OFFICINA* 25

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ISSN 2532-1218

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n. 25, aprile-maggio-giugno 2019 Imitazione


Altra realtĂ Other reality Alice Le Divenah Il codice Quick Response richiama una realtĂ altra, in una diversa dimensione, quella digitale interpretata dai colori terziari.


Stefania Mangini

Plagi Nel settembre 2018 il Parlamento Europeo ha approvato la Proposta di Direttiva Europea sul diritto d’autore nel mercato unico digitale (COM/2016/0593) volta “[...] ad armonizzare ulteriormente il quadro giuridico dell’Unione applicabile al diritto d’autore e ai diritti connessi nell’ambito del mercato interno, tenendo conto in particolare degli utilizzi digitali e transfrontalieri dei contenuti protetti (art. 1)”. L’iter di approvazione e attuazione, non ancora concluso, ha suscitato ampie polemiche legate soprattutto al timore di perdere il diritto di condividere link o di citare altre opere sul web o nei propri scritti. Sebbene tali timori non siano del tutto infondati, la normativa pone un’interessante questione legata all’uso e sfruttamento di contenuti di proprietà altrui, rivendicando il diritto di proprietà (anche intellettuale) all’autore originale. In un’epoca in cui, grazie alla rete, tutto può essere condiviso, distribuito e messo in vendita, il plagio, che nel diritto romano (plagius) era inteso come la riduzione di un uomo libero in stato di schiavitù, oggi è un fatto di “quotidiana amministrazione”. Il pubblicare o dare per propria l’opera di altri, o parte di essa senza citarne la fonte, è un’azione che coinvolge oggi tutti i settori, dall’arte al cinema, dalla letteratura fino alla ricerca scientifica. Ma è probabilmente la musica a offrire i più noti ed eclatanti esempi di plagio che ci costringono a riflettere sul significato di autentico, in un ambito dove tutto si gioca sulla combinazione di sole dodici note. Lo dimostra il caso di Stairway To Heaven dei Led Zeppelin, la cui apertura si rifà in modo molto eloquente alla canzone Taurus degli Spirit, pubblicata pochi anni prima; o ancora il caso di Bitter Sweet Symphony dei The Verve. Nel 1997 Ashcroft e soci pubblicano quello che è il loro singolo di massimo successo, campionando la nota versione per orchestra di The last Time dei Rolling Stones, inclusa nell’album del 1966 The Rolling Stones Songbook dalla Andrew Oldham Orchestra. Benchè avessero avuto il consenso all’uso del riff d’archi, il successo della canzone porta il manager dei Rolling Stones a citarli in giudizio per violazione dei termini contrattuali costringendo i The Verve ad attribuire la canzone a Jagger e Richards, perdendo così gran parte degli introiti derivati dalle vendite: l’autenticità è profitto! Emilio Antoniol


Direttore editoriale Emilio Antoniol Direttore artistico Margherita Ferrari Comitato scientifico Federica Angelucci, Stefanos Antoniadis, Sebastiano Baggio, Matteo Basso, MariaAntonia Barucco, Viola Bertini, Paolo Borin, Laura Calcagnini, Piero Campalani, Fabio Cian, Federico Dallo, Doriana Dal Palù, Francesco Ferrari, Jacopo Galli, Michele Gaspari, Silvia Gasparotto, Giovanni Graziani, Francesca Guidolin, Elena Longhin, Michele Marchi, Patrizio Martinelli, Cristiana Mattioli, Corinna Nicosia, Damiana Paternò, Laura Pujia, Fabio Ratto Trabucco, Chiara Scarpitti, Giulia Setti, Luca Velo, Alberto Verde, Barbara Villa, Paola Zanotto Redazione Valentina Manfè (esplorare), Arianna Mion (al microfono), Libreria Marco Polo (cellulosa) Copy editor Emilio Antoniol, Margherita Ferrari Impaginazione Paola Careno, Margherita Ferrari, Sofia Portinari Grafica Stefania Mangini Photo editor Letizia Goretti Testi inglesi Silvia Micali Web Emilio Antoniol Progetto grafico Margherita Ferrari

OFFICINA* “Officina mi piace molto, consideratemi pure dei vostri” Italo Calvino, lettera a Francesco Leonetti, 1953

Trimestrale di architettura, tecnologia e ambiente N.25 apr-giu 2019

Imitazione

Proprietario Associazione Culturale OFFICINA* e-mail info@officina-artec.com Editore anteferma edizioni S.r.l. Sede legale via Asolo 12, Conegliano, Treviso e-mail edizioni@anteferma.it Stampa Press Up, Roma Tiratura 200 copie Chiuso in redazione il 15 maggio 2019 con gustosi asparagi bianchi Copyright opera distribuita con Licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale Condividi allo stesso modo 4.0 Internazionale L’editore si solleva da ogni responsabilità in merito a violazioni da parte degli autori dei diritti di proprietà intelletuale relativi a testi e immagini pubblicati.

Direttore responsabile Emilio Antoniol Registrazione Tribunale di Treviso n. 245 del 16 marzo 2017 Pubblicazione a stampa ISSN 2532-1218 Pubblicazione online ISSN 2384-9029 Accessibilità dei contenuti online www.officina-artec.com Prezzo di copertina 10,00 € Prezzo abbonamento 2019 32,00 € | 4 numeri Per informazioni e curiosità www.anteferma.it edizioni@anteferma.it

OFFICINA* è un progetto editoriale che racconta la ricerca. Gli articoli di ricercatori, selezionati e valutati dal comitato scientifico, si affiancano a esperienze professionali, per costruire un dialogo sui temi dell’architettura, tra il territorio e l’università. Ogni numero racconta un tema, ogni numero è una ricerca. Hanno collaborato a OFFICINA* 25: Damiano Acciarino, Moreno Baccichet, Giulia Benvegnù, Chiara Boccingher, Elisa Boschi, Marco Bozzola, Rosa Buson, Irene Caputo, Sara Codarin, FABLAB Venezia, Edoardo Fregonese, Antonino Frenda, Gian Andrea Giacobone, Letizia Goretti, Francesca Giudetti, Francesca Guidolin, Alice Le Divenah, Monica Manicone, Alberta Menegaldo, Fabio Merotto, Anna Paccagnella, Maria Federica Tartarelli, Luisa Vittadello.


Imitazione Imitation n•25•apr•giu•2019

Altra realtà Other reality Alice Le Divenah

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Introduzione Introduction Emilio Antoniol

Città Copy and Paste Cities Copy and Paste Maria Federica Tartarelli

Copie di Stato Copies of State

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Il vero (e il falso) nelle pratiche di progettazione The true (and the false) in design practices Edoardo Fregonese

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La cultura dell’imitazione The culture of the imitation Elisa Boschi

Moreno Baccichet

EDITORIALE

Plagi

Emilio Antoniol ESPLORARE a cura di Valentina Manfè PORTFOLIO

Scale

a cura di Margherita Ferrari IN PRODUZIONE

Copie su misura Alberta Menegaldo I CORTI

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L’ARCHITETTO

Rovine sospese tra storia e imitazione Chiara Boccingher, Francesca Giudetti

L’uso del disegno d’architettura nella pratica del restauro Antonino Frenda

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Irene Caputo, Marco Bozzola

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L’immagine dell’architettura oggi Monica Manicone

Interfacce oltre lo schermo Sara Codarin, Gian Andrea Giacobone

Il design al servizio dell’autenticità Design at the service of authenticity La maschera dell’artista The artist’s mask Letizia Goretti INFONDO

Il valore del falso a cura di Stefania Mangini

L’IMMERSIONE

Minima philologica Damiano Acciarino

Virtuale è reale? Is virtual real? Giulia Benvegnù, Rosa Buson, Luisa Vittadello

System Design Thinking 4.0 Irene Fiesoli

Dal CLIL alla didattica per competenze From CLIL to teaching for skills Francesca Guidolin

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CELLULOSA

Imitazione a cura dei Librai della Marcopolo (S)COMPOSIZIONE

Copie

Emilio Antoniol


Arshile Gorky 1904-1948 9 maggio - 22 settembre 2019 Ca’ Pesaro, Venezia capesaro.visitmuve.it

Europeo di nascita e americano di adozione Arshile Gorky è stato un protagonista indiscusso della pittura americana del secolo scorso e sono state scritte sul suo lavoro importanti pagine di storia dell’arte. Inizialmente attratto dalla pittura di Cézanne e Picasso, il suo lavoro si colloca a metà strada tra l’inconscio del Surrealismo e la consapevolezza dell’Espressionismo Astratto, punto di cerniera tra due mondi. Le sue linee e i suoi segni sono il risultato di una complessità di riferimenti ai quali si è rivolto per assecondare questioni legate alla sua difficile esistenza. Negli anni Venti Gorky era già negli Stati Uniti per sfuggire alle oppressioni che stavano consumando l’Europa e aveva portato con sè l’esperienza della pittura surrealista di Miró e la necessità di rappresentare la propria condizione psicologica, i propri tormenti e le tragedie che lo avevano coinvolto e sconvolto. Negli anni successivi vi sono stati ovunque profondi mutamenti nel campo delle arti e le linee organiche del Surrealismo hanno lasciato il posto al caos e alla rappresentazione dei drammi della Seconda Guerra Mondiale appena conclusa. Va evidenziato che la capitale dell’arte si stava spostando da Parigi a New York e si può quindi affermare che Gorky abbia costruito un ponte immaginario tra Europa e Stati Uniti e su questo ponte sono poi transitate generazioni di artisti che hanno camminato sulle sue orme. Nel frattempo New York si stava popolando di intellettuali e artisti europei, tra i quali esponenti dell’Astrattismo e del Surrealismo, ed è proprio Arshile Gorky a impadronirsi della pittura fluida e liquida di Kandinsky e della necessità di svelare il proprio inconscio che diventerà a breve un tema collettivo legato alla condizione esistenziale dell’uomo. Questa esposizione a Ca’ Pesaro presenta importanti ritratti, nature morte e disegni che mostrano i suoi riferimenti alla pittura moderna e la sua spinta creativa nei confronti dei pittori che lo hanno preceduto, e alcune opere degli anni Quaranta, apice della sua carriera, in cui la sua pittura si fa autonoma per godere della libertà che andava cercando. Inoltre sono esposte

alcune tra le ultime importanti opere che rammentano come ormai la sua pittura lacrimevole, fatta di drammi e toni cupi, fosse letteralmente agli sgoccioli, come la sua vita. Fabio Merotto

I Ciardi. Paesaggi e giardini 16 febbraio - 23 giugno 2019 Conegliano, TV www.mostraciardi.it

Guglielmo Ciardi (1842-1917) insieme ai figli Emma e Beppe hanno guardato la grande pittura francese di fine Ottocento nel loro lavoro di imitazione e rappresentazione del paesaggio e della campagna veneta. Oltre a essere stati influenzati dall’Impressionismo en plein air hanno portato avanti la tradizione della pittura paesaggista veneta sconfinando ben presto nella modernità del primo ‘900 fino a diventare protagonisti del rinnovamento della pittura di paesaggio con la loro tecnica pittorica fatta di luce e materia. Il papà Guglielmo ha studiato e insegnato all’Accademia di Belle Arti di Venezia e spesso, anche per assecondare le volontà dei suoi maestri, si spostava nella campagna per dipingere “dal vero” paesaggi lacustri e campestri, strapiombi e vedute alpine. Grande debitore della pittura accademica si è ben presto allontanato da essa fino a essere considerato, dalla critica, uno tra i più influenti e importanti pittori di paesaggio. Grande viaggiatore, spesso si isolava tra la sue montagne per dipingere. Nel suo percorso di ricerca ha incontrato grandi pittori tra cui Telemaco Signorini e Giovanni Fattori, e ha frequentato la cerchia dei divisionisti e dei macchiaioli da cui ha appreso la pennellata, i tagli prospettici nelle sue vedute e la magia della luce incombente che investe i suoi personaggi. É stato tra i fondatori della Biennale di Venezia nel 1895 e vi ha partecipato più volte riscontrando successo internazionale entrando così in contatto con la pittura nordica e simbolista di cui ne sono conferma i temi trattati, talvolta cupi e spenti. Beppe Ciardi si rivela subito un artista di talento e la sua pittura è assimilabile a quella del padre che inizialmente non lo voleva pittore, ma poi ne sarà l’erede indiscusso, per certi aspetti superandolo. Il colore sulla tela comincia ad assumere autonomia rispetto agli elementi formali e le sue pennellate, stilisticamente avanti di decenni rispetto

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alla consuetudine, cominciano a brillare di luce propria, come le stelle. Le sua pittura è diventata poesia e la stesura del colore si è fatta più ampia e grumosa per catturare la luce che proviene dal cielo. È proprio nella rappresentazione del cielo che viene esaltata la sua ricerca espressiva; morbidi toni di azzurro, soffici nuvole virgolettate, sfumature arancioni per annunciare gli attimi del crepuscolo, e le ombre che rimbalzano sui muri delle architetture veneziane. Anche Emma Ciardi ha subito avvertito la necessità e l’istinto di dipingere con brevi tratti veloci per cogliere l’effetto istantaneo della luce condividendo un atteggiamento tipicamente impressionista e spesso abbozzava la scena da rappresentare per completarla successivamente in studio. In mostra sono presenti, tra le altre, alcune opere che mostrano quanto Emma Ciardi fosse attratta dalla grande pittura del Settecento veneziano, oltreché anche dai grandi giardini storici, vistose regge ed importanti ville; luoghi visitati e vissuti durante i suoi numerosi viaggi su e giù per l’Europa. Oltre alla coerenza dei temi rappresentati è necessario osservare come, nel passaggio generazionale tra Guglielmo Ciardi e i figli Emma e Beppe, la tecnica si sia rinnovata e liberata dalla tradizione; colpa o merito della modernità dilagante fatta di grandi invenzioni e tecnologie, e della luce che ha contribuito alla dissoluzione della pennellata nello spessore e nella consistenza, nella forma e nella sostanza. Fabio Merotto

Cava Arcari Zovencedo, VI www.davidechipperfield.it

All’interno del corso di Progettazione Tecnologica, docente Valeria Tatano, presso l’Università Iuav di Venezia, è stata organizzata la visita all’azienda vicentina Morseletto, storica impresa nota nella lavorazione delle pietre e dei marmi. Oltre ai laboratori, è stato possibile accedere alla cava Arcari presso Zovencedo (VI). In questo suggestivo scenario il progetto dell’architetto David Chipperfield accentua il contrasto tra l’uomo e la natura, da un lato servendosi di diverse lavorazioni della pietra, che si ritrova liscia nella piastra del pavimento e grezza nel soffitto, dall’altro mettendo in risalto lo scarto dimensionale degli imponenti pilastri rispetto alla figura umana. Anna Paccagnella

ESPLORARE


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Anna Paccagnella


Il 15 aprile 2019, alle 19:45, i media di tutto il mondo trasmettono in diretta il crollo della guglia, la flèche, della Cattedrale di Notre-Dame a Parigi a causa dell’incendio che, poche ore prima, era divampato nel sottotetto del monumento, Patrimonio UNESCO dal 1991. Costruita a partire dal XII secolo e sopravvissuta a due Guerre Mondiali, la cattedrale simbolo della città di Parigi era in fase di restauro per le problematiche relative proprio alla conservazione della copertura. L’incendio, scoppiato all’interno del cantiere di restauro, ha causato la perdita integrale del tetto Trecentesco e il crollo parziale della volta della navata centrale provocando così danni anche all’interno dell’edificio. Ma sicuramente è l’immagine della guglia che crolla tra le fiamme ad aver destato il vivo sgomento di migliaia di spettatori inermi. Da subito sulla stampa e sul web si sono susseguite le manifestazioni di rammarico per l’impareggiabile perdita, le raccolte fondi, ma soprattutto le opinioni in merito alle modalità di ricostruzione che vedono i sostenitori del “dov’era e com’era” contrapporsi a chi, come il Primo ministro francese Édouard Philippe, propone invece un concorso di progettazione internazionale per la ricostruzione della guglia crollata. Ancor prima di aver domato l’incendio la possibilità di collocare in cima alla cattedrale una “copia” della guglia ha infatti scatenato il dibattito tra architetti, politici e cittadini che si sono sentiti privati di uno dei simboli della città. Eppure la storia della guglia è ben più complessa di quel che si crede. La flèche bruciata il 15 aprile fu infatti costruita solo nel 1860 dal falegname Bellu, su disegno dell’architetto Eugène Viollet-le-Duc. La guglia sostituiva una torre precedente, costruita nel 1250 e demolita alla fine del ’700. Rispetto alla guglia “originale”, quella disegnata da Viollet-le-Duc presentava numerose differenze: le forme gotiche si ispiravano alle guglie della cattedrale di Orléans e non alla torre originale che aveva invece la funzione di campanile, con tre campane eliminate nel progetto ottocentesco. Al loro posto, in sommità fu posta la statua in rame di un gallo e sui quattro lati le statue dei dodici apostoli e dei quattro evangelisti, sempre in rame. Di queste, la statua raffigurante San Tommaso aveva le sembianze dell’architetto Viollet-le-Duc ed era rivolta di spalle alla città, guardando verso la guglia per ammirare la sua opera realizzata. La guglia distrutta si presenta quindi come l’imitazione di artefatti precedenti ed è frutto delle suggestioni e delle idee di una mente eclettica come quella di Viollet-le-Duc. Destino vuole che solo pochi giorni prima dell’incendio, all’avvio del restauro, le statue degli apostoli fossero state rimosse e si siano per questo motivo salvate. Chissà se Viollet-le-Duc tornerà ad ammirare la nuova guglia che andrà a sostituire quella bruciata o se il suo posto sarà preso da qualcun altro! In questo numero OFFICINA* indaga il concetto di imitazione, nelle sue differenti valenze, negative e positive, poiché non sempre la copia è peggiore dell’originale da cui è derivata e quasi mai un’ orginale è privo di un riferimento da cui trae ispirazione. Emilio Antoniol


On April the 15th 2019, at 7:45 pm, media from all over the world broadcast live the collapse of the spire, the flèche, of the Notre-Dame Cathedral in Paris due to the fire that, a few hours before, flared up in the roof of the monument that is UNESCO World Heritage Site since 1991. Built in the 12th century and survived at two World Wars, the symbol of the city of Paris was undergoing restoration works due to problems related to the conservation of the roof. The fire broke out inside the restoration site, causing the complete collapse of the fourteenth-century roof and the partial collapse of the vault of the central nave, thus causing damage even inside the building. But, surely, it is the image of the spire that collapsed in the flames that is still alive in thousands of unarmed spectators. Immediately the manifestations of regret for the great loss and the fundraising for the reconstruction appeared on the media. But above all, different opinions regarding the reconstruction modalities, that see the supporters of “where it was and how it was” idea as opposed to who, like the French minister Édouard Philippe, propose an international design competition for the reconstruction of the collapsed spire, have been proposed. Even before the fire was extinguished, the possibility of placing a “copy” of the spire on top of the cathedral triggered the debate between architects, politicians and citizens who felt deprived of one of the symbols of the city. However the history of the spire is more complex than you might think. The steeple burnt on April the 15th was in fact built only in 1860 by the carpenter Bellu, and designed by the architect Eugène Viollet-le-Duc. The spire replaced a previous tower, built in 1250 and demolished at the end of the 18th century. Compared to the “original” spire, the one designed by Viollet-le-Duc presented numerous differences: the Gothic forms were inspired by the spire of the Orléans Cathedral and doesn’t have the function of bell tower as the original one. For that reason the three original bells was eliminated in the nineteenth-century project, and in their place was placed a copper statue of a rooster, while on the four sides of the spire where placed the copper statues of the twelve apostles and of the four evangelists. Between them, the statue of St. Thomas had the appearance of the architect Viollet-le-Duc turned back to the city, looking towards the spire to admire his work. The destroyed spire is therefore an imitation of previous artifacts and is the result of the suggestions and ideas of an eclectic mind like the Viollet-le-Duc’s one. The fate wanted that only a few days before the fire, at the start of the restoration process, the statues of the apostles have been removed and have therefore been saved. No one can know if Viollet-le-Duc will return to admire the new spire, which will replace the burned one, or if its place will be taken by someone else! In this issue OFFICINA* investigates the concept of imitation, in its different values, both negative and positive, since a copy is not always worse than the original and, almost never, an original has not a reference from which it takes inspiration. Emilio Antoniol

San Tommaso, Viollet-Le-Duc, guglia di Notre-Dame. CC0


Maria Federica Tartarelli Laureata in Architettura presso l’Università Iuav di Venezia. Compie ricerche nel campo della teoria dell’architettura. mftartarelli@gmail.com

Città Copy and Paste

01. Tianducheng con la riproduzione della Torre Eiffel. Bosker B., “Original Copies: architectural mimicry in contemporary China”

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IMITAZIONE


Un viaggio parallelo tra copie d’oriente e d’occidente l mondo occidentale e quello orientale hanno un approccio molto diverso ai temi dell’iconicità e della replica. Tali approcci sono frutto di posizioni culturali differenti che configurano pertanto un giudizio diverso in merito al tema dell’imitazione. In occidente l’atto del copiare è demonizzato in virtù di un’identificazione tra autenticità, realtà e originalità che si sviluppa col Romanticismo, periodo in cui l’autorialità assume un’importanza fondamentale, e si amplifica durante l’età industriale con l’emergere del valore di mercato dell’originale a discapito delle repliche prodotte in serie1. In questo clima si sviluppa la stigmatizzazione, tipicamente occidentale, della copia. In Oriente, invece, la distinzione tra imitazione e autentico è pressoché irrilevante. In una civiltà che non si pone la questione dell’origine, avendo una concezione ciclica del tempo, la questione dell’originalità passa in secondo piano. La copia e l’autentico quindi si sovrappongono e interconnettono rendendo indistinguibili l’impatto, lo spirito, il significato dell’autentico e della sua riproduzione2.

Cities Copy and Paste Europe has plenty of cities reproduced all across the world. Its replicas are widespread both in the United States and in China. This two places are characterized by two very different cultures, therefore the copies that they produce are made for different reasons and with different techniques and intents. The results of this two different approaches are the american “hyperreal” cities and the chinese Simulacrascapes. This two typologies of replicas carry the meaning of the architectonic and urban copies, and the differences of meaning between this copies and their originals.* L’Europa è ricca di città riprodotte in giro per il mondo. Le sue repliche sono diffuse sia in America che in Cina: due luoghi caratterizzati da culture molto differenti che, pertanto, producono copie con ragioni, tecniche e intenti diversi. Il frutto di questi due posizionamenti culturali sono le copie “iperreali” americane e le Simulacrascape cinesi. Queste due tipologie di repliche si fanno portatrici del senso delle repliche architettoniche e urbane e degli oscillamenti di significato che avvengono tra le copie e i loro originali.*

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I due approcci La stigmatizzazione della copia non è propria di tutto l’occidente. Negli Stati Uniti, infatti, la replica riscuote un discreto successo dovuto alla concezione americana della storia. L’America, essendo orfana del processo di storicizzazione della propria cultura, “esorcizza la questione dell’origine. […] Non avendo conosciuto l’accumulazione lenta e secolare del principio di realtà, vive nella simulazione perpetua, nella perenne attualità dei segni” (Baudrillard, 2000). L’imitazione in America è perciò accettata purché riporti in vita una realtà altra in maniera completa ed esatta rendendo vana la distinzione tra replica e originale. In questa condizione di “iperrealtà”3 l’imitazione raggiunge il suo apice rendendo per sempre inferiore la realtà. A questo fenomeno si aggiunge la spiccata tendenza americana alla museificazione che permette di conservare tutto e rendere nobile ogni pezzo da museo, comprese le riproduzioni4.

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02. Madonna Inn. www.madonnainn.com

03. Villa Getty, Los Angeles. www.getty.edu

In questo contesto “l’iperrealtà” diviene una condizione culturale tipicamente americana che porta a percepire l’irreale come fosse reale. Dal punto di vista architettonico e urbano, il pensiero americano si traduce in imitazioni più vicine possibile all’originale che mettono in stretta continuità fra loro autentico e replica conducendo alla creazione di pastiche architettonici e urbani in cui, talvolta, il falso e la realtà si susseguono indistintamente. Ne sono l’esempio città come Los Angeles e Las Vegas. In Oriente e soprattutto in Cina, invece, il tema della copia è affrontato con maggior disinvoltura essendo quest’ultima apprezzata in quanto dimostrazione di successo culturale e tecnologico. La cultura dell’imitazione si situa nel patrimonio storico cinese fondendosi col fenomeno con-

temporaneo che vede la nascita di una “Nuova Cina” e di un nuovo ordine sociale. Queste condizioni hanno dato forma a interi brani di città copiate che costituiscono delle

in Cina il tema della copia è affrontato con maggior disinvoltura essendo quest’ultima apprezzata quale dimostrazione di successo culturale e tecnologico comunità tematiche in cui la gente trascorre interamente la propria esistenza. Tali comunità danno l’opportunità ai residenti di immergersi in uno stile di vita estraneo facendo propri valori e rituali tipici di altre culture. Il risultato di questo processo è la costruzione di una nuova identità cinese che diviene un ibrido tra la cultura cinese e quella importata dalla città riprodotta. Inoltre gli abitanti di queste città rivolgono il loro interesse a specifiche forme

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04. The Venetian Resort, Las Vegas. www.venetian.com

culturali americane ed europee ignorandone altre e percepiscono l’occidente diversamente rispetto agli occidentali stessi. Questo conduce inevitabilmente alla produzione di copie che possano rispondere ai desideri degli abitanti delle città-replica e portare in vita, in Cina, le atmosfere di luoghi occidentali lontani.

tema: da quello preistorico all’hawaiano, dalla stanza per l’old fashioned honeymoon a quella che ricorda Cime Tempestose. Il susseguirsi delle stanze dell’hotel fonde in un unico edificio la storia, gli stili e i racconti fantastici di miti, film e leggende: il falso e l’autentico si legano senza soluzione di continuità a ricordare che “la distinzione logica tra Mondo Reale e Mondi Possibili è stata definitivamente incrinata” (Eco, 1977). Spostandosi verso Los Angeles, a Pacific Palisades vicino le porte della città, si può incontrare il Getty Museum che ospita al suo interno la ricostruzione di Villa dei Papiri di Ercolano. Paul Getty, imprenditore e collezionista d’arte, fa ricostruire interamente la villa superando di gran lunga l’originale dal momento che la Villa dei Papiri nostrana risulta incompleta e in parte interrata. Gli archeologi che hanno partecipato alla costruzione della villa americana hanno cercato di progettarla come avrebbe dovuto essere in principio ispirandosi a disegni e modelli di altre ville romane. Paul Getty col suo museo, che accoglie indistintamente opere au-

Città “iperreali” e Simulacrascapes Per comprendere le ragioni e le tecniche delle copie americane si può guardare ad alcuni esempi sparsi nelle due città più importanti per il fake d’oltreoceano: Los Angeles e Las Vegas. L’hotel Madonna Inn, a San Luis Obispo, vicino a Los Angeles, è un buon esempio per comprendere una delle principali caratteristiche delle repliche americane. La struttura alberghiera, costruita dall’imprenditore Alex Madonna nel 1958, offre ai propri clienti duecento stanze a tema. Nell’aspetto esteriore potrebbe sembrare collocata nelle Alpi Svizzere, mentre al suo interno ospita stanze progettate a

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05. Venice Water Town, Hangzou. Bosker B., “Original Copies: architectural mimicry in contemporary China”

tentiche e repliche, decide di regalare agli americani un po’ d’atmosfera dei suoi viaggi europei e, come un patrizio che assicurava la sopravvivenza di una civiltà attraverso la ricostruzione di una villa greca in patria, “conserva” il patrimonio del vecchio continente in casa propria. Da Los Angeles a Las Vegas il passo è breve. Quest’ultima ci mostra la simulazione perpetua dell’America offrendo un prontuario di tecniche per copiare l’architettura. Prendiamo come caso studio il Venetian Resort Hotel con le sue riproduzioni del campanile di San Marco e del Ponte di Rialto in scala 1:2. L’hotel non solo riproduce i luoghi più iconici della città, ma è abitato anche da comparse in abito da carabinieri, gondolieri e piccioni addestrati per svolazzare ai rintocchi del campanile. Una diramazione della Strip scorre sotto il Ponte di Rialto. Le repliche americane quindi corrispondo a una serie di città “iperreali” che imitano in maniera più fedele possibile quelle autentiche. Basti pensare che le pietre utilizzate nel Venetian Resort sono state invecchiate per conferire l’impressione di un’architettura più vissuta e stratificata dal tempo. Gli americani transitano per queste imitazioni con la speranza di vivere un’esperienza di breve immersione in un luogo appartenente a una cultura lontana nel tempo o nella storia. Il caso cinese, invece, è differente. In Cina le imitazioni delle città occidentali posseggono dei veri e propri abitanti. L’esperienza della replica non è passeggera, ma è frutto del desiderio di vivere esattamente come farebbe un abitante di Parigi, o di Amsterdam, o di Venezia. Il fenomeno è tanto diffuso in Cina che a queste città è stato dato un un nome: Simulacrascapes. A Chengdu, ad esempio, ci vivono 200.000 abitanti che hanno deciso di trascorrere le loro vite in una città gemella a quella di Dorchester. Thianducheng, invece, riproduce Parigi con tanto di Tour Eiffel in scala 1:2 che svetta tra gli Champs-Élisée. Il desiderio di vivere in una città che riproduce quelle occidentali è tanto alto che nel 2001 la città di Shangai ha attuato un nuovo piano regolato-

re, il One City – Nine Town, per nove città satellite costruite ognuna per replicare le città d’occidente. L’identità delle Simulacrascapes è stabilita dai progettisti selezionando delle icone della città autentica e riproducendole in maniera letterale. A queste ancore concettuali

la copia si fa portatrice dello spirito dell’originale si affiancano dei dispositivi architettonici che consentono di costruire dei luoghi rassomiglianti in maniera più generica alla città presa come riferimento. Tali dispostivi possono essere edifici-tipo, colori caratteristici, finestrature, materiali costruttivi, elementi formali, ecc. Le icone stabiliscono l’identità, il resto degli elementi costituiscono l’habitat. Venice Water Town, ad Hangzou, ad esempio, accosta alla ricostruzione di Piazza San Marco, degli edifici dipinti in calde tonalità d’arancio, rosso e bianco, con finestre balaustrate e archi ogivali, che riproducono un remix di gotico, veneto-bizantino e motivi orientali. Le Simulacrascapes, in ogni caso, non intendono soltanto riprodurre fisicamente le città alle quali si ispirano, ma vorrebbero riportare anche l’aspetto esperienziale delle città che replicano. L’idea è quella di immergere completamente gli abitanti in una città dal sapore culturalmente lontano. Pertanto le Simulacrascapes sono caratterizzate da tre elementi principali: le forme degli edifici che seguono un preciso stile architettonico che riproduce quello della città d’ispirazione; il masterplan; i significanti non materiali che creano una precisa atmosfera. Nella progettazione di queste città l’interpretazione va di pari passo con la riproduzione e, adattando le forme occidentali ai sapori locali, queste città diventano un ibrido tra elementi cinesi e stranieri. Gli imprenditori promotori dei progetti, infatti, sono stati molto attenti alla possibilità che queste città potessero incorpo-

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in questo contesto l’iperrealtà diviene una condizione culturale tipicamente americana che porta a percepire l’irreale come fosse reale

06. Venice Water Town, Hangzou. Bosker B., “Original Copies: architectural mimicry in contemporary China”

rare caratteristiche di vita fondamentali alle quali i residenti cinesi non vogliono rinunciare. Pertanto può capitare che le copie architettoniche cinesi non tentino neanche di essere esattamente identiche all’originale, a differenza di quello che accade in America. Queste presentano difatti una resa poco corretta della scala degli edifici (spesso la scala è meno intima rispetto a quella delle città europee) e dei loro posizionamenti. Infine le repliche cinesi danno l’idea di essere troppo nuove, non possedendo la stratificazione tipica dello scorrere dei secoli, e troppo vecchie perché spesso i progettisti scelgono di ispirarsi a un’immagine dell’originale che fissa un periodo storico ben preciso. Oscillazioni tra imitazione e autentico In America e in Cina, quindi, si assiste a due modi di imitare le cui differenze emergono a fronte dell’appartenenza a due sistemi culturali diversi fra loro. I due atteggiamenti nei confronti della copia, inoltre, danno luogo ad esempi di riproduzioni che mostrano delle differenze. In questo contesto, però, si può notare che i due casi sono accomunati dalle azioni degli utenti. Sia l’utente che trascorre una breve esperienza di vita in una copia “iperreale” americana, sia quello cinese che decide di vivere in una Simulacrascapes, sono accomunati del desiderio di esperire una vita altra che appartiene a quella degli abitanti di una città distante dal punto di vista spaziale, temporale e culturale. A questo proposito la copia si fa portatrice dello spirito dell’originale. La copia spesso, infatti, ha a che fare con ciò che la sua versione autentica rappresenta e, perciò, da essa non si deve pretendere che sia originale o autentica, ma che abbia la forza di rispondere all’iconicità dell’originale e di riportare il valore che quest’ultimo può avere. Perciò viene da pensare che sia “l’iperrealtà” americana che le Simulacrascapes riescano a ricordare lo spirito, l’atmosfera e l’iconicità dei loro corrispettivi autentici e a “reggere” il valore dell’originale stesso, tanto da divenire oggetti di desiderio quanto le città europee alle quali si ispirano.*

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NOTE 1 - Cfr. Benjamin W., “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica”, Einaudi, Torino, 1991. 2 - Cfr. Fong W., “The problem of forgeries in Chinese Painting. Part One”, in “Artibus Asiae”, 1962, n. 25, pp. 95-119, 121-140. 3 - Cfr. Baudrillard J., “Simulacri e impostura. Bestie, Beauborg, apparenze e altri oggetti”, Cappelli Editore, Bologna, 1980. 4 - Cfr. Baudrillard J., “America”, Se, Milano, 2000. BIBLIOGRAFIA - Augè M., “Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità”, Eleuthera, Milano, 2009. - Baudrillard J., “America”, Se, Milano, 2000. - Baudrillard J., “Simulacri e impostura. Bestie, Beauborg, apparenze e altri oggetti”, Cappelli Editore, Bologna, 1980. - Benjamin W., “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica”, Einaudi, Torino, 1991. - Bosker B., “Original Copies. Architectural mimicry in contemporary China”, Hong Kong University Press, Hong Kong, 2013. - Eco U., “Dalla periferia dell’impero”, Bompiani, Milano, 1977. - Eco U., “I limiti dell’interpretazione”, Bompiani, Milano, 1990. - Fong W., “The problem of forgeries in Chinese Painting. Part One”, in “Artibus Asiae”, 1962, n. 25, pp. 95-119, 121-140. - Koolhaas R., “Singapore Songlines. Ritratto di una metropoli Potëmkin... o trent’anni di tabula rasa”, Quodlibet, Macerata, 2010. - Moltedo G., “Welcome to Venice, cento volte imitata, copiata, sognata”, Consorzio Venezia Nuova, Venezia, 2007. - Venturi R., Scott Brown D., Izenour S., “Learning from Las Vegas”, MIT Press, Cambridge, 1972.

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Moreno Baccichet Architetto e dottore di ricerca, docente a contratto presso le Università Iuav di Venezia, Udine e Ferrara. mbaccichet@iuav.it

Copie di Stato

01. La moschea Osman-paša di Trebjnje dopo la ricostruzione del 2005 non priva di difformità rispetto all’originale distrutto. Moreno Baccichet

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Il valore identitario delle copie architettoniche nella ricostruzione della Bosnia Erzegovina Copies of State After the 1992-95 war, Bosnia-Herzegovina passed a law on cultural heritage recognising as such even completely razed buildings, whose evidence was often provided only by pictures taken before their demolition. The social rearrangement of those territories “simplified” by the military action, passed through the new spatial representation of the multiple cultural identities and the federal law, promoted the building of copies, not always accurate, of the original ones. These reproductions are considered national monuments for their power to recollect lost architectures.* Dopo la guerra del 1992-95 la legge sui beni culturali della Bosnia Erzegovina ha riconosciuto come patrimonio anche gli edifici totalmente distrutti e spesso documentati solo da ricognizioni fotografiche precedenti alla demolizione. La ricomposizione sociale dei territori “semplificati” dall’azione militare passava attraverso la nuova rappresentazione spaziale delle identità culturali e la legge della federazione ha quindi promosso la costruzione di copie, non sempre esatte, delle architetture originali. Queste copie sono considerate monumento nazionale per il valore che hanno nel ricordare architetture ormai perdute.*

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a guerra in Bosnia Erzegovina tra il 1992 e il 1995 ha provocato una progressiva e programmata distruzione di beni architettonici che erano sottoposti a una interpretazione etnica. La casistica è molto ampia e va dalla distruzione di semplici edifici, per lo più di culto, all’urbicidio1. Non va sottovalutato il fatto che gli accordi di Dayton per la pace del 1995 erano dotati di un allegato, il numero 8, che affrontava i temi della ricostruzione partendo da quel patrimonio di beni culturali e architettonici che era stato oggetto degli sforzi distruttivi degli opposti eserciti. L’allegato 8 promuoveva una speciale azione di recupero/restauro del patrimonio architettonico perché intravedeva in questo dei valori simbolici che avrebbero permesso il ritorno sul territorio delle componenti etniche che avevano perso la battaglia militare. Chiese e moschee, ma anche edifici civili, dovevano essere restaurati prima ancora delle case d’abitazione poiché erano elementi di identità riconoscibili rispetto ai quali si erano operate delle vere pulizie etniche. In alcuni casi però gli edifici non c’erano più perché rasi al suolo e per alcuni anni ci si pose il problema di come operare nei confronti di opere architettoniche completamente demolite con mine e ruspe e inviate in qualche discarica. L’allegato 8 istituì la Komisija za očuvanje nacionalnih spomenika - Commissione per la conservazione dei monumenti nazionali (Halilović, 2014) che avrebbe avuto il compito di tutelare il patrimonio artistico e architettonico di una nazione martoriata, ma solo alla fine del 2001 si pervenne alla definizione delle attività della stessa per la salvaguardia del patrimonio. A questo organismo e alla legge quadro sui beni culturali della Bosnia, fa riferimento l’azione di designazione dei beni mobili e immobili da vincolare ai fini della tutela statale. Uno degli elementi di specialità di questa prima fase di ricognizione e vincolo fu che la commissione predispose di dichiarare monumento nazionale anche molte architetture che ormai non esistevano più2.

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02. Stolac. La Džamija Hadži Alije Hadžisalihovića fondata nel 1736 e ricostruita nel 2010. Moreno Baccichet

03. La chiesa cattolica di Podmilacje è stata una delle prime architetture ricostruite come copie dell’originale distrutto. Moreno Baccichet

Architetture svanite Tra gli impegni della commissione c’era anche quello di monitorare quei beni che proprio nelle fasi della ricostruzione potevano subire dei danni irreparabili per la modifica del contesto ambientale nel quale si erano trovati fino a quel momento, o per il sovrapporsi agli edifici distrutti di nuove funzioni. La commissione era tenuta a presentare all’UNESCO e a tenere aggiornato un elenco con i cento siti che rischiavano di scomparire nel primo dopoguerra. La Repubblica di Bosnia ed Erzegovina, e quindi la federazione di Bosnia ed Erzegovina e la Republika Srpska, dovevano avere la stessa politica sul patrimonio bosniaco e la commissione doveva essere garante di questo atteggiamento imparziale e non ideologico3. L’articolo 6 dell’allegato 8 ricordava quali beni erano oggetto di attenzione da parte della commissione: “beni mobili o immobili di grande importanza per un gruppo di persone con patrimonio culturale, storico, religioso o etnico

comune, come monumenti di architettura, arte o storia; siti archeologici; gruppi di edifici; cimiteri”. Nel fissare i criteri che permettevano ai beni di essere riconosciuti come patrimonio del nuovo stato c’era anche il “significato per l’identità di un gruppo di persone”. Il 21 gennaio del 2002 la federazione promulgò una legge per rendere attuative le scelte della commissione4. All’articolo 2 si precisava che l’obiettivo “di questa legge è quello di ripristinare i beni danneggiati o distrutti nella condizione in cui si trovavano prima della loro distruzione e ricostruire il monumento nazionale nello stesso posto, nella stessa forma, nella stessa dimensione e con gli stessi materiali, o simili, come era prima della sua distruzione e, per quanto possibile, utilizzando la stessa tecnologia costruttiva”. Dopo un lustro di dibattito, e sotto la pressione dell’opinione pubblica si provvedeva a proteggere come bene culturale delle copie il più possibile simili ai monumenti distrutti durante la guerra. Modelli tridimensionali degli originali dispersi assumevano

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04. Milići. Deposito di materiali lapidei non collocati in opera durante la ricostruzione e lapidi tombali non ancora ricomposte nel cimitero interno all’harem. Moreno Baccichet

tutti i valori di protezione che avrebbero tutelato gli originali. Il regolamento di attuazione della legge stabiliva che la “riabilitazione” di un bene architettonico o culturale “significa il ritorno di una proprietà danneggiata o distrutta allo stato in cui era prima del suo danneggiamento o distruzione, in misura ragionevolmente possibile, compresa la costruzione di un monumento nazionale nello stesso luogo, nella stessa forma, delle stesse dimensioni e dello stesso materiale di prima della demolizione, utilizzando le stesse tecniche di costruzione, ogniqualvolta sia ragionevolmente possibile”5. Il comma III stabiliva che anche a seguito di una completa ricostruzione “i monumenti nazionali godono automaticamente del massimo grado di protezione nella legge”. Questo vuol dire che la grande moschea di Banja Luka completamente ricostruita, nonostante l’opposizione della maggior parte degli abitanti della città, è a tutti gli effetti un “monumento”. Tra i primi edifici ricostruiti in Bosnia va annoverata la chiesa di San Ivo a Podmilacje (img. 03) che era un luogo di culto multietnico. Il tentativo di imitare la chiesa preesistente senza disporre di rilievi critici ha fatto sì che il progetto interpretasse alla meglio le foto d’archivio, mentre per i dettagli di architravi e modanature si dovette fare ricorso a un’azione di interpretazione “in stile”. Ne è risultato un edificio più slanciato del preesistente, costruito quasi esclusivamente con materiale non originale e dotato di finiture parietali e di pavimento del tutto moderne. Sorte non diversa è accaduta con la ricostruzione delle moschee di Stolac a partire dal 2004. Oggi, lungo il corso della Bregava, i luoghi sacri musulmani sono stati ricostruiti con relativa precisione ricomponendo un ambiente fisico che nasconde le fratture sociali ancora presenti nella comunità locale. Qui, dove durante la guerra le forze militari croato cattoliche “pulirono” il territorio al-

lontanando circa diecimila islamici, la ricostruzione anche approssimativa dei luoghi di culto sembra poter garantire la volontà di promuovere il ritorno dei profughi. Il progetto di restauro del paesaggio musulmano di Stolac (case, moschee ed edifici specialistici) è iniziato nel 2001 con la ricostruzione della moschea più antica, quella del mercato. Sorto ai piedi della città medievale e fortificato, il quartiere aperto dei turchi interpretava le modalità di costruzione dello spazio urbano ottomano. La prima moschea fu posta al centro del mercato circondata da un grande harem e dai servizi del Vakuf, la fondazione benefica che gestiva in età ottomana i luoghi religiosi. La distruzione del complesso aveva comportato anche la cancellazione delle altre costruzioni di sevizio, il minareto, il cimitero, la cisterna per l’acqua, il mekteb (scuola coranica), la musafirhane (ostello per viaggiatori), il locale per le abluzioni. Lo spazio adibito a grande e informale parcheggio, lentamente fu tutto ricostruito e la moschea riedificata riproponendo le forme di uno dei più antichi luoghi di culto islamici in Bosnia (1519), e persi-

ne è risultato un edificio più slanciato del preesistente, costruito quasi esclusivamente con materiale non originale e dotato di finiture parietali e di pavimento del tutto moderne

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no le delicate decorazioni parietali furono ridisegnate sulla parete del “divano”. La Careve džamije (moschea del sultano) (img. 05) e tutti i suoi accessori oggi è una copia quasi esatta dell’originale, ma la sua funzione non è estetica. Nel 2004 quando ebbi modo di intervistare alcuni musulmani rientrati in città, l’esistenza di quell’architettura era per loro confortante per riabitare una città che ancora oggi è divisa.

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05. Stolac. La Careva džamija è stata una delle prime architetture ad essere ricostruita con una certa fedeltà architettonica. Moreno Baccichet

06. Stolac. La Podgradska džamija lungo il Bregava costruita nel 1812 e riedificata nel 2010 con il materiale recuperato nella discarica. Moreno Baccichet

Alle scuole croato-cattoliche si contrappongono quelle islamico-bosniache, entrambe dotate di testi scolastici che raccontano diverse storie della stessa nazione. Le copie architettoniche a Stolac servono per dare nuovamente visibilità a una componente religiosa nonostante i conflitti tra le due parti siano solo apparentemente superati. La dichiarazione del vincolo nel gennaio 2003 fu decretata approvando il progetto di ricostruzione centrato sull’indagine condotta da Amra Hadžimuhamedović6, attuale responsabile della commissione, per il suo dottorato di ricerca. Senza dubbio il caso di Stolac è esemplare nella pratica della costruzione delle copie, e poco distante dalla moschea centrale poco a poco si sono rimaterializzate le copie di altre moschee scomparse. La moschea Podgraska (img. 06) era stata demolita perché posta su uno dei ponti del Bregava in un luogo estremamente visibile. La sua specialità tipologica per essere sopraelevata su un sistema di negozi anticipati da un

portico non l’aveva salvata. Il documento di vincolo (2003) prevedeva anche qui il tentativo di una ricostruzione il più possibile fedele recuperando il materiale dalle discariche e ricostruendo l’edificio “nella sua forma originale, nella stessa dimensione, con lo stesso materiale e identico approccio tecnologico, per quanto possibile”. L’intenzione era quella di ricostruire la moschea per anastilosi, ma senza aver operato allo smontaggio scientifico dell’architettura. La moschea, del 1812, nel 2010 è stata ricostruita e ora fa nuovamente parte del paesaggio urbano. In modo non diverso è stata ricostruita anche la distrutta moschea Hadži Alije Hadžisalihovića (img. 02) fondata nel 1736. Gli interventi di ricostruzione della Šarića džamija di Stolac vanno invece identificati in una diversa categoria perché a seguito delle esplosioni e dell’incendio non si era provveduto a trasferire i materiali in discarica, un poco com’è accaduto per le belle case ottomane che si affacciavano sul Bregava (Hadžimuhamedović, 2015).

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IMITAZIONE


l’architettura mantiene un valore semantico nel paesaggio pur essendo una copia dell’originale

07. La ricostruzione della cattedrale ortodossa a Mostar con tecniche tutt’altro che tradizionali. Moreno Baccichet

Il progressivo restauro anche di queste serve a testimoniare l’importanza del rientro della componente islamica a Stolac, ma è anche l’occasione per dimostrare una certa appartenenza. Non a caso i luoghi religiosi in Bosnia hanno infittito la loro trama nel dopoguerra con un gran numero di nuove costruzioni che si rifanno a un lessico architettonico tutt’altro che locale e che hanno il compito di marcare il territorio in termini etnoreligiosi. Moschee con minareti di tipo arabo, chiese cattoliche con campanili svettanti e chiese ortodosse di tipo pseudobizantino segnano un paesaggio in cui il conflitto sepolto emerge attraverso il contrapposto linguaggio dell’architettura. Sempre in ambito urbano è un esempio di modalità di ricostruzione infedele quella della cattedrale ortodossa di Mostar (img. 07), posta in una zona rilevata e visibile della città e riedificata con l’uso di strutture portanti in calcestruzzo rivestite con la pietra recuperata dalle macerie che coprivano l’area. Nelle borgate più piccole la ricostruzione in facsimile dello storico edificio religioso sembra abbia dato esiti migliori nel conforto ai profughi in rientro, mentre nelle situazioni urbane ormai culturalmente semplificate, come a Trebinje o a Nevesine, le copie architettoniche rimangono semideserte perché la politica dei rientri non ha avuto successo. Conclusioni La Komisija za očuvanje nacionalnih spomenika della Bosnia si trova oggi a vigilare anche su manufatti architettonici che ormai hanno pochissimo dell’originale, ma che in loro conservano alcuni messaggi che superano i temi del restauro per affrontare quello del senso dei luoghi e della ricomposizione paesaggistica. Oggi le comunità presenti sul territorio si affermano con un processo di costruzione di luoghi sacri, impensabile in età jugoslava, approntando un catalogo di architetture incoerenti con la tradizione bosniaca7. Le architetture riedificate a volte senza rispettare le tecniche costruttive tradizionali hanno invece il compito di ricostruire una coerenza pae-

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saggistica attraverso la materializzazione di diverse presenze sociali. L’architettura mantiene un valore semantico nel paesaggio pur essendo una copia dell’originale.* NOTE 1 – Questo termine fu ridefinito da Bogdan Bogdanovic nel 1993 e si riferisce alla programmata distruzione rituale di città considerate impure. 2 – Amra Hadžimuhamedović ha descritto come questa scelta parta dai principi della teoria del restauro rifacendosi alle ipotesi di ricostruzione teorizzate nell’Ottocento da Viollet-le-Duc e da Boito, passando per le ricostruzioni tedesche dopo la seconda guerra mondiale fino alla Frauenkirche di Dresda (Hadžimuhamedović, 2007). 3 – La prima commissione era composta da cinque membri, uno della Republica Srpska e due della federazione della Bosnia Erzegovina, per garantire gli interessi mussulmani e cattolici. Gli altri due membri sarebbero stati nominati dalle Nazioni Unite. 4 – Legge sull’attuazione delle decisioni della Commissione per preservare i monumenti nazionali, a.IX, n.2, 21 gennaio 2002, http://old.kons.gov.ba/main.php?id_struct=83&lang=4 (presa visione aprile 2019). 5 – Legge di attuazione del 9 febbraio 2002 della Repubblica Srspka, comma II. 6 – Amra Hadžimuhamedović ora dirige la commissione e monitora gli effetti della politica nazionale sui beni architettonici. 7 – Per rendersi conto di questo problema di linguaggio architettonico basta consultare un catalogo sulle architetture storiche e moderne di una delle componenti religiose, quella islamica (Bajić, 2011). BIBLIOGRAFIA - Bajić E., “Konjičke džamije”, Fondacija Baština Duhovnosti, Mostar, 2011. - Hadžimuhamedović A., “Redefinition of protection nd presentation methods of th architectural heritage in the process of post-war rehabilitation. The case of the Čaršija mosque in Stolac”, in “Baština/Heritage”, I, 2005, pp.71-117. - Hadžimuhamedović A., “Reconstruct or forget: European history and Bosnian reality”, in “Unity and Plurality in Europe, Forum Bosnae”, n.38, 2007, pp.222-244. - Hadžimuhamedović A., “Seven years of work of Commission to Preserve National Monuments”, in “Baština/Heritage”, IV, 2008, pp.11-17. - Hadžimuhamedović A., “Raslojavanje bosanskog identiteta - kulturno pamćenje i njegova savremena interpretacija”, in “Godisnjak”, a.XII, 2012, pp.235-254. - Hadžimuhamedović A., “Three Reception of Bonian Identity as Reflected in Religious Architecture”, in “Politicization of religion, the power of symbolism. The Case of Former Yugoslavia and its Successor States”, a cura di Ognjenović G. e Jozelić J., Palgrave Macmillan, New York, 2014, pp.105-158. - Hadžimuhamedović A., “The Built Heritage in the Post-War. Reconstruction of Stolac”, in Walasek H., Ashgate (a cura di), “Bosnia and the Destruction of Cultural Heritage”, Burligton, 2015, pp.259-284. - Halilović Z., “Komisija za očuvanje nacionalnih spomenika – nadležnosti, program rada i provedene aktivnosti”, in Novaković P., Pandžić I., Mileusnić Z. (a cura di), “Radovi sa konferencije i radionica projekta BIHERIT”, Znanstvena založba Filozofske fakultete, Lubiana, 2014, pp.87-96. - Mulalic Handan M., “Implementation of Annex 8 of the General Framework Agrement for Peace in Bosnia and Herzegovina”, in “Baština/Heritage”, III, 2007, pp. 23-53. - Ristic M., “Achitecture, urban space and war. The destruction and reconstruction of Sarajevo”, Palgrave Macmillan, New York, 2018.

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Edoardo Fregonese Dottorando in Architettura. Storia e progetto, DAD, Politecnico di Torino. edoardo.fregonese@polito.it

Il vero (e il falso) nelle pratiche di progettazione

01. BLAARCHITETTURA (Alberto Lessan, Jacopo Bracco), Progetto di restauro di unità residenziale “Italian Balloon Frame”, Torino 2017-2018. Foto degli interni. BLAARCHITETTURA 2018

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Quale teoria della verità per disegni e maquettes? The true (and the false) in design practices The concept of truth has been one of the most discussed within philosophy. In addition to those who argue for overcome it or abandon it, there are other philosophers who developed very different concepts of truth. These can be grouped into families: truth as correspondence, pragmatic truth, truth as social construction and truth as doing (the truth). What is the notion of truth that can be used to describe design practices? A (non-definitive) answer to this question is proposed through a brief analysis of drawings and maquettes of an architectural firm.* Il concetto di verità è sempre stato tra i più discussi in filosofia. Oltre a coloro che argomentano in favore di un suo superamento o abbandono, altri filosofi hanno sviluppato concetti di verità molto differenti tra loro. Questi possono essere raggruppati in famiglie: verità come corrispondenza, verità pragmatica, verità come costruzione sociale e verità come fare (la verità). Qual è la nozione di verità che può esser utilizzata per descrivere le pratiche di progettazione? Una risposta (non definitiva) a questa domanda viene proposta attraverso una breve analisi di disegni e maquettes di uno studio di architettura.*

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artesio, poco meno di 400 anni fa, dubitò di tutto: dalle più semplici e banali verità matematiche alla sua stessa esistenza e al mondo al di fuori della sua mente. Non potendo però dubitare di dubitare, trovò nel pensiero, nel suo stesso pensiero, almeno una verità: io penso, io esisto! (Cartesio, 1992 [1641]). Partendo da questo, e affidandosi all’onnipotenza divina, Cartesio – meditazione dopo meditazione – ricostruisce il sistema: la matematica afferma cose certe, il mondo esiste e un genio maligno ingannatore (genium aliquem malignum) non potrà smuovere la (mia, nostra) certezza di alcune verità. Il concetto di verità, prima e dopo Cartesio, è sempre stato dibattuto, discusso, criticato, esaltato dalla storia della filosofia e da chi ne ha preso parte. Oscillando tra la pura oggettività e la scettica rinuncia al vero, i più grandi filosofi si sono interrogati su che cosa sia la verità. E le proposte teoriche che sono state offerte e argomentate sono molteplici: dal mito della caverna platonica, in cui vengono illustrati i gradi di aderenza al vero di ciò entro cui siamo immersi (vediamo ombre, oppure marionette animate da soggetti che ci vogliono ingannare, oppure ancora siamo liberi da questo teatro e stiamo godendo della luce al di fuori della caverna?), fino ai più recenti trend di ricerca1 nelle scienze sociali, in cui la verità e i fatti (scientifici) sono delle costruzioni sociali (Latour & Woolgar, 1986; Mol, 2002). Lo scopo di questo articolo è duplice: da un lato fornire una concisa trattazione dei concetti di verità proposti in sede filosofica, raggruppandoli entro grandi famiglie, dall’altro cercare di capire quale possa essere funzionale a descrivere il progetto architettonico: quale tra i modelli di verità descritti si applica meglio alla realtà delle pratiche progettuali? E che beneficio si può trarre, in termini pragmatici di azione, dall’analizzare filosoficamente (ed epistemologicamente, giacché si tratta di vero e falso) il progetto e i prodotti di una pratica? Nel secondo paragrafo saranno enunciate le famiglie di teorie della verità; nel terzo saranno presi in esame alcu-

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02. Stato di fatto. BLAARCHITETTURA 2018

03. Stato di fatto. BLAARCHITETTURA 2018

cosa c’è di vero – e secondo quale concetto di verità – nel progetto di architettura? ni disegni e maquettes di uno studio di architettura (Blaarchitettura), questi saranno sottoposti a una concisa indagine filosofica, mostrando come le diverse nozioni possono applicarsi (oppure no). Infine, nel quarto e ultimo paragrafo si cercherà di mostrare “l’utilità pragmatica” di questo tipo di analisi. Verità (sì, ma al plurale) Raccogliere in qualche migliaio di battute tutte (!) le teorie della verità che i filosofi hanno prodotto da 2400 anni a questa parte è un’impresa impossibile, a meno di non voler rassegnarsi nel restituire un prodotto manchevole. Per far fronte a ciò è utile operare delle riduzioni e degli accorpamenti, oppure ancora (ma non è il contrario) prendere un’opera o un pensatore, come esemplificativi di una intera famiglia di teorie simili e riferibili a uno stesso modello. Verità come corrispondenza: è la versione più classica e intuitiva, quella che siamo portati a considerare nella vita

04. Foto degli interni. BLAARCHITETTURA 2018

quotidiana. Nella sua formulazione più classica si tratta di un’implicazione di questo tipo “la frase ‘la neve è bianca’ è vera se e solo se la neve è bianca”; nella sua formulazione formale: “È vero che P se e soltanto se P” (Marconi, 2007, p. 6). È vero che il Sole è al centro del sistema solare se e soltanto se è davvero al centro del sistema solare. Questa teoria ci dice che una proposizione è vera se e solo se esiste un mondo esterno (oggettivo) che ci consente di smentire o confermare ciò che stiamo dicendo (o ciò che sentiamo)2. Verità pragmatica: a dispetto dell’opinione comune, anche Friedrich Nietzsche (1975 [1887]) formulò una teoria della verità, e non quella che cade nel paradosso del mentitore, per cui affermando che “la verità non esiste” si vuole affermare almeno una verità (che cioè questa non esiste), ma così facendo si entra in un paradosso poiché anche questa asserzione non dovrebbe essere vera stando all’assunzione di partenza. Arthur Danto, famoso filosofo analitico americano, rinvenne in Nietzsche quella che invece può essere considerata una teoria pragmatista della verità, per cui “qualcosa è vero se e solo se è utile alla vita” (Danto, 2005)3. Non è vero che la matita serve per scrivere: ora, in questo momento, è vero che la matita serve per tenere legati i capelli, mi è utile pensare così perché altrimenti non la userei per legarmi i capelli, ma solo per la sua funzione “primaria”. Verità (e fatti) come costruzione sociale: scoperte scientifiche, accertamenti medici di malattie, narrazioni storiche e altre attività non ci dicono davvero come è (o era) il mondo, ma ne costruiscono una rappresentazione, valida quanto qualsiasi altra, attraverso scambi, relazioni e azioni sociali. Non c’è una “realtà esterna che esiste indipendentemente” da dei soggetti che la costituiscono (Boghossian, 2006), ma c’è un continuo lavorio dei nostri schemi concettuali per costruire la realtà quotidiana. Fare la verità: come mediare tra queste tre posizioni? Se da un lato abbiamo l’indipendenza del mondo rispetto ai soggetti (ontologia) e dei soggetti che di fatto costruiscono e rimodellano la realtà in base a schemi concettuali cono-

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05. Fase di costruzione del progetto. BLAARCHITETTURA 2018

scitivi (epistemologia), si apre la terza opzione (tecnologia) cioè la produzione di verità (Ferraris, 2017): discipline e professioni tecniche di fatto costituiscono e producono nuovi oggetti, prima inesistenti, andando ad aumentare il numero di cose nel mondo, e producendone la loro stessa verità. Il vero e il falso in disegni e maquettes Il progetto e le rappresentazioni progettuali che prenderemo in considerazione sono relativi a un restauro attualmente completato (img. 01-04) di un’abitazione privata nel cuore di Torino, a due passi dalla Mole Antonelliana e da Palazzo Nuovo, uno degli edifici più importanti e noti dell’Università di Torino. Nell’immagine 06 è presentata una maquette del progetto, nell’immagine 07 una pianta e nelle 02, 03, 05 delle fotografie che documentano lo stato di fatto pre-progettuale e la fase di costruzione. È ovvio che una volta costruito e completato il progetto, cioè ex post, una valida “teoria della verità” sembra essere quella corrispondentista: dato il progetto e l’oggetto costruito, quanto corrisponde quest’ultimo al progetto (considerato in tutte le sue fasi, da preliminare a definitivo ed esecutivo)? L’applicazione di una famiglia di teorie simili non è solo un vezzo filosofico, ma una vera e propria richiesta da parte degli uffici tecnici: il costruito rispetta il progetto approvato? Se sì, bene, ma se così non fosse, il progettista potrebbe incorrere in sanzioni amministrative ed essere costretto a demolire e a ricostruire il tutto in base al disegno timbrato e contro-timbrato dalle autorità competenti. Se però considerassimo le fasi ex ante, cioè prima e durante il processo di progettazione e costruzione? La “teoria corrispondentista” sembra essere inutile: se ancora deve esistere l’oggetto del progetto è impossibile una qualsivoglia corrispondenza tra il progetto e lo stato di cose attuale. Quella della costruzione sociale sembra essere invece una buona teoria su cui puntare. Le immagini 02, 03 e 05 ce lo mostrano esplicitamente: la

fase costruttiva rimanda in toto a un insieme di negoziazioni e relazioni (sociali) intrattenute tra progettisti, fornitori e manovalanze (come l’immagine mostra), per cui il progetto risulta essere un oggetto sociale prodotto a partire da pratiche relazionali tra lo studio e agenti esterni. Solo a partire da una discussione con questi ultimi possono darsi i risultati dell’immagine 04 (cioè l’effettiva realizzazione del progetto): senza infatti considerazioni tecniche fatte da esperti (considerazioni in cui rientra anche un preventivo della spesa), senza un’impresa costruttrice e senza le manovalanze, difficilmente il progetto può avere effetti, non solo perché è molto inverosimile che il cliente accetti “a scatola chiusa” il progetto se questo non è sufficientemente chiaro, ma perché il progetto senza una dimensione sociale e negoziale che lo contorna rimane “in potenza”. E il passaggio da potenza ad atto (da disegno a materia fisica) si raggiunge proprio grazie all’insieme di relazioni con un “mondo esterno” allo studio stesso, fatto di professionisti e imprese e preventivi e pareri tecnici e non in ultimo anche di norme e uffici tecnici. Se consideriamo il modello nell’immagine 06, abbiamo una visione più architettonica in senso proprio dell’intervento (una

alcune rappresentazioni mostrano come il vero viene fatto, altre come questo sia una costruzione sociale

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in cui il supporto esterno non sembra esserci). Qui sembra che la teoria più adatta sia quella di “fare la verità”: attraverso l’uso di materiali e di colori (il grigio per lo stato di fatto e il legno per le nuove costruzioni) viene rappresentato uno specifico futuro, viene mostrato qualcosa che non è vero (secondo la corrispondenza e secondo la costruzione sociale), ma qualcosa che si vuole fare essere vero, in grado di produrre da sé le sue stesse di condizioni di verità. Ciò significa e implica l’uso dei modelli: un oggetto che corrisponde a ciò che

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06. “Italian Balloon Frame”, maquettes di progetto. Sono ben visibili i due materiali che lo compongono e il significato che questi hanno. BLAARCHITETTURA 2018

considerare cosa (e come) è vero consente di essere effettuali, non è soltanto un passatempo filosofico c’è (il grigio dello stato di fatto) e a ciò che viene modificato dal progetto (le parti in legno) ma non in maniera immediata, bensì attraverso una serie di prove ed errori (“potrà stare così questa parete?”, “Se dividiamo questo spazio che ne è del rimanente?”, “E se invece di fare così, facciamo in quest’altro modo qui?”)4. Ed è pragmaticamente utile ritenere lo strumento del modello come vero perché attraverso di esso possono essere dette e compiute determinate azioni progettuali (che spaziano da riflessioni su aspetti compositivi, formali, distributivi fino a presentazioni pubbliche del progetto ai clienti). In breve, vediamo che a seconda del supporto progettuale utilizzato, e a seconda della temporalità (ex post oppure ex ante), le teorie della verità cambiano e possiamo considerare in maniera differente questi supporti proprio in virtù del fatto che alcune teorie si adattano e altre no – senza per ciò stesso implicare il dover decidere una e una sola tipologia di verità a cui si deve rispondere.

L’utilità delle verità A un primo sguardo parrebbe che un’analisi filosofica sia esclusivamente un vezzo o una inutile speculazione, risolta la quale si torna a svolgere il lavoro di tutti i giorni. L’ipotesi che questo breve scritto articola è quella contraria secondo cui un’analisi filosofica sprona, e può potenzialmente spronare, il progettista a considerare criticamente il proprio lavoro: è sufficientemente vero il progetto secondo una teoria della “verità come costruzione sociale”? È sufficientemente vero il progetto secondo una “teoria della verità come fare” (la verità stessa)? Nel primo caso ci chiediamo se abbiamo coinvolto le necessarie e dovute competenze esterne, impersonate da agenti in carne e ossa, al fine di rendere realizzabile il progetto; nel secondo caso ci si interroga se ciò che è stato progettato è stato a sua volta oggetto di una dovuta cura rispetto a ragionamenti (distributivi, spaziali, architettonici, ecc.) che consentono al progetto di essere effettivamente efficace una volta presentato

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07. “Italian Balloon Frame”, pianta del progetto. BLAARCHITETTURA 2018

ed esposto a un pubblico di decisori (siano questi un singolo cliente privato oppure una commissione pubblica). Osservare analiticamente quale teoria della verità funziona per il progetto non è quindi una mera elucubrazione, ma una riflessione critica sul prodotto delle proprie azioni e sulle azioni stesse. Attività che certo avviene in modo ordinario e abituale, ma in cui gli strumenti della filosofia possono darci una mano.* NOTE 1 – Questo “trend” si riferisce ai cosiddetti Science and Technology Studies, che nascono e si sviluppano tra gli anni ‘80 e ’90 e attualmente sono utilizzati come valido strumento di indagine del progetto architettonico e dell’architettura (Yaneva, 2005). Ciononostante, per quanto riguarda la costruzione dei fatti e il rifiuto del concetto di verità, Bruno Latour stesso (Latour, 2004) ha riflettuto sugli effetti “negativi” in merito alla credibilità pubblica dei fatti scientifici che anche le sue teorie possono aver generato (si veda ad esempio il “terrapiattismo”, il rifiuto del surriscaldamento globale e il movimento anti-vaccinista). 2 – L’epoca contemporanea, o quantomeno gli anni in cui stiamo vivendo, sono dominati e pervasi da quella che viene chiamata “post-verità” (Ferraris, 2017) e la verità che sarebbe stata “superata” è proprio quella corrispondentista. 3 – È Nietzsche stesso a definire questa prospettiva nel medesimo frammento (1995 [1887], p. 300): “Sono i nostri bisogni, che interpretano il mondo: i nostri istinti e i loro pro e contro”.

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4 – La serie di domande rimanda al concetto di “reflection-in-action” sviluppato da Donald Schön (Schön, 1983). BIBLIOGRAFIA - Boghossian P., “Fear of Knowledge. Against Relativism and Constructivism”, Oxford University Press, Oxford-New York, 2006. - Cartesio, “Opere filosofiche, volume secondo. Meditazioni metafisiche, Obbiezioni e risposte”, Laterza, Roma-Bari, 1992 [1° ed. 1641]. - Danto A. C., “Nietzsche as Philosopher. Expanded Edition”, Columbia University Press, New York, 2005. - Ferraris M., “Postverità e altri enigmi”, il Mulino, Bologna, 2017. - Latour B., “Why Has Critique Run out of Steam? From Matters of Fact to Matters of Concern”, in “Critical Inquiry”, 2004, n. 30, pp. 225-248. - Latour B., Woolgar S., “Laboratory Life. The Construction of Scientific Facts”, Princeton University Press, Princeton, 1986. - Marconi D., “Per la verità. Relativismo e filosofia”, Einaudi, Torino, 2007. - Mol A., “The Body Multiple: Ontology in Medical Practice”, Duke University Press, DurhamLondon, 2002. - Nietzsche F., “Frammenti postumi 1885-1887. Vol. VIII, tomo I”, Adelphi, Milano, 1975. - Schön D. A., “The Reflective Practitioner. How Professionals Think in Action”, Basic Books, New York, 1983. - Yaneva A., “Scaling Up and Down: Extraction Trials in Architectural Design”, in “Social Studies of Science”, 2005, n. 35, pp. 867-894.

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Elisa Boschi Architetto laureato in Architettura per il Progetto Sostenibile e abilitato Sez. A presso Politecnico di Torino. elisa.boschi20@gmail.com

La cultura dell’imitazione

01.Ikea Festival, Milano Design Week 2017. Let’s make room for life. Ikea

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Dal folklore al modello svedese The culture of the imitation Contemporary society has changed needs of living for the transience and instability of the living conditions. Not because of this lack of solidity we are willing to give up the image and the beauty in the interior design of your own home, which is rebuilt resembling the models of childhood housing, network photos, models of TV programs, but not only. With the crisis of the “strong values” the Italian population has found a solid reference for the interior design in the emulation of the Swedish “hegemonic” culture Lagom and in its “democratic” conception of design.* La società contemporanea ha mutato esigenze e bisogni dell’abitare per la transitorietà e instabilità della propria condizione di vita. Non per tale mancanza di solidità si è disposti a rinunciare all’immagine e alla bellezza degli interni della propria casa, che si ricostruisce somigliante ai modelli abitativi dell’infanzia, alle foto in rete, ai modelli dei programmi tv, ma non solo. Con la crisi dei “valori forti” la popolazione italiana ha trovato un solido riferimento per l’arredo degli interni nell’emulazione della cultura “egemone” svedese Lagom e nella sua concezione “democratica” del design.*

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a nostra epoca si caratterizza per l’introduzione progressiva della tecnologia come strumento di lavoro per la propria professione in luoghi tradizionalmente associati a funzioni extra professionali, del privato o del transito. Questo fenomeno ha messo in discussione l’ambito domestico, nel passato identificato come centro inamovibile, unico e stabile caratterizzato da territorialità e cultura (Leccardi, Rampazi, Gambardella, 2011), proiettandoci in molti provvisori ambiti dell’esperienza, nessuno dei quali può garantire la sicurezza e la familiarità delle case del passato. Saremo destinati, allora, a non poterci più sentire a casa in nessun luogo e a un eterno vagabondaggio (Bauman, 1999)? L’abitazione è un’entità transitoria condizionata dalla cosiddetta “vita liquida” e dall’instabile composizione del nucleo familiare (Bauman, 2002; Crepet, Botta, Zois, 2007): le persone migrano costantemente per lavoro, studio, salute, affetti e, pertanto, il senso di casa si porta dentro di sé e si ricostruisce quando e dove si vuole, ricercando una familiarità nei luoghi, evocata da emozioni e profumi del proprio “essere a casa” e dalle caratteristiche che riconducono ai modelli abitativi ricevuti dai genitori nell’infanzia (Leccardi, Rampazi, Gambardella, 2011). Tale ricostruzione tende sempre più frequentemente ad assomigliare anche ai modelli trasmessi dai nuovi media poiché la nostra società industriale, tramite la fotografia, ha creato clichés e ci ha trasformato in “drogati d’immagini” (Sontag, 2004). Già Feuerbach (1843), al suo tempo, aveva intuito che “la nostra epoca preferisce l’immagine alla cosa, la copia all’originale, la rappresentazione alla realtà, l’apparenza all’essenza”, rendendosene conto perfettamente. La connessione in rete, infatti, consente di osservare, vivere e imitare le vite altrui immergendosi nei paesaggi domestici, in cui prima si entrava solo se invitati, condivisi tramite app che rendono “la nostra casa un frammento di una iperabitazione globale abitata da milioni di persone” (Molinari, 2016). La tecnologia ha proprio cambiato l’idea di

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02. Ikea Street Art, Design=Alive. Premiata Seriografia Milano

casa: secondo lo studio Life at home di Ikea (2015) il 23% della popolazione mondiale pensa sia più importante avere un buon wi-fi a casa anzichè spazi relazionali e il 19% pensa sia meglio mantenere i contatti con gli amici onli-

In funzione di questi cambiamenti di abitudini si modificano l’arredo e gli spazi in cui vivere: si usano isole su cui si può sia cucinare sia mangiare e tavoli con altezze simili ai banconi bar perché i pasti vengono consumati velocemente in cucina, non più in sala da pranzo, con il bisogno, perciò, di mostrare agli estranei una parte di casa prima considerata intima (Crepet, Botta, Zois, 2007); così, il frigorifero diventa un oggetto di design con colori accesi, forme smussate, apparecchi elettronici integrati. Suggestioni sulle ristrutturazioni e l’arredo degli interni sono state fornite anche da molti programmi televisivi americani che aiutano solitamente protagonisti con necessità di cambiare città o ampliare casa a trovare l’abitazione “ideale”, che viene poi ristrutturata e arredata in 3D, andando incontro ad un’esigenza di concretizzazione dell’immaginario sempre più presente tra le persone e

transitorietà e instabilità abitativa: alla ricerca di familiarità nei luoghi e di modelli per nuovi spazi di vita ne piuttosto che invitarli a casa; così, il 95% dei ragazzi vive in una stanza tecnologicamente attrezzata, ricca di oggetti di design, avvolto nella solitudine e nell’isolamento (Crepet, Botta, Zois, 2007) e si deframmentano i momenti collettivi e di socializzazione, legati anche alla mancanza di tempo che non permette più di mangiare insieme e contemporaneamente.

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03. Equilibrio, moderazione, armonia. Elisa Boschi

particolarmente utile per case vuote di cui è difficile immaginarne l’uso. Nelle trasmissioni, si applica un budget contenuto per poter mettere in luce anche il concetto di imitazione dell’arredamento “di lusso”, cui aspira gran parte della società, e mostrare che con l’acquisto di mobili di marchi di medio-basso costo, generalmente copia dell’alto design, o il restauro di mobili comprati ai mercatini è possibile creare comunque la casa desiderata. Nei diversi periodi storici, infatti, la concezione dell’arredamento da parte della fascia di popolazione più ampia, la “classe subalterna” della borghesia, si è sempre rapportata con l’imitazione dei valori estetici e del modello culturale della “classe egemone”, l’aristocrazia (Cirese, 1976). Dal secondo dopoguerra e con il “boom” economico, per esempio, il ceto contadino ha svuotato le case dai mobili classici in legno grezzo, saccheggiati e recuperati dagli antiquari. Oggi, lo stesso fenomeno si verifica con i ceti sociali medi che sostituiscono frequentemente gli oggetti fino a lasciarli morire nei negozi dell’usato e svalutano l’antiquariato che aveva goduto di successo sul finire dell’Ottocento, mettendo a rischio negli interni l’unità stilistica precedentemente ritenuta fondamentale per un arredamento di buon gusto (Bricarello, Vaudetti, 1999); l’antiquariato viene, perciò, scelto limitatamente da persone appassionate di restauro e con volontà di investire su arredi unici. La casa eclettica caratterizza così la maggior parte della popolazione che accoglie contaminazioni di stili e linguaggi esprimendo forse un’identità che, invece, nella classe medio-alta può compromettersi con la scelta dei marchi di tendenza. Ad ogni modo, anche chi preferisce investire in costosi arredi di design afferma di lasciare spazio per qualche dettaglio a brand medio-bassi, come Ikea (Gunnar Trjo, 2006). Nell’ottica gramsciana, Ikea ha una “connotazione”, cioè un legame con una certa classe che ha una “rappresentatività socio-culturale”, e può avvantaggiare i suoi utilizzatori

di un’offerta culturale relativamente elevata. Ikea incarna, perciò, la volontà della “classe subalterna” del mondo globalizzato di emulare con fiducia e trovare un riferimento nella cultura “egemone” scandinava, in particolar modo svedese, la cultura Lagom. Questa si fonda su parità e uguaglianza, moderazione, suddivisione della ricchezza, mentalità collettiva e idea di vita comunitaria; è la vera e propria essenza dell’identità e della quotidianità svedesi: uno stile di vita improntato alla consapevolezza sociale dell’attenzione verso il prossimo valutando il grado di fastidio arrecato agli altri, all’equilibrio che ci incoraggia ad agire nella condizione più naturale e disinvolta possibile seguendo ciò che è meglio per noi, alla sostenibilità in ogni sua forma (Åkerström, 2017). Ikea, quindi, raccoglie in sè una concezione “democratica” e innovativa del design accessibile a chiunque (Delbecchi, 2007) e non solo a pochi privilegiati ed uno stile di vita più semplice (De Carolis, 2017; Salemi, 2017) ecosostenibile, funzionale e adatto al “miglioramento della vita quotidiana delle persone”. Nel 2014, per esempio, con il progetto Live Lagom, lanciato nel Regno Unito per diffondere la longeva pratica della sostenibilità svedese, aveva mostrato come i piccoli cambiamenti quotidiani – come ridurre il consumo dell’acqua, riciclare, utilizzare lampadine a LED – possano migliorare la qualità della vita facendo risparmiare denaro e

l’antica egemonia culturale gramsciana e la sua attualità

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risorse e limitando l’impatto ambientale (Åkerström, 2017). L’approccio svedese al design è minimalista e volge lo sguardo a oggetti durevoli e funzionali, di alta qualità realizzati con ottimi materiali, pensati per resistere nel tempo, anche stilisticamente, evitando le mode attuali e trasmettendo raffinatezza. Nell’arredamento il “lagom” orienta a un approccio che segue il principio “meno è me-

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04. Accenti di colore. http://blog.ldt.fr/amenagement-maison/deco-scandinave-tendance-01446.html

05. Un design democratico. Catalogo Ikea 2017

glio”, ci porta a vedere l’eleganza nelle linee pulite, il gusto nel minimale, il buon gusto nell’uso di tonalità neutre (Åkerström, 2017). La società contemporanea italiana, in virtù del discorso gramsciano e in cerca di “valori forti”, che sono, purtroppo, stati persi lasciando emergere i “valori deboli” - che hanno reso l’immagine più importante della realtà - ha, perciò, preso a modello lo stile scandinavo, che è ormai la tendenza predominante nel campo dell’arredo. Pensato per le case del nord Europa, dove la luce del sole in inverno è pochissima e quindi la prima esigenza è rendere luminosi gli ambienti attraverso i colori chiari e neutri delle pareti e dei tessuti abbinati a mobili minimali in legno massello e nei suoi derivati, nelle specie di frassino, faggio, pino o betulla dalla caratteristica tonalità chiara, che trasmettano l’idea di calore e accoglienza, accesi poi dai complementi d’arredo con tocchi di colore turchesi, rossi, rosa, gialli.

Ormai il “modello europeo di casa svedese”, con stanze ampie e poco ingombrate, pochi arredi funzionali - dalla cucina alla camera da letto – che rispecchia una ingegnerizzazione della vita in stile nordico, ha contaminato la casa italiana influenzando ampiamente il nostro immaginario abitativo come già avvenne negli USA con il “modello della casa in legno del West”, stereotipato attraverso le villette di Happy Days, Desperate Housewives, The Simpsons (Molinari, 2016), che avevano costituito un prototipo universale di un paesaggio domestico medio da riprodurre nel mondo con varianti locali. Concludendo, risulta evidente che l’imitazione stilistica per l’arredo di un’abitazione sia provocata da un senso di disorientamento causato dall’instabilità dell’odierna condizione di vita e dalla costante necessità di ricostruzione del proprio nido in luoghi diversi. Si ha, perciò, bisogno di riferirsi a modelli culturali e stilistici solidi in cui si ripone fiducia; in particolare, come detto, gli arredi si stanno sempre

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la società dei valori deboli emula la cultura Lagom nella ricostruzione del nido

06. Effetto luce in Scandinavia. https://happygreylucky.com/living-room-update-cozyscandinavian-inspired-interior/

più adeguando allo stile scandinavo - si notino il minimalismo, l’essenzialità, la luminosità ed i toni chiari dei render di interni sulle riviste di settore - con conseguente perdita di apprezzamento degli stili della propria tradizione. Questo atteggiamento, allora, porterà con sé il rischio di omologazione delle case, poichè rivolte tutte allo stesso minimalismo, a stanze molto ampie e molto luminose, anche in territori geografici in cui non ve ne sia necessità? Forse per la voglia di differenziarsi, si rischierà di creare un anonimo “stile del disordine”, accostando insieme prodotti di design, oggetti artigianali, mobili antichi o falsoantichi, elementi di folklore ed espressioni del kitsch.*

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BIBLIOGRAFIA - Åkerström L.A., “Lagom. La ricetta svedese per vivere con meno ed essere felici”, Rizzoli Libri S.p.A./BUR Rizzoli, Segrate, 2017. - Bauman Z., “La società dell’incertezza”, Il Mulino, Bologna, 1999. - Bricarello G., Vaudetti M. (a cura di), “Ristrutturazione e progettazione degli interni 2”, Unione Tipografico-Editrice Torinese, Torino, 1999. - Cirese A.M., “Intellettuali, folklore, istinto di classe. Note su Verga, Deledda, Scotellaro, Gramsci”, Einaudi, Torino, 1976. - Crepet P., Botta M., Zois G., “Dove abitano le emozioni. La felicità e i luoghi in cui viviamo”, Einaudi, Torino, 2007. - De Carolis P., “Vita (perfetta) alla svedese. Equilibrio, moderazione, armonia”, in “Corriere della Sera.it”, 13/04/2017. - Delbecchi N., “Il signor Ikea. Una favola democratica”, Marsilio, Venezia, 2007. - Feuerbach L., “Grundsätze der Philosophie der Zukunft (Principi della filosofia dell’avvenire)”, Lipsia, 1843. - Gunnar Trjo E., “Soffro d’Ikea”, Leconte Editore, Roma, 2006. - Ikea, “Life at home report #1. A world wakes up”, 2015. - Leccardi C., Rampazi M., Gambardella M.G., “Sentirsi a casa. I giovani e la riconquista degli spazi-tempi della casa e della metropoli”, UTET Università, De Agostini, Novara, 2011. - Molinari L., “Le case che siamo”, Nottetempo, Roma, 2016. - Salemi R., “Vivere con meno ed essere felici. La filosofia Lagom”, in “La Stampa.it”, 21/08/2017. - Sontag S., “Sulla fotografia. Realtà e immagine nella nostra società”, Einaudi, Torino, 2004.

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Irene Caputo Borsista di ricerca presso Politecnico di Torino. irene_caputo@yahoo.it

Marco Bozzola Ricercatore in design presso Politecnico di Torino. marco.bozzola@polito.it

Il design al servizio dell’autenticità

01. Sistema di guida a Palazzo Zwinger, Dresda. Design: Gourdin&Müller, 2007. Gourdin&Müller

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La segnaletica per la valorizzazione dei beni culturali e territoriali Design at the service of authenticity One of the challenges of design is to develop actions for the enhancement of cultural and territorial heritage, tangible or intangible. This contribution explores the signage design in the cultural heritage sector as a project area between product and communication. Well-designed communication systems narrate the identity of places and relate to the context through different design attitudes: from proposals based on the imitation of the good, to allusive approaches, more abstract and conceptual.* Tra le sfide del design, una missione è quella di sviluppare azioni per la valorizzazione del patrimonio culturale e territoriale, sia esso tangibile o intangibile. Questo contributo esplora il design della segnaletica nel settore dei beni culturali quale ambito di progetto a cavallo tra prodotto e comunicazione. I sistemi di comunicazione ben progettati narrano l’identità dei luoghi e si relazionano con il contesto attraverso diversi atteggiamenti progettuali: da proposte basate sull’imitazione del bene, ad approcci allusivi, più astratti e concettuali.*

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l design per la valorizzazione del patrimonio culturale e territoriale Tra le sfide del design, una missione è quella di sviluppare azioni per la valorizzazione del patrimonio culturale e territoriale, sia esso tangibile o intangibile. Tale ambito si sviluppa nella definizione delle caratteristiche di quegli elementi (attrezzature, prodotti d’uso, comunicazione, servizi, ecc.) volti a rendere fruibili e comprensibili le risorse culturali. Il mondo della progettazione è chiamato a relazionarsi con l’identità dei luoghi, avviando processi di riconoscimento e selezione dei tratti peculiari che un territorio può esprimere per poter essere valorizzato e reso disponibile, ed essere in tal modo condiviso e partecipato (Parente, 2010). Il ruolo del design nella valorizzazione del patrimonio culturale e territoriale è quello di attenersi a questa autenticità del contesto, trasmettendo internamente questa consapevolezza e permettendone, verso l’esterno, la riconoscibilità. Nell’ambito dei sistemi di comunicazione, le attrezzature segnaletiche devono narrare ai fruitori l’identità dei luoghi e permettere loro di relazionarsi con il contesto, offrendo a coloro che si approcciano al territorio sia riferimenti fisici per l’orientamento sia riferimenti culturali che esplicitino gli elementi di autenticità e unicità del luogo stesso. Wayfinding e segnaletica Wayfinding (Lynch, 1960) letteralmente significa “trovare la strada”. Esso indica il modo in cui viene organizzato lo spazio costruito e come viene allestito in termini di arredo e attrezzature, per sostenere e indirizzare la nostra capacità di orientamento: è ciò che può concretamente agevolare la nostra “cognizione spaziale” o “orientamento spaziale” (Zingale, 2006). La necessità di orientarsi all’interno di un mondo costruito sempre meno familiare e complesso porta l’azione progettuale a porsi come obiettivo la riduzione, per quanto possibile, di questa complessità. Il wayfinding si avvale di numerosi strumenti attraverso i quali orientare i fruitori di un ambiente: dalla creazione di

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02. Sistema di segnaletica urbana, Brunico (Bolzano). Design: Studio Strukt, 2011. Portfolio online dello Studio Strukt

mappe, alla configurazione e caratterizzazione degli spazi, all’allestimento di sistemi di segnaletica. Lo strumento segnaletica, nello specifico, si esplicita come un sistema di attrezzature atto a fornire indicazioni sui percorsi possibili, comprendere il contesto in cui ci si muove, agevolare gli utenti a prendere decisioni e realizzare i propri programmi. Il suo compito è, quindi, quello di trasmettere informazioni sul territorio circostante, attraverso un linguaggio grafico applicato a supporti fisici. Un sistema, in sintesi, composto da contenuti informativi, elaborazione grafica e attrezzature di sostegno (Calori, 2007). Contestualizzazione e linguaggi narrativi La segnaletica si pone come uno strumento filtro tra l’uomo e il contesto fisico, costruito o naturale; di conseguenza ogni linguaggio comunicativo adottato deve rispondere a esigenze esperienziali specifiche, contestualizzando il ruolo della segnaletica all’interno di un ambito identitario proprio.

Nella valorizzazione del patrimonio culturale e naturale, si può dunque osservare che da una parte questa assume una funzione informativa sul contesto, ossia permette di analizzare e comprendere il territorio o alcuni aspetti di esso, senza interferire con l’autenticità stessa del luogo; dall’altra parte la segnaletica svolge una funzione integrativa, si pone cioè come “elemento vivo”, con una sua caratterizzazione e identità, più o meno impattante nella narrazione visiva del territorio stesso. La sfera estetica (l’insieme degli elementi significanti rappresentati dai materiali, colori, forme, ecc.) si deve porre inevitabilmente al servizio dell’efficienza comunicativa (Zingale, 2006). I contenuti identitari sviluppati in chiave espressiva in fase metaprogettuale, potranno seguire declinazioni stilistiche e semantiche differenti nel rapportarsi con l’ambiente circostante, attraverso atteggiamenti più di tipo “imitativo” o “allusivo”, ovvero riproponendo o citando alcuni elementi del contesto in modo esplicito o implicito.

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03. Sistema di segnaletica per i parchi urbani, fluviali e collinari, Torino. Design: Brunazzi&Associati, 2003-2004. Brunazzi&Associati

Il confine tra questi due atteggiamenti non sempre si dimostra essere così netto ed evidente, ma segue una scala di complessità narrativa e comunicativa in relazione al tipo di messaggio che vuole essere trasmesso e al contesto di riferimento. I principali atteggiamenti progettuali che vediamo dunque svilupparsi (agli estremi) possono essere definiti: - di tipo “imitativo”, secondo cui l’intervento si concretizza attraverso una narrazione esplicita del contesto, legata perlopiù alla riproduzione formale di alcuni elementi fisici (siano essi legati al mondo naturale o a quello costruito) presenti e riconoscibili; - di tipo “allusivo”, quando la forma visiva si astrae dalla mera riproduzione dell’ambiente circostante, ma seleziona e fa proprie alcune delle qualità specifiche del contesto per riproporle in altra forma. Per esplicitare meglio questo concetto può essere preso un esempio noto del settore della comunicazione, ossia l’utilizzo del colore verde come rimando concettuale al mondo naturale: in questo caso la scelta, evidente, è quella di isolare una qualità specifica e fortemente identificativa dell’ambiente naturale per declinarla in varie forme pur mantenendo, indipendentemente dall’oggetto in cui viene riproposto, un rimando a qualcosa di non artificioso, sano e sostenibile. A titolo esemplificativo riportiamo di seguito alcuni casi di sistemi segnaletici in cui tali atteggiamenti risultano evidenti, a partire dall’approccio di tipo “imitativo” e procedendo verso quello di tipo “allusivo”. Il sistema di segnaletica urbana adottato nella città di Brunico (Bolzano) progettato dallo Studio Strukt (img. 02) rappresenta un chiaro caso di approccio esplicito di tipo “imitativo”, in cui l’elemento formale simbolico è protagonista assoluto della comunicazione, tanto da sovrastare visivamente il messaggio informativo grafico. Il chiaro riferimento alla Torre del Castello che domina la città rappresenta una citazione palese sia a livello concettua-

le che formale: è l’emblema stesso di Brunico a diventare il principale filtro comunicativo tra l’ambiente urbano e i suoi visitatori. Un atteggiamento che presenta alcune analogie lo possiamo trovare nel sistema di segnaletica per i parchi urbani, fluviali e collinari di Torino progettata dallo studio Brunazzi&Associati (img. 03). La scelta in questo caso è stata quella di adottare una comunicazione visiva che guarda agli elementi naturali quale fonte d’ispirazione, attraverso una combinazione di linguaggi “imitativi”, ovvero la riproduzione di sagome della fauna locale (anatidi, scoiattoli, passeri, ecc.) posizionate sulla sommità dei pali, e di linguaggi “allusivi”, cioè l’impiego di supporti di sezione circolare e in legno, e di cartelli indicatori di colore verde: accostamento che rimanda all’espressività degli alberi. Di altro segno la citazione della fauna locale che troviamo in alcuni elementi della segnaletica del Parco Naturale Regionale della Camargue (Arles) in cui la soluzione formale si esprime ad un livello più “allusivo” (img. 04). La forma semicircolare del pannello informativo suggerisce una silhouette che può essere ricondotta all’apertura alare di un uccello. La Camargue, nella Francia del sud, è infatti nota per accogliere numerose specie avifaunistiche tra cui colonie di fenicotteri rosa. La citazione non è esplicita, non vengono ripresi

la segnaletica si pone come strumento di filtro tra l’uomo e il contesto fisico, costruito o naturale

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fedelmente i dettagli formali delle ali né viene rappresentato interamente il soggetto, ma viene estrapolato un elemento specifico - l’apertura alare per l’appunto – e riproposto in un’estrema stilizzazione. Potremmo dire “la parte per il tutto”.

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04. Sistema di segnaletica del Parco Naturale Regionale della Camargue (Arles). Marco Bozzola

05. Belvedere Drentsche Aa, Parco nazionale Drentsche Aa (Drenthe). Design: Strootman Landschapsarchitecten, 2004. Harry Cock

Atteggiamento ulteriormente differente quello alla base del progetto del sistema di orientamento di Palazzo Zwinger a Dresda, progettato dallo studio Gourdin&Müller (img. 01). Il dialogo con il contesto in questo caso è attivato dalla scelta di comporre i diversi elementi della segnaletica con le geometrie dei giardini, creando delle sorte di “incastri” fisici accostando aiuole e piastre informative, ed evitando di sviluppare supporti specifici invasivi. La citazione si esprime proprio nella ripresa di alcuni caratteri (l’orizzontalità delle aiuole e la loro ridotta elevazione) che divengono motivo espressivo dal forte potere evocativo. I progettisti decidono in questo caso di usare l’esistente per inserirsi senza interferire nella continuità espressiva del luogo, usufruendo di uno spazio che sembrerebbe nascere per quello scopo. Un atteggiamento quindi pendente verso l’allusivo, che guarda all’uso delle forme, della spazialità e dei colori degli elementi presenti.

Nell’ambito degli atteggiamenti più spiccatamente allusivi, possiamo ancora citare la segnaletica progettata per il Parco nazionale Drentsche Aa (Drenthe), dallo studio Strootman Landschapsarchitecten (img. 05). L’intero sistema si declina attraverso la creazione di supporti fisici che non si concedono a citazioni formali o di tipo grafico del mondo naturale, ma che sono però in grado di instaurare un efficace dialogo filologico con il contesto. Questo grazie anche all’impiego dell’acciaio, la cui finitura superficiale arrugginita per ossidazione naturale presenta irregolarità e cromatismi che parlano un linguaggio assolutamente coerente con quello della natura, notoriamente lontano da linearità, pulizia del segno e regolarità. Il rimando risulta ancora più concettuale perché non si lascia parlare tanto la forma quanto la materia stessa. Naturalmente, tra questi due estremi proposti in termini di approccio narrativo (approccio “imitativo” e “allusivo”) esistono innumerevoli sfumature intermedie entro le quali si colloca la

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06. Linguaggi narrativi nel design dell’attrezzatura segnaletica, tra l’imitativo e l’allusivo. Irene Caputo

gran parte degli interventi di attrezzature per la comunicazione segnaletica (img. 06). In tale “scala linguistica”, che si propone quale modello aperto ad ulteriori implementazioni, non esiste aprioristicamente una posizione più “giusta” dell’altra; si tratta piuttosto di effettuare la scelta più coerente in riferimento al contesto, al destinatario, al messaggio da comunicare. Sicuramente l’attrezzatura segnaletica, al di là delle funzioni informative che le sono proprie, partecipa con la sua presenza alla ridefinizione del contesto stesso entro il quale è collocata: vale a dire che se da un lato l’identità del luogo è valorizzata dai contenuti e dalla fisionomia dello strumento impiegato, dall’altro questa può assumere nuovi valori e caratteri nella percezione da parte del visitatore. Di qui la grande responsabilità del designer, in particolare in ambito di valorizzazione del patrimonio culturale, di confrontarsi con l’autenticità di luoghi, territori, complessi architettonici promuovendoli e comunicandoli, senza però sovrastarne l’immagine o intaccarne il valore identitario.*

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BIBLIOGRAFIA - Calori C., “Signage and Wayfinding Design. A complete guide to creating environmental graphic design systems”, John Wiley & Sons Inc, New York, 2007. - Lynch K., “The image of the city”, The M.I.T. Press, Cambridge, 1960. - Meuser P., Pogade D., “Construction and design manual. Wayfinding and signage”, DOM Publishers, Berlino, 2010. - Parente M., “Il design per la valorizzazione territoriale. Il caso del Rione Sanità a Napoli”, in “Tafterjournal” n. 22/aprile 2010, magazine on line sul sito www.tafterjournal.it. - Smitshuijzen E., “Signage design manual”, Lars Müller Publishers, Baden, 2007. - Zingale S., intervistato da Melzani L., “Generative Travel. Perdersi e ritrovarsi per riscoprire il mondo”, tesi di laurea magistrale, Politecnico di Milano, 2006.

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Letizia Goretti Dottoranda composizione architettonica – tematica cultura visuale Università Iuav di Venezia XXXII° ciclo letizia.goretti@yahoo.it

La maschera dell’artista

01. Han Van Meegeren (1945). Koos Raucamp - Anefo (National Archief NL)

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IMITAZIONE


Il falso come momento del vero? The artist’s mask This article proposes a research on the concepts of truth and untruth, on the borderline between these two poles and on the ways to tell the difference between the truth and lie using the Morellian method. This will be done through the story of two forgers, the painter Han Van Meegeren and the anarchist Lucio Urtubia, and through an example of a fake in literature: the Censor case. In the book The Society of the Spectacle Guy, Debord wrote: ‘In a truly upside down world, the truth is a moment of falsehood’. And falsification, as a support for the truth, was one of the instruments of demonstration and political struggle of Censor, aka Gianfranco Sanguinetti, as it was Lucio Urtubia and – in different field – for Han Van Meegeren.* L’articolo propone una ricerca sui concetti di vero e di falso, sulla linea di confine tra questi due poli e sulle maniere di riconoscere la verità dalla menzogna utilizzando il “metodo morelliano”, attraverso la storia di due falsari, il pittore Han Van Meegeren e l’anarchico Lucio Urtubia, passando per un falso letterario: il caso Censor. Nel libro La società dello spettacolo Guy Debord scrisse: “nel mondo realmente rovesciato, la verità è un momento del falso”. E la falsificazione, come sostegno della verità, è stata uno dei maggiori strumenti di dimostrazione e di lotta politica di Censor, alias Gianfranco Sanguinetti, così come lo è stata per Lucio Urtubia e – in ambito diverso – per Han Van Meegeren.*

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l vero e il falso, la loro commistione, sono elementi del quotidiano di ogni persona, in ogni ambito o ambiente: nella politica, nella società dello spettacolo e soprattutto nell’arte. Infatti, la falsificazione e il problema dell’attribuzione delle opere d’arte sono noti da molto tempo, in particolar modo tra gli specialisti. Ivan Lermolieff, uno sconosciuto studioso di origini russe e tradotto in tedesco da un anonimo scrittore Johannes Schwarze, spiegava ai conoscitori d’arte, in alcuni articoli sulla pittura italiana1, come poter riconoscere la vera “mano di un maestro”, introducendo un nuovo metodo di attribuzione della paternità delle opere d’arte. Tuttavia né lo studioso né lo scrittore sono mai esistiti. Questi due nomi non sono nient’altro che pseudonomi utilizzati da Giovanni Morelli, medico veronese che non ha mai esercitato la professione perché ha dedicato, probabilmente, tutta la sua vita all’arte e alla politica. Questo “innovatore italiano”, come lo definì Edgar Wind, elaborò il “metodo morelliano”, cioè un nuovo sistema per l’attribuzione di quadri antichi, grazie al quale sosteneva “di essere riuscito a trasformare l’attribuzione, da quella specie di intuizione ispirata che era prima, in una proposizione verificabile” (Wind, 1986, p.56). Morelli affermava che i musei sono colmi di quadri attribuiti in modo errato e che per identificare la vera mano di un maestro non occorre incentrarsi sullo stile dell’artista o sui caratteri fondamentali della scuola da cui proviene - come per esempio il sorriso nei dipinti di Leonardo, i colori usati da Vermeer, la composizione piramidale nella scuola di Raffaello – poiché questi rappresentano i caratteri su cui sia l’artista che il falsario si concentrano maggiormente. Bisognerebbe pertanto riflettere proprio su tratti secondari, quei piccoli particolari su cui nessuno, o quasi, si sofferma: le dimensioni delle mani e dei piedi, il lobo di un orecchio, la forma di un’unghia, per citarne alcuni. Queste sono tutte caratteristiche su cui né il maestro né l’imitatore pongono la loro attenzione nel realizzarli: sono gesti spontanei, piccoli particolari che sfuggono alla volon-

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02. Illustrazione tratta da “Della pittura italiana” di Giovanni Morelli. Milano, Fratelli Treves, 1897

03. “Della pittura italiana” di Giovanni Morelli. Milano, Fratelli Treves, 1897

per identificare la vera mano di un maestro non occorre incentrarsi sullo stile dell’artista tà dell’esecutore e sono proprio queste “minuzie che tradiscono la presenza di un dato artista, come un criminale viene tradito dalle impronte digitali” (Wind, 1986, p.63). Morelli ha dimostrato come la linea di confine tra il “vero” e il “falso” sia molto sottile; ma non solo, egli attraverso il suo sistema ha provocato una rivoluzione nel mondo dell’arte: grazie al suo metodo cinquantasei quadri cambiarono attribuzione nel solo museo di Dresda (Wind, 1986, p.60). Anche Han Van Meegeren, pittore olandese e grande falsario delle opere di Jan Vermeer, fece la sua rivoluzione. Nel 1945 Meegeren fu arrestato, in seguito alla denuncia di collaborazionismo con i nazisti al tempo dell’occupazione tedesca, con l’accusa di avere venduto delle opere d’arte olandesi, tra cui il Cristo e l’adultera, al gerarca nazista Herman Göering. A quel punto Meegeren dovette autoaccusarsi dichiarando di aver venduto un Vermeer a Göering era vero, ma che il quadro era stato falsificato da lui stesso. Oltre a ciò aggiunse di aver falsificato altri quattordici qua-

dri del Seicento, tra cui la famosa Cena di Emmaus. Nessuno credeva alla sua dichiarazione, così Meegeren si propose di dipingere un nuovo Vermeer; in questo modo egli avrebbe fornito alla polizia tutte le prove e l’accusa di collaborazionismo sarebbe decaduta2. La polizia diede tutto il materiale necessario al pittore e furono chiamati degli esperti a seguire la vicenda. Il risultato fu la creazione di un Cristo tra i dottori. In quel momento non ci furono più dubbi sulla sua confessione e iniziarono le verifiche su tutte le opere che egli aveva contraffatto. Se non fosse stato arrestato, nessuno avrebbe scoperto i quadri falsificati perché Meegeren non commise mai l’errore di copiare e di vendere dipinti già esistenti, ma creava nuovi quadri, usando la stessa tecnica e lo stesso stile, interpretando le opere: si era immedesimato, identificandosi perfettamente con la sensibilità pittorica e creativa di Vermeer, creando così dei falsi senza originale. Il motivo scatenate delle sue falsificazioni era, come lui stesso dichiarò, la sua vendetta contro il mondo dell’arte: “ora ho

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IMITAZIONE


04. Han Van Meegeren mentre dipinge il Cristo tra i dottori (1945). Koos Raucamp - Anefo (National Archief NL)

provato che sono un artista dotato, e che i critici d’arte mi hanno malgiudicato e danneggiato nella professione. Quegli stessi critici, infatti, hanno esaltato le mie opere fatte nello stile del sec. XVII e le hanno considerate di un maestro dell’altezza di Vermeer” (Kurtz, 1996, p. 84). In Francia, tra gli anni Sessanta e Settanta, c’è chi ha messo in crisi tutta Europa e la First National City Bank, la banca più potente degli Stati Uniti d’America, attraverso la falsificazione. È il caso di Lucio Urtubia: anarchico, muratore, falsificatore di assegni, travellers cheques, passaporti, documenti e soldi, per un fine politico. I soldi, infatti, non erano utilizzati per arricchire Urtubia, ma servivano per la “causa”, per aiutare “i compagni che soffrivano sotto il regime di Franco” e per permettere a più persone di vivere più sicure, per pagare avvocati, per comprare macchinari e automobili. Invece, la falsificazione dei travellers cheques avrebbe avuto lo scopo di destabilizzare il sistema finanziario perché, secondo lui, i veri ladri erano le banche, “dei ladri legalizzati

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Meegeren non commise mai l’errore di copiare e vendere dipinti già esistenti, ma creava nuovi quadri


05. Lucio Urtubia. Collage Letizia Goretti

protetti dalla legge e dallo Stato”. Secondo le dichiarazioni degli esperti bancari, egli è stato capace di riprodurre alla perfezione gli assegni e i travellers cheques falsi. Non solo esteticamente erano impeccabili, ma perfino il numero di serie era nuovo: Urtubia prendeva il numero dai veri carnet che acquistava e ne creava le copie ripetendo il numero di serie che aveva, così quando lui, oppure altri, andavano a ritirare i soldi in banca i travellers cheques non apparivano in nessuna lista (rubati, perduti, ecc.) e passavano i primi controlli. Inoltre, riusciva a incassare i soldi anche dalla stampa di buste paga false: creava dei lavoratori immaginari e forniva loro un’identità attraverso dei documenti falsi; successivamente, con la busta paga e il documento, andava in banca o all’ufficio postale e incassava il denaro. Lucio Urtubia attraverso la sua militanza e la falsificazione voleva nuocere al sistema politico-economico, aiutare la gente a riappropriarsi della propria vita, della libertà e ristabilire un po’ di equilibrio nel mondo. Nel 1975, in Italia scoppiò invece il “caso Censor”; furono stampati e spediti a ministri, parlamentari, industriali, sindacalisti e giornalisti, 520 esemplari del Rapporto Veridico sulle ultime opportunità di salvare il capitalismo in Italia, scritto da Censor, alias Gianfranco Sanguinetti. Censor, pseudo borghese, di elevata cultura e una grande conoscenza dell’economia e della politica, decise di scendere in campo, scrivendo questo pamphlet, per accorrere in soccorso del capitalismo e della borghesia. Tuttavia, dietro l’apparente aiuto si celava la falsa verità: Censor non esisteva ed era “l’immagine rovesciata, come in uno specchio, della rivoluzione italiana” (Sanguinetti, 1976, p. 23). L’uso dello pseudonimo non era dato soltanto dal bisogno di nascondere la vera identità dell’autore ma celava al suo interno la creazione di un personaggio inesistente, l’invenzione di un falso per rivelare a sua volta la falsità del potere e di tutte le persone che gli ruotano intorno e per nuocere al capitalismo stesso. Rapporto Veridico si compone di centotrentanove pagine, in cui l’autore fa un’analisi della situa06. Articoli apparsi dopo la pubblicazione del pamphlet Rapporto Veridico. Collage Letizia Goretti

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IMITAZIONE


l’immagine rovesciata, come in uno specchio, della rivoluzione italiana

07. Ritratto del senatore Giovanni Morelli. Franz Von Lenbach, Accademia di Carrara

zione politica ed economica italiana, della sua crisi, facendo riferimento soprattutto agli anni tra il 1968 e il 1975. Il pamphlet contiene delle verità ovvie, ma allo stesso tempo crudeli e agghiaccianti, sulla società, sulla politica, sul terrorismo e altro ancora riferito a quel periodo storico. Sanguinetti voleva dimostrare, tramite “l’operazione Censor”, come la casta al potere volesse salvare a “qualunque costo” il capitalismo, e al tempo stesso egli intendeva smascherare i giochi di potere che imperversavano nella società contro il proletariato. Inoltre, la necessità di avere al proprio fianco un borghese così “lucido” e “cinico”, “perfetto”, con tutte le qualità che le mancavano – sincerità, razionalità, cultura, ecc. - ha fatto sì che la borghesia credesse con tanta facilità nella sua esistenza. Tutti avevano creduto in Censor3, finché Gianfranco Sanguinetti, nel gennaio 1976, fece stampare Prove dell’inesistenza di Censor enunciate dal suo autore, attraverso il quale mostrava come Censor era soltanto una rappresentazione immaginaria di una borghesia che non esisteva più da tempo e di come “i proprietari dello spettacolo sociale” erano stati anch’essi vittime delle apparenze (Sanguinetti, 1976, pp. 5-7). Qual è il legame tra questi personaggi? Nelle vicende sopra descritte ci sono numerose connessioni: la contraffazione di opere, la creazione d’identità fittizie, l’utilizzo della falsificazione come strumento di denuncia. Questi episodi, nel complesso, possono essere considerati tutti come un “gesto artistico”, dietro il quale si nasconde un “gesto rivoluzionario”. L’arte è un atto creativo ed è rivoluzionaria, quando possiede “il suo pungiglione” (Wind, 1986, p.26) e non è distaccata dalla realtà, pur mantenendo la sua sfera di ambiguità, poiché l’arte, pura essenza d’illusione, ci ridona la vista, permette a noi di vedere oltre la mera apparenza, grazie alla sua forza sovversiva; ma anche la falsificazione può liberare le verità nascoste. Nel libro La società dello spettacolo Guy Debord scrisse: “nel mondo realmente rovesciato, la verità è un momento del falso” (Debord, 2008, p.55).

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E la falsificazione, a sostegno della verità, è stata uno dei maggiori strumenti di dimostrazione e di lotta politica di Gianfranco Sanguinetti e di Lucio Urtubia, così come lo è stata per Han Van Meegeren.* NOTE 1 - Gli articoli furono pubblicati sulla rivista “Zeitschrift für bildende Kunst” tra il 1874 e il 1876 (Ginzburg, 1986, p.164). 2 - La polizia pensava che Meegeren stesse mentendo per salvarsi dall’accusa di collaborazionismo: la pena sarebbe stata molto più dura rispetto a una condanna per falsificazione (Dalla Vigna, 1987, p.89). 3 - In quel periodo le più importanti testate italiane pubblicarono numerosi articoli sul “caso Censor”. BIBLIOGRAFIA - Censor, “Rapporto Veridico sulle ultime opportunità di salvare il capitalismo in Italia”, Mursia, Milano, 1975. - Dalla Vigna P., “L’opera d’arte nell’età della falsificazione”, Mimesis, Milano, 1987. - Debord E.G., “La società dello spettacolo”, Baldini Castoldi Dalai, Milano, 2008. - Ginzburg C., “Miti emblemi spie. Morfologia e storia”, Giulio Einaudi Editore, Torino, 1986. - Kurz O., “Falsi e Falsari”, Neri Pozza Editore, Vicenza, 1996. - Sanguinetti G., “Prove dell’inesistenza di Censor enunciate dal suo autore”, s.e., Milano, 1976. - Wind E., “Arte e anarchia”, Adelphi Edizioni, Milano, 1986. FILMOGRAFIA - Arregi A., Goenaga J.M., “Lucio. Anarquista, atracador, falsificator, pero sobre todo… albañil”, documentario, 2007.

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a cura di Stefania Mangini

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Venezia è unica, ma nel mondo ce ne sono più di altre cento. Se è vero che l’originale ha un valore inestimabile le sue copie sparse nel mondo, con tanto di Campanile di S. Marco e Ponte di Rialto, non sono certo da meno con milioni di visitatori annui e fatturati da capogiro. Secondo il rapporto del MiSE 2018 il mercato del falso in Italia ha un giro d’affari tutt’altro che trascurabile che supera i 7 miliardi di Euro e ciò non è vero solo per le opere d’arte ma anche per beni e merci di quotidiano consumo.

11,3 16 2%

Il valore del falso

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abbigliamento, accessori e calzature FATTURATO DELLA CONTRAFFAZIONE IN ITALIA PER CATEGORIA MERCEOLOGICA FONTE: Il valore economico e l'impatto fiscale della contraffazione in Italia RAPPORTO MISE - CENSIS, 2018 VALORE IN MILIONI DI EURO

IL MADE IN ITALY CONTRAFFATTO PAESI DI PROVENIENZA FONTE: Il commercio di beni contraffatti e l’economia Italiana: Tutelare la proprietà intellettuale dell’Italia - OECD, 2018

CAMPANILE DI S. MARCO

96,8 m

34,4 milioni

18 milioni

11,6 milioni VENEZIA ITALIA

NUMERO DI “VENEZIE” NEL MONDO FONTE: Moltedo G., Welcome to Venice, Consorzio Venezia Nuova: Venezia, 2007

THE VENETIAN RESORT LAS VEGAS

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12,2 milioni

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4.17 FONTI: Il valore economico e l'impatto 9M fiscale della contraffazione in Italia ILIO Rapporto MiSE - Censis, 2018 1.75 NI DI 5M EU ILIO RO NI - IM DI EU RO -

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EVERLAND COREA DEL SUD

Costa Rica

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AMERICA DEL NORD OFFICINA* N.25

Colombia

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Ecuador

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AMERICA DEL SUD

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Margherita Ferrari Dottore di ricerca in Tecnologia dell’architettura. margheritaf@iuav.it

utto è iniziato con la neve, o con un cane, a ciascuno il proprio punto di vista. Superato il traforo del Gran San Bernardo si giunge ufficialmente in Svizzera. Si prende la strada per Losanna e si costeggia la sponda orientale del lago Lemano, lasciandosi alle spalle le cime più alte, bianche. Ma prima di arrivare in città, ci si ferma a Corseaux, la prima tappa del viaggio studio svoltosi in Svizzera e in Austria nell’Aprile 2019, promosso dalla prof.ssa Valeria Tatano dell’Università Iuav di Venezia, con il sostegno di Pro Viaggi Architettura e rivolto agli studenti universitari. Architetture che finora per molti erano state solo sfogliate sui libri, hanno assunto una dimensione reale e una proporzione con il proprio contesto, dai paesaggi urbani dei centri storici come Zurigo e Losanna, a quelli più rurali come quello di Haldenstein. Il lago Lemano e le Alpi sono infatti una spettacolare quinta scenica per Villa Le Lac a Corseaux, più conosciuta come La Petit Maison: e proprio in questa piccola dimora lo scatto fotografico di Lou NavenotCheynier vuole cogliere questa relazione, tra l’intimità dell’abitazione e il paesaggio, su scale differenti capaci di risaltarsi l’una con l’altra. Il portfolio di questo numero è risultato del concorso fotografico organizzato in occasione del viaggio, che raccoglie non solo soggetti differenti, ma soprattutto sguardi molto diversi l’uno dall’altro. Il racconto pertanto non va letto solamente attraverso i diversi soggetti, ma ponendosi nello sguardo dell’autore della foto: chi ha voluto risaltare la dimensione dell’edificio, nella sua interezza; chi ha voluto leggerne la forma, a volte tagliente, a volte sinuosa, offuscando il limite con il paesaggio circostante; chi invece ha preferito scrutare le superfici attraverso la luce, capace di risaltare la materialità. Scatti che ci fanno percepire una dimensione

a cui magari non diamo spesso attenzione, attraverso i quali continuare a imparare a guardare l’architettura.* It all started with snow, or with a dog, to each one’s own point of view. Once past the Gran San Bernardo tunnel, it officially reaches Switzerland. Take the road to Lausanne and follow the eastern shore of Lake Geneva, leaving behind the highest peaks. But before arriving in the city, we stop in Corseaux, the first stage of the study trip held in Switzerland and Austria in April 2019, promoted by Prof. Valeria Tatano of the Iuav University of Venice, with the support of Pro Viaggi Architecture is aimed at university students. Architectures that up to now had only been browsed in books for many, have taken on a real dimension and a proportion with their own context, from the urban landscapes of historical centers such as Zurich and Lausanne, to the more rural ones like that of Haldenstein. Lake Geneva and the Alps are in fact a spectacular scenic backdrop for Villa Le Lac in Corseaux, better known as La Petit Maison. Precisely in this small residence the photographic shot by Lou Navenot-Cheynier wants to capture this relationship, between the intimacy of the house and landscape, on different scales that are able to stand out one with the other. The portfolio of this issue is the result of the photographic competition organized on the occasion of the trip, which brings together not only different subjects, but above all looks very different from one another. Therefore, the story should not be read only through the different subjects, but placing itself in the eyes of the author of the photo: who wanted to emphasize the size of the building, in its entirety; who wanted to read the shape, sometimes sharp, sometimes sinuous, obscuring the limit with the surrounding landscape; those who instead preferred to scrutinize surfaces through light, capable of highlighting materiality. Shots that make us perceive a dimension that we may not often pay attention to, through which we continue to learn to look at architecture.*

01. L’architettura industriale del negozio della nota azienda Freitag rispecchia lo stile dei suoi prodotti, ma pur mantenendo uno stile grezzo si è ricavato un oggetto architettonico che si insedia perfettamente nel luogo di ubicazione spiccando per i colori dei vari container sovrapposti. Freiteg Tower, Zurich. Matteo Grifalconi


Scale


02. Le montagne svizzere descrivono dei piani naturali: a questi si aggiungono due piani composti da elementi architettonici. Questi si aprono sul paesaggio: sono al servizio del paesaggio, rivelano il paesaggio. Villa Le Lac, Corseaux. Lou Navenot-Cheynier




03, 04. Nell’estensione del Bündner Kunstmuseum, il moderno e l’antico si confrontano attraverso un dialogo continuo, fatto di contrapposizioni e somiglianze. Il loro punto d’incontro sono gli elementi del moderno, inconcepibili senza il vecchio. La foto rappresenta nel nuovo le opposizioni (luce/ombra) che riescono a definire qualcosa di unitario (forma e percorso), così come il nuovo e il vecchio riescono poi a creare un equilibrio unico. Bündner Kunstmuseum, Zurich. Anna Calligaris 05. Kunsthaus, Bregenz, Peter Zumthor, 1997. Ludovico Cancian


06. Il rigiro della copertura. Under One Roof, Losanna, Kengo Kuma. Eniana Baruti 07. Barozzi Veiga. Oggi l’architettura è fissata sull’immagine del progetto, viste, prospettive: l’architettura però va pensata nel suo contesto reale. L’interno di ciascun edificio riproduce un’atmosfera, che deve necessariamente essere vissuta per essere compresa. L’esterno invece racconta una relazione e la sua foto vuole invitare lo spettatore a visitare quel luogo. Lou Jeandel 08. La grande roccia posizionata davanti alla torre ci regala un collage di natura e artificio. Un mosaico di tasselli di cielo incastonati nella pietra color sabbia, alternati a oscuranti dai toni naturali. Renaissance Zurich Tower Hotel. Arianna Chistè


09. Architetto. Colui che esercita l’architettura, che è l’arte dell’inventare, e disporre, le forme degli edifici [Latino: architectus]. L’architetto pensa tecnicamente e risolve i temi concreti che gli vengono proposti coi mezzi e coi procedimenti che sono a sua disposizione, e con le sue conoscenze dà forma d’Arte agli spazi armonici e alle superfici. Chiara Farioli


10. L’architetto mette in mostra la materia, le sue finiture, lo schema rigoroso. In questa foto ho voluto mettere in risalto queste sue caratteristiche e allo stesso tempo “rompere” la geometria con un elemento naturale che entra nella foto senza disturbo. Atelier Peter Zumthor, Coira. Melissa Mischi 11. Spazio dinamico da percorrere ed esplorare. Lo stupore deriva dall’incontro di diverse situazioni generate dallo spazio. Rolex Learning Center, Losanna. Alberto Curti


12. La grande facciata in vetro che porta al suo interno un’illuminazione naturale va a creare insieme al calcestruzzo e alla pavimentazione un senso di armonia, essi possono assumere qualità poetiche. L’ edificio nonostante le quattro facciate completamente rivestite in vetro, una volta all’interno esprime un senso di forza e resistenza. Peter Zumthor è riuscito a creare qualcosa che lascia senza fiato, e la cura per il dettaglio è impeccabile. Fonte di grande ispirazione. Kunsthaus, Bregenz. Fabio Costantini 13. Finestre. Paul Klee Zentrum, Berna. Nicola Cappellari


Alberta Menegaldo Project coordinator presso Fablab Venezia. alberta@fablabvenezia.org

Copie su misura

Oltre la riproduzione di massa, i nuovi valori culturali della copia digitale ovanta centimetri di diametro, venti chili di peso, bioplastica e finiture adeguate: il Capitello dei Mestieri, elemento decorativo alla sommità della quarta colonna di Palazzo Ducale è fedelmente riprodotto in scala minore, foglie d’acanto e figure antropomorfe al lavoro pronte per essere staccate e riassemblate, grazie a calamite, dai piccoli visitatori del museo (img. 02). L’intera Stele di Rosetta, dimensioni naturali, 6 kg di peso circa, sulla plastica scura spicca la riproduzione delle scritte incise, segni accuratamente riprodotti e campiti di bianco. Oggetti analoghi, copie fedeli di manufatti talvolta distrutti, talvolta difficilmente accessibili o manipolabili. C’è un nuovo modo di intendere il fare, supportato dalla democratizzazione di strumenti e tecnologie, una nuova manifattura si fa strada al fianco dei consueti modelli produttivi, suggerendo possibilità e scenari, ci suggerisce la possibilità di una modalità di esistere come copia che non svaluti implicitamente la propria condizione d’essere e non rimandi a presunzioni di falsità e mistificazione o a negazioni del suo valore come oggetto fisico. Gli ultimi dieci anni han-

Fablab Venezia via delle Industrie 9, Marghera info@fablabvenezia.org www.fablabvenezia.org 01. Stampante 3D a tecnologia FFF, prototipazione. Fablab Venezia

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IN PRODUZIONE


un nuovo modo di intendere il fare, grazie alla democratizzazione di strumenti e tecnologie, una nuova manifattura si fa strada accanto ai consueti modelli produttivi no visto una diffusione sempre più capillare e democratica di tecnologie e strumenti che fanno riferimento al mondo della produzione a controllo numerico e del digitale. Dotazioni e macchinari che erano prerogativa della grande manifattura sono arrivati sulle scrivanie di coloro che erano fino a quel momento solo consumatori; a beneficiarne sono il grande pubblico e il mondo dell’università e della ricerca, che inizia ad indagare su materiali e usi non convenzionali dei macchinari a controllo numerico. I fablab sono nati all’interno di questa rivoluzione della manifattura e sono espressione esemplare dei vantaggi legati a una produzione non più di massa ma su misura, tailor made e personalizzabile. La manifattura additiva a basso costo gioca un ruolo cruciale nel panorama delle nuove modalità produttive, per un ampio spettro di esigenze (img. 01). La stampa 3D ha iniziato a svicolarsi dal ruolo esclusivo di strumento di prototipazione in senso stretto per esigenze manifatturiere industriali, abbracciando nuovi orizzonti creativi e significati culturali. La sua sinergia con un altro strumento dalla crescente diffusione, la scansione tridimensionale, introduce una serie di ulteriori modalità di creare oggetti che dialogano strettamente con il tema della copia. Si rende possibile il passaggio non solo da virtuale a reale, proprio della stampa 3D, ma anche

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02. Il Capitello dei Mestieri, riproduzione in stampa 3D. Fablab Venezia

il percorso da reale a virtuale a reale nuovamente, attraverso il processo di reverse engineering1 (img. 03). La replica costituisce allora l’espressione principe, ma anche il tratto di novità, di questo dialogo tecnologico: se da una parte con un gesto è possibile tradurre un file digitale in uno, o mille, oggetti fisici tridimensionali uguali, dall’altra il piccolo costo di attivazione del processo lo rende adatto alla creazione di singoli episodi. Quasi a creare un ossimoro, diventa ora semplice realizzare copie uniche, che partono da un manufatto originale e lo traducono in un oggetto simile a se stesso ma dalle nuove valenze funzionali ed estetiche.

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La copia si trova in un dialogo diretto con l’originale facendosi carico di significati e funzionalità che ne designano le moderne possibilità legate alla documentazione e alla fruizione. Una nuova esperienza dell’oggetto prevede un approccio più dinamico. Possiamo forse osare l’attuazione di una nuova aura, propria della copia, che si sostanzia nella specifica funzione per la quale essa è stata concepita, mentre l’aura del manufatto originale risulta parzialmente tradita dalla decontestualizzazione museale. Ed è nei musei che si celebra la massima espressione della virtualizzazione di copie in potenza: gli archivi digitali, recentemente istituiti in più di un


03. Scanner 3D a luce strutturata. Fablab Venezia

con un gesto è possibile tradurre un file digitale in uno, o mille, oggetti fisici tridimensionali uguali, ma il piccolo costo di attivazione del processo lo rende adatto anche alla creazione di singoli manufatti

polo culturale, si fanno depositari di migliaia di oggetti non reali, fedeli riproduzioni cui si demanda il compito di tramandare e diffondere. Abituati a considerare gli oggetti di valore come testimoni eterni, dimentichiamo che nessun manufatto può esimersi dall’essere soggetto al passare del tempo. I valori di verità della copia si esprimono ora nelle sue valenze didattiche e culturali. Il Capitello dei Mestieri, “plastificato”, è ora di supporto per le attività formative dei Musei Civici Veneziani: i giovani visitatori possono disassemblarlo e ricomporlo per comprendere le fasi di realizzazione e le modalità di unione delle figure. La Stele di Rosetta, non nuova alle copie, grazie al suo alter ego stampato in 3D ha potuto essere presente a Udine ed essere toccata con mano (img. 04). Ma d’altro canto, se l’originale è parte della collezione del British Museum, il museo del Cairo, che ha provato a reclamarne la restituzione, espone ai visitatori una copia. La Stele è prota-

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gonista in altre innumerevoli repliche, ed è attualmente scaricabile come modello tridimensionale da acquistare e riprodurre con la propria stampante 3D da scrivania2. Al di là della mercificazione e “gadgetizzazione” delle opere, fenomeno che non presenta tratti di novità, la diffusione delle tecnologie di fabbricazione digitale apporta nuovi contributi al tema del dialogo tra originale e copia, democratizzando drasticamente le possibilità di riproduzione ma introducendo anche la questione determinante della completa personalizzazione come nuova unicità. La copia non necessariamente assume valore nella sua quanto più precisa rispondenza all’originale di riferimento bensì, graficamente, nella sua capacità di interpretarlo evidenziando le valenze specifiche per cui è nata, evitando una mimica tout court e riconoscendo per differenza il simbolismo dell’oggetto primigenio. La copia non solo per tramandare e preservare, ma anche per riconoscere,

IN PRODUZIONE


04. La Stele di Rosetta, riproduzione in stampa 3D. Fablab Venezia

esemplificare, interpretare. Potrà capitare poi che di fronte a Le Nozze di Cana in San Giorgio Maggiore ci si possa sorprendere nello scoprire che le corpose pennellate e i sottili segni del tempo sono in realtà frutto di un’esatta riproduzione del Veronese originale, conservato al Louvre, al quale sottrae l’onore di trovarsi esattamente nel luogo per il quale era stato pensato, ma anche in questo caso sarà chiaro didatticamente, ed emotivamente, il senso della copia e specularmente dell’originale “tradito”3.*

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la fabbricazione digitale apporta nuovi contributi al dialogo tra originale e copia, democratizzando drasticamente le possibilità di riproduzione ma introducendo la completa personalizzazione come nuova unicità

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NOTE 1- Si intende qui per reverse engineering il processo di traduzione di un oggetto fisico in modello digitale, attraverso l’acquisizione delle superfici tramite scansione 3D, con lo scopo di riprodurre nuovamente l’oggetto stesso, eventualmente migliorandolo o aumentandone l’efficienza, o per creare un secondo oggetto in grado di interfacciarsi con l’originale. 2 - Gli stessi musei e istituzioni culturali si sono fatti promotori della diffusione dei modelli virtuali di manufatti storici e artistici, il British Museum, in prima linea in questo senso, ha parallelamente intrapreso una robusta azione di scansione e digitalizzazione del suo patrimonio per la creazione di un archivio virtuale. Il modello della Stele è scaricabile al sito: www.sketchfab. com/models. 3 - La raffigurazione del dipinto Le nozze di Cana attualmente presente all’interno del Refettorio nell’Isola di San Giorgio Maggiore è una meticolosa riproduzione dell’originale, realizzata dal laboratorio spagnolo Factum Arte attraverso sistemi avanzati di scansione tridimensionale, che hanno reso possibile la copia particolareggiata dei colori ma anche dei rilievi materici della pittura originale. BIBLIOGRAFIA - Benjamin W., “L’ opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica”, Einaudi, Torino, 2014. - Brendan C., Thom D. (a cura di), “A world of fragile parts”, La Biennale di Venezia, the Victoria and Albert Museum, 2016. - Gershenfeld N., “How to make almost anything”, in “Foreign Affairs”, novembre/dicembre 2012. - Latour B., Lowe A., “The migration of the aura or how to explore the original through its fac similes”, in “Switching Codes”, University of Chicago Press, 2010. www.bruno-latour.fr/sites/default/files/108-ADAMFACSIMILES-GB.pdf (presa visione 06.11.2018).



L’immagine dell’architettura oggi L’uso del digitale nella rappresentazione dell’architettura contemporanea

Monica Manicone Architetto, PhD in Composizione Architettonica e Urbana, Sapienza Università di Roma. monica.manicone@gmail.com

Jan van Eyck, Ritratto dei coniugi Arnolfini, 1434, National Gallery, Londra (dettaglio). CC0

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La fotografia, al pari di un racconto, non rivela mai una verità assoluta ma una sua interpretazione. L’obiettivo della macchina fotografica inquadra un oggetto che esiste nella realtà ma è l’occhio del fotografo a decidere il punto di vista, il taglio della inquadratura, la luce più adatta per lo scatto. Ai nostri giorni l’attendibilità della fotografia – determinante nel fotogiornalismo – è una questione relativa nel campo artistico, in cui la valenza è autonoma rispetto al suo soggetto. In architettura la veridicità di una fotografia è condizionata anche dal tipo di committenza. Con buona probabilità un lavoro fotografico commissionato da un architetto tenderà a mettere in risalto aspetti diversi di un oggetto architettonico rispetto a un servizio richiesto da una società di compravendita immobiliare. Altra cosa, invece, se la fotografia è destinata alla comunicazione e divulgazione dell’architettura attraverso il web. Le numerose riviste on line di settore, in genere, tendono a proporre fotografie di architettura in cui lo sguardo del fotografo viene quasi annullato, finendo per risultare asettiche. Un altro argomento al quale fare cenno riguardo l’autenticità nella fotografia di architettura è la possibilità di modificare le immagini, aumentata e semplificata dall’uso del digitale. La postproduzione fotografica esiste da quando esiste la stessa fotografia ma oggi una serie di programmi specifici consentono di apportare modifiche alle immagini in pochi passaggi. La fotografia descrive l’architettura realizzata, così come la modellazione digitale tridimensionale è diventata irrinunciabile nella rappresentazione dell’architettura da realizzare. I rendering fotorealistici, grazie al progresso della computer grafica, riproducono immagini sempre più simili a una fotografia, restituendo qualcosa che ancora non esiste. Da un lato questo aiuta la prefigurazione di uno spazio architettonico, soprattutto quando il destinatario è il cliente, dall’altro c’è il rischio che il tentativo di ottenere risultati sempre più realistici si riduca a una sfida tecnologica più che diventare una vera innovazione nella comunicazione del progetto. È interessante notare che, mentre nella fotografia d’architettura le persone sono quasi sempre assenti, i rendering sono molto spesso sovrappopolati da personaggi intenti nelle più disparate attività. Probabilmente, mentre in fotografia è noto che la presenza di

BIBLIOGRAFIA Freund G., “Fotografia e società”, Einaudi, Torino, 1976. Partenope R., “La casa è la città”, Iiriti, Reggio Calabria, 2009. Purini F., “La misura italiana dell’architettura”, Bari, Laterza, 2008. Purini F., “Scrivere architettura: alcuni temi sui quali abbiamo dovuto cambiare idea”, Prospettive, Roma, 2012. Sontag S., “Sulla fotografia. Realtà e immagine nella nostra società”, Einaudi, Torino, 1978.

una persona può cambiare il soggetto della composizione, nella grafica digitale questa consapevolezza è sostituita dall’ostinato tentativo di simulare la realtà. Come però accadrebbe per la fotografia, la presenza di persone distoglie l’attenzione di chi osserva dal vero soggetto, lo spazio architettonico. Talvolta ci si trova davanti a immagini completamente realizzate in 3D che sono strabilianti dal punto di vista tecnologico ma rappresentano architetture che non possiedono nulla di interessante. In altro modo può accadere che un rendering prefiguri una architettura che una volta realizzata non corrisponde alla idea che ci si era fatti tramite la simulazione. Entrambi i casi indicano come l’immagine si faccia carico di significati che hanno poco a che fare con la realtà fisica dell’edificio, quanto, piuttosto, con il suo simulacro, rivolto al circuito mediatico. Questo rischia, però, di tradire l’obbiettivo principale dell’architettura, che è quello di trasformare la città e il territorio, indirizzandolo verso una spettacolarità destinata ad essere più illusoria e temporanea.*



Interfacce oltre lo schermo Modalità d’interazione per nuove esperienze digitali

Sara Codarin Dottoranda IDAUP presso il Dipartimento di Architettura dell’Università degli Studi di Ferrara. cdrsra@unife.it

Gian Andrea Giacobone Dottorando IDAUP presso il Dipartimento di Architettura dell’Università degli Studi di Ferrara. gcbgnd@unife.it

Memodo è uno strumento di comando per ambienti intelligenti che utilizza oggetti fisici (denominati totem) per interagire con il contesto. Gabor Balint

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La maggior parte delle interazioni con prodotti elettronici attualmente sono mediate da un’interfaccia a schermo GUI (Graphical User Interface), la quale permette d’interagire con il sistema attraverso rappresentazioni grafiche che simulano i criteri fisico-analogici della realtà (Moggridge, 2007). Lo sviluppo del modello ha portato, nel tempo, a una nuova soluzione più intuitiva denominata NUI (Natural User Interface). Essa rimuove la necessità di mouse o tastiere e traduce l’interazione in semplici azioni fisiche che avvengono direttamente su uno schermo touchscreen, i cui contenuti possono essere manipolati con i gesti delle dita. Infatti, sfruttando le più comuni abilità umane – già acquisite attraverso la relazione col mondo – tali azioni abbassano il carico cognitivo e di conseguenza l’esperienza diventa più istantanea rispetto alla precedente (Blake, 2011). L’oggetto che di più abbraccia il modello NUI è lo smartphone, il quale, grazie alla naturalezza dell’interazione, è oggigiorno uno strumento diffuso per il controllo di molti artefatti elettronici. Tuttavia, sebbene il binomio device e interfaccia sia oramai uno standard per la progettazione di molti servizi o prodotti intelligenti, la complessità racchiusa nelle loro relazioni, fa si che anche la NUI diventi limitante. Ciò avviene in quanto la NUI è legata pressoché ad applicazioni virtuali, le quali richiedono tempo d’apprendimento, convenzioni, procedure arbitrarie e pertanto possono rendere l’interazione innaturale, talvolta macchinosa o persino incomprensibile. Per ovviare a questi inconvenienti, tra le diverse traiettorie progettuali che stanno evolvendo l’interfaccia, troviamo l’approccio NoUI (No User Interface). Tale concetto suggerisce di offrire un’esperienza col sistema il più possibile distaccata dalla mediazione del display, rendendo il “dialogo” con l’utente maggiormente naturale. Lo scopo è quello di minimizzare, o addirittura rendere invisibile l’interfaccia tramite tre semplici principi, quali: progettare sui comportamenti umani; sfruttare la tecnologia adeguandola alle condizioni dell’uomo e non viceversa; adattare i sistemi in base agli utenti (Krishna, 2015). Il pagamento digitale contactless, lo Smart Lock di August o il Hands Free Lifgate di Ford1, sono alcuni buoni casi studio per capire come attuare il primo principio, in quanto l’uso di azioni quotidiane o gesti semplici (come pagare o aprire una porta) possono

BIBLIOGRAFIA - Anceschi G., “Il progetto delle interfacce. Oggetti colloquiali e protesi virtuali”, Domus Academy, Milano, 1993. - Blake J., “Natural User Interfaces in .NET”, Manning Publications, Shelter Island, 2011. - Krishna G., “The best interface is no interface”, New Riders, Berkeley, 2015. - Maeda J., “The Laws of Simplicity”, MIT Press, Cambridge, 2006. - Moggridge B., “Designing Interactions”, MIT Press, Cambridge, 2007.

NOTE 1 – Smart Lock è una serratura domestica che consente l’apertura automatica della porta, identificando la persona tramite radiofrequenze. Mentre Hands Free Lifgate utilizza un sensore di prossimità per il sollevamento automatico del bagagliaio tramite il piede e senza la necessità di utilizzare la chiave di accensione.

nascondere la complessità dei sistemi dietro a un’interfaccia trasparente. Mentre, un esempio che abbraccia il secondo principio è senz’altro la VUI (Voice User Interface), perché la scelta odierna di porre in alcuni sistemi degli assistenti vocali, risulta un modo efficace di rendere la tecnologia naturale e adatta all’uomo. Pertanto, il nostro linguaggio diventa la principale interfaccia, mentre l’interazione con il sistema si nasconde attraverso una semplice conversazione. Infine, l’ultimo principio è rappresentato da Memodo, un concept di progetto per ambienti intelligenti. Grazie a una TUI (Tangible User Interface) il sistema può essere adattato alle preferenze degli utenti, associando le varie configurazioni personali a oggetti fisici, denominati totem. In questo caso, l’interfaccia diventa screenless e ogni specifico oggetto a contatto col sistema permette di manipolare l’ambiente domestico, attraverso un’esperienza naturale e tangibile. Per concludere, lo sviluppo odierno del modello NoUI denota come diversi approcci progettuali possono offrire nuove forme d’interazione che prediligono un “dialogo” trasparente e adatto all’uomo, creando al contempo esperienze basate su logiche reali e senza necessità d’intermediazioni tipiche dello schermo.*


Chiara Boccingher Architetto, Laurea in Architettura per il Nuovo e l’Antico, Università Iuav di Venezia. ch.boccingher@gmail.com

Francesca Giudetti Architetto, Ricercatore presso Post-Master “The Berlage”, TU Delft. giudettifrancesca@gmail.com

01. I resti delle mura e del tempietto centrale del Lazzaretto di Verona. Chiara Boccingher, Francesca Giudetti

gni oggetto, ogni edificio, ogni luogo ha un’intima stratigrafia e una solida identità. Accanto a questi luoghi autentici, “pallide imitazioni” e non-luoghi sembrano spopolare nella società odierna. L’interrogativo ricorrente diviene pertanto: come distinguere un originale da una imitazione? L’oggetto di questa riflessione è il Lazzaretto di Verona, oggi allo stato di rudere: “Punto fermo nel fluire della corrente, ancora per l’energia centrifuga del fiume, dolce invito alla contemplazione, e ad un nuovo ritmo, più naturale del vivere”1 (Settis, 2010). Passeggiare tra queste rovine regala la stessa melanconica contemplazione che provava il Piranesi davanti alle parlanti ruine delle antichità romane. Il Lazzaretto veronese è stato per secoli definito come una delle costruzioni più pregevoli del Cinquecento italiano, costruito per volere della Serenissima e completato appena in tempo per offrire servizio durante la peste del 1629-30. Si susseguirono lunghi periodi di abbandono intervallati dall’occupazione da parte di milizie, fino a divenire deposito di munizioni; quest’ultimo uso ne causò la sua distruzione nel 1945. Delle esili tracce dell’enorme complesso rettangolare spicca al centro un tempietto circolare (di dubbia paternità sanmicheliana), che in pochi sanno essere in realtà una vivida, concreta imitazione.

Rovine sospese tra storia e imitazione Il caso del Lazzaretto di Verona e del tempietto sanmicheliano

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1. Liberazione dalla sterpaglia che era andata creandosi negli anni di incuria e di abbandono e rilievo dello stato di fatto che si era determinato con il crollo totale dell’edificio.

la vivida realtà del com’era e dov’era Solamente sfogliando i faldoni di documenti conservati presso la Soprintendenza di Verona ci si rende conto che il tempietto è stato ricostruito in occasione delle celebrazioni Sanmicheliane del 1960 per volere dell’arch. Piero Gazzola, il “soprintendente illuminato”, autore di centinaia di restauri monumentali. Gazzola fu protagonista indiscusso nell’elaborazione di una vera e propria strategia per la tutela dei beni architettonici nel secondo Novecento in Italia e all’estero2. Il Lazzaretto va inserito, dunque, in un contesto ben più ampio, quale quello del dialogo post-bellico sul rapporto tra conservazione, valorizzazione e architettura. Numerosissimi articoli e lettere testimoniano l’interesse crescente da parte della popolazione veronese (e non solo), i dubbi e le perplessità sul futuro del complesso monumentale. Come in voga nel periodo postbellico, la ricostruzione del Lazzaretto “ridotto in misero stato”3 prevedeva la pratica codificata nel primo Novecento dell’anastilosi4, del “com’era e dov’era”. Dopo aver scongiurato, difatti, il pericolo che il tempietto fosse spostato dalla riva dell’Adige fino a Roma, nel maggio del 1959 si diede avvio ai lavori di ricostruzione del sito (spesa di lire

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02. Lazzaretto in un sobborgo di Verona, tav. LX, in S. Lodi, Michele Sanmicheli nei disegni di Luigi Trezza. Biblioteca Civica di Verona

800.000)5. Raccomandate e telegrammi comprovano le richieste di finanziamenti per il restauro del Lazzaretto nei confronti della Pubblica Amministrazione. Le fotografie storiche mostrano le fasi del restauro (img. 03): la liberazione dalle superfici infestanti, la rimozione, identificazione e classificazione dei blocchi marmorei, il rinforzo della platea di fondazione e il ricollocamento dei blocchi, la ricostruzione del tempietto fino all’imposta della cupola, compreso il tamburo in muratura e la cornice in pietra a esso terminale. L’intervento di restauro per anastilosi che si è avvalso della ricomposizione di parti originali del Tempietto, ha visto l’utilizzo di materiali non coerenti (come il cemento) con la materia storica e l’aggiunta di nuovi elementi non distinguibili dall’originale. Gli esiti di questo intervento di restauro tradiscono l’autenticità, anche materica, auspicata dal principio. La si potrebbe definire una “Italia anno zero” quella all’indomani della guerra, una nazione che si stava reinventando dalle macerie. Il termine “autenticità”, conseguentemente, assunse un’altra accezione, associata a una volontà spesso politica e ideologica (Fiorani, 2017).

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2. Rimozione di tutti i blocchi marmorei come basi, colonne, capitelli, cornici del I e II ordine, e la loro individuazione e classificazione.

3. Rinforzo della platea di fondazione e inizio dei lavori di collocamento di ciascun pezzo nella sua posizione originaria desunta dallo studio accurato dei rilievi.

4. Sostituzione di una colonna e alcuni pezzi di architrave a chiave non riutilizzabili, previa incisione su ciascuno di questi di un segno convenzionale che permetta il loro riconoscimento in qualsiasi momento.

5. Ricostruzione del tempietto fino all’imposta della cupola, compreso quindi il tamburo in muratura e la cornice di pietra ad esso terminale. 03. Le fasi del restauro del Tempietto 1959. Chiara Boccingher, Francesca Giudetti


il tempietto è garante di un unico equilibrio tra le parti, tra l’intero e le esili tracce superstiti

04. I lavori di restauro, 1959. Archivio fotografico Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio di Verona

05. Il restauro per anastilosi,1959. Archivio fotografico Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio di Verona

All’indomani della guerra, il concetto di “autenticità” era indissolubilmente legato alla costruzione di “falsi antichi”, attraverso la manutenzione e la parziale ricostruzione in situ dei monumenti, la ricollocazione di elementi originali utilizzando tecniche e materiali moderni. Ripristinare le architetture andate distrutte voleva dire ridare loro una impronta di apparente autenticità. Cosa ne sarebbe del Lazzaretto di Verona senza quel restauro? Riusciremmo a decifrarne la stessa silenziosa atmosfera, la stessa aura immobile? L’armonia tra architettura e natura che si respira in questo luogo lo rende un unicum e il Tempietto

centrale, seppure nell’attuale forma imitativa, rende queste rovine parti di un tutto: tempo, terra, luce e silenzio, in un’area, racchiusa dall’ansa del fiume Adige, di grande importanza paesaggistica e naturalistica (Braioni, 2007). Il Lazzaretto è tutt’oggi nascosto, quasi fosse troppo timido per farsi vedere, ma allo stesso modo se ne contempla la bellezza di brandelli di mura, della polvere che il tempo ha disperso nel suo lento scorrere. Eppure oggi, dinanzi ai tre ordini di gradini, non percepiamo l’assenza di quel hic et nunc6 (Benjamin, 1977) che Benjamin tanto declamava e che dovrebbe costituire la base della sua

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autenticità. Oggi, infatti, senza quel tempietto, il Lazzaretto non avrebbe forse quella carica mistica, religiosa e la salvifica bellezza che invece possiede. Quel tempietto è garante di un unico equilibrio tra le parti, tra l’intero e le esili tracce supersiti. La sua non-autenticità si traduce in perdita di valore? Il ritorno a un’origine mitizzata che azzeri il fattore “tempo” è alla base del restauro per anastilosi, del restaurare come reficere. Ricostruire le opere architettoniche del passato equivale ad accettare incondizionatamente la nostra storia, anche quella tragica segnata da distruzioni. È giusto, dunque, parlare di originali-

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tà e imitazione in questo caso? Sì, il Tempietto è una imitazione non fedelissima, ma che permette oggi di leggerne la storia del suo passato. Marguerite Yourcenar scriveva nel suo Memorie di Adriano: “Non c’è nulla di più fragile dell’equilibrio dei bei luoghi [...] ma il minimo restauro imprudente inflitto alle pietre [...] crea l’irreparabile. La bellezza si allontana; l’autenticità pure”7. Nel caso del Lazzaretto veronese la bellezza permane e per proprietà transitiva anche la sua veridicità. Ci sono luoghi che diventano luoghi e altri, come il Lazzaretto di Verona, che lo sono semplicemente, con il suo recinto di rovine sospese tra il visibile e l’invisibile.*

06. Il tempietto centrale, stato attuale. Chiara Boccingher, Francesca Giudetti

il Lazzaretto è tutt’oggi nascosto, quasi fosse troppo timido per farsi vedere

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NOTE 1 – S. Settis, “Paesaggio Costituzione Cemento. La battaglia per l’ambiente e il degrado civile”, Einaudi, Torino, 2010, p. 220. 2 – Restauratore, redattore della Carta di Venezia (1964), fondatore dell’ICOMOS (International Council on Monuments and Sites) nel 1965 e autore di numerose ricostruzioni post-belliche alla “com’era e dov’era”, come nei casi veronesi del ponte scaligero di Castelvecchio (1949-51) e del ponte Pietra (1957-59). 3 – “Il tempietto del Sanmicheli e le Famiglie dei Caduti”, in “L’Arena”, Verona, 10 dicembre 1931. 4 – Tecnica di restauro che consiste nella ricomposizione di parti di una costruzione danneggiata, ricreandone la forma originaria. Prassi ancora attuale: basti pensare alle anastilosi dei Propilei dell’Acropoli di Atene (2004) e dei Fori Imperiali a Roma (2017). 5 – Raccomandata firmata da Piero Gazzola del 3 Settembre 1959, n. prot. 3042, Soprintendenza ai Monumenti delle province di Verona Cremona Mantova, conservata presso l’archivio della Soprintendenza archeologia, belle arti e paesaggio di Verona. 6 – W. Benjamin, “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica”, Einaudi, Torino, 1977, pp. 22-23. 7 – M. Yourcenar, “Memorie di Adriano”, Einaudi, Torino, 2014, p. 301.

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BIBLIOGRAFIA - AA.VV, “Restauri. Il tempietto del lazzaretto”, in “Architetti Verona”, 3, 1959, pp. 33-36. - Braioni A., Tutino A., “Piano ambientale del Parco dell’Adige nel Comune di Verona”, 2007. - Davies P., Hemsoll D., “Michele Sanmicheli”, Mondadori Electa, Milano, 2004. - Ferrari C., “Il Lazzaretto di Verona e il gran contagio del 1630”, in “La Lettura”, III, 9 (1903), pp. 782-789. - Fiorani D. (a cura di), L’anastilosi nel restauro contemporaneo, Sez. 1b, Questioni teoriche: tematiche specifiche, RICerca/REStauro, Edizioni Quasar, Roma, 2017. - Gazzola P. (a cura di), “Michele Sanmicheli: catalogo”, Neri Pozza Editore, Venezia, 1960. - Lodi S., “Michele Sanmicheli nei disegni di Luigi Trezza: il ms. 1784 della Biblioteca Civica di Verona”, Cierre Verona, 2012, pp. 142 -145. - Settis S., “Paesaggio Costituzione Cemento. La battaglia per l’ambiente e il degrado civile”, Einaudi, Torino, 2010. - Trezza L., “Raccolta delli sbozzi coll’individuate misure delle più cospique fabbriche di Verona”, I, tav. LXXIV-LXXV, II, tav. XII-XIV. - Yourcenar M., “Memorie di Adriano”, Einaudi, Torino, 2014.


Antonino Frenda Ricercatore – LINKS Foundation. antonino.frenda@linksfoundation.com

isegnare, fare schizzi, copiare le opere di grandi maestri, è stato un esercizio di norma praticato da architetti e artisti di tutte le epoche, il primo passo nella formazione professionale, atto propedeutico al processo creativo. Sulla sua importanza, che da sempre gioca un ruolo chiave nella storia dell’architettura (e nelle arti in genere), esemplificative sono le parole di Giorgio Vasari che in Vite de’ più celebri pittori, scultori e architettori, assegna al disegno la paternità delle tre arti maggiori: pittura, scultura, architettura1. Di indubbio valore documentale, il disegno d’architettura - consegnando un repertorio di forme elaborate nelle diverse epoche - assume un ruolo determinante nel XIX secolo, periodo profondamente storicistico in cui si ricercano nel passato i simboli di identità politica e culturale necessari per la nascita e il consolidamento delle nazioni. Vedeva allora la luce il cosiddetto “restauro stilistico”2, basato sulla nozione di “stile”3, che avvalendosi di una rigorosa conoscenza della storia, dell’archeologia e dell’architettura guidò i completamenti (e a volte anche la ricostruzione) di tutti quegli edifici sto-

02. Castello di Issogne, disegno di serrature, Alfredo D’Andrade, 1868. Matita, china e acquerello su carta cm 31x44. Torino, Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea, fondo D’Andrade, cart. 4/D, f. 351

L’uso del disegno d’architettura nella pratica del restauro Note sull’opera disegnata di Alfredo D’Andrade 68

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01. Castello di Verres, ponte levatoio della porta maggiore, Alfredo D’Andrade. Matita, china e acquerello su carta, cm 67,5 x 74,5. Torino, Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea, fondo D’Andrade, cart. 4/C. f. 260

copiare le opere di grandi maestri, è stato un esercizio di norma praticato da architetti e artisti di tutte le epoche

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rici che per la loro importanza erano ritenuti essenziali alla società europea del tempo. Se Eugène Viollet-le-Duc è senza dubbio il maggiore animatore di questo filone non meno interessante è l’opera dell’architetto, archeologo e pittore portoghese naturalizzato italiano Alfredo D’Andrade (1839-1915) di cui si può tentare una lettura organica proprio grazie alla ricca messe di appunti e disegni autografi ancora oggi conservati che ci restituiscono preziose informazioni sul suo modus operandi (tabella 01). Sia quando egli si trova di fronte a difficili questioni di restauro o di restituzione di monumenti, sia quando

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studia un modesto oggetto di artigianato o precisa un piccolo particolare costruttivo, le sue conoscenze e l’assimilazione della dottrina di Eugène Viollet-le-Duc sull’arte costruttiva e sull’industria artistica del mondo gotico, gli diedero modo di dedicarsi con successo a lavori di ripristino e di ricostruzione in stile. Di lui, Camillo Boito - cui lo lega una solida amicizia - scrive sicuramente i giudizi più preziosi e utili per chi intende indagare le qualità di D’Andrade restauratore: “I vecchi edifici non hanno segreti per l’acume della sua mente: il suo occhio si caccia per entro ai grossi muri, penetra sotto terra: se non vede, indovina. Le più volgari


ALFREDO CESARE REIS FREIRA DE ANDRADE (Lisbona 1893 – Genova 1915)

Ricoprì la carica dapprima di Reggente l’Ufficio Regionale per la Conservazione dei Monumenti del Piemonte e della Liguria (1883-1891) e poi (1892-1915) designato - per decreto del 30 giugno 1892- Architetto Ingegnere Direttore nell’Amministrazione Provinciale per l’Arte Antica. I lavori compiuti nel primo periodo risultano dalla sua pubblicazione: “Relazione per la conservazione dei monumenti del Piemonte e della Liguria”, Parte I a. 1883-1891, Torino, Bona, 1899; quelli del secondo periodo non si possono desumere che dallo spoglio delle relazioni interne d’ufficio e della enorme corrispondenza depositata negli archivi di famiglia e presso la soprintendenza torinese. Autoritratto, Alfredo D’Andrade, 1866 Carbone, matita e gessetto bianco su carta, Cm 46,5 x 30 Torino, Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea

Francesco Carandini, “La rocca e il borgo medievali eretti in Torino dalla sezione storia dell’arte, la figura e l’opera di Alfredo d’Andrade”, Ivrea, Francesco Viassone, 1925; Per indagare la figura

Marziano Bernardi, Vittorio Viale, “Alfredo d’Andrade. La vita, l’opera e l’arte”, Torino, Società Piemontese d’Archeologia e di Belle Arti, nuova serie, Atti, Volume III, 1957; Maria Grazia Cerri, Daniela Biancolini Fea, Liliana Pittarello (a cura di), “Alfredo d’Andrade. Tutela e restauro, catalogo della mostra”, Torino, Palazzo Reale-Palazzo Madama, 27 giugno-27 settembre 1981, Vallecchi, 1981;

Fondi Archivistici

Si segnala quanto risulta dall’introduzione dell’inventario Fondo D’Andrade conservato presso l’Archivio di Stato di Torino, Sezione Corte: Corrispondenza, carteggi, disegni e fotografie prodotti e raccolti da Alfredo D’Andrade come funzionario dell’Ufficio Regionale per la Conservazione dei Monumenti del Piemonte e della Liguria si trovano presso: - L’Archivio di Stato di Torino, nel fondo omonimo; - La Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici per le province di Torino, Asti, Cuneo, Biella e Vercelli, in altro fondo D’Andrade; - Per le località di competenza, presso gli archivi delle Soprintendenze della Lombardia e della Liguria, e della Soprintendenza per i Beni Culturali della Valle d’Aosta. Altri disegni e fotografie, per lo più prodotti da D’Andrade come privato studioso, sono presso la Fondazione Torino Musei. Corrispondenza privata, memorie personali e disegni di Pavone e Font’Alva sono tuttora presso la famiglia, a Lisbona.

Tabella 01

minuzie gli servono di guida e di indizio: palpando con la mano al buio le pareti di vecchie pietre conosce spesso la loro età dalle tracce che vi lasciarono lo scalpello e la gradina. Rivive nelle consuetudini dei maestri antichi, come se fosse cresciuto fra loro. Ha del geologo nelle sue ricerche: sotto all’architettura […] trova l’opera romana, la sviscera, la misura, la disegna e la ricopia, ma in modo che lo studioso possa facilmente vederla e verificare la giustezza dei fatti; poi fra la costruzione romana e quella del medioevo, fra la costruzione del medioevo e quella barocca scorge le transizioni, i passaggi” (Boito, 1893).

D’Andrade ha sempre manifestato un interesse profondo per i reperti e le preesistenze che conservava sempre e comunque. È attento al colore, alla grana, alla patina dei materiali e anche agli effetti coloristici del loro deperimento. Nei suoi restauri operava con criteri di completamento in stile propri del suo tempo che prendevano le mosse da un accurato studio delle fonti, dalla ricerca iconografica oltre che dai riferimenti analogici con altri edifici coevi. Queste sue elevate capacità di “riproposizione mimetica”4 si ritrovano applicate alla progettazione ed esecuzione di un antico borgo medievale realizzato nel parco del Valentino,

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il restauro stilistico guidò i completamenti (e a volte anche la ricostruzione) degli edifici storici

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nell’ambito della Esposizione Nazionale di Torino del 1884. Il complesso ebbe ottimo riscontro: la critica nazionale del tempo si espresse molto positivamente; alcuni lo recepirono per lo più soltanto come falso storico o come tarda espressione del neogotico romantico, ignorandone i contributi importanti per la nascita della tutela monumentale, per lo studio del restauro architettonico e per la ricerca di coerenza stilistica. Le architetture qui riproposte sono dei falsi, è vero, ma sono anche l’autentico prodotto di un secolo profondamente storicistico. Opere di qualità artistica notevole, spesso di gran lunga superiore anche a quella di taluni artisti medievali o rinascimentali. L’interesse di D’Andrade nel revival medievale è frutto di quel gusto del pittoresco che gli appartiene, in un atteggiamento però sempre teso alla ricognizione storica, all’indagine archeologia e materica, alla comprensione dei come e dei perché del dettaglio costruttivo: “Numerosi disegni […] di serrature, di cancelli, di porte e finestre, di ferri dal XV al XVII secolo nel Piemonte e nella Liguria, sono così completamente spiegati che un fabbro, un falegname di mediocre intelligenza possono trovarvi indicazioni per la loro fedele riproduzione. In questo modo tali disegni diventano un linguaggio” (Boito, 1893).*

le architetture riproposte sono dei falsi, è vero, ma sono anche l’autentico prodotto di un secolo profondamente storicistico

NOTE 1 - Cfr. Giorgio Vasari, “Della Pittura”, in “Vite de’ più celebri pittori, scultori e architettori”, Milano, Società Tipografica Dé Classici Italiani, 1807, Vol. I, cap. XV, p. 298; 2 - In questo periodo si delineano le prime idee teoriche legate al restauro, dovute in particolare al francese Eugène Viollet-le-Duc (1814-1879) con il suo “restauro stilistico” e all’inglese John Ruskin (1819-1900) con il cosiddetto “restauro romantico”. Nel panorama italiano, Luca Beltrami (1854-1933), alla fine dell’Ottocento, teorizza il cosiddetto “restauro storico” che non si differenziava molto da quello stilistico di Viollet-le-Duc, e ammetteva che eventuali integrazioni e aggiunte dovevano essere fatte non per un astratto criterio di coerenza stilistica ma in base a documentate fonti archivistiche e storiche. 3 - Per una breve digressione sulla nozione di stile Cfr. Giorgio Pigafetta, “Parole chiave per la storia dell’architettura”, Milano, Editoriale Jaca Book SpA, 2003, pp. 121130. Relativamente al disegno d’architettura “In termini di stile, per esempio, un disegno architettonico offre sempre due possibili interpretazioni: quella dello stile dell’edificio rappresentato e quella dello stile del disegno. Ora, lo stile del disegno, più che allo stile dell’architettura rappresentata, rinvia ovviamente allo stile della pittura

o del disegno a mano libera degli artisti contemporanei, dal quale viene influenzato: e questo perché disegno e pittura costituiscono sistemi di raffigurazione autonomi e indipendenti dall’architettura”. Cfr. Roland Recht, “Le dessin d’architecture”, Paris, Société nouvelle Adam Biro, 1995. Traduzione italiana a cura di Maria Grazia Balzarini, Roberto Cassanelli, “Il disegno d’architettura. Origine e funzioni”, Milano, Jaca Book, 2001. 4 - “Ripetere mimeticamente non vuol dire copiare o rifare identico, ma significa propriamente re-interrogare, chiedere nuovamente” il che avveniva attraverso un’attività compositiva che ordinava elementi ripresi dall’antico secondo regole dettate dal sentire dell’orientamento del singolo architetto o artista. Cfr. Giorgio Pigafetta, “Storia dell’architettura moderna. Imitazione e invenzione tra XV e XIX secolo”, 2 voll., Torino, Bollati Boringhieri, 2007, p.19.

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03. Torino, Borgo medievale. www.vivatorino.it

BIBLIOGRAFIA - Boito C., “Questioni pratiche di Belle Arti. Restauri, concorsi, legislazione, professione, insegnamento”, Ulrico Hoepli, Milano, 1893. - Cerri M. G., Biancolini Fea D., Pittarello L. (a cura di), “Al-

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fredo d’Andrade. Tutela e restauro”, catalogo della mostra, Torino, Palazzo Reale-Palazzo Madama, 27 giugno-27 settembre 1981, Vallecchi, 1981. - Ceschi C., “Teoria e storia del restauro”, Bulzoni, Roma, 1970. - Martìnez A. H., “La clonaciòn arquitectònica”, Ediciones Siruela, Madrid, 2007. - Pigafetta G., “Storia dell’architettura moderna. Imitazione e invenzione tra XV e XIX secolo”, 2 voll., Bollati Boringhieri, Torino, 2007.


Damiano Acciarino Marie Skłodowska-Curie Fellow, Università Ca’ Foscari Venezia, University of Toronto. damiano.acciarino@unive.it

Minima Philologica The aim of this note is to provide a general explanation of antiquarian methodology during the Renaissance. This cultural pathway, which influenced the way the past was interpreted between the fourteenth and seventeenth centuries, represented a perspective which involved the cross-referencing of heterogeneous sources, strongly linked to mankind’s perception of time and that helped shape a renewed historical consciousness.* er tanti secoli, o non compresero la falsità della Donazione di Costantino o crearono essi stessi il falso […]” (Pepe, 1992, II.5). Con queste parole, nel 1440, Lorenzo Valla (1405-1457) si scagliava contro il cosiddetto Constitum Constantini, ordinamento che ufficializzava e legittimava l’istituzione dello Stato della Chiesa e del potere temporale dei papi (img. 01). Tale decreto aveva goduto del massimo prestigio lungo tutto il Medioevo, tanto da venire incluso a partire dal XII secolo nel Decretum Gratiani (il manuale di diritto canonico) e da spingere Dante nella Monarchia a discuterne l’effettivo valore sul piano giuridico – dando per assodata la sua autenticità. Il metodo attraverso il quale Valla giunse a sancirne l’infondatezza rap-

presenta un tangibile scarto rispetto ai processi ermeneutici tipici dell’erudizione dei secoli precedenti: mentre da un lato il discernimento del falso e dell’autentico era deputato all’applicazione meccanica di sillogismi, qui invece il falso veniva smascherato in base a incoerenze storiografiche (II.6: quod neque in illa neque ulla in historia invenitur, in eoque quedam contraria, impossibilia, stulta, barbara, ridicula contineri) e incongruenze linguistiche (XIV.43: Omitto hic barbariem sermonis) mai considerate prima (Pugliese 1994). Questo è uno dei primi e più evidenti casi in cui una testimonianza del passato (specificamente una fonte scritta) perdeva la sua dimensione oracolare a vantaggio di una materialità permeabile alle più varie infiltrazioni di contesto, emergendo

lo strumento filologico si costituisce come momento oggettivo d’indagine, necessario per l’acquisizione di una coscienza storica, stabile negli snodi della tradizione

Minima philologica

Autenticità e falsificazione nell’antiquaria rinascimentale

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L’IMMERSIONE


01. Donazione di Costantino. Cappella di San Silvestro, Roma, affreschi del 1246. CC0

come fatto circostanziato e soggetto a oscillazioni diatopiche, diacroniche e diastratiche. È uno dei primi casi in cui lo strumento filologico si costituiva come “momento oggettivo” d’indagine, necessario per l’acquisizione di una coscienza storica, stabile negli snodi della tradizione. Nel processo secolare che ha condotto sulla via del metodo scientifico, il fenomeno, definibile come antiquaria rinascimentale (sec. XIV-XVI), favorì lo sviluppo su premesse rinnovate di un’esegesi capace di distinguere il vero dal falso. Figlia delle inclinazioni umanistiche, emergenti già al tempo di Petrarca, e del collezionismo di reperti più o

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meno antichi diffusosi di lì in avanti, l’antiquaria andava concentrando la sua attenzione sulla concretezza del reperto esaminato (qualunque esso fosse: un manoscritto, un’iscrizione lapidea, una moneta, una statua, un edificio, ecc.) al fine di desumerne dati affidabili al servizio della ricostruzione storica. Ogni oggetto abbisognava però di competenze diverse per essere interpretato correttamente (per esempio un manoscritto richiedeva competenze filologiche, un’iscrizione epigrafiche, una moneta numismatiche, ecc.), facendosi veicolo semiotico di trasmissione della conoscenza. Tuttavia, il vuoto documentario (lacuna), con cui spesso la ricerca dove-

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va confrontarsi, ostava al raggiungimento degli obiettivi proposti. Questa mancanza di fonti spinse antiquari e filologi del Rinascimento a esercitare la tecnica della “divinazione” o congettura (coniectura), che consisteva nel proporre il ripristino dei vuoti in base a elementi interni alle fonti stesse o contestuali, cioè ricavati dalla cultura donde le fonti erano scaturite. Se si considera lo spettro di significati attribuibili alla voce coniectura nel lessico umanistico, una sua convincente definizione risulta “il frutto di un ragionamento, di una deduzione appoggiata da argumenta e vi si ricorre quando nessuna delle fonti manoscritte (l’auctoritas) offre


nel processo secolare che ha condotto sulla via del metodo scientifico, questo fenomeno, definibile come antiquaria rinascimentale, ha favorito lo sviluppo di un’esegesi nuova capace di distinguere il vero dal falso

02. Annio da Viterbo. Museo civico di Viterbo, di anonimo sec. XVIII. CC0

una lezione soddisfacente” (Rizzo, 1973, p. 288). Si afferma quindi l’idea che il progresso di conoscenza fosse raggiungibile solo grazie a nuove scoperte, determinando allo stesso tempo i limiti della auctoritas stessa e segnalando l’insufficienza del corpus a disposizione. Solo attraverso questa presa di coscienza, nuove ipotesi interpretative cominciarono ad affiorare, a patto che serbassero una certa verosimiglianza negli argumenta con cui venivano sostenute, fondandosi sulla concreta realtà del dato a suffragio o a discapito. Le congetture potevano essere più o meno genuine, scartate o rafforzate in base alla loro plausibilità. Nondimeno, proprio l’endemico vuoto di conoscenza, a cui il passato (o la sua proiezione derivata dalle fonti) soggiaceva, aprì all’opera di falsificazione dei reperti medesimi, attraverso la quale formulare teorie eterodosse,

foriere in alcuni casi anche di implicazioni politiche. Il caso di Annio da Viterbo (img. 02) rimane forse il più emblematico di tutto il Rinascimento. Nelle Antiquitates Variae (1498), Annio pubblicava e commentava fonti che avrebbero provato la discendenza diretta da Noè dei popoli europei, e con essa tutta una serie di genealogie e accadimenti fantastici. Quest’opera altro non era che il prodotto di una conflazione di nozioni credibili in linea di principio rispetto al pensiero erudito coevo, ma impossibili da confermare nella loro totalità, e proprio in ragione di ciò altrettanto difficili da smentire (Grafton, 1996). Confutare un tale groviglio di dati, con ricco corredo d’interpretazioni paraantiquarie e para-etimologiche, diventava cimento per testare la solidità del metodo d’indagine stesso. Il principio fondante della “controanalisi” rimaneva quello di aderire alla

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realtà delle fonti e della loro ragionevole collocazione in un sistema di conoscenza che non escludeva l’analogia o la comparazione con dati accertabili nel presente. È a Vincenzio Borghini (1515-1580) che si potrebbe affidare una glossa a questo assunto: “[…] e poi si debbe di più considerare che gli errori, che vi si notano, non son della medesima qualità, […] conciosiaché l’errore o degli strumenti non giusti o del calculare non havesse in quelli aiuto o riprova alcuna dal senso presente, onde agevolmente si può creder che qualche volta, e forse le più, vi occorrin de gl’inganni; ma dove il senso è riprova presente di quello che altri fa, non so come si debba mai creder tanta sciocchezza in chi opera, se altri non ne ha più che chiara testimonianza in contrario; […]” (Carrara, 2008, pp. 330-346). Ed è proprio circa la natura dell’errore che si decideva l’autenticità o la falsità di un reperto, di una lezione, di

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03. Piero Vettori, printing from Boissard, Jean-Jacques edition, 1652-1669. CC0

un dato. L’errore con lo sviluppo del metodo antiquario diventava fattore necessario al progresso stesso della conoscenza, laddove considerato nella sua assoluta neutralità. Così, quando Ottavio Pantagato (1494-1567) affermava che “l’errar è comun a la charta et a la pietra da principio” (Soler i Nicolau, 2000, p. 212), esprimeva la consapevolezza che qualunque tipo di linguaggio era esposto all’errore, essendone l’esecutore sin dall’origine sottoposto alla contingenza. Ciò riportava la questione al suo carattere primigenio: alla genesi del linguaggio (che ne investe tanto la produzione materiale quanto l’autorialità) a prescindere dal supporto attraverso cui esso si manifestava. Piero Vettori (1499-1584) (img. 03) mostrava ulteriori ramificazioni del fenomeno. Col Vettori ci si rende conto che la corruttela (multis mendis libri) era congenita alla tradizione

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(scatent/habiti sunt), contribuendo a propagare (in excusis codicibus) una vulgata scorretta. Solo con la comparazione delle diverse varianti attestate – la collazione dei testimoni (comparatis manu scriptis) – si riesce a ottenere progressi ecdotici e a proporre lezioni alternative a quelle erronee (accuratam horum librorum lectionem utilem) (Carrara, 2001, pp. 180-183). Il Vettori sembra quindi applicare criteri propri della correzione (emendatio) a quelli dell’interpretazione (explicatio), per cui il recupero della lezione più affidabile (accuratam lectionem) diventava anche premessa della comprensione del significato (lectionem utilem). Ancora una volta, la smentita del Constitutum Constantini da parte di Lorenzo Valla mostra bene come l’idea di storia cominciasse a configurarsi su dati empirici misurabili, attraverso cui, valutando gli errori della

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BIBLIOGRAFIA - Carrara E., “Il ciclo pittorico vasariano nel Salone dei Cinquecento e il carteggio Mei-Borghini”, in Carrara E., Ginzburg S. (a cura di), “Testi, immagini e filologia nel XVI secolo”, Edizioni della Normale, Pisa, 2008. - Carrara E., “Vincenzio Borghini, 1541-1552: la filologia classica e la corrispondenza con Pier Vettori, la collaborazione alle Vite vasariane per l’edizione torrentiniana del 1550. Lettere in lingua italiana a cura di Daniela Francalanci e Franca Pellegrini; lettere in lingua latina a cura di Eliana Carrara”, S.P.E.S., Firenze, 2001. - Grafton A., “Invention of Tradition and Traditions of Invention in Renaissance Europe: the Strange Case of Annius of Viterbo”, in Grafton A., Blair A. (a cura di) “The Transmission of Culture in Early Modern Europe”, University of Pennsylvania Press, Philadelphia, 1990. - Pepe G. (a cura di), “La falsa Donazione di Costantino, discorso di Lorenzo Valla sulla Donazione di Costantino da falsari spacciata per vera e con menzogna sostenuta per vera”, Ponte alle Grazie, Firenze, 1992. - Pugliese O. (a cura di), “Lorenzo Valla. La falsa donazione di Costantino”, BUR, Milano, 1994. - Soler i Nicolau A., “La correspondècia d’Ottavio Pantagato (1494-1567)”, Tesi doctoral dirigida pel Dr. Joan Carbonell i Manils, Universitat Autònoma de Barcelona, Bellaterra, 2000.

tradizione, era possibile discernere elementi autentici e contraffazioni: “Se si dicesse che di questa donazione si conserva il ricordo presso i greci, gli ebrei e i barbari stessi, non si chiederebbe subito di dire l’autorità di chi l’ha narrata, di mostrare il codice che contiene il racconto? Ora si parla di un atto scritto nella lingua vostra, di un codice diffusissimo e voi non sottoponete a critica un fatto così incredibile e, per giunta, arrivate alla supina credulità che, non rinvenendone il testo scritto, accettiate quello che vi dicono come se fosse scritto e vero” (Pepe, 1992, X.37).*


Giulia Benvegnù Founder di Hybrid Reality & PhD student presso Università di Padova. giulia.benvegnu.91@gmail.com Rosa Buson Founder & CEO di Hybrid Reality. rosa.buson@gmail.com Luisa Vittadello Founder & CTO di Hybrid Reality. luisa.vittadello@gmail.com

Is virtual real? Former power Unlike other technologies, VR allows the use of contents in an interactive and experiential way; it represents a radical change in the media experience: the subject goes from observer of an action to its protagonist. The crucial aspect of this technology is the ability to create extremely realistic situations, characterized by an high level of immersion and “sense of presence”, meaning that the subject, despite the cognitive awareness of being in a simulation, tends to behave as if he were in the real world. Using virtual simulations makes it possible to analyze the influence of architectural and spatial features on human wellbeing, in order to design and build safer environments.* a realtà virtuale (VR) è una tecnologia capace di coniugare rigore metodologico e realismo, ideale per testare in modo ecologico ma controllato processi altrimenti difficilmente studiabili nel mondo reale. Permette infatti di simulare la realtà effettiva in un ambiente digitale, consentendo all’utente di muoversi in tempo reale in ambienta-

01. Immagine archivio personale Hybrid Reality.

Virtuale è reale?

Le potenziali connessioni tra il mondo virtuale e quello reale

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L’IMMERSIONE


realtà virtuale come tool di apprendimento e come strumento d’indagine 02. The Sensorama, progetto degli anni ’60. CC0

zioni fotorealistiche e di interagire con gli elementi virtuali presenti in esse. Sono due i meccanismi chiave che differenziano la VR dagli altri media: l’immersività e la presenza. Il primo termine fa riferimento alla capacità dell’ambiente virtuale di coinvolgere direttamente i sensi del soggetto. È quindi un fenomeno puramente tecnico, che dipende dagli aspetti ingegneristici e di design della strumentazione utilizzata (Bohill et al., 2011). La controparte psicologica dell’immersività è invece il “sense of presence”, la presenza, ovvero la sensazione di essere lì, nell’ambiente virtuale, nonostante la consapevolezza cognitiva di trovarsi in una simulazione (Slater et al., 2016). Ed è soprattutto grazie a quest’ultimo fenomeno che l’utente tende a esibire risposte comportamentali simili a quelle che si verificano nel mondo reale. La simulazione del vero, l’“imitazione virtuale”, diviene quindi strumento capace di elicitare reazioni reali: posso sapere che il baratro che sto vedendo in uno scenario in VR non esiste veramente, che i miei piedi sono saldamente ancorati al suolo, eppure il mio sistema nervoso autonomo incrementa la frequenza cardiaca e la conduttanza cutanea (Meehan et al., 2002), segno che la situazione è percepita come emotivamente stressante, in modo non dissimile a un pericolo reale.

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03. The Virtual Interface Environment Workstation (VIEW), 1990. CC0

Ambienti digitali per apprendimenti reali La possibilità di ottenere reazioni realistiche, unito al grande vantaggio di poter ricreare qualsiasi tipo di situazione in completa sicurezza, è la base concettuale che ha portato allo sviluppo di due possibili modalità applicative di questa tecnologia: la VR come tool di apprendimento e la VR come strumento d’indagine. Il primo filone fa riferimento alla creazione di training virtuali in cui l’ambiente simulato permetta di apprendere conoscenze e abilità successivamente utilizzabili nel contesto reale. Il trasferimento delle conoscenze non avviene

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come nelle lezioni tradizionali tramite modalità principalmente passive, ma si verifica attraverso dinamiche esperienziali, per prove ed errori. Ad esempio, nel training per l’emergenza incendio di Xu ( Xu et al., 2015) se il partecipante non raggiungeva l’uscita di sicurezza nei tempi stabiliti il fumo lo avvolgeva diminuendo drasticamente la visibilità. Nel lavoro di Anderson (Anderson et al., 2005) invece, una platea virtuale era stata programmata per esibire reazioni diverse, dall’applauso al fischio, in base alla qualità del discorso dell’oratore, allo scopo di allenare le capacità di public speaking.


04. Riproduzione di realtà ad uso terapeutico. Middle VR

l’ambiente virtuale rappresenta un cambiamento radicale all’interno dell’esperienza mediale Si tratta di feedback diretti e realistici, che danno informazioni sulla correttezza della performance e al tempo stesso abituano il partecipante a esercitare un maggior controllo sugli aspetti emozionali. I training in VR sono stati utilizzati con successo in

diversi ambiti, tra cui la formazione in ambito medico-chirurgico (Gallagher et al., 2005), la sicurezza sul luogo di lavoro (Sacks et al., 2013), o per migliorare le capacità di navigazione degli astronauti all’interno di una stazione spaziale (Liu et al., 2016). La VR come strumento d’indagine La VR può essere utilizzata non solo per trasmettere conoscenze ma anche per ricavarne. Le ricerche di Ronchi (Ronchi et al., 2015) hanno ad esempio messo in luce come in una simulazione d’incidente in un tunnel stradale gli utenti non seguissero quasi mai la via più breve per raggiungere l’uscita, sprecando quindi secondi preziosi. La situazione altamente emotigena, unita alla presenza di fumo che rendeva meno visibile segnaletica e ostacoli,

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portava a preferire i percorsi lungo le pareti del tunnel. Sapere come l’utente medio reagisce in determinate situazioni può quindi guidare il professionista nel progettare ambienti (virtuali prima, reali poi) che facilitino l’attivazione di comportamenti più sicuri; in questo caso, ad esempio, incrementando la salienza visiva della segnaletica o aumentando in numero di uscite d’emergenza. Il connubio tra tecnologie immersive, psicologia e architettura va però oltre alla semplice progettazione di ambienti più sicuri. Nel lavoro di Dinis (Dinis et al., 2003) la VR è stata utilizzata per indagare quali elementi nel design di una stanza d’ospedale migliorassero lo stato emotivo dei pazienti. Gli aspetti emozionali sono infatti in grado di facilitare e velocizzare il processo di guarigione (Caspari et al.,

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05. Immagine archivio personale Hybrid Reality.

2006; Rubin et al., 1998). Le ricerche di Vecchiato (Vecchiato et al., 2015) hanno invece analizzato i correlati neurofisiologici associati alle caratteristiche architettoniche, estetiche e spaziali di ambienti virtuali, rispondendo alla sempre maggior necessità di promuovere un design dell’ambiente capace di stimolare stili di vita più sani. Una progettazione architettonica capace di integrare una funzionalità e un’estetica research-based, può quindi giocare un ruolo fondamentale del benessere fisico e psicologico dell’individuo (Chiamulera et al., 2017). In quest’ottica la VR diviene quindi un anello di congiunzione tra architettura e ricerca, una tecnologia che proprio grazie alle sue capacità di mimesi della realtà diviene uno strumento di cambiamento reale.*

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BIBLIOGRAFIA - Anderson P. L., Zimand E., Hodges L. F., & Rothbaum B. O., “Cognitive behavioral therapy for public‐speaking anxiety using virtual reality for exposure” in “Depression and anxiety”, 22(3), 2005, pp. 156-158. - Bohil C. J., Alicea B., & Biocca F. A., “Virtual reality in neuroscience research and therapy” in “Nature reviews neuroscience”, 12(12), 2011, p. 752. - Caspari S., Eriksson K., & Nåden D., “The aesthetic dimension in hospitals. An investigation into strategic plans”, in “International journal of nursing studies”, 43(7), 2006, pp. 851-859. - Chiamulera C., Ferrandi E., Benvegnù G., Ferraro S., Tommasi F., Maris B., & Bosi S., “Virtual Reality for Neuroarchitecture: Cue Reactivity in Built Spaces” in “Frontiers in psychology”, n. 8, 2017, p. 185. - Dinis S., Duarte E., Noriega P., Teixeira L., Vilar E., & Rebelo F., “Evaluating emotional responses to the interior design of a hospital room: A study using virtual reality. In International Conference of Design, User Experience, and Usability”, Springer, Berlin, Heidelberg, 2013, pp. 475-483. - Gallagher A. G., Ritter E. M., Champion H., Higgins G., Fried M. P., Moses G., & Satava, R. M., “Virtual reality simulation for the operating room: proficiency-based training as a paradigm shift in surgical skills training”, in “Annals of surgery”, 241(2), 2005, p. 364. - Liu X., Liu Y., Zhu X., An M., & Hu F., “Virtual Reality Based Navigation Training for Astronaut Moving in a Simulated Space Station” in “International Conference on Virtual, Augmented and Mixed Reality”, Springer, Cham, 2013, pp. 416-423.

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Irene Fiesoli Dottoranda in Architettura curriculum Design e Assegnista di ricerca, presso l’Università degli Studi di Firenze - Dipartimento di Architettura (DIDA). irene.fiesoli@gmail.com

System Design Thinking 4.0 Typical of the Industry 4.0, the problems connected to the relationship between real and virtual world require critical design attitudes – in particular the strategic design – which, in this context, play a key part in promoting the innovation of companies’ competitiveness. In the context of Industry 4.0, a first step is to define the innovation impacts thanks to a mapping of the innovation flows identifying some roadmaps. The analysis of these roadmaps highlights the variety of actors involved. These actors create a cloud of dots where every single one has a particular innovative skill which becomes increasingly stronger connecting with the other points of the system. The fact that some of these connections are weak or almost missing does not allow to develop the potential of each unit and consequently weakens the whole system. As Zurlo writes, in this situation the design activity increases and fits in the systems thinking, a complex system of systems, which contemporaneity has to deal with (Zurlo, 2012). Through two Key Studies, we underline the role of technology in a system and service perspective to enhance the creative networks of the new innovation actors and to become a strategic incentive of the whole product life cycle, especially for traditional companies.*

o sviluppo delle nuove tecnologie ci sta proiettando in un futuro che supererà probabilmente anche l’industria 4.0, di cui ignoriamo le reali conseguenze sull’impatto che potranno avere nel mondo del lavoro e della produzione. Già Tomas Maldonado con grande intuizione aveva colto le contraddizioni insite nei nuovi sviluppi tecnologici: “negli scenari che si prospettano sul ruolo della scienza e della tecnologia nel secolo prossimo venturo […] l’impatto delle tecnologie emergenti (informatica, telecomunicazione, bioingegnerie, robotica e tecnologia dei materiali avanzati) porterebbe a un progressivo assottigliarsi della mate-

rialità del mondo, a una dematerializzazione della nostra realtà nel suo complesso. In altre parole, si sarebbe ormai avviata una contrazione dell’universo degli oggetti materiali, oggetti che verrebbero sostituiti da processi e da servizi sempre più immateriali.” (Maldonado, 1992, p. 10) Queste problematiche connesse alla relazione tra reale e virtuale, proprie dell’industria 4.0, possono trovare una risposta nell’approccio critico del design – soprattutto quello strategico – che, nel contesto contemporaneo, gioca un ruolo centrale nella promozione dell’innovazione per la competitività delle imprese (EC, 2009). La ricerca di design – soprattutto ne-

01. Infografica sulla UI (User Interface Design). Irene Fiesoli

System Design Thinking 4.0 Il paradigma del system thinking sviluppato dal design nel contesto d’innovazione 4.0

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L’IMMERSIONE


gli ultimi anni – ha orientato la propria riflessione su tematiche come: il design dei servizi e dell’esperienza (UX), l’Internet of Things (IoT), l’innovazione sociale, il marketing e la comunicazione, le nuove forme di tecnologia VR e AR, di lavoro (co-working), di progettazione (co-design), di produzione (makers) e i cambiamenti sociali e culturali in atto. Questo ha portato il designer ad amplificare la capacità di gestire la complessità: “In questa condizione l’attività del design […] elabora e amplifica capacità che gli sono proprie e, in particolare, il system thinking cioè la capacità di districarsi nel ‘tutto polisistemico’, cioè quel complesso sistema di sistemi, con cui la contemporaneità è costretta a confrontarsi.” (Zurlo, 2012, p. 1) (img. 01). Le competenze tradizionali della disciplina del design integrate con le nuove capacità di connessione tra più sistemi, permetteranno al designer di guidare, all’interno di team multidisciplinari, la forte ondata di innovazione – sociale oltre che tecnologica – che sta caratterizzando il secolo attuale e che porterà a cambiamenti radicali. Un primo passo consiste nel definire gli impatti dell’innovazione generata nel contesto 4.0, attraverso un lavoro di mappatura dei flussi d’innovazione che identificano delle roadmap. L’analisi di queste roadmap delinea la pluralità di attori presenti sul territorio che formano una nuvola di punti nella quale ognuno di essi ha una capacità innovativa propria, che si rafforza nella connessione con gli altri punti del sistema.

attraverso due progetti di ricerca utilizzati come key study si cerca di evidenziare il ruolo giocato dalle tecnologie 4.0 OFFICINA* N.25

02. Infografica relativa alla piattaforma output del progetto MixedRinteriors. Irene Fiesoli

Il fatto che alcune di queste connessioni siano deboli oppure del tutto assenti non permette di sviluppare appieno le potenzialità di ogni nucleo e quindi indebolisce il sistema complessivo. L’intervento del design consiste nello stimolare la creazione di reti rafforzando i nodi esistenti e generandone di nuovi. Attraverso due progetti di ricerca utilizzati come key study si cerca di evidenziare il ruolo giocato dalle tecnologie 4.0 da un lato rispetto al sistema manifatturiero tradizionale, progetto MixedReinteriors - AR/VR enabling technology per la Fabbrica 4.0 nel settore del camper, della nautica, dell’arredo e del complemento (Regione Toscana Bandi RSI - POR FESR 2014-2020), e dall’altro alle reti creative dei nuovi attori dell’innovazione (maker, social innovator), progetto OD&M – A Knowledge Alliance between HEIs, makers and manufacturers to boost Open Design & Manufacturing in Europe (Erasmus+KA2). All’interno di questi progetti di ricerca si è testata la possibilità di applicare degli strumenti ad alto impatto tecnologico dentro le reti create e rafforza-

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te dal progetto. Attraverso il design di servizi le tecnologie 4.0 trovano applicazione nel progetto MixedReinteriors, volto a sviluppare la comunicazione, la vendita e la personalizzazione dei propri prodotti e ottimizzare la fase di progettazione e di prototipazione proprio attraverso l’utilizzo di realtà aumentata e virtuale unite a metodologie di codesign. La progettazione di una piattaforma interattiva open source diventa invece un supporto per la realizzazione di un corso di formazione diffuso nel quale la valutazione viene sviluppata all’interno della community creata attraverso il progetto OD&M. Entrando più nel dettaglio, attraverso il progetto MixedRinteriors si arriverà alla creazione di una piattaforma AR/VR condivisa dalle imprese coinvolte sul territorio. Il progetto è finalizzato, infatti, all’applicazione di soluzioni AR/VR nei settori tradizionali dell’arredo-complemento-oggettistica, camper e nautica per implementare i servizi connessi a progettazione, vendita e post-vendita. L’applicazione di AR/VR avverrà in momenti diversi


03. Infografica relativa al sistema modulare proprio del progetto OD&M. Irene Fiesoli

si avvierà una user-experience multidisciplinare per un’integrazione più immediata delle informazioni del ciclo di vita del prodotto a seconda dei settori, privilegiando la prima o la seconda tecnologia in relazione alle specificità del processo e ai benefici effettivi che può portare. La collaborazione di imprese appartenenti ai diversi comparti del settore interni stimolerà anche processi di cross fertilization. Il progetto è infatti una collaborazione multidisciplinare tra partner industriali di rilievo e partner tecnico-scientifici come Università degli Studi di Firenze - Dipartimento di Architettura DIDA, Università di Siena, CNR oltre ad una società di informatica, MEDIACROSS, che si occuperà della realizzazione della piattaforma.

I partner industriali coinvolti rappresentano i settori produttivi del Distretto Interni e Design (d-ID) con l’ottica di massimizzare le soluzioni rispondendo trasversalmente a esigenze condivise e tra i partner vi sono aziende come Richard Ginori (capofila del progetto), Savio Firmino, Marioni, SEA Camper, SevenStars. La piattaforma vuole costituire uno strumento per progettisti e addetti alla vendita, anche interni alle aziende stesse, con un catalogo digitale di prodotti in realtà virtuale e servizi orientati al co-design dei prodotti presenti. Inoltre sarà realizzato un servizio legato allo storytelling aziendale a cui si perverrà grazie a un’analisi accurata condotta sulle manifatture coinvolte, dove i punti di interesse saranno “aumentati” e stimolati grazie a un progetto di interazione azienda-utente. Si avvierà così una user-experience multidisciplinare per un’integrazione più immediata delle informazioni in uno spazio verbale, visivo e sensoriale allo stesso tempo e proprio le nuove tecnologie AR/VR consentiranno all’utente di avvicinarsi alla manifattura e interagire con essa. Una piattaforma online, quindi, che si diffe-

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renzia dai concorrenti per una strategia progettuale di co-design e una comunicazione narrativa e culturale (img. 02). Il progetto OD&M invece mira a costruire un’offerta formativa in grado di integrare il triangolo delle conoscenze tra Industria manifatturiera tradizionale, maker e Istituti di formazione superiore e centri di ricerca. Il progetto prevede la creazione di 4 nodi internazionali, coordinati dalle seguenti università: Università degli Studi di Firenze - Dipartimento di Architettura DIDA (Italia), University of the Arts London - Central Saint Martin (Inghilterra), University of Deusto (Spagna) e WSB University (Polonia); che cercheranno di formare una figura di progettista, un Catalyst Agent capace di lavorare al centro di questo triangolo di alleanze, fortificandole (img. 03). Il progetto per il nodo Italia sta sviluppando un Corso di perfezionamento pilota Design Driven Strategies - per la manifattura 4.0 e l’innovazione sociale, che permetterà di testare la metodologia didattica delle comunità di pratica e la piattaforma per la valutazione online strutturata e di community.

L’IMMERSIONE


La piattaforma quindi assumerà un carattere anche didattico e servirà agli studenti per caricare online il materiale sviluppato durante il corso e sottoporlo alla valutazione della rete, all’interno della quale potrebbero nascere nuove sinergie e connessioni in grado di supportare un ecosistema di relazioni creative e produttive. Da una prima sintesi di questi progetti è possibile comprendere come nello scenario attuale il ruolo del design possa concretamente assumere una posizione strategica soprattutto a partire dalla sua capacità di catalizzatore tra le conoscenze, le comunità e i territori, di facilitatore di processi, “mediatore e integratore di saperi” (Germak, 2008, p. 4) diversi e multidisciplinari.

una piattaforma online che si differenzia dai concorrenti per una strategia progettuale di co-design e una comunicazione narrativa e culturale

Infatti considerando il fenomeno della dematerializzazione dei prodotti come un elemento centrale anche nel definire il ruolo del design, possiamo sottolineare la tendenza volta ad una progettazione del sistema e dell’esperienza, in un’ottica di connessione e di rete. Il contesto contemporaneo, ormai mutuato, non prevede più infatti la sola progettazione di prodotti ma di sistemi complessi, servizi, prodotti interattivi e modelli di comunicazione integrata. Ciò non significa che il prodotto sarà progressivamente eliminato, al contrario, verrà arricchito e connotato all’interno di un ambiente che potrà relazionarsi con il singolo elemento così come con la totalità degli stessi e degli utenti che con esso entreranno in contatto. Il designer dovrà quindi, con un’attenzione sempre crescente, progettare queste relazioni in quanto la modalità appena descritta, non solo prenderà campo all’interno della gestione aziendale dei cicli di produzione, ma si svilupperà soprattutto al di fuori dalle imprese in quei particolari settori volti all’innovazione, alla ricerca e alla formazione, visti come gli elementi che forniranno continuità al cambiamento in atto e che quindi rappresenteranno la base sulla quale strutturare molte delle future riflessioni. Concludendo possiamo dire che la nuova sfida progettuale e tecnologi-

04. Infografica luoghi digitali. Irene Fiesoli

OFFICINA* N.25

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ca sarà proprio l’educazione culturale attraverso luoghi digitali, che possono essere vicini o distanti e nei quali sarà importante lo scambio di informazioni e di conoscenze, e il design che assumerà, dunque, il ruolo di creatore di reti e di relazioni tra persone e tecnologie (img. 04).* BIBLIOGRAFIA - Alessi C., “Design senza designer”, Editori Laterza, Bari, 2016. - Anderson C., “Makers il ritorno dei produttori per una nuova rivoluzione industriale”, Rizzoli Etas, Milano, 2013. - Capra F., Henderson H., “Crescita Qualitativa”, Aboca, 2013. - Castelli C., Hamel M. C., Corrado M., “Makers in Italia. il design nell’autoproduzione”, MiMa Edizioni, Milano, 2014. - Ceruti M., “Il tempo della complessità”, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2018. - Chilò D., “Design maker. Ideare, pensare, fare design”, LISt Lab, Tools collection, n. 6 – design, Milano, 2014. - European Commission, “Design as a driver of user-centred innovation”, 2009. - Germak C., “Uomo al centro del progetto. Design per un nuovo umanesimo”, Umberto Allemandi, Torino, 2008. - Greenfield A., “Tecnologie radicali. il progetto della vita quotidiana”, Einaudi, Torino, 2017. - Legnante V., Lotti L., Bedeschi I., “Dinamici equilibri. Design e imprese”, Franco Angeli, Milano, 2012. - Maffei S., Simonelli G., “I territori del design. Made in Italy e sistemi produttivi locali”, Il sole 24 ore, Milano, 2002. - Maldonado T., “Reale e virtuale”, Feltrinelli Editore, edizione “Saggi”, Milano, 1992. - Manzini E., “Design, When Everybody Design: An Introduction to Design for Social Innovation”, The MIT Press, Massachusetts, 2015. - Menichelli M., “Fab Lab e Maker. Laboratori, progettisti, comunità e imprese in Italia”, Quodlibet studio design, Macerata, 2016. - Venturi P., Zandonai F., “Imprese ibride. Modelli d’innovazione sociale per rigenerare valore”, Egea, 2016. - Vezzoli C., Manzini E., “Medesign_forme del Mediterraneo”, a cura di Raffaella Fagnoni, Paola Gambaro e Carlo Vannicola, Alinea Editrice, 2004. - Zurlo F., “Le strategie del design. Disegnare il valore oltre il prodotto”, Libraccio Editore, Milano, 2012.


Francesca Guidolin Architetto, PhD in Tecnologia dell’Architettura, svolge attività di formazione e ricerca nel campo della didattica. arch.francesca.guidolin@gmail.com

From CLIL to teaching for skills Didactic methodologies are led today by innovation and research. Several examples in the Italian context recognize the simulation of reality (in terms of environments, practices and tasks) as a tool for learning and teaching. Furthermore, well-established researches in the field of pedagogy demonstrate that both multiple sensory inputs and the introduction of kinesthetic simplify learning and memory. This article provides an introductive analysis of the relationship between innovative learning and teaching methodologies that use the “simulation” as a tool, as the “learning by competences” education and the CLIL environment. Therefore, simulative environment can be instrumental for the experimentation of reality in terms of lifelong learning.* n contesto complesso Gli scenari educativi e pedagogici negli ultimi anni sono stati oggetto di una rilevante spinta innovativa che sta portando a un rapido cambiamento, determinato dalla necessità di adeguare metodi e strumenti della formazione a nuovi standard e contesti educativi. Se infatti le più consolidate teorie pedagogiche restano a tutt’oggi i pilastri dell’azione didattica, nuovi e più sperimentali orientamenti, pro-

mossi dal cambiamento nell’uso di strumenti e metodi, si stanno lentamente affermando in questo campo: un esempio tra tutti è rappresentato dall’utilizzo delle TIC, i cosiddetti Technology and Information Tools, per i “nativi digitali”, o l’affermazione di modalità sempre più laboratoriali1 e focalizzate allo sviluppo delle competenze trasversali. Nel panorama delle metodologie didattiche innovative2 molti sono i modelli che fanno della simulazione del reale uno strumento chiave, metodologico e tecnologico, per la didattica e l’apprendimento (img. 01). Apprendere in ambiente simulato La pratica simulativa è inclusa ormai da molti decenni tra le metodologie pedagogiche, benché essa assuma oggi un ruolo completamente rinnovato grazie all’avvento di nuovi strumenti digitali immersivi promossi dalle TIC (Parisi, 2001). Il concetto di simulazione indica “una serie di rappresentazioni dinamiche che usano elementi formali sostitutivi della realtà, modellizzando la stessa mediante un processo di astrazione” (Ceriani, 1996). Le simulazioni offrono quindi un grande potenziale nell’ambito della formazione, configurandosi come strategie attive3 che possono originare dati generando azioni organizzative artificiali in contesti altrettanto artifi-

01. Il cono dell’apprendimento, secondo la teoria di Edgar Dale (1969) è tuttora attuale nel ritenere gli stimoli multisensoriali più proficui a livello cognitivo. Francesca Guidolin

ciali (Strati, 2004), e per questo rientrano nelle metodologie di didattica partecipativa. Diverso è invece l’approccio alla simulazione che spazia dalla configurazione di contesti ambientali, come nel CLIL (Content and Language Integrated Learning) o nella web-based education (e-learning), all’imitazione di prassi procedurali reali come nel Task Based Learning, negli EAS (Episodi di Apprendimento Simulato), o negli approcci di Learning by doing e Problem Solving. Infine, vi sono pratiche rivolte alla simulazione di tasks reali, come nel caso del “compito autentico” proprio dei paradigmi educativi della “didattica per competenze”.

Dal CLIL alla didattica per competenze

Metodologie didattiche e contesti simulativi per l’apprendimento e la sperimentazione 84

L’IMMERSIONE


la metodologia didattica CLIL offre quindi l’opportunità di creare un vero e proprio ambiente immersivo simulato

Le 8 competenze chiave di cittadinanza 2016

Le nuove competenze chiave di cittadinanza 2018

1.Comunicazione nella madrelingua

1. Competenza alfabetica funzionale

2. Comunicazione nelle lingue straniere

2. Competenza multilinguistica

3. Competenza matematica e competenze di base in scienza e tecnologia

3. Competenza matematica e competenze in scienze, tecnologie e ingegneria

4. Competenza digitale

4. Competenza digitale

5. Imparare ad impararev

5. Competenza personale, sociale e capacità di imparare ad imparare

6. Competenza sociali e civiche

6. Competenza in materia di cittadinanza

7. Spirito di iniziativa e imprenditorialità

7. Competenza imprenditoriale

9. Consapevolezza ed espressione culturale

8. Competenza in materia di consapevolezza ed espressione culturali

02. Raccomandazione Del Parlamento Europeo e del Consiglio del 18 dicembre 2006, relativa alle “competenze chiave per l’apprendimento permanente”, rivista il 22 maggio 2018. Francesca Guidolin

Dal CLIL alla didattica per competenze: pratiche per la creazione di ambienti simulati È nel quadro della “Buona Scuola” (L. 107/2015) e del Piano Nazionale per la Scuola Digitale (PNSD)4 che vengono definite alcune delle indicazioni programmatiche su questi nuovi approcci che si pongono in alcuni casi come dei veri e propri cambi di prospettiva. Tra le numerose metodologie innovative, un ruolo primario riveste l’approccio della “didattica per competenze” (Scapin, Da Re, 2014). Si tratta di un’impostazione progettuale della didattica che fa proprie le Raccomandazioni Europee per le competenze (img. 02) stimolando una visione interdisciplinare e interscalare di conoscenze e abilità, basata non più sull’inquadramento dei contenuti circoscritti per discipline, ma sullo sviluppo di competenze estese, anche trasversali, come “imparare a imparare” e “spirito di imprenditorialità”. Le azioni didattiche per competenze sono finalizzate alla produzione di output che si configurano come “compiti di realtà” o “compiti autentici”, nei quali lo studente è proiettato al raggiungimento di un obiettivo tangibile e concreto. Nella simulazione di ambienti reali, la metodologia CLIL ha acquisito negli ultimi anni un ruolo fondamentale5: essa affianca l’apprendimento della lingua a quello dei contenuti in

OFFICINA* N.25

maniera integrata (Marsh, 1996): l’apprendimento della lingua tramite i contenuti e questi ultimi attraverso l’uso della lingua straniera. La metodologia didattica CLIL offre quindi l’opportunità di creare un vero e proprio ambiente immersivo simulato (Coyle, 2005), nel quale lo studente è chiamato a interagire con BICS, Basic Interpersonal Communicative Skills e CALP, Cognitive Academic Language Proficiency6 (Coonan, 2012; Serragiotto, 2014). In questo caso l’autenticità ha lo scopo di dare “significatività all’esperienza […] che innesca un processo di maggiore identificazione con il lavoro e quindi maggior coinvolgimento cognitivo e affettivo […]” (Coonan, 2012, p. 102). Nel contesto dell’apprendimento, grazie all’adeguata progettazione metodologica, le pratiche imitative si fanno quindi strumento per la sperimentazione del reale, costituendo un terreno autentico di sviluppo cognitivo, strutturato e guidato, in cui il discente può mettere in pratica le conoscenze e le abilità acquisite, in relazione ai propri stili cognitivi e di apprendimento.* NOTE 1 - Basti pensare ai metodi Inquiry Based Science Education (IBSE), Technology-Enhanced Active Learning (TEAL), o Science, Technology, Engineering e Math (STEM). 2 - Un appuntamento interessante è per questo la Fiera Didacta, promossa da INDIRE (Istituto Nazionale Documentazione Innovazione Ricerca Educativa) che ogni anno si svolge nel mese di ottobre a Firenze. 3 - Si vedano a questo proposito i principi pedagogici della

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pedagogia attiva della corrente cognitivista di John Dewey, Jean Piaget, Jerome Bruner, ma anche il concetto di affordance nella psicologia ecologica di Gibson, o del concetto di “semplessità” in Berthoz. 4 - PNSD, Piano Nazionale per la Scuola Digitale, “è il documento di indirizzo del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca per il lancio di una strategia complessiva di innovazione della scuola italiana e per un nuovo posizionamento del suo sistema educativo nell’era digitale” (da Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, PNSD, 2015). 5 - A dimostrazione di ciò il fatto che la normativa (tra tutte la nota MIUR 16.01.2013 Prot. N. 240, a seguito del Regolamento emanato con Decreto del Presidente della Repubblica n. 89/2010) ha reso l’insegnamento CLIL obbligatorio per almeno una disciplina non linguistica (DNL) all’ultimo anno dei corsi di studio liceale e tecnico. 6 - Gli acronimi indicano da una parte le abilità della comunicazione informale, gestione della classe e argomenti quotidiani, dall’altra la competenza linguistica complessa atta all’uso veicolare della lingua per contenuti di tipo accademico. BIBLIOGRAFIA - Baker, C., “Foundations of Bilingual Education and Bilingualism”, Multilingual Matters, Clevedon, 1996. - Ceriani A. “La simulazione nei processi formativi: una metodologia per un pensiero creativo progettuale”, FrancoAngeli, Milano, 1996, p. 68. - Coonan M.C., “La lingua straniera veicolare” UTET, De Agostini Scuola, Novara, 2012. - Coyle D., “Developing CLIL: Towards a Theory of Practice”, APAC Monograph 6, Barcelona, 2005. - Marsh D., et al., “Mainstream Bilingual Educationin the Finish Vocational Sector”, Jyvänskylä National Broad of Education, University of Jyvänskylä, Jyvänskylä, 1996. - Parisi D., “Simulazioni, la realtà rifatta al computer”, Il Mulino, Bologna, 2001. - Scapin C., Da Re F., “Didattica per competenze e inclusione Dalle indicazioni nazionali all’applicazione in classe”, Erickson, Trento, 2014. - Serragiotto G. “Dalle microlingue disciplinari al CLIL”, UTET, De Agostini Scuola, Novara, 2014. - Strati A., “Analisi organizzativa. Paradigmi e metodi”, Carocci Editore, Roma, 2004.


Imitazione

a cura di

[i·mi·ta·zió·ne] n.f. Tutte le ragazze avanti a cura di Giusi Marchetta Add Editore 2018 (cover design Giulia Sagramola)

arole, corpi, confini e cosa farne. L’imitazione è uno dei modi che abbiamo per imparare dalle altre persone, ci ispiriamo a un modello, lo copiamo, lo facciamo nostro e lo soddisfiamo. Spesso succede che i modelli vadano distrutti perché il mondo è più ampio. “Kill your darlings”, come si dice, poco importa se sono cose molto amate o, meglio, che abbiamo imparato ad amare. Il libro di oggi va proprio in questa direzione, poiché è dalle cose a noi più vicine, come i libri e le parole in essi contenute, che impariamo ed è anche a loro che facciamo riferimento per capire come costruire, come distruggere, e finalmente cosa e come ricostruire. “Sono passati molti anni. Non so dir-

ti esattamente quando, ma a un certo punto mi sono trovata a combattere con le parole. Cercavo quelle giuste [...] Dappertutto mi imbattevo in parole nuove o nuovi modi di rivendicare il loro significato”. Tutte le ragazze avanti a cura di Giusi Marchetta per Add Editore, che noi in libreria chiamiamo “Diventare femministe”, si guarda attorno in cerca di voci, di corpi e di modi per oltrepassare i loro confini. È da come parliamo che si capisce che idee di mondo abbiamo in mente. Scrittrici, illustratrici, giornaliste, esperte di marketing, editor... ci raccontano un coro di esperienze che le ha rese femministe, con una forza che trascina ogni lettrice e ogni lettore ad aggiungere le prorie. “Se essere femminista, come io credo,

significa battersi per un mondo più giusto, non può che essere la definizione di chi include nella sua battaglia le cosiddette minoranze.” “Durante i concerti delle Bikini Kill, Kathleen Hanna urlava sempre dal palco: «Tutte le ragazze avanti!». Solo dopo la band cominciava a suonare. Così, in un mondo abituato a escluderle, riservava alle ragazze un posto in prima fila da cui osservare lo spettacolo, ascoltare la musica, partecipando al concertocantando la propria rabbia o la semplice gioia di esserci tutte. Tutte le ragazze avanti, dunque, lo diciamo anche noi [...].*

Friday Black Nana Kwame Adjei-Brenyah Edizioni Sur, 2019

Strongmen a cura di Vijay Prashad Edizioni Nottetetempo, 2019

sullo scaffale

Contro i figli Lina Meruane La Nuova Frontiera, 2019

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CELLULOSA


Copie “Cause it’s a bittersweet symphony, this life try to make ends meet” The Verve, Bitter Sweet Symphony, Urban Hymns, 1997 Immagine di Emilio Antoniol



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