alla fotosintesi operata dalle foreste (A) e numero di incendi per anno (B). Si nota che la maggior parte degli incendi impattano soprattutto nelle zone associate alla produzione primaria e quindi alle foreste. Crediti: Bowman et al., Fire in the Earth system, Science, 2009. 04 - L’associazione Walhi, membro dell’International Friends of the Earth Network, protesta contro l’inquinamento e la foschia dovuti ai crimini delle corporazioni che distruggono la foresta indonesiana. Crediti: John Englart (Takver). 05 - Incendio forestale. CC0. Tabella A - Tabella riassuntiva su biomassa esposta a diversi tipi di incendi o sorgenti di fuoco, con quantitativi di carbonio ed azoto rilasciati in atmosfera nelle aree tropicali. Crediti: adattata da Crutzen e Andreae, 1990. BIBLIOGRAFIA - Arunarwati Margono B. et al., “Primary forest cover loss in Indonesia over 2000–2012”, in “Nature Climate Change”, 2014, n. 4, pp. 730–735. - Bond W.J., “Fires, Ecological Effects of”, in “Encyclopedia of Biodiversity”, 2013, n. 3, pp. 435–442. - Bowman D.M.J.S. et al., “Fire in the Earth system”, in “Science”, 2009, n. 324, pp. 481-484. - Crutzen P.J., Andreae M.O. “Biomass burning in the tropics: impact on atmospheric chemistry and biogeochemical cycles”, in “Science”, 1990, n. 250(4988), pp. 1669–1678. - Langmann B. et al., “Vegetation fire emissions and their impact on air pollution and climate”, in “Atmospheric Environment”, 2009, n. 43(1), pp. 107–116. - Marlon J.R. et al., “Global biomass burning: A synthesis and review of Holocene paleofire records and their controls”, in “Quaternary Science Reviews”, 2013, n. 65, pp. 5–25. - Purnomo H. et al., “Fire economy and actor network of forest and land fires in Indonesia”, in “Forest Policy and Economics”, 2017, n. 78, pp. 21–31. - Swarna Nantha H., Tisdell C., “The orangutan–oil palm conflict: economic constraints and opportunities for conservation”, in “Biodiversity and Conservation”, 2009, n. 18, pp. 487-502.

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Energie rinnovabili 2.0 Il potenziale delle alghe nella produzione di energia pulita

Matteo Silverio è architetto freelance specializzato in innovazione digitale e sostenibilità ambientale. Ricercatore indipendente e membro del DEL_FabLab, Università Ca’ Foscari di Venezia. e-mail: matteo@matteosilverio.com

Nowadays, energy systems based on fossil fuels put pressure on natural energy resources because of their negative impact on the environment. Therefore, the use of green and renewable energy is a hot-topic and need to be carefully developed to slow down air pollution and the growing global warming. As far as green energy is concerned, biofuels seem a good and affordable solution to replace fossil fuels without revolutionizing the actual energy infrastructure chain, especially in the transportation field. They emit less polluting and greenhouse gasses, and they are easy to produce and manipulate. However, biofuels from crops competes with the food market, creating serious issues. The solution could be the use of biofuels from algae. The key to algae’s potential as a renewable fuel source lies in the high productivity of algal biomass; moreover, with the joint production of several profitable co-products (e.g. pharmaceutical products, animal feed supplements) and the link with other processes (waste gas recovery), the algae harvesting might become economically sustainable and a valid alternative to fossil fuels.

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combustibili fossili (petrolio, gas e carbone) sono oggi le fonti più utilizzate a livello mondiale per produrre energia, coprendo oltre l’80% dei consumi energetici del Pianeta. La loro combustione, però, comporta l’emissione di ingenti quantità di inquinanti e gas serra, i principali colpevoli dei cambiamenti climatici. Molti studi hanno dimostrato che la quantità di CO2 presente nell’atmosfera è aumentata del 40% negli ultimi 200 anni e che questo dato è direttamente correlato all’utilizzo di combustibili fossili. In un recente dossier, il WMO (World Metereological Organization) ha inoltre evidenziato come la concentrazione di questo gas abbia raggiunto il suo massimo in termini assoluti degli ultimi 20 milioni di anni (400 ppmv del 2015). Superare il valore limite di 450 ppmv significherebbe oltrepassare il punto di non ritorno in termini di inquinamento globale, ovvero i cambiamenti climatici finora in atto diventerebbero irreversibili. A questo scenario già fin troppo allarmante, occorre aggiungere che lo sviluppo di economie emergenti, come quella indiana e cinese, porterà a una crescita del consumo di energia con il conseguente incremento degli impatti ambientali (aumento della concentrazione di CO2 nell’atmosfera, acidificazione delle acque, perdita della biodiversità ecc.). È evidente quindi la necessità di adottare modelli energetici che prevedano una minore emissione di sostanze inquinanti nell’atmosfera. A partire dagli anni ’90, i governi di tutto il mondo, spinti dalla comunità scientifica internazionale, hanno iniziato a promuovere una serie di politiche energetiche volte alla riduzione dei gas serra e alla graduale sostituzione dell’energia derivante dai combustibili fossili con quella prodotta da fonti rinnovabili e a minor impatto ambientale. Numerose e ben documentate sono le ricerche sviluppate da team di scienziati di tutto il mondo volte ad “allentare” la nostra dipendenza dai combusti-


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bili fossili e a promuovere l’uso delle cosiddette energie “verdi”. Alle già note ricerche sull’energia solare, eolica, geotermica e nucleare, vanno aggiunti gli studi sui biocarburanti, sostanze di origine naturale che, a differenza delle altre energie rinnovabili, necessitano di una trasformazione infrastrutturale meno drastica. Anche solo per questo motivo potrebbero sostituire il petrolio nel mondo dei trasporti che, per esempio, nella sola Unione Europea è responsabile del 24% delle emissioni totali di gas serra in atmosfera.

i biocarburanti rappresentano una delle possibili opzioni per soddisfare la crescente domanda di energia

I biocarburanti Con il termine “biocarburanti” si fa riferimento a una pluralità di prodotti tra i quali il biodiesel e il bioetanolo. Il biodiesel è ottenuto dalla transesterificazione1 degli oli vegetali ricavati da semi oleosi (come la colza, il girasole o la soia), mentre il bioetanolo è prodotto dalla fermentazione in alcol dello zucchero contenuto in colture ricche di amido o di saccarosio, quali i cereali, la canna da zucchero, la barbabietola e la cassava. Entrambi sono utilizzati puri o miscelati, rispettivamente con gasolio o con benzina. La storia dei biocarburanti è lunga (il primo motore sviluppato da Rudolf Diesel era in effetti alimentato da olio di arachidi) e caratterizzata da accesi dibattiti: se da un lato, infatti, è dimostrato che i biocarburanti producono meno inquinanti rispetto

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al petrolio e abbiano il vantaggio di provenire da materie prime rinnovabili e facilmente reperibili, dall’altro hanno lo svantaggio – per nulla trascurabile – di richiedere terreno agricolo e molta acqua per la loro produzione. Ciò comporta la trasformazione di terreni incolti in coltivazioni intensive o, addirittura, il “dirottamento” di prodotti (come il mais e la soia) dal mercato alimentare a quello energetico. Prima conseguenza di questa concorrenza tra mercati è l’oscillazione del prezzo delle materie prime alimentari, che in tempi recenti ha creato numerosi problemi di approvvigionamento, soprattutto nei paesi più poveri del mondo. È possibile, quindi, utilizzare biocarburanti senza alterare il mercato alimentare mondiale? Vi è un’alternativa all’utilizzo di materie prime “alimentari”? Le alghe Per rispondere alle esigenze ambientali e risolvere i problemi legati alla produzione di biocarburanti a partire da fonti

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alimentari, gli studiosi si sono concentrati sullo sviluppo di biocarburanti da fonti cosiddette “secondarie”; ne è un esempio il biodiesel ottenuto dalle alghe. Le alghe (anche se sarebbe più opportuno chiamarle microalghe), sono microrganismi presenti in tutti gli ecosistemi della terra che, grazie alla loro struttura molecolare, sono in grado di adattarsi e crescere molto rapidamente in ambienti anche estremamente variegati. In condizioni climatiche favorevoli, e in presenza di sufficienti nutrienti, le microalghe di solito raddoppiano la propria biomassa in 24 ore. Grazie alla clorofilla, anche le alghe assorbono la luce del sole e convertono CO2 e acqua in lipidi, proteine e carboidrati. Dalla successiva trasformazione di queste molecole è possibile ottenere prodotti che trovano diverse collocazioni sul mercato: biocarburanti (bioetanolo, biodiesel, bio-olio), ma anche alimenti, mangimi e prodotti farmaceutici/estetici. Anche la combustione di biocarburanti libera CO2 nell’atmosfera; questa viene però in parte compensata dall’anidride carbonica inizialmente assorbita dalle alghe durante il loro processo di crescita. Ma i biocarburanti, a differenza dei carburanti di derivazione petrolifera, non contengono zolfo e composti aromatici, ed emettono un quantitativo minore di particolato, rendendoli di fatto un prodotto dal bassissimo impatto ambientale. Nell’ultimo decennio si è assistito ad uno sviluppo di tecniche sempre più evolute per la produzione di biocarburanti da alghe, soprattutto dopo l’introduzione nel mercato di alghe geneticamente modificate con contenuti lipidici che possono arrivare, in certi casi, al 90% (Pisani, 2011). Ricerche e progetti pilota sulla produzione di biocarburanti da alghe sono stati portati avanti in tutto il mondo. L’Italia non fa eccezione: molte società (tra cui anche ENI) stanno


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investendo ingenti capitali sullo sviluppo tecnologico delle coltivazioni e dei processi produttivi, alla ricerca della soluzione ottimale per ottenere un prodotto industrializzabile e competitivo sul mercato dei carburanti. Nel 2010 a Venezia, l’Autorità Portuale e la Società di Energie Alternative Enalg hanno firmato un accordo per far nascere la prima centrale energetica a biomasse ricavate dalle alghe in Italia (progetto mai completato). Il progetto prevedeva un investimento di 200 milioni di euro e si prefissava di produrre circa 40 MW, pari alla metà dell’energia necessaria agli abitanti del centro storico di Venezia. A Modena nel 2014 è stato inaugurato un impianto sperimentale nato dalla collaborazione tra Teregroup (società di biotecnologie detentrice di numerosi brevetti sulla coltivazione e il trattamento delle microalghe) e l’Università di Modena. Lo scopo dell’impianto è quello di testare uno speciale ciclo di produzione che, se darà esiti positivi, verrà scalato e diventerà l’apripista per la costruzione di stabilimenti industriali per la produzione di biocarburanti su larga scala.

la biomassa algale contiene significative quantità di proteine, carboidrati e altri nutrienti che possono essere impiegati per produrre diversi prodotti

Costi e criticità derivanti dall’utilizzo di biocarburanti da alghe Nonostante i decenni di ricerche e innovazioni introdotte nel processo di coltivazione e trasformazione delle microalghe, persistono due importanti criticità, una di natura economica, l’altra di natura ambientale. Innanzitutto, i biocarburanti da alghe non sono ancora competitivi con i carburanti tradizionali; a seconda del tipo di coltivazione (vasche aperte o fotobioreattori) e dell’irraggiamento, il costo per la produzione di un litro di carburante oscilla tra i 2,40 e i 4,50 dollari. Costi così elevati sono dovuti principalmente agli attuali sistemi di coltivazione e raccolta

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il primo motore sviluppato da Rudolf Diesel era alimentato da olio di arachidi

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del prodotto, ma potrebbero essere ridotti sviluppando stabilimenti integrati in grado di produrre il biocarburante dagli oli e, simultaneamente, mangimi, biogas ed energia elettrica sfruttando la biomassa di risulta dal processo produttivo. La biomassa algale contiene inoltre significative quantità di nutrienti (proteine e carboidrati in primis), ed è sfruttabile quindi anche nel mercato alimentare. Tutti questi co-prodotti di medio-alto valore economico (da diverse centinaia a qualche migliaia di dollari al chilo) costituiscono una fonte di reddito che potrebbe essere in grado di ridurre notevolmente il costo di produzione del biodiesel (Amicarelli et al., 2012). L’altra criticità da considerare quando si parla di biocarburanti da alghe è l’aspetto ambientale, soprattutto associato alle reali emissioni di CO2 dell’intero ciclo di vita del prodotto; questo tema è da anni al centro di accesi dibattiti ed esistono numerose ricerche in completa antitesi tra loro. Un recente studio pubblicato su Bioresource Technology (Xiauwei et al., 2013), ha dimostrato come i biocarburanti da alghe possano ridurre le emissioni di anidride carbonica fino al 70% rispetto ai combustibili fossili. Di opposto parere è invece la ricercatrice Anna Stephenson dell’Università di Cambridge che ha elaborato un modello matematico in grado di calcolare la quantità di CO2 che si rilascia nell’atmosfera durante le fasi di produzione, raffinazione e consumo di biodiesel dalle alghe (Stephenson, 2010). Gli studi hanno concluso che la produzione e l’uso di biodiesel da alghe produce una quantità di anidride carbonica ben maggiore di quella emessa dai combustibili fossili. L’antitesi tra queste due diverse ricerche impone all’attenzione e, soprattutto, suggerisce la necessità e la promozione di studi indipendenti e lontani da ogni possibile inf luenza o interesse di lobby.

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Efficientamento e integrazione I biocarburanti rappresentano quindi una delle possibili opzioni per soddisfare la crescente domanda di energia in un modello di sviluppo economico sostenibile; il loro utilizzo permetterebbe, nel medio termine, di sostituire i combustibili fossili, riducendo sensibilmente gli agenti inquinanti in atmosfera. Occorre però distinguere i biocarburanti di prima e seconda generazione da quelli di terza e quarta: se i primi sono fortemente in competizione con il settore alimentare e la loro produzione non riesce a soddisfare tutti i requisiti necessari (facilità di produzione, economicità, eco-compatibilità) per renderli realmente concorrenziali, i biocarburanti di terza e quarta generazione (prodotti rispettivamente da microalghe e da microalghe geneticamente modificate), sono caratterizzati da elevati rendimenti e non interferiscono con il mercato delle materie prime alimentari, né con i suoli agricoli o le fonti di acqua dolce; anzi, come dimostrato in molti interventi in Medio Oriente, la coltivazione delle alghe può avvenire anche in zone aride o desertiche, contribuendo al loro sviluppo socio-economico (Casey, 2013). Come precedentemente detto però, questi prodotti sono ancora poco competitivi e solo l’efficientamento dei sistemi produttivi e l’integrazione con altri tipi di industria (produzione di biodiesel e lavorazione dello scarto da esso derivante) possono ridurre i costi di produzione e rendere il processo davvero competitivo e sostenibile, sia dal punto di vista economico che ambientale. Va da sé che, parallelamente allo studio e allo sviluppo di nuove fonti di energia “verde” si debba promuovere una chiara e forte politica di efficientamento energetico di edifici, infrastrutture, trasporti e sistemi produttivi, volta a ridurre sia i consumi, che le emissioni di CO2. Solo diminuendo l’impatto delle nostre attività sulla Terra sarà davvero possibile assicurare un futuro sostenibile al nostro pianeta.▲


NOTE 1 – La transesterificazione è una reazione chimica innescata da un reagente alcolico, il cui principale risultato è la rottura degli acidi grassi che caratterizzano l’olio vegetale. IMMAGINI 01 - Laboratorio di ricerca sulle alghe presso la School of Natural Resources and Environment (USA). Crediti: Austin Thomason, Michigan Photography. 02 - Bioreattore per la coltivazione indoor di alghe. Crediti: MINT (Microalgae Integratrion). 03 - Dettaglio della facciata del BIQ building. Crediti: ARUP. 04 - BIQ Building. Crediti: IBA, Amburgo 05 - ALGAETECTURE. Installazione alla Design Week di Milano, 2014. Crediti: EcoLogicStudio e Carlo Ratti Associati. 06 - WaterLilly 2.0. Prototipo di bioreattore urbano per la produzione delle alghe. Crediti: Cesare Griffa. BIBLIOGRAFIA - Amicarelli V., Paiano A., Lobefaro L., “Le microalghe nel settore dei biocombustibili. Sviluppo e sostenibilità”, in “Studi&Ricerche”, 2012, n. 2, 69-77. - Ahmad A.L., Mat Yasin N.H., Derek C.J.C., Lim J.K., “Microalgae as a sustainable energy source for biodiesel production: A review”, in “Renewable and Sustainable Energy Reviews”, 2011, n. 15, pp. 584-593. - Clarens A.F., Nassau H., Resurreccion E.P., White M.A., Colosi L.M., “Environmental Impacts of AlgaeDerived Biodiesel and Bioelectricity for Transportation”, in “Environmental Science & Technology”, 2011, n. 45 (17), pp. 7554-7560. - DOE (U.S. Department of Energy), “National Algal Biofuels Technology Review”, U.S. Department of Energy, Office of Energy Efficiency and Renewable Energy, Bioenergy Technologies Office, 2016. - Pisani S., “Biodiesel dalle alghe”, in “Micron. Energia”, 2011, n.17, pp. 17-21. - Stephenson A., Kazamia E., Dennis J.S., Howe C.J., Scott S.A., Smithe A.G., “Life-Cycle Assessment of Potential Algal Biodiesel Production in the United Kingdom: A Comparison of Raceways and Air-Lift Tubular Bioreactors”, in “Energy & Fuel”, 2010, n. 24 (7), pp. 4062-4077. - Xiaowei L., Benjamin S., Pragnya E., Lisa M. C., B. Greg M., James R., Andres F. C., “Pilot-scale data provide enhanced estimates of the life cycle energy and emissions profile of algae biofuels produced via hydrothermal liquefaction”, in “Bioresource Technology”, 2013, n. 148, pp. 163-171.

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Elettricità rinnovabile dal Sole La sfida della scienza nel raggiungere alte rese di produzione di elettricità attraverso l’energia solare

Jessica Barichello è dottoranda al secondo anno di Scienze Ambientali presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia. e-mail: jessica.barichello@unive.it

In 1921 Einstein won the Nobel Prize for Physics for having explained the photoelectric effect that is used now for converting solar energy into electricity in photovoltaic devices. Currently, silicon-based devices control the photovoltaic market. The electricity’s price, produced by photovoltaic panels, is even greater than that of fossil-fueled energy. At the moment, worldwide research is focusing on Perovskite Solar Cells (PSCs): thanks to the high energy conversion and low cost production, this technology promises a breakthrough in the photovoltaic sector and a fossil fuel independence. This article proposes an analysis and comparison of existing silicon photovoltaic panels and high efficient PSCs in terms of marketing, economic and environmental costs.

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l Sole invia alla Terra un’enorme quantità di energia, sottoforma di luce e calore; essa rinnova le risorse fondamentali del nostro pianeta. I combustibili fossili naturali sono una risorsa rinnovata dal Sole poiché derivanti dal processo di fotosintesi ma, dato che il loro tempo di formazione è di un milione di volte più lungo rispetto a quello che attualmente impieghiamo per consumarli, vengono considerati una “risorsa non rinnovabile”. Obiettivo del Consiglio Europeo è ottenere, entro il 2020, “l’incremento del 20% dell’energia prodotta da fonti rinnovabili”. L’energia solare è pulita, abbondante e presente in tutte le aree del pianeta. Attraverso i pannelli fotovoltaici l’energia solare è convertita in energia elettrica; da 80 anni gli scienziati si cimentano nel trovare i materiali e l’ingegneria più efficienti per sfruttare al meglio la conversione della radiazione solare per la produzione di elettricità. Attraverso i pannelli L’effetto fotoelettrico è un fenomeno fisico che viene indotto quando un flusso luminoso incide su un materiale semiconduttore che, se opportunamente preparato, è in grado di emettere elettroni e produrre elettricità. Un semiconduttore è un materiale che ha una conducibilità intermedia tra i conduttori e gli isolanti ed è alla base di tutti i principali dispositivi elettronici. I pannelli fotovoltaici che possiamo vedere sui tetti delle abitazioni utilizzano come semiconduttore il silicio. Alla base del funzionamento delle cella fotovoltaica al silicio, che attualmente domina il mercato del fotovoltaico, vi è la giunzione p-n ovvero l’interfaccia che separa due facce di un semiconduttore drogate in modo diverso: rispettivamente, una con un elettrone in meno (interfaccia p) e una con un elettrone in più (interfaccia n) rispetto all’elemento semiconduttore. Quando la radiazione elettromagnetica colpisce


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il materiale semiconduttore, il fotone crea la coppia elettrone-lacuna nella zona della giunzione e vi è una separazione della carica; connettendo la giunzione p-n con un conduttore esterno, si ottiene un circuito con un flusso di corrente (img. 02). La storia e le tre generazioni Nel 1905 Albert Einstein ipotizzò l’effetto fotoelettrico e questo gli valse il Premio Nobel; solo nel 1954 però arrivò il primo dispositivo di cella fotovoltaica grazie a tre scienziati: Gerald Pearson, Calvin Fuller e Daryl Chapin, un fisico, un chimico e un ingegnere elettronico presso i Bell Telephone Laboratories (New Jersey, USA). Chapin lavorava con il selenio; Pearson suggerì l’uso del silicio come semiconduttore e Fuller ebbe il merito di mettere a punto una tecnica per controllare l’introduzione di impurità all’interno del semiconduttore, trasformandone le proprietà fotoelettriche. Un giorno di sole del 1954, dopo varie sperimentazioni, una cella al silicio funzionò con un 6% di efficienza di conversione di energia solare in energia elettrica. Dagli anni ‘70 ad oggi le tecnologie fotovoltaiche si sono evolute e differenziate a seconda della struttura, del costo e dell’efficienza e vengono suddivise in tre generazioni seguendo un criterio temporale. Celle e moduli fotovoltaici composti da silicio monocristallino e policristallino appartengono alla prima generazione. Le prime hanno un alto rendimento di conversione dell’energia dal 14% al 20% e sono stabili nel tempo; l’aspetto negativo è l’alto costo dovuto alla purificazione del silicio. I dispositivi prodotti con il silicio policristallino hanno costi inferiori rispetto al monocristallino e sono tipicamente ottenuti fondendo gli scarti del processo di produzione dei moduli monocristallini; il rendimento della cella è intorno al 12-15%. Questa tecnologia riesce a lavorare con alte efficienze solo in condizione di alta intensità di irraggiamento (alle nostre latitudini, 45° N, dalle 12.00 alle 15.00 del pomeriggio) ma presenta scarsa efficienza in condizioni di luce diffusa e nuvolosità1.

un giorno di sole del 1954 una cella al silicio funzionò con un 6% di efficienza di conversione di energia solare in energia elettrica

radiazione solare

carico corrente elettrica

silicio tipo n giunzione p-n silicio tipo p

fotoni

flusso di elettroni

flusso di lacune 02

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A --- CH3NH3,CH5N2 B --- Pb1 Sn X --- CI1 Br1 I

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La tecnologia a film sottile costituita da silicio amorfo, ovvero da una minore quantità di silicio integrata con altri materiali come il tellururo di cadmio (CdTe), diseleniuro di indio e rame (CIS), l’arseniuro di gallio (GaAs) e altri, appartiene alla seconda generazione. Questi prodotti hanno costi di produzione inferiori rispetto a quelli della prima generazione e sono applicabili su superfici flessibili come le guaine impermeabilizzanti. Se i prezzi al metro quadrato sono più competitivi, le rese di conversione si aggirano intorno al 10%, perciò la necessità di spazio aumenta. In aggiunta, i dubbi in merito alla tossicità dei materiali (a esclusione del silicio) arrestano la diffusione di questa tecnologia su larga scala. Le celle di terza generazione sono invece composte da materiale organico o ibrido (organico-inorganico) e, grazie ai bassi costi di produzione, alla leggerezza, alla flessibilità e all’essere “esteticamente più gradevoli”, sono oggetto di ricerca internazionale e si suppone sostituiranno gli attuali moduli al silicio nei prossimi decenni. In particolare, negli ultimi 20 anni sono emerse le Dye Sensitized Solar Cells (DSSCs) (img. 05), anche conosciute come celle di Grätzel, dal nome di Micheal Grätzel che lavora presso i laboratori del Politecnico di Losanna (EPFL) in Svizzera. Queste celle hanno attirato l’attenzione della comunità scientifica a causa del loro processo di fabbricazione semplificato e dal basso costo, fatto che le rende competitive rispetto i sistemi fotovoltaici basati sulla giunzione p-n. Tuttavia, le celle di Grätzel non sono ancora presenti nel mercato su larga scala a causa dei bassi valori di efficienza di conversione ottenuti e dei significativi fenomeni di degrado all’interno dei dispositivi, che determinano un abbassamento sostanziale del tempo di vita della cella. Il funzionamento alla base delle DSSCs ricorda il processo di fotosintesi utilizzato dalle piante: l’assorbimento della radia-

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zione luminosa avviene attraverso un colorante (dye) ancorato a un semiconduttore di titania (nelle piante è la clorofilla che assorbe la radiazione); gli elettroni del dye così energizzati “saltano” verso il semiconduttore dove vengono estratti con un sistema di trasferimento elettronico2 . Negli ultimi 5 anni, tuttavia, il focus si è completamente spostano dalle DSSCs alle PSCs, Perovskite Solar Cells, celle solari a perovskite che hanno interessato la comunità del fotovoltaico grazie alle alte rese di efficienza ottenute. Gli attuali pannelli fotovoltaici e le tecnologie emergenti I pannelli al silicio che vediamo sui tetti degli edifici (img. 01) sono, per la maggior parte, al silicio policristallino e hanno una durata di vita di 30 anni circa; solo dopo 4/5 anni questi pannelli posso essere definiti “ecologici” poiché durante questi primi anni di vita restituiscono l’energia utilizzata per la loro fabbricazione. Il fatto che tale tecnologia sia efficace solo in determinate condizioni meteorologiche, ovvero giornate assolate e in determinate ore del giorno, ne limita il rendimento, la competitività nei confronti dei combustibili fossili e quindi anche la diffusione sul mercato. Il pannello inoltre è un elemento che può risultare di difficile integrazione architettonica in quanto rigido, voluminoso e di colore scuro. Infine, si discute molto riguardo allo smaltimento dei moduli fotovoltaici in quanto rientrano tra i rifiuti RAEE (Rifiuto di Apparecchiatura Elettrica ed Elettronica); in pratica viene assimilato a un frigorifero o a una televisione, ovvero RAEE domestici provenienti da impianti inferiori a 10 kWp, il cui smaltimento è gratuito; in caso di potenze maggiori rientrano invece tra RAEE professionali soggetti ad altri regolamenti. Le aziende specializzate nello smaltimento di monitor ed elettrodomestici che sono impegnate nello smaltimento dei moduli solari, riescono a recuperare quasi il 98% (in peso) del pannello foto-


le Perovskite Solar Cells, celle solari con perovskite, sono considerate dal World Economic Forum una delle dieci tecnologie di più grande impatto per l’ ambiente

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voltaico suddividendo tra vetro, alluminio, polvere di silicio e rame. Tuttavia, i vari componenti del pannello vengono separati con processi termici e meccanici che richiedono grandi investimenti energitici che vanno a discapito dell’efficienza complessiva del panello. Le tecnologie di prima generazione si sono evolute molto e, grazie agli sviluppi avvenuti negli ultimi anni, la loro efficienza è salita fino al 24,7%, ma la loro diffusione su larga scala è ancora limitata dall’alto costo; per queste ragioni gli scienziati continuano a fare ricerca per lo sviluppo di altre tecnologie capaci di fornire una reale soluzione al problema della scarsa diffusione del fotovoltaico. Come abbiamo detto, sono due in particolare le tecnologie che negli ultimi vent’anni hanno fatto parlare di sé. Le DSSCs, economiche e green, hanno da subito attirato l’attenzione della scienza; purtroppo però, nonostante i numerosi pregi tra cui quello di funzionare anche in condizioni di scarsa luminosità e luce diffusa, la bassa efficienza e la scarsa stabilità le svalutano al confronto con i moduli al silicio. La Sony, ad esempio, sfruttando il “valore estetico” di questa tecnologia, ha presentato delle lampade a tema floreale, chiamate Hana Akari (hana=fiore, akari=luce in giapponese) (img. 04) durante la più grande esposizione ambientale, Eco-products 2008, tenutasi a Tokyo, per dimostrare che questa tecnologia fotovoltaica ha la possibilità di essere applicata all’interno di edifici ma, ormai da alcuni anni, si è abbandonata definitivamente la speranza di poter sostituire i moduli al silicio con la tecnologia DSSCs. Secondo il World Economic Forum una delle dieci tecnologie emergenti di più grande impatto per l’ambiente, sono invece le Perovskite Solar Cells, celle solari con perovskite, composte da una parte organica (CH3) e da una parte inorganica (NH3)3. Inizialmente, nel 2009, la perovskite era stata applicata in forma liquida come colorante per le DSSCs consentendo di registrare un’efficienza dei sistemi fotovoltaici del 3,9 %; in pochi

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anni si è passati da una struttura liquida a una struttura solida, così la cella fotovoltaica è arrivata al 22,1% di efficienza certificata nel 2016 e quindi competitiva con le celle al silicio. La scoperta delle ottime capacità conduttive della perovskite e della sua grande capacità di assorbire la luce ha sorpreso la comunità del fotovoltaico e in tutto il mondo ci sono gruppi di ricerca che si stanno cimentando nella corsa all’innalzamento dell’efficienza delle tecnologie che sfruttano queste potenzialità. Grazie alla facilità di reperire il materiale di base e il metodo di realizzazione piuttosto semplice, il costo del modulo fotovoltaico potrebbe aggirarsi intorno a 10/20 $/W contro i 50 $/W per il silicio. L’Università di Toronto, ad esempio, sta sperimentando lo sfruttamento della perovskite in spessore micrometrico e la possibilità di questa di essere “stampata” su diverse superfici, quali schermi per cellulari e vetri, trasformandole in generatori di elettricità. Lo sviluppo su larga scala dipende però dalla risoluzione dei problemi di stabilità, compromessa dalla presenza di umidità nell’aria e dai raggi UV, ai quali la perovskite è sensibile. Una ricerca recente pubblicata su Science (Bella et al., 2016) propone, per ovviare a questi problemi, l’utilizzo di foto-polimeri che assorbono la radiazione dell’UV e la riemettono nel range del visibile, proteggendo così la perovskite e innalzando l’efficienza di cella, agendo allo stesso tempo come barriera idrofobica contro l’umidità ambientale. I ricercatori del Polo Solare (CHOSE) di Uni Roma 2, hanno poi aggiunto, tra l’interfaccia perovskite-titania, un materiale 2D come il grafene con lo scopo di rendere più efficiente l’iniezione di carica. La prova si è dimostrata una strategia vincente che può essere scalata a livello industriale; un altro beneficio

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derivante dall’uso del grafene è l’aumento significativo della stabilità dei moduli che dopo 1630 ore mantengono più del 90% dell’efficienza iniziale (Agresti et al., 2016). Tra i difetti delle tecnologie PSC troviamo invece la presunta tossicità di alcuni componenti. Il piombo, ad esempio, è un elemento considerato tossico ma data la bassa concentrazione presente nella perovskite, i problemi ambientali legati a questo metallo diventano facilmente superabili, per esempio sostituendolo con lo stagno, penalizzando però l’efficienza di conversione. Infine, una ricerca che registra ottime prospettive di sviluppo è quella che propone l’integrazione della perovskite con il silicio per l’abbassamento complessivo dei costi dei pannelli (Bush et al., 2017). I promettenti risultati ottenuti fino ad ora consentono di ipotizzare un impiego su larga scala di questo genere di pannelli già a partire dai prossimi decenni.▲


NOTE 1 – L’ efficienza di conversione delle celle PV è limitata dallo scarso utilizzo della completa radiazione dello spettro solare; quest’ultimo infatti è costituito da fotoni che hanno lunghezza d’onda dall’ultravioletto all’infrarosso (280-2500 nm/ 0,5-4,4 eV) ma ogni materiale fotovoltaico risponde solo a una stretta gamma di fotoni solari con un’energia corrispondente al caratteristico energy band-gap di ogni materiale. Solo i fotoni con energia maggiore del band-gap sono assorbiti ma l’energia in eccesso non è efficacemente usata e viene rilasciata sottoforma di calore. Così nelle celle al silicio, la perdita termica dei fotoni con energia che eccede il band-gap e il mancato assorbimento dei fotoni con un’energia inferiore portano una perdita del 50% dell’energia solare incidente. 2 – I complessi metallo-organici di rutenio sono i più efficienti dyes utilizzati nelle DSSCs. Numerose sono le ricerche miranti a sostituire i coloranti artificiali con quelli naturali come le antocianine, betalaine, carotenoidi e clorofilla derivanti da fiori, frutti, piante e alghe. Le efficienze di conversione risultano molto basse ma gli studi di estrazione dei vari pigmenti possono comunque trovare applicazioni in altri contesti scientifici quali l’industria farmaceutica, alimentare e dell’abbigliamento (Calogero et al., 2015). 3- La perovskite ha struttura cristallina, con formula generica ABX3 (originariamente CaTiO3); la perovskite utilizzata nelle celle fotovoltaiche è definita “ibrida” e risulta CH3NH3BX3, dove B può essere sostituito da stagno o piombo e X da cloro, iodio o bromo. Questa formula presenta vantaggiose proprietà fotoelettriche: alto coefficiente d’assorbimento, alta mobilità di carica e assorbimento in tutto lo spettro del visibile (Gräztel, 2014). IMMAGINI 01 - Moduli fotovoltaici al silicio policristallino in copertura di un edificio. CC0. 02 - Giunzione p-n nell’interfaccia di un semiconduttore con formazione della coppia elettrone-lacuna quando la radiazione solare colpisce il materiale opportunamente drogato. Grafica: Stefania Mangini. 03 - Cristallo di perovskite e struttura cristallina. Crediti: CC0, Stefania Mangini. 04 - Lampade Hana Akari fatte di celle fotovoltaiche DSSC, presentate dalla Sony all’ Eco-products 2008. Crediti: Sony. 05 - Moduli fotovoltaici di tipo DSSC prodotti dalla Solaronix utilizzati per Building Integration Photovoltaic (BIPV). Crediti: Giuseppe Calogero. 06 - Vetrata composta da celle fotovoltaiche di tipo DSSC al École Polytechnique Fédérale de Lausanne (EPFL). Crediti:Giuseppe Calogero. 07 - SwissTech - Convention Center, Grätzel. CC0. BIBLIOGRAFIA - Agresti A., Pescetelli S., Taheri B.,Del Rio Castillo A., Cinà L.,Bonaccorso F., Di Carlo A., “Graphene–Perovskite Solar Cells Exceed 18% Efficiency: A Stability Study”, in “ChemSusChem”, 2016, n. 9, pp. 2609–2619. - Bella F., Griffini G., Correa-Baena J., Saracco G., Grätzel M., Hagfeldt A., Turri S., Gerbaldi C., “Improving efficiency and stability of perovskite solar cells with photocurable fluoropolymers”, in “Science”, 2016, n. 354(6309), pp. 203-206. - Bush K., Palmstrom A., Yu Z., Boccard M., Cheacharoen R., Mailoa J., McMeekin D., Hoye R., Bailie C., Leijtens T, Peters I., Minichetti M., Rolston N., Prasanna R., Sofia S., Harwood D., Ma W., moghadam F., Snaith H., Buonassisi T., Holman Z., Bent S., McGehee M., “23.6%-efficient monolithic perovskite/silicon tandem solar cells with improved stability”, in “Nature Energy”, 2017, n. 17009, pp. 1-8. - Calogero G., Bartolotta A., Di Marco G., Di Carlo A., Bonaccorso F., “Vegetable-based dye-sensitized solar cells”, in “The Royal Society of Chemistry”, 2015, n. 44, pp. 3244-3294. - Gräztel M., “The light and shade of perovskite solar cells”, in “Nature Materials” , 2014, n.13, pp. 838-842.

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Jellyfish Barge Un sistema innovativo per produrre alimenti in ambito urbano

Antonio Girardi è Ph.D. in Tecnologia dell’architettura, Università Iuav di Venezia; è stato assegnista di ricerca all’Università di Firenze; è direttore tecnico di Pnat, spin-off dell’Università di Firenze. e-mail: antonio-girardi@pnat.net

Jellyfish Barge is the self-sufficient buoyant greenhouse that derives the fresh water, the electricity and the cooling it needs from the underlying body of water and from solar power. It’s a highly productive modular solution to grow vegetables near the final consumer in different geographical areas, including remote islands and post-industrial cities. In the former it addresses the need for fresh vegetables, which at present can’t be fulfilled due to geographical and climatic constraints; in the latter, it aims at letting the production of food move to the place of consumption, activating unused and forgotten spots in the city and making them productive. In the broader frame of local food systems, some detractors argue that they won’t be able to create a real impact, while others believe they can widely deliver benefits to the urban environment. This debate is a matter of interest for architectural disciplines as it discuss if design products should be conceived as mere functional applications or also as speculative solutions aiming at proposing new paradigms.

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ellyfish Barge è una serra agricola modulare e galleggiante che usa, per produrre l’acqua dolce e l’energia termica ed elettrica di cui ha bisogno, il sole e il corpo idrico sottostante di qualunque qualità sia l’acqua che lo compone: inquinata, reflua o salata. Il sistema è composto di due elementi standardizzati e modulari. Il “modulo serra” è una costruzione di circa 75 m2 , in grado di produrre 10 tonnellate all’anno di alimenti di origine vegetale, sufficienti a sostenere il bisogno giornaliero di circa 75 persone. Il “modulo cerniera” è una piattaforma dove preparare un mercato settimanale, consegnare i prodotti agricoli ai consumatori, organizzare attività didattiche, o servire alimenti processati: uno spazio aperto al pubblico che permette la relazione diretta tra coltivatore e cittadino. Molti moduli affiancati possono creare dei veri e propri arcipelaghi rurali dove produrre, vendere e consumare frutta e verdura fresca (img. 02). Il progetto è stato sviluppato da Pnat, spin-off dell’Università di Firenze, dove lavorano insieme architetti (Antonio Girardi e Cristiana Favretto) e agronomi (Elisa Masi, Elisa Azzarello e Camilla Pandolfi), coordinati dal prof. Stefano Mancuso che è anche direttore del più grande laboratorio al mondo che studia il comportamento delle piante, il LINV, con sedi in Europa e Giappone. L’accesso diretto ai risultati e agli strumenti del LINV permette a Pnat di basare i propri lavori su una solida base scientifica e su studi e ricerche uniche al mondo. L’intento è di proporre soluzioni progettuali per integrare le piante all’interno dell’ambiente costruito, sfruttando la loro capacità di produrre cibo e biomassa e di depurare l’aria, l’acqua e il suolo. Queste soluzioni progettuali si inseriscono nel più ampio concetto delle green infrastructures, intese come strutture spaziali in grado di aumentare l’efficacia della natura nel fornire beni e servizi e nel ridurre i carichi ambientali dei sistemi urbani (European Commission, 2013).


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Negli ultimi anni, diverse pubblicazioni hanno incluso l’agricoltura urbana nel concetto di green infrastructures (Russo et al., 2017; Branduini et al., 2016) soprattutto per quanto riguarda la sua capacità di limitare le emissioni di CO2 dovute alla conservazione e al trasporto del cibo. È stato anche evidenziato come l’agricoltura urbana renda le città più resilienti, dato che la produzione locale di cibo in piccole strutture delocalizzate e distribuite è meno sensibile ai rischi connessi a una catena di distribuzione nazionale o globale, come interruzioni delle forniture e aumento dei prezzi, che minacciano il benessere delle città (Ackerman et al., 2014; Panagopoulos e Jankovska, 2017). Questo concetto non è nuovo: Maltz (2015) spiega il ruolo della produzione di cibo in ambito metropolitano nel garantire resilienza alle città durante le due più gravi crisi del XX secolo - le Guerre mondiali - sostenendo che negli Stati Uniti e nel Regno Unito i War Gardens e i Victory Gardens hanno cambiato il funzionamento del sistema alimentare per la durata delle guerre, creando un modello duraturo di food resilience. Il sistema Jellyfish Barge è stato progettato per diversi ambiti, tra cui le città postindustriali e le isole remote. Per quest’ultima applicazione il progetto ha trovato l’interesse del governo di Capo Verde, un piccolo gruppo di isole a ovest della costa africana. Qui, la limitatezza dei terreni coltivabili e la scarsità d’acqua dovuta a precipitazioni brevi e concentrate, impediscono uno sviluppo agricolo in grado di sostenere i bisogni della popolazione locale e delle attività turistiche. La grande maggioranza del cibo consumato - circa l’80% - deve essere im-

Jellyfish Barge è una serra agricola modulare e galleggiante che usa il sole e il corpo idrico sottostante, per produrre l’acqua dolce e l’energia di cui ha bisogno

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SUN

EVAPORATION CHAMBER CONDESATION CHAMBER

SEAWATER

WATER+NUTRIENTS

FRESH WATER

RAIN WATER

NUTRIENTS

SOLAR THERMAL PANEL

HEAT-TRANSFER FLUID

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portato via aria o mare, e ciò crea un problema d’insicurezza alimentare, che può inasprirsi per crisi politiche, economiche o semplicemente per inefficienze logistiche. Inoltre anche in condizioni di stabilità, data la distanza da cui proviene il cibo e i costi di trasporto, gli alimenti che raggiungono queste aree sono in prevalenza già processati e non deperibili, e la quantità pro capite di frutta e verdura fresca è molto al di sotto della soglia prevista dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. La cosa desta preoccupazione, perché la disponibilità giornaliera di alimenti freschi di origine vegetale in dose adeguata è un bisogno di base dell’uomo, che riduce il rischio di contrarre alcuni tipi di malattie non trasmissibili (Agudo, 2005) la cui incidenza nelle fasce più deboli della popolazione delle isole è rilevante. Queste specifiche vulnerabilità sociali, economiche e ambientali sono comuni a un gruppo omogeneo di Paesi in via di sviluppo chiamati Small Island Developing States (SIDS). La FAO indica, come priorità fondamentale per i SIDS, lo sviluppo agricolo “attraverso l’introduzione di tecniche di produzione più efficienti (idroponia), in particolare nelle aree urbane e periurbane” (FAO, 2017). In queste aree si raccoglie la maggior parte della popolazione, che si sposta dalle aree rurali per cercare di inserirsi nelle dinamiche economiche legate al turismo, trovando spesso solo disoccupazione o sotto occupazione. Jellyfish Barge è pensata per essere installata in prossimità dei centri urbani. Il progetto prevede il coinvolgimento di associazioni e cooperative agricole, creando lavoro e un’attività remunerativa derivante dalla vendita dei prodotti nei mercati locali o direttamente ai resort turistici. Il sistema è stato progettato per essere gestito facilmente anche da manodopera non specializzata. La stessa costruzione può esse-

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re assemblata in circa due giorni da operatori locali. Due moduli serra possono essere spediti stipati dentro un container, dato che le parti più voluminose della costruzione - ossia i bidoni riciclati in polietilene che ne garantiscono il galleggiamento - possono essere reperiti localmente nella stessa dimensione standard. Dal punto di vista statico, la struttura in legno di larice trattato si comporta come una grande trave reticolare, calcolata per resistere al vento (fino a 100 Km/h) e alle onde di media intensità (fino al 3° grado della scala Douglas). Le chiusure sono costruite con un doppio layer di ETFE termoformato attorno ai profili degli infissi, che garantisce prestazioni termiche comparabili al vetro camera, con minor peso e a una frazione del costo. Una volta installata, la serra è completamente autonoma. L’acqua dolce necessaria alle piante viene estratta dal corpo idrico su cui la serra galleggia, utilizzando una tecnologia chiamata “distillazione solare”. La radiazione del sole viene convertita in energia termica attraverso collettori solari e trasferita a un f luido circolante in contatto con l’acqua salata. Il vapore acqueo che si genera viene convogliato da alcune ventole verso una camera dove, di nuovo in contatto con l’acqua fredda del corpo idrico sottostante, condensa in acqua dolce e pulita (img. 03). Per raffrescare l’ambiente interno, il sistema utilizza l’acqua su cui la serra galleggia come f luido per lo scambio termico, consentendo a un piccolo impianto fotovoltaico (800 Wp) di produrre tutta l’elettricità necessaria a far funzionare gli impianti termici e le pompe. Il sistema è stato testato in tre prototipi di cui due in ambiente operativo - a Stoccarda e a Milano, durante Expo 2015 - ed è ora in fase di industrializzazione.


Durante l’ultima Biennale di Architettura di Venezia il progetto Jellyfish Barge è stato presentato al Padiglione Italia. Nell’esposizione Taking Care: progettare per il bene comune, il team curatoriale intendeva raccontare il contrasto alla marginalità nelle aree urbane periferiche attraverso progetti accumunati da un’idea di sviluppo armonico e inclusivo della società (TAM, 2016). Un corpus ormai ampio di ricerche e di pratiche mostra che i cosiddetti local food systems - ossia network di produzione e consumo alimentare che operano a distanza ridotta e prevedono meno passaggi intermedi tra il produttore e il consumatore finale - possono essere un motore per innescare processi di rigenerazione urbana. Hanno la potenzialità di creare lavoro e generare ricchezza che rimane in città. Tendono ad attrarre i cittadini in aree periferiche, contribuendo ad aumentarne la vitalità e la rilevanza, a migliorare l’estetica del quartiere e aumentare la coesione e il senso di appartenenza alla città. A una scala più ampia, come si è visto, possono contribuire anche a rendere i sistemi urbani più forti e più resilienti rispetto a possibili disfunzioni nella filiera del cibo. I detrattori dell’agricoltura in ambito metropolitano minimizzano questi benefici e sostengono che non sia possibile scalare i sistemi di produzione in modo tale che incidano effettivamente nella sicurezza alimentare delle città: questa dipende da dinamiche economiche e politiche complesse che

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Jellyfish Barge è stato presentato durante l’ultima Biennale di Architettura di Venezia all’interno del Padiglione Italia

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Jellyfish Barge è pensata per essere installata in prossimità dei centri urbani e prevede il coinvolgimento di associazioni e cooperative agricole locali

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esulano dal campo di pertinenza dell’architettura. Il tema è aperto e si inserisce in un più ampio dibattito tra chi interpreta il cambiamento necessario alle nostre città come una questione da affrontare primariamente attraverso strategie per aumentarne l’efficienza, e chi invece vede la fragilità dei sistemi urbani come un’opportunità per innovare gli strumenti della progettazione, sottolineando il valore qualitativo dei progetti e la loro capacità di creare nuove relazioni con i cittadini e con l’ambiente (Mostafavi e Doherty, 2010). Secondo Aldo Rossi, “anche se sappiamo che la costruzione della città e quindi di una nuova società non dipende dall’architettura, pure questa deve preparare una propria alternativa per quanto le compete” prospettando “un’alternativa autentica e un modo di vita, e quindi anche un modo di progettare” (Rossi, 1972). Un’“alternativa autentica” oggi è l’integrazione simbiotica, radicale ed estensiva nell’ambiente costruito degli organismi che sono alla base della vita e del benessere dell’uomo - ossia le piante - e il progetto Jellyfish Barge, come tutto il lavoro del team di ricerca, si inserisce in questa traccia.▲


IMMAGINI 01 - La struttura interna della serra. Crediti: Matteo de Mayda. 02 - Vari moduli connessi possono creare un arcipelago rurale. Crediti: Cristiana Favretto. 03 - Principio di funzionamento del sistema. Crediti: Antonio Girardi. 04 - Pianta a quota 0 di Jellyfish Barge. Crediti: Antonio Girardi. 05 - Ingresso della serra. Crediti: Matteo de Mayda. 06 - Jellyfish Barge nel contesto urbano della Nuova Darsena di Milano. Crediti: Matteo de Mayda. BIBLIOGRAFIA - Ackerman K., Conard M., Culligan P., Plunz R., Sutto M.P., Whittinghill L., “Sustainable Food Systems for Future Cities: The Potential of Urban Agriculture” in “The Economic and Social Review”, 45(2, Summer), 2014, pp.189–206. - Agudo A., “Measuring intake of fruit and vegetables. Background paper for the joint FAO/WHO workshop on fruit and vegetables for health, 1-3 September 2004”, World Health Organization, 2005. - Branduini P., Giacché G., Laviscio R., Scazzosi L., Torquati B., “Per una lettura sistemica delle Agricolture Urbane: Tipologie, politiche, modelli imprenditoriali, spazialità e metabolismo” in “Agriregionieuropa” Anno 12, n.44, 2016. - European Commission, “Building a Green Infrastructure for Europe”, 2013. - FAO, “Food, agriculture and cities: challenges of food and nutrition security, agriculture and ecosystem management in an urbanizing world”, 2011. - FAO, “Global Action Programme on Food Security and Nutrition in Small Island Developing States”, 2017. - Lohrberg F., Lička L., Scazzosi L., Timpe A. (a cura di), “Urban Agriculture Europe”, Jovis, 2015. - Maltz A.,“Plant a victory garden: our food is fighting: Lessons of food resilience from World War” in “Journal of Environmental Studies and Sciences”, 5(3), 2015. - Mostafavi M. and Doherty G. (a cura di), “Ecological Urbanism”, Baden, Lars Müller Publishers, 2010. - Panagopoulos T. and Jankovska I., “Urban green infrastructure: the role of urban agriculture in city resilience” in “Urbanism. Arhitectură. Construcţii”, Vol. 9. N. 1, 2017. - Rossi A., “La costruzione della città (1972)” in “Scritti scelti sull’Architettura e la città (19561972)”, Clup, Milano, 1989. - Russo A., Escobedo F. J., Cirella G. T., Zerbe S., “Edible green infrastructure: An approach and review of provisioning ecosystem services and disservices in urban environments” in “Agriculture, Ecosystems and Environment”, 242, 2017, pp. 53–66. - TAMassociati, “Taking Care -Progettare per il bene comune”, Beccogiallo, Padova, 2016.

www.pnat.net

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INFONDO

Risorse energetiche fossili e potenziali rinnovabili non sono equamente distribuiti sul pianeta, cosĂŹ come non lo sono i consumi di energia primaria. La mappa rappresenta le rispettive distribuzioni percentuali rispetto al totale mondiale. a cura di Emilio Antoniol e Luca Casagrande fonte dati: World Energy Council 2016, BP Statistical Review of World Energy 2016.

3,49

17,1% 21,4%

2.896 Mtep

21,9%

kWh

energia media consumata dal metabolisbo umano in un giorno

1.670

599 Mtep

4,5%

8,9% 6,5%

kWh

energia media generata dalla combustione di un barile di petrolio (BEP)

4,17e15 energia media erogata dal sole in un giorno

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Potenziali rinnovabili installati per continente (%)

kWh

Riserve fossili per continente (%) Consumi di energia primaria per continente (%) e valori in Mtep (Milioni di tonnellate equivalenti di petrolio) fonte: World Energy Council, 2016


7.101 Mtep

53,8%

1.947 Mtep

14,8% 24,7% 7,1% 46,2% 53,8%

435 Mtep

3,3%

1,8% 5,7% 1,3% 1 3% 5,6%

214 Mtep

1,6%

CINA Petrolio Gas

Altro

31,3% 63,7%

10,6% 1,3%

INDIA

41,7%

18,6% 5,9%

Carbone Rinnovabili

U.S.A.

27,9%

8,8%

1,2%

Principali consumatori di energia primaria e ripartizione per fonte energetica

22,8%

14,8% 5,9% 6,6%

U.E.

42,3% 52,8%

58,1% 6,6%

GIAPPONE

21,4%

6,5%

17,4% 5,6%

RUSSIA

26,6% 8,1% 0,2%

ITALIA 39,1%

37,8%

36,5%

22,6% 15,9%

8,2% 16,2%

14,5% 11,6%

0%

fonte: BP Statistical Review of World Energy 2016

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PORTFOLIO

Maurizio Polese è fotografo e co-fondatore di Delamont. e-mail: polese.maurizio@gmail.com

www.delamont.it

Da quando è stata inventata la fotografia, nella prima metà dell'800, l'industria fotografica ha lavorato con l'obiettivo di migliorare la capacità di riproduzione del reale nelle fotografie. Ma oggi non tutti cercano la qualità ideale, per alcuni la fotografia può essere uno strumento artistico o uno svago. Instagram è l'esempio più diffuso: i filtri applicati allontanano le immagini dalla perfezione digitale e danno un sapore immediatamente nostalgico. Ci sono però ancora molti fotografi che preferiscono una fotografia più lenta e riflessiva e usano le pellicole. E tra questi c'è chi desidera liberarsi di ogni aiuto, ogni automatismo per sforzarsi di considerare tutti gli aspetti che possono influire sul risultato. Per arrivare a questo, nel 2013 ho costruito la prima Delamont 4x5”, una macchina fotografica stenopeica (dal greco stenos opaios, stretto foro), senza lenti, con solo un piccolo foro attraverso cui passa la luce. La macchina è una camera oscura, una scatola di legno con solo un otturatore e la livella, completamente manuale, dove ogni gesto diventa un piccolo rito. Si scatta una lastra alla volta, il tempo di posa è dilatato da pochi secondi a qualche minuto, il campo ripreso è grandangolare. Non c'è un sistema di messa a fuoco che isola il soggetto dal resto: tutto quello che va da pochi centimetri all'orizzonte sarà nitido allo stesso modo. Occorre così fare un esercizio di inquadratura, muoversi nello spazio per trovare il punto di vista migliore, caricare la pellicola, una per volta, e aspettare.▲ Since photography was invented its quality has been improved, but some photographer prefer a slower, reflexive and material photography. Delamont pinhole 4x5" is a wooden camera with no lenses. It use plan films or paper, is completely manual and has no automatisms. With it every gesture becomes a small rite.

la macchina è una camera oscura, una scatola di legno con solo un otturatore e la livella, completamente manuale, dove ogni gesto diventa un piccolo rito

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Tutto a fuoco

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01 - La Delamont 4x5â€? pinhole, macchina fotografica stenopeica; usa pellicole o carta fotografica in fogli, ha una focale di 65mm e un diaframma di 0,3mm f/216. 02 - Bosco del Cansiglio, 1 minuto di esposizione. 03 - Polcenigo. 04 - La prima immagine scattata, la qualità è molto migliore delle aspettative, si notano molto bene i dettagli fini dei rami. Polcenigo, 2013, 30 secondi, 100 ISO. 05 - Alpago, 5 minuti di esposizione. 06 - Marcite del Parco Rurale di San Floriano. 07 - Lago di Santa Croce. 06


nel 2013 ho costruito la prima Delamont 4x5�, una macchina fotografica stenopeica

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tutto quello che va da pochi centimetri all'orizzonte sarĂ nitido allo stesso modo

08 - Bosco del Cansiglio, con la nebbia, 1 minuto di esposizione. 09 - Jesolo, 5 minuti di esposizione.

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IN PRODUZIONE

Emilio Antoniol è architetto, Ph.D. in Tecnologia dell’architettura. e-mail: antoniolemilio@gmail.com

IMMAGINI 01 - Fase di produzione dei pannelli fotovoltaici. Crediti: Luca Casagrande. 02 - L’UniCredit Pavilion a Milano (Michele de Lucchi), presenta un sistema di schermatura in legno e alluminio progettato e realizzato da Abba. Crediti: Margherita Ferrari. 03 - Prototipo in fase di studio di schermatura solare fotovoltaica progettata per RPBW-Renzo Piano Building Workshop. Crediti: Luca Casagrande. 04 - Tipologie di giunti sviluppati e prototipati da Abba. Crediti: Luca Casagrande.

Abba S.r.l. Via Dell’Artigianato 4 31052 Maserada (TV) info@abbablind.com www.abbablind.com

The sun is the primary source of energy for life on Earth and men learned to exploit its benefits. Likewise, men had to learn to protect themselves from the sun in places where an excessive exposure is a problem for human life. The ongoing climate change makes this aspect more and more significant, requiring specific arrangements to protect us from the sun. Nowadays, every building use light and solar control devices, such as simple blinds, brise-soleils or other integrated solar systems. During a meeting with Abba, a company active in the solar shading industry since 1978, we had the chance to see how this integration process is born. Abba finds its main field of work in the balance between industrial production, tailor-made construction and technological innovation, placing itself as a partner of great architectural signatures. But above all, Abba finds in the photovoltaic production its main mission: disseminate the importance of sunlight and the benefits that its exploitation can give to our lives. The development of portable photovoltaic systems, exploitable in emergency situations or in contexts with no electrical infrastructure support, is an important research area for the company.

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Proteggersi dal Sole, sfruttare la sua energia

Schermature solari: dall’ombreggiamento alla produzione energetica

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l Sole è la fonte energetica primaria per la vita sul pianeta Terra e, nei secoli, l’uomo ha imparato a sfruttare i benefici dell’irraggiamento solare. Allo stesso modo, tuttavia, l’uomo ha dovuto imparare a proteggersi dal Sole nei contesti in cui un’eccessiva esposizione costituisce un problema per la vita umana. I cambiamenti climatici in atto rendono questo aspetto particolarmente significativo, incidendo in maniera sempre più evidente sulla vita umana e richiedendo specifici accorgimenti per difendersi dal Sole. In ambito architettonico, l’uso di dispositivi per il controllo solare, sia termico che luminoso, vanta una tradizione molto antica ma solo nell’ultimo secolo il frangisole ha trovato una sua autonoma collocazione nell’architettura contemporanea. Esso, come dispositivo di schermatura con il compito di controllare la radiazione solare incidente su una superficie, è infatti un’invenzione moderna (Tatano, Rossetti, 2007, p.7) sebbene non priva di interessanti richiami storici1. Negli ultimi decenni per il frangisole sono state sviluppate una molteplicità di soluzioni e possibilità tecniche tali da richiedere una vera e propria classificazione2 atta a distinguere sistemi quali persiane, scuri, frangisole e tende, ciascuno connotato da specifiche caratteristiche tecniche o morfologiche, nonché da differenti modalità di funzionamento in relazione alla

posizione rispetto alla superficie da schermare. Questo ruolo emergente dei sistemi di schermatura deve parte del suo successo anche all’apparato normativo che, a partire dagli anni ’80, ha progressivamente spinto verso un uso obbligatorio dei sistemi di protezione solare3 negli edifici al fine di ridurre i consumi da raffrescamento e migliorare il comfort interno. In questo scenario, frangisole e tende sono diventati elementi tecnici sempre più spesso presenti nei progetti architettonici tanto da costituire un vero e proprio “tema progettuale”. Infatti, a differenza di molte altre innovazioni tecnico-impiantistiche, le schermature sono collocate sulle facciate degli edifici e vanno così a costituire un elemento visibile del prospetto architettonico, richiedendo ai progettisti uno sforzo di integrazione non indifferente. La loro utilità ed efficacia in termini di controllo solare e luminoso ha quindi spinto ancora oltre la ricerca e l’innovazione in questo settore sia sul piano tecnico che in quello formale. Oggi non esistono edifici privi di dispositivi di controllo luminoso e/o solare, siano essi semplici tende, frangisole o dispositivi architettonici quali sbalzi o aggetti in grado di ombreggiare, almeno in parte, l’edificio. L’adozione di sistemi di facciata a doppia pelle e di filtri solari ha però richiesto un processo di elaborazione dei dispositivi più semplici (si pensi ad esempio alle persiane avvolgibili) affinché questi potessero diventare strumenti architettonici a disposizione del progettista.


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Durante una visita presso Abba, azienda trevigiana attiva nel settore delle schermature dal 1978, abbiamo avuto modo di vedere come nasce questo processo di integrazione. Ogni sistema di schermatura viene progettato e realizzato in funzione di due aspetti predominanti: da un lato l’efficacia, predisponendo i materiali e le soluzioni tecniche più adeguate in relazione alla zona climatica e al contesto ambientale in cui l’edificio sarà costruito; dall’altro l’integrazione con l’edificio, realizzando schermature su misura per la specifica installazione così da valorizzare il progetto architettonico pensato dal progettista. é un processo fatto di reciproci scambi di informazioni e competenze tra architetto e azienda, in cui l’idea prende forma dopo numerose

prove e sperimentazioni, e in cui la fase di prototipazione assume un ruolo essenziale nello sviluppo del prodotto finale. Abba trova proprio in questo equilibro tra produzione industriale, costruzione su misura e innovazione tecnologica il suo principale campo operativo, ponendosi come partner di grandi firme dell’architettura quali lo studio Foster+Partners o RPBW - Renzo Piano Building Workshop, in progetti architettonici dove la schermatura solare è pensata, progettata e prodotta ad hoc al fine di massimizzare l’efficienza senza compromettere il valore architettonico dell’edificio, anzi, valorizzandolo con soluzioni fortemente caratterizzanti come quella pensata per l’UniCredit Pavilion a Milano progettato da Michele De Lucchi (img. 02).

ogni sistema di schermatura viene progettato e realizzato in funzione di due aspetti predominanti: l’efficacia e l’integrazione con l’edificio

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lo sviluppo di sistemi fotovoltaici portatili, sfruttabili in situazioni di emergenza o in contesti privi di infrastrutture elettriche di supporto, è un’importante filone di ricerca e sviluppo per l’azienda

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In esso una facciata frangisole curva diviene il tratto caratterizzante il progetto, richiedendo però un accurato studio dei sistemi di connesione e movimentazione delle lame frangisole in legno, tutte diverse tra loro e, per questo, necessitanti di una specifica progettazione su misura. Ma ciò non è più sufficiente. Il Sole, fonte di energia e calore, non può infatti essere considerato solo come una minaccia da cui proteggersi e schermasi. Al contrario, deve essere inteso anche come una risorsa che gli edifici possono sfruttare per captare energia. Frangisole e sistemi schermanti diventano così il supporto ideale per l’integrazione di moduli fotovoltaici e solari la cui inclinazione ed esposizione risulta così ottimizzata per accogliere la massima radiazione possibile in quel contesto climatico. Abba da anni si è specializzata anche in questo campo, sviluppando e brevettando soluzioni nel settore delle energie rinnovabili come sistemi di integrazione tra fotovoltaico e vetro o di applicazione di pannelli fotovoltaici su schermature solari


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realizzate in vari materiali tra cui alluminio, acciaio e legno. Ancora una volta, è la specificità del progetto a richiedere soluzioni su misura in cui la schermatura da dispositivo tecnico diventa soluzione architettonica perfettamente integrata all’edificio. Ma nel fotovoltaico Abba trova anche una sua precisa missione: far comprendere l’importanza dell’energia solare e i benefici che il suo sfruttamento può produrre sulla nostra vita. Lo sviluppo di sistemi fotovoltaici portatili, utilizzabili in situazioni di emergenza o in contesti privi di infrastrutture elettriche di supporto sono un importante filone di ricerca e sviluppo per l’azienda che, da anni, è impegnata anche nel progetto Energy from the sun, rivolto alle popolazioni africane che ad oggi sfruttano ancora lampade a kerosene per l’illuminazione domestica4. La produzione di kit fotovoltaici dotati di pannello, accumulatore, lampadine e cavi caricabatterie fornisce uno strumento a basso costo in grado di sfruttare una delle risorse maggiormente disponibili nel continente africano, il Sole.▲

NOTE 1 – Si veda in particolare il capitolo 1 del libro “Schermature solari” dove sono descritti alcuni sistemi di schermatura antichi, ma tutt’ora utilizzati, quali i claustra, le mashrabiyya o i jali. 2 – Si veda a tal proposito la UNI 8369-4 “Edilizia. Chiusure verticali. Classificazione e terminologia degli schermi” e la UNI EN 12216:2005 “Chiusure oscuranti, tende interne ed esterne - Terminologia, glossario e definizioni” che definiscono le tipologie e la terminologia specifica per i sistemi di schermatura. 3 – In particolare in Italia il D.P.R. 59/2009 impone

al progettista una valutazione puntuale dell’efficacia dei sistemi di schermatura solare adottati negli edifici per contenere i fabbisogni energetici per la climatizzazione estiva. 4 – Alcune ricerche hanno dimostrato che l’uso di queste lampade sia fonte di malattie respiratorie dovute all’accumulo di fuliggine sulle pareti interne dei locali. BIBLIOGRAFIA - Tatano V., Rossetti M., “Schermature solari. Evoluzione,progettazione e soluzioni tecniche”, Maggioli, Rimini, 2012.

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specia

le BIOM

AS SA

Loris Agostinetto è tecnico per Azienda Veneta per l’Innovazione Settore Primario – Settore Bioenergie e Cambiamento Climatico. e-mail: loris.agostinetto@venetoagricoltura.org Salvatore Martire è policy advisor per l’European State Forest Association.

IMMAGINI Crediti: Azienda Veneta per l’Innovazione Settore Primario. 01 - Prelievo biomassa legnosa nel bosco del Cansiglio. 02 - Prelievo biomassa legnosa.

Agenzia Veneta per I’Innovazione nel Settore primario Viale dell’Università n. 14 35020, Legnaro (PD) info@venetoagricoltura.org www.venetoagricoltura.org

Biomass harvesting, if carried out with in sustainable forest management, makes forest populations more resilient to degradation, pets and climate change. An essential element of sustainable and multifunctional forest management is a wood harvesting that maintains a positive carbon balance in the long run. Long-term productive capacity is guaranteed by ensuring soil quality and promoting innovation. The use of wood is very important not only for the climate and the forests, but also for the development of rural areas. Fostering the production of heat and power from biomass allows the use of low quality timber and enables the development of the forestry sector towards a sustainable bioeconomy.

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La sostenibilità di un combustibile antico

Le filiere energetiche forestali locali e la gestione forestale sostenibile

l concetto della tutela dei boschi è a volte frainteso, infatti è comune opinione che la raccolta della biomassa1 legnosa dai nostri boschi, sia essa per la produzione di legname da opera che per la produzione di biomassa da energia, porti al deperimento del bosco stesso. Al contrario, il prelievo di biomassa se effettuato nell’ambito della gestione forestale sostenibile, ovvero seguendo le dovute regole selvicolturali, non solo non è dannoso, ma anzi rende più resilienti i popolamenti forestali al degrado, agli attacchi parassitari, agli incendi e al cambiamento climatico. Cosa serve per una gestione forestale responsabile? Sicuramente una grande competenza degli esperti forestali e fortunatamente l’Italia vanta una lunga tradizione in questo senso. Altra condizione necessaria per un’efficace gestione forestale è la disponibilità delle risorse economiche che spesso provengono dalla vendita di legna e prodotti non legnosi del bosco. In questo senso la bioenergia è molto utile alla tutela del patrimonio boschivo perché permette di utilizzare legname di bassa qualità che altrimenti non troverebbe mercato e resterebbe abbandonato in bosco con conseguenze negative per lo stesso, aumentandone la vulnerabilità2 . La bioenergia da biomassa legnosa è molto importante non solo per il clima e le foreste ma anche per lo sviluppo delle aree rurali e per il rafforzamento delle

filiere produttive, infatti la promozione di filiere energetiche forestali locali rende economicamente più fattibile la gestione forestale. In Italia è importante aumentare il prelievo di biomassa legnosa Le foreste possono avere una funzione prevalentemente produttiva o protettiva. Tuttavia, le due funzioni forestali non si escludono reciprocamente ma, al contrario, gli operatori forestali applicano e migliorano le tecniche selvicolturali per massimizzare i valori multipli delle foreste e la fornitura di servizi ecosistemici. Un elemento essenziale di una gestione forestale sostenibile è la raccolta del legno, fondamentale per il mantenimento di un equilibrio carbonico stabile e positivo. La capacità produttiva a lungo termine è garantita salvaguardando la qualità del suolo e promuovendo l’innovazione selvicolturale per la progettazione di ecosistemi forestali resilienti. In Italia, dopo l’ultimo periodo bellico, il patrimonio boschivo era molto ridotto e gran parte dei territori montani era occupato da prati sfalciati e pascoli. Lo sviluppo economico e urbano, ha portato a un graduale abbandono delle aree rurali e gran parte dei popolamenti montani sono stati abbandonati con una conseguente e rilevante crescita del capitale boschivo nazionale sulle superfici già boscate, ma anche con un’espansione dei boschi stessi verso pascoli e prati. Ad oggi, l’Italia presenta il più basso tasso di utilizzazione del patrimonio forestale d’Europa (rapporto tra utilizzazio-


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la bioenergia da biomassa legnosa è molto importante per lo sviluppo delle aree rurali e per il rafforzamento delle filiere produttive

ni e incremento corrente) con una media di utilizzo pari al 20% dell’incremento corrente mentre in molti Stati europei il tasso di utilizzazione è del 70%. Nel caso del Veneto, lo stock in bosco è circa di 80,9 milioni di m3 totali, cioè 204 m3/ha (TESAF, 2014). I prelievi di legna ammontano a soli 460.000 m3 nei boschi seminaturali e i prelievi medi ammontano a 1,2 m3/ha/anno a fronte di un incremento medio di 5,5 m3/ha/anno. Ciò significa che si preleva solo il 20% degli incrementi annuali pari a circa lo 0,56% dell’intero capitale legnoso esistente. Diversamente in Austria il prelievo è l’1,65%, in Francia è il 2,12% ed in Germania l’1,61%. È perciò molto importante che in Italia si aumenti sensibilmente il prelievo di biomassa legnosa, in modo da poter gestire e tutelare il patrimonio boschivo e allo stesso tempo sviluppare filiere produttive sostenibili. In questo senso promuovere la produzione di energia termica o la cogenerazione permetterebbe l’utilizzo di legname di bassa qualità

e l’attivazione del settore forestale che nel medio-lungo periodo potrebbe svilupparsi e contribuire alla bioeconomia anche in Italia. Gli impianti termici Gli utilizzatori delle biomasse legnose a fini energetici sono molto diversi tra loro: famiglie, enti pubblici, industrie e grandi impianti per la produzione di energia elettrica. APAT-ARPA3 Lombardia nel 2007 hanno stimato un consumo residenziale di biomasse legnose, a livello nazionale, pari a 19,1 milioni di tonnellate. Sempre ARPA Lombardia stimava un consumo per il Veneto di circa 2,1 milioni di tonnellate/anno (APAT-ARPA Lombardia, 2008). L’ AIEL, nel 2014, ha invece considerato l’alimentazione di caldaie civili e industriali nel Veneto, stimando un consumo annuale di 80.000 tonnellate di biomasse legnose e nel settore della cogenerazione di quasi 0,5 milioni di tonnellate (Negrin et al., 2014).

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Sommando quindi i consumi domestici con quelli delle caldaie civili e industriali e con gli impianti di cogenerazione, si può stimare un consumo annuo per fini energetici di almeno 2,3-2,5 Mt di biomasse legnose. Un esempio virtuoso di centrale di cogenerazione è presente nel comune di Villa Guardia (CO). Esso è in grado di produrre e distribuire calore ai cittadini tramite una rete di teleriscaldamento e contemporaneamente produrre e vendere energia elettrica al GSE (Gestore Servizi Energetici). Un modernissimo impianto di abbattimento fumi permette di avere emissioni in uscita estremamente basse con valori di PM10 emessi inferiori a 5 mg/Nm3 , monitorate in tempo reale da strumentazione periodicamente sottoposta a controlli a cura di ARPA. Ad oggi, sono allacciate all’impianto di Villa Guardia 282 utenze, compresi gli edifici pubblici, con una potenza termica dell’impianto di soli 3,5 MW che, grazie all’effetto di non contemporaneità delle punte di carico, riesce a riscaldare utenze per una potenza totale di 15 MW. Attualmente nell’impianto

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è installato anche un assorbitore per il raffrescamento e un secondo sarà installato presso la centrale nei prossimi mesi. In questo modo anche durante la stagione estiva, in cui il riscaldamento è assente e la rete assorbe solo l’acqua sanitaria, si potrà utilizzare il calore prodotto dalla centrale mentre genera energia elettrica per produrre frigorie. Combustione e innovazione Generalmente, quando si parla di emissioni, si considera soltanto l’aspetto quantitativo del fenomeno ma difficilmente viene considerato l’aspetto qualitativo in quanto, a parità di quantità di particolato emesso, andrebbe valutato il grado di tossicità. Questo vale in particolar modo per il combustibile legnoso in quanto, a seconda delle condizioni in cui avviene la combustione, variano le emissioni e la relativa nocività per la salute umana. Per ottenere un processo di combustione il più possibile completo e quindi il minor livello di emissioni l’impianto termico deve rispondere a determinati requisiti tecnico-costruttivi, riassunti

nella “regola delle 3 T”, che definiscono la temperatura di combustione, la turbolenza e il tempo di permanenza. In pratica per avere una combustione ottimale, quindi sviluppare meno emissioni, in camera di combustione si deve raggiungere una temperatura sufficientemente elevata, garantire una buona mescolanza tra gas combustibili del legno e l’aria comburente, ottenuta attraverso una buona turbolenza, e si deve garantire che i gas combustibili miscelati con l’aria comburente rimangano nella camera di combustione per un tempo sufficientemente lungo da permetterne una combustione quanto più completa possibile. È importante inoltre fornire un quantitativo in eccesso di aria e quindi di ossigeno. Bruciare legno a cielo aperto o all’interno di una stufa economica di vecchia concezione significa produrre una combustione ben lontana dall’ottimale. In queste condizioni infatti, la combustione avviene in un’unica fase a una temperatura che non supera i 300-400 °C, l’aria comburente non si


il prelievo di biomassa con criteri di gestione forestale sostenibile, rende più resilienti i popolamenti forestali al degrado, agli attacchi parassitari, agli incendi e al cambiamento climatico

mescola bene con il gas prodotto dal legno e la stessa miscela rimane pochissimo tempo nella zona di combustione. Il risultato è una combustione non ottimale e si verifica l’emissione in atmosfera di gas incombusti aventi elevato grado di tossicità. Tuttavia stufe a legna di nuova concezione, stufe e caldaie a pellet o a cippato riescono a ottenere una combustione molto vicina a quella ottimale. Ciò avviene perché questi apparecchi sono strutturati in modo da effettuare la combustione in due fasi: una prima fase avviene a una temperatura di 300400 °C e i gas qui prodotti, vengono fatti miscelare con aria comburente che ne provoca una seconda combustione. Questa avviene a una temperatura di 800-1000 °C. Inoltre la conformazione della camera di combustione è tale da aumentare sensibilmente il tempo di permanenza dei gas prodotti. Il combustibile viene così quasi completamente bruciato, in condizioni quanto più vicine a quelle ottimali con il duplice risultato di garantire un rendimento che passa dal 30-40% all’80-90% e con

emissioni prive quasi totalmente di gas incombusti e un grado di tossicità fino a 100 volte inferiore. Per questi motivi piuttosto che proibire l’utilizzo delle stufe a biomassa in determinati territori, sarebbe molto utile promuovere una campagna di rottamazione dei vecchi apparecchi termici in favore di quelli più performanti e di moderna concezione.▲

NOTE 1 - Secondo il Decreto Legislativo 29 dicembre 2003, n. 387 (che recepisce la Direttiva 2001/77/ CE sulla promozione dell’energia elettrica prodotta da fonti rinnovabili), le biomasse sono definite come la parte biodegradabile dei prodotti, rifiuti e residui provenienti dall’agricoltura (comprendente sostanze vegetali e animali), dalla selvicoltura e dalle industrie connesse, nonché la parte biodegradabile dei rifiuti industriali e urbani. 2- I diradamenti costituiscono un’ingente fonte di biomassa legnosa da energia nella forma di ramaglie, cimali, piante sottomisura. Dal diradamento di un ettaro di fustaia alpina si possono ricavare almeno 50 tonnellate di biomassa per uso energetico o industriale. 3 – Con la Legge 6 agosto 2008 n. 133 di conversione, con modificazioni, del Decreto legge 25 giugno 2008 n. 112 i tre enti controllati dal ministero dell’Ambiente l’APAT (Agenzia per la Protezione dell’Ambiente e per i servizi Tecnici), l’INFS (Istituto Nazionale per la Fauna Selvatica) e l’ICRAM (Istituto Centrale per la Ricerca scientifica e tecnologica Applicata al Mare) sono accorpati nel nuovo ente denominato ISPRA (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale). BIBLIOGRAFIA - APAT-ARPA Lombardia, “Stima dei consumi di legna da ardere per riscaldamento ed uso domestico in Italia”, 2008. - Negrin M., Francescato V., Pani A., Maito F., Bau L., “Come riscaldarsi correttamente con il legno. In sicurezza, nel rispetto dell’ambiente e della qualità dell’aria”, Progetto Biomass Trade Center 2, 2014. - TESAF, “Lo sviluppo rurale in Veneto. Schede informative”, Università di Padova, 2014. Consultabile al link: https://goo.gl/95EVrd (presa visione luglio 2017).

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Energia dalle biomasse Emilio Antoniol è architetto Ph.D. in Tecnologia dell’architettura. e-mail: antoniolemilio@gmail.com

BIBLIOGRAFIA - Cavalli R., Grigolato S., Francescato V., “Energia dai sarmenti di vite per le aziende vitivinicole”, in L’informatore agrario, n.22, 2012, pag. 44-49. - Francescato V., “Evoluzione del consumo di legna e pellet e delle emissioni di PM10 dalla combustione residenziale in Italia”, in “Agriforenergy”, n.1, 2016, pp.26-34. - MSE, “Bilancio Energetico Nazionale”, 2014. - UNI EN ISO 17225-1:2014 “Biocombustibili solidi Specifiche e classificazione del combustibile”, 2014.

Cs Thermos Via Padania, 35 31020 San Vendemiano (TV) info@csthermos.it www.csthermos.it

The domestic use of solid biofuels, as an alternative to fossil fuels, has been widespread in Italy over the past fifteen years, with an increase of approximately 22%. The reasons for this expansion are mainly the cost savings that these fuels allow and the push of such systems by the incentive policies that consider biomasses a zero carbon dioxide emissions fuel. An important innovation potential in this sector concerns the use of non-wood biomass and, in particular, those resulting from the processing of other food products such as hazelnuts or fruit shells that, until a few years ago, were only considered as waste. The development of the circular economy idea also in the agricultural sector has triggered some production chains where waste becomes a secondary product that produces a new income for the farmer and so benefits both at local and global level. During a meeting with CS Thermos, a leading company in the production of biomass stoves, we learned more about the world of energy production from non-wood biomass and on their potential for domestic use.

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La biomassa non legnosa come volano per l’economia locale

uso di biocombustibili solidi per usi domestici in alternativa alle fonti fossili si è notevolmente diffuso in Italia negli ultimi anni, con un aumento di quasi sette volte tra il 1999 e il 2013 secondo le stime contenute nel Bilancio Energetico Nazionale (MSE, 2014). Indagini più mirate sulle tipologie di combustibile impiegato hanno evidenziato aumenti più contenuti, ma comunque significativi, dell’uso del legno e dei suoi derivati, che sono cresciuti del 22% negli ultimi quindici anni (Francescato, 2016). Il crescente interesse verso le biomasse legnose ha anche portato ad alcuni aggiornamenti normativi con la serie delle UNI EN ISO 17225. Tra queste, la UNI EN ISO 17225-1 determina le specifiche e la classificazione per i biocombustibili solidi costituiti da materiale derivante da silvicoltura e colture arboree, agricoltura e acquicoltura andando a definire una sostanziale suddivisione tra le biomasse di origine legnosa e quelle non legnose, fino ad ora meno utilizzate e studiate. Molto dettagliata è invece la classificazione dei prodotti legnosi che sono distinti in legna da ardere, cippato e pellet. La legna da ardere è la forma “tradizionale” di biomassa, ricavata direttamente dal taglio di alberi, mentre il cippato comprende legname di scarto, residui di potature o di altre lavorazioni del legno, che vengono ridotti in scaglie e impiegati come materiale da combustione. Il pellet è invece la forma più elaborata di biomassa frutto di un processo meccanico di triturazione, compattazione ed essicazione del legno per produrre un

biocombustibile addensato, generalmente in forma cilindrica, dall’elevato potere calorifico. La UNI EN ISO 17225-2 classifica il pellet in funzione ad alcune specifiche come il diametro (tra 6 e 8 mm), la lunghezza che varia tra 3,15 e 40 mm e il contenuto di umidità che deve essere inferiore al 10%. Infine vengono definite le classi A1, A2 e B in funzione del residuo in cenere che si produce dalla combustione, rispettivamente inferiore a 0,7 % , a 1,2% e a 2,0% del peso. La grande attenzione dedicata in questi ultimi anni alle biomasse è quindi rivolta a ottenere soluzioni alternative all’uso delle fonti fossili ma tuttora sussistono dei freni alla diffusione di questi sistemi. Uno dei principali limiti della produzione energetica da biocombustibili solidi è l’emissione di PM10, particolato atmosferico di diametro uguale o inferiore a 10 µm. Il consistente impiego di sistemi di combustione domestica per il riscaldamento in Italia è infatti una delle principali fonti di produzione di polveri sottili con valori che nel 2013 hanno toccato il 59,5% (Arpav, 2013), superando così anche il valore della produzione da traffico veicolare. Biomasse non legnose: un’opportunità non ancora pienamente sfruttata Nello scenario appena descritto si apre un’importante possibilità di innovazione che riguarda le fonti di biomassa di origine non legnosa e, in particolare, quelle derivanti dalla lavorazione di altri prodotti di origine alimentare come la frutta. Da alcuni anni, infatti, si è iniziato a riflettere su come reimpiegare in modo proficuo scarti di lavorazione come i noccioli o i gusci della frutta


le biomasse non legnose possono essere reperite direttamente in loco, frutto degli scarti da lavorazioni agricole tipiche di un dato territorio

che fino a pochi anni fa erano considerati solo come rifiuti. Lo sviluppo del concetto di economia circolare anche in ambito agricolo ha fatto attivare alcune filiere produttive in cui gli scarti diventano prodotti secondari che generano reddito per l’azienda e quindi benefici a livello di economia sia locale che globale. Durante un incontro con CS Thermos, azienda trevigiana leader nella produzione di stufe a biomassa, abbiamo avuto modo di conoscere meglio il mondo della produzione energetica da biomassa non legnosa. Come ci è stato confermato dai tecnici dell’azienda, non esiste attualmente una normativa specifica e dettagliata per questi prodotti ma il lavoro di ricerca condotto da aziende come CS Thermos supportate dall’AIEL, Associazione Italiana Energie Agroforestali, sta portando a definire alcuni requisiti tecnici standard per ottenere un prodotto idoneo alla combustione a livello domestico: una pezzatura di circa 4 mm e un tasso di umidità inferiore al 13%, entrambi fattori che si addicono perfettamente ad alcuni tra i più diffusi prodotti di scarto agroalimentare. Tra questi troviamo i gusci di noci e nocciole, e i noccioli di oliva, ciliegia, pesca, albicocca che, una volta triturati ed essicca-

ti, possono diventare un ottimo combustibile rinnovabile derivante da uno scarto di lavorazione a km zero. Questa è infatti una delle peculiarità più interessanti di queste forme di biomassa: poter usare e trattare le materie disponibili sul territorio attivando così micro distretti energetici. Spesso infatti il pellet o lo stesso legno provengono sì da foreste certificate ma situate dall’altra parte del mondo, andando quindi a incidere sulle emissioni di CO2 dovute al trasporto e alla lavorazione della materia prima. Al contrario le biomasse non legnose possono essere reperite direttamente in loco, frutto ad esempio degli scarti da lavorazioni agricole tipiche di un dato territorio, e diventare allo stesso tempo una fonte ulteriore di guadagno per i produttori locali. Un esempio di questo riutilizzo circolare dei prodotti del territorio è dato dai sarmenti della vite che, secondo alcune stime (Cavalli et al., 2012), nella sola provincia di Treviso sono quantificabili in circa 70.000 t/anno, una risorsa che fino a pochi anni fa era considerata solo uno scarto da bruciare direttamente in campo. Grazie ad alcune ricerche oggi è possibile trasformare tale sottoprodotto di scarto in cippato idoneo alla combustione

in caldaie a biomassa per alimentare l’intera azienda agricola o, in un’ipotesi ancora più innovativa e attualmente in fase sperimentale, di bruciare il cippato di sarmenti direttamente in macchinari per il pirodiserbo1, andando così a sostituire l’uso di combustibili fossili e rendendo l’azienda agricola capace di riciclare i suoi stessi prodotti di scarto. Con questi presupposti, l’uso di biomasse, legnose o non si configura come un elemento dal grande potenziale di innovazione sia in termini di produzione domestica di energia che in termini economici, potendo ridurre la conversione a fini energetici di prodotti destinabili all’alimentazione umana o animale, quali soia e mais utilizzati per la produzione di biogas, e valorizzando invece sottoprodotti prima considerati marginali o addirittura di scarto.▲ NOTE 1- Il pirodiserbo è una tecnica di controllo delle erbe infestanti messa a punto a fine dell’800 negli Stati Uniti. Consiste nel bruciare in modo molto rapido e con temperature molto elevate l’apparato fogliare delle erbe infestati provocandone il disseccamento nelle ore seguenti il trattamento. Nei primi del ‘900 la tecnica fu perfezionata con lo sviluppo di bruciatori più efficienti ma sempre alimentati a fonti fossili, petrolio e benzina prima e gas poi.

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VOGLIO FARE L’ARCHITETTO

Francesca Mauro è laureata in Ingegneria per l’ambiente e il territorio, indirizzo “Difesa del suolo”, presso l’Università degli Studi La Sapienza di Roma. e-mail: francesca.mra@tiscali.it

IMMAGINI 01 - Variazioni della riflettività della vegetazione in funzione del livello di stress idrico. Ridisegno di Stefania Mangini. 02 - Collocazione dei tre casi studio. 03 - Color composite 752 RGB delle finestre ritagliate dalle scene Landsat 8 (USGS Product) post eventum (in tonalità di rosso è rappresentata l’area incendiata) e mappe di δNBR con classificazione del danno, elaborate su finestre di pixel ritagliate da scene Landsat 8 (USGS Product) post-eventum: 1) incendio di Paolo VI; 2) incendio di Cutro; 3) incendio di Miglionico. Crediti: Francesca Mauro.

After the introduction of Law 353/2000, a systematic study of forest fires has started in Italy: they have been considered a destructive forcing of natural complexity and a source of greenhouse gases and atmospheric pollutants. Since the 1970s, satellite remote sensing has become a useful technique to study environmental phenomena thanks to its instruments, which can observe terrestrial surface remotely and in a multispectral way. In particular, satellite imagery is useful for studying wildfires because they modify spectral features of vegetation in the near and middle infrared regions. Through the analysis of three Italian cases, this paper shows the impact of forest fires on climate change. The carbon footprint of these events has been calculated integrating the results of the Landsat 8 images’ elaboration with information acquired by the State Forestry Corps.

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La carbon footprint degli incendi boschivi

Integrazione dei risultati dell’elaborazione di immagini satellitari del Landsat 8 con dati del Corpo Forestale dello Stato per la stima delle emissioni in atmosfera

a nord a sud la penisola italiana presenta un’ineguagliabile ricchezza naturalistica, che riflette la variabilità del clima, della morfologia e dell’uso del territorio; tuttavia, spesso tale patrimonio è vittima degli incendi boschivi, che modificano la composizione del suolo per diversi anni e producono gas pericolosi per l’equilibrio del clima, come anidride carbonica (CO2), protossido d’azoto (N2O) e metano (CH4). In Italia lo studio sistematico degli incendi boschivi è iniziato con l’emanazione della Legge n.353/2000, che ha introdotto all’art.423 bis c.p. il reato di incendio boschivo e, dal punto di vista amministrativo, nuovi strumenti di pianificazione territoriale e vincoli nell’utilizzo delle aree incendiate (Cerofolini, 2005). Dal 2000 al 2007 il numero medio di incendi è diminuito di un terzo rispetto a quello dei due decenni precedenti; tuttavia è sempre rimasto molto alto, nonostante la forte linea di contrasto al fenomeno assunta dal Governo: si pensi che solo nel 2007, anno cruciale per l’antincendio boschivo, sono stati individuati 10.639 incendi che hanno distrutto più di 227 mila ettari di superficie boschiva (dati CFS Corpo Forestale dello Stato). Il telerilevamento satellitare per la caratterizzazione del danno nelle aree incendiate I satelliti rappresentano un’importante fonte di conoscenza dei fenomeni ambientali grazie all’osservazione multispettrale della superficie terrestre. Conoscendo la radiazione solare riflessa dagli

oggetti (riflettanza) nelle varie regioni dello spettro elettromagnetico è possibile ricostruire la loro curva di riflettanza spettrale, che mostra l’andamento del coefficiente di riflessione o riflettività, inteso come rapporto tra l’energia elettromagnetica riflessa e quella incidente, in funzione della lunghezza d’onda della radiazione incidente. Tale curva permette di distinguere le varie coperture superficiali perché dipende da parametri sia fisici che chimici degli elementi e dall’entità dei fenomeni di assorbimento e diffusione atmosferici (Gomarasca, 1997). Per la caratterizzazione delle aree incendiate è importante lo studio della curva di riflettanza della vegetazione (ρ), che dipende dalla quantità di pigmenti fogliari, dalla struttura foliare e dal contenuto in acqua, e può presentare significative variazioni nelle regioni del vicino e medio infrarosso per il passaggio del fuoco (img. 01): all’aumentare del grado di stress, diminuisce la riflettività nel vicino infrarosso (ρnir) e si incrementa quella nel medio infrarosso (ρmir)1. Inoltre, è utile il confronto tra le immagini pre e post-eventum della zona colpita, la cui scelta dipende dalle quattro risoluzioni del sensore di acquisizione: spaziale, spettrale, radiometrica e temporale. La possibilità di acquisire le immagini della superficie terrestre con pixel corrispondenti ad aree molto piccole e con un’alta frequenza temporale permette di cogliere i minimi cambiamenti ambientali; tuttavia, anche le capacità del sensore di registrare le informazioni in più bande spettrali e di discernere piccole differenze di riflettanza nello


HIGH

R E F L E CTA N C E

HEALTHY GREEN VEGETATION

STRESSED VEGETATION SEVERELY STRESSED

LOW

VISIBLE

0,4

SHORT WAVE IR

NEAR IR

0,7

stesso intervallo spettrale sono importanti per distinguere con maggior chiarezza le differenti coperture superficiali2. I casi di studio: gli incendi boschivi di Paolo VI, Miglionico e Cutro In questo articolo viene presentato per tre incendi il calcolo delle emissioni in atmosfera dei composti del carbonio (CO2, CH4 e CO), dell’azoto (NOx e N2O) e di PM10, che, liberati in grandi quantità a seguito del processo di combustione della vegetazione, danno origine a fenomeni di surriscaldamento globale, con conseguente sconvolgimento dei naturali equilibri. Sono stati presi in considerazione i seguenti eventi: l’incendio di Paolo VI (TA - Puglia) del 14/06/2014, l’incendio di Miglionico (MT - Basilicata) del 12/08/2014 e l’incendio di Cutro (KR - Calabria) del 14/08/2014 (img.02). Per ognuno sono state scaricate le scene multispettrali Landsat8 pre e post-eventum, in formato Level 1T3 , e sono stati richiesti i fascicoli territoriali custoditi nel Sistema Informativo della Montagna (SIM) al Corpo Forestale dello Stato, per confrontare e integrare i risultati della fotointerpretazione satellitare con i dati sulla vegetazione colpita dalle fiamme, sulle condizioni meteorologiche e l’orografia del luogo, sulla tipologia di incendio (sotterraneo, radente

1,1

1,7

o di chioma) e l’altezza delle fiamme. Lo studio delle superfici incendiate e il successivo calcolo delle emissioni sono stati interamente condotti con mezzi e software a basso costo, che, nonostante numerosi limiti, hanno comunque mostrato il considerevole impatto sul clima degli incendi boschivi. Utilizzando il software ILWIS4, dalle immagini multispettrali sono state ritagliate delle finestre di pixel per studiare nel dettaglio le aree di interesse5, per ciascuna delle quali, dopo un miglioramento del contrasto radiometrico, sono stati elaborati color composite 752 RGB. Le mappe in falsi colori sono state ottenute associando le tre bande spettrali 7, 5 e 2 del Landsat 8 (corrispondenti al medio e vicino infrarosso e al blu) rispettivamente ai colori del sistema RGB (rosso, verde e blu): in tal modo le finestre di pixel sono state visualizzate a colori e non con varie tonalità di grigio. Le mappe 752 RGB hanno permesso di individuare facilmente le aree incendiate perché la zona bruciata, caratterizzata da un’elevata riflettanza nella banda 7, è apparsa in gradazioni di rosso, distinguendosi così da quella intatta, con alta riflettenza in banda 5, quindi colorata con varie tonalità di verde (nell’img. 03 le aree incendiate sono evidenziate con un cerchio e al loro interno si può vedere che l’intensità del rosso aumenta al diminuire del contenuto di pigmenti fogliari e acqua nella vegetazione).

2,0

2,2

2,5

01

lo studio delle superfici incendiate e il successivo calcolo delle emissioni sono stati interamente condotti con mezzi e software a basso costo

1. Paolo VI (TA)

3.Miglionico (MT)

2.Cutro (KR)

02

N.18 LUG-SET 2017 63


Incendio di Paolo VI

Incendio di Curto

Incendio di Miglionico

255 Danno elevato

128

0 Danno lieve

03

Per ciascuna finestra di pixel sono state elaborate anche mappe di variazione degli indici NDVI (Normalized Difference Vegetation Index) e NBR (Normalized Burn Ratio), così definiti per questo studio e variabili nell’intervallo [-1;+1] (ρ indica la riflettanza della superficie nella specifica banda): NDVI = (ρnir - ρred)/(ρnir + ρred) = (ρ5 - ρ4)/(ρ5 + ρ4) NBR = (ρmir - ρnir)/(ρmir + ρnir) = (ρ7 - ρ5)/(ρ7 + ρ5) I due indici spettrali hanno permesso di rappresentare la disomogeneità spaziale del danno in funzione delle caratteristiche della vegetazione presente in situ, delle condizioni meteorologiche e dell’orografia del luogo. L’area incendiata è stata individuata da valori positivi dell’NBR e negativi dell’NDVI post-eventum: infatti, valori dell’NBR prossimi a +1 così come valori dell’NDVI circa pari a -1 indicavano un elevato stato di stress idrico della vegetazione. Successivamente, sono state elaborate mappe di variazione temporale di NDVI e NBR: δNDVI = NDVIpre – NDVIpost e δNBR = NBRpost – NBRpre. Definite prima in un intervallo di valori [0;2], in modo tale da escludere dall’analisi del danno i pixel con valori di δNDVI e δNBR nega-

64 OFFICINA*

tivi (rappresentanti un miglioramento delle condizioni di salute della vegetazione), queste carte sono state in seguito sottoposte a stretching lineare nell’intervallo [0;255], per distinguere le zone con danno elevato (valori prossimi a 255) da quelle con danno molto lieve o nullo (valori prossimi a 0) (nell’img. 03 sono riportate per i tre eventi solo le mappe di δNBR, nelle quali i pixel bianchi rappresentano zone dove si sono verificate variazioni negative dell’indice, non interessanti ai fini dello studio delle aree incendiate). I risultati ottenuti hanno mostrato una maggiore efficacia del parametro NBR nel descrivere la variazione del danno: nel caso dell’incendio di Paolo VI, l’NDVI ha fornito una rappresentazione troppo omogenea del danno, dovuta alla bassa differenza di riflettività della vegetazione in situ tra la banda del rosso e quella dell’infrarosso vicino. In base all’intervallo di valori del parametro δNBR è stata definita una classificazione del danno nelle aree incendiate, utile a calcolare l’efficienza media di combustione dell’evento (α), ovvero il rapporto tra biomassa bruciata e biomassa secca totale. La classificazione del danno è stata ottenuta in via sperimentale (tab. B), suddividendo l’intervallo di variazione del dNBR [0;255] in sei classi con valori soglia definiti in

modo tale da ottenere un coefficiente α compatibile con i dati stimati dal Corpo Forestale dello Stato (tab. A). Noto il coefficiente α, implementando in Excel il metodo di lavoro sviluppato da Trozzi (Trozzi et al., 2002)6, è stata ottenuta una stima delle emissioni di composti del carbonio, dell’azoto e PM10 in atmosfera, considerando solo le superfici boschive colpite dall’incendio7 (i risultati sono riportati nella tabella D). Conoscendo le quantità di CO2, N2O e CH4 emesse dai tre incendi, è stata calcolata la loro carbon footprint. L’impronta di carbonio rappresenta la somma delle emissioni di gas a effetto serra associate direttamente o indirettamente alla produzione di un bene/servizio o a un particolare processo di trasformazione. Espressa in tonnellate di CO2 equivalente (CO2eq), la carbon footprint degli incendi boschivi è stata così calcolata: CF = ton CO2 * GWP(CO2) + ton N2O * GWP(N2O) + ton CH4 * GWP(CH4) [ton CO2eq] dove per GWP (Global Warming Potential) si intende il potenziale di riscaldamento del clima di ogni gas, riferito a un particolare orizzonte temporale (per questo studio è stato considerato pari a 100 anni)8.


Tabella A. Dati del Corpo Forestale Dello Stato (SIM), 2014 Evento Paolo VI Cutro Miglionico

Vegetazione

Vento

Pendenza

Tipo incendio

Macchia mediterranea 195 ha

Moderato

Fino al 20%

Radente

Forte

Dal 20% al 50%

Radente e di chioma

Forte

Fino al 20%

Radente e di chioma

Altri boschi caducifogli 23 ha Conifere e altri boschi caducifogli 55 ha

Tabella B. Classificazione del danno da incendio δNBR

α

% pixel

molto lieve

0,0 – 55,0

0,1

P1

Evento

lieve

55,1 – 90,0

0,2

P2

Paolo VI

0,132

90,1 – 130,0

0,3

P3

Cutro

0,180

Miglionico

0,168

Danno

moderato alto

130,1 – 170,0

0,4

P4

elevato

170,1 – 204,0

0,6

P5

elevatissimo

204,1 – 255,0

0,8

P6

Coefficiente α valore

dove α= (0,1P1+0,2P2+0,3P3+0,4P4+0,6P5+0,8P6)/100 con α є [0;1] Tabella C. Emissioni totali in atmosfera (ton)

Composti del carbonio

Composti dell’azoto Particolato

Paolo VI

Cutro

Miglionico

CO2

1885,99

1531,17

3897,91

CH4

9,27

7,52

19,15

CO

135,16

109,73

279,33

NOx

0,06

0,05

0,13

N 2O

0,15

0,12

0,31

PM10

7,99

6,48

16,51

Tabella D. Carbon Footprint degli eventi Paolo VI

Cutro

Vegetazione

Macchia mediterranea

Altri boschi caducifogli

CO2eq (ton)

2184,96

1773,89

4515,81

11,20

76,39

82,55

CO2eq (ton/ha)

Conclusioni I risultati sulle emissioni di gas a effetto serra conseguenti agli incendi studiati hanno mostrato che l’impatto ambientale di questi eventi sull’equilibrio del clima non è per nulla trascurabile: un incendio di pochi ettari di bosco come quello di Cutro può vanificare ogni controllo sulle emissioni di altre attività (traffico urbano, industrie, trasporti, ecc.). Inoltre, è emerso che la carbon footprint di questi processi non è tanto condizionata dall’estensione dell’area bruciata, quanto dalla particolare vegetazione coinvolta nella combustione: i risultati hanno mostrato che la carbon footprint per ettaro dell’incendio di Miglionico era nettamente superiore a quella dell’evento di Paolo VI (tab. D). I valori finali sono stati ottenuti con un’incertezza da associarsi all’utilizzo di tecno-

Miglionico Conifere e altri boschi caducifogli

logie e metodi di calcolo a basso costo, che può essere ridotta prevedendo: - la classificazione del danno nelle aree incendiate mediante elaborazione di immagini satellitari con alta risoluzione spaziale e temporale, ma contemporaneamente acquisite nella banda del medio infrarosso, dove sono visibili i danni del fuoco (come mostra la curva di riflettanza della vegetazione nell’img. 01); - una modifica dei fascicoli territoriali orientata a fornire una stima più dettagliata e numerica del danno, che potrebbe favorire lo sviluppo di un modello di correlazione tra variazione di NDVI/NBR e perdita di combustibile vegetale, finalizzato a rendere più rapida e contemporaneamente accurata la classificazione del danno.▲

NOTE 1 – La radiazione elettromagnetica è descritta numericamente dalla lunghezza d’onda λ, ovvero dalla distanza tra due picchi successivi dell’onda (espressa in µm). Qualsiasi immagine della superficie terrestre è acquisita dal Landsat 8 in più bande spettrali, delle quali le più utilizzate per il monitoraggio ambientale sono le seguenti: la banda 2, corrispondente alla lunghezza d’onda del blu (0,450≤λ≤0,515 µm); la banda 3, corrispondente alla lunghezza d’onda del verde (0,525≤λ≤0,600 µm); la banda 4, corrispondente alla lunghezza d’onda del rosso (0,630≤λ≤0,680 µm); le bande 5 e 7 appartenenti rispettivamente all’infrarosso vicino (0,845≤λ≤0,885 µm) e medio (2,100≤λ≤2,300 µm). 2 - I nuovi strumenti di osservazione della Terra sono progettati per massimizzare contemporaneamente tutte e quattro le risoluzioni, consentendo una più ampia disponibilità di informazioni (es.: il programma satellitare Sentinel 2, avviato in giugno 2015). 3 – Le scene Landsat 8 sono scaricabili gratuitamente dal sito web dell’USGS, tramite la piattaforma EROS, già georeferenziate nel datum WGS84 e nel sistema cartografico UTM – WGS84 e corrette radiometricamente nel sistema a 16 bit. Sono acquisite dai sensori OLI e TIRS in nove bande multispettrali con risoluzione spaziale di 30 m (tra le quali la pancromatica con risoluzione di 15 m) e due bande appartenenti alla regione dell’infrarosso termico, con risoluzione di 100 m, ma fornite all’utente ricampionate con pixel di 30 m (Irons J. et al., 2012). 4 – Software per l’analisi di immagine scaricabile gratuitamente dal sito web ilwis.org. 5 – Le scene Landsat 8 presentano un’estensione troppo elevata per lo studio delle aree incendiate. 6 – È stato scelto questo metodo perché è facilmente implementabile su Excel: per i dettagli sui parametri si consiglia la lettura della pubblicazione originale. 7 – Sono stati utilizzati i dati CFS. 8 – Per i valori di GWP a 100 anni si fa riferimento ai dati IPCC del 5th Assessment Report, 2014. BIBLIOGRAFIA - Bottai L., Maselli F., Montaghi A., “Il telerilevamento per il monitoraggio degli effetti degli incendi forestali”, in “Rivista Italiana di Telerilevamento”, 2008, n.40, pp.75-87. - Cerofolini A., “Il sistema sanzionatorio in materia di incendi boschivi”, in “Silvae”, gennaio – aprile 2005, n. 1, pp. 280-297. - Gomarasca M.A., “Introduzione a telerilevamento e GIS per la gestione delle risorse agricole e ambientali”, Ed. Associazione Italiana di Telerilevamento, 1997. - IPCC, “Climate Change 2014, Synthesis Report”, in Fifth Assessment Report (AR5), 2014, pag.87. - Irons James R., Dwyer John L., Barsi Julia A., “The next Landsat satellite: The Landsat Data Continuity Mission”, in “Remote Sensing of Enviroment”, Luglio 2012, n. 122, pp. 11-21. - Trozzi C., Vaccaro R., Piscitello E., “Emissions estimate from forest fires: methodology, software and European case studies”, 11th International Emission Inventory Conference - “Emission Inventories - Partnering for the Future”, Atlanta, Aprile 2002.

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IMMERSIONE

Luca Casagrande è laureato in Architettura allo Iuav di Venezia, si occupa di comunicazione collaborando con organizzazioni e aziende. e-mail: lucacasagrande87@gmail.com

IMMAGINI 01 - Le aziende hanno bisogno di una comunità sana per generare domanda e di quanto la comunità ha bisogno delle imprese per opportunità lavorative e creazione di ricchezza (Porter e Kramer, 2011). CC0. 02 - Triple Bottom Line o 3P (People, Planet, Profit), perseguimento congiunto di obiettivi economici sociali e ambientali per uno sviluppo sostenibile. Ridisegno di Luca Casagrande. 03 - La sostenibilità è un processo continuo di carattere etico e politico, che integra le tre dimensioni della sostenibilità dello sviluppo: ambientale, economica e sociale. CC0.

The current global condition is characterized by a growth model that has eroded the “natural capital” beyond its regeneration capacity. The change in the global social and economic system has made people increasingly aware that environmental and social needs can no longer be ignored by development strategies. They must rather become part of a new sustainable growth. Today companies need to mature their strategic vision and transform their development processes. Businesses are called to become dynamic bodies capable to transform themself due to the system conditions. The company is given a public dimension, inserted in a social and environmental context with which it interacts in a relationship of mutual influence. Awareness of being an integral part of this system and the pursuit of three dimensions of sustainability lead the enterprise to become more responsible.

66 OFFICINA*

Fare impresa responsabile La connessione tra impresa e contesto socio ambientale per la costruzione di valore condiviso

el contesto attuale, caratterizzato da un modello di crescita che ha eroso il “capitale naturale” oltre la sua capacità di rigenerazione e da un processo di mutamento del sistema socio-economico globale, è sempre più rilevante la consapevolezza che le esigenze di tipo ambientale e sociale non possono essere scisse dalle strategie di sviluppo, ma piuttosto devono diventare parte di una nuova crescita sostenibile. Non solo quindi una trasformazione dei processi di sviluppo ma una vera e propria maturazione della visione strategica delle imprese che sono chiamate a diventare organismi dinamici capaci di trasformarsi in relazione alle condizioni del sistema. Richiamando le parole di Luigi Einaudi “una persona diventa matura quando diventa responsabile, quando sa usare la libertà responsabilmente” (Einaudi, 1959); possiamo dire che un’impresa può definirsi matura, quindi sostenibile, quando diventa capace di mantenere nel lungo periodo una crescita economica in equilibrio con le esigenze sociali e ambientali. Lo sviluppo sostenibile Un modello di sviluppo tradizionale, orienta la sua operatività unidirezionalmente verso la creazione di valore ottenuto attraverso l’ottimizzazione della performance finanziaria. Secondo questo modello, il perseguire esclusivamente la ricerca dell’interesse personale all’interno di un libero mercato spontaneamente

regolato e governato da una “mano invisibile”1 (Smith, 1776) porta a conseguire contemporaneamente e indirettamente interessi e benefici sociali, intesi quindi come conseguenza della massima soddisfazione personale. Ripreso e sviluppato nel 1970 da Friedman nella Stockholder view (Friedman, 1962), questo concetto sottolinea come etica ed economia si intersechino essenzialmente in un unico livello, quello di mercato. “Esiste una e una sola responsabilità per l’impresa: usare le proprie risorse per impegnarsi in attività intese a incrementare i propri profitti, purché rispetti le regole del gioco, cioè a dire, purché operi in aperta e libera concorrenza, senza inganni o frodi” (Friedman, 1970). Negli stessi anni però iniziano a svilupparsi ricerche che analizzano come questo modello di crescita avrebbe condotto al collasso dei sistemi naturali raggiungendo I limiti dello sviluppo2 (Meadows et al., 1972), evidenziando così quanto sia necessario un cambio di approccio finalizzato al perseguimento di un modello di sviluppo sostenibile. Il concetto di sostenibilità correlato a quello di sviluppo emerge per la prima volta nel rapporto Our Common Future (Bruntland, 1987) redatto nel 1987 dalla prima Commissione Mondiale per l’Ambiente e lo Sviluppo indetta dall’ONU e presieduta da G.H. Bruntland, che lo definisce come “uno sviluppo che soddisfi i bisogni del presente senza compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare i propri bisogni”. Questa definizione costituisce la base per approfondimenti


01

successivi, fino alla recente formalizzazione dei Sustainable Development Goals (SDGs) 3 da parte dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, inseriti nell’azione programmatica Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile che riconosce alle imprese un ruolo determinante per lo sviluppo sostenibile. Nella sua accezione più completa possiamo quindi considerare la sostenibilità come un processo continuo di carattere etico e politico, che sappia coniugare le tre dimensioni della sostenibilità dello sviluppo: ambientale, economica e sociale. Si identifica così un nuovo approccio di sviluppo che focalizza l’attenzione sul perseguimento triplice e contemporaneo di questi obiettivi, definito nella metodologia Triple Bottom Line4 (Elkington, 1994) e basato sulla completa integrazione degli obiettivi in un’ottica di miglioramento continuo (img. 02).

Responsabilità Sociale d’Impresa Come abbiamo potuto capire, all’impresa viene attribuita una dimensione pubblica, inserita in un contesto sociale e ambientale con il quale interagisce in un rapporto di influenza reciproca. La consapevolezza di essere parte integrante di questo sistema e il perseguimento di obiettivi relativi alle tre dimensioni della sostenibilità, porta l’impresa a diventare responsabile. Un primo fondamentale sviluppo sul concetto di Responsabilità Sociale d’Impresa (RSI) lo si deve a Edward Freeman che sottolinea il forte collegamento tra etica e strategia competitiva, formalizzando la Stakeholder management theory o stakeholder view (Freeman, 1984) che sostiene la capacità di un’impresa di generare valore, nel lungo periodo, grazie alla costruzione di relazioni favorevoli con tutti i soggetti portatori d’interesse. Si inizia a riconoscere l’impresa come parte di un ambiente con il quale interagisce e dal

all’impresa viene attribuita una dimensione pubblica, inserita in un contesto sociale e ambientale con il quale interagisce in un rapporto di influenza reciproca e dinamica

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PROFIT

Obiettivi economici

l’impresa per perseguire uno sviluppo sostenibile dovrà possedere la capacità di adeguarsi ai cambiamenti esterni, acquistando una nuova dimensione, definita come resilienza d’impresa

vendite, cash flow, ritorno sugli investimenti

REALIZZABILE

EQUO

Obiettivi di eco-efficienza

Obiettivi socio-economici

SOSTENIBILE PEOPLE

Obiettivi sociali

rispetto diversità, rispetto diritti umani, standard lavoro, sicurezza

PLANET

VIVIBILE

Obiettivi socio-ambientali

Obiettivi ambientali

zero rifiuti, zero emissioni, riciclaggio

02

quale è influenzata, indagando quindi sulla natura di queste relazioni. Con il nuovo millennio emerge sempre più la priorità, per le aziende, di integrare e far propri i principi di Responsabilità Sociale d’Impresa, con una riflessione profonda sui processi produttivi e organizzativi attraverso l’applicazione di strategie lean and green, con sistemi di produzione snelli e una gestione finalizzata alla tutela ambientale e sociale, con conseguenze positive anche sulla competitività e sulle relazioni con gli stakeholder. Importante impulso alla promozione della Responsabilità Sociale d’Impresa è dato dalla presa di coscienza da parte degli organi di governo di quanto questo approccio sia fondamentale per lo sviluppo. In ambito europeo risale al 2001 la definizione ufficiale attraverso la pubblicazione intitolata Libro Verde, per promuovere un quadro europeo sulla responsabilità sociale delle imprese (EU, 2001), nel quale la Commissione Europea identificava la RSI come “l’integrazione su base volontaria, da parte delle aziende, delle preoccupazioni e visioni sociali ed ecologiche nelle loro operazioni commerciali e nei loro rapporti con le parti interessate, vale a dire con gli stakeholder”.

68 OFFICINA*

Assistiamo alla ridefinizione della catena di valore che assume anche una componente sociale connettendosi con il contesto in cui opera in una nuova dimensione di “valore condiviso” (Porter e Kramer, 2007), individuando queste interazioni come nuove opportunità di business inserite nelle strategie aziendali. “La creazione di valore condiviso si focalizza sull’identificazione e sull’espansione delle connessioni tra progresso economico e progresso sociale” (Porter e Kramer, 2011), sottolineando quanto le aziende hanno bisogno di una comunità sana per generare domanda e di quanto la comunità ha bisogno delle imprese per opportunità lavorative e creazione di ricchezza. Questi legami di interdipendenza comportano il superamento di una pianificazione strategica unilaterale in favore di una “governance partecipata” (Zadek, 2006) in cui le diverse realtà, quali il soggetto pubblico, il mondo imprenditoriale e la società civile, contribuiscono alla creazione di valore e al mantenimento in buono stato del “contesto competitivo” (Porter e Kramer, 2007). Il processo di interiorizzazione L’interiorizzazione della Responsabilità Sociale d’Impresa è fondamentale per permettere alle aziende di evolvere e av-

viare un percorso di crescita sostenibile. Questo non è però un processo immediato in quanto richiede alle imprese di mettere in discussione i processi attuati e le strategie adottate, analizzando il contesto competitivo in cui operano e raccogliendo informazioni che permettano l’adeguamento a un nuovo modello organizzativo e gestionale. In questa fase di interiorizzazione, che a tutti gli effetti è un percorso di rinnovamento, diventa essenziale per l’azienda essere accompagnata in un’evoluzione della cultura manageriale e di sensibilizzazione e formazione delle risorse umane interne. Per capire quali possono essere le difficoltà che si riscontrano durante l’avvio di questo percorso verso la sostenibilità ci siamo rivolti a Lifegate, azienda fondata nel 2000 da Marco Roveda e che rappresenta oggi in Italia un punto di riferimento per le tematiche della sostenibilità e supporta le aziende nel loro percorso di sviluppo sostenibile offrendo consulenza su sostenibilità, comunicazione e fornitura di energia rinnovabile. Lifegate inoltre, grazie a un network di comunicazione, è promotore di uno stile di vita sostenibile attraverso il coinvolgimento di una community di oltre 5 milioni di persone.


03

L’analisi preliminare del posizionamento dell’azienda e la formulazione delle strategie di miglioramento è una fase importante per il percorso di cambiamento. Tuttavia Enea Roveda, amministratore delegato di Lifegate, ci spiega che: “se l’applicazione di uno stile di vita sostenibile non è chiaro e non è condiviso dal board e dai dipendenti il lavoro svolto sarà destinato a esaurirsi e a non venire applicato nuovamente. È importante quindi spiegare la sostenibilità e i benefici della sua applicazione in ogni aspetto della propria vita.” Il percorso di interiorizzazione della RSI non può essere gestito attraverso un modello standard, applicabile a ogni azienda, ma deve essere costruito attorno al suo core business, lavorando pro-attivamente con le risorse umane presenti. “In generale le grandi aziende hanno più risorse, ma sono più lente a prendere decisioni e a mettere in pratica i processi. Le PMI invece sono più veloci, ma hanno meno capacità di fare percorsi strutturati sul lungo periodo”, ci spiega Simone Molteni direttore scientifico di Lifegate, che sottolinea anche quanto sia “importante tenere presente che tutte le aziende sono composte da persone: se queste sono attente ai temi legati alla

sostenibilità e aperte al cambiamento si può iniziare facilmente e velocemente un percorso costruttivo.” Impresa resiliente L’interazione costante tra impresa e contesto socio-ambientale è fondamentale per perseguire un percorso di sviluppo sostenibile ma, se consideriamo che proprio il contesto è una realtà estremamente dinamica e mutevole, gli obiettivi condivisi con l’azienda saranno sempre in continua evoluzione. L’impresa per perseguire uno sviluppo sostenibile dovrà possedere la capacità di adeguarsi ai cambiamenti esterni, acquistando una nuova dimensione, definita come “resilienza d’impresa”, che comporta un processo di rinnovamento continuo delle competence identificate nel “capitale intellettuale cognitivo” dell’azienda. Quest’ultimo deve essere inteso come un’evoluzione del capitale intellettuale che si basa sulla condivisione come strumento per moltiplicare la conoscenza senza che questa si esaurisca nel tempo. Un insieme di connessioni e relazioni che amplifica la capacità dell’impresa di generare nuove soluzioni e strategie dinamiche, ampliando esponenzialmente le potenzialità e le opportunità.▲

NOTE 1 - Metafora coniata da Adam Smith e ripresa successivamente da Léon Walras e Vilfredo Pareto. 2 - Ricerca commissionato al Massachusetts Institute of Technology (MIT) dal Club di Roma. 3 - SDGs sono 17 obiettivi principali e 169 target che indicano le priorità globali per il 2030. Assemblea Generale delle Nazioni Unite, Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, 25 settembre 2015. 4 - Approccio Triple Bottom Line anche definito delle 3P (Profit, People, Planet), J. Elkington, 1994. BIBLIOGRAFIA - Commissione delle Comunità Europee, “Libro Verde Promuovere un quadro europeo per la responsabilità sociale delle imprese”, Bruxelles, 2001. - Commissione delle Comunità Europee, “Libro Bianco Responsabilità sociale delle imprese: il contributo delle imprese allo sviluppo sostenibile”, Bruxelles, 2001. - Freeman R. E., “Strategic Management: A stakeholder Approach”, Pitman, 1984. - Friedman M., “Capitalism and Freedom, Chicago”, University of Chicago press, 1962. - Friedman M., “The Social responsibility of business is to increase its profits”, New York, New York Times, 1970. - Einaudi L., “Prediche inutili”, Torino, Einaudi, 1959. - Meadows D. H., Meadows D. L., Randers J. e Behrens W., “I limiti dello sviluppo, Milano”, Mondadori, 1972. - Porter M. E. e Kramer M. R., “Strategie e società”, in “Hardvard Business Review Italia” n.1/2 gennaio/febbraio, 2007, pp. 1-18. - Porter M. E. e Kramer M. R., “Creare valore condiviso”, in “Hardvard Business Review Italia”, n.1/2 gennaio/ febbraio, 2007, pp. 68-84. - Smith A., “An Inquiry into the Nature and Causes of the Wealth of Nations”, Londra, 1776 - Smith A., “La ricchezza delle nazioni”, Roma, Newton Compton, 2008. - Zadek S., “The Logic of Collaborative GovernanceCorporate Responsibility, Accountability, and the Social Contract”, “Working Paper n. 17”, Hardvard University, 2006.

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Ingrid Paoletti è Professore associato presso il dipartimento ABC, Politecnico di Milano e si occupa di materiali e tecnologie innovative per il progetto di architettura. e-mail: ingrid.paoletti@polimi.it

IMMAGINI 01 - Sistema di intreccio per incrementare le prestazioni di cavi. Crediti: Edward Rozzo.

Manufacturing in Architecture is looking slowly but steadily to absorb some of the elements from the strong technological innovation in other areas for the construction sector. Industrialization has responded over time to housing demand in a short time and in large quantities, but what is the demand to answer today? Surely the scarcity of resources, the need to raise the quality of the buildings and to streamline the process among the operators. In this scenario, it is possible to see a very explorative and bold attitude of some industrial manufacturers who found the key to rethinking and updating manufacturing techniques in order to respond to the changing instances of a complex and changing reality. The article will highlight what are some of the key factors for the development of new materials, processes, products and constructive systems, but also what needs can or will be able to respond in the short or long term.

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Osare fare La manifattura adattiva per l’architettura

industria porta con sé un significato nobile, di efficienza, mentre il termine spesso usato per le costruzioni è industrializzazione, che ha invece una forte connotazione legata agli anni della prefabbricazione e spesso viene associata a un linguaggio architettonico povero e di scarsa qualità. Nel contesto architettonico mi sembra più corretto il termine “manifattura”, in quanto già dall’etimologia della parola intende un processo di trasformazione che coinvolge il lavoro umano: manu facĕre ossia “fare con la mano” (Treccani). Si parla ormai molto spesso di Industria 4.0, mutuando un termine coniato in Germania, che voleva implementare un’industria molto forte nell’automazione a spingersi oltre i propri limiti con sistemi in grado di interagire con i dati e adattarsi al cambiamento. In contrasto con le passate tre rivoluzioni industriali, per l’imminente quarta rivoluzione non esiste una singola tecnologia che sia stata identificata come seme dell’Industria 4.0, ma è piuttosto visibile la coniugazione di più tecnologie - sia esistenti sia nuove - che collaborano insieme. Questa combinazione di tecnologie porta a nuove opportunità e applicazioni di sistemi di produzione in relazione al prodotto da realizzare, da qui il termine “manifattura adattiva”. L’industrializzazione del dopo guerra nasceva dall’esigenza di rispondere alla richiesta di molti alloggi in tempi brevi, ed esprimeva così la fiducia del mondo

- dopo un conflitto bellico - nella tecnologia del proprio tempo. Ma qual è l’esigenza a cui rispondere oggi? Sicuramente la scarsità di risorse e il loro uso più consapevole è il primo e più importante motore di questa trasformazione, il secondo luogo l’efficientamento dei processi di costruzione tendendo a minimizzare il margine di improvvisazione legato al cantiere e infine l’incremento di trasparenza dei processi nel passaggio delle informazioni tra le diverse figure. Ecco allora visibile lo sforzo di alcune industrie di migliorare i propri processi in quest’ottica di capacità di portata, cercando di mantenere efficienti i processi esistenti ibridandoli con nuovi strumenti produttivi. I più conosciuti sono ormai, la stampa additiva e la robotica, intesi come strumenti che possono, dove necessario, contribuire alla personalizzazione della produzione. Due esempi alquanto significativi. Il primo è la produzione tramite stampa additiva di casseri e il secondo è lo sviluppo di prodotti avanzati in stabilimento per altissime prestazioni. La realizzazione di stampi personalizzabili con tecniche di stampa additiva permette di realizzare casseri, per esempio per materiali cementizi, in grado di produrre forme che non potrebbero essere realizzate in altro modo. La personalizzazione del cassero può consentire adattamenti rispetto al terreno, alla condizioni atmosferiche, al materiale impiegato in maniera molto efficace. In aggiunta si possono realizzare fori, pattern sulla superficie e forme del tutto inusuali e che sarebbero carissime con materiali tradizionali, se non irrealizzabili.


01

Per quanto riguarda lo sviluppo di prodotti dalle elevate prestazioni si può pensare al caso di trasferimento tecnologico dei cavi per irrigidirli, processo nato nell’industria dell’auto e oggi trasferibile all’architettura per le elevatissime prestazioni che può garantire nei progetti di strutture in climi estremi, strutture con cavi, sistemi costruttivi a secco che necessitano di essere smontati. Si tratta di una manifattura che potremmo chiamare “adattiva”, che risponde alle necessità del mercato locale con tecniche personalizzabili alla scala della produzione industriale, spesso molto avanzata nella ricerca di materiali e utensili. Questo tipo di manifattura ben si adatta al settore delle costruzioni che non vede nella ripetitività l’occasione di provare procedimenti e prodotti ma che è neces-

sariamente legato all’unicum dell’edificio e che non possiede tutta quella fase di test di un prototipo tipico degli altri settori. Oggi di fatto non è possibile ne auspicabile non cogliere le innovazioni che molto velocemente efficientano i processi sviluppando tecniche e materiali

la manifattura adattiva implica l’ibridazione di processi ripetitivi con processi di personalizzazione

che consentono di ridurre l’impiego di materia prima (stampa additiva) o di incrementare le prestazioni (intreccio di fibre performanti). Per concludere, credo valga la pena di esplicitare la fonte di ispirazione del titolo dell’articolo: esso viene dalla libera ispirazione di un recente testo di poesie di Cesare Viviani dal titolo Osare dire nel quale si annovera questa poesia, che sicuramente non è stata pensata per l’architettura ma che forse può esserle molto vicina per la volontà di infondere coraggio. “Com’è, come sarà vivere senza ricevere aiuto, senza favori, protezioni, senza materne associazioni, anche quando la febbre sale, anche quando il fiume straripa e travolge il riparo, orto e baracca. Sarà come vive il resto della natura, vicino ai predatori e senza paura”.▲

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BIM NOTES

Carlo Zanchetta è PH., docente di Produzione edilizia presso l’Università degli Studi di Padova e ingegnere libero professionista - BIM Manager. e-mail: carlo.zanchetta@unipd.it Paolo Scarparo è ingegnere libero professionista BIM Manager. e-mail: paolo.scarparo@gmail.com

IMMAGINI Crediti: Carlo Zanchetta e Paolo Scarparo. 01 - Scomposizione della WBS tridimensionale in domini BIM e CPM collegati tra loro da funzioni di mappatura. 02 - Mappatura dei domini disciplinari del BIM e del CPM e collegamento attraverso il modulo analisi prezzi. 03 - Interpretazione dei valori della Earned Value Bubble chart.

The paper focuses on the necessity to manage the overall sustainability of different design options in the construction industry by adding the economic aspects to the concurrent evaluation criteria. Thanks to its interoperability, BIM is leading a key role in extracting KPI capable to keep coordinated performances, costs and processes and leverage value in engineering processes. The problem of expressing the decomposition of the building structure from a technological, functional and spatial perspective and the possibility of minimizing the parameters (building element and zone) controlling this decomposition points out the importance of using IFC with particular reference to its classifications and standardized rules. The study reveals how it can be possible to reduce the complexity of the problem to a BIM based bi-dimensional approach by creating an interference matrix between the building element breakdown and the definition of a building spatial organization. This organization of the model supports a fully coordinated engineering process that positively affects building sustainability.

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La costruzione del valore

Capitalizzare la standardizzazione dell’informazione e la relazionalità dei modelli informativi

a sostenibilità della trasformazione antropica dell’ambiente rappresenta un tema cardine per tutte le discipline umane e in particolare per il settore delle costruzioni, responsabile da solo per il massimo consumo di risorse dell’intero pianeta1. Il tema è problematico in quanto va affrontato contemporaneamente in termini ambientali, economici e sociali2 , tenendo in considerazione le mutue relazioni che tra questi intercorrono, per cui a una precisa strategia di sviluppo economico corrispondono una specifica impronta ecologica e un determinato impatto sociale (Huesemann, 2013). La trattazione di problemi complessi richiede approcci sistemici governati da indicatori di prestazione (Key performance indicators o KPI) che permettano di ridurre a pochi fattori significativi il numero elevato di variabili e l’alto livello di interdipendenza delle stesse. In relazione al tema della sostenibilità è fondamentale individuare quei KPI che permettono di discernere le opzioni di sviluppo che ottimizzano il rapporto tra gli impatti ambientali e sociali e i costi sostenuti. Il bilancio tra i primi, intesi come espressione della qualità di un prodotto o servizio, e i secondi, intesi come i relativi costi, è definito in letteratura come valore (Miles, 1967; Maffei, 2001). La Gestione del Valore (Value Management) è la disciplina che persegue la definizione di strumenti e metodi per lo sviluppo di prodotti o servizi finalizzati

al soddisfacimento di esigenze espresse o implicite (UNI 8289) massimizzando il rapporto tra fattori di qualità e costi nel ciclo di vita3. È chiaro come tale approccio interdisciplinare e sistemico sia imprescindibile e che quindi la Gestione del Valore debba essere compiutamente inserita nel novero delle discipline di progetto. In quest’ambito si registra la necessità di produrre modelli di studio finalizzati all’analisi coordinata di una pluralità di problematiche che si influenzano reciprocamente. Questa interdipendenza dei risultati impone un’analisi multicriteriale fondata su modelli di studio interoperabili e relazionali che possono essere sviluppati solo ricorrendo all’utilizzo di modellazioni di tipo parametrico e informativo, ossia building information models. L’analisi dei costi di costruzione e gestione di un organismo edilizio passa attraverso la possibilità di collegare a ciascun elemento le relative funzioni di costo e agire quindi sul database risultante esplicitandone l’organizzazione e la struttura attraverso la work breakdown structure (WBS) ed estraendo delle query. Questa competenza espone fattori di complessità assolutamente rilevanti legati al fatto che l’attribuzione di costo avviene con criteri differenti a seconda delle tipologie di prodotto, delle collocazioni di questi nell’ambito dell’organismo edilizio e dei processi connessi con la loro realizzazione e allestimento. Ciascuna applicazione di model authoring agisce in modo differente nell’approcciare la gestione delle scomposizioni


ABS (a)

WBS=∑WP=WBS (p,a,z)

Sistemi CPM wp (p,z,a)

ZBS(z)

BIM PBS(p)

01

tecnologico funzionali degli organismi edilizi. Tuttavia la definizione di questa scomposizione non nasce esclusivamente dalla sensibilità del progettista ma origina dallo studio dei sistemi edilizi e dallo sviluppo della loro organizzazione. Lo sviluppo della disciplina della progettazione esigenziale prestazionale ha contribuito a sviluppare un approccio alla progettazione orientato al soddisfacimento delle esigenze dell’utenza (Blachere, 2015). In questo senso la relazione tra le funzioni svolte dall’organismo edilizio nei differenti spazi che lo compongono e le prestazioni evase dagli elementi tecnici che li configurano si esprime attraverso il progetto e la redazione del modello. Questa relazione esplicita la caratterizzazione funzionale, prestazionale e topologica degli elementi tecnici sulla base della quale è possibile impostare una corretta attribuzione dei costi. La relazione tra spazio, funzione ed elemento tecnico è quindi un’informazione essenziale da tracciare nello sviluppo del progetto e quindi trasmettere alle differenti discipline che lo compongono. Grazie a questa relazionalità tra elementi e spazi, offerta dai modelli BIM, si può sempre analizzare uno specifico problema, una specifica esigenza dell’utenza, e generare selezioni filtrate di elementi tecnici alle quali assegnare specifiche di prestazione che perseguano l’obbiettivo della loro rispondenza a determinati requisiti. Questa progressiva differenziazione rappresenta la vera competenza necessaria per una corretta progettazione tecnologica e conseguente attribuzione dei

costi. È quindi evidente che la disciplina della quantificazione economica dei progetti non è tanto legata alla capacità di computare gli oggetti afferenti ad una determinata funzione di costo quanto piuttosto alla capacità di attribuire, ad ognuna di queste specificazioni, una idonea fornitura o lavorazione, la quale sia compiutamente definita sia sotto il profilo dei costi che dei processi di realizzazione. Questa mappatura, una volta estesa a tutte le discipline del processo edilizio, offre una rappresentazione dell’organismo che ne accompagna l’eventuale scomposizione. Lo sviluppo e il controllo del progetto tecnologico dell’architettura passa necessariamente attraverso la mappatura e classificazione di queste relazioni e trova in IFC un capitale culturale collettivo che contribuisce alla sua chiarificazione e qualificazione. Al di là di offrire una piattaforma per la interoperabilità dei software, IFC fornisce anche l’architettura organizzativa del sistema edilizio mappando le relazioni tra prodotti, attività e risorse. Sulla base di queste relazioni è possibile sviluppare una specificazione prestazionale che, correttamente, non viene esplicitata da sottoclassi IFC ma può essere espressa ricorrendo a sistemi di classificazione tecnologica di prodotto. È evidente che gli aspetti della classificazione e della scomposizione gerarchico analitica non sono separati in quanto a ciascun sistema di classificazione corrisponde tipicamente una relativa organizzazione e quindi alla pluralità dei

possibili sistemi di classificazione di un singolo oggetto corrisponde potenzialmente l’appartenenza a una molteplicità di gerarchie: per funzione, collocazione, morfologia, ecc. (Jorgensen, 2011). I sistemi più noti offrono una scomposizione di tipo tecnologico prestazionale legata alla individuazione di unità responsabili dell’espletamento di specifiche funzioni del sistema edilizio, altri sistemi offrono scomposizioni di tipo geometrico costruttivo (Mandolesi, 1978). Tutto questo porta a pensare la disciplina della classificazione e organizzazione dell’opera in senso dinamico. La WBS è quindi la rappresentazione delle relazioni che caratterizzano l’organismo edilizio, filtrata in base alle specifiche discipline di progetto. È quindi necessario pensare alla generazione di differenti WBS disciplinari (WBSd). Garantire la coerenza di questo insieme di rappresentazioni significa impostarne la produzione agendo direttamente sulla traduzione digitale del sistema edilizio offerta dal BIM. Per fare in modo che ciascuna delle scomposizioni di progetto illustri tutti gli elementi che la compongono è necessario assicurarsi che ogni elemento esponga una pluralità di codici, dipendentemente dal numero di funzioni che esso è chiamato ad espletare. Una risposta a questa necessità è offerta dai sistemi di classificazione a faccette, quali ad esempio Uniclass o Omniclass (con le relative specificazioni Uniformat e Masterformat), i quali possiedono senza dubbio una maggiore flessibilità rispetto alle tradizionali tassonomie gerarchico-

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BIM

P/ZBS

ABS attività

risorsa h

progetto componente

prodotto edilizio

OBS

CPM

muro

la relazione tra spazio, funzione ed elemento tecnico è quindi un’informazione essenziale da tracciare nello sviluppo del progetto

risorsa m attività

componente edilizio

prodotto edilizio

progetto componente

prodotto edilizio

progetto componente

prodotto edilizio

attività

attività risorsa k

Lista quantità

enumerative quali la UNI 8290 permettendo raggruppamenti di tipo differente (Biscaya et al., 2007). Il principio applicato è che per qualsiasi tipo di elemento tecnico in un modello BIM può essere: - tracciata la corrispondenza a specifici aspetti prestazionali grazie alla sua referenziazione alle zone di appartenenza; - esplicitata la relativa classificazione per prodotto, per funzione, per ciclo di produzione, ecc. (Laakso, 2016). Lo strumento attraverso il quale può essere gestita la pluralità delle classificazioni è la IfcClassificationNotation class4. Ciò si ottiene attraverso l’utilizzo di istanze multiple di IfcRelAssociatesClassification, ciascuna dedicata a una particolare notazione di classificazione e agli oggetti classificati da questa notazione. In un siffatto quadro analitico e operativo è possibile descrivere la WBS come il luogo definito dall’insieme delle work packages di cui è composto il progetto (img. 01). Ciascuna work package è individuata univocamente da un set di tre coordinate: product (p) – zone(z)– activity (a) (Moine, 2013). La ricerca sviluppata ha indagato la possibilità di ridurre il problema n dimensionale della definizione della WBS ad un problema bidimensionale agendo sulle relazioni di prodotto e di zona esplicitate dal modello BIM. Si è compreso infatti che la pianificazione del processo di realizzazione dell’opera è condiziona-

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risorsa n

serramento

Programmazione del progetto

Schema organizzativo

02

ta da criteri di prioritizzazione legati ai seguenti aspetti: - alla distribuzione spaziale degli elementi (relazione prodotto - zona): aggetto dei solai del livello N prima del livello n+1; - ai cicli produttivi del singolo elemento (informazioni del singolo prodotto); ad esempio: casseratura - armatura - getto - disarmo; - alle interferenze tra un elemento e le discipline a questo funzionalmente o spazialmente collegate (relazione prodotto A/prodotto B o relazioni prodotto - zona); ad esempio: funzionalmente la realizzazione dei tamponamenti dopo il completamento delle strutture portanti, spazialmente la realizzazione delle assistenze murarie dopo l’impostazione dello strato portante delle pareti e prima della loro finitura. Esistono poi criteri di pianificazione esterni al progetto e determinati da questioni logistiche o di gestione dei contratti di subappalto. Tali criteri esulano totalmente dall’insieme di relazioni e regole che possono essere comunicate attraverso un modello BIM e, correttamente, trovano spazio negli strumenti di Project e construction management esterni al BIM ma relazionati a questo. Il concetto che si vuole esprimere è che, alla pari della computazione metrica, anche nell’ambito della programmazione operativa l’obiettivo non sia tanto associare una durata a una fornitura ma determinare i criteri e i vincoli che

condizionano il dimensionamento di tale attività. L’obiettivo scientifico è quindi capitalizzare la disponibilità di tali informazioni, presenti in un modello BIM, esportandole in strumenti di CPM dove poter precisare il modo in cui un soggetto proponente intende garantire la corretta e tempestiva attuazione dei singoli processi. Avere determinato il collegamento tra l’insieme dei prodotti contenuti nel BIM (PBS-ZBS) e delle attività e delle risorse assegnate (ABS-OBS) gestite in sistemi di Project e Construction Management (CPM) esterni al modello comporta alcuni risultati strategici (img. 03): - si introducono nella organizzazione della PBS e della ABS le cardinalità espresse dagli strumenti BIM di coordinamento topologico (livelli, zone, griglie, ecc.) permettendo di impostare la struttura dei cronoprogrammi e dei computi metrici; - viene ricondotta alle caratteristiche degli oggetti del modello (quantità e vincoli) la definizione delle durate unitarie compilando, nel modulo CPM esterno al modello, il valore relativo alle incidenze della manodopera; - viene pianificata l’effettiva attuazione del processo realizzativo integrando in CPM i vincoli e i criteri indipendenti dal progetto (condizioni operative dell’azienda proponente) con quelli specifici del progetto direttamente comunicati dal BIM via IFC;


2,4

SPI<1

Bassa produttività

2,1

CPI>1

Bassi costi

Problematiche tecnico-produttive

1,8

CPI Periodo

1,5 1,2 0,9 0,6 0,3 0

SPI<1

Bassa produttività

-0,3

CPI<1

Alti costi

-1,4

-1,2

-1

Problematiche economiche e tecnico-produttive -0,8

-0,6

-0,4

-0,2

1

1,2

SPI>1

Alta produttività

CPI<1

Alti costi

1,4

1,6

1,8

Problematiche economiche 2

2,2

SPI Periodo 100

200.10

200.20

200.30

800

03

- viene collegato il cronoprogramma al computo metrico del progetto permettendo di programmare l’erogazione dei costi in fase di programmazione operativa e di rendicontazione (coordinamento 4D-5D). Strumenti e applicazioni La disciplina dell’analisi prezzi, e la relativa interfaccia nell’ambiente CPM, sono una parte fondamentale di tutto il processo proposto. Nello specifico, lo studio sviluppato ha testato la possibilità di collegare un modello IFC con una applicazione di CPM (STR Vision CPM di TeamSystem) esplicitando nel modulo di analisi prezzi il collegamento tra BIM e una serie di informazioni fondamentali per referenziare la modellazione 5D alla programmazione 4D: - il database dei prezzi unitari, per ottenere i costi; - il database delle incidenze della manodopera per ottenere le durate unitarie delle lavorazioni; - il numero di risorse assegnate a ciascuna tipologia di lavorazione per determinarne le durate effettive e la presenza in cantiere al fine di impostare il coordinamento per la sicurezza in fase di esecuzione. STR Vision CPM di TeamSystem è una soluzione per il Project e construction management che acquisisce sistemi informativi edilizi attraverso il formato IFC dal quale estrae i dati e al quale collega database di prezzi, programmazioni temporali e

di incidenze della manodopera. Lo strumento permette di gestire i vari listini, che si vengono ad alternare lungo il processo edilizio, permettendo di mantenere uno storico e una coerenza tra i vari step di computazione e programmazione. Associati i vari elementi del modello alle relative analisi prezzi, è possibile generare un cronoprogramma in “revisione zero”, cioè con tutte le lavorazioni parallele, con inizio il primo giorno del calendario, e con una risorsa unitaria assegnata. Conoscendo i turni giornalieri delle squadre e le risorse assegnate a una lavorazione, è possibile stimare la durata della lavorazione in maniera analitica e beneficiando dei vincoli logici acquisiti tramite IFC. Al variare delle risorse assegnate, la durata delle lavorazioni si adeguerà di conseguenza, in virtù della relazione stabilita al momento dell’analisi prezzi. La fase realizzativa genererà una serie di informazioni che dovranno essere acquisite tramite i “rapporti di cantiere”, i quali dovranno dialogare con il programma creato attraverso i codici WBS al fine di verificare che quanto programmato sia realmente realizzato (rapporti e consuntivo) e che lo sviluppo della fase realizzativa sia economicamente sostenibile. Conclusioni Una volta implementata questa mappatura delle informazioni è infatti possibile monitorare i dati provenienti dal cantie-

re e impostare tecniche di Earned Value Management finalizzate a determinare la sostenibilità economica del processo costruttivo (img. 03) verificando gli indici di prestazione Schedule Performance Index (SPI) e Cost Performance Index (CPI).▲ NOTE 1 - International Energy Outlook 2007, United States Department of Energy - Washington, DC. 2 - 2005 World Summit Outcome pt 48: Promote the integration of the three components of sustainable development — economic development, social development and environmental protection — as interdependent and mutually reinforcing pillars. 3 - UNI EN 1325-1 Vocabolario della gestione del valore, dell’analisi del valore, dell’analisi funzionale, Decreto Legislativo n° 163/2006 e s.m.i. “Codice dei Contratti Pubblici”. 4 - www.buildingsmart-tech.org/ifc/IFC2x3 (presa visione luglio 2017). BIBLIOGRAFIA - Becker R., Foliente G., “Performance Based International State of the art”, PeBBu 2nd International SotA Report, CIBdf, Rotterdam, 2005. - Biscaya V.N., Tah H. M., “A literature review on information coordination in construction”, in “Proceedings of the Seventh International Postgraduate Research Conference in the Built and Human Environment”, University of Salford, 2007. - Huesemann M.H., “The limits of technological solutions to sustainable development.” In “Clean Technologies and Environmental Policy”, 2003, n. 5.1, pp. 21-34. - Jørgensen K.A., “Classification of Building Object Types: Misconceptions, challenges and opportunities”, Misopfattelser udfordringer og muligheder, 2011. - Laakso M., Linus N., “Exploring the Relationship between Research and BIM Standardization: A Systematic Mapping of Early Studies on the IFC Standard (1997–2007)”, in “Buildings”, 2016, n. 6.1, p. 7. - Maffei P.L., “Il concetto di Analisi del Valore nell’Architettura Tecnica”, il Sole24ore, Milano, 2001. - Mandolesi E., “Edilizia”, Utet, Torino, 1978. - Miles L.D., “L’analisi del valore”, Etas Kompass, Milano, 1967. - Moine J., “3D Work Breakdown Structure method”, in “PM World Journal”, 2013, n. II(Iv), pp. 1–26.

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MICROFONO ACCESO

Francesca Guidolin è laureata in Architettura e Ph.D. in Tecnologia dell’architettura, Università Iuav di Venezia. e-mail: arch.francesca.guidolin@gmail.com

IMMAGINI 01 - Gianni Silvestrini, autore di “2°C, Innovazioni radicali per vincere la sfida del clima e trasformare l’economia”, Edizioni ambiente, Milano, 2016. 02 - Anomalia globale della temperatura superficiale. Rilevazioni dal 1880 al 2015. Elaborazione immagine di Francesca Guidolin su dati J. Hansen, R. Ruedy, M. Sato, and K. Lo, NASA. 03 - L’aumento della temperatura terrestre, in comparazione con le temperature registrate tra il 1880-1899. Rilevazioni dal 1980-1985 / 1990-1995 / 2000-2005 / 2010-2015. Elaborazione immagine di Francesca Guidolin su dati NASA e NOAA. 04 - Copertina del libro “2°C, Innovazioni radicali per vincere la sfida del clima e trasformare l’economia”, Edizioni ambiente, Milano, 2016.

In this interview, Gianni Silvestrini, author of the book 2 °C, Innovazioni radicali per vincere la sfida del clima e trasformare l’economia, talks about the burning issue of the global warming through the analysis of its causes and effects. The analysis is carried out not only by exploring the state of the art, but also the projection for the future, taking into account the contemporary political, social and economic forces that are relating to this worldwide problem. The 2°C threshold is the maximum target for climate warming. In the article, Gianni Silvestrini analyses this topic arguing with the challenges of nowadays: form 2015 to 2016 the publication has already been revisited and updated: also in 2017 some important changes has introduced important variations of the climatic scenario.

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Gianni Silvestrini 2°C, la soglia del pianeta

L’elemento fuoco, il primo dei quattro elementi naturali fondamentali, da secoli associato all’energia nelle sue molteplici forme, rappresenta metaforicamente in questo numero di OFFICINA* uno dei principali problemi terrestri: quello del surriscaldamento globale, che vede ormai da diversi decenni numerosi Paesi impegnati per trovare una soluzione. Per questo abbiamo intervistato Gianni Silvestrini, già presidente del Green Building Council Italia, associazione no-profit per la promozione dell’edilizia sostenibile ed ecocompatibile, il network italiano afferente al World Green Building Council. Silvestrini è direttore scientifico di QualEnergia e del Kyoto Club, organizzazione no-profit, creata nel febbraio del 1999, costituita da imprese, enti, associazioni e amministrazioni locali, impegnati nel raggiungimento degli obiettivi di riduzione delle emissioni di gas-serra assunti con il Protocollo di Kyoto, con le decisioni a livello UE e con l’Accordo di Parigi del dicembre 2015. Nel suo libro 2°C, Innovazioni radicali per vincere la sfida del clima e trasformare l’economia (Edizioni ambiente, 2016), Silvestrini analizza le prospettive connesse al riscaldamento globale, offrendo una panoramica articolata su cause, effetti e possibili soluzioni tecnologiche e non per contrastarlo, rimanendo così al di sotto della soglia dei 2°C, il punto di non ritorno. Il libro è edito nel 2015 ma per la velocità dei cambiamenti dei quali esso tratta, è già stato oggetto di un aggiornamento nel 2016. Nei sedici capitoli sono posti diversi interrogativi e altrettante risposte alla sfida del cambiamento climatico: l’innovazione tecnologica riveste un ruolo principale, che necessita però di un continuo e compatto supporto politico e culturale. Nel suo ultimo libro, 2°C, affronta il problema del riscaldamento globale, con un dettagliato discorso esteso alle cause, conseguenze e soluzioni possibili. Lo scoglio al raggiungimento dell’obiettivo è secondo lei, più di tipo culturale e sociale o politico? Le trasformazioni necessarie per decarbonizzare l’economia mondiale sono così profonde da lasciare senza fiato. Ma proprio la radicalità e la rapidità dei cambiamenti sono poco comprese da larga parte dei nostri decisori politici e imprenditori. Lo scopo di 2°C è proprio quello di illustrare non solo la gravità delle sfide che dobbiamo affrontare, ma anche le notevoli potenzialità connesse con l’irruzione di alcune tecnologie definite disruptive, proprio per l’effetto dirompente nei settori (energia, trasporti, edilizia…) in cui si inseriscono. Dunque abbiamo strumenti potenti a disposizione, ma il loro corretto e incisivo impiego dipenderà da scelte politiche. Come saranno necessari anche cambiamenti comportamentali, modifiche degli stili di vita. Pensiamo all’alimentazione o al trasporto. La riduzione del consumo di carne e l’aumento dell’uso della bicicletta saranno indispensabili per “alleggerire” la nostra presenza sul pianeta.


Nella prefazione al suo libro Luca Mercalli contrappone efficienza dell’innovazione nel campo della tecnica e lentezza dei meccanismi politici che dovrebbero favorirla. Secondo lei, quali sono le possibili soluzioni adottabili per ridurre questo gap? In realtà, vi è una chiara interdipendenza tra scelte politiche ed evoluzioni tecnologiche. Prendiamo l’esempio delle fonti rinnovabili. La decisione europea di introdurre obiettivi legalmente vincolanti al 2020 è stata determinante nel favorire la produzione su larga scala di queste tecnologie. Si sono infatti così create le premesse per una drastica riduzione dei prezzi che ha consentito al solare e all’eolico di passare da fonti “marginali” a tecnologie centrali nello scenario energetico mondiale. Ma vale anche il ragionamento inverso. Quando nel 2009 a Copenaghen si cercò di avviare un percorso post-Kyoto coinvolgendo anche i Paesi emergenti e quelli in via di sviluppo, l’operazione non riuscì, malgrado l’impegno del neoeletto Obama. Lo stesso Obama è stato poi uno degli artefici del successo dell’Accordo sul Clima di Parigi nel 2015. Un successo legato anche alla consapevolezza del ruolo decisivo di tecnologie come il fotovoltaico, che in soli sei anni avevano visto i prezzi calare del 60%. Si parla sempre di più di cambiamenti climatici. È diventato un “tema caldo”. Cosa ne pensa? Fino a che punto l’opera di divulgazione riguardo a quest’urgenza ha ripercussioni nell’attuazione di misure per combattere il problema? Il 2015 ha battuto di gran lunga tutti i record di temperatura su scala globale. Per esser poi sorpassato dalle rilevazioni del 2016. E anche quest’anno i valori sono molto più elevati della media del secolo scorso. La comunità scientifica nel corso degli ultimi trent’anni ha progressivamente ridotto i margini di incertezza sui rischi climatici e ha lanciato segnali di allarme sempre più decisi. Il successo, in qualche modo imprevisto, dell’Accordo di Parigi con l’adesione di tutti i Paesi (con l’eccezione della Siria in guerra e del Nicaragua che lo valutava troppo debole) sta mettendo in moto politiche in grado di invertire la corsa alle emissioni. Naturalmente ci sono forze che remano contro, che seminano confusione facendo credere che i climatologi siano divisi sulla valutazione dei rischi. E la presidenza Trump farà perdere tempo prezioso in dispute inutili.

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le trasformazioni necessarie per decarbonizzare l’economia mondiale sono così profonde da lasciare senza fiato

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la richiesta di introdurre l’obiettivo molto sfidante di 1,5°C da non superare rispetto ai livelli preindustriali è stato inserito nel testo per la pressione di alcuni Paesi che sarebbero a rischio anche se la temperatura non sorpassasse i 2°C

03

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La politica americana nei confronti dei cambiamenti climatici. Quali potrebbero essere gli scenari determinati dall’uscita degli USA dall’Accordo di Parigi? Ci saranno certamente effetti negativi come l’annunciato taglio dei finanziamenti alla ricerca climatica. Ma si stanno registrando anche reazioni positive, in particolare all’interno degli USA. Così, il Senato della California ha votato una proposta per introdurre l’obiettivo del 100% di elettricità da rinnovabili entro il 2045. E, alla conferenza delle città statunitensi di fine giugno, oltre 250 sindaci hanno aderito a una risoluzione che prevede di soddisfare la domanda elettrica con le rinnovabili entro il 2035. Sono inoltre molte le imprese che hanno autonomamente definito obiettivi stringenti di decarbonizzazione. Per non parlare dei movimenti ambientalisti che hanno visto un aumento del sostegno alle iniziative sul clima e delle università in prima linea su questo fronte. Insomma, la minaccia di Trump di uscire dall’Accordo di Parigi sta facendo emergere un vasto e agguerrito movimento contro i rischi climatici.

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Dal limite di 2°C a quello di 1,5°C. Quali sono le premesse indispensabili alla realizzazione di quello scarto di 0,5°C di cui lei parla nel suo libro? La richiesta di introdurre l’obiettivo molto sfidante di 1,5°C da non superare rispetto ai livelli preindustriali è stato inserito nel testo per la pressione di alcuni Paesi, pensiamo alle isole del Pacifico, che sarebbero a rischio anche se la temperatura non sorpassasse i 2°C. Si tratta di un segnale forte di cui si dovrà tenere conto nell’elaborazione degli scenari nazionali di riduzione delle emissioni al 2050. Resta il fatto che anche il mancato superamento della soglia di 2°C comporterà sforzi notevoli, implicando un’accelerazione rispetto alle politiche finora adottate. Da questo punto di vista ci sono comunque segnali positivi. è il caso della Cina, le cui emissioni sono superiori a quelle congiunte di USA e Europa. Pechino si era infatti impegnata a raggiungere un picco della CO2 al 2030. In realtà, negli ultimi tre anni la produzione di anidride carbonica si è stabilizzata grazie al calo dell’impiego del carbone e alla corsa delle rinnovabili. Un risultato molto importante per la lotta climatica. La seconda edizione di 2°C, del 2016 ha richiesto l’aggiornamento non solo di dati ma anche di alcuni capitoli rispetto alla prima, di solo un anno precedente. In rapporto a questa velocità di modificazione della situazione climatica quali sono i temi che più sono andati modificandosi al 2017? In effetti, se dovessi lavorare a una terza edizione dovrei rielaborare ancora in maniera incisiva alcuni capitoli. E non soltanto per descrivere l’evoluzione della diplomazia del clima, con il forcing che ha portato in tempi rapidissimi all’entrata in vigore dell’Accordo di Parigi, mentre per l’avvio formale del Protocollo di Kyoto sono stati necessari oltre sette anni. E poi per approfondire gli scenari che si aprono dopo la decisione di Trump. Ma anche sul fronte delle disruptive technologies, le tecnologie che hanno un effetto dirompente nei settori in cui si inseriscono. Il fotovoltaico e l’eolico hanno visto un’accelerazione della curva discendente dei costi tanto da consentire a un numero crescente di progetti di competere con le centrali termoelettriche. Nel campo del fotovoltaico, ad esempio, abbiamo avuto recentemente il primo caso in Italia di una sessantina di MW solari collegati alla rete senza bisogno di incentivi. Questa dinamica è particolarmente significativa in paesi come India e Cina perché consente di interrompere la corsa al carbone e di puntare sulle rinnovabili.▲

N.18 LUG-SET 2017 79


CELLULOSA

a cura di

Falena e fiamma Voci fuori campo Ali Smith Sur 2017 (copertina di Riccardo Falcinelli)

www.libreriamarcopolo.com

sullo scaffale

Erskine Caldwell La via del tabacco Fazi, 2011

“Ma in quel momento entrò dalla finestra una grossa falena che prese a svolazzare attorno alla fiamma di una candela. Era più forte di loro, scherzare con il fuoco, erano geneticamente programmate per essere attratte dalla luce, e naturalmente per loro ogni fonte di luce era una sorgente d’amore. Se volavano ebbre nell’aria dirette verso la luce, era perché credevano, geneticamente, di aver trovato la loro Superfalena, la sola falena al mondo creata apposta per loro. Nelle notti serene cercavano addrittura di raggiungere la luna, quando c’era la luna piena. Senza preamboli, questa falena si fiondò nella fiamma e cadde sul tavolo con un tonfo rumoroso. Era marroncina. Si ribaltò due o tre volte. Michael riuscì a scorgere i lineamenti della faccia pelosa della falena che si dimenava aiutandosi con l’ala (aveva sempre avuto una vista ottima, occhi buoni; quarant’anni e passa e nessun bisogno di occhiali o lenti a contatto di alcun tipo). Falene attratte dalla luce! Scherzare con il fuoco! Il professor Michael Smart ridotto a una serie di cliché! Anche se il cliché era davvero entusiasmante come concetto. Era una verità oscurata da un eccesso di espressione, no? Come una costruzione nella nebbia, qualcosa in attesa

80 OFFICINA*

di essere riscoperto dal tatto, dalla vista. Un oggetto grazioso tastato con guanti spessi. Il cliché, naturalmente, conteneva una verità, e per questo diventava cliché: il luogo comune era così vero che ti proteggeva dalla sua stessa verità tramite la sua semplice natura di cliché. La pubblicità, per esempio, amava il cliché perché era un classico esempio di verità delle masse. C’era stata una conferenza su questo tema, forse per il corso Livelli di lettura. [...] Larkin, per esmpio, il Sid James della poesia lirica inglese [...] conosceva il potere del cliché. Ciò che resterà di noi oltre la morte darà l’amore. [...] O quando Hemingway, per esempio, aveva scritto prima che qualcuno altro avesse anche solo pensato di esprimere un simile concetto, sentisti la terra muoversi [...], avrebbe mai immaginato che quella frase sarebbe entrata nella lingua di tutti i giorni? Entrare! Nella lingua! Il cliché faceva veramente muovere la terra, una volta che se ne capiva il senso, quando lo si toccava con mano, per la prima volta. Terra e movimento, un terremoto, uno spostamento stridente e rovinoso, delle zolle immerse nel calore, sotto la cintura e sotto i piedi. Falena e fiamma. Hic et nunc, Michael aveva visto, percepito e udito la drammaticità del preciso istante [...]”▲

Giulia Sagramola Incendi estivi Bao Publishing, 2015

Mario Benederri Grazie per il fuoco La Nuova Frontiera, 2011


(S)COMPOSIZIONE

Confusione “Se tu credi che il carbone bruci meglio, è un abbaglio, è petrolio. Comunque se ami più del fuoco il fumo di un cero, non usare l’oro nero” Lucio Battisti, Confusione, Il mio canto libero, 1972

Immagine di Emilio Antoniol



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