ISSN 2532-1218
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n. 21, aprile-maggio-giugno 2018 Natura
Barbabietole di Elena Veronese La natura nelle sue forme più semplici e più vicine all’uomo poiché elemento della sua nutrizione, ma non per questo prive di una loro poeticità. Elena Veronese è fotografa e designer di prodotto e grafica con base a Berlino
www.elenaveronese.info
Stefania Mangini
Oltre i limiti della natura Nel 1997 esce nelle sale cinematografiche Titanic di James Cameron. Il film campione di incassi racconta la struggente storia d’amore tra i protagonisti Jack e Rose ma ha sullo sfondo una vicenda molto più drammatica, l’affondamento del maestoso RMS Titanic, una delle massime espressioni della tecnologia navale dei primi del ‘900. Quando, il 15 aprile del 1912, il più grande e lussuoso transatlantico del mondo colpisce un iceberg e si inabissa lungo la rotta atlantica che congiunge Southampton a New York, causando la morte di oltre 1.500 persone, l’ambizione umana di dominare la natura grazie alla tecnica subisce un duro colpo. Sempre nel ’97 esce nei cinema giapponesi il film d’animazione La principessa Mononoke di Hayao Miyazaki. In esso la lotta tra uomo e natura è ambientata nel Giappone del tardo ‘500 dove l’invenzione delle armi da fuoco in ferro spinge gli uomini a distruggere la sacra foresta e a uccidere i suoi spiriti guida per ricavare dalla montagna il prezioso minerale. Anche in questo caso, il film si conclude con la vittoria della natura che schiaccia le ambizioni umane, rivendicando la sua superiorità sull’uomo. Il 1997 è anche l’anno in cui viene redatto, proprio in Giappone, il Protocollo di Kyoto, un trattato internazionale in materia ambientale firmato da oltre 180 Stati, che mette al centro del dibattito internazionale il ruolo dell’azione umana rispetto al surriscaldamento globale e al cambiamento climatico. Oggi, dopo vent’anni di innovazioni tecnologiche e di tentativi di ridurre l’impatto umano sull’ambiente, la situazione non sembra particolarmente cambiata. L’uomo è ancora fortemente dipendente dalla natura per la propria sopravvivenza; essa genera le risorse necessarie al nostro sviluppo, stabilisce cicli e andamenti della vita e determina il declino o la prosperità di una specie. Il genere umano, spinto da un incessante bisogno di produrre, continua a sfruttare la natura per i suoi scopi e sviluppa tecnologie sempre più efficienti per dominare la natura stessa. Ma questa pone all’uomo un limite, una soglia da non oltrepassare affinché sia mantenuto il fragile equilibrio che sussiste tra noi e il nostro pianeta; un limite che troppo spesso ci sta stretto, ma di cui oggi, forse, cominciamo a comprendere l’importanza. Emilio Antoniol
OFFICINA* Direttore editoriale Emilio Antoniol Direttore artistico Margherita Ferrari Comitato scientifico Fabio Cian (direttore), Sebastiano Baggio, Matteo Basso, MariaAntonia Barucco, Viola Bertini, Piero Campalani, Federico Dallo, Doriana Dal Palù, Francesco Ferrari, Michele Gaspari, Silvia Gasparotto, Giovanni Graziani, Francesca Guidolin, Elena Longhin, Michele Marchi, Patrizio Martinelli, Cristiana Mattioli, Corinna Nicosia, Damiana Patenò, Laura Pujia, Fabio Ratto Trabucco, Chiara Scarpitti, Barbara Villa, Carlo Zanchetta, Paola Zanotto Redazione Valentina Manfè (esplorare), Margherita Ferrari (portfolio), Paolo Borin, Arianna Mion (microfono acceso), Libreria Marco Polo (cellulosa) Copy editor Emilio Antoniol, Margherita Ferrari Impaginazione Margherita Ferrari Grafica Stefania Mangini Photo editor Letizia Goretti Testi inglesi Silvia Micali, Antonio Sarpato Web Emilio Antoniol, Margherita Ferrari Progetto grafico Margherita Ferrari
“Officina mi piace molto, consideratemi pure dei vostri” Italo Calvino, lettera a Francesco Leonetti, 1953
Trimestrale di architettura, tecnologia e ambiente N.21 apr-giu 2018
Natura
Proprietario Associazione Culturale OFFICINA* e-mail info@officina-artec.com Editore anteferma edizioni S.r.l. Sede legale via Asolo 12, Conegliano, Treviso e-mail edizioni@anteferma.it Stampa Press Up, Roma Tiratura 200 copie Chiuso in redazione il 18 maggio 2018 con fragole e matite colorate Copyright opera distribuita con Licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale Condividi allo stesso modo 4.0 Internazionale L’editore si solleva da ogni responsabilità in merito a violazioni da parte degli autori dei diritti di proprietà intelletuale relativi a testi e immagini pubblicati.
Direttore responsabile Emilio Antoniol Registrazione Tribunale di Treviso n. 245 del 16 marzo 2017 Pubblicazione a stampa ISSN 2532-1218 Pubblicazione online ISSN 2384-9029 Accessibilità dei contenuti online www.officina-artec.com Prezzo di copertina 10,00 € Prezzo abbonamento 2018 25,00 € | 3 numeri Per informarmazioni e curiosità www.anteferma.it edizioni@anteferma.it
Hanno collaborato a questo numero Marco Angheben, Alberto Baldassar, Nicolò Baldassar, Enrico Bascherini, Cristina Basei, Laura Calcagnini, Simone Amato Cameli, Barbara Cardone, Sara Codarin, Linda Comerlati, Valentina Coraglia, Matteo Dall’Anese, Roberto D’Autilia, Cecilia Furlan, Tiziana Gallon, Gian Andrea Giacobone, Tommaso Lucinato, Antonio Magarò, Massimo Mariani, Andrea Meneghelli, Fiorenzo Meneghelli, Fabio Merotto, Sven Mertens, Massimo Mucci, Dan Narita, Maicol Negrello, Nicola Preti, Michael Stas, Michele Tomasella, Benjamin Vanbrabant, Elena Veronese, Luisa Vittadello, Andrea Zambon.
Natura n•21•apr•giu•2018
IN COPERTINA
Barbabietole
Elena Veronese
08
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Introduzione
Biopolimeri dagli scarti della filiera agroalimentare
Emilio Antoniol
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Laura Calcagnini, Antonio Magarò, Massimo Mariani
28
Progettare l'agricoltura del futuro Maicol Negrello
16
Natura 4.0. Avanguardie “bio-ispirate” per il design del futuro
Architettura essenziale
Valentina Coraglia
Luisa Vittadello
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La simbiosi industriale Simone Amato Cameli
40
Vers le Pays Vert
Cecilia Furlan, Michael Stas, Benjamin Vanbrabant, Sven Mertens
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InFondo
a cura di Emilio Antoniol e Stefania Mangini
04
ESPLORARE
a cura di Valentina Manfè PORTFOLIO
le stagioni 52 Fra Marco Angheben
Urbanization 70 Oscillating Dan Narita digitale 72 Progettazione e additive layer manufacturing
communis 86 Ferula Tommaso Lucinato fornace Cavasin di 90 La Spinea Cristina Basei
Sara Codarin
AL MICROFONO
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IN PRODUZIONE
Una nuvola luminosa in arsenale Emilio Antoniol
- imprese per 64 Opera l'edilizia
L'ARCHITETTO
74 Enrico Bascherini sguardo inaspettato 78 Uno verso il paesaggio Comporre secondo natura
Fiorenzo Meneghelli, Andrea Meneghelli
Michele Tomasella
coltura acquaponica 66 La Alberto Baldassar, Nicolò Baldassar
68
I CORTI
Nàiade: autoprogettare l’orto urbano Gian Andrea Giacobone
80
L'IMMERSIONE
Comfort abitativo e standard edilizi
Barbara Cardone, Roberto D'Autilia
l'edificio NZEB con le 84 Oltre costruzioni in balle di paglia Linda Comerlati, Nicola Preti
Zambon. 94 Andrea Progettare con il legno
a cura di Margherita Ferrari CELLULOSA
freschi di stagione 98 Libri a cura dei Librai della Marco Polo (S)COMPOSIZIONE
99 Semi Emilio Antoniol
Freespace. La Biennale di Venezia. 16. Mostra Internazionale di Architettura 26 maggio - 25 novembre 2018 Venezia (Giardini e Arsenale) www.labiennale.org
Yvonne Farrell and Shelley McNamara. Andrea Avezzù
Aprirà il 26 maggio la Biennale Architettura 2018 diretta da Yvonne Farrell e Shelley McNamara, dal titolo Freespace. Ci saranno 71 partecipanti distribuiti tra i Giardini e l’Arsenale, 65 partecipazioni nazionali e due sezioni speciali intitolate Close Encounter, meetings with remarkable projects, dedicata a riflessioni sui progetti del passato, e The Practice of Teaching, sui lavori legati all’insegnamento. Il programma è arricchito da eventi collaterali che si svolgeranno nella città di Venezia, due progetti speciali, gli incontri Meetings on Architecture dove ascoltare i protagonisti della Biennale e i rappresentanti di enti e istituzioni internazionali. Non mancheranno il progetto Biennale Sessions rivolto a Università e Accademie, e le attività educational di laboratorio e guida alla mostra. Per avere un’anticipazione sui contenuti di questa Biennale si può ripercorrere brevemente il manifesto Freespace scritto dalle curatrici (giugno 2017). L’attenzione è subito posta su caratteristiche quali la "generosità di spirito" e il "senso di umanità", che sembrano essere intrinseche all’architettura nel momento in cui l’obiettivo è lavorare sulla qualità dello spazio, sul miglioramento del benessere e della dignità dell’uomo. Nel testo non è esplicito come perseguire l’obiettivo, ma si possono individuare tre ambiti in cui iniziare delle riflessioni per definire il Freespace. Il primo riguarda l’etica del dono che, secondo le curatrici, l’architettura esplica cogliendo ed enfatizzando gli elementi gratuiti della natura, quali luce, aria, gravità, materiali, e offrendo in cambio bellezza e spazi liberi
gratuiti a disposizione. Il secondo ambito è più chiaramente politico, in considerazione del fatto che "può essere uno spazio di opportunità, uno spazio democratico, non programmato e libero per utilizzi non ancora definiti". Infine l’ultimo ambito sembra essere quello del rapporto con la storia, dove ritrovare "la libertà di immaginare lo spazio libero di tempo e memoria, collegando passato, presente e futuro". Sarà interessante vedere come i partecipanti hanno interpretato questi punti del manifesto, in quanto potrebbero emergere considerazioni sul ruolo cruciale dell’architetto nel definire il grado di libertà in termini spaziali (e d’uso?), sulle modalità del progetto nel caso in cui debba veramente includere il "non programmato e libero", infine sugli stimoli provenienti dalla libertà immaginativa. Attendiamo dunque con interesse di vedere cosa ci propone quest’anno La Biennale. Massimo Mucci
Fulvio Roiter. Fotografie 1948 - 2007 16 marzo - 26 agosto 2018 Venezia, Casa dei Tre Oci www.treoci.org
La prima retrospettiva dopo la scomparsa del fotografo diventa l’occasione per conoscerne l’operato. Il percorso espositivo è suddiviso in 9 sezioni, ognuna a raccontare un preciso momento della vita di Roiter, ognuna con il comune denominatore di riuscire a trasmettere grandi emozioni. "Può una parola così piccola, foto, diventare così grande? Possono due sillabe riuscire a portarti in mondi lontani, in posti segreti, possono raccontarti una favola intima e silenziosa?" (J. M. Roiter, Essere Roiter, 2016). Tiziana Gallon
Joan MirÓ. Materialità e metamorfosi 10 marzo - 22 luglio 2018 Padova, Palazzo Zabarella www.zabarella.it
È aperta fino al 22 luglio la mostra su Joan Miró, artista tra i più amati del Novecento. Sono presenti ottantacinque opere tra cui dipinti, disegni, arazzi, sculture, collages. Importanti lavori che ci aiutano a comprendere quanto, la sperimentazione, sia stata un elemento imprescindibile. Non fa uso di una tavolozza tradizionale e manifesta la sua complessità linguistica usando materiali quali il bitume, la sabbia, i sassi, il fil di ferro, con un atteggiamento
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artigianale nei suoi lavori. I suoi temi figurativi diventano ritratti costruiti con pochi segni, poche linee, talvolta caratterizzati da campiture tenute assieme da sottili filamenti che servono a bilanciare materia e colore. Il contorno di una figura non è più il perimetro adimensionale che racchiude un soggetto, bensì una linea che si espande e si trasforma in superficie. I suoi segni sono forme, figure mostruse e paradossali, ma talvolta delicate con parvenze oniriche e allegoriche. Sono l'alfabeto per rappresentare sogni e incubi. Fabio Merotto
Josef Albers in Messico 19 maggio - 3 settembre 2018 Peggy Guggenheim, Venezia www.guggenheim-venice.it
Josef Albers, tedesco, classe 1888, è uno tra i maggiori e influenti protagonisti della scuola del Bauhaus, prima come allievo e poi come insegnante. Si trasferisce negli Stati Uniti nel 1933 a causa della repressione nazista e questa sarà l'occasione per viaggiare e fare nuove esperienze. Conosce Luis Barragán, un architetto messicano che si distingue per l'uso di enormi campiture di colore sulle facciate delle sue architetture e i suoi lavori saranno motivo di approfondimento per la ricerca di Albers sulle sue teorie del colore. Noto per il suo apporto teorico all'astrazione, la sua ricerca diviene il pretesto per lavorare sugli aspetti formali e ottico-percettivi che derivano dall’osservazione del colore. Durante i suoi viaggi in Messico scopre la bellezza dell'architettura precolombiana e gli aspetti geometrici e formali sono motivo di approfondimento per i suoi lavori, dal disegno, alla grafica e all'architettura. Fa propria la necessità di astrazione e di riduzione dei complessi volumi dell'architettura e dei siti archeologici messicani in segni e linee; una sorta di rappresentazione bidimensionale e di architettura "graficizzata". I suoi segni paiono percorsi labirintici per mettere sullo stesso piano il punto più basso e più alto di qualsiasi architettura. La dimensione dell'altezza, propria dell'architettura e del paesaggio statunitense, svanisce e si trasforma in superficie e in piani orizzontali. Sono esposti alla mostra fotografie, foto-collage e dipinti a testimonianza di quanto i suoi studi abbiano influenzato gli artisti delle generazioni successive. Fabio Merotto
ESPLORARE
OFFICINA* N.21
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Arsenale di Venezia. CC0
Ghetto ebraico. Contesto storico e possibilità di recupero 10 marzo 2018 Vittorio Veneto, Biblioteca Civica www.laculturavive.it
Il Ghetto Ebraico
Per il recupero dell'ex Ghetto ebraico di via Manin a Vittorio Veneto le risorse possono essere reperite tramite l'accesso ai fondi europei, magari con un accordo Italia-Austria secondo due possibili direttrici: Vittorio Veneto-Innsbruck, legata da una forte componente ebraica, Vittorio Veneto-Salisburgo, legata dal binomio musicale Da Ponte-Mozart. È questa l'idea di Alessandro Tiozzo, del Laboratorio di Pianificazione dell'Università Iuav di Venezia, emersa nel corso del convegno tenutosi sabato 10 marzo 2018 presso la Biblioteca civica dal titolo Ghetto ebraico: contesto e possibilità di recupero ideato da Cultura ViVe. Sull'asse europeo Tiozzo ha quindi proposto un progetto di riqualificazione che prevede una sede museale, con dei laboratori didattici, così da creare un polo vivo e non solo un nuovo spazio espositivo. Il convegno, moderato dalla scrittrice Annarosa Tonin, ospitava i relatori: Emilio Antoniol, direttore di OFFICINA*, Giancarlo Zambon di Develop Worldwide, Andrea Gottardo e Alessandro Tiozzo, componenti Laboratorio Pianificazione Iuav, Silvia Della Colletta del Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche e l'architetto Federico Segat. La serata si è aperta con la ricostruzione della storia della presenza ebraica a Ceneda di Silvia Della Colletta che ha, tra l'altro, evidenziato come il Ghetto di Ceneda sia stato un Ghetto "diffuso, tale da indurre a pensare a un vero e proprio itinerario della Ceneda ebraica". Segat ha quindi esposto un progetto che ha il suo obiettivo principale nella pianificazione di un'architettura
non invasiva, che vede la realizzazione di una residenza per artisti al pianoterra e di uno spazio aperto per eventi temporanei con tecnologie audio-visive. Antoniol ha dimostrato come il recupero di immobili storici sia una pratica collaudata, portando numerosi esempi di riqualificazioni avvenuti nel territorio Veneto. Tra i mezzi di recupero è stata presentata la piattaforma Dwide dell’ingegnere Zambon, che prevede una bacheca online in cui vengono inseriti non solo gli immobili da riqualificare, ma anche le proposte progettuali caricate da professionisti, così il possibile investitore ha confronto diretto con le varie proposte di destinazione. Annarosa Tonin ha evidenziato come gli interventi dei relatori abbiano costruito una sorta di "piramide", con il contesto storico come base fino ad arrivare al vertice rappresentato dai possibili finanziamenti dell’Unione Europea, il tutto legato dalla volontà della proprietà di avviare questo percorso. Matteo Dall’Anese
Semi di giustizia 20 ottobre - 16 dicembre 2017 Udine www.cevi.coop
Da ottobre 2017 a dicembre 2017 in Friuli ha avuto luogo un percorso di formazione su cambiamento climatico, giustizia ambientale e migrazioni ambientali. Semi di giustizia, così si intitola, è stato organizzato da CeVI (Centro di Volontariato Internazionale), in collaborazione con Solidarmondo Pn-Aganis, ACCrI (Associazione di Cooperazione Cristiana Internazionale) e CVCS (Centro Volontari Cooperazione allo Sviluppo). Il percorso di formazione viene riproposto ogni anno con lo scopo di discutere, analizzare e approfondire tematiche di estrema e grande attualità legate all’emergenza ambientale e climatica vigente nel sistema mondo attuale. Semi di giustizia si divide in sei lezioni online e cinque incontri in presenza ed è finanziato dal progetto SAME World dell’Unione Europea. Le lezioni online, tenute da esperti europei, sono accessibili in qualsiasi momento per tutti i partecipanti; mentre nei fine settimana si svolgono gli incontri presenziali, dove è possibile così apprendere e dibattere su temi, quali ad esempio il fenomeno
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migratorio sul territorio locale, la presenza degli squilibri economici e ambientali nel mondo, o ancora le esperienze di vita di volontari in Africa e America Latina. Arianna Mion
Festival dello sviluppo sostenibile 22 maggio - 07 giugno 2018 Iuav, Venezia www.asvis.it
Anche nel 2018 L'Università Iuav di Venezia partecipa al Festival per lo sviluppo sostenibile promosso dall'Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile (ASviS). L’impegno di ASviS per portare il nostro Paese su un sentiero di sviluppo sostenibile si rinnova con l’edizione 2018 del Festival, che si preannuncia ancora più ricca della precedente per numero, varietà e contenuti degli eventi. Il Festival si svolgerà dal 22 maggio al 7 giugno 2018, con l’obiettivo di coinvolgere fasce sempre più ampie della popolazione sui temi della sostenibilità e di stimolare decisori privati e pubblici perché assumano iniziative concrete e rilevanti per migliorare le condizioni economiche, sociali e ambientali del nostro Paese. L'iniziativa si inserisce all'interno della Settimana Europea per lo Sviluppo Sostenibile - ESDW, che si terrà nella settimana dal 30 maggio al 5 giugno 2018, e che costituisce un'importante occasione di confronto tra tutti gli attori coinvolti nella trasformazione del modello di sviluppo verso la sostenibilità, in linea con gli ambiziosi obiettivi dell’Agenda 2030 di rafforzamento della partnership tra gli Stati Membri e di collaborazione tra istituzioni e società civile. Emilio Antoniol
Risparmio e qualita’ dell’acqua 05 giugno 2018 Politecnico di Milano www.asvis.it
Il 5 giugno 2018 OFFICINA* prederà parte al workshop Risparmio e Qualità dell’acqua: come far bene al pianeta, alla salute e al bilancio famigliare, che si terrà dalle ore 14.15 presso l'aula BL28.12 del Politecnico di Milano (sede Bovisa). Il workshop di divulgazione scientifica sul tema dell'acqua, a partecipazione libera e gratuita è stato organizzato in collaborazione con AreaRIDEF Associazione ex studenti RIDEF e mira a far confrontare diversi esperti sul tema dell'acqua e della salute del pianeta.
ESPLORARE
Stefano Covre
OFFICINA* N.21
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Tra le Operette Morali scritte da Giacomo Leopardi tra il 1824 e il 1832 una introduce in modo esemplare il tema indagato in questo numero. Si tratta del Dialogo della Natura e di un Islandese nella quale un viaggiatore Islandese, stremato dalle sofferenze di una vita sventurata, inizia un lungo viaggio "per vedere se in alcuna parte della terra potessi non offendendo non essere offeso, e non godendo non patire". La sorte lo porta in Africa dove incontra, suo malgrado, la Natura, una gigantesca figura femminile, bellissima ma dall’espressione austera che lo interroga sul perchè si fosse spinto così lontano dal suo luogo di nascita. L’Islandese inizia un lungo racconto in cui illustra tutte le sfortunate situazioni che ha incontrato nel suo viaggio: dai
territori riarsi dal sole, a quelli soffocati da piogge, fino a quelli tormentati da vulcani e terremoti; e in ogni luogo bestie selvatiche, insetti e malattie che hanno fatto della sua vita una continua sofferenza arrivando a "conchiudere che tu [Natura] sei nemica scoperta degli uomini, e degli altri animali, e di tutte le opere tue". La Natura, sprezzante, risponde al viaggiatore che il mondo da lei generato non è stato certo fatto per la felicità o a uso degli uomini e che ogni offesa o favore verso di essi è solo conseguenza di un più ampio progetto. La replica dell’Islandese costituisce una delle più riuscite allegorie della produzione leopardiana, portando ad esempio il caso in cui un ospite venga invitato dal padrone di casa a soggiornare presso la propria dimora. Anche in questo caso la casa non è stata costruita a servizio dell’ospite ma, poiché l’invito a soggiornarvi è partito dal padrone di casa, è suo dovere permettere all’ospite di viverci "per lo meno senza travaglio e senza pericolo". A tale provocazione la Natura, con toni ancora più duri, risponde: "Tu mostri non aver posto mente che la vita di quest’universo è un perpetuo circuito di produzione e distruzione, collegate ambedue tra sé di maniera, che ciascheduna serve continuamente all’altra, ed alla conservazione del mondo". La domanda irrisolta "a chi piace e a chi giova?" con cui ci lascia l’Islandese prima della tragica fine riservatagli da Leopardi, è il fulcro morale attorno a cui ruota l’intera operetta. Essa richiama da un lato le teorie meccaniciste tipiche dell’epicureismo, riprendendo temi tratti dal De Rerum Natura di Tito Lucrezio Caro tinti però del pessimismo tipico del poeta di Recanati. La Venere generatrice, hominùm divòmque volùptas (piacere di uomini e dei), invocata da Lucrezio nel proemio dell’opera, in Leopardi, lascia il posto a una Natura fredda, dal volto "tra bello e terribile" e incurante degli uomini. Una Natura che si affida alla ciclicità degli eventi, in cui ciò che viene distrutto è la base di rinascita per ciò che verrà dopo. In questo scenario OFFICINA* 21 ha indagato il rapporto tra l’uomo e la Natura generatrice: la casa che essa ci ha dato per vivere, la Terra, si fa sempre meno accogliente e più pericolosa, le risorse si fanno più scarse e l’uomo, per sopravvivere, deve imparare a produrre ciò di cui ha bisogno imitando la Natura e adattandosi alle regole che essa impone. Emilio Antoniol
Among the Operette Morali written by Giacomo Leopardi between 1824 and 1832, one introduces in an exemplary way the themes investigate in this issue. It is the Dialogo della Natura e di un Islandese in which an Icelandic traveler, exhausted by the sufferings of a unfortunate life, begins a long journey "to see if in any part of the world not offending I could not be offended, and not enjoying, not suffering". The fate leads him in Africa where, in spite of himself, he meets the Nature, a huge female figure, beautiful but with an austere expression, that ask him why he had gone so far from his home. The Icelandic begins a long story in which he illustrates to the Nature all the unfortunate situations he encountered on his journey: from territories sunk by the sun, to those continually suffocated by rains, to those tormented by volcanoes and earthquakes; and in every place there were wild beasts, insects and diseases that have made his life a continuous suffering, coming to "conclude that you [Nature] are the enemy of men, and of other animals, and of all your works". The Nature, contemptuous, responds to the traveler that the world she has generated has not been made for the happiness or use of men and that any offense or favor towards them is only the consequence of a larger project. The answer of the Icelandic is one of the most successful allegories of Leopardi's production, bringing as example the case in which a guest is invited by the landlord to stay at his home. Also in this case the house is not built for the service of the guest but, since the invitation has come from the landlord, it is his duty to allow the guest to live there "at least without labor and without danger". To this provocation the Nature, with even harsher tones, replies: "It seems that you have not minded that the life of this universe is a perpetual circuit of production and destruction, connected both with each other, and that each one continually serves the other to the conservation of the world". The unanswered question "who likes it and who benefits it?" with which the Icelandic leaves us, before the tragic end reserved to him by Leopardi, is the moral fulcrum around which the entire operetta is based.
On the one hand, it recalls the mechanistic theories typical of epicureanism, taking up themes from the De Rerum Natura by Tito Lucrezio Caro, however, dyed by the typical pessimism of the Recanati poet. The generative Venus, pleasure of men and Gods (hominÚm divòmque volÚptas), invoked by Lucretius in the proem of the work, give place, in Leopardi, to a stiff Nature, with a "beautiful and terrible" face, and regardless of men. A Nature that relies on the cyclicity of events, in which what is destroyed is the rebirth basis for what will come later. In this scenario OFFICINA* 21 has investigated the relationship between man and the generating Nature: the Earth, the house that She give us to live becomes for us less welcoming and even more dangerous, resources become scarcer and to survive man must learn to produce what they needs by imitating Nature and adapting themself to the rules She imposes us. Emilio Antoniol
Maicol Negrello Dottorando in Architettura Storia e Progetto, DAD-Dipartimento Architettura e Design, Politecnico di Torino. maicol.negrello@polito.it
Progettare l’agricoltura del futuro
01. Esterno dell’ex fabbrica Philips ora riconvertita nell'urban farm UF002 De Schilde, dallo studio space&matter. Martijn Zegwaard
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NATURA
architetture e agricoltura: le smart technologies per la nuova produzione agricola urbana otoriamente si attribuisce la genesi delle città all’attività agricola, che avrebbe reso possibile lo stanziarsi della popolazione in un determinato luogo grazie alla produzione eccedente di cibo (Brand, 2010), sebbene in letteratura alcuni imputino questo ruolo al commercio e non all’agricoltura (Jacobs, 1969). In ogni caso questa attività, con il passare dei secoli, ha perso il carattere urbano, allontanandosi sempre più dalle città, anche grazie all’incremento delle capacità tecniche in ambito produttivo avvenuto a seguito della rivoluzione industriale. L’introduzione della tecnologia nelle diverse fasi della produzione agricola ha reso possibile la riduzione delle tempistiche delle lavorazioni, la conservazione refrigerata delle merci oltre a una più celere distribuzione dei prodotti. Inoltre, la rendita agricola non aveva la possibilità di competere con il valore che il terreno avrebbe generato se sfruttato per altri usi, quali quelli residenziali o industriali (Robinson, 2014). Oggi, le innovazioni tecnologiche fanno sì che questa attività produttiva abbia strumenti tali da poter essere reinserita, almeno in parte, all’interno del tessuto cittadino adattandosi agli edifici, generando un mercato (anche se di nicchia) e spingendo i progettisti a sperimentare nuove forme ibride di architettura. Fino ad oggi infatti, nella maggior parte dei casi l’agricoltura urbana non aveva un carattere tale da poter essere considerata "commerciale", ovvero in grado di generare un - seppur piccolo - mercato, al contrario era caratterizzata da finalità di tipo ricreativo, sociale o integrativo, come servizio utile per la cittadinanza. Fabbriche agricole: architetture per la produzione urbana Negli ultimi anni si sta assistendo alla crescita di un fenomeno chiamato urban vertical farming, che per alcuni rappresenta addirittura il futuro dell’agricoltura urbana, in quanto potrebbe essere una soluzione per rispondere alle esigenze alimentari delle popolazioni urbane del domani (Despommier, 2010 e Despommier, 2011).
Negli ultimi dieci anni sono stati sviluppati innovativi devices che ora rendono possibile fare agricoltura urbana all’interno di edifici, in condizioni ambientali controllate, senza necessità di suolo e luce solare, con consumi idrici ridotti e con una produzione continuativa per tutto l’anno. Questi dispositivi hanno in parte rivoluzionato e mutato il concetto più tradizionale di agricoltura urbana, trasformandola in un vero business. Ne deriva che questa produzione sta generando tipologie architettoniche ibride che potrebbero essere sempre più comuni e diffuse in ambiente urbano.* As result of the last ten years of technological innovations, new devices make now possible practicing urban agriculture inside buildings, in controlled environmental conditions, without soil and sunlight, using the 80% less of water and with an “all-year-long production”. These devices have partly revolutionized and changed the more traditional concept of urban agriculture, even turning it into a real business. It follows that this production is generating hybrid architectural types that could become increasingly common in urban environments.*
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02. La Lufa Farm a Ahuntsic. Eva Blue
03. Edificio del Whole food market a New York. Whole food market
Infatti, Despommier, considerato il padre del vertical farming, giustifica la necessità di questa tipologia di produzione basando la sua tesi anche sui dati - ormai ridondanti - derivati degli scenari di crescita demografica prevista per il 2050. Grazie quindi a dispositivi tecnologici quali sensori, led e sistemi connessi in remoto, è possibile ricreare, anche in città, un ambiente adatto alla produzione agricola1, in assenza totale di suolo2 e con consumi idrici ridotti fino all'80%3. Questi modelli estremizzano il rapporto tra natura e artificio, poiché l’uomo, attraverso la tecnologia, tenta di riprodurre e perfezionare l’ambiente naturale e i suoi sistemi (cfr. progetto OpenAg del MIT Media Lab). Questa embrionale attività ha portato molto fermento nel mondo della ricerca scientifica applicata, chiamando discipline diverse a interagire per progetti di vertical/urban farming. Assistiamo inoltre a un cambio di paradigma nel concetto di agricoltore. I coltivatori urbani non hanno quasi nulla a che fare con l’agricoltura tradizionale e si
differenziano in quanto hanno una formazione molto più complessa: sono architetti, ingegneri, chimici e botanici, che mettono a sistema conoscenze afferenti ai propri ambiti. Ne consegue che questi progetti ibridano architetture, molto spesso utilizzando edifici dismessi, occupando tetti piani o integrando la parte "produttiva" nella struttura stessa. In alcuni casi, questa agricoltura si appropria di spazi che un tempo erano occupati dall’industria, tuttavia in una forma più sostenibile della precedente, integrandosi alla struttura in cui è inserita. Un esempio è il caso di The Plant a Chicago, dove all’interno di ex impianto per lavorazione della carne di maiale, una giovane start-up (Closed Loop Farms) coltiva varietà diverse di lattuga o di microgreens destinate a ristoranti e rivenditori. In alcuni casi, possiamo quindi parlare di riuso adattivo della legacy industriale, che ritorna a ospitare un processo produttivo che, per alcuni versi, non avrebbe potuto diventare urbano senza l’uso della tecnologia.
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NATURA
04. Interno della serra della Lufa Farm sul tetto dello stabilimento di Ahuntsic. Lufa Farms
L’articolo, attraverso una serie di casi studio selezionati, vuole mostrare quali sono le caratteristiche e le tipologie architettoniche derivanti da questo crescente fenomeno. Si è scelto di escludere da questa casistica tutti i progetti che, nonostante l’interessante sforzo architettonico, non sono stati realizzati poiché, essendo un campo ancora in esplorazione, la fattibilità economica risulta essere un limite difficile da superare. Non sono inoltre stati presi in considerazione elementi di agricoltura "pop-up", come i container (all’interno dei quali si coltiva con tecnica idroponica e led) proposti dalla company americana SquareRoots in quanto meno legati all'ambito architettonico; per questa ragione gli esempi proposti sono invece il risultato di un adattamento alle forme urbane disponibili. Gli approcci architettonici fino ad ora riscontrati nei progetti di urban farming sono stati: il fitting-in, l'adding e, anche se ancora raramente, il merging.
OFFICINA* N.21
Il primo è l’approccio più semplice e, al tempo stesso, il meno invasivo, ovvero l’inserimento della componente produttiva all’interno dell’edificio. In assenza di luce naturale è possibile coltivare attraverso un sistema di illuminazione a led ad alta efficienza; da ciò ne deriva che capannoni industriali o edifici dismessi possono essere un ottimo "carapace" adatto a ospitare questa attività. La produzione che meglio si adatta a questa tipologia edilizia è costituita da verdure a foglia, poiché le richieste energetiche per la loro crescita sono inferiori rispetto ad altre verdure da frutto (quali pomodori, melanzane, cetrioli, peperoni, fragole, ecc.) per la cui coltivazione si opta per la coltivazione in serra (rooftop greenhouse). Sperimentazioni di questo tipo sono state testate in alcuni supermercati del gruppo Metro Group a Berlino dove sono stati installati, come modello pilota, dei piccoli punti di produzione - chiamati Kräutergarten – nei quali lattuga, basilico
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05. Sezione prospettica UF002 De Schilde. Space&matter architect
e altre verdure a foglia vengono coltivate direttamente in loco. In altri casi, dopo un progetto sperimentale, grazie a fondi pubblici e privati è stato possibile passare dalla produzione in piccola scala - un singolo modulo edilizio alla coltivazione in edifici di grandi dimensioni. L’impresa Aerofarm ne è un esempio con la riconversione dell’ex acciaieria di Newark nella più grande vertical farm al mondo, progettata dallo studio KSS Architects, con una superficie di 6.500 m2. Un altro caso molto interessante si trova a the Hague in Olanda: un ex stabilimento industriale del 1959 in cui si producevano telefoni e televisori Philips, è stato in parte convertito a edificio per la produzione agricola e ittica. In questo caso sono state attuate le tecniche di fitting-in e di adding. Infatti, dopo verifica strutturale della capacità del solaio e a seguito di un progetto di recupero firmato dallo studio di architettura space&matter, sono state inserite nell’ultimo piano vasche per cultura ittica, mentre sul tetto piano è stata costruita una serra per la produzione di verdure, oltre a
L’inserimento di serre su superfici piane, come i tetti, porta benefici all’intero edificio sottostante, riducendo le dispersioni e creando una zona di buffer con l’esterno. La serra permette di sfruttare l’apporto solare gratuito diminuendo le richieste energetiche per l’illuminamento, tuttavia, in base alla temperatura esterna, aumentano le richieste per l’eventuale raffrescamento o riscaldamento nei periodi invernali (Pons et al., 2015). Tra gli esempi più rilevanti di urban farming troviamo poi la Lufa Farms a Montréal; il primo progetto delle attuali tre farms urbane realizzate è il riuso del tetto di una struttura industriale, nel quartiere di Ahuntsic, trasformato in una superficie produttiva di 3.000 m2 in grado di fornire verdura fresca alla città (img. 02 e 04). L'integrazione tecnologica è fondamentale per questa azienda che basa il suo successo su un modello di business mirato all'interazione con il cliente. Infatti, attraverso una piattaforma web, è stato creato un network digitale tra i produttori e i consumatori. I clienti selezionano i prodotti desiderati4, personalizzando il carrello acquisti, che possono poi recuperare in appositi centri distribuiti in città o riceverli direttamente a casa propria. Il risultato più interessante raggiunto da questo progetto, oltre all’intervento architettonico in sé - ovvero la sopraelevazione dell’edificio - è la creazione di un sistema produttivo che si integra all’economia urbana. Un altro esempio di urban farm è il Whole Food Markets a New York che, in partnership con Gotham Green (azienda proprietaria di diverse farms urbane), ha costruito la propria area produttiva sul tetto dell'edificio, vendendo i prodotti direttamente in loco (img. 03). Tra i progetti che seguono questa tipologia ricordiamo l’ex fabbrica di senape e aceto (The Vinegar Factory), costruita nel 1890 a Yorkville (New York), che l’imprenditore Eli Zabar ha
grazie a dispositivi tecnologici quali sensori, led e sistemi connessi in remoto, è possibile ricreare, anche in città, un ambiente adatto alla produzione agricola in assenza totale di suolo e con consumi idrici ridotti fino all'80% degli spazi flessibili in cui vengono ospitati eventi privati o aperti al pubblico (img. 05). La tipologia appena citata può considerarsi la più "invasiva" in quanto si tratta di interventi che emergono visibilmente dal contesto (come le serre), sebbene siano generalmente sopraelevazioni leggere.
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06. Pasona, sala mensa. KonoDesigns
riconvertito a edificio produttivo, oltre a disporre di spazi adibiti alla ristorazione e alla vendita al dettaglio. Infine, più recentemente l’architettura sta sperimentando anche un approccio integrato (merging – Builiding Integrated Argriculture), ovvero l’inserimento della parte produttiva/agricola all’interno di edifici residenziali o misti direttamente durante la fase di progetto, ibridando tipologie edilizie in modo da creare un ecosistema virtuoso. La sede della Pasona a Tokio risulta essere un ottimo esempio di come i progettisti dello studio KonoDesigns (2010), abbiamo integrato nello spazio di questo edificio per uffici zone in cui sono coltivate verdure utilizzate nella mensa aziendale (img. 06). Agricoltura urbana: innovazione per la città I casi studio presentati sono la testimonianza di come la tecnologia appplicata al settore della produzione agricola urbana possa trasformarsi in innovazione per l’intera comunità, mostrando come questa sia realizzabile solamente se frutto di condivisioni di discipline diverse. Questa nuova forma di produzione alimentare potrebbe generare esternalità positive sulla città stessa, portando alla creazione di nuove architetture oltre che di un’ulteriore microeconomia urbana. Architetti e pianificatori hanno un ruolo fondamentale in questo processo di re-integrazione della produzione agricola nella città. Infatti devono fornire gli strumenti e le conoscenza alla politica urbana, al fine di poter facilitare l’integrazione di queste attività attraverso la creazione di atti, modifiche ai piani regolatori e allo zoning (De Zeeuw et al., 2000). Queste esperienze hanno infatti provocato un impatto anche a livello normativo, come è avvenuto nel caso della città di Boston che ha promulgato un articolo di legge che incentiva leiniziative di agricoltura urbana5 o come nel caso del Comune di Parigi che ha promosso il progetto Parsiculteurs6 per regolamentare la coltivazione sui tetti della città, visti come un "nuovo suolo".*
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NOTE 1 – Le apparecchiature tecniche - sistema di sensori - permettono il controllo diretto di umidità, luce, temperatura per ricreare un ambiente ottimale per la migliore resa produttiva. 2 – Si fa riferimento alla coltivazione idroponica, acquaponica e aeroponica. 3 – Una riduzione dell’80% rispetto alla quantità di acqua necessaria per la coltivazione in suolo in esterno. 4 – Qui si fa riferimento alla vasta gamma di prodotti offerti dai tetti delle Lufa Farms ma anche a quelli di provenienza extraurbana, sempre inseriti nel circuito certificato di Lufa Farms che si appoggia a produttori biologici. 5 – Ci si riferisce all’adozione dell’Article 89 che modifica il Boston Zoning Code incentivando iniziative di agricoltura urbana al fine di creare una rete che eviti i food desert. www.bostonplans.org/planning/planning-initiatives/urban-agriculture-rezoning 6 – Questo progetto sponsorizzato dal Marie de Paris punta alla creazione di urban farms - anche tradizionali - per valorizzare quegli spazi, come i tetti piani, non sfruttati e adibirli alla produzione agricola. In alcuni casi i regolamenti edilizi della città sono stati riconsiderati al fine di rendere possibile la realizzazione di serre o tetti verdi coltivabili. BIBLIOGRAFIA - Brand S.,"Una cura per la terra. Manifesto di un ecopragmatista", Codice Edizioni, Torino, 2010. - Buehler D., Junge R., "Global trends and current status of commercial urban rooftop farming", in "Sustainability", 8(11), 1108, 2016. - De Zeeuw H., Guendel S., Waibel H., "The integration of agriculture in urban policies" in N. Bakker, M. Dubbeling, S. Guendel, U. Sabel Koschella, H. de Zeeuw (eds.) "Growing Cities, Growing Food, Urban Agriculture on the Policy Agenda", DSE, pp. 161–180, 2000. - Despommier D., "The vertical farm: controlled environment agriculture carried out in tall buildings would create greater food safety and security for large urban populations", in "Journal für Verbraucherschutz und Lebensmittelsicherheit", volume 6, pp. 233–236, 2011. - Despommier D.D., "The Vertical Farm: Feeding the World in the 21st Century", Macmillan, 2010. - Jacobs J.,"The Economy of Cities", Knopf Doubleday Publishing Group, 1969. - Pons O., Nadal A., Sanyé-Mengual E., Llorach-Massana P., Cuerva E., Sanjuan-Delmàs D., Muñoz P., Oliver-Solà J., Planas C., Rovira,M.R., "Roofs of the future: rooftop greenhouses to improve buildings metabolism", in "Procedia engineering " n. 123, pp. 441–448, 2015. - Robinson G., "Geographies of Agriculture: Globalisation, Restructuring and Sustainability", Routledge, 2014. - Specht K., Siebert R., Hartmann I., Freisinger U.B., Sawicka M., Werner A., Thomaier S., Henckel D., Walk H., Dierich A., "Urban agriculture of the future: an overview of sustainability aspects of food production in and on buildings" in "Agriculture and Human Values, Springer, New York, pp. 33–51, 2014.
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Luisa Vittadello Digital Architect, fondatrice di Hybrid Reality. vittadello.luisa@gmail.com
Architettura essenziale
01. L'alveare. CCO
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analisi della convergenza tra la natura e lo spazio: un percorso all’interno del genoma del nostro modo di abitare L’ambiente in cui viviamo è mutato costantemente sia a causa della nostra evoluzione sociale sia in conseguenza del nostro progresso tecnologico, e potrà evolversi grazie alla progettazione parametrica che renderà gestibile l’utilizzo delle tecnologie costruttive più all’avanguardia. Una colonia di formiche, un alveare di api, il nido di un uccello tessitore, sono strutture estremamente complesse che creano un ambiente massimamente funzionale per la specie costruttrice. Paolo Soleri, architetto del ‘900 e fondatore della città prototipo di Arcosanti, ha ipotizzato la realizzazione di strutture che sfruttino pienamente la tridimensionalità e che si ispirino al modello di un alveare umano.* The environment we live in has constantly changed due to both our social evolution and our technological progress and will continue to evolve thanks to the parametric design that will make the use of new construction technologies manageable. A colony of ants, a hive of bees or the nest of a weaverbird are extremely complex structures but create an environment that is totally functional for the specific species that builds it. Paolo Soleri, architect of the 20th century and founder of the prototype city of Arcosanti, hypothesized the creation of structures that exploit the three-dimensional space and inspired by the model of a human hive.*
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opposto di natura è impossibile Buckminster Fuller, 1965 Osservando ciò che ci sta attorno possiamo scorgere un fiore, un sasso, un bambino, un albero, ma ciò di cui non ci accorgiamo è che nessuno di questi oggetti è diverso dagli altri, poichè ognuno di questi elementi è strutturato secondo delle regole fisiche e matematiche che valgono per qualunque cosa ci circondi. L’idea secondo cui la matematica è la chiave per leggere il mondo è legata alla visione di Pitagora, per cui numeri e proporzioni sono gli elementi primari della natura. Oggi sappiamo che ciò che ci accomuna è la nostra composizione chimica: ad esempio il codice genetico dell’uomo ha un antenato in comune con le farfalle, se consideriamo le istruzioni genetiche per le funzioni vitali come l’assimilazione degli zuccheri siamo pressochè identici alle banane1, quindi il nostro "design" è delineato nelle basi azotate del DNA e ogni singola cellula opera per realizzare quel complesso progetto. Il DNA è la più antica scrittura del nostro manuale di funzionamento, ed è scritto in una lingua che tutte le forme di vita sanno leggere. Prendiamo ad esempio i radiolari, protozoi caratterizzati da uno scheletro siliceo la cui struttura da origine a delle forme parametriche, oppure osserviamo la disposizione dei petali in un fiore o la struttura di una pigna o ancora la crescita dei rami in una pianta; sono tutti sistemi che si generano secondo la successione di Fibonacci, per cui ogni numero della serie equivale alla somma dei due che lo precedono, ovvero 1, 1, 2, 3, 5, 8, 13, 21, 34, ecc. Uno "strumento tecnologico", creato dalla natura stessa: il DNA, che da solo ha potuto dare forma a tutte le forme di vita che ci circondano. Oggi, proprio grazie all’unione della matematica con la tecnologia avanzata, ci è possibile leggere, analizzare e modificare questo codice. Il passaggio di informazioni tramite il DNA attraverso le generazioni ha permesso all’uccello tessitore di ottenere la capacità di costruire per il suo nido una struttura, leggera ma al tempo stesso robusta, solo attraverso l’uti-
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02. Paolo Soleri, NOVANOAH I Arcology. Cosanti Foundation
lizzo di fili d'erba, ramoscelli e fibre ricavate dalle foglie. Perché? Il motivo è semplice da illustrare: quanto maggiore è la capacità di costruire un nido confortevole e sicuro, tanto maggiore sarà la possibilità di portare avanti il suo corredo genetico, come illustra nel dettaglio il biologo Richard Dawkins nel suo libro intitolato Il Gene Egoista2. Per l’uomo è stato differente, le sue capacità di adattamento sono esplose esponenzialmente al nascere del suo ingegno tecnologico. Siamo passati da essere agenti passivi che trovavano rifugio all’interno di grotte preesistenti a essere la specie che più ha modificato il pianeta fino ad oggi. L’uomo prima dell’architetto Pensiamo all’uomo prima della nascita del concetto di "architetto": le sue scelte costruttive non avvenivano per motivi "estetici", ma si basavano unicamente sul materiale a disposizione nel territorio e sulle condizioni climatiche dell’ambiente in cui viveva.
I trulli di Alberobello in Puglia sono dei diretti discendenti delle antiche tombe micenee, questo non solo per la loro vicinanza (non si spiegherebbe altrimenti il motivo per cui sono presenti solo in Puglia e non nel resto del sud Italia), ma soprattutto per la somiglianza del paesaggio in cui sorgono, che è infatti dotato della stessa stratigrafia del terreno che permette di ottenere il tipo di pietra necessaria per la loro costruzione. In quanto animali sociali noi esseri umani non possiamo limitarci a osservare i singoli nidi e le loro strutture ma dobbiamo addentrarci alla ricerca di animali che hanno fatto del valore della comunità la loro ragione e causa di sopravvivenza. Le formiche, insieme alle api, sono gli animali che maggiormente usano la loro "conoscenza collettiva" all’interno delle loro colonie, infatti non si organizzano separatamente per la costruzione di un nido ma collaborano alla creazione di un grande ecosistema connesso.
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03. Formicaio gigante in Brasile. CC0
04. La città sotterranea di Derinkuyu. Jamie Rogers
Una colonia di formiche crea strutture estremamente complesse ma al tempo stesso massimamente funzionali per la specie, ottimizzando il terreno in cui si trovano. Tuttavia ogni colonia di formiche ha in comune l'assenza di un controllo centrale. Nessuna formica dirige il comportamento di un'altra formica ma la loro interazione definisce uno schema più grande, un ordine emergente dal caos apparente. Ad esempio, in Brasile è stato trovato uno dei più grandi formicai esistenti (ormai disabitato) in cui ci sono presenti corridoi sotterranei che collegano le camere principali, vari sentieri che si diramano e portano a giardini di funghi e fosse di preziosi rifiuti. Inoltre i tunnel sono progettati per garantire una buona ventilazione e tracciare i percorsi di trasporto più brevi. Tutto questo sembra che sia stato progettato da un unico architetto, da una sola mente, e invece è frutto della conoscenza collettiva che, in modo stupefacente, continua anche dopo la morte delle prime
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generazioni e acquisisce ulteriore esperienza con le generazioni successive. Se vogliamo cercare dei parallelismi con le nostre società, troviamo analogie chiare tra le celle di un alveare e il peculiare stile di vita in uno dei condominio di Hong Kong, città che detiene una delle densità abitative più alte al mondo con ben 6.544 persone per chilometro quadrato, e con torri che possono arrivare a contenere 14 mila abitanti3. Nell’antichità meccanismi abitativi simili sono stati osservati a Petra, in Giordania, scavata nelle montagne dai Nabatei più di 2000 anni fa. L’entrata di questa città si snoda attraverso un canyon (siq in lingua araba) lungo 1.600 metri che termina con il monumento di El Khasneh. Un altro esempio di questo tipo di insediamenti lo troviamo nelle regioni della Cappadocia, nell’Anatolia centrale, Turchia, con città risalenti al 300 d.C. e ricavate direttamente da scavi nel sottosuolo. Delle trentasei città sotterranee individuate dagli archeologi, Derinkuyu è la più grande con
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05. Fab Tree Hab. Mitchell Joachim
una capacità di 10-20.000 persone, estendensosi fino a una profondità di 70-85 metri. Questo insediamento è molto simile alla struttura di una colonia di formiche perchè oltre a contenere le abitazioni, ospitava anche stalle, cantine, pozzi d’acqua e chiese. Lo studio di questi modelli abitativi è stato approfondito da Paolo Soleri4, il quale era convinto che la città dovesse essere un elemento organico fondato sugli stessi principi degli organismi biologici, senza ridurre gli spazi utili ma eliminando gli spazi inutili. Teorie e futuro "Il modo migliore di predire il futuro è inventarlo" Alan Kay, 1971 Il termine arcologia, etimologicamente definito come ibridazione tra architettura ed ecologia, viene infatti coniato per la prima volta da Soleri negli anni ‘605. Il concetto è quello di "città ottimizzata", che si riscalda e si raffredda naturalmente, che non ha bisogno di trasporto privato perchè i percorsi sono brevi e automatici,
Oggi abbiamo scoperto che possiamo imitare sempre più accuratamente i comportamenti positivi che troviamo all’interno della natura e ciò che ci permette di comprenderla così bene sono i nuovi strumenti che abbiamo a disposizione. Alcuni software che ci permettono queste analisi sono Revit o Grasshopper per Rhinoceros che consente una flessibile e dettagliata modellazione algoritmica e parametrica dello spazio. L’architettura parametrica infatti è proprio intesa come un processo di progettazione che programma le azioni e le reazioni che l’architettura avrà una volta "nata". Quindi l’architetto si troverà a definire parametri dinamici, a programmare il "genoma" del progetto, che poi crescerà autonomamente, adattandosi alle preferenze dei propri utenti, alle condizioni dell’ambiente e della città. Ad esempio, John M. Johansen6, per teorizzare il concetto di "nanoarchitettura", si è fortemente basato sulle teorie di Richard Feynman secondo cui un giorno sarebbe stato possibile manipolare la materia su scala atomica, non essendoci leggi fisiche che lo vietino in linea di principio. Infatti tutti gli organismi viventi, dai batteri alle piante, dagli insetti, fino all’uomo stesso, sono, di fatto, incredibili macchine molecolari, e quindi sono dimostrazioni evidenti che la manipolazione della materia a livello atomico e molecolare è possibile in natura. Johansen ipotizzava che, una volta "avviata" una nanoarchitettura, gli edifici sarebbero cresciuti da soli, quindi ragionare in termini di nanotecnologia per l’architettura vuol dire analizzare la progettazione in uno scenario inedito, in cui le limitazioni tecnologiche dell’edilizia odierna saranno completamente superate. Lo stesso Mitchell Joachim7 in un TED 2010 ha proposto la crescita di interi villaggi utilizzando una combinazione di CNC (macchine a controllo numerico) e pleaching (tecnica di intreccio dei rami degli alberi per ottenere specifiche forme) per realizzare abitazioni in-
somiglianze tra l’uomo e l’ambiente: il nostro modo di abitare si ispira alla natura dove la produzione agricola, manifatturiera e cognitiva si sviluppa in zone pianificate e compatte e dove gli spazi per vivere e incontrarsi sono studiati per esaltare nell’essenzialità i bisogni dell’individuo. Queste città permetterebbero un risparmio sia energetico sia di consumo del suolo, grazie anche alle invenzioni come le fattorie verticali, portando a quello che lo stesso Soleri chiama un "trionfo della natura umana". Acrosanti, la città realizzata da Soleri a partire dagli anni ‘70, è stata il luogo principale della sua attività, un laboratorio urbano ancora oggi in costruzione.
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06. Nido di un uccello tessitore. CC0
castonate negli alberi, che lui chiama Fab Tree Hab. Queste abitazioni non solo limitano al massimo le emissioni in atmosfera ma possono anche assorbire anidride carbonica proprio perchè non solo fanno parte dell’ambiente ma sono l’ambiente. D’altro canto abbiamo sempre variato i nostri sistemi costruttivi in base all’ambiente in cui viviamo: nelle alpi possiamo trovare edifici in pietra o in legno in base al versante di riferimento, oppure possiamo trovare delle case in laterizio nelle pianure europee o ancora della case in terra cruda nelle zone equatoriali. Il nostro ingegno ci permette di sfruttare quello che l’ambiente ci dà, a prescindere da quanto siano estreme le condizioni. In conclusione abbiamo osservato una molteplicità di spunti interdisciplinari, che evidenziano in modo molto chiaro il fatto che le basi stesse del processo di progettazione architettonica possano essere guidate da una matrice storica intesa soprattutto in senso biologico ed ecologico. Inoltre non possiamo non notare che le sfide costruttive hanno iniziato a mutare a un ritmo esponenziale che ci obbliga a integrare in questo processo il fattore evolutivo che permetta all’architettura stessa di adattarsi a tale mutamento. Auspico infine che gli architetti, e l’umanità del futuro, sappiano affrontare con lo stesso intrepido ingegno creativo anche i mondi nuovi che ci accingiamo a esplorare, affascinanti e unici, per quanto aridi e inospitali possano essere.*
6 – John M. Johansen è stato un architetto statunitense del secolo scorso, ideatore del concetto di “nanoarchitettura” presentato nel libro “Nanoarchitecture: A new species of architecture”, 2002. 7 – Mitchell Joachim è un architetto impegnato nel settore del design ecologico e cofondatore di Terreform ONE, un gruppo di ricerca e consulenza sul design urbano senza scopo di lucro. BIBLIOGRAFIA - Dawkins R., “Il gene egoista. La parte immortale di ogni essere vivente”, Mondadori, Milano, 1995. - Johansen J.M., “A life in the continuum of modern architecture”, L’arca, Milano, 1995. - Johansen J.M., “Nanoarchitecture: A new species of architecture”, Princeton Architectural Press, 2002. - May J., Reid A., “Architettura senza architetti, guida alle costruzioni spontanee di tutto il mondo”, Rizzoli, Milano, 2010. - Soleri P., “Arcology: the city in the image of man”, MIT press, Boston, 1983. - Wade D., “Disegnum. Prospettiva, simmetria, curve, arte celtica e islamica, sezione aurea”, Sironi, Milno, 2014. - Wade D., “Geometria fantastica, i poliedri e l’immaginario astrofisico nel rinascimento”, Sironi, Milano, 2015.
NOTE 1 – John Stephen Jones, Professore presso l’Università di Chicago, intervista al The Science Show del 2002. 2 – Libro “Il gene egoista. La parte immortale di ogni essere vivente”, 1979. Saggio scientifico in cui il biologo Richard Dawkins spiega le teorie dell’evoluzione basandosi sui nostri geni. 3 – Dati ricavati dall’articolo del Mail Online del 03/08/2015 realizzato grazie alle descrizioni e foto di Jason Langley. 4 – Paolo Soleri è stato un architetto e urbanista italiano e allievo di Frank Lloyd Wright. 5 – Nel volume "Arcologia: la città a immagine d'uomo" 1983 di Paolo Soleri viene introdotto il concetto di arcologia, ovvero lo sviluppo di un modello urbanistico tridimensionale ed ecologico, processo da lui iniziato già a partire dal 1970 con la formazione del prototipo di città chiamata Arcosanti.
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Laura Calcagnini Architetto, Ph.D., Università degli Studi Roma Tre. laura.calcagnini@uniroma3.it
Antonio Magarò Architetto, Ph.D. candidate, Università degli Studi Roma Tre. antonio.magaro@uniroma3.it
Massimo Mariani Architetto, Ph.D. candidate, Università degli Studi di Firenze. massimo.mariani@unifi.it
Biopolimeri dagli scarti della filiera agroalimentare
01. Arboskin Pavilion. ITKE
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bioplastiche e biopolimeri come alternative ai materiali tradizionali: stato dell’arte e prospettive future della ricerca Il contributo si propone di fare il punto sullo stato dell’arte della ricerca riguardante biopolimeri prodotti dagli scarti provenienti dalla filiera agro-alimentare. Inoltre, vengono individuate le prospettive future in relazione alla produzione di materiali per l’architettura. Nella prima parte, si operano una serie di distinzioni e precisazioni terminologiche con lo scopo di fornire una classificazione generale dei biopolimeri. Successivamente viene presa in esame la categoria dei polimeri biodegradabili con particolare riferimento a quelli derivati dallo scarto della produzione agro-alimentare. In particolar modo si analizza la produzione di biopolimeri da fermentazione batterica e di quelli derivanti da amidi naturali.* The contribution reports the researches' focus on biopolymers produced by waste from the agri-food industry. Furthermore, future perspectives in relation to the production of architectural materials are identified. In the first part, a series of terminology specifications are made with the aim of providing a general classification of biopolymers. After, the reference regulatory framework is provided. Subsequently, the category of biodegradable polymers is examined with particular reference to those derived from agri-food production waste. In particular, the production of biopolymers from bacterial fermentation and those deriving from natural starches is analyzed. Production processes are carried out starting from the secondary raw materials: waste from the wine industry, the dairy industry and the corn, tomato, potato and cereal industry. *
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ateriali plastici tradizionali e innovativi La produzione e il consumo di materie plastiche di sintesi petrolchimica è aumentata costantemente con un tasso medio annuo pari all’8,6%. In Europa, la domanda di materie plastiche è pari a 49 milioni di tonnellate, di cui il 19,7% dalle costruzioni (img. 02), secondo solo al packaging. La plastica non biodegradabile è soggetta a problemi di smaltimento ed è responsabile dell’immissione nell’ecosistema marino di 8 milioni di tonnellate l’anno tra plastiche e microplastiche (Schmidt et al., 2017). Tale inquinamento deteriora gli ecosistemi, con effetti diretti sulla fauna, sulla catena alimentare e sull’uomo. In questo senso appare di fondamentale importanza ricercare soluzioni alternative come i biopolimeri che, additivati per raggiungere particolari prestazioni quali la biodegradabilità, danno origine alle bioplastiche. Per biopolimeri si intendono, dunque, composti biodegradabili derivati da biomassa animale e/o vegetale che possono classificarsi in (Petersen et al., 1999): -- polimeri biodegradabili da biomassa; -- polimeri biodegradabili di origine petrolchimica; -- polimeri prodotti a partire da biomassa non biodegradabili. Le classi sopra descritte tengono presente che: -- il D.Lgs 387/03, definisce la biomassa come "[…] parte biodegradabile dei prodotti, rifiuti e residui provenienti dall’agricoltura, dalla silvicoltura e dalle industrie connesse, nonché la parte biodegradabile dei rifiuti industriali e urbani". -- per biodegradabilità si intende la propensione di un materiale a essere trasformato da microrganismi presenti nell’ambiente, senza additivi (EN 13432, 2002; EN 14995, 2006; ASTM D6400, 2012), misurata attraverso la quantità di CO2 prodotta per massa consumata nel tempo (UNI EN14046; ISO 14855)1. Si precisa che la biodegradabilità non è sinonimo di compatibilità ambientale: materiali biodegradabili potrebbero non iniziare mai il processo di biodegradazione oppure avere tempi lunghi. Pertanto, la normativa definisce la
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02. Andamento mondiale del consumo di plastica dal 1950 in milioni di tonnellate. PlasticEurope, 2016
disintegrabilità: proprietà di un materiale di frammentarsi attraverso biodegradazione al punto da non essere più visibile2 (UNI EN 14045) (Tabella 01). Un materiale biodegradabile e disintegrabile è, entro certi limiti, compostabile3. Poiché i biopolimeri traggono origine dalla biomassa, una strategia tesa a renderne competitiva la produzione è quella di impiegare materiali organici di scarto dall’industria agroalimentare. Materiali per il processo: scarti della filiera agroalimentare, qualità e quantità Prendendo in considerazione solo la filiera del prodotto vegetale, da cui proviene il 63% dei rifiuti, il processo di trasformazione dell’industria agroalimentare si può distinguere in due fasi (Gustavsson, 2011): -- pre consumer, che include i rifiuti da produzione agricola, dalla raccolta e/o legati al processo industriale; -- post consumer, che rappresenta i rifiuti prodotti in fase di distribuzione e consumo. Si presenta un quadro conoscitivo teso a delineare gli aspetti quali-quantitativi di scarti e sottoprodotti da diverse filiere. 1. Scarti e sottoprodotti della vinificazione I principali sottoprodotti della vinificazione si possono distinguere in: -- raspo, struttura legnosa del grappolo che può costituire tra l’1,4 e il 7% in peso del frutto (Teixeira et al., 2014); -- vinaccia, residuo della spremitura comprendente bucce e vinaccioli. Ve ne sono altri, come la feccia, costituita dai sedimenti fermentati e da microrganismi. In Italia, la quantità di tali sottoprodotti e scarti è stimabile in 8 milioni di quintali di vinacce e vinaccioli4 e di 2.250 milioni di ettolitri di fecce5. Il D.M. 27/11/2008, pur consentendo una serie di utilizzi, non prevede il reimpiego nell’industria dei biopolimeri (Tabella 02).
2. Scarti e sottoprodotti dell’industria casearia I principali sottoprodotti dell’industria casearia sono: -- siero di latte, espulso dalla cagliata e prodotto nella misura di 9 litri ogni kg di formaggio (Zafar et al., 2005); -- scotta, residuo dalla produzione di ricotta con un contenuto di lattosio di 45-50 g/l (Saraceno et al., 2010). -- latticello, scarto della lavorazione del burro, povero di proteine e lipidi (Carletto, 2014). Il primo, caratterizzato da un’alta concentrazione di carbonio che lo rende un ottimo substrato batterico, non dovrebbe essere considerato uno scarto6. Ciò nonostante più del 50% viene dismesso in acqua dai caseifici e i comuni trattamenti di depurazione non sono in grado di ridurne il carico ambientale (Tabella 03). 3. Scarti e sottoprodotti dell’industria cerealicola La macinazione dei cereali genera molta biomassa di scarto, classificabile in: -- crusca, parte del chicco che non costituisce farina; -- scarti di produzione, prodotti di bassa qualità; -- residui da lavaggio macchine, contenenti molta biomassa. Attualmente si ricavano biopolimeri dall’amido di mais da coltivazioni apposite con il rischio di incrementare il prezzo del mais7, alimento base di molte popolazioni. 4. Scarti e sottoprodotti dell’industria conserviera I principali sottoprodotti della lavorazione del pomodoro sono: -- buccia, separata nelle prime fasi di lavorazione o durante la raffinazione; -- semi, eliminati dal prodotto durante la fase di raffinazione. L’industria conserviera mondiale processa in media 38 milioni di tonnellate l’anno di pomodoro8. L’Italia si contende il secondo posto nella produzione di pomodoro da industria con la Cina e, nel 2016, ha prodotto il 14% del totale mondiale. Il processo di trasformazione influisce molto sul quantitativo di scarto recuperabile (Leoni, 1997), comunque ingente: a 1 milione di tonnellate di pomodori lavorati ne
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corrispondono 220mila tra semi e bucce, quest’ultime composte da polimeri naturali9. Materiali per il prodotto: polimeri bio-degradabili da fermentazione batterica Gli scarti e i sottoprodotti presentati sono potenziali substrati per la produzione dei biopolimeri. Nel valutare i differenti biopolimeri, al fine del loro potenziale impiego in edilizia, è necessario tenere presente alcune caratteristiche. Ad esempio, i PHA (Poliidrossialcanoati), che assumono la forma di granuli del diametro compreso tra 0,2 e 0,7 μm, possono essere termoplastici, fragili e/o elastici, hanno scarsa permeabilità a gas e vapori, ma hanno un alto costo e rischio di produzione per la presenza di solventi. In tal senso sono attive sperimentazioni in cui viene impiegato il siero di latte come substrato. Le bioplastiche da amido (acido polilattico PLA) sono molto diverse tra di loro in funzione della materia prima, del processo produttivo e degli additivi. Attualmente vengono prodotte 515mila tonnellate di polimeri da amido, impiegati nel packaging (75%) e in agricoltura (25%). Per la vasta gamma prestazionale è auspicabile il loro impiego in edilizia. Il PLA, ad esempio, può assumere proprietà opposte di elasticità o di rigidezza: prima della plastificazione alcuni PLA possono presentare un modulo di Young pari a 2,1 GPa e un’elongazione a rottura fino al 9% e, dopo la plastificazione, rispettivamente 0,7 MPa e 200% (Fiorini et al.,2013) (Tabella 04). Il quadro comparativo, per le prestazioni meccaniche confrontate, fornisce una prima indicazione sulla applicabilità e definizione di prodotti da biopolimeri (PLA) in analogia ai materiali tradizionali in uso nell’edilizia, in particolare al polistirene (PS), che ha caratteristiche estremamente simili, ma con i noti ed evidenti limiti sotto il profilo ambientale sia nei termini del prodotto finito sia del suo processo produttivo.
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PA
CA
Legno
1,5
Cellulosa
1
PHA
Proteine
<1
PLA
PHB
Tempo (mesi)
Amido
Tabella 01. Tempi di compostaggio di alcuni materiali, rinnovabili e non rinnovabili [van Tuil et al., 2000]. In evidenza alcuni dei biopolimeri più diffusi. PHB (poliidrossibutanoato), PLA (acido polilattico), PHA (poliidrossialcanoato), PA (poliammide), CA (acetato di cellullosa).
0,5 – 1,5
1 – 3
1,5 – 3,5
3 – 6
3,5 – 6
4 – 6
Tabella 02. Caratteristiche e composizione chimica dei sottoprodotti della vinificazione [Bustamante et al., 2008]. Raspi
Vinaccia
Feccia
Vinaccia Esausta
pH
4,4
3,8
4,0
5,5
EC [dS/m]
4,44
3,4
4,59
1,62
Sostanza organica [g/kg]
920
915
759
912
Carbonio organico ossidabile [g/kg]
316
280
300
276
Carbonio solubile in acqua [g/kg]
74,5
37,4
87,8
18,3
N totale [g/kg]
12,4
20,3
35,2
21,3
P [g/kg]
0,94
1,15
4,94
1,64
K [g/kg]
30,0
24,2
72,8
11,9
Ca [g/kg]
9,5
9,4
9,2
14,6
Mg [g/kg]
2,1
1,2
1,6
1,2
Fe [mg/kg]
128
136
357
370
Mn [mg/kg]
25
12
12
17
Cu [mg/kg]
22
28
189
23
Zn [mg/kg]
26
24
46
19
Tabella 03. Composizione indicativa dei sottoprodotti dell’industria casearia (Carletto, 2014). Siero
Scotta
Latticello
Lattosio [% peso]
4,5
4,0
4,2
Proteine [% peso]
0,75
-
3,4
Grassi [% peso]
0,2
0,7
0,7
Ceneri [% peso]
0,7
1
0,8
Vitamine [mg/l]
12
-
-
0 – 0,15
0,2
0,15
4,9 - 6
6,6 – 6,2
-
Acidi organici [% peso] pH
Tabella 04. Comparazione delle principali caratteristiche meccaniche tra il PLA e alcuni polimeri di sintesi
25
PLA
PS
PVC
PP
Carico di snervamento [MPa]
49
49
35
35
Elongazione a rottura [%]
2,5
2,5
3,0
10,0
Modulo a trazione [GPa]
3,2
3,4
2,6
1,4
Resistenza a flessione [MPa]
70
80
90
49
35 30
29
25 20
27 20
15 13
10
11
5 0
ZUCCHERO
STRUMENTAZIONI PRODOTTI CHIMICI
ALTRO
ENERGIA
03. Incidenza percentuale sui costi di produzione del PHA da zucchero di canna. Koller et al, 2012
Applicazioni in edilizia Attualmente in edilizia l’impiego dei biopolimeri è relativo a materiali, quali lignina, cellulosa, gomme naturali, all’interno di guaine, vernici, malte, ecc. principalmente con la funzione di impermeabilizzanti, solventi, viscosizzanti o stabilizzanti. È auspicabile che i biopolimeri siano in grado di possedere requisiti di durabilità e resistenza alla corrosione, isolamento termoacustico, leggerezza, propensione al riuso e basso costo di trasporto. In Europa, la sperimentazione sui biopolimeri applicati all’architettura trova importanti riferimenti nelle ricerche dell’ITKE (Institut fur Tragkonstruktionen und Konstruktives Entwerfen) di Stoccarda, dove sono state sviluppate diverse linee di ricerca rivolte alla sperimentazione dell’impiego di biopolimeri per la realizzazione di materiali realmente eco-compatibili con lo scopo di testare materiali biodegradabili per la realizzazione di ele-
Arboskin Pavilion, ITKE – Università di Stoccarda, 2013 Il padiglione Arboskin (img. 01), il cui progetto è basato sull’idea del guscio, è interamente realizzato con un rivestimento in facciata a base di una bioplastica in granuli estrudibili che formano lastre forabili, stampabili, tagliabili a laser, laminabili, termoformabili e fresabili. La lavorabilità è ottenuta mediante la miscelazione di polidrossialconati, polidrossibutirrati (PHA e PHB), policaprolattone (PCL), biopoliestere (bio PET), acido polilattico (PLA), amido, cellulosa e lignina, insieme a cere, resine e oli naturali, acidi grassi e additivi organici, il tutto rinforzato con fibre naturali. Il mix design, prodotto al 90% da fonti rinnovabili, è caratterizzato da: -- malleabilità elevata; -- rigidezza e stabilità paragonabili alle plastiche tradizionali; -- standard elevati di durabilità e reazione al fuoco. Il materiale è impiegato per moduli piramidali sorretti da una sottostruttura ad anelli a costituire una superficie a doppia curvatura. Le aperture sono ottenute mediante fresatura. Il materiale di scarto può essere rigranulato e ricondotto nel processo produttivo e, alla fine del ciclo di vita, diviene compostabile.
in edilizia l’impiego dei biopolimeri è relativo a materiali usati con funzione di impermeabilizzanti, solventi, viscosizzanti o stabilizzanti menti di finitura, di partizione o di chiusura, leggeri, trasparenti o traslucidi, economici e dotati di potenzialità espressive, formali e compositive (ITKE, a 2018). Tra i più interessanti componenti realizzati all’interno dei laboratori tedeschi, si annoverano rivestimenti ceramici, stabilizzati e alleggeriti mediante l’impiego di fibre biopolimeriche prodotte da fermentazione batterica di scarti agroalimentari (Dahy et al., 2017). L’ITKE inoltre sta sviluppando una serie di sperimentazioni su pannelli traslucidi modellabili, in grado di sostituire le superfici vetrate, cercando di ottimizzare il rapporto con le strutture dei telai, la riduzione del peso specifico e l’impatto energetico in fase di produzione. La sintesi di tali ricerche trova un primo esito applicativo in una architettura sperimentale, l’Arboskin Pavilion (ITKE,b 2018).
La diffusione delle bioplastiche in architettura: un complesso rapporto tra costi e benefici Attualmente, i biopolimeri si ricavano da coltivazioni apposite, comportando notevole consumo di suolo10. Dal punto di vista del mercato si classificano in: - old economy, è il mercato di alcune gomme, della cellulosa, del linoleum, ecc. - new economy, è un settore che si può ulteriormente suddividere in: - nuovi prodotti, come il PLA, i PHA, ecc.; - rielaborazione di prodotti esistenti, come Bio-PA, BioPET, Bio-PE, ecc. La prima occupa una quota di mercato mondiale di 17 mi-
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NATURA
04. Batteri con accumuli granulari di PHA.
lioni di tonnellate/anno, mentre la quantità relativa alla seconda è un decimo: nel 2016, il totale della produzione di bioplastiche ammontava a 18,9 milioni di tonnellate l’anno, pari al 6% del mercato delle plastiche (Hannover HochShule, 2016). A causa dell’energia necessaria e dei costi per l’approvvigionamento di zuccheri (img. 03), le bioplastiche sono poco competitive: 1 kg di PHA costa circa 3 dollari. In quest’ottica è necessario innovare il processo di produzione, sia preferendo substrati da scarti dell’industria agroalimentare sia, come nel caso dei PHA, nelle fasi di recupero e raffinazione del prodotto, critiche a causa dell’impiego di solventi, pericolosi da manipolare e complessi da smaltire. La risoluzione di questi aspetti consentirebbe di realizzare un materiale in grado di sostituire i comuni componenti derivati da sintesi petrolchimica (casseri per vespai, membrane di separazione, ecc.), e di poter essere impiegato per la realizzazione di elementi costruttivi potenzialmente in grado di caratterizzare forma e espressività dell’architettura, in particolare mediante componenti per i rivestimenti di facciata. I vantaggi del materiale possono essere valutati non solo in rapporto alla famiglia di provenienza (i materiali plastici) di cui sono una evidente evoluzione, ma anche in termini di prestazioni che possono garantire in sostituzione di materiali e componenti tradizionalmente impiegati per assolvere i medesimi requisiti: un elemento di chiusura trasparente realizzato con materiali biopolimerici dovrebbe essere confrontato dal punto di vista delle prestazioni, (estetiche, meccaniche, ambientali ecc.), con l’analogo elemento realizzato con materiali polimerici quali il policarbonato o l’EFTE, ma anche con il vetro. Solo operando una sistematica comparazione in termini prestazionali sarà possibile determinare un corretto rapporto costi/benefici, superando in tal senso l’imbattibilità, in termini di costo, delle plastiche di origine fossile, ampliando la visione tecnologica, le possibilità di innovazione e alimentando una competitività atta a favorire il miglioramento prestazionale degli elementi.*
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NOTE 1 - Si può definire accettabile una biodegradazione del 90% della massa iniziale in un tempo di 180 giorni (UNI EN13432, 2002). In funzione della biodegradabilità e dell’origine. 2 - Il processo si misura in un tempo di 90 giorni decorsi i quali non sono ammesse particelle di dimensione superiore ai 2 mm per quantità maggiore del 10% del volume iniziale. 3 - Oltre ad essere biodegradabile e disintegrabile un materiale compostabile non deve provocare effetti negativi né sul processo di compostaggio né sul prodotto finale (compost). 4 - Pari al 15% dell’uva vinificata. 5 - Pari al 5% del vino prodotto. 6 - La componente di pregio del siero sono le proteine del latte (circa il 20% in peso). 7 - Ma anche patata o tapioca. 8 - Ismea, “I numeri della filiera del pomodoro da industria”, Roma, giugno 2017. 9 - Come fibra alimentare, lignina e cellulosa. 10 - Il consumo di suolo generato è pari a 15,7 milioni ha, corrispondenti allo 0,3% delle aree agricole mondiali (Aeschelmann, 2016). BIBLIOGRAFIA - Aeschelmann F., “Bio-based building blocks and polymers”, Michael Carus, Hurth, 2016. - Bustamante M.A., Moral R., Paredes C., Pérez-Espinosa A., Moreno-Caselles J., PérezMurcia M.D., “Agrochemical characterization of solid by-products and residues from winery and distillery industry”, in “Waste manage”, 2008, n. 28, pp. 372-380. - Dahy H, Kinppers J., “Biopolumers and Biocomposites Based on Agricultural Residues”, in AA.VV “Cultivated Buildng Materials: Industrialized Natural Resources for Archtecture and Constracution”, 2017, Birkhäuser, Basel, pp. 116-123. - Carletto A.R., “Studio della produzione di polidrossialcanoati da siero di latte”, Politecnico di Torino, Scuola di Dottorato, Dottorato in Ingegneria Chimica, Torino, 2014. - Fiorini M., Sisti L., Colonna M., “Relazione sui materiali plastici per l’estrusione”, Centro Interdipartimentale di Ricerca Industriale Edilizia e Costruzioni, Università di Bologna, Bologna, 2013. - Gustavsson C.C., Sonesson U., van Otterdijk R., Meybeck A, “Save food! Study conducted for the International Congress Interpack 2011, Dusseldorf, Germany, 2011. - Hannover Hochschule, “Biopolymers. Facts and statistics”, Fakultät II Maschinenbau und Bioverfahrenstechnik, Hannover, 2016. - ITKEa, “Natural Fibre Biocomposites in Architectural Applications”. Consultabile su: https://goo.gl/CnzKX5 (ultima consultazione 22 gennaio 2018). - ITKEb, “ArboSkin: Durable and Recyclable Bioplastics Facade Mock-Up”. - Koller M., Salerno A., Reiterer A., Braunegg G., “Sugarcane as feedstock for biomediated polymer production”, in Goncalves, J.; Correia, K.D. (a cura di) “Sugarcane: production, cultivation and uses”, 2012, Nova Science Publishers, New York, pp. 105-136. - Leoni C., “Gli scarti dell’industria di trasformazione del pomodoro: un contributo per districarsi tra pomodoro di scarto, scarto assegnato e scarto di lavorazione”, in “Industria conserve”, 1997, n. 73, pp. 278-290. - Petersen K., Nielsen P.V., Bertelsen G., Lawther M., Olsen M.B., Nilsson N.H., Mortensen G., “Potential of biobased materials for food packaging”, in “Trends in food science & technology”, 1999 n.10, pp. 52-68. - Saraceno A., Sansonetti S., Curcio S., Calabrò V., Iorio G., “A hybrid neural approach to model batch fermentation of dairy industry wastes”, in “Computer aided chemical engineering”, 2010, vol. 28, pp. 739-744. - Taixeira A., Baenas, N., Dominguez-Perles, R., Barros, A., Rosa, E., Moreno, D.A., GarciaViguera, C., “Natural bioactive compounds from winery by-products as health promoters: A Review”, in “International Journal of Molecular Sciences”, 2014 n. 15, pp. 15638-15678. - Van Tuil R., Schennink,G., de Beukelaer H., van Heemst J., “Converting biobased polymers into food packagings”, in Weber, C.J. (a cura di), “Conference proceedings: the food biopack conference. Foodsruffs, packaging, biopolymers”, The Royal Veterinary and Agricultural University, Copenhagen, 2000. - Zafar S., Owais M., Saleemuddin M., Husai S. “Batch kinetics and modelling of ethanolic fermentation of whey”, in “International Journal of food, science and Technology”, 2005, n.40, pp. 597-604.
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Valentina Coraglia Borsista di Ricerca - Politecnico di Torino, DAD – Dipartimento di Architettura e Design. valentina.coraglia@polito.it
Natura 4.0 Avanguardie “bio-ispirate” per il design del futuro
01. The Growing lab: micelio e scarti agroalimentari.Officina Corpuscoli | Maurizio Montalti
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NATURA
imitazione, collaborazione, ingegnerizzazione, manipolazione: nuovi metodi produttivi basati su sistemi viventi Capire, utilizzare e imitare la natura, fonte di risorse e metodi di progettazione, può dare vita a nuove soluzioni per interagire con l’uomo e con l’ambiente in modo innovativo e sostenibile. L’articolo, attraverso l’analisi di casi studio significativi, vuole evidenziare le possibilità date dall’imitazione ed emulazione della natura nello sviluppo di materiali, prodotti, sistemi e processi avanzati. Diverse sono infatti le ricerche proposte da centri di ricerca, aziende e start-up, per definire nuove soluzioni produttive ispirate alla natura e per sviluppare le potenzialità offerte dagli organismi viventi.* Understanding, employing, emulating the nature, source of resources and design methods. The nature provides new solutions to allow humankind to look further and to interact with the entire ecosystem in sustainable and innovative ways. Analyzing studies of different cases, the article investigates the possibility to develop new materials, systems, processes and products starting from nature. Research centers, illuminated companies and start up are quickly moving towards innovative solutions inspired by nature, in collaboration with living systems.*
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nvironmentally conscious designers are rethinking basic building materials. Engaging with our resource-threatened future, they are using biomimicry and engineered nature to find sustainable alternatives to synthetic materials such as oil-based plastics" (Till, Franklin, 2018, pp. 192) Formiche di una forza straordinaria organizzate in megalopoli resilienti, batteri che sopravvivono alle più austere condizioni atmosferiche, piante e funghi in grado di assorbire sostanze inquinanti, rettili in grado di muoversi e vedere chiaramente nella notte, piante in grado di adattarsi e sopravvivere alla siccità. Queste informazioni dettagliate a proposito delle straordinarie caratteristiche di esseri viventi emergono visitando il portale online di Ask Nature: si tratta di una piattaforma sviluppata dal Biomimicry 3.8 Institute di Missoula1 per consentire a tutti i possibili interessati di esplorare e conoscere il potenziale della natura e sviluppare soluzioni progettuali "bio-ispirate" per il domani. Maison/0, l’incubatore inglese per la sostenibilità ambientale promosso dalla designer Carol Collet, ha definito il XX secolo cruciale per lo sviluppo dell’industria petrolchimica mentre, nel XXI secolo, stiamo assistendo all’evoluzione del biological manufacturing e del bio-inspired design, ovvero lo sviluppo di metodi di progettazione e produzione che si ispirano alla natura oppure che collaborano con essa. Nello specifico, per biological manufacturing si intende l’insieme dei processi che ingegnerizzano i sistemi e gli organismi viventi attraverso la genetica e la combinazione di biologia e tecnologie emergenti. Al giorno d’oggi, grazie anche all’ausilio di avanzate strumentazioni è possibile osservare sempre più in profondità le potenzialità che la natura stessa ci offre. Imitazione, collaborazione, ingegnerizzazione, manipolazione: diversi sono i metodi oggi utilizzati per definire nuove prospettive e nuovi metodi produttivi basati su sistemi viventi.
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02. La ragnatela, ispirazione naturale per l'Engineered Silk. C00
03. Dettaglio dell'abito di Stella McCartney realizzato con l'Engineered Silk di Bolt Threads.
Come possiamo applicare i principi della biomimetica e collaborare con la natura? Come è effettivamente possibile integrare la biologia nel design process? Come possono alternative "bio-ispirate" guidare innovazioni per il design e l’architettura? Neri Oxman, architetto e designer, è professore associato presso il Media Arts and Science dell’MIT Media Lab e del Sony Corporation Career Development. Oxman è anche la fondatrice e direttrice del Mediated Matter Research Group, gruppo di ricerca interdisciplinare del Massachusetts Institute of Technology (MIT), che si occupa di unire computational design2,
tra l’innovazione tecnologica e la natura. Ad esempio, nel 2013, il Mediated Matter ha sviluppato nei propri laboratori The Silk Pavilion, una struttura temporanea a cupola, di 2 metri diametro per 2 metri di altezza, realizzata con il principio dell’additive manufactuting, utilizzando 6.500 bachi da seta al posto delle classiche stampanti 3D. Il gruppo di ricerca ha nominato il processo CNSilk, un processo di produzione che sfrutta la capacità dei bachi di produrre il loro filato su percorsi predefiniti. Grazie all’utilizzo di un’armatura in metallo e di un filamento di seta di partenza, è stato possibile creare l’ambiente su cui i bachi hanno incominciato a operare. Il processo è definito environmentally friendly, in quanto ogni baco dopo aver tessuto la sua tela si trasforma in farfalla e vola via, depositando sulla struttura una quantità di uova tale da poter generare nuovi organismi e quindi creare nuove strutture. Ovviamente, la seta tessuta è naturale, biodegradabile e la struttura viene rigenerata nel tempo dalle neonate creature. Osservando il panorama progettuale legato ai sistemi viventi si può notare che alcune ricerche, anche se molto importanti dal punto di vista dello sviluppo di tecnologie e di sistemi produttivi innovativi, sono condotte ancora a livello sperimentale. Altre invece sono già sviluppate a livelli industriali, proponendo soluzioni competitive sul mercato. Ne è un esempio l’azienda americana Bolt Threads che, osservando le ragnatele dei ragni (img. 02) e le loro fibre di seta, ha elaborato una tecnologia in grado di replicarne il processo su ampia scala. Partendo dallo studio delle proteine presenti nelle ragnatele, i ricercatori hanno sviluppato proteine artificiali prive di DNA simili a quelle naturali e le hanno moltiplicate attraverso la fermentazione, utilizzando zuccheri e lieviti. Le proteine artificiali vengono
il processo CNSilk è un processo di produzione che sfrutta la capacità dei bachi di produrre il loro filato su percorsi predefiniti, grazie all’utilizzo di un’armatura in metallo e di un filamento di seta di partenza fabbricazione digitale, scienza dei materiali e biologia sintetica al fine di investigare le possibili relazioni tra il mondo artificiale e gli ecosistemi. Applicando i principi di progettazione da loro definiti, osservando e imitando la natura, il Mediated Matter sviluppa progetti all’avanguardia per l’architettura, il design del prodotto, il fashion e lo sviluppo di nuove tecnologie per la fabbricazione digitale. I lavori sperimentali del Mediated Matter sono stati selezionati per fare parte delle collezioni permanenti di importanti musei mondiali, quali il Museum of Modern Arts (MoMA) di New York e il Centre Georges Pompidou di Parigi, come simbolo di avanguardia e collaborazione
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NATURA
quindi filate in fibre (img. 04), chiamate Engineered Silk Fibers, disponibili per la realizzazione di tessuti (img. 03). Il materiale ottenuto attraverso processi artificiali è sostenibile e ha ottime caratteriste tecniche in termini di leggerezza, versatilità, isolamento termico e durabilità. Organismi e sistemi viventi sono oggetto di sperimentazioni e ricerche anche da parte del designer Maurizio Montalti, fondatore di Officina Corpuscoli che, dal 2010, si occupa di investigare una "diversa modalità di creazione che sostituisce al paradigma industriale della produzione quello organico della coltivazione" (Maurizio Montalti). Tra i diversi progetti di Officina Corpuscoli è da segnalare The Growing Lab/Mycelia, una ricerca attiva dal 2010 per sfruttare le potenzialità del mycelium3 dei funghi nello sviluppo di nuovi materiali e nuovi metodi di produzione. The Growing Lab, con la collezione Mycelia (img. 01), vuole dimostrare concretamente come è possibile sostituire i materiali di origine petrolchimica con materiali di origine naturale e compostabili, introducendo possibili scenari produttivi futuri che potrebbero modificare il panorama economico e industriale attuale. Maurizio Montalti ha fondato inizialmente Mycoplast, un’azienda che sviluppa biomateriali derivanti da processi naturali, a partire da scarti di attività agro-industriali e miceli. Nel 2015 l’azienda è evoluta nella start-up Mogu, che attualmente produce l’omonimo materiale composto dal mycelium e da svariati scarti della filiera agro-industriale. Su un substrato di materiale vegetale, come paglia, segatura o fibre, il micelio agisce da collante e sviluppa una colonia di funghi, conferendo solidità al materiale (img. 05). MOGU è adatto ad applicazioni in differenti ambiti, dalla bioedilizia al product design quali, ad esempio, pavimentazioni, isolamenti termici ed acustici, complementi d’arredo e packaging. La definizione di nuove proprietà e caratteristiche del materiale è costante e oggi l’azienda sta sviluppando anche una versione di similpelle in MOGU. 04. Processo di produzione della fibra a partire dalle proteine artificiali. Bolt Threads
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Marlène Huissound sperimenta come l’uomo e la natura possano collaborare nel processo di sviluppo del prodotto, riducendo al massimo le risorse utilizzate e ottimizzando i materiali di scarto 05. Piastrelle MOGU con micelio, scarti agroalimentari e bio-resina. MOGU
Gli scarti prodotti da organismi viventi, come api e bachi da seta, sono oggetto delle sperimentazioni di Marlène Huissound, designer francese che indaga nuovi materiali e metodi produttivi. Marlène Huissound sperimenta come l’uomo e la natura possano collaborare nel processo di sviluppo del prodotto riducendo al massimo le risorse utilizzate e ottimizzando i materiali di scarto. Sin dalla sua prima collezione nel 2014, From Insect, composta da vasi dalle forme organiche, la designer lavora con cera d’api e propoli, soffiando il composto ottenuto come se fosse vetro. Huissound, con l’intenzione di introdurre possibili alternative ai materiali plastici comuni, unisce realtà differenti, come l’artigianato tradizionale e l’utilizzo di materiali di scarto di svariate filiere produttive, attraverso l’utilizzo di materiali naturali al di fuori del loro tradizionale contesto (img. 06). Un ulteriore esempio di rilievo, relativo all’interazione tra tecnologie e organismi viventi, è quello sviluppato da Seon-Yeong Kwak, ingegnere chimico e biologico, e dal suo gruppo di ricerca presso il Massachusetts Institute of Technology: Glowing Plants (img. 07). Si tratta di piante nelle cui foglie sono state inserite nano-particelle, attraverso enzimi provenienti dalle lucciole, che inducono l’emissione di luce. Attualmente i ricercatori sono riusciti a far sì che le piante emettano una tenue luce per circa 45 minuti, ma futuri sviluppi riguarderanno l’incremento della luminosità, la durata e la sperimentazione su nuove tipologie di piante in grado di accogliere queste nano-particelle. Le piante, inoltre, sono i sistemi viventi-cuore della realizzazione di pareti verdi per il rivestimento e l’isolamento di superfici esterne o interne verticali; ne sono un esempio le pareti vegetati, i sistemi di facciata e di partizione sviluppati da Growing Green s.r.l., spin off e start-up del Politecnico di Torino. Tali sistemi prevedono l’utilizzo della vegetazione come rivestimento sfruttandone i benefici energetici, ambientali e ornamentali. 06. Scarti industriali, vetro, propoli e cera d’api. Of insects and Men by Studio Marlène Huissound. Studio Immatters
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07. Piante nanobioniche emettenti luce, Glowing Plants. Seon-Yeong Kwak
Attraverso spessori anche molto ridotti (4 cm appena) si migliora il comfort acustico e termico degli ambienti interni ed esterni. La natura viene analizzata, "sezionata", imitata e modificata per definire nuovi sistemi produttivi, nuovi materiali e nuovi prodotti. "La tecnica più raffinata, i sistemi di calcolo più sofisticati, la possibilità di gestire sistemi complessi" (Manzini, 1986) oggi permettono ai designer, agli ingegneri dei materiali, ai biologi, di interagire con la natura a piacimento. Gli organismi viventi, attraverso le proprie caratteristiche intrinseche e il proprio processo generativo, diventano quindi sempre più protagonisti nel panorama industriale emergente. La natura si fa 4.0, come dimostra la maggior parte degli esempi sopra citati in cui si individuano, infatti, elementi comuni con quelli della rivoluzione industriale in atto, dall’elevata ingegnerizzazione della materia prima, all’utilizzo di sistemi produttivi naturalmente o artificialmente intelligenti. Non si può dire con certezza quali saranno le conseguenze di questa evoluzione sovente così all’avanguardia da risultare utopica. Nell’intervista che Maurizio Montalti ha rilasciato per Radical Matter (Till, Franklin, 2018, pp. 196-197), Montalti sostiene che i progettisti hanno un ruolo di catalizzatori per il cambiamento e che il design può essere utilizzato come strumento per la trasmissione di informazioni complesse attraverso un linguaggio accessibile a tutti, aiutando a comprendere meglio le conseguenze dell’interazione tra natura e tecnologia a cui ci stiamo velocemente approcciando.*
cio di filamenti che in condizioni ideali, a contatto con del materiale organico, producono una struttura chiamata corpo fruttifero. Le fibre si arrotolano attorno al materiale organico e, a seconda di dove vengono viene lasciate crescere, sviluppano forme diverse. BIBLIOGRAFIA - Calvert J., Elfick A., Endy D., Ginsberg A., Schyfter P., “Synthetic Aesthetics, investigating synthetic biology’s design on Nature”, MIT press, Cambridge, 2014. - Collet C., “Synthetic resilience”, in Till J., Manzini E. (a cura di) “Cultures of resielience”, Hato Press, Londra, 2015, pp.78-80. - Dardi D., “Maurizio Montalti: sono un utopista” in “Klat Magazine”, 13 marzo 2015, www. klatmagazine.com/design/maurizio-montalti-sono-un-utopista-interviews/16113, consultato il 17/2/18. - Enriquez J., “As the future catches you. How Genomics and other forces are changing your life, work, health and wealth”, Three Rivers Press, New York, 2001. - Flaherty J., “A mind-blowing dome made by 6500 computer-guided silkworms” in “Wired”, 7 novembre 2013, www.wired.com/2013/07/your-next-3-d-printer-might-be-filled-withworms/, consultato il 9/2/18. - Manzini E., “La materia dell’invenzione”, Arcadia, Milano, 1986. - Mollison B., “Permaculture, a designers’ manual”, Tagari pubblications, Tasmania, 1988. - Sheppard E., “Lab-grown luxuries: cruelty-free silk, diamonds and leather offer an ethical alternative” in “The Guardian”, 21 dicembre 2017, www.theguardian.com/business-tobusiness/2017/dec/21/lab-grown-luxuries-cruelty-free-silk-diamonds-and-leather-offer-anethical-alternative, consultato il 9/2/18. - Till C., Franklin K., “Radical Matter: Rethinking materials for a sustainable future”, Thames and Hudson, London, 2018.
NOTE 1 – Il Biomimicry 3.8 Institute è un’organizzazione americana no profit. Fondata nel 2006 da Bryony Schwan e Janine Benyus per investigare e diffondere i principi della biomimetica. 2 – Per computational design si intende la progettazione che implica l’utilizzo della matematica e di diversi sistemi di programmazione per generare geometrie, oggetti ed architetture. 3 – Il mycelium o micelio è l’apparato vegetativo dei funghi, formato da un intrec-
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Simone Amato Cameli Studente di Relazioni Internazionali ed Economia presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia. s.a.cameli24@gmail.com
La simbiosi industriale
01. Kalundborg, Danimarca. Symbiosecenter
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orizzonti di armonia tra natura, uomo e tecnologia
Il paradigma lineare di produzione industriale è primitivo se paragonato al paradigma circolare di trasformazione tipico degli ecosistemi naturali. La simbiosi industriale si propone di far evolvere i sistemi industriali in ecosistemi adottando un approccio olistico per identificare e sfruttare le potenziali relazioni mutuamente benefiche tra le imprese. Il sito di Kalundborg costituisce la prova che tale idea è realizzabile, e costituisce il modello virtuoso per “architetture multidimensionali” in grado di catalizzare la simbiosi, reintegrando il sistema produttivo nella biosfera.* The linear paradigm of industrial production is primitive and inefficient when compared to the closed-loop transformation paradigm that is typical of natural ecosystems. Industrial symbiosis aims to make production systems evolve into ecosystems through a holistic approach meant to identify and exploit potential mutually beneficial relations among enterprises. The site of Kalundborg shows that this idea is feasible, and it constitutes a virtuous model to engineer “multidimensional architectures” able to catalyse symbiosis, reintegrating the production system into the biosphere.*
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a metafora ecologica Negli ultimi decenni, i progressi nella conoscenza dei sistemi viventi hanno portato a una necessaria trasformazione dei concetti stessi di "natura" e "tecnologia", a fronte dell’evidenza di come la natura stessa sia caratterizzata da una tecnologia avanzatissima (Benyus, 1997). Si prenda ad esempio la cellula, una perfetta nanomacchina autoreplicante, o i motori micrometrici dei flagelli batterici, o ancora la sofisticata tecnologia fotosintetica delle foglie. La nostra tecnologia, in altre parole, impallidisce davanti a quella dei sistemi viventi. È una vera rivoluzione copernicana: la natura cessa di essere vista come qualcosa di "primitivo" e "selvaggio", ma al contrario diventa la tecnologia ideale cui tendere, il modello da imitare. Dire che la natura è tecnologia perfetta implica anche dire che la tecnologia è natura imperfetta. È da questa idea che scaturisce la cosiddetta "metafora ecologica", ossia l’analogia tra sistemi naturali e industriali che rende possibili feconde contaminazioni terminologiche tra i due settori. È così che Ayres (1989) parla di "metabolismo industriale", costatando l’inefficienza del meccanismo industriale di trasformazione delle materie prime in prodotti davanti all’efficienza raggiunta dai sistemi naturali. Parallelamente, Frosch e Gallopoulos (1989) suggeriscono che un network d’imprese, attraverso una graduale integrazione volta a migliorare la gestione dei flussi energetici e materiali, possa "evolvere" in un "ecosistema industriale". Il paradigma produttivo dell’antroposfera è informato a una logica lineare, che procede "from cradle to grave", con il problema della produzione di un’ingente quantità di rifiuti. La biosfera, invece, è caratterizzata da un equilibrio dinamico tra tutti i sottosistemi che la compongono, in cui i flussi di materia ed energia esistono in cicli di trasformazione continua: l’output di ogni biosistema diventa l’input di un altro, passando "from cradle to cradle".
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02. I flussi di energia, acqua e materiali all’interno di Kalundborg. Symbiosecenter
03. L’acquedotto che rifornisce l’ecosistema di Kalundborg. Symbiosecenter
Riconoscere che l’antroposfera è essa stessa un ecosistema, sebbene imperfetto, vuol dire che, attraverso un suo perfezionamento, è possibile riparare la frattura tra antroposfera e biosfera, reintegrando la prima nella seconda. Per ottenere questo obiettivo generale, occorre partire dal particolare, cioè dalla scala locale. "Industrial symbiosis engages traditionally separate industries in a collective approach to competitive advantage involving physical exchange of materials, energy, water, and/or by-products. The keys to industrial symbiosis are collaboration and the synergistic possibilities offered by geographic proximity" (Chertow, 2000). È dunque necessario un approccio olistico in grado di cogliere la potenziale interdipendenza che lega le singole imprese produttive. Strutturando tale interdipendenza tramite un network di relazioni simbiotiche, è possibile ottenere vantaggi per ogni partecipante, e tendere a costituire un ecosistema industriale nel quale i flussi di materia ed energia sono chiusi in anelli e non esistono rifiuti.
C’è del marcio in Danimarca L’esempio più famoso di simbiosi industriale è il complesso di Kalundborg, in Danimarca. Tale complesso coinvolge, oltre al Comune di Kalundborg e a una quantità di imprese minori, quattro realtà principali: la raffineria Statoil Denmark, la centrale elettrica Asnæs di Ørsted, gli impianti farmaceutici Novo Nordisk/Novozymes e la fabbrica di pannelli di cartongesso Gyproc. L’immagine 02 riporta schematicamente la complessa rete d’interscambio di materiali, energia e acqua. Una rapida analisi della stessa permette di comprendere il funzionamento pratico della simbiosi industriale. Per quanto riguarda i flussi di materiali, Kalundborg è ricco di esempi che dimostrano le potenzialità della simbiosi industriale. La centrale Asnæs produce gesso come sottoprodotto, e il gesso è la materia prima di Gyproc. Tra le due imprese s’instaura dunque un nesso simbiotico: attraverso lo scambio di gesso, Ørsted smaltisce i propri rifiuti
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04. La raffineria Statoil Denmark. Harald Pettersen / Statoil
e Gyproc ottiene materie prime. Similmente, la raffineria Statoil trasforma il solfuro estratto dal petrolio in tiosolfato d’ammonio, un fertilizzante che viene poi impiegato dalle aziende agricole locali. Novo Nordisk, infine, produce insulina attraverso un processo di fermentazione: la biomassa generata come residuo è usata dalle imprese zootecniche come mangime. Dal punto di vista degli scambi energetici, è interessante osservare il ciclo del vapore all’interno dell’ecosistema di Kalundborg: generato come sottoprodotto nell’impianto Ørsted, viene trasmesso a Novo Nordisk, che lo utilizza per la sterilizzazione, al Comune di Kalundborg e alla raffineria Statoil, entrambi per esigenze di riscaldamento. "Previously, Asnæsværket had an overcapacity of steam as part of the electricity production. In time, the steam for the Kalundborg Symbiosis has become a main product and electricity a byproduct" (dal sito Kalundborg Symbiosis).
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per la simbiosi di Kalundborg il vapore è diventato un prodotto principale e l'elettricità un sottoprodotto
05. In primo piano, la centrale Asnæs di Ørsted. Dietro, la raffineria Statoil Denmark. TA Foto Scandex ApS / Statoil
L’acqua, infine, costituisce un interesse collettivo per l’ecosistema, che si è dotato di un’infrastruttura che la preleva direttamente dal lago Tissø e la fornisce a tutti gli impianti del complesso. Kalundborg Utility agisce come il cuore di questo sistema cardiovascolare, purificando l’acqua di risulta e rimettendola in circolo. Tale meccanismo permette di risparmiare, ogni anno, 3 milioni di metri cubi di acqua. I risultati ottenuti dal complesso di Kalundborg sono eccellenti sia dal punto di vista ecologico che da quello economico. Le imprese che fanno parte del sistema simbiotico hanno ridotto i costi ottenendo allo stesso tempo un’ottima performance ambientale. Jacobsen e Anderberg (2005), stimano che, grazie all’accresciuta efficienza delle materie prime, ogni anno si risparmino 15 milioni di dollari, a fronte di un investimento totale di 75 milioni. Si potrebbe pensare, vista la complessità di tale impianto, che l’ecosistema industriale di Kalundborg costituisca una struttura statica. Al contrario, esso ha dato prova di notevole dinamismo: nuove imprese sono entrate nel sistema e l’ambiente di collaborazione interaziendale ha permesso di sperimentare nuove forme di cooperazione1. Allo stesso tempo, il sistema simbiotico ha mostrato interessanti
fondamentali: la simbiosi industriale è solamente un prodotto fortuito dell’ambiente particolarmente favorevole di Kalundborg oppure un modello replicabile altrove? E, se la simbiosi è replicabile, qual è la "ricetta" per ottenere ecosistemi industriali? Per quanto riguarda la prima domanda, è stato dimostrato che la simbiosi non è una specificità di Kalundborg: nel mondo esistono altri ecosistemi industriali. Schwarz e Steininger (1997), ad esempio, hanno identificato un industrial recycling network nella regione austriaca della Stiria. In merito alla seconda domanda, è possibile far rispondere lo stesso Jorgen Christensen, ex-Vicepresidente di Novo Nordisk: "I was asked to speak on how we designed Kalundborg. We didn't design the whole thing. It wasn't designed at all. It happened over time. It's not the kind of thing you can engineer in a moment and drop in place. It takes more time" (citato in Lowe e Evans, 1995). La formazione di Kalundborg, infatti, è stata un processo graduale, reso possibile dal clima di fiducia e dalla vicinanza culturale e valoriale tra i partecipanti: simbiosi industriale non vuol dire solo connessioni tra imprese, ma anche, e soprattutto, tra persone. Se dunque è impossibile progettare a priori ecosistemi industriali, allo stesso tempo è possibile creare le condizioni che favoriscano la loro nascita spontanea. Si tratta, in altre parole, non di progettare la simbiosi in sé, ma di costruire un framework sul quale la rete di relazioni simbiotiche possa "attecchire" e svilupparsi gradualmente2. Data la natura complessa e multidisciplinare della simbiosi, tale framework dovrà essere una vera e propria "architettura multidimensionale". Lowe e Evans (1995) identificano le principali dimensioni sulle quali agire per "catalizzare" la simbiosi: innanzitutto, l’aspetto della pianificazione paesaggistica stricto sensu. È fondamentale che le imprese produttive siano geograficamen-
dire che la natura è tecnologia perfetta implica anche dire che la tecnologia è natura imperfetta capacità di adattamento ai cambiamenti strutturali, come ad esempio la conversione della centrale Asnæs dal carbone a un nuovo combustibile (Chertow, 2000). Catalizzatori simbiotici L’esempio di Kalundborg dimostra che la simbiosi industriale non è un mero esercizio teorico, ma una possibilità reale. Stabilito questo, resta da rispondere a due domande
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06. Le tubature per il trasporto del vapore prodotto dalla centrale elettrica. Symbiosecenter
te vicine e che tale area sia servita da infrastrutture efficienti e flessibili3. Vi è poi l’aspetto legale-amministrativo: si tratta di "costruire" una normativa ad hoc per gli ecosistemi simbiotici. Anche la dimensione manageriale è cruciale: la simbiosi rende necessarie forme innovative di organizzazione per le imprese coinvolte. Infine, l’aspetto informatico: la comunicazione tra le imprese è centrale nel rendere possibile interazioni mutuamente benefiche, e la gestione dell’interdipendenza dei flussi è un compito che richiede alte prestazioni computazionali. Si potrebbe immaginare, in futuro, di sviluppare piattaforme informatiche integrate in grado di collegare i sottoprodotti di un’impresa con gli input di un’altra, favorendo l’identificazione di potenziali nessi simbiotici. Uno spunto di riflessione finale Nel centenario di Porto Marghera, un evento che porta nuovamente alla ribalta la questione del futuro di questo complesso, vale la pena di lanciare uno spunto di riflessione: Porto Marghera potrebbe diventare una nuova Kalundborg? Le analogie tra i due distretti industriali non sono poche: entrambi si sviluppano attorno a una raffineria, e il ricco tessuto produttivo del Veneziano sembra corrispondere bene a quella prossimità, geografica e culturale, che è fondamentale per il successo della simbiosi industriale. Allargando lo sguardo, l’intero sistema produttivo italiano, caratterizzato da "distretti industriali", ossia ecosistemi d’imprese medio-piccole, spesso a conduzione famigliare e dal forte legame con il territorio, pare essere strutturalmente portato per la simbiosi industriale, che potrebbe costituire dunque una fonte inimitabile di vantaggio competitivo.*
3 – L’efficienza infrastrutturale permette di superare anche il limite della vicinanza geografica. Ne è un esempio l’ecosistema della Stiria, che raggiunge dimensioni notevolmente superiori rispetto a Kalundborg e, basandosi principalmente su flussi di scambio di materiali che avvengono su gomma, è reso possibile dall’infrastruttura di trasporto. Implementando infrastrutture di trasporto ultrarapido (come ad esempio HyperLoop), è possibile immaginare ecosistemi simbiotici su scala nazionale e, in prospettiva, addirittura continentale. BIBLIOGRAFIA - Ayres R.U., “Industrial metabolism”, in Ausubel J.H., Sladovich H.E. (a cura di), “Technology and the environment”, National Academic Press, Washington, 1989, pp. 23-49. - Benyus J.M., “Biomimicry: innovation inspired by nature”, William Morrow, New York, 1997. - Chertow M.R., “Industrial symbiosis: literature and taxonomy”, in “Annual review of energy and the environment”, 2000, n. 25, pp. 313-337. - Frosch R.A., Gallopoulos N.E., “Strategies for manufacturing”, in “Scientific American”, 1989, n. 266, pp. 144-152. - Jacobsen N.B, Anderberg S., “Understanding the evolution of industrial symbiotic networks – the case of Kalundborg”, in Van den Bergh J.C.J.M., Janssen M.A. (a cura di), “Economics of industrial ecology – materials, structural change and spatial scales”, MIT Press, Cambridge, 2005, pp. 313-335. - Lowe E.A., Evans L.K., “Industrial ecology and industrial ecosystems”, in “Journal of cleaner production”, 1995, n. 3, pp. 47-53. - Schwartz E.J., Steininger K., “Implementing nature’s lesson: the industrial recycling network enhancing regional development”, in “Journal of cleaner production”, 1997, n. 5, pp. 47-56.
NOTE 1 – Si veda ad esempio Inbicon, impianto di Ørsted che produce biofuel utilizzando enzimi prodotti da Novozymes. Alcuni sottoprodotti del processo di fermentazione vengono riutilizzati come combustibile dalla centrale Asnæs. 2 – “The complexity of EIP [Eco Industrial Park, un ecosistema industriale ndr] development can best be managed by an evolutionary design process in which topdown control is avoided” (Lowe e Evans, 1995).
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Cecilia Furlan Ph.D. presso TU Delft, in collaborazione con Iuav e KU Leuven.
Michael Stas Postgraduate MSc KU Leuven.
Benjamin Vanbrabant Postgraduate MSc KU Leuven.
Sven Mertens Postgraduate MSc KU Leuven.
Vers le Pays Vert
01. Spazi abbandonati a Charleroi. Charleroi urban wasteland. Photograph of Schuddebeurs W. (2011)
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la metamorfosi del territorio di Charleroi the metamorphosis of Charleroi’s territory
Il territorio è il risultato di diversi e simultanei processi di trasformazione, che indipendentemente dalla loro qualità e intensità lasciano delle tracce. Una lettura a posteriori di questi segni, come spazi latenti, che resistono al fluire del tempo, permette di analizzare e distinguere ciò che si adatta da ciò che si oppone al mutamento. È quindi nell’idea di osservare la mutazione del territorio nel presente, in cui convergono passato e futuro, che si fonda l’ipotesi di questo saggio. Ricostruire partendo dai segni lasciati sul territorio la metamorfosi della regione di Charleroi (BE) non è comunque cosa facile. In poco meno di un secolo, Charleroi è stato manipolato per ospitare la grande industria mineraria, chimica e dell’acciaio ma nel secondo dopoguerra è iniziato il suo declino. Le trasformazioni dei modelli produttivi ed economici hanno lasciato in eredità spazi e infrastrutture abbandonate. Sessant’anni di abbandono hanno però cambiato questi spazi, consentendo l’infiltrazione di una vegetazione spontanea, nuove forme di appropriazione e, conseguentemente ipotizzando un nuovo ciclo di vita.*
The territory is the result of several and simultaneous processes of transformation that, independently from intensity and quality, leave behind some traces. A posteriori observation of these remains as inert and latent spaces in the territory, enables the comprehension of what resists to the flow of time, what adapts or opposes itself to it. Therefore, this paper is based on idea of study the transformation of the territory, by observing the present situation, in which past and future converge. Reading the metamorphosis of the Charleroi region, by starting from the observation of the signs left on the territory is not a linear process. In less than a century Charleroi region has been strongly manipulated to host the mining and steel industries. After the Second World War the decline of this territory began. The successive phases of transformation and the decline of the industries have radically changed Charleroi’s territory, leaving a legacy of abandoned spaces. However, sixty years of abandonment slowly and silently changed these spaces, allowing the infiltration of spontaneous vegetation, new form of appropriation and consequently supposing the beginning of a new life cycle for the region.*
gni territorio è il risultato di numerosi e simultanei processi di modificazione, alcuni che avvengono spontaneamente, altri che sono il diretto risultato di interventi antropici. Individuare e descrivere tali processi non dovrebbe essere un semplice atto passivo, ma dovrebbe invece prevedere un'azione prospettica (Viganò, 2010). Ciò implica la costruzione di immagini di un passato, di un presente e di un futuro insito nei luoghi e nei dispositivi, attraverso cui leggere la temporalità della modificazione degli elementi del territorio e dei suoi cicli. Nella prospettiva di osservare il territorio come sequenza di cicli di vita (Viganò, 2013), questo articolo intende riflettere criticamente sul territorio di Charleroi, sospeso tra un passato dominante e un futuro debole.
very territory is the result of several and simultaneous processes of transformations, some of them are spontaneous other are the direct result of a human intervention. To depict and describe these processes is not simply a passive act but it embodies a projective action (Viganò, 2010). It implies to construct images of a future by looking at everyday space, through which read the flowing of time and the different cycles. In the perspective of observing the territory a sequence of life cycles (Viganò, 2013), this article aims to observe and critically reflect on Charleroi territory, suspended between an dominant past and an uncertain weak future.
Le Pays Noir Situato nel cuore del Belgio, il territorio di Charleroi è spesso associato alla sua storia mineraria e all'immagine obsoleta del Le pays noir1 (Vagman, 1991).
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Le Pays Noir Located in the heart of Belgium the territory of Charleroi is widely known for its industrial mining history and usually associated with the out-dated image of Le pays noir1 (Vagman, 1991).
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02. Terzo paesaggio di Charleroi, vista di una cava abbandonata. Charleroi third landscape, view of abandoned pit. C. Furlan, M. Stas, S.Mertens, B.Vanbrabant
Entrando a Charleroi si viene immediatamente attratti dalle gigantesche rovine industriali situate lungo le rive del fiume Sambre, da cui svettano alte ciminiere e fatiscenti strutture in acciaio, ad oggi completamente abbandonate. Proseguendo all’interno del tessuto urbano, si possono inoltre notare edifici commerciali abbandonati, ampi magazzini diroccati, infrastrutture ferroviarie dismesse, spazi verdi incolti e altre aree sottoutilizzate. A questi spazi dell’abbandono, le cui immagini ricordano altri territori europei, si accostano tracce più particolari legate alla storia produttiva mineraria e alla morfologia della regione come: cave abbandonate, bacini idrici industriali e colline di scorie di carbone, chiamate in francese terril. Gli spazi dell’abbandono, o in inglese wastelands, rappresentano, quindi, una moltitudine di luoghi estranei alle convenzionali tipologie urbane. Rispetto ad altri casi, all’interno del territorio carolingio, i wastelands non sono né un simbolo romantico di libertà dall’opprimente periodo minerario, né rovine arrugginite del passato.
When someone arrives in Charleroi, his attention is immediately drawn by the gigantic industrial ruins located along the Sambre riverbanks. The large industrial platforms include towering smokestacks, cavernous ore bunkers and railroad tracks, surrounded by spontaneous vegetation. Furthermore, the twentieth century urban tissue is filled with large factories, residential and commercial structures that today appear dilapidated and are often abandoned or underused. These spaces picture a scenario that is similar to other European territories, however here it is possible to identify specific traces of the industrial mining industry and the territorial morphology such as: abandoned quarries, artificial industrial water basins and coal slag heaps, in French called terril. Charleroi’s wastelands are neither a romantic symbol of freedom from the mining period, nor rusted glories of the past. They engender complex emotions and powerful urban issues. Wasteland represents a proliferation of spaces that lie outside of the conventional urban topologies and typologies. Each of them is like a visible symbol and as whole
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03. Carta della distribuzione territoriale degli spazi abbandonati e sottoutilizzati, rappresentante la porzione di 30x30Km. Map of the territorial distribution of abandoned and underutilized spaces, representing the 30x30Km portion. M. Stas, S.Mertens, B.Vanbrabant
Nel loro insieme ricordano la trasformazione sociale di un'epoca e il cambiamento dei suoi modelli produttivi.
they simultaneously represent the social change of an era and the transformation of the industrial model of production.
La metamorfosi industriale di Charleroi Fin dalla fine del XXVIII secolo il paesaggio carolingio2 è stato profondamente manipolato per ospitare le nuove industrie estrattive del carbone, le attività industriali chimiche, siderurgiche e vetraie (Vagman, 1991). Città e villaggi fiorirono proporzionalmente all’incremento e all’espansione delle attività industriali, senza però essere pianificate né coordinate (Brüggemeier 1994). La crescita non pianificata ha portato all'emergere di una rete caotica di linee ferroviarie, strade, edifici, fabbriche e siti minerari (Brüggemeier, 1994), eliminando quasi completamente l’attività agricola, relegandola solo nella parte settentrionale della regione. Per quasi un secolo, la forte presenza di attività produttive unita a un abbondante flusso di capitale monetario, ha reso Charleroi uno dei paesaggi urbani e industriali più fiorenti d'Europa.
The industrial metamorphosis of Charleroi Since the end of the eighteenth century Charleroi’s landscape2 has indeed been intensely manipulated to accommodate coal mining extraction, steel, chemical and glass industrial activities (Vagman, 1991). The landscape surface has been partially flattened, excavated and filled with the slag produced by the mining activities, generating artificial platforms and slag heaps. Towns and villages flourished, while mining extraction sites, iron, and steel works multiplied and expanded (Brüggemeier, 1994). Growth without planning resulted in the emergence of a network of railway lines, streets, buildings, factories, and mining sites (Brüggemeier, 1994). Farming gave space to industry, although agriculture remained extensive in the northern part of the region until today. The industrial development and strong capital investment wealth to the region
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04. Terzo paesaggio di Charleroi, vista dalla cima di un terril. Charleroi third landscape, view from the terril. M. Stas, S.Mertens, B.Vanbrabant
Sebbene apparentemente senza importanti cambiamenti strutturali economici, il periodo tra la conclusione del XIX secolo e la seconda guerra mondiale ha segnato l'inizio di un lento declino. Un declino inzialmente caratterizzato dallo spostamento della produzione industriale dall'asse vallone verso la regione settentrionale del Limburgo (Vandermotten, 1998), dal passaggio da una produzione di energia a base di carbone a quella a base di petrolio e e successivamente dalle recessioni economiche degli anni settanta e ottanta. In Belgio, come nel resto d’Europa, tali trasformazioni hanno favorito un cambiamento strutturale nelle modalità di produzione industriale, generando a livello spaziale, la necessità di modernizzare e ampliare gli spazi produttivi. A Charleroi, però, la vicinanza con le aree residenziali ha impedito l'espansione e la ristrutturazione della maggior parte dei siti industriali (Halleux, 2010). Questo impedimento, associato a una serie di leggi regionali, nazionali ed europee ha costretto molte aziende siderurgiche, vetraie e chimiche a chiudere o delocalizzare le attività in altri Paesi, infierendo il colpo di grazia all’economia carolingia. La scomparsa dell’industria pesante ha lasciato in eredità un territorio ferito dal punto di vista sociale, con un tasso di disoccupazione pari al 25,9% (Loopmans et al., 2015), fortemente inquinato (Merenne-Schoumaker, 1978) e con ad oggi più di 1.000 spazi abbandonati.
and generated, for almost a century, one of the most flourishing urban/industrial landscapes in Europe. Although sluggish overall and without any major economic structural change, the period between the conclusion of nineteenth century and the Second World War registered the beginning of a relatively slow decline. A decline characterised by the slow shift of industrial production from the Walloon axis in favour of the more central and northern parts of Belgium first (Vandermotten 1998) and the slow shift from a coal-based energy production to an oil-based one, radically furthered the decline of Charleroi mining sector. After being hit by the coal crisis, the Walloon economy was severely affected by the economic recessions of the 'seventies and 'eighties. Several complex causes influenced this structural change. Among others, the proximity with the residential areas prevented the expansion and renovation of the majority of industrial sites (Halleux, 2010). Finally, a series of regional, national and European laws obliged many steel, glass and chemical companies to shut down or to relocate the production activities to other countries. The disappearance of the heavy industrial production activities left a derelict territory, with 25,9 % of unemployment (Loopmans et al., 2015), extensively and intensively polluted (Merenne-Schoumaker, 1978) and with a vast legacy of more than 1.000 different types of wastelands.
Verso le Pays Vert Altri territori europei hanno vissuto modificazioni simili a quelle descritte, si veda l’esempio della Ruhrgebiet, del Bassin Minier di Lille, i cui paesaggi hanno stimolato un'ampia gamma di possibilità di progetto e rigenerazione. Tuttavia, nel caso di Charleroi, l’assenza di lungimiranti politiche territoriali, unita ad un difficile contesto economico e sociale, ha favorito la creazione di un paesaggio dell’abbandono (Belanger, 2007), rendendo insignificanti i singoli interventi di recupero, poiché non sufficientemente incisivi, e annullando ogni ipotesi di intervento paesaggistico olistico, poiché economicamente insostenibile. Alla luce di
Le Pays Vert Other European territories have experienced modifications similar to those described, characterized by the heavy industrialisation typical of the last century that stimulate a wide range of possibilities for designers to redesign and rehabilitate these sites as the Ruhrgebiet (DE) and Lille’s basin Minier (FR). However, what emerged in Charleroi is that the absence of territorial planning policies together with a difficult social and economic context allowed the appearance of landscape of dissembling (Belanger, 2007). This condition made the different single interventions worthless, because not keen enough, as well with a comprehensive landscape
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tra flora e fauna si contano circa 35.000 diverse specie conosciute che si sono riappropriate di questo territorio with 35,000 known different species that have repopulated this territory and flora and fauna abound
questi limiti, sorge quindi spontanea la domanda su come ripensare questo paesaggio. Ma ciò che sembra impossibile da recuperare attraverso un intervento antropico non lo è per la natura. Cinquant'anni di abbandono hanno infatti permesso l'infiltrazione di una vegetazione spontanea nella maggior parte dei siti abbandonati e sottoutilizzati. Tra flora e fauna si contano circa 35.000 diverse specie conosciute che si sono riappropriate di questo territorio. "Let us accept the proposition that nature is a process, that it is interacting, that it responds to laws, representing values and opportunities for human use with certain limitations and even prohibitions" (McHarg, 1969, p. 7). Per lo più visibile solo attraverso un rilievo diretto, la presenza diffusa della vegetazione spontanea mette in discussione il valore ecologico, il ruolo sociale ed economico dei wastelands nel contesto di Charleroi. Osservare i wastelands attraverso una lente ecologica richiede uno spostamento dei valori con i quali solitamente si osserva il territorio urbanizzato, costringendo quindi a valutare questi spazi non solo attraverso parametri legati al concetto di produzione economica e tecnologica. Come suggerisce Gandy (2013), il conflitto nell’identificare i wastelands sottolinea un cambiamento nell'uso e nella percezione del territorio, offrendo particolari spunti di riflessione, rivelando e immaginando futuri paesaggi urbani. Secondo la disciplina dell'ecologia del paesaggio, qualsiasi spazio costruito o meno può essere classificato in base a tre ampie categorie fondate su: caratteristiche del suolo, storia dell'uso del suolo e vegetazione presente (Del Tredici, 2014; Bradshaw, 1987). I wastelands possono quindi essere considerati in relazione alla presenza o meno di forme di vegetazione spontanea, trascendendo il potenziale commerciale o utilitaristico e superando la definizione di brownfiled (Del Tredici, 2014; Gandy, 2013). Nell'ambito dell'ecologia del paesaggio, i wastelands infatti sono pensati come rifugi ecologici (Gandy, 2013) "isole per la biodiversità", assumendo un ruolo signifi-
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intervention, disadvantageous from the economic point of view. Therefore, the question on how to reclaim this type of spaces arises spontaeously. But what human society is not capable of achieving, it is done by nature. Fifty years of abandonment has indeed permitted the infiltration of spontaneous vegetation in the majority of the vacant and underused sites. With 35,000 known different species that have repopulated this territory and flora and fauna abound. "Let us accept the proposition that nature is a process, that it is interacting, that it responds to laws, representing values and opportunities for human use with certain limitations and even prohibitions" (McHarg, 1969, p. 7). Mostly visible only through a direct survey of the territory, the presence of this green layer makes it difficult to clearly define what has been abandoned from what has not. The diffuse presence of spontaneous vegetation questions the ecological meaning, value and role of wastelands in the Charleroi context. Moreover, it requires a shift, to perceive vacant areas according to their former industrial uses but also to value them according to new parameters such as the ecological ones. As Gandy (2013) suggests, the struggle of reading and visualising wastelands underlines a change in land usage and perception on a local as well as on a regional level, offering particular points of reflection, offering, revealing and imagining new urban landscapes. According to landscape ecology, any built or un-built land can be classified according to three broad categories based on: soil characteristics, land use history and present vegetation (Del Tredici, 2014; Bradshaw, 1987). Hence, wastelands can be considered in relation to the presence or not of spontaneous forms of urban nature, transcending market or utilitarian potentiality of these spaces and moving beyond the definition of brownfield (Del Tredici, 2014; Gandy, 2013). Within the landscape ecology field, wastelands are considered ecological refugia (Gandy, 2013) or "islands for biodiversity", becoming part of
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05. Schizzo della possibile forma territoriale del parco e dei suoi principali elementi costituenti. Sketch of a possible reading of Charleroi as a park, with his principal constructive elements. C. Furlan, M. Stas, S.Mertens, B.Vanbrabant
cativo nelle infrastrutture ecologiche, nel controllo del rischio idrogeologico, nella depurazione delle acque e nella mitigazione degli effetti delle isole urbane di calore (Hall, 2013). Lungi dall’essere spazi inviolati e selvaggi, questi luoghi evocano l’immagine di un terzo stato. Uno spazio, che sebbene antropizzato, non viene più identificato esclusivamente come oggetto dell'attività umana (Clément, 2004). Partendo quindi dalla definizione francese di friches3, Clément definisce come appartenenti al terzo paesaggio: spazi abbandonati associati a usi agricoli o industriali del passato con diverse specie di vegetazione, spazi inaccessibili e spazi designati come riserve naturali (Clément, 2004). Il terzo paesaggio di Charleroi, quindi, amalgamato a una condizione di vita urbana e rurale, incarna le potenzialità di generare una condizione unica, molto più simile a quella di un parco territoriale che a un paesaggio dell’abbandono. In questo specifico contesto, il termine parco allude a una comprensione più ampia e contemporanea rispetto ai ben
the ecological infrastructures of the urban territories, assuming the role of flood control, water purification and useful in mitigating urban heat island effects (Hall, 2013). Far from being wild untouched space, Charleroi’s wastelands revoke a third state/phase, another kind of land and a space that no longer classifies as the object of human activity (Clément, 2004). Starting from the French definition of friches3, Clément defines as a third landscape: abandoned spaces associated with past agricultural or industrial uses with different species of vegetation, spaces scarcely modified by human activity, even due to inaccessibility and spaces designation as nature reserves (Clément, 2004). Charleroi third landscape, mixed with urban and rural living condition, embodies the potentialities to generate a unique form, much more similar to an unintentional territorial park than to a landscape of dissembling. The term park as used here alludes to a broader and more contemporary understanding than its 19th and 20th century
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06. Charleroi, vecchio laminatoio. Charleroi, ancien laminoir. Artifakts1
noti esempi del XIX e XX secolo. Piuttosto che essere uno spazio definito per il tempo libero, che funge da controfigura al costruito urbano, il parco è qui inteso come un elemento di scala territoriale che comprende una varietà di condizioni ambientali: il bosco protetto situato a sud del centro di Charleroi, la maglia idrica che disegna la struttura agricola a nord, ma anche i wastelands che si mescolano in maniera capillare al tessuto urbano. Questo "Parco involontario" è più di una collezione di spazi verdi, esso dovrebbe essere visto come una condizione in sé, un elemento di unione e complementare rispetto alla situazione di dispersione urbana e agricola. Nel loro complesso i materiali del parco compongono un Pays Vert, pieno di qualità che aspettano di essere scoperte e fatte risorgere dalle ceneri delle antiche aree industriali, ma che al contempo sollevano nuovamente la questione del valore. Infatti, grazie alla loro nuova dimensione naturale, molti spazi abbandonati e sottoutilizzati, come ad esempio i terril,
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examples. Rather than being a defined space for leisure which acts as a counter figure for the built, it is to be understood here as a territorial-scale element that encompasses a variety of environmental conditions: the protected forests in the south, the omnipresent water structures, and agricultural lands in the north, but also the waste lands that is capillary mixed to the urban fabric , the terril, and bare lands that encompass from north to south the urban tissue. This "Unintentional Park" is more than a collection spaces, more in parallel with the ideas of "regional" – and "landscape parks", and should be seen as a condition itself that acts not just complementary to the Charleroi region’s dispersed urban condition. Seen together, the materials of the Park compose the strong landscape of a Pays Vert, full of qualities waiting to be discovered and developed from the ashes of the former production sites. In light of their green condition some wastelands, as the terril, are today informally and temporarily used for camping, open parties, cultural events, entering
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07. Charleroi. Sebastian Petermann
sono oggi informalmente e temporaneamente e utilizzati per pic-nic, escursioni, feste all’aperto, eventi culturali, ecc. Riflettendo sull’attuale uso informale dei wastelands, la prospettiva di leggere il paesaggio di Charleroi come un parco non è legata a idea di conservazione o commemorazione del passato (Bertrand 2010 in Gandy, 2013), ne tantomeno alla creazione di una grande area protetta, ma come un laboratorio in cui sperimentare differenti azioni orientate verso lo sviluppo di nuove forme urbane, da attuare attraverso minimi interventi di la valorizzazione, riuso, accessibilità e di mobilità. Leggere questo territorio come un parco ci aiuta a percepire i wastelands non come un limite ma come una risorsa. L’osservazione dei wastelands in termini ecologici, apre una più ampia riflessione sul valore e sui cicli di vita di questi spazi. Concependo la presenza della vegetazione spontanea come un elemento indicatore di un nuovo ciclo, in cui i wastelands possono essere paragonati a terre a riposo. Questa visione si fonda nella tradizione agricola della rotazione delle colture: la pratica che rappresenta un antico esempio di approccio ciclico dell’uso del suolo e più in generale dello spazio, secondo cui le coltivazioni venivano regolarmente alternate tra uso, riposo e riuso. In conclusione, nel caso di Charleroi, la metafora del parco aiuta a riformulare la riflessione iniziale sugli spazi di abbandono, a rileggerli in relazione a un rapporto più stretto con la presenza di elementi naturali e a riflettere verso una prospettiva futura della metamorfosi del territorio carolingio.*
sometimes in contrast with the memory of their former uses. Consequently, reading Charleroi’s landscape as park is neither related to any idea of conservation nor to the commemoration of previous glories (see Bertrand 2010 in Gandy, 2013). The park has to be seen as laboratory in which to experiment with different actions towards a new form of urbanity that can be made throughout temporary interventions to project a more accessible, liveable and valuable territory. Reading this territory as a park helps us to observe the slow metamorphosis of Charleroi, to perceive wastelands not as a limit but as a resource. Observing wastelands in ecological terms opens also a wider reflection on the land value and life cycle. Ecological colonisation of wastelands goes beyond an anthropocentric aesthetics of nature, but it represents a status of rest before the beginning of new cycle, in which wastelands can be compared to fallow lands. This view has its roots in agricultural tradition of crop rotation system, a longstanding example of cyclical approach applied to ecological, productive and spatial environment. Within this ancient method the land is regularly alternated between use, rest and reuse. In conclusion, in the case of Charleroi, the park perspective helps to reformulate the initial reflection on the spaces of abandonment and to re-read them in relation to a closer relationship with the presence of natural elements, to their social and cultural meaning within a critical reflection on the concept or landscape itself.*
NOTE 1 – Nel diciannovesimo secolo, l’appellativo “Pays Noir” fu coniato per descrivere la regione di Charleroi. Da una parte questo termine indica la fatica della gente, la tristezza di alcuni luoghi, la sporcizia e la polvere di fabbrica che riempiono ogni parte del tessuto urbano. Dall'altro, incarna l'economia, la ricchezza industrial, generata dalle colline di carbone terril. 2 – Il territorio studiato ricopre una superficie di circa 90.000 ettari, con 243.884 abitanti, situati su quattordici comuni: Couillet, Dampremy, Gilly (IV), Gosselies, Goutroux, Jumet, Lodelinsart, Marchienne-au-Pont, Marcinelle, Monceau-sur-Sambre, Mont-sur-Marchienne, Montignies-sur-Sambre, Ransart e Roux (De Witte, Neuray, Nielsen, Pons, & Van der Kaa, 2009). 3 – Storicamente il termine friches si riferisce alla terra intatta, molto spesso abbandonata. Inoltre significa anche "dominio vago" che è generalmente considerato come terra incolta e a riposo (Vidal de La Bl., Table geogr., Fr., 1908, p. 118).
NOTES 1 - During the nineteenth century the term «Pays Noir» was used to describe the Charleroi region. On the one hand, it epitomises the people’s toil, the sadness of some places, the grime and the factory dust that filled every neighbourhood. On the other, it epitomises the economy, the industrial wealth that was generated by the dark heaps that grew everywhere as the result of the mining activities. 2 - The territory studied covers a surface of approximately 90,000 hectares, with 243,884 inhabitants, including fourteen municipalities: Couillet, Dampremy, Gilly (IV), Gosselies, Goutroux, Jumet, Lodelinsart, Marchienne-au-Pont, Marcinelle, Monceau-sur-Sambre, Mont-sur-Marchienne, Montignies-sur-Sambre, Ransart e Roux (De Witte, Neuray, Nielsen, Pons, & Van der Kaa, 2009). 3 - Historically the term friches refers to untouched land, most often abandoned. Moreover, it also means "vague domain" which is generally considered as fallow land (Vidal de La Bl., Table geogr., Fr., 1908, p. 118).
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NATURA
i wastelands possono essere paragonati a terre a riposo wasteland can be compare to fallow lands
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08. Charleroi wasteland urbani. Charleroi urban wasteland. Cecilia Furlan - Merenne-Schoumaker B., "Le problème des sites désaffectés dans les régions de vieille industrialisation. Le cas de la Wallonie", in GEO, 1979, 4, pp. 29–39. - Vagman V., "Charleroi. Eléments d’une mutation post-industrielle" in Courrier hebdomadaire du CRISP, 1991, n° 1319(14), pp. 1–32. - Vandermotten C., "Dynamiques spatiales de l’industrialisation et devenir de la Belgique. Le Mouvement Social" in Industrialisations Européennes, 1998, 185, pp. 75–100. - Viganò P., "Territorio dell’urbanistica. Il progetto come produttore di conoscenza" Officina, Roma, 2010. - Viganò P., "Viaggio in italia, la costruzione di un racconto" in S. Marini & V. Santangleo (Eds.), Viaggio in Italia, ARACNE editrice S.r.l., Roma, 2013, pp. 15-19.
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Pomodoro Tra tutte le produzioni orticole i pomodori freschi sono la seconda verdura più acquistata dagli italiani nel 2016 in termini di volume (15%), sorpassati solo dalle patate che registrano il 17% degli acquisti in volume. In termini di valore economico però i pomodori passano al primo posto con un 15% di vendita. In termini più generali l’Italia risulta inoltre il secondo produttore mondiale di pomodoro per usi industriali con il 14% della produzione mondiale nel 2016, superata solo dal 30% degli USA.
6o0n,/9h8a t
10,7%
a cura di Emilio Antoniol infografica di Stefania Mangini fonte: ISMEA, 2017
84,6% 15,4% pomodoro industriale
51,92
ton/h
a
pomodoro da mensa
Produzione di pomodoro in Italia nel 2017
28%
4,0% Produttività media in ton/ha Produzione % su produzione mondiale fonte: Faostat, 2016
in serra
% 1,6
% 2,7
1,3%
Superficie % utilizzata per la produzione del pomodoro in serra e in pieno campo nel 2017
50
INFONDO
AMERICA SUD
0,5%
AMERICA CENTRO-NORD
72% in pieno campo
r pe la rre tico e r s di o % e ie zion c i rf a pe tiv su col la a po err cam s in o e % ien iz on al p du tto pro spe ri
6 56t,o2n/ha
61,8% ton/
ha
40,8 2
12,0%
11,2%
76,47
to
n/
ha
15 ,5
9
ton/ha
0,3%
,2% 9 4
,9% 7 3
% 8,1 % 0,4 1,9%
OCEANIA
0,7%
ASIA
0,8%
AFRICA
EUROPA
6,8%
fonte: Faostat, 2016 e International Greenhouse Vegetable Production - Statistics, 2017
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Marco Angheben Amante della natura, della montagna e della fotografia, e del connubio fra le tre.
www.marcoangheben.com
on sono mai stato attratto dalla tecnologia, men che meno in campo fotografico. Il passaggio dalla compatta (a pellicola, ovviamente!) alla prima reflex è stato una grande emozione, ma la plastica, l’autofocus e un sacco di pulsanti non li sentivo miei. E lì è iniziato il percorso a ritroso nelle attrezzature, mentre imparavo ad amare la fotografia. Prima una reflex meccanica già vecchia di una quindicina di anni e il bianconero, poi un amico mi mette in mano una storica Rolleicord, ed è subito amore per il formato quadrato. Di lì a poco sarò in giro per le montagne con lo zaino appesantito dalla Lady, una vecchia Hasselblad con un paio di obiettivi e moltissimo da insegnarmi. Imparo a fermarmi per togliere la macchina dallo zaino, montarla sul treppiede, usare l’esposimetro e pensare ai filtri da usare, impostare tempi e diaframmi e togliere il volet. E mentre faccio tutto questo continuo a pensare al soggetto che lì davanti pazientemente aspetta, molte volte inutilmente visto che a ben pensare gli manca quel qualcosa o ha quel qualcosa di troppo, e avere solo 12 scatti nella macchina aiuta molto il processo di selezione all’origine. E nel frattempo imparo molto da un carissimo amico, fotografo di passione e professione: a conoscere i fotografi e la fotografia, a capire (un po’) il bianconero e la stampa, ad apprezzare la qualità degli scatti senza badare al resto. Il momento magico dura abbastanza per trovare la mia fotografia, ma la sua scomparsa mi porta verso il digitale: e con esso ritrovo il colore e scopro il potere di passare autonomamente dallo scatto alla stampa, con i toni, le luci e le ombre che voglio io. Ma resta ancora tutto quel che ho imparato, indelebile: macchina e treppiede nello zaino, pochi scatti, molta selezione e gran godimento nel fare fotografia: nel pensare ai luoghi da visitare, nel preparare lo zaino, nello svegliarsi presto, nel camminare nei boschi, nel guardare e nel vedere, nel notare i soggetti e nel provare a scattare, nel rinunciare e nell’emozionarsi
durante la scatto, nell’attesa di scoprire se qualcosa è stato catturato, nel restare a volte deluso e nello “sviluppare” uno scatto quasi con apprensione per vederlo finito, per guardarmelo e ricordarlo. E il soggetto è sempre lo stesso, la natura. Una bellezza che potrebbe sembrare scontata e banale, ma che a un occhio attento è in grado di riservare infinite sfumature: dal grande al piccolo, da sotto in su, fra la luce e l’ombra, nel contrasto degli elementi. E il susseguirsi delle stagioni segue questo stesso andamento: mai determinate dal calendario e ricche di sfumature fra l’una e l’altra. E l’autunno la fa da padrone, ponte fra tutte le stagioni: le sue prime foglie contrastano con il verde dell’ultima estate, e le sue ultime si confrontano prima con i rami spogli, poi con il ghiaccio e la neve ed infine con le prime gemme dell’anno successivo. Fra una stagione e l’altra.* Walking around in the mountains with the backpack weighted by the Lady, an old Hasselblad with just a couple of lenses but a lot to teach me. I have to slow down, I learn, to remove the camera from the backpack, mount it on the tripod, measure the light and think about the filters to use, set the shutter speed and apertures and remove the volet. And while I do all this I keep thinking about the subject that awaits, patiently, in front of us, many times unnecessarily, and having only 12 frames in the camera helps to reduce the clutter from the beginning. In the meantime I learn a lot from a very dear friend, photographer for passion and profession: I learn from him to recognize true photographers and true photography, to understand (a bit) the black and white approach and the printing process, and to appreciate the quality of each individual shot stripped of the unnecessary. This magic moment lasts long enough to find my photograph style, but its disappearance brings me to the digital: and with it I rediscover colours and I enjoy being able to control autonomously and seamlessly the whole process from the shot to the print, tweaking the tones, the lights and the shadows as I want. But the core of what I learned before, is there, indelible: camera and tripod in the backpack, a few shots, the careful framing and a great enjoyment in photography. The subject is always the same, the nature and the changing of seasons, never tightly following the calendar and with lots of nuances between one and the other. *
avere solo dodici scatti nella macchina aiuta molto il processo di selezione all’origine
Fra le stagioni
01. Capolino
02. Al lumicino
03. Da sotto in su
e lâ&#x20AC;&#x2122;autunno la fa da padrone, ponte fra tutte le stagioni 04. Il passaggio del testimone
05. Strenuamente
dal grande al piccolo, da sotto in su, fra la luce e lâ&#x20AC;&#x2122;ombra, nel contrasto degli elementi
06. Autunno e inverno
08. Incontro
07. Frozen
09. La fine dell'inverno
10. Contrasti
Emilio Antoniol Ph.D. in Tecnologia dell'Architettura presso l'Università Iuav di Venezia. antoniolemilio@gmail.com
Una nuvola luminosa in Arsenale
Workshop di costruzione di una struttura luminosa in bambù a anni lo studio di progettazione Architetture Precarie, con sede a Castello, Venezia, si occupa di allestimenti, workshop e installazioni temporanee definite "rurali". Da sempre infatti l’attenzione all’uso di materiali naturali quali paglia, fieno, legno o materiali di recupero sono alla base dei progetti ludico-formativi sviluppati da Alessandro Zorzetto, architetto fondatore dello studio, e Francesca Modolo. In diverse occasioni Architetture Precarie ha dimostrato di saper rispondere a esigenze differenti, partendo da un’idea progettuale e portandola a realizzazione analizzando e sfruttando di volta in volta i differenti caratteri formali, ambientali o economici che al progetto sono legati. La sfida lanciata nel weekend del 6, 7 e 8 aprile a Venezia, presso la Tesa 105 dell’Arsenale Nord ha però un sapore differente. Se le modalità di organizzazione sono le consuete ormai consolidate dal team di lavoro, gli elementi a contorno sono invece alquanto originali a cominciare dal luogo. Il workshop si è infatti svolto all’interno dello storico Arsenale di Venezia e l’opera risultante è stata installata nell’atrio della Tesa 105 dove resterà visitabile fino a inizio giugno.
Questa scelta ha costretto i progettisti a riflettere sul rapporto che si va a instaurare tra l’oggetto sviluppato durante il workshop e l’edificio esistente, sia sul piano formale che su quello tecnico, valutando ad esempio carichi, spazi, collegamenti e appoggi nonché modalità di sospensione dell’opera. Infatti, fin dalle prime idee di progetto, obiettivo di Architetture Precarie è stato la realizzazione di un oggetto luminoso sospeso, la cui leggerezza potesse occupare senza ostruire lo spazio della tesa che si sviluppa in direzione verticale.
è stata un’azione corale, di gruppo, svolta in uno spazio pubblico e con la partecipazione degli enti del territorio
Architetture Precarie Castello, Venezia e-mail: info@architettureprecarie.net www.architettureprecarie.net 01. I partecipanti al workshop. Alessandro Zorzetto
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IN PRODUZIONE
il workshop si è svolto nel giardino della tesa e nel piazzale antistante il bacino acqueo, ridando allâ&#x20AC;&#x2122;Arsenale il ruolo di fucina della produzione
02. Sequenza di lavorazioni sul piazzale del bacino acqueo. Alessandro Zorzetto
03. La struttura sospesa nella Tesa 105. Alessandro Zorzetto
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04. Sequenza di lavorazioni svolte dai partecipanti. Alessandro Zorzetto
Ancora più originale è poi la scelta del materiale con cui realizzare l’opera: il bambù. Questa è legata alla collaborazione con Giacomo Mencarini, fondatore del network internazionale Natural Born Builders in quanto costruttore di case in legno&paglia ma anche fondatore ed ex socio di Bambuseto, azienda attiva in Toscana dove risiede anche il suo bosco di bambù, da cui le canne utilizzate durante il workshop. Il workshop ha preso avvio il venerdì 6 aprile con una parte teorica volta a formare i partecipanti sulle tecniche di lavorazione, le caratteristiche meccaniche e funzionali del bambù e sulle sue possibilità di utilizzo in ambito architettonico. I due giorni seguenti sono invece stati dedicati alla realizzazione pratica dell’opera in bambù. È stata un’azione corale, di gruppo, come ci ha raccontato Alessandro Zorzetto, svolta in uno spazio pubblico e con la partecipazione degli enti proprietari degli spazi: Vela, il Comune di Venezia e con la collaborazione dell’Ordine degli Architetti, Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori della provincia di Venezia.
Nella prima giornata i quindici partecipanti hanno predisposto la struttura portante principale, una spina dalla forma sinuosa realizzata in multistrato marino che è stata progettata, sagomata e assemblata partendo da pannelli di recupero di un vicino allestimento dismesso da Rebiennale. È stata poi la volta del bambù, le cui lunghe canne di 3-4 anni di età sono state suddivise in sottili fascette, molto flessibili ma allo stesso tempo resistenti. Questa fase si è svolta nel giardino esterno della tesa e nel piazzale antistante il bacino acqueo, ridando per un giorno all’Arsenale il ruolo di "fucina della produzione" che gli è propria ma soprattutto coinvolgendo i partecipanti in una vera e propria progettazione estemporanea dove a ogni problema o difficoltà veniva data risposta attraverso sperimentazioni e azioni condivise tra docenti e allievi. Il secondo giorno ha invece visto la realizzazione del guscio della "nuvola", composto da un graticcio di fasce di bambù unite solo con legacci in cordino di canapa e sostenute internamente da una struttura ad anelli realizzata sempre in bambù.
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L’installazione è stata completata con una finitura in tessuto non tessuto, leggero, economico e semitrasparente per permettere alla luce dei led posti all’interno della struttura di diffondersi in modo soffuso e omogeneo in tutte le direzioni. La fase finale di sospensione dell’opera, realizzata con sottili cavi metallici connessi a dei piccoli argani, è stata il coronamento delle tre giornate di lavoro di squadra, il cui esito è oggi ammirabile presso gli spazi dell’Arsenale.*
IN PRODUZIONE
05. La struttura sospesa nella Tesa 105. Alessandro Zorzetto
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Michele Tomasella Coordinatore tecnico di Opera
Opera - imprese per l’edilizia
L’associazione formata da imprese artigiane è una realtà innovativa e interessante n questo numero abbiamo il piacere di presentare la collaborazione avviata tra OFFICINA* e Opera - imprese per l’edilizia. Se per la prima non occorrono molte presentazioni (il frutto della propria attività lo state sfogliando con un dito sul foglio o sul mouse), per la seconda siamo lieti di illustrarne la genesi, gli obiettivi e i risultati raggiunti. Opera - imprese per l’edilizia è un’associazione composta prevalentemente da imprese artigiane che si riconoscono in una visione innovativa del mondo dell’edilizia. Ma partiamo dall’inizio, per capire come si è arrivati alla creazione di questa realtà, chiedendolo direttamente al suo ideatore: il Geom. Mirko Battel, dell’omonima impresa di costruzioni. Michele Tomasella: Sig. Battel, come è nata l’idea di creare questa associazione? Mirko Battel: L’idea è nata nel 2012, da osservazioni fatte nell’ambito delle dinamiche del mercato dell’edilizia e del cantiere. Mi sono reso conto che il mercato stava cambiando, che le esigenze della clientela erano diverse rispetto al passato e che le modalità operative invece rimanevano ancorate a un modello che si stava dissolvendo. M.T.: Il 2012 è stato un anno parti-
colarmente difficile per le costruzioni, quanto ha influito la crisi su questa idea? M.B.: Credo abbia influito molto. Spesso si sente dire che le idee migliori nascono nei momenti di difficoltà e questa probabilmente ne è la conferma. La crisi partita nel 2008 ha fatto emergere come il modello di sviluppo che abbiamo adottato negli anni avesse dei notevoli limiti e una capacità di adattamento alle variazioni del mercato sostanzialmente nulla. M.T.: Come ha dato avvio quindi questa "creazione"? M.B.: Innanzitutto ho iniziato a parlarne con le migliori imprese artigiane con le quali collaboravo, ma per avere una visione più completa ho chiesto
ad alcuni professionisti e alle imprese stesse quali fossero, per loro personale esperienza, le migliori imprese e con il più alto livello qualitativo nel mio territorio. Ho raccolto tutti i nominativi e sono andato a proporre loro di creare una rete. All’epoca ancora non sapevo quale forma giuridica avremmo potuto adottare, ma intanto ho verificato se la mia visione fosse condivisa e potesse raccogliere interesse. M.T.: Qual è questa visione? M.B.: È molto semplice ma, paradossalmente, difficile da concretizzare: si basa sulla disponibilità alla collaborazione e al confronto, con il fine di instaurare un meccanismo di reciproco miglioramento. Operando quotidianamente in can-
Associazione Opera - imprese per l’edilizia Via Meucci 28, 31029, Vittorio Veneto,TV e-mail: info@impreseinopera.it www.impreseinopera.it 01. Assemblea dei soci. Sergio Rosolen
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la collaborazione tra i soggetti è la chiave per interpretare positivamente la realtà economica attuale
tiere mi rendevo conto che c’era scarsa trasmissione di informazioni costruttive tra le imprese operanti (compito normalmente demandato al direttore dei lavori) e questo comportava continue lamentele tra le imprese che intervenivano nel lavoro successivamente ad altri. Si tratta dunque di situazioni che inevitabilmente compromettono la qualità dell’opera finita, essendo l’opera completa il frutto di ogni singola lavorazione realizzata. La mia idea era quindi quella di chiedere la disponibilità alla creazione di un gruppo che avesse come primo obiettivo la crescita reciproca attraverso il confronto, e un modus operandi che avrebbe poi potuto riflettersi anche nella pratica lavorativa quotidiana. M.T.: E com’è andata? M.B.: Devo dire che è stato più facile del previsto, e questo perché probabilmente si trattava di una necessità diffusa nelle singole imprese ma nessuno era ancora stato in grado di rompere il ghiaccio. Ho trovato nella maggior parte dei casi sostegno e condivisione degli obiettivi proposti, chiaramente non con tutti, ma sì sa, fa parte del gioco. M.T.: Quali sono state le difficoltà maggiori? M.B.: La prima difficoltà è stata sicuramente quella di conquistarsi la fiducia, mi assumevo la responsabilità della proposta che stavo facendo e bisognava avere credibilità e saper concretizzare gli impegni presi. La mia fortuna però è quella di essere appassionato del mio lavoro e di
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02. Riunione di cantiere. Sergio Rosolen
essere molto determinato se ciò che sto facendo mi entusiasma. L’avvio del gruppo è riuscito quindi a realizzarsi rapidamente. La seconda difficoltà riguardò il far capire quale fosse il punto di vista sul mercato delle costruzioni e sull’evoluzione che in esso stava avvenendo. Mi spiego meglio: alcuni mi hanno chiesto cosa poteva dare questo gruppo al mercato che non venisse già fornito da altri; ho spiegato loro che la visione era esattamente ribaltata, la domanda doveva porsi riguardo a cosa questo gruppo poteva dare alle imprese presenti. M.T.: E la risposta qual è? M.B.: La risposta è antica: l’unione fa la forza! E lo stiamo vedendo oggi in molte situazioni, compresa questa collaborazione con OFFICINA* che difficilmente si sarebbe potuta concretizzare in maniera continuativa da una singola azienda, essere un gruppo rafforza indubbiamente ogni singolo componente. M.T.: E come sta andando? M.B.: Direi che dopo cinque anni dedicati a consolidare il gruppo, creare la visibilità, perfezionare il proprio operato, stiamo andando bene. Abbiamo un gruppo di associati stabile ed affiatato,
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possiamo usufruire di consulenze di tecnici e professionisti sia per la formazione che per l’individuazione di possibili servizi da offrire al mercato. M.T.: Quali sarebbero questi servizi? M.B.: Abbiamo individuato delle criticità che stanno emergendo nel parco immobiliare italiano, sviluppato in larga parte nella seconda metà del secolo scorso, come ad esempio lo sfondellamento dei solai. Stiamo predisponendo un servizio per indagare se negli immobili delle persone interessate c’è questo rischio, e proporre soluzioni risolutive prima che accada un danno. Un altro servizio, molto più impegnativo, riguarda la classificazione sismica degli edifici. Abbiamo capito l’importanza, anche etica, di questa attività e ci stiamo formando e informando per dare un’assistenza qualificata e responsabile su un tema molto complesso, delicato ma strategico per l’incolumità pubblica. Questa è in breve l’associazione Opera - imprese per l’edilizia, una realtà fatta di imprese che quando stacca gli occhi dal lavoro li alza per osservare il contesto nel quale opera, se possibile, per migliorarlo.*
Alberto Baldassar Ingegnere civile e idraulico, laureato alla facoltà di Ingegneria di Padova. e-mail: ing.ab@virgilio.it Nicolò Baldassar Industrial designer, laureato alla facoltà di Design del Politecnico di Milano. e-mail: nicolo.baldassar@gmail.com
La coltura acquaponica
Tradizione e innovazione a servizio dell’ambiente agricoltura è un tema particolarmente delicato: poco efficiente se si considerano gli alti investimenti richiesti in tutte le sue fasi: dalla semina al raccolto richiede un grosso dispendio di manodopera e soprattutto un rilevante quantitativo di acqua, inoltre monocoltura e fertilizzanti chimici hanno un effetto devastante per il nostro ecosistema. Esistono però diverse alternative perseguibili. Un esempio sono le culture fuori suolo, categorizzabili in tre macro-categorie: acquaponica, aeroponica ed idroponica. Queste tipologie di agricoltura consentono, tramite un costante riciclo idrico di coltivare le piante in speciali letti di crescita, permettendo un enorme risparmio d’acqua che varia dal 70% al 95%, a seconda dell’impianto utilizzato, rispetto all’agricoltura tradizionale. La principale differenza tra acquaponico, idroponico e aeroponico è che gli ultimi due, per la crescita delle piante, utilizzano soluzioni fertilizzanti che vengono diluite, in concentrazioni stabilite, direttamente nell’acqua; l’aeroponica inoltre utilizza l’acqua nebulizzata per annaffiare le radici delle piante. L’acquaponica invece utilizza una soluzione derivata dalla trasformazione dello scarto naturale prodotto nella vasca ittica per la crescita delle piante. Un sistema acquaponico è composto da una o più vasche contenenti i pesci,
e da speciali letti di crescita dove vengono coltivate le piante. Nei letti non viene utilizzata la terra, ma substrati che non alterano la soluzione dell’acqua: un esempio molto diffuso è l'uso di argilla espansa e lapilli. I pesci presenti nella vasca devono essere di acqua dolce e compatibili tra loro, ideali quindi sono tinche, carpe, carpe Koi, anguille, carassi e gamberi. Per avere un impianto ideale ne servono dai 20 kg ai 50 kg per m3 d’acqua. I pesci producono ammoniaca, elemento di partenza del ciclo biogeochimico dell’azoto, i microbi presenti nell’acqua trasformano l’ammoniaca in nitriti e poi in nitrati, che sono un ottimo fertilizzante per le piante. L’acqua così
arricchita viene spinta da una pompa nelle vasche dove le piante, attraverso l’apparato radicale, assorbono i nitriti e purificano l’acqua, che infine, pulita e ossigenata, torna nella vasca dei pesci tramite un sistema automatico. Solitamente un impianto viene pro gettato coperto in modo che gli agenti atmosferici non contaminino il ciclo idrico e, di conseguenza, la salute delle piante e dei pesci, questi ultimi infatti sono a loro volta un ottimo indicatore di qualità: se l’acqua è nocivamente contaminata il pesce può ammalarsi. La coltivazione acquaponica permette di avere risparmi di circa il 70-75% della risorsa idrica rispetto a
01. L'impianto aquaponico di Tarzo visto dall'alto. Simone Baldassar
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IN PRODUZIONE
02. La produzione di pomodori del 2017. Nicolò Baldassar
una coltivazione tradizionale e, non coltivando su terra, non necessita di alcun tipo di fertilizzante o trattamento chimico. Il sistema permette un risparmio energetico di circa 1/3 rispetto alla coltivazione tradizionale, perchè l’energia elettrica necessaria per il funzionamento dell’impianto è minima, inoltre i pesci così allevati sono potenzialmente commestibili e salutari. I principali svantaggi sono legati all’elevato costo di investimento iniziale per la realizzazione dell’impianto e la fragilità dell’ecosistema: i pesci con alcune modifiche dei parametri chimico-fisici dell’acqua possono essere soggetti a diverse malattie e portare a un epidemia compromettendo il funzionamento della coltura. Nel 2014 abbiamo iniziato a effettuare i primi test sulla coltura acquaponica e successivamente nell’estate del 2016 sono iniziati i lavori per lo sviluppo di un impianto acquaponico ad uso sperimentale a Tarzo, a 50 km da Treviso. L’impianto è composto da una cupola geodetica, con la funzione di serra, contenente sette letti di crescita da 1 m2, e un laghetto artificiale di 8 m3 d’acqua che attualmente contiene 50 kg di pesce: ci sono diverse specie allevate tra cui il carassio, la carpa, la carpa Koi e la tinca. Nel laghetto è stato istallato inoltre un piccolo centro di controllo per analizzare il pH, la temperatura e la conducibilità elettrica dell’acqua, che è un indica-
03. Il laghetto dei pesci. Nicolò Baldassar
tore della presenza di ioni nell’acqua e quindi dei sali minerali. La struttura è dotata di un impianto fotovoltaico che attualmente non garantisce una totale autonomia, obiettivo che potrà essere raggiunto con un dimensionamento adeguato. L’impianto ha permesso la coltivazione di più di 50 varietà di piante tra cui zafferano e viti, ricavandone diverse informazioni utili al progetto, per esempio le piante con un alto tasso zuccherino come fragole e piselli coltivate in acquaponica risultano esaltare il loro gusto. Nel 2017, dopo i sei mesi necessari per l’avviamento dell’impianto, la serra ha prodotto oltre 60 kg di verdura, di cui 40 kg di pomodori coltivati in mezzo m2 di terreno, senza l’utilizzo di alcun fertilizzante chimico. L’impianto è stato concluso lo scorso autunno grazie alla copertura totale, pertanto da gennaio 2018 è a tutti gli effetti funzionante, e dal prossimo anno saranno coinvolte le varie scuole della zona per sensibilizzare gli alunni e avvicinarli a queste nuove tipologie di agricoltura, impegnandoli in labo ratori multidisciplinari con materie inerenti l’informatica, l’idraulica e l’acquacultura, che permettono di capire l’importanza di ottimizzare l’uso delle risorse idriche.*
nel 2017 la serra ha prodotto oltre 60 kg di verdura di cui 40 kg di pomodori coltivati in mezzo m2 di terreno, senza l’utilizzo di alcun fertilizzante chimico
04. La cupola geodetica della serra. Nicolò Baldassar
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Nàiade: autoprogettare l’orto urbano Una proposta di trasformazione degli orti urbani attraverso l’esplorazione degli spazi d’acqua
Gian Andrea Giacobone Dottorando presso il dipartimento di Architettura dell’Università di Ferrara. e-mail: gcbgnd@unife.it
Fotoinserimento del progetto Nàiade in un suo possibile scenario. Gian Andrea Giacobone
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L’agricoltura in città accompagna l’uomo da quando il suo contesto sociale ha assunto connotazioni urbane. Nell’età industriale, gli orti sono una pratica di autoproduzione per la sussistenza, ma anche un’attività distensiva contro il lavoro alienante delle fabbriche (Breda e Zerbi, 2013). Nella contemporaneità, gli orti urbani accrescono un ruolo sociopolitico atto a contrastare, in modo sostenibile, la riduzione di suolo – dovuta all’espansione delle città (Kelly, 2010) – e il degrado urbano (Lafortezza et al., 2013). Nello stesso tempo, essi agiscono come forma d’aggregazione tra diverse classi e comunità (Bailkey et al., 2007), di insegnamento pedagogico, ambientale (Harris, 2009), o come funzione terapeutica contro malesseri psicofisici o svantaggi sociali (Matsuo, 1998). Dove però non esistono le condizioni ambientali e territoriali nelle quali è possibile l’uso di tecniche agricole tradizionali, soluzioni tecnologiche, come l’idroponica, intervengono per adattare ed estendere le coltivazioni sul tessuto architettonico urbano, originando modelli come i tetti giardino o sistemi a parete, detti vertical farms. Dall’idea di contrastare il problema del suolo con nuove soluzioni tecniche, la ricerca si è spinta a ripensare questa pratica sociale, prendendo in considerazione le floating farms, ovvero modelli di coltivazione che sfruttano le superfici acquatiche per la produzione alimentare, in zone in cui esiste una mancanza di spazio coltivabile, o lo stesso elemento è condizionato da fenomeni naturali come alluvioni o ristagni idrici. All’interno di questa categoria troviamo almeno tre casi significativi che hanno ispirato la ricerca: le chinampas messicane dell’epoca preispanica, cioè isole rialzate inserite nella valle del Messico e utilizzate per espandere la produzione alimentare in aree “non coltivabili” (Coe, 1964); gli orti galleggianti degli Intha, in Myanmar, fatti da fango e giacinti per favorire la crescita di ortaggi, indipendentemente dal livello idrico del lago Inle in cui è insediata la comunità (Sidle et al., 2007); le baira in Bangladesh, o meglio strutture formate da un compost vegetale e una base galleggiante in bamboo, per assicurare l’approvvigionamento di cibo in zone soggette a costanti alluvioni e infiltrazioni d’acqua che colpiscono il paese durante i periodi monsonici (Chowdhury e Moore, 2017). Gli esempi hanno determinato nuove opportunità per la coltivazione, ma nello stesso tempo hanno creato un sistema complesso, perché le lavorazioni richiedono tempo e mano d’opera. Per migliorare l’efficienza del modello in esame, si sviluppa il progetto Nàiade, una serra idroponica galleggiante e modulare per piccole o grandi comunità, da inserire
BIBLIOGRAFIA - Bailkey M., Wilbers J., Veenhuizen R., “Building Communities through Urban Agriculture” in “UA Magazine”, 2007, vol. 18. - Breda M. A., Zerbi M. C., “Rinverdiamo la città. Parchi, orti e giardini”, Giappichelli, Torino, 2013. - Chowdhury R., Moore G. “Floating agriculture: a potential cleaner production technique for climate change adaptation and sustainable community development in Bangladesh”, in “Journal of Cleaner Production”, 2017, vol. 150, pp. 371-389. - Coe M.D., “The Chinampas of Mexico”, in “Scientific American”, 1964, vol. 211, n. 1, pp. 90-99. - Harris E., “The role of community gardens in creating healthy communities” in “Australian Planner”, 2009, vol. 46, n. 2, pp. 24-27. - Kelly K., “Quello che vuole la tecnologia”, Codice Edizioni, Torino, 2010. - Lafortezza R., Davies C., Sanesi G., Konijnendijk C., “Green Infrastructure as a tool to support spatial planning in European urban regions”, in “Biogeosciences and Forestry”, 2013, vol. 6, pp. 102-108. - Manzini E. (2005) “Agriculture, food and design: new food networks for a distributed economy”, Tailoring biotechnologies, Vol.1, n. 2, pp. 65-80. - Matsuo E., “Present Status of Horticultural Therapy Looking for healing and humanity”, Green Joho Co. Ltd., Tokyo, 1998. - Sidle, R. C., Vogler J. B., Ziegler A. D., “Contemporary changes in open water surface area of Lake Inle, Myanmar” in “Sustainability Science”, 2007, vol. 2, n. 1, pp. 55-65.
nel tessuto idrico urbano e suburbano. L’idea si focalizza sull'uso della digital fabrication, un sistema di produzione digitale che, partendo da un file virtuale, dà origine a un artefatto tridimensionale complesso, ma nello stesso tempo accessibile e facilmente auto-producibile da persone senza specifiche competenze, provenienti da contesti economici, sociali e ambientali diversi. Ne consegue un prodotto resiliente, la cui struttura è composta da sezioni in legno e policarbonato – lavorate con macchinari di taglio, direttamente controllati da un computer – assemblabili tra loro grazie a semplici snap-fit, ossia giunti reversibili che utilizzano particolari innesti a scatto. L’impianto di galleggiamento è poi formato da materiali di riciclo e l’irrigazione da un sistema elettronico open source. La volontà è ideare un sistema democratico, bottom-up e multi-locale, le cui conoscenze e strumenti diventano un bene comune, grazie al network digitale (Manzini, 2005). Ciò si ispira all'acronimo europeo CAPS - Collective Awareness Platforms for Sustainability and Social Innovation, il quale si identifica come una piattaforma di aggregazione sociale su internet, che supporta la sostenibilità ambientale, attraverso lo scambio di sapere e la promozione consapevole di soluzioni progettuali partecipate. Il progetto così, può essere costantemente aggiornato o personalizzato a seconda delle esigenze del contesto in cui è inserito, favorendo lo sviluppo di nuove forme d'innovazione sociale.*
Oscillating Urbanization Are mountainous regions transforming into new marginal cities for metropolitan areas?
Dan Narita Ph.D. candidate at Università Iuav di Venezia - Curriculum in Urbanism. e-mail: dan_narita@hotmail.com
Landscape of Guilin, Li River and Karst mountains. Located near Yangshuo County, Guilin City, Guangxi Province, China. The eco-capital of the countryside as a competitive advantage can form new relationships between urban and rural areas. Aphotostory.
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Globalized flows of transactions and systemic risks caused to the organic ecologies aggravated by urbanization are accelerating the emergence of alternative forms of urbanities. The transactional networks transcending metropolitan areas are a still incomprehensible and a growing field in urbanism. The experimentation with novel ideas for urban-to-rural areas is creating artificial and not yet matured large scale spatial configurations. Because of the temporary nature of migration and settlement spaces in transition, maturity as an evolutionary stage for new cities can no longer be taken for granted. Instead of a steady evolution of cities, urbanization oscillates from the deltaic, coastal territories (Long, et al., 2009) to the spaces in-between (Soja, 1996) mega-cities connected by economic corridors, to the elevated mountain territories and reverses the pendulum (Vigano, 2018) effect of urbanization across the territories in space and time. Some of the more recent ideas for evolving cities are the attempt to reintroduce farming and food production to urbanites. Other innovations are policy reforms trying to accommodate refugees or a migrating labour force in new cities. Furthermore, there are initiatives to capitalize on new mobility systems to create alternative modes of transportation networks. The degradation of green amenities, for recreation is being pre-empted by creating ecovillages, and turning uncultivated land into green park tourist sites. Partly, due to the depleting environmental resources in urban areas, mountain territories are being rediscovered as an ecological and spatial capital for cities. A clear distinction of the wild habitat and the artificial environments is increasingly difficult to make. To some extent, this may be the result of technological ecologies being able to mimic organic eco-system services. In addition, the blending of physical environments with virtually augmented spaces, transform territories and blurs the boundaries between local proximities and the proximities to global networks of communities. The people-to-people networks assisted by pervasive information technologies, disperse economic activities from urban centres to the remote hinterland and mountain areas. Although the prominence of metropolitan regions as engines for anthropic innovations is unquestionable, the indispensable role of mountain territories throughout longer durations in history is underestimated. Most recently in Asian countries, and particularly in China, the accelerated speed of urbanization reveals
BIBLIOGRAFIA - Chen, M., Liu, W. and Tao, X., "Evolution and assessment on China's urbanization 1960–2010: under-urbanization or over-urbanization?" Habitat International, 38, 2013, pp.25-33. - Demurger, S., D Sachs, J., Woo, W.T., Bao, S., and Chang, G., "The relative contributions of location and preferential policies in China's regional development: being in the right place and having the right incentives", China Economic Review, 13(4), 2002, pp.444-465. - Edmonds, R.L. ed., "Patterns of China's lost harmony: a survey of the country's environmental degradation and protection", Routledge, 2012. - Lange, O., "On the economic theory of socialism: part one", The review of economic studies, 4(1), 1936, pp.53-71. - Long, H., Liu, Y., Wu, X. and Dong, G., "Spatio-temporal dynamic patterns of farmland and rural settlements in Su–Xi–Chang region: Implications for building a new countryside in coastal China", Land Use Policy, 26(2), 2009, pp.322-333. - Ma, L.J., "Urban transformation in China, 1949–2000: a review and research agenda", Environment and planning A, 34(9), 2002, pp.1545-1569. - Soja, E.W., "Thirdspace: Journeys to Los Angeles and other real-andimagined places (p. 53)", Oxford,Blackwell, 1996. - Tan, M., Li, X., Xie, H. and Lu, C., "Urban land expansion and arable land loss in China - a case study of Beijing–Tianjin–Hebei region", Land use policy, 22(3), 2005, pp.187-196. - Viganò, P., "Iuav Curriculum in Urbanism", 02.02. 2018, Venice.
oscillations in the urban systems in shorter time-spans than in previous historic phases of urbanization (Ma, 2002). Taking the past forty years of urbanization in the coastal territories of Eastern China as an example (Chen, et al., 2013), the export-driven urbanization has reached a point of saturation. The consequences of overemphasizing growth and development in coastal cities are the environmental pollution (Edmonds, 2012), social inequalities and the burdening of ecological carrying capacities. As a result of the resilience of coastal cities in jeopardy, mountain areas in China are being rediscovered as a resource for eco-system services, food security (Tan, 2005), recreation, and economic opportunities. Such oscillations during progressive stages of urbanization indicate the rise and decline of different territories over time. Due to topographical features, difficulties of accessibility, higher costs of transportation and challenges for farming on sloped terrain, mountain areas tended to be overlooked as territories for new cities (Demurger, Sachs, Woo, Bao and Chang, 2002). Given the acute risks in the mega-cities system in China, new technological advancements in communication, clean energy production and the potentially declining costs of transportation, may transform mountainous areas into promising territories for an alternative type of urbanity.*
Progettazione digitale e additive layer manufacturing L’uso di tecnologie innovative di modellazione parametrica e prototipazione rapida in architettura
Sara Codarin Dottoranda presso il Dipartimento di Architettura dell’Università di Ferrara. e-mail: sara.codarin@unife.it
Radiolaria, il primo prototipo di dimensione paragonabile a quella di un manufatto edilizio, stampato in 3D da Dshape in collaborazione con Shiro Studio. La tecnologia sviluppata impiega un materiale insolubile e resistente, derivante dalla miscela di sabbia, ossidi metallici e collanti inorganici a base di sali, le cui caratteristiche sono associabili a quelle della pietra. Shiro Studio
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Definizione materica di geometrie complesse attraverso l’additive layer manufacturing Al fine di superare la standardizzazione delle procedure di industrializzazione del processo edilizio, sono stati analizzati molteplici sistemi innovativi per l’automazione (Bock T., Thomas L., 2016) e la produzione di cantiere, tra cui le tecnologie di Additive Layer Manufacturing (ALM), il cui significato è talvolta approssimato all’espressione stampa 3D, che consentono di generare volumetrie attraverso procedimenti additivi tramite la sovrapposizione di strati consecutivi di materiale fino alla definizione del prototipo finale. I plotter o le stampanti 3D in grado di sostenere il salto di scala dall’oggetto di design al componente edilizio si distinguono principalmente in estrusori a freddo (cold extrusion) e in sistemi di ugelli progettati per il deposito di inerti sottili alternati a strati di legante (powder-bed deposition). Quest’ultimo metodo con-
Sperimentazione digitale nelle fasi di progettazione L’attuale sviluppo di tecnologie digitali nei processi edilizi si configura come una reale necessità espressa dai professionisti della filiera al fine di interfacciarsi tramite un linguaggio comune, ridurre le incertezze e assicurare una maggiore consapevolezza nelle scelte progettuali per garantire qualità ed efficienza del risultato. Parallelamente, l’affermarsi di tecnologie di produzione di componenti materici capaci di leggere dati digitali, interpretarne e successivamente riprodurne le caratteristiche spaziali (Gershenfeld,2012), apre a nuovi linguaggi che necessitano di sperimentazioni tecniche e verifiche di applicabilità. La rappresentazione di progetto, in particolare, che si rivolge in maniera progressiva verso un’evoluzione contrassegnata dalla staticità del disegno alla dinamicità del modello, afferisce all’ambito degli strumenti raggruppabili sotto il nome di BIM, che offrono la possibilità di creare modelli informativi, ovvero elaborati digitali che contengano tutte le informazioni riguardanti l’intero ciclo di vita del manufatto architettonico. Il carattere informativo del modello diviene quindi preponderante rispetto all’aspetto geometrico, grazie alle possibilità offerte dalla standardizzazione dei componenti architettonici. È infatti il dato informativo stesso che assume, in relazione alla dimensione nella quale è interpretato, il valore di parametro progettuale.
BIBLIOGRAFIA - Bock T., Thomas L., "Site Automation", Cambridge University Press, Cambridge, 2016. - Gershenfeld N., "How to make almost anything: the digital fabrication revolution", Foreign Affairs, 2012. - Willmann J., Gramazio F., Kohler M., Langenberg S., "Digital by Material", Rob|Arch 2012, Springer, Vienna, 2013.
sente la realizzazione di volumi in forme libere senza limitazioni geometriche, aprendo un dibattito sull’opportunità di approfondire inediti linguaggi di progettazione architettonica la cui sintassi può essere generata da regole universali derivanti da algoritmi e modelli matematici parametrici (Willmann J., et al., 2013). La possibilità di svincolarsi dai limiti progettuali imposti da sistemi produttivi tradizionali ha dato avvio, ad esempio, all’elaborazione di ipotesi costruttive il cui linguaggio espressivo si rifà a layout geometrici desunti dall’osservazione a scala ravvicinata dalla natura, da cui trarre esempio per l’ottimizzazione delle prestazioni e dell’uso di risorse. Con queste finalità, sono stati impostati algoritmi di modellazione orientati all’imitazione di regole generative caratterizzanti le strutture biologiche naturali, la cui applicazione in architettura è in grado di restituire geometrie staticamente efficienti con l’impiego di quantità ridotte di materiale. Nel corrente contesto di sperimentazione, infatti, il miglioramento delle prestazioni dei componenti edilizi attraverso l’elaborazione di prototipi performativi si configura come un aspetto di primaria importanza al fine di motivare ciascuna scelta formale definita in fase progettuale. Tra gli esempi di realizzazioni finalizzate alla verifica della continuità qualitativa dei processi innovativi di produzione - dall’elaborazione dei modelli digitali parametrici alla costruzione tramite ALM - di volumi free-form, si vuole prendere come caso studio Radiolaria il primo prototipo a grande scala ispirato a forme naturali il cui deposito di layer materici si è effettuato attraverso powder-bed deposition solo dove indispensabile, senza sprechi. Gli esiti prodotti da tali processi costruttivi si ritiene possano risultare rispondenti a criteri di sostenibilità nelle diverse declinazioni.*
Enrico Bascherini Architetto, docente di composizione architettonica presso l'Università degli studi di Pisa. e-mail: studiobascherini@gmail.com
a ricerca progettuale svolta all’interno del corso di Recupero e Riqualificazione Ambientale Urbana e Territoriale presso l’Università di Pisa, si pone come momento di riflessione critica metodologica sulla comunicazione ed educazione al progetto architettonico e urbanistico in ambiti di fragilità ambientale. Il tema di ricerca e di didattica affrontato nell’insegnamento, trova un’applicazione nel territorio del lago di Porta, sito di elevato interesse naturalistico appartenente ai Comuni di Montignoso e Pietrasanta. Delimitato lateralmente da due promontori: la collina di monte Pepe da un lato e il colle denominato del Salto della Cervia dall’altro. Il lago e tutto il territorio del parco a esso connesso è oggi al centro di un dibattito politico culturale di grande interesse. L’attuale assetto fluviale non è che il risultato di mutazioni antropiche e naturali, che nel corso del tempo hanno trasformato e disegnato il territorio attraversato dal fiume Versilia e in particolare il lago di Porta. Il territorio, che oggi ci è stato consegnato, non può essere considerato un ambiente primigenio, ma un luogo in cui l’uomo e la sua azione, ora dirompente, ora conservatrice, lo ha trasformato.
Fino al secolo scorso, tali trasformazioni hanno mantenuto un carattere univoco e osmotico con l’ambiente palustre fluviale o marino, ovvero le azioni assunte sono state capaci di interagire in maniera organica col contesto ove erano inserite. Di fatto tutto l’operato dell’uomo in questo territorio fino alla metà del secolo scorso, benché ampliato concettualmente per città, paesi e campagne, è stato guidato da quel fare sincopatico con l’ambiente, a cui il progetto si riferiva. Oggi, da qualche anno, stiamo assistendo a una rottura di quei codici operativi fondamentali per operare nel contesto, concetti più lontani da quel grado zero della composizione architettonica. Torna in mente quindi la lezione di Paolo Portoghesi "la poetica dell’ascolto": il luogo, ogni luogo che abbiamo di fronte non può che essere ascoltato, interpretato e tradotto. Fondamentale è entrare nel codice genetico del luogo, mutare dall’interno quanto basta per apportare trasformazioni di continuità, con quello che è stato metabolizzato e ha creato nel corso del tempo un’identità precisa. Appare evidente a tutti, ancora una volta, il senso di dominio del progettista e quindi dell’uomo nei confronti della natura. Anziché limitarsi a un atteggiamento di comprensione dei luoghi e dei suoi riti arcani, appare
01. Nido di punteruolo rosso della palma (Rhynchophorus ferrugineus). Enrico Bascherini
Comporre secondo natura
Una ricerca progettuale all'interno del corso di Recupero e Riqualificazione Ambientale, Urbana e Territoriale dell'Univesità di Pisa
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fondamentale per il progettista soddisfare la brama di autografare l’opera progettata. Il progetto non percepisce più lo stimolo del luogo, anzi, sembra penetrare tra i progettisti l’idea che il luogo sia un "aspetto da congelare" ed il progetto debba essere più "anoressico" possibile. Mentre la natura quando costruisce si misura con se stessa in una totale sostenibilità e contestualità (una conchiglia cresce col suo ambiente, un uccello raccoglie ciò che ha a disposizione per costruirsi il proprio nido, la processionaria si racchiude in un bulbo filamentoso rassicurante) l’uomo delega la costruzione ad altri attori/fattori: condizionamenti burocratici, tecnici, prestazionali e ciononostante risultiamo sconfitti. Per chi ha la fortuna di passeggiare in una giornata invernale in un tratto della fossa fiorentina del Lago di Porta, non può non subire gli stimoli di un paesaggio quasi intonso. Il paesaggio del lago è stato percepito come un unicum tra elementi naturali ed elementi antropici: l’immaterialità del falasco, la snellezza delle tife si contrappongono a un profilo ambientale percepito per tratti orizzontali. La linearità e rigidezza della fossa fiorentina opposta alla fragilità e mutevolezza della circolarità dei chiari d’acqua, disegnano un paesaggio in continuo movimento. Il fiume, il lago e il mare appartengono allo stesso sentire materico.
02. Nido di processionaria del pino (Thaumetopoea pityocampa). Enrico Bascherini
03. Nido di pendolino europeo (Remiz pendulinus). Enrico Bascherini
l’operato dell’uomo in questo territorio fino alla metà del secolo scorso è stato guidato da quel fare sincopatico con l’ambiente a cui il progetto si riferiva 04. Nido di topo selvatico (Apodemus sylvaticus). Enrico Bascherini
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La composizione degli oggetti progettati nei tre contesti, suddivisi per comodità operativa, nasce dalla consapevolezza che l’unità di misura, la dimensione, il carattere, il codice genetico dell’idea devono generarsi dall’acqua e dagli aspetti che ne derivano. Un paesaggio fatto di profili, argini, sponde, fosse, paludi e di torrenti, in cui si legge e si percepisce la mano dell’uomo che, in modi e tempi diversi, ha mutato il contesto. Un paesaggio fatto di vocaboli naturali: cortecce, rampicanti, alghe, foglie e sterpi. Un paesaggio in movimento: aironi, germani, nutrie, rane, serpi e farfalle, carpe, libellule e rondini. Un paesaggio mutevole; i colori delle stagioni, il crescere di arbusti e l’essiccarsi degli stessi, la bassa e l’alta marea, le secche dell’alveo e il suo stato dirompente nelle piene invernali. Il progetto diviene quindi comparsa tra le comparse, attore tra gli attori, sensibile al luogo e ai luoghi, unico e irripetibile, generale e particolare, ovvero identità in movimento, ma anche sintesi, "visione unitaria della natura stessa da confrontare con il restante bagaglio culturale dell’uomo" (Pierini, 1996). Il contesto è quindi il testo di lettura dei progetti qui raccolti: la storicità del luogo, la particolare situazione morfologica, l’ordine e il disordine, la materia, il movimento, i colori, le tessiture, tutte espressioni ammesse e codificate
che tentano di ricostruire, ovvero allinearsi a un’identità leggibile. Il Lago, denominato di Porta Beltrame, ha permesso di riflettere su contenuti compositivi e funzionali da adottare in un luogo di grande fragilità, in cui una normativa urbanistica restrittiva spesso appare poco consapevole dei contenuti e delle potenzialità che ogni luogo possiede, delegando a una struttura cartacea piramidale l’onere di controllare tutto l’operare dell’uomo. L’idea di "sentire" le vibrazioni del luogo lacustre, ha condotto i progetti edilizi, alla ricerca di una sensibilità all’ambiente. La lettura della misura, della dimensione, della materia, del colore, sono solo alcuni parametri di ricucitura identitaria dei progetti realizzati per proporre un progetto di "Geoarchitettura" (Portoghesi, 2005). La sensibilità del costruire sostenibile adottato nello spazio del Lago di Porta, è filtrata da concetti compositivi che colgono nella "costruzione animale e vegetale" l’esempio più grande, a cui la ricerca ha fondato il motivo del comporre, ovvero il vero carattere identitario di questo spazio naturale. Bernardo da Chiaravalle scriveva "troverai più nei boschi che nei libri"; a tale scopo sono state ricercate e studiate le costruzioni "animali" locali (img. 01-04), ovvero le maggiori realizzazioni di nidi della fauna locale ivi studiati. Abbandonato lo stimolo della gratuità delle forme, dell’espressione forma-
05. Struttura ricettiva (V. LoPorto). Enrico Bascherini
il laboratorio accademico ha permesso di realizzare gli oggetti pensati e progettati sia a livello di modelli lignei sia a scala reale
06. Struttura bird Watching (L. Petrioli). Enrico Bascherini
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le fine a se stessa, dell’oggetto pubblicistico, i progetti hanno mantenuto un profilo di ricucitura ambientale fondato sulle esperienze delle costruzioni animali. Materia, sostenibilità, contesto, riciclo, ambiente, sono stati i cardini di indagine della costruzione "secondo natura". Sono state illustrate fisicamente le maggiori realizzazioni del "costruire animale e vegetale", lezioni frontali sulla conoscenza di forme dimensioni e materiali di nidi presenti in ambito lacustre. I progetti hanno seguito diversi filoni di ricerca, ma tutti con lo scopo di recuperare un rapporto con la natura e con le leggi sia formali che materiche: l’uso di materiali reperibili nel luogo, riutilizzabili, nati dalla terra e per la terra quali arbusti, falasco, cannucce d’acqua, argilla e pietra calcarea, tutti elementi rintracciabili nel territorio del progetto; la sensibilità di concepire un progetto non statico, ma che si trasforma con le stagioni e muta con il mutare del paesaggio attraverso un continuo dialogo. Il laboratorio accademico ha permesso di realizzare gli oggetti pensati e progettati sia a livello di modelli lignei (img. 05-08), sia a livello di scala reale (realizzazione di uno spazio per il pensiero). Il passaggio del sistema dalla "didattica accademica" alla "didattica come costruzione e sperimentazione fisica" ha generato una ricerca integrale e non solo teorica.*
07. Struttura bird Watching sospesa (S. Paolillo). Enrico Bascherini
BIBLIOGRAFIA - Pierini R., "Il Fiumetto, idee per il recupero ambientale", Il Testimone, Massarosa, 1996. - Portoghesi P., "Geoarchitettura", Skira, Milano, 2005.
08. Struttura sala collettiva (A.Masciangelo). Enrico Bascherini
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Fiorenzo Meneghelli Architetto, esperto di architettura militare, si occupa del restauro di edifici storici, del recupero e valorizzazione dell’architettura militare. e-mail: arch.meneghelli@gmail.com Andrea Meneghelli Ingegnere e architetto, svolge attività di ricerca nell’ambito del recupero di edifici storici e architettura sostenibile. e-mail: andreameneg@gmail.com
el 1911, pochi anni prima dello scoppio della Grande Guerra, si concluse la costruzione del forte di Monte Tesoro, sito a nord di Verona, sui Monti Lessini. Il forte, realizzato dal Genio militare italiano a difesa del confine con l’Impero austro-ungarico, era dotato di 6 cannoni, inseriti in grandi cupole in acciaio, ruotanti a 360 gradi con una gittata di 10 km. Il recupero di Forte Tesoro è inserito in un più vasto programma di valorizzazione che coinvolge l’intero monte, con una superficie boscata di 154.640 m2, e include una polveriera costruita dentro la roccia e un edificio adibito a caserme. Il progetto di recupero riconosce il forte quale luogo della memoria della Grande Guerra e spazio espositivo in cui presentare i caratteri peculiari del territorio sotto l’aspetto storico, archeologico, culturale, ambientale e paesaggistico, e promuovere i prodotti tipici della Lessinia. Il progetto di recupero del forte realizzato dallo Studio Arch. Fiorenzo Meneghelli con la collaborazione dell’Ing. Andrea Meneghelli ha affrontato diverse problematiche: dal consolidamento strutturale alle soluzioni impiantistiche,
dal restauro conservativo alle necessarie integrazioni architettoniche, dalla conservazione dell’impianto storico alla accessibilità e fruizione pubblica, ecc. In questo articolo intendiamo presentare quest’ultimo tema, che parte dalla considerazione che il forte nasce come un luogo impenetrabile, un parallelepipedo in calcestruzzo e pietra incastonato sulla sommità rocciosa del monte. Il forte è visibile solo dal fronte di gola in cui vi è l’unico ingresso posto nella caponiera alla base del fossato. La parte restante è inserita nel terrapieno inclinato che raggiunge sui tre lati rimanenti il piano di copertura del forte nascondendolo completamente alla vista esterna.
Il recupero del forte richiedeva una soluzione che garantisse ai visitatori l’accessibilità e la piena fruizione di tutti gli spazi articolati su più livelli e profondità all’interno del manufatto. Il progetto ha previsto un nuovo accesso che, attraversando le murature del forte e il terrapieno, consente ai visitatori di raggiungere in sicurezza l’area esterna e nel contempo offre un’occasione di conoscenza dell’impianto storico dell’opera fortificata. Questo "nuovo passaggio" non assolve quindi solo una funzione di sicurezza per i visitatori, ma diviene per loro una esperienza visiva che permette di comprendere il senso di chiusura e isolamento dei soldati costretti per lunghi periodi a vivere entro le mura del forte.
01. Forte Tesoro, piano della copertura con le cupole in acciaio corten. Andrea Meneghelli
Uno sguardo inaspettato verso il paesaggio Il recupero di Forte Monte Tesoro
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L'ARCHITETTO
Il genio militare è stato capace di integrare l'opera fortificata nel blocco roccioso del monte, coniugando l'artificialità dell'opera architettonica con la naturalità del luogo 02 e 03. Galleria vista nella direzione dall’interno all’esterno del forte e viceversa. Andrea Meneghelli
Vi è quindi nell’attraversamento della galleria, da parte dei visitatori, un senso liberatorio nel poter accedere all’area esterna, di percepire l’intensa luminosità e di cogliere la visione spettacolare sui rilievi montuosi. La galleria che porta all’esterno del forte, attraversa lo spessore di circa 4 m delle murature in calcestruzzo a vista, e prosegue con una struttura metallica scatolare all’interno del terrapieno che circonda il forte. I 7 moduli scatolari in acciaio corten uniti da nervature in rilievo costituiscono la galleria della lunghezza di oltre 15 m. La modularità degli elementi autoportanti ha facilitato il trasporto, la posa in cantiere e l’assemblaggio. Infine, la galleria è stata ricoperta di terreno, ricostruendo i profili originari del terrapieno inerbito. La pavimentazione, scandita dalla nervatura a vista in acciaio corten, è costituita da pietrisco di colore bianco e grigio chiaro gettato su massetto in calcestruzzo e affiorante in superficie. Si riprende in questo modo l’immagine del muro demolito del forte in cui pietrisco trattenuto dal calcestruzzo rimane scabro e a vista. Dal lungo corridoio interno, su cui si affacciano le scale di accesso alle 6 batterie corazzate, si accede alla galleria attraverso una porta in ferro che, aprendosi, lascia intravedere in profondità la luce dell’ambiente esterno. La sequenza delle nervature metalliche della galleria produce un effetto prospettico a cannocchiale: inizialmente si percepisce solo l’intensa luce esterna, ma
proseguendo, il tunnel offre una finestra sempre più nitida e ampia verso i rilievi montuosi che appaiono in profondità. Usciti dalla galleria si sale sul pendio del terrapieno raggiungendo la copertura in calcestruzzo del forte in cui affiorano le 6 cupole in acciaio corten e quella dell’osservatorio. Le cupole sono interpretate solo come forme geometriche che simulano le originarie cupole corazzate. Sulla sommità del forte si ha una vista a 360° del territorio: dalla città di Verona al lago di Garda, dal crinale del Monte Pastello a quello del Monte Baldo, dalla Valle dell’Adige ai profili montuosi della Lessina, per poi ritornare con lo sguardo alla visione in profondità della Valle Padana. Questa visione d’insieme ci permette di cogliere il valore paesaggistico delle opere fortificate; giunte a noi inalterate grazie al vincolo militare, oggi questi luoghi possono diventare presidi per la
difesa dell’ambiente e del paesaggio. La realizzazione di questo forte è il risultato di una precisa progettazione del Genio Militare Italiano e della capacità tecnica delle maestranze locali nel saper far dialogare le murature in pietra locale a vista con nuove opere in calcestruzzo. Le prime lasciate a vista, conservando l’immagine tradizionale delle opere in pietra della Lessinia, le seconde poste all’interno ad assolvere le funzioni statiche e di resistenza della struttura. Il terrapieno che ricopre la struttura in calcestruzzo costituiva uno strato protettivo capace di resistere al tiro delle artiglierie avversarie. Il genio militare è stato capace di integrare l'opera fortificata nel blocco roccioso del monte coniugando, con abilità tecnica, l'artificialità dell'opera architettonica con la naturalità del luogo.*
04. Vista esterna del terrapieno da cui emerge il profilo della galleria con le protezioni verso il fossato. Andrea Meneghelli
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Barbara Cardone Dottoranda, Dipartimento di Architettura Università Roma Tre. e-mail: barbara.cardone@uniroma3.it Roberto D’Autilia Dipartimento di Matematica e Fisica Università Roma Tre. e-mail: roberto.dautilia@uniroma3.it
er comprendere le regole che definiscono forma e dimensioni degli spazi abitativi è necessario indagare le complesse relazioni che legano il numero degli abitanti all'estensione del luogo abitato, risultato di interazioni tra necessità biologiche, modelli culturali e vincoli economico-spaziali. Un’importante caratteristica dello spazio antropizzato è la sua condivisione, al punto che secondo alcuni la compartecipazione all’uso delle risorse potrebbe aver contribuito all’espansione della specie umana sulla terra causando una non-linearità della relazione funzionale tra abitanti e dimensione abitativa (Hamilton, Burger, DeLong, Walker, Moses, Brown, 2009). In tempi recenti, relazioni allometriche sono state studiate per gli spazi urbani, ipotizzando l’esistenza di una relazione tra densità di popolazione ed estensione del suolo occupato, analoga a quella tra la massa corporea e metabolismo in biologia (D’Autilia, D’Ambrosi, 2015). La dipendenza di differenti indici urbani dal numero di abitanti è stata analizzata in dettaglio in numerosi lavori (Bettencourt, Lobo, Helbing, Kühnert, West, 2007)
dove è stato anche analizzato il meccanismo che dà luogo alla legge allometrica (West, 1997), ma su una scala spaziale più piccola, quella dei singoli edifici, per il momento non sono stati fatti molti studi (Batty, Carvalho, Hudson-Smith, Milton, Smith, Steadman, 2008). In molti casi la relazione tra il numero di abitanti e la dimensione delle abitazioni è regolata da norme igienico-sanitarie, finalizzate a garantire un livello minimo di qualità della vita. L’ambiente costruito rappresenta difatti uno dei fattori determinanti per il benessere psicofisico degli individui (Bonnefoy, 2017). In Italia, gli ambienti residenziali sono normati dal D.M. 5 Luglio 1975
la dimensione delle abitazioni è condizionata da vincoli economici, comportamentali e culturali
01. Spazio comune adibito a stenditoio nell’edificio occupato SPIN TIME LABS in via Statilia, Roma. Barbara Cardone
Comfort abitativo e standard edilizi L’approccio allometrico
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che stabilisce i "requisiti igienicosanitari" dei locali di abitazione, imponendo degli standard prescrittivi anche di tipo dimensionale. Queste regole, rappresentano tuttavia solo un limite inferiore alla dimensione dello spazio abitativo. Le normative specifiche non sono tuttavia osservate da circa un terzo della popolazione mondiale che vive in case abusive (img. 01) (UN-Habitat, 2011). In questo caso le regole abitative sono determinate prevalentemente da vincoli soggettivi non sempre in linea con le norme di legge. È evidente quindi che, nonostante si cerchi in qualche modo di normare la dimensione delle abitazioni sulla base di regole di tipo igienico-sanitario, questa grandezza si riveli invece molto variabile essendo condizionata da vincoli economici, comportamentali e culturali. Una "legge naturale" che tenga conto anche di altri parametri, potrebbe aiutare a riconsiderare le norme abitative tenendo conto anche dei comportamenti spontanei. Questo lavoro si propone di determinare e verificare, utilizzando dati di tipo statistico, un nuovo metodo per la ricerca di uno standard abitativo basato sull’identificazione di una relazione allometrica. Questa relazione prenderà in considerazione i dati abitativi già utilizzati negli standard precedenti, insieme ad altri parametri, come quello individuato nella con-
divisione degli spazi comuni, e sarà inoltre espressa in forma matematica. La scelta di una descrizione formale è infatti sicuramente necessaria quando, come nel problema in esame, sia necessario "misurare" un fenomeno per prevederne quantitativamente gli effetti (Galilei, 2015). Supponiamo allora che il meccanismo della condivisione dello spazio sia descritto dalla legge: che correla una generica variabile a una risorsa per mezzo dei due parametri α e β. Per chiarire il senso della relazione, supponiamo che la variabile y rappresenti lo spazio abitato da x persone. Se x=1 allora y= α, e il parametro α è proprio lo spazio abitativo necessario ad una persona, quello che deve essere garantito dalla legge o dalle regole igieniche. Se aggiungiamo una seconda persona, possono presentarsi tre differenti scenari che illustrano il significato del parametro β (img. 02). Nel primo caso il secondo abitante occupa il proprio spazio α imponendo una zona di rispetto che non dovrà essere occupata. Lo spazio complessivo di due persone non è quindi il doppio di quello del primo individuo, ma più grande, in quanto comprende anche la zona di rispetto. È un comportamento di tipo non collaborativo, caratteristico per esempio del fenomeno dell’urban sprawl.
TASSO METABOLICO (kcal/h, scala logaritmica)
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10-9 STRUMENTAZIONI
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MASSA (g, scala logaritmica)
03. La legge di Kleiber, che identifica una relazione allometrica tra massa e metabolismo con β=3/4
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area di rispetto
β=1
y=αxβ
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β>1
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β<1
02. La legge allometrica con β superlineare, lineare e sublineare. Barbara Cardone e Roberto D'Autilla
fino a 29 m2 30 -39 m2 40 -49 m2 50 -59 m2 60 -79 m2 80 -99 m2 100 -119 m2 120 -149 m2 150 e più m2
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3 PERSONE
4 PERSONE
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04. Elaborazione dati ISTAT, Lazio. Distribuzione delle dimensioni degli appartamenti in una scala da 29 m a più di 150 m per gruppi da 1 a 6 o più persone. Barbara Cardone e Roberto D'Autilla 2
Questo fenomeno è caratterizzato da β>1 ed è economicamente e socialmente svantaggioso. Nel caso lineare le persone scelgono i propri spazi abitativi senza alcuna forma di condivisione, ma senza zona di rispetto: due persone abiteranno allora il doppio dello spazio di una sola persona e lo spazio abitativo sarà proporzionale a x con constante di proporzionalità α. Come nel caso precedente anche questo comportamento, caratterizzato da β=1 non è economicamente vantaggioso perché moltiplica i costi degli spazi infrastrutturali, e determina anche una segregazione individuale. L’ultimo caso, β<1, è il più interessante, perché mostra l’importanza della condivisione. In questo caso infatti gli spazi di due persone, pur mantenendo la corretta dimensione α, vengono parzialmente condivisi, e il valore di β misura l’entità della condivisione. Entrambi gli abitanti hanno a disposizione uno spazio adeguato, ma parte di esso viene utilizzato da altri, comportandosi come un’infrastruttura condivisa. Questo caso è il più interessante anche per le sue analogie con i sistemi biologici. La legge di Kleiber (Klei-
2
ber, 1947) mostra infatti che se la y della nostra equazione rappresenta il consumo energetico, il metabolismo, per un animale di massa x, è allora β=3/4<1 (img. 03). Un valore di β minore di 1 è indicativo di un’economia di scala, dove le risorse crescono ottimizzando l’efficienza, ed è stato calcolato per numerose grandezze urbanistiche, dal numero di stazioni rifornimento alla superficie stradale alla velocità pedonale (Bettencourt, Lobo, Helbing, Kühnert, West, 2007) al consumo di suolo (D’Autilia, D’Ambrosi, 2015). Per esempio β è 1,27 per i nuovi brevetti (superlineare), 1,0 per i consumi elettrici (lineare) e 0,83 per la superficie stradale di una città (sublineare) (D’Autilia, D’Ambrosi, 2015). Ci chiediamo quindi se esiste una relazione analoga tra numero di abitanti e grandezza di un’abitazione, una naturale condivisione che determina una dimensione ottimale della casa dato il numero di abitanti e stimare i valori dei due parametri α e β utilizzando i dati ISTAT. I dati ISTAT, accessibili sul sito dell’Istituto Nazionale di Statistica, mostrano per il Lazio la distribuzione
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l’allometria permette di determinare la legge matematica basata sul parametro della condivisione di spazi comuni
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DIMENSIONE APPARTAMENTO
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3 PERSONE
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05. Definizione dei coefficienti α e β per il Lazio. Barbara Cardone e Roberto D'Autilla
delle dimensioni degli appartamenti in una scala da 29 m2 a più di 150 m2 per gruppi da 1 a 6 o più persone (img. 04). Possiamo allora estrarre le informazioni necessarie per calcolare i valori di α e β. Dalla simulazione dell’intera popolazione del Lazio si ottiene α=79,87 e β=0,14 (con R2=0,90) (img. 05). Nell’ambito di questo modello, una persona nel Lazio abita in media in 80 m2, due persone in circa 88 m2, tre persone hanno bisogno di 93 m2, quattro di 97 m2, cinque di circa 100 m2, e sei persone utilizzano più di 102 m2. È evidente una distribuzione degli spazi che non sembra corrispondere alle prescrizioni della legge urbanistica. La normativa infatti attualmente identifica come dimensioni ottimali: da 28 a 38 m2 per i single, da 38 a 42 m2 per le coppie, da 42 a 56 m2 per nuclei composti da 3 persone, a cui si aggiungono 10 m2 per ogni componente in più. Questi dati vanno tuttavia letti alla luce di alcune considerazioni. La prima riguarda l’epoca di costruzione degli edifici. Secondo i dati ISTAT relativi al censimento del 2011, nel Lazio la maggior parte degli edifici
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ad uso residenziale, circa l’85% delle costruzioni totali, sono stati costruiti tra il 1946 e il 1980 (ISTAT, 2011). Circa il 53% di questi edifici, inoltre, è stato costruito prima del 1975, anno in cui è stata aggiornata la normativa sull’igiene degli ambienti residenziali, integrandola con le prescrizioni dimensionali dei locali. La seconda riguarda l’abusivismo edilizio, dunque tutti quegli edifici costruiti al di fuori dai piani urbanistici e quindi anche dalle suddette normative igienico-sanitarie. Nel Lazio, nel 2014, l’indice di abusivismo edilizio, che misura il numero di costruzioni abusive ogni 100 autorizzate dai Comuni, era del 19,6% (ISTAT, 2015). Da questi dati, pur limitati alla sola regione Lazio, si osserva che se la legge dovesse rappresentare l’andamento delle dimensioni abitative allora sarebbe necessario considerare uno spazio abitativo piuttosto ampio, che si modifichi secondo la legge allometrica con i coefficienti calcolabili con il metodo indicato. Il metodo allometrico proposto in questo lavoro, permette quindi di determinare una legge matematica basata sia sui parametri usualmente
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utilizzati per la determinazione degli spazi abitativi sia su un parametro innovativo quale quello della condivisione di spazi comuni. La legge è espressa in modo formale e consente quindi di simulare scenari differenti offrendo un valido strumento di analisi per lo studio e la previsione dei diversi contesti urbanistici.* BIBLIOGRAFIA - Batty M., CarvalhoR., Hudson-Smith A., Milton R., Smith D. and Steadman P., "Scaling and allometry in the building geometries of greater london", casa working paper 126, 2008. - Bettencourt L. M. A., Lobo J., Helbing D., Kühnert C., West G.B., "Growth, innovation, scaling, and the pace of life in cities", Proceedings of the National Academy of Sciences 104, 2007, n. 17, pp. 7301–7306. - Bonnefoy X., "Inadequate housing and health: an overview", Int. J. Environment and Pollution, 30, pp. 411-424, 2017. - D’Autilia R., D’Ambrosi I., "Is there enough fertile soil to feed a planet of growing cities?", Physica A: Statistical Mechanics and its Applications, Volume 419, 2015, pp. 668-674. - Galilei G., "Il Saggiatore", Feltrinelli, 2015. - Hamilton M.J., Burger O., DeLong J.P., Walker R.S., Moses M.E. and Brown J.H., "Population stability, cooperation, and the invasibility of the human species", Proceedings of the National Academy of Sciences 106 (2009), no. 30, 12255–12260. - Kleiber M., "Body size and metabolic rate", Physiological Reviews, 27(4),1947. - ISTAT, "Censimento popolazione e abitazioni", 2011. - ISTAT, "Rapporto sul Benessere Equo e Sostenibile", 2015. - UN-Habitat, "Monitoring Security of Tenure in Cities: People, Land and Policies", Nairobi, 2011. - West G. B., "A general model for the origin of allometric scaling laws in biology", Science 276, 1997.
Linda Comerlati Architetto libero professionista. e-mail: linda.comerlati@gmail.com Nicola Preti Architetto libero professionista. e-mail: arch.nicolapreti@gmail.com
entre la normativa italiana per l'edilizia fa capo al modello dell'NZEB, edificio a energia quasi zero, ossia una progettazione che ha l'obiettivo di ridurre i consumi energetici in fase d'uso del manufatto, nuova attenzione sta ricadendo sulla quantificazione dell'energia e della CO2 incorporata negli edifici. L'obiettivo della Conferenza di Parigi di contenere gli effetti del cambiamento climatico a + 2°C rispetto al 1990 ha scadenza al 2050, fra circa 30 anni, mentre secondo le norme vigenti la vita media utile di un edificio è pari a 50 anni per gli edifici residenziali. Per questo, valutare la sola energia nella fase d'uso è riduttivo, mentre un impatto immediato è dato dall'abbassamento dell'energia incorporata e della CO2 emessa nella fase di costruzione degli edifici. In questo ragionamento si inserisce la strategia di progettare gli edifici utilizzando la paglia: questa tecnologia permette infatti di incorporare carbonio durante la fase di produzione dei materiali edili, e l'impatto benefico sul clima è quindi misurabile in emissioni di CO2 evitate al momento della costruzione. Il carbonio assorbi-
to dai cereali durante la crescita non ritorna in atmosfera a fine raccolto, come abitualmente avviene attraverso incenerimento o biodegrado - legandosi con l'ossigeno e andando a formare nuova CO2 - ma rimane "imprigionato" negli steli di paglia che andranno a formare l'edificio. Di quanto carbonio stiamo parlando? Il rapporto della massa molecolare tra C e CO2 è di 1:3,67, per cui una molecola di anidride carbonica ha una massa 3,67 volte superiore a quella del carbonio. È possibile fare un rapido calcolo del potenziale di riduzione degli impatti sul clima dell'edilizia in balle di paglia: stimando che per costruire una casa unifamiliare media servono fino a 500 balle di paglia, ciascuna del peso di circa 20 kg, e che la paglia è costituita al 40% da carbonio, si ottiene che un'abitazione è costituita da circa 4 tonnellate di carbonio, equivalente a 14,68 tonnellate di CO2 assorbita o evitata nell'atmosfera1. La tipologia costruttiva maggiormente diffusa in Italia di edifici in balle di paglia è definita come edificio a telaio in legno lamellare o massiccio, con tamponamento in balle di paglia pressate. La paglia può essere utilizzata sia nei muri sia nelle partizioni orizzontali e nelle coperture, in forma di "ballette standard" di misura 35x45x90 cm. Per raggiungere gli adeguati valori di isolamento termico e di compattezza, le balle vanno pressate all'interno dei telai
progettare gli edifici con la paglia permette di incorporare carbonio durante la fase di produzione dei materiali edili
01. Pannello prefabbricato in legno con tamponamento in paglia pressata e rettificata. Nicola Preti
Oltre l'edificio NZEB con le costruzioni in balle di paglia Caratteristiche tecnologiche e contributo alla protezione del clima
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di legno2. Al di là delle caratteristiche tecnologiche esposte sinteticamente, il valore aggiunto dell'edilizia in paglia si può riassumere nei tre seguenti punti: - resistenza: la paglia è lo stelo dei cereali, caratterizzato da una struttura tubolare cilindrica, le cui pareti sono a loro volta composte da microcilindri, una struttura molto simile ai materiali legnosi. Questa conformazione permette alla pianta di svilupparsi in altezza con un diametro minimo e conferisce una grande resistenza al materiale. Le microcavità contenenti aria ferma, inoltre, conferiscono alla paglia ottime qualità di isolamento termico. La variabile è data dal senso delle fibre: se le balle sono disposte con le fibre perpendicolari al flusso di calore, il valore di trasmittanza è migliore rispetto alle fibre disposte parallele al flusso di calore, ed è pari a 0,153 W/m2K per uno spessore di 36 cm (fonte: Fasba3). Quindi resistenza fisica, resistenza termica, ma anche resistenza al fuoco. Le strutture in paglia, infatti, essendo molto pressate, non contengono quantità di ossigeno sufficienti a far divampare le fiamme in caso di incendio. Numerosi sono i test di laboratorio che dimostrano come un edificio di paglia abbia ottime capacità di resistenza al fuoco, e noto è l'esempio degli edifici in paglia resistiti dopo i recenti incendi di North Bay in California4.
- leggerezza: in un territorio a elevato rischio sismico quale è l'Italia, il passaggio dal comune edificio a telaio in cemento armato con tamponamento in laterizio, a un tipo di costruzione più leggera ed elastica, come gli edifici a telaio in legno con tamponamento leggero, è auspicabile. La paglia compressa ha una densità pari a 90-110 kg/m3, l'edilizia tradizionale lavora con densità pari a 1.500 kg/m3 per il laterizio e 2.100 kg/m3 per il cemento armato. Strutture più leggere significano minore carico a rischio sismico, specialmente nel caso di ristrutturazione del patrimonio edilizio esistente attraverso ampliamenti o sopraelevazioni. L'edilizia in paglia, permetterebbe quindi di unire i vantaggi strutturali dati dall'utilizzo del legno (nell'ultimo decennio è stata registrata una rapida diffusione in Italia degli edifici in legno con sistema XLAM) alle ottime qualità di isolamento termico e riduzione dell'energia incorporata date dalla paglia, quale scarto dell'agricoltura. - abbondanza: la sola coltura cerealicola del Veneto copre una superficie pari a 350.000 ettari (Istat, 2011). Considerando una produttività pari a circa 3 tonnellate di paglia ad ettaro, significa un totale di circa 1.050.000 tonnellate di paglia disponibili annualmente a costo zero, trattandosi di un prodotto di scarto da smaltire. Con questa quantità di paglia, si potrebbero potenzialmente realizzare circa 105.000 abitazioni unifamiliari ad ogni raccolto, ciascuna
del peso di circa 10 tonnellate di paglia (500 balle da 20 kg ciascuna). Sebbene l'edilizia in paglia sia ancora lontana dal raggiungere il grande mercato in Italia, è auspicabile approfondire il potenziale di sviluppo per l'industria delle costruzioni. L'edilizia in paglia, permetterebbe di unire i vantaggi strutturali dati dall'utilizzo del legno (nell'ultimo decennio si è registrata una rapida diffusione in Italia degli edifici in legno lamellare) alle ottime qualità di isolamento termico e riduzione dell'energia incorporata date dalla paglia. In particolare questa tecnologia è coerente con la strategia di sviluppo "Economia circolare" proposta dall'Unione Europea5, che propone di integrare ciclicamente le attività produttive di settori diversi, in questo caso agricoltura ed edilizia, al fine di trasformare i rifiuti di un comparto in risorsa di un altro.* NOTE 1 - Bruce King, "The new carbon architecture. Building to cool the climate", capitolo 5 "Straw and other fibers: a second harvest", ed. News Society Publishers, Canada, 2017. 2 - A livello accademico le sperimentazioni più approfondite in Europa sugli edifici di paglia sono condotte dall'Università di Bath: un modulo abitativo esemplare Balehouse e il sistema prefabbricato modulare Modcell. Si veda: https://goo.gl/L6jd8a 3 - A livello normativo il maggiore riferimento in Europa è FASBA Fach verband Strohballenbau Deutschland, associazione professionale tedesca per la costruzione in balle di paglia che ha guidato la redazione delle linee guida per la costruzione in paglia "Strohbaurichtlinie SBR 2014". 4 - Negli Stati Uniti il riferimento per la progettazione di edifici in paglia è CASBA California Straw Building Association, www.strawbuilding.org. Si cita l'articolo che approfondisce la resistenza al fuoco degli edifici di paglia dopo i recenti incendi, "Fire-resistive straw bale walls survive North Bay fires". 5 - Circular economy package, 2018.
l'edilizia in paglia è ancora lontana dal raggiungere il grande mercato in Italia ma è auspicabile approfondire il suo potenziale di sviluppo 02. Abitazione in paglia in costruzione in provincia di Verona, progetto dell'Arch. Francesco Adami. Francesco Adami
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Tommaso Lucinato Designer, docente a contratto nel corso di laurea magistrale in interaction design, Università degli Studi della Repubblica di San Marino. e-mail: info@tommaso-lucinato.com
a dove si inizia a descrivere qualcosa? Un approccio scientifico vorrebbe subito una chiara definizione del tema. Evitiamo l'ormai abusato incipit preso a prestito da una voce del nostro vocabolario. Ci introdurrebbe in modo troppo diretto, dandoci la sensazione di aver già intuito il seguito e creando quello che i greci indicherebbero come anticlimax. Ecco, i greci: potremo parlare di loro. Del resto ogni nostra parola è stata prima una loro parola. Inizieremo da un militare macedone che li sottomise, dall'allievo prediletto di Aristotele e da un grande conquistatore. Ben inteso potremmo, con altrettanta pertinenza, aprire l'argomento analizzando un'espressione del volto detta "riso sardonico", affine più alla medicina che alla storia antica. Oppure dalla fiaccola del primo tedoforo olimpico. Sembra che un mare ancora più grande di possibili spunti ci restituisca alle sponde elleniche. Ora, seduti sulla spiaggia vediamo levarsi in lontananza della polvere, accompagnata al suono pesante di una marcia. Come promesso, ecco il militare macedone; primo di un esercito sterminato, non è in atto di comando ma legge, a cavallo, uno scritto di Omero. Fa poi gesto di riporlo, lo arrotola e lo inserisce in una ferula svuotata. Tanti di questi
bastoncini cavi custodiscono un prezioso bagaglio, primo sostentamento del più lungo viaggio dell'antichità. Quando era adolescente conservava nelle ferule, leggerissimi quanto resistenti astucci naturali, le lezioni del suo unico maestro di scienza, filosofia e logica: Aristotele di Stagira. Assorto studia il bastoncino, poi leva lo sguardo al suo esercito; riflette: non sarebbe niente senza suo padre e gli insegnamenti del suo precettore. "Questi miseri pezzi di legno fanno forse un servizio migliore di tutta la terribile falange" - si lascia sfuggire, sovrappensiero, verso un soldato che lo sente appena. Distratto, una capsula rotola via, per raggiungere il luogo dove l'astante ha assistito alla scena. Alessandro Magno, incurante del naufrago, riprende l'andatura, fino a sparire. Forse da lui nessun altro regalo sarebbe stato migliore di questo lascito involontario: una ferula e uno stralcio dell'Iliade. Per nostri limiti ci occuperemo solo della prima. Così articolata e interessante, l'etimologia del nome meriterebbe uno scritto a parte: νάρϑηξ (nartèce) è la parola greca che indica canna, bacchetta o sferza. La sferza di ferula era lo strumento usato dagli insegnanti, fino a tempi non lontani, per "colpire senza ferire", un eloquente paradigma dell'educazione. Chi meritava penitenze erano anche i peccatori che dovevano sostare in un luogo di rispetto, chiamato nartece, non potendo accedere allo spazio sacro.
01. Architettura interna al fusto della ferula dove è distinguibile il parenchima a celle chiuse ed i vasi spiralati.
02. Al sistema vasale si aggiungono condotti con punteggiature areolate, in grado di distribuire orizzontalmente i nutrienti.
03. Celle perenchimatiche integre la cui conformazione dipende dal reciproco impacchettamento cellulare.
Ferula communis Uno sguardo mito-tecnico
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04. Sezione trasversale che rende visibile il tessuto perenchimatico disposto attorno a vasi xilematici spiralati.
Un simbolo del castigo, così sembrerebbe. Ma alla ferula è legato il mito del fuoco e a questo l'inizio di ogni tecnologia; una ferula fu il mezzo con cui Prometeo sottrasse la fiamma dalla fucina di Vulcano donandola agli uomini, precipitati in un mondo freddo per loro cagione e volere di Zeus. È quindi anche uno strumento di liberazione e sacrificio al contempo. Sacrificio che riguarda le conseguenze dell'impresa del titano come la simbologia religiosa del Cristo crocefisso. Al pastorale ricurvo, in particolari occasioni liturgiche, il papa sostituisce la ferula, scettro terminante in una o più croci o sormontato da una forma a globo, la quale imita la pigna del tirso, leggero bastone con cui si officia-
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vano i culti misterici legati a Dioniso. Tali arcaici riti di morte e resurrezione del divino trascorrono quasi immutati nelle pratiche della più nota fede monoteista; S. Antonio Abate discende agli inferi sottraendovi il fuoco con la complicità dei suoi porcellini. Questi argomenti, che passano con inimmaginabile attesa per la specie botanica in oggetto, indurrebbero a svuotare di sostanza mistica il cristianesimo assegnandogli invece attributi marcatamente politici. Soppressione e riconfigurazione dei miti, usurpazione dei simboli, limitazione delle libertà individuali. L'ultima asserzione ci tiene ancora lontani, e ce ne scusiamo con il lettore, dagli aspetti tecnologici cari alla rivista.
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alla ferula è legato il mito del fuoco e a questo l'inizio di ogni tecnologia
soppressione e riconfigurazione dei miti, usurpazione dei simboli, limitazione delle libertà individuali
05. Dettaglio delle punteggiature areolate appartenenti a vasi punteggiati.
Con la ferula communis1 bussiamo ora alla porta della medicina: conosciute da una remota antichità sono le sue proprietà cumariniche² ad azione anticoagulante, chiaramente utili in diagnosi di embolie e trombosi quanto iattura per le greggi al pascolo. Inibendo il fattore di addensante ematico della vitamina K (dal termine danese koagulation) provoca emorragie interne spesso mortali nel bestiame che se ne ciba. Il notevole contenuto di fitoestrogeni³ presenti nel vegetale ci guida verso un'altra vicenda; e di nuovo una proprietà naturale implica, come accennavamo, un effetto socio-politico. Appartenuto con buona attendibilità alle Apiaceae il Silfio, antico esemplare di ferula oggi estinto, sarebbe stato il più ricercato anticoncezionale dell'età romana. Pagato in oro o argento "più di quanto pesasse", assunto in grandi dosi diventava un abortivo tanto potente come un rischioso rimedio per i suoi alti valori tossicologici. Nel migliore dei casi il malcapitato soffriva di prolungati spasmi facciali recanti un'espressione sinistra che va sotto il nome di "riso sardonico". Ma è nelle ipotesi legate alla sua scomparsa che si rivelano affascinanti
contenuti etnografici. La prima è una tesi freddamente scientifica: l'eccessivo sfruttamento dovuto al suo valore si accompagna a mutate condizioni climatiche dell'Africa nord sahariana, con la progressiva desertificazione della Cirenaica (odierna Libia) dove tale specie rappresentava la più redditizia risorsa. Confinato a una limitata area costiera il Silfio si sarebbe poi estinta per insufficienza di terreni fertili. Tuttavia durante il regno di Augusto (27-14 a.C.), periodo della sua massima diffusione, stava avviandosi quella trasformazione culturale che in seguito vedrà la nascente Chiesa Cattolica diventare egemone sulle usanze pagane. Il libero arbitrio dei costumi sessuali favorito da questo efficacie contraccettivo⁴, al quale si imputava anche un documentato calo demografico, faceva del cittadino una persona libera di gestire la propria sfera personale e assoggettabile con fatica al potere temporale e religioso, bisognosi di masse sulle quali proiettare la propria volontà di dominio. Famiglia, istituto del matrimonio e prole chiamano doveri sociali e forme di vita regolamentata; ecco quindi affluire i singoli individui
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in un sistema dove, ancor più che prima, un culto impone rituali condivisi, perdendo in tal senso una significativa parte della loro autodeterminazione. Crescenti tributi imposti indirettamente dal clero alessandrino sui coltivatori di questa antica pianta, fecero infine risultarne antieconomica la produzione. Ma perché proprio la Ferula communis come prima fiaccola olimpica? Come fa a ingannare un noto neurotrasmettitore? Come mai é tanto resistente malgrado una sorprendente leggerezza? E per quale motivo una particolare farfalla si posa solo sulle sue foglie? A contrappunto di questo approccio riconducibile all'etnobotanica, sono le immagini, le quali iniziano parallelamente a raccontare aspetti anatomici e tecnici tanto rivelatori quanto quelli mitici, storici e culturali nel senso più esteso. Il microscopio elettronico a scansione (SEM) è stato il primo strumento di un'indagine che vorrà esplorare e proporre collegamenti fra discipline differenti, secondo un modello scientifico di matrice umanistica, definendo i propri obiettivi durante il procedere attorno a questo minimo frammento di natura.*
L'IMMERSIONE
06. Sezione trasversale del parenchima, tessuto che assolve importanti funzioni metaboliche.
NOTE 1 - Ferula (Linneo 1753) è un genere di piante della famiglia delle Apiaceae cui appartengono circa 170 specie erbacee perenni alte fino a 4 m, originarie del bacino del Mediterraneo e dell'Asia centrale. 2 - Cumarina: isolata per la prima volta dalla Dipteryx odorata, il cui nome popolare era per l'appunto coumarin, la cumarina è presente in più di 27 famiglie di vegetali, ed è responsabile dell'odore dolce dell'erba appena tagliata. 3 - Viene classificata come fitoestrogeno qualsiasi molecola non steroidea, prodotta dal mondo vegetale, che si lega al recettore degli estrogeni, imitandone o modulandone l'azione. 4 - Farmacologicamente è considerabile il precursore della moderna pillola anticoncezionale, attesa per circa diciannove secoli al fine di ripristinare la più completa forma di libero arbitrio, soprattutto in materia di scelte sessuali. BIBLIOGRAFIA - AA.VV, "Enciclopedia italiana e dizionario della conversazione", vol.III, Venezia, 1845. - AA.VV., "Nuova enciclopedia popolare ovvero dizionario generale di scienze, lettere, arti, storia, geografia", tomo V, Torino, Giuseppe Pomba editori, 1845. - Atzei A. D., "Le piante nella tradizione popolare della Sardegna", Carlo Delfino editore, 2003.
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- Chambers E., "Dizionario universale delle arti e delle scienze", tomo IV, Gian Battista Pasquali editore, Venezia, 1749. - Declaustre Ab., "Dizionario mitologico ovvero della favola", tomo III, Giuseppe Molinari tipografo, Venezia, 1820. - Garcin Mr., "Dizionario di commercio dei signori Fratelli Savary", tomo II, Gian Battista Pasquali editore, Venezia, 1770. - Gatani T., "La ferula (nartex) tra mito e storia", Seristampa, Palermo, 2010. - Gera F., "Nuovo dizionario universale di agricoltura", Venezia, Giuseppe Antonelli editore, 1840. - Heslop-Harrison J.S., "Morphology, adaptation and speciation", in “Annals of Botany “, n.120, pp. 621-624, 2017. - Hodson M.J., White P.J., Mead A., Broadley M.R., "Phylogenetic variation in the silicon composition of plants", in “Annals of Botany “, n.96, pp. 1027-1046, 2005. - James R., Dizionario universale di medicina, tomo VI, Gian Battista Pasquali editore, Venezia, 1753. - "La medicina pittoresca o museo medico-chirurgico", tomo II, Giuseppe Antonelli, Venezia, 1836. - Lemery N., "Dizionario ovvero trattato universale delle droghe semplici", Giuseppe Bertella editore, Venezia, 1751. - Marchi M.A., "Dizionario tecnico etimologico filologico", tomo II, Giacomo Pirola tipografo, Milano, 1829. - Niklas K., "Responses of hollow, septate stems to vibrations: biomechanical evidence that nodes can act mechanically as spring-like joints", in “Annals of Botany “, n.80, pp. 437-448, 1997.
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- Peters W. S., Tomos A. D., "The History of tissue tension", in “Annals of Botany “, n.77, pp. 657-665, 1996. - Plinii C., "Historiae Mundi", tomo II - libro 37, Giuseppe Antonelli editore, Venezia, 1844. - Schulgasser K., Witztum A., "On the strenght of herbaceous plant stems", in “Annals of Botany “, n.80, pp. 35-44, 1997. IMMAGINI Le immagini inserite in questo articolo vengono da un lavoro di ricerca che l'autore sta svolgendo in collaborazione con l’Università di Roma 3 (zoologia) e sono ottenute mediante un microscopio elettronico a scansione (SEM). Riguardano differenti parti della ferula stessa rappresentando parti interne ed esterne del vegetale. RINGRAZIAMENTI Ringrazio Daniele Murgia per avermi sottoposto questa specie vegetale a me prima sconosciuta.
Cristina Basei e-mail: cristina_basei@yahoo.it
el comune di Spinea sorgeva una fornace di laterizi, attiva dai primi anni del Novecento fino al 1973 e poi lasciata in progressivo abbandono: la ciminiera e gli altri edifici che si intravedono oggi percorrendo la strada comunale per Asseggiano sono ciò che resta del complesso. Dal lato nord, lungo via Asseggiano, c’è un cancello con l’indicazione di divieto di accesso, mentre da sud, al confine con l’area del parco Nuove Gemme, è ben visibile l’intera struttura, che da questo lato non è delimitata da recinzioni (img. 01). Inquadramento storico L’area è il risultato di molteplici trasformazioni: da un primo forno, usato occasionalmente a fine Ottocento, si è passati a uno a ciclo continuo costruito a inizio Novecento, poi ingrandito tra gli anni Trenta e Cinquanta. L’industria dei laterizi in Veneto si sviluppa proprio a partire dagli ultimi decenni del XIX secolo e coincide con la diffusione del modello di forno Hoffmann, a fuoco continuo e a pianta ellittica: esso consente il passaggio da una lavorazione artigianale, con manodopera scarsamente specializzata e stagionale, a un modello di produzione industriale. Lo sviluppo della fornace di Spinea è dovuto ai Cavasin, una delle fami-
glie attive nella produzione di laterizi nella zona occidentale della provincia di Venezia. Alcuni altri esempi sono: la Fornace Perale di Malcontenta, sulla riva sinistra del Naviglio del Brenta, di cui sopravvive la ciminiera in muratura; la Fornace Merli di Martellago, lungo via Castellana, il cui camino raggiunge i 40 m ed è uno dei più alti della zona; la Fornace Rossi di Noale, ristrutturata negli anni Novanta e di cui restano due tunnel dell’impianto originario. Gli impianti sono localizzati a ridosso dei principali poli di urbanizzazione del territorio, fulcri di utilizzo dei materiali, seguendo prin-
cipalmente due criteri: la reperibilità della materia prima e la vicinanza alle vie di comunicazione, prima fluviali, poi ferroviarie e stradali. Spinea è attraversata dalla Strada Provinciale Miranese e si sviluppa tra due corsi d’acqua, il Marzenego e il Brenta, collegati fra loro da una fitta rete di canali. In questa zona ci sono terreni ricchi di argilla di buona qualità, sfruttati già in epoca romana; in particolare la fornace sorge su un’area posta a una certa distanza dal centro abitato e nelle vicinanze del Rio Cimetto, che forniva l’approvvigionamento idrico necessario alla lavorazione dei laterizi.
01. Insieme delle strutture della fornace, vista da sud. Cristina Basei
La fornace Cavasin di Spinea
Un sito di archeologia industriale in provincia di Venezia
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L'IMMERSIONE
il complesso della fornace Cavasin, dopo 45 anni di abbandono, è oggi in stato di forte degrado
Sviluppo del complesso produttivo Le prime attestazioni di un’attività produttiva risalgono al 1900, quando Luigi Cavasin prende in affitto un terreno per la conduzione dell’azienda agricola e dell’impianto di cottura dei laterizi: da almeno tre anni era infatti presente una fornace a fuoco intermittente, sostituita tra 1910 e 1915 da un forno a fuoco continuo di tipo Hoffmann, che ingloba la struttura preesistente. Nel 1921 Angelo Cavasin acquista il lotto formato dall’impianto della fornace e dall’azienda agricola, le cui attività rimangono strettamente intrecciate; da questo momento la fornace consolida e amplia la sua
02. Corridoio lato ovest, visto dalla parete nord. Cristina Basei
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attività, seguendo l’impulso dello sviluppo edilizio residenziale eccezionale di quegli anni, conseguente alla nascita ed espansione di Porto Marghera. L’impianto rimane attivo per circa 75 anni, con un assetto da azienda familiare, continuando a funzionare in maniera stagionale fino agli anni Cinquanta e impiegando al massimo 70 operai, i quali alternavano il lavoro in fabbrica a quello dei campi. Dal 1936, anno in cui l’azienda viene trasformata in società per azioni, inizia una riorganizzazione produttiva con lavori di ristrutturazione dell’impianto, soprattutto per razionalizzare la fase di essiccazione: la fornace viene sopraelevata e si costruiscono impalcature in legno, costituite da tavolati coperti da graticci, su cui venivano posti i pezzi da essiccare da maggio a settembre, sfruttando l’aria calda proveniente dal forno oltre all’irraggiamento solare. Riutilizzando le vecchie fondazioni, viene probabilmente ricostruito sia l’involucro esterno sia il muro del forno, utilizzando per la prima volta il calcestruzzo armato e ampliando le porte per consentire il passaggio dei nuovi carrelli per il trasporto del materiale; si aggiunge un annesso a sudovest e due fabbricati di servizio paralleli alla fornace. La produzione viene diversificata e si introducono innovazioni nei processi di lavorazione, soprattutto per la fase dello stampaggio dei materiali, prima eseguita totalmente a mano, ora con l’ausilio di macchinari che impiegano l’energia elettrica, diffusa nella zona a fine anni Trenta. Nel secondo dopoguerra il forno viene ulteriormente ampliato e la copertura viene sopraelevata per aumentare la superficie di essiccazione, dal momento che ora la fornace lavora anche nel periodo invernale; si costruisce inoltre una rampa a nord, per trasportare con carriole il materiale essiccato. Negli anni successivi tuttavia l’impianto risente della mancanza di un radicale rinnovamento tecnologico e della sempre maggiore difficoltà di reperimento e trasporto delle materie prime, provenienti da cave sempre più lontane lungo una strada ormai inadeguata. Per questi motivi, nonostante la crescente domanda dovuta all’espansione urbana, la fornace chiude definitivamente l’attività nel 1973.
03. Planimetria dello stato attuale della formace da Riva G., “La Fornace Cavasin di Spinea tra memoria e progetto”, Edizioni Helvetia, Venezia, 2003.
Situazione attuale delle strutture Quello che vediamo oggi è quindi ciò che resta dell’ultima fase produttiva (img. 03). Si riconoscono distintamente: il complesso della fornace, lungo in totale 83,5 m e composto da due corpi con lo stesso andamento sud-ovest/nordest (1); varie tettoie per l’essiccazione del materiale crudo, oggi in parte crollate (3, 4, 5, 10, 11); a est, nello spazio tra il primo e il secondo corpo centrale, una costruzione adibita a officina e magazzini (2) (img. 05); a nord-est, affacciato sulla strada, un edificio a due piani utilizzato come abitazione del titolare negli anni Quaranta e poi come refettorio (6); verso nord-ovest altri tre corpi, oggi abitazioni private o in stato di abbandono, adibiti ad alloggi, uffici, stalle (7, 8, 9). Il complesso forno-essiccatoio, lungo 55,60 m e largo 22,6 m, è a tre piani e contiene il forno vero e proprio, con volta a botte, a pianta ellittica allungata, con una muratura rastremata a scarpa all’esterno, scandita da 20 aperture a intervalli regolari. Tra il forno e la "scatola" esterna, su tre piani, si sviluppa il percorso per la movimentazione dei materiali (img. 06). Le coperture in capriate lignee con i travetti superiori, l’impalcato sopra il forno, la rampa lignea in corrispondenza della testata nord sono tutte strutture oggi in parte crollate ma ancora leggibili. Il secondo corpo a sud viene costruito successivamente, con funzione di lavorazione dei mattoni crudi. Sul lato sud del complesso forno-essiccatoio è posta
la ciminiera, in asse con la direzione longitudinale del forno e in corrispondenza con la testata dello stesso; fu costruita contestualmente al forno Hoffmann e non se ne conosce l’altezza originaria: fu alzata a fine anni Trenta fino a raggiungere probabilmente i 40 m e poi abbassata a fine attività per ragioni di sicurezza. Come gli altri camini presenti sul territorio, è rimasto pressoché integro grazie alla tecnica costruttiva, che prevedeva una muratura portante in mattoni pieni e anelli metallici di cerchiaggio esterno per consolidarne la struttura. Abbandono e ipotesi di riqualificazione Tutto l’insieme, dopo 45 anni di abbandono, appare oggi in stato di forte degrado: parti delle strutture sono pericolanti, i pavimenti dei piani rialzati quasi interamente crollati, gli ambienti per gran parte invasi da macerie e le facciate nord e ovest coperte da vegetazione; alcuni ambienti sono utilizzati come discarica (in particolare nel 2011), nonostante sembri che ad oggi la situazione sia molto più sotto controllo rispetto a 7-8 anni fa. L’accesso alle strutture è sbarrato da via Asseggiano, ma totalmente privo di impedimenti dal campo a sud-est, motivo per cui le strutture sono state frequentate e occupate nel tempo. Nel 2012, a seguito di ripetute segnalazioni dei cittadini delle abitazioni limitrofe, l’area è stata oggetto di uno sgombero da parte dei carabinieri, che trova-
04. Dettaglio dei bagni. Cristina Basei
05. Annesso lato est. Cristina Basei
06. Corridoio interno, lato est. Cristina Basei
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un progetto di rifunzionalizzazione della fornace dovrebbe in primo luogo preservarne la memoria storica
rono l’edificio occupato abusivamente in maniera stabile da nove persone, in una situazione di degrado tale da predisporre una disinfestazione; nel corso dello sgombero furono trovate una decina di bombole a gas e un generatore autonomo per l’energia elettrica oltre a vari materiali probabilmente oggetto di furti e taccheggi nelle vicinanze. Tre anni dopo, nell’aprile 2015, l’ex fornace è invece luogo di ritrovo di ragazzi che, come testimoniano i residenti, “si introducono nell’area, imbrattano i muri di scritte, si arrampicano in zone pericolanti”; in un’occasione fu necessario l’intervento dei vigili del fuoco per un incendio doloso di sterpaglie all’interno della struttura. Il Comune segnala come l’area sia proprietà privata e non ci sia quindi la possibilità di intervenire direttamente: nel 2015 risulta proprietà di un imprenditore di Campodarsego (Pd). Si è parlato negli anni di possibili soluzioni per la riqualificazione della fornace e dei suoi annessi: la rifunzionalizzazione dovrebbe coniugare un uso economicamente competitivo dell’area con la necessità di preservarne la memoria storica e documentaria, dal momento che i manufatti costituiscono documentazione significativa della civiltà industriale nella provincia di Venezia. Una delle prime proposte è stata quella di un uso di tipo alberghiero: era infatti ipotizzato il sorgere di una struttura ricettiva su un’area di 7.500 m2, compreso il recupero della fornace; in seguito,
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07. Dettaglio di finestra, avancorpo lato sud. Cristina Basei
nel 2009, è stato proposto un recupero del luogo al fine di portarvi il nuovo polo scolastico di Spinea; nel 2011 si è poi parlato della possibilità di un allargamento del Parco Nuove Gemme verso nord, inglobando i terreni attorno alla fornace, dove sarebbero potuti sorgere appartamenti e negozi, anche in relazione con il nuovo asse tramviario e stradale a est del sito. Infine, un progetto del 2014 parla di un intervento di riqualificazione dell’edificio storico della fornace e della demolizione e ricostruzione delle superfici accessorie con destinazione ricettiva e
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commerciale. Nonostante la fornace sia individuata dal comune di Spinea come manufatto di archeologia industriale, indicando come destinazioni d’uso ammesse residenza, terziario diffuso, uffici e studi professionali, ad oggi tutti i progetti risultano abbandonati. L’area versa in uno stato di crescente degrado, pericoloso sia per la sicurezza del luogo e delle zone residenziali limitrofe, sia perché in questo modo si rischia progressivamente di perdere la memoria storica e la stratificazione delle fasi costruttive e di utilizzo che caratterizzano il sito.*
Andrea Zambon Progettare con il legno Margherita Ferrari Dottoranda in Nuove tecnologie, informazione territorio e ambiente presso l'Università Iuav di Venezia. mail: margheritaf@iuav.it
Il legno è un materiale storicamente utilizzato in edilizia, il cui impiego è strettamente correlato al contesto in cui viene utilizzato. In Italia, nonostante le tecnologie edilizie restino principalmente legate al mondo del laterizio e del cemento, le strutture in legno si stanno diffondendo sul territorio, soprattutto per la realizzazione di coperture, ampliamenti e sopraelevazioni, grazie anche al grado di innovazione raggiunto in questo ambito. Progettare con la natura può assumere molteplici significati e risultare complessa, non tanto per la difficoltà in sé della progettazione, quanto piuttosto per la sua vastità e varietà. In questo numero intervistiamo l’Arch. Andrea Zambon di Treviso, la cui professione è dedicata soprattutto al legno e al suo impiego in edilizia. Nonostante la specificità della materia, Andrea parla di un’attenzione e di una cura da rivolgere a ciascun materiale: nel caso della natura si devono considerare molteplici fattori, che l’uomo deve conoscere e quindi anche rispettare. Si tratta di una competenza che cresce nel tempo, tramandata dal babbo ex falegname e portata avanti con gli studi in architettura. Andrea, laureato all’Università Iuav di Venezia, ha lavorato per anni in un’azienda del settore ligneo per l’edilizia. Nel 2010 sceglie di avviare una propria attività professionale, dedicata in modo particolare alle costruzioni in legno. Nella tua attività professionale, c’è stato un progetto per te particolarmente significativo? Nella mia professione mi occupo sia di nuove costruzioni che di restauro, e svolgo anche attività di consulenza soprattutto per quanto riguarda il settore ligneo. Una delle esperienze che mi è restata più impressa e che forse meglio rappresenta anche il ruolo della natura in architettura, è stata il restauro della Porta di San Tomaso di Treviso, a nord della città. Mi sono occupato del ripristino della copertura in legno della porta, una cupola sulla cui sommità è posta una statua. Lo stato di degrado era avanzato e questo ha reso complesso il riconoscimento della specie di legno impiegata: infine il monaco centrale su cui poggiava la statua era completamente cavo, e non per propria costruzione, ma per la presenza di una ampia colonia di formiche. Mi chiedo ancora come potesse restare in piedi in bilico a trenta metri d’altezza: la natura, con le sue formiche, ha avuto il suo regolare percorso. Il legno è un materiale naturale ed è soggetto a questo tipo di attacchi, in alcuni casi molto pericolosi e che non vanno per nulla sottovalutati, perché possono compromettere le proprietà meccaniche del materiale. A tal proposito ricordo un libro molto interessante Il legno così
01. Andrea Zambon
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com’è di Angelo Funes Nova (Il quadrato, 2002): l’autore riporta anche numerose descrizioni degli insetti del legno, con l’obiettivo di imparare a riconoscere la loro presenza. Gli insetti, insieme ai funghi, rappresentano le cause del degrado del legno: il loro riconoscimento è quindi parte integrante per poter imparare a lavorare con questo materiale naturale. Cosa vuol dire progettare e lavorare con un materiale naturale? Lavorare con un materiale, naturale o artificiale che sia, implica conoscere la sua natura. Tuttavia progettare con un materiale naturale richiede conoscenze più dettagliate, legate a differenti aspetti intrinsechi della materia stessa. I materiali naturali rispondono al contesto in cui si sviluppano: se pensiamo ad esempio al legno, in base alla disposizione degli anelli del tronco, è possibile riconoscere se ha trascorso una vita ricca di precipitazioni (anelli spessi) o lunghi periodi di siccità (anelli stretti). Questa caratteristica, insieme alle proprietà intrinseche del legno, si ripercuote sulla durabilità del materiale, sulla sua omogeneità e altri fattori che incidono sulle proprietà della materia. Lavorare con un materiale naturale significa anche considerare le condizioni ambientali in cui si opera e sulla base di queste organizzare l’attività. Il legno lunare ad esempio è un legno ottenuto dal taglio del tronco in uno specifico momento lunare, indipendentemente dalla specie di legno che si sta utilizzando. Oggi alcuni ricercatori stanno confermando queste affermazioni, frutto soprattutto di una tradizione culturale, secondo la quale un tronco tagliato in luna calante è "sgonfio" d’acqua e privo di zuccheri: questo aspetto incide sul successivo impiego del materiale, poiché dopo l’essicazione presenta maggiori livelli di stabilità e sarà meno soggetto ad attacchi biologici. Lavorare con un materiale naturale significa quindi non solo conoscere la sua natura, ma anche le condizioni in cui si sta operando, poiché queste influiscono direttamente sulla materia.
il legno lunare ad esempio è un legno ottenuto dal taglio del tronco in uno specifico momento lunare, indipendentemente dalla specie di legno che si sta utilizzando
Sfatiamo un mito: essenza di legno o specie di legno? Specie di legno, assolutamente. Si tratta di piante e queste vengono classificate per specie e varietà, l’essenza è un profumo. La natura genera piante differenti, capaci di adattarsi alle condizioni esterne e quindi alla propria altitudine e anche ai cambiamenti climatici. Ne risultano quindi diverse specie di legno al mondo: sulla base di cosa scelgo una specie di legno? Inizialmente le scelte dei legni erano legate per lo più alla disponibilità materiale, oggi grazie alla globalizzazione dei trasporti questo limite si è ridotto, rendendolo quindi più accessibile. Le due grandi famiglie sono le specie appartenenti alle latifoglie e alle conifere, e proprio quest’ultima è la più utilizzata nelle nostre zone. Ciascuna specie di albero si caratterizza ad esempio per la propria densità, che incide sul comportamento meccanico, oppure sulla presenza di sostanze oleose, che contribuiscono a mantenere la materia intatta, lontana da funghi o insetti. Il teak ad esempio è una specie legnosa utilizzata soprattutto per le imbarcazioni e anche per i pavimenti, perché resiste molto bene negli ambienti umidi: a differenza invece dell’abete 02. Porta San Tomaso di Treviso, dettaglio della copertura lignea. Andrea Zambon
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03. Render di un progetto per una villa unifamiliare. Andrea Zambon
maggiormente impiegato per elementi strutturali. Tuttavia anche in questo caso è molto importante non dimenticare la provenienza del legno perché le condizioni climatiche incidono direttamente sulla natura di questa materia e quindi sulle varietà di legno. Pensiamo ad esempio alle varietà di larice o rovere disponibili nel mercato che presentano aspetti anche visivi nettamente diversi. In Italia stiamo assistendo a un ritorno del legno nelle costruzioni: dalle coperture a falde a interi edifici realizzati con strutture in legno. A cosa è dovuta questa scelta? Partiamo dal presupposto che la costruzione in legno è considerata sostenibile a priori: questo è il primo motivo che ha favorito il mercato di questa tecnologia, proprio perché cresce l’interesse e l’attenzione verso questo aspetto, legato non solo ai consumi ma anche alla qualità del materiale scelto. Chi si occupa di progettazione e costruzione in legno presta molta attenzione alla provenienza del materiale, alla sua natura e al tipo di prodotto selezionato. Oggi, ad esempio, sul mercato sono disponibili un gran numero di prodotti che derivano dall’assemblaggio di diverse parti di legno: ne risultano così elementi multistrato, modellabili e adattabili alle differenti esigenze di progetto. I prodotti più conosciuti di questa categoria sono il legno lamellare, utilizzato molto per le grandi coperture di palazzetti sportivi ad esempio o strutture fieristiche, e i panelli cross-lam, impiegati invece per abitazioni o strutture ricettive. Questi prodotti vengono realizzati in alcuni casi con colle che contribuiscono alla formazione di formaldeide nell’aria, una sostanza cancerogena per l’uomo. Quindi ricercare la sostenibilità nel legno significa anche selezionare materiali, derivati e non, privi di queste sostanze. A questo purtroppo si associa a volte anche una mancanza di conoscenza della tecnologia del legno e del suo corretto impiego: premesso che ogni materiale per essere utilizzato deve essere conosciuto, nel caso del legno questa conoscenza è ancora più vasta e deve tenere in considerazione
è molto importante non dimenticare la provenienza del legno perché le condizioni climatiche incidono direttamente sulla natura di questa materia 96
AL MICROFONO
numerosi fattori. L’Italia purtroppo non sta investendo in alcune figure della filiera di questo materiale, che va dalla gestione dei boschi alle attività di formazione dedicate al corretto impiego del legno, intaccando inevitabilmente anche la conoscenza tramandata su questo materiale. Quindi conoscere per intervenire: quanto incide la formazione nella filiera delle costruzioni in legno? La formazione incide moltissimo e si tratta soprattutto di una formazione continua nel caso di un architetto: ci confrontiamo quotidianamente, o quasi, con altri professionisti, esperti del proprio settore. Nel caso del legno con ingegneri, carpentieri o segantini, da cui imparare nozioni utili a conoscere sempre al meglio il materiale con cui si sta lavorando. Mi rendo conto tuttavia che è un sapere che sta gradualmente scomparendo, da un lato perché gli insegnamenti dedicano poco spazio alle tecnologie del legno, dall’altro perché le figure professionali si stanno riducendo. Questa carenza deriva da una generale mancanza di investimento in questo settore, nella ricerca e nella formazione, nonostante il legno sia un materiale presente nel nostro territorio. Accanto alla formazione in aula è altrettanto importante l’esperienza stessa: ho avuto la fortuna di avere un padre falegname e maestri bellunesi esperti della materia che mi hanno trasmesso nozioni che non sono presenti nei libri ma sono proprie di una tradizione. Accanto a loro, anche l’incontro e la collaborazione con persone appassionate che mi hanno insegnato molto del legno, e che mi hanno insegnato soprattutto ad osservare attentamente e correttamente la natura.*
04. Villa a Treviso con struttura in legno in corso di costruzione. Andrea Zambon
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Il legno così com'è Angelo Funes Nova Il Quadrato, 2002
Libri freschi di stagione
a cura di
detto in giro. Bisognerebbe farlo sapere. Si dovrebbe mandare qualcuno, farlo tornare di corsa di là, non si sa bene dove. Satolla. Ampolla. Gargolla. Tira e molla. Bagno di folla. Zolla. Grolla. Midolla. Stacca una foglia verde dal ramo all’altezza della sua testa. Ne stacca un’altra. Unisce i bordi. Le cuce insieme con un accurato, cos’è, punto filza? punto a smerlo? Ma tu guarda. Sa cucire. Da vivo non ne era capace. La morte. Piena di sorprese. Prende uno strato di foglie. Si siede, unisce i bordi e cuce. Eh sì, se la ricorda ancora quella cartolina che aveva trovato negli anni Ottanta in un negozio nel centro di Parigi. Quella con la foto di una bambina in uno dei parchi della città. Sembrava vestita di foglie morte, un’immagine in
bianco e nero risalente a poco dopo la fine della guerra, la bambina era di spalle, vestita di foglie, ferma a guardare le foglie sparse a terra nel parco e gli alberi davanti a lei. Un’immagine tragica, di un mondo in rovina, ma al tempo stesso bella, che faceva pensare che un altro mondo fosse possibile. L’accostamento fra la bambina e le foglie morte comunicava qualcosa, una terribile anomalia, la bambina sembrava vestita di stracci. Ma a guardare meglio, quelli non erano stracci. Erano foglie, e quindi la foto parlava anche di magia e trasformazione. Ma a guardare ancora meglio, sembrava anche una foto scattata non molto tempo dopo, in un’epoca in cui una bambina che giocava in mezzo alle foglie poteva assomigliare, agli occhi di chi la guardava distrattamente per la prima volta, a una bambina presa in una retata e mandata a morire (un pensiero doloroso) o magari anche una post-bambina nucleare, con le foglie attaccate al corpo come pelle morta, come stracci che pendono da un lato, come se la pelle non fosse altro che foglie.* Dalle pagine di Autunno, di Ali Smith
Salvare le ossa Jesmyn Ward NN Editore, 2018 design 46xy
Zucchero nero Miguel Bonnefoy 66thand2nd, 2018 design Silvana Amato
Autunno Ali Smith Sur, 2018 design Riccardo Falcinelli
ella decenza. Aveva dimenticato che nel desiderio di non urtare la sensibilità altrui c’è anche un elemento fisico. Questo senso di decenza che lo invade adesso è piacevole, fa pensare, inaspettatamente, al sapore che deve avere il nettare. Il becco del colibrì che penetra nella corolla. Intenso. Dolce. Cosa fa rima con corolla? Si fabbricherà un abito verde, di foglie, e... non appena formula questo pensiero, ecco che gli compaiono in mano un ago e un piccolo rocchetto con una specie di filo dorato. È morto, non c’è dubbio. Non può essere altrimenti. Si direbbe che non è male, dopotutto, essere morti. Una cosa molto sottovalutata nel mondo occidentale contemporaneo. Andrebbe sullo scaffale
La caduta del cielo Parole di uno sciamano yanomami Davi Kopenawa e Bruce Albert Nottetempo, 2018 design Dario Zannier
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Semi “I know that you'll feel better when you send us, in your letter and tell us the name of your favorite vegetables” The Beach Boys, Vegetables, Smiley Smile, 1967 (arr. 2011) Immagine di Emilio Antoniol
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