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ISSN 2384-9029

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OFFICINA* Bimestrale on-line di architettura e tecnologia N.02 settembre-ottobre 2014 ISSN 2384-9029 Rivista consultabile e scaricabile gratuitamente su : www.officina-artec.com/category/publications/officina-magazine

DIRETTORE EDITORIALE

HANNO COLLABORATO A QUESTO NUMERO:

Emilio Antoniol

Matteo Basso, Barbara Berger, Luca Colomban, Stefano Di Vita, Fabio Favero, Arianna Garatti, Michela Langella, Viviana Manfroi, Andrea Reggiani, Alice Tasca, Davide Tuberga

COMITATO EDITORIALE Valentina Covre

IMPAGINAZIONE GRAFICA

Francesca Guidolin

Valentina Covre

Daria Petucco REDAZIONE Filippo Banchieri Margherita Ferrari Valentina Manfè Michele Menegazzo Chiara Trojetto PROGETTO GRAFICO Valentina Covre

EDITORE

Margherita Ferrari

Self-published by

Chiara Trojetto ArTec - Archivio delle Tecniche e dei materiali per l’architettura e il disegno industriale Università Iuav di Venezia Dorsoduro 2196, 30123 Venezia tel. +39 041257 1673 fax +39 041257 1678 info@officina-artec.com Copyright © 2014 OFFICINA*


Elefanti bianchi alle Olimpiadi Il termine ‘elefante bianco’ (white elephant) viene sempre più spesso associato a quegli edifici, opere o progetti caratterizzati da un costo di realizzazione - o di gestione - spropositato rispetto alla funzione o al reale utilizzo che di essi se ne possa fare. L’espressione deriva dalla tradizione indiano/ siamese secondo cui il sovrano donava ai membri della nobiltà non più graditi alla corona un elefante bianco, animale sacro, che doveva così essere mantenuto e trattato con ogni riguardo a spese del malcapitato ricevente. Proprio in architettura, e in particolare in occasione di gradi eventi o manifestazioni, sono numerosi gli esempi di ‘elefanti bianchi’ lasciati in eredità alle amministrazioni ospitanti, trasformando così i profitti previsti in una lunga serie di spese di manutenzione o gestione di tali manufatti, spesso inutili per la città. Il secondo numero di OFFICINA* affronta questo particolare aspetto dell’architettura contemporanea rileggendo il tema del ‘grande evento’ da diverse angolazioni e analizzandone aspetti progettuali, urbanistici, costruttivi, di marketing e di governo del territorio. Le riflessioni che ne conseguono offrono vari spunti di discussione sul ruolo e sulla funzione delle ‘architetture da grande evento’ troppo spesso strumentalizzate o piegate ad un fine puramente esibizionistico. A queste visioni si contrappongono invece le molteplici esperienze che, nelle varie rubriche del numero, fanno

Margherita Ferrari

emergere altre finalità e altri modi di fare arte e architettura.


INDICE

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N.02 set-ott 2014 in copertina: Pro Tempore immagine di Ilaria Fracassi*

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ESPLORARE Appuntamento in fiera di Francesca Guidolin Il lato creativo delle crisi di Chiara Trojetto GRANDI EVENTI Grandi eventi e questioni di governo urbano di Matteo Basso Bersaglio centrato di Margherita Ferrari Il riposizionamento strategico delle città europee: dalla spettacolarizzazione dell’urbano alla smart city di Stefano Di Vita Le cattedrali bianche di Atene di Emilio Antoniol

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PORTFOLIO Un ponte tra Arte e Architettura di Viviana Manfroi

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IN PRODUZIONE Reggiani Ceramica a cura di Emilio Antoniol

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VOGLIO FARE L’ARCHITETTO Gasometro Mon Amour di Barbara Berger LCA in edilizia di Fabio Favero

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IMMERSIONE Young Architects in Africa di Francesca Guidolin traduzioni di Arianna Garatti


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DECLINAZIONI Tassello di Chiara Trojetto

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MICROFONO ACCESO Boubacar Seck di Francesca Guidolin

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CELLULOSA L’uomo artigiano a cura di Chiara Trojetto

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ARCHITETT’ALTRO Sostenibilità nello scenario africano di Alice Tasca

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(S)COMPOSIZIONE “Cause he had to run, run, run, run, run” di Luca Colomban

* Laureanda in Disegno Industriale, Università Iuav di Venezia, e-mail: ila.fracassi@gmail.com

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ESPLORARE

Appuntamento in fiera MARMOMACC Stone, Design, technology International trade fair Verona Fiere 24-27 settembre 2014 www.marmomacc.com Si svolgerà dal 24 al 27 settembre a Verona MARMOMACC, evento fieristico internazionale del settore marmo. Suddiviso in varie sezioni (MarbleStone & Design, Unprocessed Stone, Machinery & Equipment, Tools & Chemicals) occuperà gli spazi del quartiere fieristico a 2 km dal centro della città. La manifestazione ospiterà anche la premiazione per la tesi di laurea “Paesaggio, architettura e design litici”, giunta alla sua seconda edizione, oltre che la mostra della nuova opera litica di Renzo Piano a Malta, il premio Best Communicator Award, l’Exhibit design per le potenzialità costruttive, decorative e comunicative della pietra, e il Forum del marmo, una serie di conferenze e Lectio Magistralis nell’ambito del settore. La città di Verona inoltre, che ospita l’evento, sarà allestita con installazioni

e sculture e impegnata in iniziative culturali. Oltre al design, all’architettura, alla produzione, viene messa in luce anche la formazione come settore principale allo sviluppo dell’innovazione e della creatività, con il progetto Didattica-Formazione 2014. In contemporanea a MARMOMACC si svolgerà, sempre nella città scaligera, l’edizione 2014 di Abitare il Tempo, il salone dedicato al design d’interni e alle soluzioni d’arredo. All’interno dell’evento fieristico la sezione Italy Contract presenta una serie di prodotti italiani nel campo dell’arredamento, dell’illuminazione del tessuto d’arredi. La sezione espositiva At home, curata dal designer Giuseppe Vigano, raccoglie le collezioni Living, prodotta da Giovanni Barbieri, Night di Lavagnoli Marmi e Wellness di Marini Marmi

di Francesca Guidolin

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Il lato creativo delle crisi Il design italiano oltre le crisi – Autarchia, Austerità, Autoproduzione Milano, Triennale Design Museum 4 aprile 2014 - 22 febbraio 2015 Il Triennale Design Museum è un museo “mutante” che viene allestito con cadenza annuale all’interno del palazzo della Triennale di Milano. Giunto alla sua settima edizione, che si concluderà nel febbraio 2015, propone una colorata analisi sulle reazioni del mondo del design di fronte alle crisi. Il plurale è d’obbligo dato che il curatore Beppe Finessi ha scelto di privilegiare in particolare tre grandi periodi critici: gli anni Trenta, la crisi petrolifera degli anni Settanta e il presente, con la necessità di ripensare i modelli produttivi imposti dalla globalizzazione. Quasi allegramente ignorando l’onda mediatica che in genere evidenzia esclusivamente i lati negativi dei periodi neri, le menti dei protagonisti della mostra hanno colto il significato letterale: crisi dal latino crisis, dal greco krìsis, ovvero “scelta”, “decisione” e


dunque momento che obbliga al movimento e all’innovazione. L’allestimento interessa oltre 600 opere con linguaggi, tipologie e dimensioni differenti: il visitatore incontra oggetti poco conosciuti di molti celebri maestri del passato fino ad arrivare alle interessanti sperimentazioni di designer giovani o emergenti. Il percorso espositivo si conclude con una sezione meno mutante e più permanente dedicata alle icone del design italiano che attraversano indenni i decenni, le mode e le crisi costituendo degli illustri punti fermi che vegliano sulla nascita delle nuove idee.

una colorata analisi sulle reazioni del mondo del design di fronte alle crisi

di Chiara Trojetto

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a sempre l’architettura fa da palcoscenico a grandi eventi e cerimonie civili o religiose. Dagli archi di trionfo romani, simbolo delle vittorie militari, dai teatri alle arene, sedi di magnifici spettacoli e lotte cruente, fino alle grandi cattedrali medievali l’uomo ha sempre utilizzato l’architettura come scenografia per le grandi manifestazioni. Anche in epoca moderna l’architettura continua ad essere al servizio di esposizioni e fiere internazionali, meeting politici o culturali ma soprattutto dei megaeventi mediatici o sportivi quali le Olimpiadi o i campionati del mondo. Molti sono anche i grandi nomi dell’architettura che si sono cimentati nel progetto di piccole o gradi strutture destinate a tali occasioni trasformando la costruzione dell’opera in un atto di spettacolarizzazione dell’evento.

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Celeberrimi sono gli esempi del Crystal Palace di Paxton, realizzato a Londra per l’Esposizione Universale del 1851, o della Torre Eiffel costruita per l’Esposizione Universale del 1889. Il primo, divenuto fin da subito il vero - e forse il solo - protagonista dell’esibizione londinese, è stato un enorme edificio in ferro e vetro, oggi non più esistente, la cui costruzione segna però l’inizio di una nuova epoca architettonica. La Torre Eiffel, progettata invece per essere demolita dopo vent’anni dalla costruzione, è tuttora il simbolo della città, nonostante gli alti costi di manutenzione e gestione. L’architettura del grande evento è diventata nei secoli sempre più opera “da esibizione”, a dimostrazione della potenza economica e dell’abilità organizzativa del paese ospitante. Ed è così che le città, grandi e piccole, fanno a gara per prendere parte a questa globale spettacolarizzazione dell’arte,


Chiara Trojetto

OLIMPIADI, MONDIALI, ESPOSIZIONI UNIVERSALI, FIERE, MOSTRE, CONCERTI, ...

della cultura e dello sport. Ma più l’evento cresce di rilevanza più si estende il campo d’azione delle trasformazioni che esso impone. Non è più solo l’architettura a doversi piegare al suo servizio ma è l’intera città a dover affrontare rapide e talvolta indesiderate mutazioni. Si progettano nuovi sistemi di trasporto e nuovi collegamenti, si costruiscono nuovi quartieri e se ne abbandonano altri, si creano nuove centralità e nuove periferie andando ad alterare funzioni, gerarchie e i rapporti sociali all’interno delle zone coinvolte; ma soprattutto, l’evento diventa occasione di grandi investimenti grazie ai quali la rigenerazione urbana e il marketing coinvolgono l’immagine stessa della città che può essere così esaltata dal successo o sminuita dall’insuccesso della manifestazione. L’evento diventa quindi un mezzo sempre più mediatico e di comunicazione; ma esso è anche strumento strategico per

il rilancio della città o della nazione e strumento politico di governo del territorio. Tuttavia, proprio nella consapevolezza della sua temporale limitatezza, l’evento porta in sé anche un latente ma quanto mai tangibile rischio d’insuccesso, che trova nel lungo periodo la sua concretizzazione: errate pianificazioni, mancati sviluppi o progetti troppo ambiziosi portano talvolta al naufragio dei programmi iniziali con la realizzazione di interventi spesso ingombranti, troppo costosi e poco funzionali, veri e propri “elefanti bianchi” lasciati in eredità alle generazioni future. I quattro contributi che seguono, sono frutto di un approccio multidisciplinare all’analisi del grande evento, dove si affiancano questioni di gorvenance a temi progettuali e tecnologici, successi ad insuccessi, mancate occasioni a possibili strategie per lo sviluppo futuro.

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Grandi eventi e questioni di governo urbano

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di Matteo Basso* randi operazioni di trasformazione urbana Il termine «grande evento» allude a una molteplicità di situazioni diverse per

contenuto, dimensione, investimenti mobilitati, complessità organizzativa, target e copertura mediatica, ricorrenza temporale. A livello accademico, pertanto, è pressoché riconosciuta l’inutilità di apparati concettuali e classificatori rigidi, esistendo sempre possibili sovrapposizioni e lacune (Getz, 2005; Guala, 2007; Capantini, 2010). A puro titolo esemplificativo, possono considerarsi tali grandi manifestazioni sportive come le Olimpiadi, i Mondiali di calcio, le competizioni di atletica, di nuoto e di Formula 1, ma anche gli eventi fieristici e i meeting politici (G8) e religiosi (giornate mondiali della gioventù e viaggi pastorali dei pontefici). Sono spesso ricomprese nel novero dei grandi eventi anche una serie di manifestazioni meno spettacolari e visibili, come i concerti, gli spettacoli, i festival, le mostre d’arte e del libro, le capitali europee della cultura. L’aggettivo «grande», che la letteratura anglosassone restituisce indistintamente come «mega», «big», «hallmark» e «special», è però solitamente associato alle Olimpiadi, ai Mondiali di calcio e alle Esposizioni Universali, i tre grandi eventi per eccellenza1. In primis, per il significato e la riconoscibilità in-

ternazionale di tali fenomeni, quindi per la complessità organizzativa, l’impatto territoriale e gli ingenti investimenti pubblici mobilitati ai fini della loro organizzazione. Al di là delle questioni di nominazione, anche nell’immaginario comune Olimpiadi, Mondiali di calcio ed Esposizioni

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Universali sono associati a grandi trasformazioni territoriali. Inevitabilmente, infatti, ad una città intenzionata a ospitare un grande evento è richiesta di realizzare e/o modernizzare impianti sportivi e spazi espositivi, così come di potenziare e costruire infrastrutture di trasporto finalizzate ad accogliere e “smistare” gli intensi flussi di visitatori in entrata. In aggiunta, tali manifestazioni si accompagnano alla costruzione di particolari manufatti architettonici che diventano “simbolo” dell’edizione stessa. Si tratta di interventi particolarmente impattanti, quasi sempre intenzionalmente localizzati in aree considerate degradate, su cui si riversano anche dinamiche di gentrification e polarizzazione sociale. Tali eventi hanno storicamente prodotto trasformazioni fisiche nelle città in cui sono stati organizzati. Si pensi al Crystal Palace realizzato in Hyde Park a Londra per la prima Esposizione Universale (1851), o alla Tour Eiffel eretta in occasione dell’Esposizione parigina del 1889. Tuttavia, è a partire dagli anni Sessanta del XX secolo che grandi eventi come le Olimpiadi iniziano a essere concepiti quali veri e propri strumenti di politica urbana (Essex e Chalkley, 1998; Chalkley e Essex, 1999). Roma 1960 e Tokyo 1964 ben evidenziano infatti come l’organizzazione dell’evento sia stata concepita quale occasione di modernizzazione di pezzi rilevanti del proprio tessuto urbano. Negli anni Ottanta – e ancor più negli anni Novanta – ha luogo, dapprima nei Paesi occidentali e quindi nei cosiddetti Paesi “emergenti” come Cina, Sud Africa e Brasile, una vera e propria “corsa” al grande evento, confermata dal crescente numero di candidature presentate a ogni nuova edizione dei Giochi Olimpici o delle Expo. I grandi eventi sono dunque


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al di là delle questioni di nominazione, anche nell’immaginario comune Olimpiadi, Mondiali di calcio ed Esposizioni Universali sono associati a grandi trasformazioni territoriali

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visti come uno degli strumenti chiave attraverso i quali le città si propongono di affrontare le sfide della globalizzazione economica, della de-industrializzazione e della terziarizzazione della propria base economica. In particolare, l’organizzazione di grandi manifestazioni internazionali è perseguita dalle città al fine di promuovere e far circolare una rinnovata immagine, identità, ruolo e posizione nello scacchiere internazionale, ma anche per attrarre nuove popolazioni, attività economiche, investimenti e turisti. Per i Paesi emergenti, il grande evento è poi concepito quale occasione di legittimazione politica e consacrazione economica a livello internazionale, come confermato dalle celebri edizioni cinesi dei Giochi Olimpici (Pechino 2008) e delle Esposizioni Universali (Shanghai 2010). Da un punto di vista squisitamente urbanistico, poi, la loro localizzazione è pensata in modo tale da favorire il recupero funzionale e la riqualificazione ambientale di vaste aree dismesse e vuoti urbani, inserendosi in tal modo nei processi di costruzione della città post-industriale, unitamente a grandi progetti urbanistici e a nuove politiche urbane2 . In definitiva, anche attraverso le trasformazioni spaziali trainate dai grandi eventi, le città si attrezzano per offrire nuove funzioni pregiate (commerciali, direzionali e legate al tempo libero), così come un nuovo paesaggio urbano di qualità che agisca quale volano di sviluppo economico. Configurazioni istituzionali e di processo Oltre alle soluzioni progettuali e alle implicazioni spaziali connesse all’organizzazione di un grande evento, è però par-

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ticolarmente interessante soffermarsi sui meccanismi di governo definiti dalle città ai fini di una loro gestione efficace. I processi organizzativi di un grande evento si caratterizzano infatti per una serie di elementi che, nel loro insieme, configurano l’ideazione e la gestione di tali manifestazioni come delle attività particolarmente complesse. In primis, per le scadenze temporali assolutamente improrogabili che intercorrono tra il momento dell’aggiudicazione e quello dell’inaugurazione delle manifestazioni (sette anni nel caso delle Olimpiadi e delle Esposizioni), quindi per i condizionamenti dettati da regolamentazioni e organismi di controllo internazionali (il Comitato Olimpico Internazionale nel caso delle Olimpiadi, il Bureau International des Expositions nel caso delle Esposizioni). Infine, per la massiccia introduzione di agenzie e società specificatamente dedicate all’evento, il cui operato interferisce con il tradizionale riparto di funzioni, poteri e competenze amministrative già di per sé frammentato nella città contemporanea (Barella, 2002; Capantini, 2010). Tali elementi si ritrovano, con intensità diverse, in due esempi particolarmente significativi: Londra (Olimpiadi del 2012) e Milano (Expo 2015). Quali sono dunque le configurazioni istituzionali e le soluzioni di governo adottate dalle due città per la gestione di tali eventi? Londra 2012: la centralità del governo metropolitano Il Parco Olimpico londinese è situato in un’area, a circa 15 km dal centro città, tradizionalmente conosciuta come Lower Lea Valley (East London), un contesto particolarmente depri-


vato, in cui, prima dei Giochi, erano ben visibili i “segni” dei processi di de-industrializzazione in corso dagli anni ’80 del XX secolo. In tale prospettiva, le Olimpiadi del 2012 sono state concepite quale strumento di attuazione di una specifica strategia di rigenerazione fisica e socio-economica dell’Est della città, avviata con il recupero dei Docklands promosso dal governo Thatcher e successivamente concretizzatasi nel London Plan del 2004 del nuovo Sindaco laburista Ken Livingstone. Dal punto di vista gestionale, Londra ha “complessificato” le soluzioni organizzative richieste dal Comitato Olimpico Internazionale, affidando l’intero processo di pianificazione delle Olimpiadi a tre diverse agenzie. L’organizzazione dell’evento e le questioni di gestione logistica sono state affidate alla London Organising Committee of the Olympic Games (una società privata), mentre la costruzione di infrastrutture e impianti è stata gestita dalla Olympic Delivery Authority (una società pubblica). L’elemento di gran lunga più interessante dell’esperienza londinese è però l’introduzione, a partire dall’aprile del 2012, della London Legacy Development Corporation (LLDC), un’agenzia destinata al trattamento della questione dell’eredità del grande evento. Quest’ultima ha sostituito una precedente agenzia attiva dal 2009 al 2012 (Olympic Park Legacy Company), nata per avviare concretamente, tre anni prima dell’evento stesso, il discorso attorno al recupero dell’area olimpica. La LLDC costituisce il primo esempio, nel Regno Unito, di “Mayoral Development Corporation”, una società ad hoc di trasformazione urbana direttamente controllata dal Sindaco metropolitano Boris Johnson. Ad essa spettano compiti

di elaborazione del piano urbanistico per le aree olimpiche, sottraendo in tal modo i poteri alle quattro municipalità interessate dalla localizzazione del Parco. In tale prospettiva dunque, il complessivo processo organizzativo delle Olimpiadi londinesi si è tradotto, al di là delle conseguenze spaziali e socio-economiche, in un cambiamento della geografia dei poteri istituzionali della città (Newman, 2007). Si assiste infatti a un rafforzamento, per l’area olimpica e il suo immediato intorno, dei poteri del Sindaco metropolitano, a discapito delle singole municipalità coinvolte. Milano: un modello «para-emergenziale» di gestione dell’evento In Italia, il modello sino a oggi preponderante nella gestione dei grandi eventi concepisce tali fenomeni, seppur intenzionali e programmati, alla stregua delle grandi calamità e delle catastrofi naturali. In tale prospettiva, dunque, ai grandi eventi è associato un modello di gestione «para-emergenziale», fondato sul ricorso alle figure dei commissari straordinari di governo e sulla deroga a pezzi rilevanti di normativa ordinaria, in particolare con riferimento alla disciplina degli appalti pubblici, alle questioni urbanistiche e di tutela paesaggistico-ambientale e al funzionamento dei procedimenti amministrativi (Capantini, 2010). Il caso di Milano – il cui sito per l’Esposizione Universale del 2015 è localizzato nell’area di Rho-Pero a circa 10 km a Nord-Ovest del centro – ricalca a pieno titolo tale modello organizzativo. Accanto infatti alla società appositamente costituita per la realizzazione del sito espositivo e l’organizza-

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i processi organizzativi di un grande evento si caratterizzano per una serie di elementi che, nel loro insieme, configurano l’ideazione e la gestione di tali manifestazioni come delle attività particolarmente complesse

zione dell’evento (Expo 2015) e per l’acquisizione delle aree e la gestione delle trasformazioni post-evento (Arexpo), diversi sono gli organismi commissariali introdotti nel tempo. Tra questi, il commissario straordinario (i due Sindaci di Milano Letizia Moratti e Giuliano Pisapia), il commissario generale (una figura prevista dalla Convenzione di Parigi del 1928 per la regolazione delle Esposizioni, a Milano individuata in Roberto Formigoni), il commissario generale di sezione per la costruzione del padiglione italiano (Diana Bracco) e, infine, il commissario unico Giuseppe Sala (già amministratore delegato della società Expo 2015). Si ha dunque una tendenza, ben evidente nella fase iniziale del processo, a una “costruzione” intenzionale dell’emergenza, con il ricorso a una serie di figure e poteri straordinari assolutamente non proporzionali alle effettive esigenze del caso (Roccella, 2010). In sintesi, una proliferazione di soggetti, poteri e competenze che, ben lungi dal “semplificare” il complessivo processo organizzativo, ha finito per appesantirlo irrimediabilmente. Una sorta di “paradosso” della gestione para-emergenziale che, unitamente alle numerose dispute politiche nei primi tre anni della vicenda e allo scandalo legato alle «tangenti» dell’ultimo anno, ha generato i pesanti ritardi di oggi. Con riferimento poi alle strategie di trasformazione urbana, la vicenda milanese mette bene in evidenza la mancanza di una vera e propria politica di sviluppo dell’area di Rho-Pero, la quale, al contrario, è esemplificativa di un approccio incrementale e fondato su occasioni ad hoc di costruzione della città contemporanea. Ciò trova conferma sia nell’assenza di un disegno di assetto territoriale iniziale in cui il grande evento è inserito, sia nella difficoltà con cui è stato avviato

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il discorso sul riutilizzo dell’area a partire dalla fine della manifestazione. Senza entrare ulteriormente nel merito delle diverse soluzioni organizzative adottate a Londra e a Milano, che peraltro sono riconducibili a specifiche tradizioni e culture amministrative, si possono evidenziare alcune tendenze comuni. In entrambi i casi, infatti, è evidente come la complessità di gestione di tali processi sia affrontata con l’introduzione di una molteplicità di organismi, ciascuno con compiti specifici. Tale scelta ha prodotto un “cambiamento” temporaneo nella geografia dei poteri, delle funzioni e delle competenze amministrative tra gli attori ordinari delle trasformazioni urbane, con un progressivo accentramento delle attività di gestione: nelle agenzie, come visto a Londra, nelle figure commissariali, come visto a Milano. Se tale cambiamento sia solo momentaneo o se, al contrario, esso produca apprendimenti e mutamenti più stabili nelle configurazioni istituzionali di governo urbano è difficile a dirsi al momento. A tal fine, sarà necessario monitorare, nel prossimo futuro, l’evoluzione dei ruoli della Legacy Corporation nel caso inglese, e di Arexpo nel caso milanese.

* Matteo Basso, Dottorando di ricerca in pianificazione territoriale e politiche pubbliche del territorio, Università Iuav di Venezia. e-mail: mattbass@stud.iuav.it


NOTE 1 - Il nucleo originario della ricerca scientifica sui grandi eventi appartiene al ramo delle scienze economiche e sociali, in particolare dell’economia e della sociologia del turismo. I contributi ancor oggi più significativi sono quelli che ne hanno proposto una qualche definizione e classificazione: hallmark events (Ritchie, 1984; Hall, 1992); special events (Burns e Mules, 1986), mega events (Roche, 2000). 2 - Con approcci che propongono un “distanziamento” dai modelli tradizionali di regolazione dello sviluppo urbano, fondati sull’uso pervasivo del Piano Regolatore Generale. Tali modelli, considerati oramai incapaci di “trattare” con efficacia le questioni urbane emergenti, sono stati sottoposti a pesanti critiche a partire dagli anni Sessanta del XX secolo.

IMMAGINI 01 - Londra, lo Stadio Olimpico e l’ArcelorMittal Orbit. Foto dell’autore, 19 marzo 2013. 02 - Il Parco Olimpico londinese nel contesto della Grande Londra. 03 - Quartieri ai margini del Parco Olimpico londinese. 04 - Quartieri e località ai margini del sito Expo di Milano. 05 - Il sito espositivo di Expo nel contesto della Provincia di Milano. 06 - Milano, interventi ai margini del sito espositivo. Cascina Merlata. Foto dell’autore, 18 luglio 2014.

06 PER APPROFONDIRE - Barella D. (2002). “I Giochi Olimpici nella prospettiva politologica”, in Bobbio L. e Guala C. (a cura di). Olimpiadi e grandi eventi. Verso Torino 2006. Come una città può vincere o perdere le Olimpiadi, Roma: Carocci, pp. 95-107. - Burns J.P.A. e Mules T.J. (1986). “A framework for the analysis of major special events”, in Burns J.P.A., Hatch J.H. e Mules T.J. (a cura di). The Adelaide Grand Prix: the impact of a special event, Adelaide: The Centre for South Australian Economic Studies, pp. 5-38. - Capantini M. (2010). I grandi eventi. Esperienze nazionali e sistemi ultrastatali, Napoli: Editoriale Scientifica. - Chalkley B. e Essex S. (1999). “Urban development through hosting international events: a history of the Olympic Games”, in Planning Perspectives, 14(4), pp. 369-394. - Essex S. e Chalkley B. (1998). “Olympic Games: catalyst of urban change”, in Leisure Studies, 17(3), pp. 187-206. - Getz D. (2005). Event Management & Event Tourism, 2nd Edition, New York: Cognizant Communication Corporation. - Guala C. (2007). Mega Eventi. Modelli e storie di rigenerazione urbana, Roma: Carocci. - Hall C.M. (1992). Hallmark Tourist Events: Impact, Management and Planning, London: Belhaven. - Newman P. (2007). “Back the bid: The 2012 Summer Olympics and the Governance of London”, in Journal of Urban Affairs, 29(3), pp. 255-267. - Ritchie J.R.B. (1984). “Assessing the impact of hallmark events: conceptual and research issues”, in Journal of Travel Research, 23(1), pp. 2-11. - Roccella A. (2010). “Milano in stato di eccezione”, in Giustamm.it, 7(2), pp. 1-12. - Roche M. (2000). Mega Events and Modernity. Olympics and Expos in the growth of global culture, London: Routledge.

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Bersaglio centrato Le Olimpiadi e Paraolimpiadi di Londra 2012, il caso della Shooting Arena

Sarebbe meglio ricordare invece i buoni esempi, come appunto quelli protagonisti delle Olimpiadi e Paraolimpiadi di Londra 2012, svoltesi tra il 27 luglio e il 12 agosto del medesimo anno. Non sono ancora chiari i bilanci economici e le effettive ricadute sull’economia della Gran Bretagna, le variabili coinvolte sono molte e le considerazioni che si possono trarre sono le più differenti. Ciò nonostante, su altri aspetti si possono fare osservazioni ben più chiare che non riguardano la gestione dei finanziamenti bensì l’eredità architettonica di questi Giochi. A darne un segnale positivo è prima di tutto il progetto “We Made 2012”3, creato dall’associazione “The Building Centre” di Londra, che si occupa di ricerca e promozione sulla qualità del costruito nella realtà britannica. Attraverso “We Made 2012”

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si vuole prima di tutto descrivere il lavoro che è stato fatto in occasione dei giochi olimpici e le imprese che hanno partecipato alla loro realizzazione: si riporta, a un anno di distanza, lo stato delle opere, quelle che tuttora esistono e quelle che invece sono state smontate, i quartieri riqualificati e le nuove aree urbane. Questo monitoraggio rappresenta non solo l’esistenza di un’effettiva eredità, ma anche il suo potenziale successo. La pianificazione delle Olimpiadi si è basata sull’applicazione del concetto di sostenibilità a differenti scale, dal bullone al quartiere: i giochi olimpici di Londra sono stati progettati come opportunità di riqualificazione dei quartieri e delle infrastrutture, e di miglioramento dei sistemi di comunicazione. Una pianificazione che va ben oltre l’evento sportivo in sé.

la Shooting Arena costituisce un valido esempio di struttura temporanea, funzionale sia nella propria fase d’uso che nella propria dismissione

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e Olimpiadi e Paraolimpiadi di Londra 2012 rappresentano oggigiorno un esempio di grande evento sportivo: nonostante occorrano ancora degli anni per poter valutare la loro eredità, si possono già trarre le prime considerazioni in merito sebbene le notizie sui bilanci siano offuscate1. Siamo purtroppo spesso abituati ad associare i grandi eventi, anche relativamente grandi e non necessariamente internazionali, a una mala organizzazione che produce ricadute negative sui bilanci economici e sociali del paese ospitante. Si vedano i recenti Mondiali di Calcio in Brasile e i XXII Giochi Olimpici Invernali a Sochi in Russia, da cui non è ancora passato un anno, ma i giornali parlano già di infrastrutture ed edifici abbandonati 2 .

di Margherita Ferrari*


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I principali enti impegnati in questa pianificazione sono stati il Government Olympic Executive (GOE) e la Olympic Delivery Authority (ODA), responsabile della costruzione delle sedi e delle infrastrutture, le cui direttive si basano su tre concetti: Reduce, Re-use, Recycle. La strategia vincente è stata quella di aver sfruttato le strutture già esistenti (come la Wembley Arena, utilizzata per la precedente edizione dei giochi nel 1948), e di aver saputo distinguere tra le nuove realizzazioni l’impiego di una struttura temporanea piuttosto che una permanente. A tal proposito l’edizione londinese rappresenta l’evento olimpionico con più strutture temporanee della storia, ovvero circa la metà delle nuove opere realizzate. Questa particolarità, accompagnata anche da un’accurata progettazione, ha permesso di installare opere in aree della città in cui non sarebbe stato possibile intervenire con edifici permanenti. Il Parco Olimpico è stato realizzato nell’East End londinese, nella periferia industriale del quartiere di Stratford, mentre la maggior parte delle altre strutture sono state insediate lungo il fiume Tamigi e in zone centrali della città (come l’Horse Guards Parade che ha ospitato il beach volleyball, una delle arene più apprezzate nelle ultime edizioni olimpioni-

che, progettata e installata con la supervisione di due italiani, Roberto Reggiani e Massimo Scarciglia). Attualmente il Queen Elizabeth Olympic Park4 rappresenta un progetto urbanistico di riqualificazione dell’East End, dove strutture come la Basketball Arena sono state smontate, mentre edifici permanenti sono stati destinati ad altre funzioni, come l’International Broadcast Centre divenuto sede di BT Sport, un gruppo di canali televisivi sportivi. L’ODA ha dato precise direttive in merito alla realizzazione delle strutture temporanee, ovvero che almeno il 90% dei materiali impiegati si sarebbe dovuto riutilizzare o riciclare: valutazioni come BREEAM e CEQUAL, che non erano applicabili a questa tipologia di edifici, sono state sostituite dall’importanza di ridurre i rifiuti5. Come per le strutture permanenti, anche in questo caso i progettisti hanno dovuto rispettare le predisposizioni del Comitato Olimpico per lo svolgimento dei giochi e dei media per le riprese televisive, sempre con l’obiettivo di garantire il comfort all’interno dei padiglioni. Tra le strutture temporanee si ricorda la Olympic and Paralympic Shooting Arena, realizzata dallo studio berlinese

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MagmaArchitecture e vincitrice anche del premio AIA UK 2013 Excellence in Design Award: la struttura è stata progettata secondo le direttive e le disposizioni della International Shooting Sport Federation e della sicurezza. Il campus si estende per 14.000 mq ed è stato installato presso la caserma della storica Royal Artillery. È costituito da tre padiglioni: quello per le finali totalmente chiuso con 2600 posti a sedere, mentre i due per le qualificazioni parzialmente coperti con complessivamente 3800 posti a sedere. Una delle prime soluzioni progettuali al fine di limitare l’impiego di materiale è stato quello di ridurre il numero dei padiglioni per le qualificazioni da tre a due: uno per la distanza di 25 m mentre l’altro per quelle dei 10 m e 50 m. Questa soluzione è stata ottenuta grazie all’installazione di una parete mobile che ha permesso di risparmiare anche in termini di tempo e costi. Ciascuno dei tre edifici è costituito da un campo di gara e dagli spalti per gli spettatori, intesi quasi come due corpi separati. Tale distacco è stato necessario al fine di garantire una buona insonorizzazione e rispettare le norme di sicurezza previste, obiettivi raggiunti grazie anche all’impiego di pannelli in compensato per rivestire i campi di gara. La struttura è stata realizzata con un telaio in acciaio costituito per oltre l’80% da elementi standardizzati forniti dalla ES Global: sono stati successivamente creati elementi su misura al fine di collegare le travature senza l’impiego di ulte-

riori colonne che avrebbero potuto creare disturbo visivo agli spettatori. Il telaio, tramite piastre in acciaio, scarica sui pilastri di fondazione completamente a secco, costituiti da vecchi tubi del gas riciclati e assemblati. Gli edifici sono stati rivestiti con una membrana in PVC bianca, scelta per le sue proprietà di resistenza a trazione e di trasparenza: permette infatti di illuminare in modo uniforme gli ambienti interni. Solamente l’impianto più ampio è stato rivestito da più strati al fine di non creare disturbi luminosi per le riprese televisive. Al fine di ottimizzare l’isolamento termico interno è stata predisposta una doppia membrana in PVC con intercapedine di 2 m attraverso la quale è stato possibile ventilare naturalmente gli edifici minimizzando l’uso di energia per il mantenimento del comfort interno. La ventilazione è stata resa possibile anche grazie ai fori sulla superficie, per i quali è stato necessario realizzare specifici anelli in acciaio. Questa scelta progettuale ha riportato inoltre altrettanti vantaggi, come descritto in un report dello studio MagmaArchitecture: gli anelli infatti hanno permesso di mantenere la membrana in doppia curvatura, ottimizzandone l’utilizzo. Tale geometria ha potuto garantire lo scorrimento dell’acqua piovana sulla superficie e il suo completo irrigidimento: nel report viene dimostrato che le forme degli anelli hanno contribuito a distribuire in modo equo le forze su tutta la superficie della membrana, a differenza dell’ipotesi in cui non fossero utilizzati. In tal caso sarebbe stato necessario

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03 IMMAGINI 01 - Vista esterna di due padiglioni della Shooting Arena realizzate in occasione delle Olimpiadi e Paraolimpiadi di Londra 2012; Hufton+Crow. 02 - Montaggio della membrana in PVC di copertura; ESG 03 - Due degli anelli della facciata esterna: il foro di destra è completato, mentre quello di sinistra è privo del rivestimento; Dave Tully. 04 - Schema riassuntivo delle principali componenti di un padiglione; immagini e disegni forniti dallo studio Magma Architecture. 05 - Vista interna di uno degli padiglioni; Magma Architecture.

la pianificazione delle Olimpiadi si è basata sull’applicazione del concetto di sostenibilità a differenti scale, dal bullone al quartiere

impiegare il 40% di acciaio in più per garantire le medesime prestazioni6. Oltre ad avere precise funzioni tecniche questi elementi anche attraverso l’utilizzo del colore, vogliono richiamare l’immagine dei fori generati dai proiettili e quindi enfatizzare un effetto che nella realtà è quasi impercettibile all’occhio umano. Attraverso un’accurata progettazione delle strutture e la scelta dei materiali, MagmaArchitecture ha rispettato le disposizioni dei differenti enti e non ha lasciato alcuna traccia fisica, anzi gli elementi sono stati scelti sulla base del proprio impiego successivo, alcuni riutilizzati, altri destinati al riciclaggio. Le strutture del telaio ad esempio sono state restituite alla ES Global, e a loro volta saranno (e sono) impiegate in altri eventi temporanei. La membrana in PVC, priva di ftalati, è completamente riciclabile e al termine dell’evento è stata recuperata dal produttore Serge Ferrari responsabile anche del suo riciclaggio. Altre parti invece sono state recuperate per nuovi eventi. Gli edifici per le qualificazioni ad esempio sono stati suddivisi: le membrane di chiusura degli spalti sono state vendute, mentre i materiali per l’insonorizzazione dei campi, cioè le pareti in compensato, i deflettori e le tettoie, sono stati riutilizzati per le gare di tiro a segno dei Giochi del Commonwealth tenutisi lo scorso agosto. Gli edifici sono stati inoltre riconfigurati per un centro equestre a Surrey e uno per il tempo libero in Cornovaglia.

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Il campus della Shooting Arena è costituito da tre padiglioni, la cui struttura rispecchia la suddivisione interna: gli spalti per gli spettatori e il campo di gara.

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La membrana in PVC, priva di ftalati, è completamente riciclabile. E’ stata recuperata dal produttore Serge Ferrari. Le membrane dei padiglioni per le qualificazioni sono state vendute.

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La membrana esterna degli spalti è ritmata dai fori colorati che richiamano l’effetto dei proiettili

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Le strutture del tealio sono state restituite al fornitore, ES Global, e reimpiegate per altri eventi temporanei.

Il telaio è costituito principalmente da elementi standardizzati. i gl

La membrana interna permette di creare un sistema di ventilazione naturale che mantiene un buon comfort termico all’interno del padiglione.

Gli spalti e le sedute sono state fornite da LOCOG, a cui sono state successivamente restituite.

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Il rivestimento per la copertura del campo da gara è stato impiegato solo per il padiglione delle fi nali.

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Progettati separatamente per soddisfare differenti requisiti: il comfort interno, la sicurezza, l’insonorizzazione.

Solamente il campo di gara del padiglione per la fi nale prevedeva la copertura, e quindi la relativa struttura portante.

Le pareti in compensato, i deflettori e le tettoie sono stati riutilizzati per i Giochi del Commonwealth dello scorso agosto.

Il campo di gara.

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La Shooting Arena costituisce un valido esempio di struttura temporanea, funzionale sia nella propria fase d’uso che nella propria dismissione, appunto riciclabile e reimpiegabile. La scelta da parte del Comitato Olimpico di investire anche in strutture temporanee è riuscita grazie a un accurato controllo lungo tutto il loro ciclo di vita. Probabilmente la decisione più importante è stata quella di riconoscere le opportunità delle strutture permanenti e temporanee, e valutarle per ogni singolo caso ottimizzando ciò che la città poteva già offrire. Infatti se un edificio ha una durata di utilizzo differente da quella progettata può comportare spese impreviste, dovute alla manutenzione prolungata di una struttura che doveva essere utilizzata solo temporaneamente o al completo abbandono di un’opera duratura. Scelte che ricadono anche sulla stessa qualità dei materiali, e quindi sul loro fine vita. È da qui che deriva l’eredità architettonica del paese. L’impiego di strutture temporanee non è necessariamente la risposta ideale per eventi temporanei, ma costituisce una valida opportunità, così come le stesse strutture permanenti. La connotazione sostenibile associata ai Giochi Olimpici e Paraolimpici di Londra 2012 deriva proprio da questa strategia progettuale, grazie alla quale i temuti “elefanti bianchi” non sembrano aver lasciato neppure le proprie orme. Tuttavia solo tra qualche anno sarà possibile valutare l’eredità architettonica e il proprio potenziale, ma nel frattempo possiamo probabilmente inserire nel medagliere questa edizione olimpionica.

* Margherita Ferrari, Assegnista di Ricerca, Università Iuav di Venezia. e-mail: margheritaferrari27@gmail.com NOTE 1 - Enrico Franceschini, “L’eredità delle Olimpiadi 2012 un anno dopo. Gran Bretagna divisa sul bilancio dei Giochi”, in www.repubblica.it, 26 luglio 2013. 2 - “Benvenuti nella città fantasma: Sochi dopo le Olimpiadi”, in LaRepubblica.it, foto di Alexander Valov #IBERPRESS. 3 - www.wemade2012.co.uk/index.asp 4 - queenelizabetholympicpark.co.uk 5 - Lena Kleinheinz, Buill for the Moment: Designing for a Fastpaced World, in The Economy Of Sustainable Construction, Ilka&Andreas Ruby, Ruby Press, Berlin, 2014, pp. 310-325. 6 - Lena Kleinheinz, “Buill for the Moment: Designing for a Fastpaced World”, in The Economy Of Sustainable Construction, Ilka&Andreas Ruby, Ruby Press, Berlin, 2014, pp. 310-325. Materiale fornito dall’arch.Lena Kleinheinz di Magma Architecture PER APPROFONDIRE - Joseph di Pasquale, “ London Shooting Venue, Temporary Landmark”, Arca International 111, marzo 2013, pp. 12-21 “Poros textiles”, Arquitectura viva 143, 2012, pp. 56-59. - Martin Ostermann et al., “Plastic Make Perfect”, Mark: Another Architecture 40, ottobre 2012, pp. 124-133. -w w w.detail-online.com/architecture/news/london2012-olympic-shooting-venues-019370.html www.architetti.com/articolo/15513/Olimpiadi-2012-Magma-Architecture-centra-il-bersaglio-con-la-ShootingArena. - Lena Kleinheinz, “Buill for the Moment: Designing for a Fast-paced World”, in The Economy Of Sustainable Construction, Ilka&Andreas Ruby, Ruby Press, Berlin, 2014, pp. 310-325.

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Il riposizionamento strategico delle città europee: dalla spettacolarizzazione dell’urbano alla smart city L’esperienza di Milano

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di Stefano Di Vita* trategie di marketing territoriale oltre la terziarizzazione delle città Assumendo come campo di osserva-

zione la città di Milano, il presente contributo mira a evidenziare alcuni recenti cambiamenti nelle strategie di riposizionamento delle città europee su scala globale, che sembrano corrispondere ad una presunta incipiente metamorfosi dell’economia e della società dei servizi, affermatasi negli scorsi decenni, verso nuove forme di organizzazione economica e sociale, caratterizzate da una crescente diffusione di attività manifatturiere innovative: benché ancora deboli e dalle prospettive incerte, questi accenni di una possibile inversione di tendenza assumono particolare rilevanza in contrapposizione alla contrazione in corso dell’economia e della società dei consumi. Alcuni segnali di questo cambiamento possono essere altresì riconosciuti nelle attuali politiche urbane che, ai grandi progetti di trasformazione spaziale della precedente fase di de-industrializzazione (spesso caratterizzati da un significativo impatto mediatico e da un approccio fortemente orientato allo sviluppo del mercato immobiliare), stanno affiancando inedite strategie di innovazione economica e sociale. In questo senso, nel contesto italiano l’esperienza milanese sembra essere particolarmente rappresentativa. Da un lato, a fronte delle numerose criticità espresse dalle grandi trasformazioni urbane attivate negli ultimi anni, si stanno diffondendo proposte ed esperienze dal basso, che costituiscono un sistema di avanguardie (Gallione 2014): incubatori, co-wor-

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king, fab-lab, che esprimono un’elevata capacità di sviluppo legata all’espansione del settore del new manufacturing (Compagnucci 2013; Menghini 2013; Micelli 2014) e del quinto stato delle libere professioni (Formenti 2003; Bonomi 2013), rispetto a cui il capoluogo lombardo potrebbe rinnovare e consolidare il suo ruolo di polo urbano precursore e propulsore di condizioni di innovazione (Adamoli 2013; Adamoli, Caiazzo 2013; Alferj, Favazzo 2014). Dall’altro lato, l’organizzazione di un grande evento come l’ormai imminente Esposizione Universale del 2015, che rappresenta la massima espressione del fenomeno di spettacolarizzazione dell’urbano in cui si è spesso tradotto lo sviluppo post-industriale delle città dei paesi a economia capitalista matura, si intreccia con la promozione di strategie e progetti di smartness urbana, attraverso i quali si sta tentando di stimolare il rinnovamento e il riposizionamento della città alla scala europea e mondiale. Se il rischio che anche il paradigma della smart city possa essere impiegato semplicemente come slogan, e quindi tradursi in una nuova opportunità di sviluppo del processo di festivalizzazione delle città degli scorsi decenni (Venturi 1994), è elevato e non può essere ignorato, va comunque sottolineata la peculiarità del caso di Milano: mentre uno degli elementi caratterizzanti dei progetti di smartness urbana attivati è rappresentato dallo sviluppo di iniziative espressamente dedicate all’Expo 2015, al contempo uno degli aspetti maggiormente innovativi dell’esposizione milanese, rispetto ad altri mega-eventi recentemente celebrati in diversi contesti territoriali, è l’inedita sperimentazione di progetti di smart city nell’occasione di una grande manifestazione. La proliferazione di grandi eventi su scala globale, a cui si


è assistito a partire dagli anni Novanta del Novecento e a cui è corrisposta una larga diffusione della letteratura specializzata (Hall 1992; Roche 2000; Guala 2007; Getz 2008), ha origine nei processi di de-industrializzazione della società (e delle città), nonché di mondializzazione dell’economia e della cultura contemporanea, che condizionano lo sviluppo urbano. La promozione dell’immagine delle città, di cui gli eventi sono veicolo privilegiato per il loro intrinseco valore mediatico, è diventata una priorità delle politiche urbane, modificando il ruolo tradizionalmente svolto dalle grandi manifestazioni che hanno segnato lo sviluppo della metropoli industriale: da occasioni eccezionali di innovazione tipo-morfologica e di trasformazione dello spazio fisico e degli assetti socio-economici delle città ospiti, a opportuni-

i mega-eventi possono offrire una chiave di lettura multidisciplinare per l’osservazione e l’interpretazione del fenomeno urbano contemporaneo

tà straordinaria di marketing territoriale finalizzato al riposizionamento delle stesse città ospiti nella rete urbana globale (Munoz 2011). Nella loro eccezionalità, i mega-eventi possono offrire una chiave di lettura multidisciplinare per l’osservazione e l’interpretazione del fenomeno urbano contemporaneo, della sua organizzazione spaziale e funzionale, della sua rinnovata centralità nel processo di mondializzazione e delle sue contraddizioni interne (Bolocan Goldstein et al. 2014). Dopo l’emblematica esperienza fallimentare dei Giochi Olimpici Estivi di Atene 2004, nei paesi europei la grande contrazione del 2008 sembra aver contribuito a stimolare l’affermazione di una nuova tendenza: un’evoluzione dei processi di disneylandizzazione (Nicolin 2007) e di urbanalizzazione (Munoz 2008) delle città degli scorsi decenni, ovvero di un’urbanistica dello spettacolo prevalentemente orientata alla realizzazione di grandi progetti urbani e alla celebrazione di grandi manifestazioni internazionali di elevato impatto mediatico (Gaja i Diaz 2009), verso nuovi obiettivi di sviluppo e modalità di intervento. Elementi di innovazione si stanno ad esempio affiancando ai consueti progetti di sviluppo immobiliare nell’ambito della retorica della smart city. Molte sono le città del continente che, dopo aver recentemente ospitato diversi grandi eventi, nell’attuale congiuntura stanno sostituendo l’organizzazione di manifestazioni straordinarie, eccessivamente dispendiose e rischiose (Furrer 2002; Di Vita 2010), con progetti che assumono la contrazione delle risorse come condizione operativa e la necessità di innovazione spaziale e socio-economica ad elevato contenuto tecnologico come sfida. Una nuova frontiera del marketing territoriale sembra

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quindi esprimersi attraverso il paradigma della smart city, che in questo senso potrebbe anche simbolicamente rappresentare una possibile transizione dalla città post-industriale dei consumi ad una città neo-industriale delle produzioni additive. Significative sono le esperienze di Barcellona, Genova e Torino che, dopo aver investito molte risorse nei grandi eventi per incentivare processi e progetti di rigenerazione urbana post-industriale, condotti con successo tra gli anni Novanta e il primo decennio del Duemila, hanno oggi abbandonato (temporaneamente?) la straordinarietà delle grandi manifestazioni e stanno sostenendo, con maggiore determinazione rispetto ad altre città europee, il loro rinnovamento nell’ambito di programmi di smartness urbana: un’opportunità per superare la fase di recessione che ha fatto seguito alla loro recente transizione terziaria. Un’esperienza simile è del resto quella di una città globale come Londra che, in un contesto non così pesantemente segnato dalla crisi, ha iniziato a investire significativamente nello sviluppo della smart city in seguito alla celebrazione delle Olimpiadi 2012, a partire dalla recente approvazione dello Smart London Plan. Benché non sia chiaro se e quali legami intercorrano tra la crisi attuale e i grandi eventi recentemente ospitati dalle città europee negli ultimi trent’anni, diversamente dai casi citati Milano è chiamata a organizzare una grande manifestazione in una fase di contrazione, che pertanto non può essere sottovalutata e richiede approcci e soluzioni differenti dal passato. Questa sfida potrebbe essere agevolata proprio dalla diffusione delle ICT, rispetto alle quali l’esperienza milanese dell’Expo 2015 propone alcune buone intuizioni che potreb-

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bero compensare, almeno in parte, le numerose criticità già riscontrate nella fase di organizzazione della manifestazione: dalle difficoltà politiche nella definizione della governance dell’evento, alla riduzione dei finanziamenti originariamente attesi; dai ritardi nella realizzazione delle opere infrastrutturali previste, e in parte cancellate, agli scandali per corruzione (Erba 2008; Erba 2009; AA.VV. 2009; Di Vita 2010; De Magistris, Rolando 2011; Gallione 2012; Erba, Di Vita 2012; De Magistris et al. 2014; Di Vita 2014 A; Di Vita 2014 B). Esposizione Universale e smartness urbana: quali opportunità per la costruzione della nuova Città Metropolitana di Milano? Con un lieve ritardo rispetto ad altre città italiane, anche Milano sta attualmente investendo nello sviluppo della smartness urbana: all’inizio del 2013, il Settore Innovazione e Smart City del Comune1 e la Camera di Commercio hanno avviato il programma Milano Smart City, promovendo un sistema di iniziative che intercettano differenti ambiti tematici e che sono supportate da fondi pubblici (bandi regionali, nazionali e comunitari) e privati (sponsor). Il programma mira a coordinare tutte le esperienze in atto nel territorio comunale che mostrano affinità con i temi della smartness urbana insieme ad alcune iniziative appositamente concepite. Una prima ricognizione interna all’Amministrazione Comunale ha consentito di rilevare i progetti e i piani già approvati o in fase di elaborazione, articolandoli rispetto a specifici temi (città digitale, mobilità, ambiente, inclusione e coesione, servizi al cittadino, cultura e attrattività). Successivamente, attraver-


Contemporaneamente alla definizione di questo quadro di iniziative, promosse o riconosciute dal Comune, anche l’Esposizione Universale ha autonomamente assunto un profi lo digitale attraverso lo sviluppo di progetti direttamente avviati dalla società di gestione Expo 2015 Spa, lavorando su differenti scale territoriali: il progetto Digital Smart City Expo per la smartness del sito Expo; la piattaforma E015 Digital Ecosystem per lo sviluppo di servizi digitali nel territorio metropolitano; il progetto Cyber Expo per un’esperienza virtuale della manifestazione attraverso il web (Di Vita 2014 B). Di particolare interesse, la piattaforma E015 Digital Ecosystem si configura come una comunità di fornitori di servizi e applicazioni3, stabilendo regole di collaborazione e fornendo standard tecnologici comuni che consentono la condivisione di dati e, quindi, lo sviluppo di un sistema di servizi digitali interoperabili4. L’assenza di una visione strategica generale dello sviluppo della città, rispetto a cui promuovere i singoli piani e progetti, sembra però penalizzare l’integrazione e favorire la frammentazione delle diverse iniziative a svantaggio di una loro effettiva valorizzazione, oltreché di una potenziale capitalizzazione della legacy dell’Esposizione Universale nel tempo e nello spazio. Il capoluogo lombardo è il principale

Milano è chiamata a organizzare una grande manifestazione in una fase di contrazione, che pertanto non può essere sottovalutata e richiede approcci e soluzioni differenti dal passato

so un’iniziativa di public hearing, è stato avviato il processo partecipativo per la delineazione del programma di sviluppo della smart city, articolato in un sistema di tavoli tematici riconducibili alle categorie del Modello di Vienna (smart environment, smart mobility, smart economy, smart governance, smart people e smart living) (Giffinger et alii 2007), integrate da una linea di azione specificamente dedicata a Expo2 .

polo di gravitazione di una vasta regione metropolitana che oltrepassa i tradizionali confini amministrativi (provinciali, regionali e nazionali) e, a sua volta, si inserisce nel contesto territoriale della mega-city region (Balducci 2005) o global cityregion (Perulli, Pichierri 2010) del Nord Italia. Sarebbe pertanto opportuno sia che venisse delineata una visione strategica per la città con riferimento alla scala territoriale della megalopoli diffusa, sia che lo spazio concettuale della smart city venisse esteso a quello di una smart city-region (Rete Consultiva per Milano Glocal City 2013), o più semplicemente di una smart region (Morandi et al. 2013); ovvero, che venisse ampliato alla scala di una smart land, scardinando le logiche localistiche con cui i singoli comuni tendono abitualmente ad operare, spesso penalizzando una rivoluzione tecnologica, economica e sociale (Bonomi, Masiero 2014).

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sarebbe pertanto opportuno sia che venisse delineata una visione strategica per la città con riferimento alla scala territoriale della megalopoli diffusa, sia che lo spazio concettuale della smart city venisse esteso a quello di una smart city-region

La sperimentazione nel campo delle ICT e l’implementazione di servizi digitali legati all’Expo potrebbero contribuire al consolidamento della legacy spaziale e immateriale dell’evento al di là del sito espositivo e dei confini del territorio comunale milanese. Certamente, negli scorsi anni, una valorizzazione maggiormente finalizzata delle ICT come driver di sviluppo territoriale avrebbe potuto coinvolgere direttamente nell’evento luoghi esterni al sito Expo e spesso marginali, ma rilevanti rispetto al tema della manifestazione, incentivando opportunità di riequilibrio territoriale alla scala vasta (Rolando 2011; Rolando 2014); alcune potenzialità di innovazione possono però ancora essere riconosciute. Da un lato, il riutilizzo del sito Expo, per il quale la società Arexpo Spa sta attualmente sviluppando il progetto di trasformazione post-evento, potrebbe beneficiare del valore aggiunto offerto dai servizi elettronici introdotti per la manifestazione, utilizzabili dalle diverse attività che saranno ospitate nell’area. Dall’altro lato, la formazione dell’imminente Città Metropolitana (e lo sviluppo della relativa agenda urbana) potrebbe assumere Expo e il post-evento come uno dei suoi primi progetti di sviluppo territoriale, anche integrando i servizi digitali offerti dalla piattaforma E015 Digital Ecosystem nell’ambito di un contesto spaziale che oltrepassa gli attuali confini comunali: servizi destinati a rimanere in dotazione al territorio anche dopo l’Expo, incidendo sulle relazioni tra le diverse popolazioni urbane e i luoghi di loro fruizione, ovvero sul rinnovamento del sistema socio-economico locale e delle relative configurazioni spaziali (Di Vita 2014 B). Rispetto a queste opportunità, numerose sono le proposte e le sperimentazioni finora effettuate: dal quadro di riferimen-

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to teorico e concettuale offerto dalla Rete Consultiva per Milano Glocal City (Rete Consultiva per Milano Glocal City 2013), ad alcune attività di ricerca applicata condotte nelle università milanesi5. * Stefano Di Vita, Adjunct professor presso il Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano. e-mail: stefano.divita@polimi.it

NOTE 1 - Istituito presso l’Assessorato a Politiche per il Lavoro, Sviluppo Economico, Università e Ricerca. 2 - Fonte: sito internet del programma Milano Smart City (www. milanosmartcity.org). 3 - A cui hanno già aderito più di 120 operatori pubblici e privati. 4 - Fonti: siti internet della società Expo 2015 Spa (www. expo2015.org) e della piattaforma E015 Digital Ecosystem (www. e015.expo2015.org). 5 - Per esempio, al Politecnico di Milano, la ricerca Expo Diffusa e Sostenibile, che ha alimentato il dibattito su temi e progetti correlati all’Esposizione Universale attraverso l’elaborazione di una piattaforma on-line di e-participation (www.eds.dpa.polimi. it), contribuendo alla costruzione dello scenario di una possibile regione metropolitana sostenibile (Battisti et al. 2011); oppure, le attività dell’Osservatorio TOMI MITO (www.mito.polimi.it) e del Laboratorio Urb&Com, che stanno lavorando da tempo sulle potenzialità di valorizzazione del territorio tra Milano e Torino, assumendo le ICT come strumento in grado di incidere sulle modalità di fruizione dei luoghi distribuiti lungo le reti infrastrutturali che innervano la regione; nonché, come mezzi per consolidare e ampliare il ruolo dei nodi urbani e territoriali, migliorando l’erogazione di servizi destinati a diverse categorie di utenti (Morandi et al. 2013; Morandi et al. 2014; Rolando, Scandiffio 2013; Rolando, Di Vita 2014).


PER APPROFONDIRE - AA.VV. (2009), Milano, Forum Expo 2015, Territorio n°51. - Adamoli R. (2013), I confini dell’economia milanese, Imprese e Città n°1. - Adamoli R., Caiazzo A. (2013), Uno sguardo sul manifatturiero a Milano, Imprese e Città n°2. - Alferj P., Favazzo A. (2014), Nuovi spazi dell’economia urbana, Imprese e Città n°3. - Balducci A. (2005), Dall’area metropolitana alla regione urbana: forme efficaci di pianificazione, Impresa & Stato n°71. - Battisti E., Battisti F., Di Vita S., Guerritore C. (2011), Expo Diffusa e Sostenibile, Milano, DPA-Unicopli. - Bolocan Goldstein M., Dansero E., Loda M. (2014), Grandi eventi e ricomposizione dello spazio urbano: per un’agenda di ricerca in una prospettiva geografica (paper). - Bonomi A. (2013), Il capitalismo in-finito. Indagine sui territori della crisi, Torino, Einaudi. - Bonomi A., Masiero R. (2014), Dalla smart city alla smart land, Venezia, Marsilio. - Compagnucci F. (2013), Manifattura e attività della conoscenza nelle città: l’alleanza necessaria, Imprese e Città n°1. - Dansero E., Segre A. (a cura di) (2002), Il territorio dei grandi eventi. Riflessioni e ricerche guardando a Torino 2006, Bollettino della Società Geografica Italiana, serie XII, volume VI, fascicolo 4. - De Magistris A., Rolando A. (a cura di) (2011), Torino Milano: prospettive territoriali per una cooperazione competitiva, Atti e Rassegna Tecnica n°3-4. - De Magistris A., Di Vita S., Pagliara C., Patti F., Zito C. (2014), Milano 2015. L’Expo est morte. Vive l’Expo!, Inchiesta del Giornale dell’Architettura n°117. - Di Vita S. (2010), Milano Expo 2015. Un’occasione di sviluppo sostenibile, Milano, Franco Angeli. - Di Vita S. (2014 A), Da smart city a smart region. Progetti spaziali e digitali e scenari possibili del post evento. In De Magistris A., Di Vita S., Pagliara C., Patti F., Zito C., Milano 2015. L’Expo est morte. Vive l’Expo!, Inchiesta del Giornale dell’Architettura n°117. - Di Vita S. (2014 B), Governance, progettazione e smartness di Expo 2015. Occasioni mancate e tentativi di innovazione nella grande contrazione. In Lodigiani R. (a cura di), Milano 2014. Expo, laboratorio metropolitano cantiere per un nuovo mondo. Rapporto sulla città della Fondazione Culturale Ambrosianeum, Milano, Franco Angeli. - Erba V. (a cura di) (2008), Milano, Forum Expo 2015, Territorio n°46. - Erba V. (a cura di) (2009), Milano, Forum Expo 2015, Territorio n°48. - Erba V., Di Vita S. (2012), Milano Expo 2015. Problemi irrisolti e potenzialità di sviluppo, Territorio n°62. - Formenti C. (2003), Not Economy, ETAS, Milano 2003. - Furrer P. (2002), Giochi olimpici sostenibili: utopia o realtà? In Dansero E., Segre A. (a cura di), Il territorio dei grandi eventi. Riflessioni e ricerche guardando a Torino 2006, Bollettino della Società Geografica Italiana, serie XII, volume VI, fascicolo 4. - Gaja i Diaz F. (2009), Grandi eventi, grandi progetti: una scommessa ad alto rischio. In Erba V. (a cura di), Milano, Forum Expo 2015, Territorio n°48. - Gallione A. (2012), Dossier Expo, Milano, RCS Libri. - Gallione A. (2014), La prossima vita di Milano, D di Repubblica del 23 maggio. - Getz D. (2008), Event Studies. Theory, Research and Policy for Planned Events, Londra, Elsevier. - Giffinger R., FertnerC., Kramar H., Kalasek R., PichlerMilanovic N., Meijers E. (2007), Smart cities. Ranking of European Medium-Sized Cities, Centre of Regional Science, Vienna. - Guala C. (2007), Mega eventi. Modelli e storie di rigenerazione urbana, Roma, Carocci. - Hall C.M. (1992), Hallmark Tourist Events: Impacts, Management and Planning, Londra, Bellhaven.

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Le cattedrali bianche di Atene La durabilità dell’architettura dei grandi eventi

La rapidità con cui invecchiano in moderni quartieri operai di tutte le città del mondo è davvero incredibile. Si inventano continuamente materiali nuovi e migliori, si piantano alberi verdi e sani ai bordi dei marciapiedi, si fanno opere di canalizzazione si sistemano condutture, tubi di scarico, lavandini in porcellana e cancellate a prova di ruggine. Ma in capo a due anni la porcellana si crepa e viene tenuta insieme da una colla sudicia e giallastra, gli alberi diventano grigi e sotto lo spesso strato di polvere non possono respirare, i canali si intasano, i tubi scoppiano, dai soffitti delle stanze gocciola acqua e le cancellate di ferro non arrugginiscono per il semplice fatto che da tempo sono scomparse. I muri anneriscono, la malta si sgretola, e le case sembrano soffrire di una orrenda malattia che fa squamare la pelle. La loro non e una decorosa vecchiaia, ma un rapidissimo logorio”. Joseph Roth. La citazione di apertura, tratta dal saggio Le città bianche di Joseph Roth, pone l’accento su uno dei grandi problemi dell’architettura contemporanea, sempre più spesso caratterizzata da un invecchiamento tanto rapido e improvviso da renderla non più funzionale “in capo a due anni” (Roth, 1987, p. 23). Il mantenimento nel tempo della qualità e delle prestazioni dei materiali, quali parametri fondamentali per il soddisfacimento delle esigenze dell’utenza, si basa su un concetto teorico relativamente semplice secondo il quale “ogni elemento edilizio […] deve opporsi, grazie alla sua configurazione e alle sue caratteristiche fisiche, chimiche e tecnologiche, ad una serie di agenti che, nelle diverse condizioni d’uso ipotizzabili, tendono a rendere difficile il soddisfacimento di tali esigenze” (Sinopoli, 1995, p.12). A tale semplicità si contrappone tuttavia uno scenario reale in cui, a fianco ad insuccessi qualitativi (Manfron, 1995, p.92)

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di Emilio Antoniol* come quelli descritti da Roth, si presentano altri tipi di insuccessi le cui cause non vanno ricercate tanto nella natura concreta dei materiali, quanto piuttosto nella qualità stessa del progetto di architettura. Infatti, mentre il mantenimento nel tempo delle prestazioni fisiche dell’opera è esprimibile attraverso il concetto di affidabilità, l’invecchiamento e il degrado dell’architettura fanno riferimento all’idea di durabilità, di cui la prima è solo una delle componenti (Manfron, 1995, p.94). Mentre alle cadute di affidabilità si può porre rimedio attraverso appropriati interventi di manutenzione, volti a ripristinare le prestazioni dei componenti edilizi (Manfron, 1995, p.93), la durabilità degli edifici andrebbe invece progettata fin dalle fasi ideative dell’opera, valutando le trasformazioni future che possono coinvolgere il contesto o le esigenze dell’utenza. Per questo, il progetto della durata “richiede prima di tutto un approccio culturale consapevole, che dovrebbe sfociare in una adeguata competenza tecnica e tecnologica” (Raiteri, 2004, p.19). Troppo spesso, invece, nell’architettura contemporanea tale questione è considerata solo un problema di tipo tecnico-specialistico (Giachetta, 2004, p.173), avulso quindi dalle mansioni dell’architetto e rimandato a fasi successive in cui porre rimedio alle mancanze del progetto originario. Durabilità e gestione nel lungo periodo dovrebbero essere questioni fondamentali anche nella progettazione di strutture destinate a grandi - e meno grandi - eventi. In esse, esigenze e funzioni sono destinate a modificarsi in un lasso temporale estremamente breve che vede, nella maggior parte dei casi, la fine dell’evento come termine ultimo dell’utilizzo dell’edificio secondo le finalità per cui era stato pensato. La definizione delle modalità di trasformazione, riutilizza-


durabilità e gestione nel lungo periodo dovrebbero essere questioni fondamentali anche nella progettazione di strutture destinate a grandi - e meno grandi - eventi

Le immagini illustrano la situazione attuale del Parco Olimpico di Atene e sono state scattate dall’autore nel giugno 2013.

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zione o dismissione dell’opera dovrebbe quindi rientrare in ogni progetto che punti alla realizzazione di tali tipologie di edificio. E invece sono innumerevoli gli esempi di architetture, più o meno famose, costruite in occasione di eventi sportivi, culturali o mediatici e abbandonate al loro destino pochi mesi dopo la conclusione dell’evento stesso. Sono recentissime anche le polemiche relative alle modalità seguite per la realizzazione delle strutture che hanno ospitato gli ultimi mondiali di calcio in Brasile. In questo articolo, invece, si vogliono riportare gli esiti di un esempio a noi più vicino, quello delle olimpiadi di Atene del 2004. Esattamente dieci anni fa la XXVIII edizione dei giochi olimpici ha completamente trasformato la capitale greca con la costruzione - o in casi più rari la riqualificazione - di oltre ventisette impianti sportivi, la realizzazione di due nuove linee di metropolitana e l’implementazione dei collegamenti con l’aeroporto tramite una nuova linea ferroviaria (Kassens-Noor, 2012, p.73), per un investimento pubblico totale di oltre 10 miliardi di euro (Boykoff, 2013). Ma, mentre la candidatura ai giochi ha aiutato Atene ad avviare una fase di generale rinnovamento urbano, è mancata totalmente una strategia per il mantenimento e il riutilizzo delle strutture dopo la fine delle olimpiadi. Già pochi mesi dopo i giochi la maggior parte delle strutture olimpiche era infatti abbandonata o utilizzata solo in sporadiche occasioni (Boykoff, 2013, p.46). Nel 2005, il governo aveva tentato di porre rimedio alla situazione presentando un primo - anche se oramai tardivo - disegno di legge per il riutilizzo delle strutture secondo il quale gli impianti sarebbero stati affidati in gestione a privati per recuperare parte dei costi, trasformandone alcune

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aree in hotel, parchi acquatici, bar, locali e ristoranti (Bosio, 2005, p.88). In realtà ben poche di tali misure sono state realmente intraprese anche a causa della crisi economica nazionale che tuttavia, secondo il parere di diversi studiosi, vede nelle Olimpiadi una delle principali cause scatenanti (Boykoff, 2013, p.46). Anche sul piano del rispetto ambientale i giochi di Atene non si sono dimostrati all’altezza dei proclami pre-olimpici con la trasformazione di molte aree verdi della città e scelte poco condivisibili sul piano della sostenibilità. Tra gli esempi che si possono citare troviamo la mancata previsione di sistemi di produzione di energia da fonti rinnovabili o il mancato inserimento di sistemi passivi per lo sfruttamento solare nel progetto del villaggio olimpico (Bosio, 2005, p.101); o ancora in merito all’irrigazione delle nuove aree verdi, il mancato rispetto dei provvedimenti sul risparmio idrico, con la scelta di utilizzare specie arboree di provenienza non mediterranea, a rapida crescita, ma necessitanti di molta acqua per la loro irrigazione. Sono state in tal modo disattese le principali norme ambientali vigenti in materia ma, visti i ritardi e lo stato di ‘emergenza’ imposto dalla situazione, la maggior parte degli interventi è stata autorizzata con leggi speciali (Bosio, 2005, p.102) scavalcando le normali procedure di approvazione e, come spesso accade, facendo dell’emergenza uno strumento attuativo e operativo (Giachetta, 2004, p.40). La situazione odierna, riportata in vari reportage su diverse testate di informazione, evidenzia lo stato di abbandono delle strutture, soprattutto in quei casi in cui si combinano, come nell’impianto di canottaggio, una scarsa attrattività della disciplina praticata e una certa distanza dal centro città.


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la causa di questa precoce rottamazione deve quindi essere cercata anche nella mancata progettazione della durata dell’opera di architettura

“Quando le cattedrali erano bianche, l’universo intero era percorso da un’immensa fede nell’azione, nell’avvenire e nella creazione armoniosa di una civiltà”. Le Corbusier. Erano forse questi citati da Le Corbusier i principi e le speranze a cui aspiravano le bianche cattedrali d’acciaio progettate dall’architetto Santiago Calatrava per il parco olimpico di Atene? Sicuramente le enormi vele, gli archi e le avveniristiche strutture degli stadi alte fino a 60 metri, tutte avvolte in un bianco immacolato, puntavano ad una spettacolarizzazione senza precedenti dei giochi e della città; miravano quasi alla creazione di una nuova acropoli, moderna, d’acciaio, situata a pochi chilometri da quella antica, di cui restano solo le rovine. Tra tutti i complessi olimpici quello dell’OAKA (Athens Olympic Sport Complex) è sicuramente il più vasto e imponente, destinato alle cerimonie principali e alle grandi finali ed è forse l’unico ancora utilizzato per le funzioni per cui era stato costruito, anche se solo in occasione di grandi eventi sportivi nazionali o internazionali. Tuttavia, dei fasti dei giochi e delle grandi aspirazioni programmatiche resta ben poco. Passeggiando per il parco olimpico ciò che traspare in modo evidente è lo stato di generale abbandono

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Il parco olimpico di Atene

del luogo, dove l’architettura, “usata e gettata” (Tatano, 2014, p.42), deperisce velocemente sotto l’azione del tempo e dei vandali. Vetri rotti, sedute divelte, graffiti sui muri, cancelli e transenne che direzionano i pochi visitatori e gli intrepidi del jogging tra i percorsi pedonali ormai riconquistati da una vegetazione spontanea che reclama il suo spazio, mentre il candore delle strutture, in acciaio verniciato di bianco, lascia lentamente il posto alle colate di ruggine, che fanno riaffiorare l’essenza materiale e concreta che sta dietro l’immagine di facciata. Indagando poi sul perché edifici così costosi, così recenti e usati tanto poco invecchino così velocemente la causa, come ci dice lo stesso Roth in apertura, viene molto spesso cercata nei materiali utilizzati, poco durevoli o semplicemente non adeguati. I sistemi costruttivi impiegati sono spesso una delle cause del deterioramento dell’architettura contemporanea ma non sono certo la sola: “a usurarsi non sono i muri o le finestre ma l’espressività di quei muri e di quelle finestre. […] Invecchiano precocemente tutti quegli edifici che scelgono di esprimersi con un linguaggio legato alle mode, siano esse di natura formale o costruttiva. Architetture emozionali come uno spot pubblicitario, impattivo ma fugace” (Tatano, 2014, p.66). Ed è così dunque che la nuova acropoli, quella moderna, dopo soli dieci anni è già in fase di deperimento; ma mentre “le architetture antiche


hanno prodotto rovine, cioè frammenti in cui la finalità è comunque riconoscibile, le architetture moderne producono rottami e in generale non sopportano modificazioni” (Gregotti, 2002, p.111). Ciò che rimane sono, infatti, spazi ed edifici troppo grandi per le rinnovate esigenze post-olimpiche ma anche troppo rigidi e troppo vincolati ad una visione architettonica che non lascia molto spazio alla trasformazione e al rinnovamento. E così invecchiano, velocemente, accogliendo in sé nuove impreviste e improbabili funzioni: sono depositi di rifiuti a cielo aperto, rifugi per persone senza fissa dimora, superfici da imbrattare con graffiti e disegni o, più semplicemente, luoghi dimenticati, inutili e per questo abbandonati. La causa di questa precoce rottamazione deve quindi essere cercata anche nella mancata progettazione della durata dell’opera di architettura, realizzata per insistere su di un sito per lungo tempo ma non pensata per assolvere alle sue funzioni per lo stesso arco temporale. In questo scenario, le strade percorribili sono quindi soltanto due: o progettare edifici flessibili in grado di adattarsi con facilità alle future modificazioni fisiche, funzionali e ambientali che l’utenza richiede, oppure estendere il campo del progetto architettonico anche a quelle fasi, come la dismissione finale dell’opera, ancora oggi troppo spesso lasciate in eredità ai posteri (Raiteri, 2004, p.31).

* Emilio Antoniol, Dottorando di ricerca in Nuove Tecnologie e Informazione Territorio e Ambiente, Università Iuav di Venezia. e-mail: antoniolemilio@gmail.com PER APPROFONDIRE - Bosio Roberto, I giochi del potere. Gli abusi e la corruzione della multinazionale dei cinque cerchi, Macro,Cesena, 2005. - Boykoff Jules, Celebration capitalism and the Olympic games, Routledge, Abingdon, 2013. - Giachetta Andrea, Architettura e tempo. La variabile della durata nel progetto di architettura, CLUP, Milano, 2004. - Gregotti Vittorio, Architettura, tecnica, finalità, Laterza, Roma, 2002. - Kassens-Noor Eva, Planning Olimpic Legacies: Transport Dreams and Urban Realities, Routledge, Abingdon, 2012. - Le Corbusier, Quando le cattedrali erano bianche. Viaggio nel paese dei timidi, Marinotti, Milano, 2003. - Manfron Vittorio, Qualità e Affidabilità in edilizia, Franco Angeli, Milano, 1995. - Raiteri Rossana, Tecnologia e tecniche dell’architettura e durata nel tempo: una questione da districare, pag. 11-34 in Giachetta Andrea, Architettura e tempo. La variabile della durata nel progetto di architettura, CLUP, Milano, 2004. - Roth Joseph, Le città bianche, Adelphi, Milano, 1987, traduzione di Rondolino Fabrizio. - Sinopoli Nicola, Presentazione, pag. 9-18, in Qualità e Affidabilità in edilizia, Manfron Vittorio, Franco Angeli, Milano, 1995. - Tatano Valeria, Architettura usa e getta, pag. 56-124, in Durabilità. Loungue durée, Barucco Mariaantonia (a cura di), Aracne, Roma, 2014.

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PORTFOLIO

Un ponte tra Arte e Architettura Laboratorio/Rassegna Collettiva VeneziadeiSensi: un progetto di Viviana Manfroi e Michela Langella

L’Architetto, l’Artista, per capire tutto il suo mestiere bellissimo, deve avere nei sensi le sue costruzioni, cioè prevederle (vederle prima), e pre-sentirle tattilmente nelle materie, lisce, aspre, fredde, calde: precollaudarle visualmente sotto tutte le immaginabili luci dei cieli, serene, tempestose, estive, invernali, splendenti e cupe, e sotto tutte le incidenze del sole, mattutino, meridiano e rosso di tramonto - questo è il generarsi sensorio dell’Architettura […]”. Gio Ponti.

di Viviana Manfroi* possibilità a tutti (noi in primis) di intraprendere un percorso di analisi urbana, ovvero un approccio meditativo di studio del luogo, per poi divenire architéktōn, artefice, con l’arte dello spazio nel quale si abita - per meglio poterlo comprendere. La comprensione avviene attraverso la sensorialità immediata: vista, tatto, udito. Il mezzo è l’arte: il técton, ovvero il fare.

Si è svolta in marzo, presso Cà Zanardi, Palazzo cinquecentesco nel cuore di Venezia, la nostra prima Rassegna collettiva. E’ così che nasce VeneziadeiSensi. VeneziadeiSensi è àrche-técton - Capacità fabbricativa congiunta alla consapevolezza teorica.

La Rassegna parla di Architettura che diviene Arte: il vuoto, il costruito e le sensazioni scaturite da essi vengono interpretati da artisti di natura molteplice… Studenti, artigiani, architetti, fotografi, pittori, videomakers di ogni età. L’obiettivo a cui si mira è l’interpretazione di una realtà urbana attraverso le sensazioni: qui si pone il ruolo degli artisti, ai quali è affidato il compito di prendere questi parametri e trasporli in arte. La vista, l’udito, il tatto sono i sensi che vengono presi in considerazione in questa interpretazione artistica. E’ attraverso l’unione delle singole opere soggettive che viene alla luce un collage che riesce a dare un’immagine pluri-sensoriale e oggettiva della città di Venezia. Venezia si è potuta toccare (‘Venezia sComposta’), ammirare (la fotografia), capire (‘Arcipelago’), ascoltare (‘Concerto per quattro appartamenti’)… Facendosi semplicemente trasportare dai sensi.

Il tema centrale, cuore del progetto, è l’analisi urbana di Venezia, di come questa città si sviluppi nel concreto, nella sua architettura e nei suoi spazi. Con la rassegna collettiva abbiamo voluto sfidarci, dando la

E da cosa nasce cosa. Abbiamo voluto dare più ampio respiro a questo progetto, abbiamo voluto farlo crescere, consce che tutti abbiamo qualcosa da dire, da esprimere, riguardo il luogo in cui viviamo.

Noi amiamo l’Architettura, in tutte le sue sfumature. E’ così che nasce questo progetto. Tutto inizia per gioco, e presto diventa una sfida; con Michela Langella**, da studentesse d’Architettura allo Iuav, ci improvvisiamo fautrici di un sogno, accomunate da una stessa passione e da uguali domande… Come avremmo potuto parlare e rendere accessibile a tutti l’Architettura in quanto ‘arte del fare’, ‘arte del costruibile’?

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E’ così che, grazie ad un bando per le attività culturali finanziato dallo Iuav e al sostegno di tutti coloro che hanno creduto in questo lavoro, VeneziadeiSensi diviene Laboratorio itinerante. I laboratori si svolgeranno questo autunno presso l’Università Iuav, sono aperti a chiunque abbia voglia di fare ed esprimere. Prevedono i seguenti temi: plasmare, colorare, comporre, leggere (la città). Essi saranno seguiti e supervisionati dagli artisti e dai collaboratori di VeneziadeiSensi, i quali aiuteranno chiunque voglia a divenire artefice e interprete di un luogo. “[…] Gli artisti, veri, non sono dei sognatori, come molti credono, sono dei terribili realisti: non trasportano la realtà in sogno, ma un sogno nella realtà: realtà scritta, figurata, musicata, architettata.” Contatti: www. veneziadeisensi.wordpress.com veneziadeisensi@gmail.com * Viviana Manfroi, architetto, laureata in Architettura e Città presso l’Università Iuav di Venezia. e-mail: vv.manfroi@gmail.com ** Michela Langella, laureanda in rchitettura e Città presso l’Università Iuav di Venezia. e-mail: langellamichela@gmail.com 01 - Rassegna collettiva VeneziadeiSensi, Cà Zanardi. Allestimento di Viviana Manfroi e Michela Langella. 02 - “VENEZIA sComposta”. Acqua, legno, mattone, pietra d’Istria, vetro. Viviana Manfroi e Michela Langella.

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Venezia si è potuta toccare (‘Venezia sComposta’), ammirare (la fotografia), capire (‘Arcipelago’), ascoltare (‘Concerto per quattro appartamenti’)… Facendosi semplicemente trasportare dai sensi

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03 - Installazione luminosa. Serie di lampade in terracotta. Modello/stampo/colaggio, diametro 22 cm, h.30 cm. Andrea Reggiani. 04 - “VENEZIA sComposta”. Acqua, legno, mattone, pietra d’Istria, vetro. Viviana Manfroi e Michela Langella. 05 - Installazione luminosa. Serie di lampade in terracotta. Modello/stampo/colaggio, diametro 22 cm, h.30 cm. Andrea Reggiani.

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la Rassegna parla di Architettura che diviene Arte: il vuoto, il costruito e le sensazioni scaturite da essi vengono interpretati da artisti di natura molteplice

06 - Rassegna collettiva VeneziadeiSensi, Cà Zanardi. Allestimento Viviana Manfroi e Michela Langella. 07 - “IDEALIZZAZIONE DI UN TRAMONTO A SAN GIORGIO MAGGIORE”, acrilico su tela, 50x70. Tiziano Piani. 08 e 11 -“KILN DRIED”, acquerello 23x18. Gianni De Val. 09 e 10 - Fotografie, “VENEZIA DECADENTE. PERSONA” 20x30 Maria Francesca Frosi.

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12 11 - Interno veneziano, “OMAGGIO A PIETRO LONGHI”. Roy Meneghetti. 12 - “CONCERTO PER QUATTRO APPARTAMENTI” video, coloresuono, 16/9, 12 h. Francesco Battaglia e Olmo Pietro Missaglia. 13 e 14 -“IL TEMPIO”, “CHIESA DI SANTA FOSCA” 20X30 cm Nicolò Zanatta. 15 - “MONOLITE” olio su tela, 100x70 cm Ivan Boldrin. 16 - “ARCIPELAGO” listello lineare a 3 strati, 8/18 cm di spessore, diametro 100/120 cm max. Antonio Sarto.

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IN PRODUZIONE

Reggiani Ceramica Design, arte e artigianato a Venezia

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are dell’arte il proprio mestiere: questo potrebbe essere il motto che caratterizza l’esperienza di Reggiani Ceramica, un laboratorio artigianale di produzioni ceramiche avviato nel cuore di Venezia da Andrea Reggiani. Nato a Padova, e formatosi presso l’Università Iuav di Venezia, Andrea intraprende questa attività più per passione che per necessità. Durante alcune esperienze didattiche presso il Laboratorio Iuav Alias, l’uso del gesso, degli stampi e dell’argilla si trasformano in conoscenze di base per le sue future creazioni, stimolando allo stesso tempo l’interesse per la lavorazione artigianale degli oggetti in ceramica e porcellana. Il modellare e il dar forma alla materia diventano così nell’attività di Reggiani un modo per trasferire conoscenze, idee e concetti in oggetti concreti che, con il tempo, si sono trasformati in vere e proprie opere d’arte: dai vasi alle lampade, dalle tazze ai piatti fino alla splendida teiera Pinocchio, perfetto connubio tra praticità e design. La scelta poi di situare questa attività

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a cura di Emilio Antoniol contributi di Andrea Reggiani* e Davide Tuberga** a Venezia, città non facile per quanto riguarda lo sviluppo di un’impresa, risulta essere uno dei punti di forza del laboratorio. Campo Santa Margherita, dove ha sede il laboratorio, è uno dei cuori pulsanti e vivi della città. Esso diventa la vetrina perfetta non solo per mettere in mostra la qualità del prodotto ma anche per stringere relazioni sempre più forti con la città, con i suoi abitanti e la sua cultura. Collaborazioni artistiche, mostre e installazioni sono parte fondante dell’attività di Andrea che cerca nella contaminazione di arte, materia e tecnica lo spunto per nuove creazioni. Nascono così idee di fusione tra materiali diversi, quali vetro e ceramica, ma anche progetti innovativi che vedono nella stampa 3D uno dei futuri sviluppi delle attività del laboratorio, di cui ci parlerà Davide Tuberga. Ed è proprio in questo clima di ricerca e sperimentazione che OFFICINA* ha avuto modo di conoscere l’esperienza di Reggiani Ceramica. Alcune visite al laboratorio hanno permesso di vedere la produzione e conoscere i concetti di fondo che stanno alla base di questa piccola realtà artigianale.

Progettare la forma è infatti solo il primo passo di un processo molto più articolato che vede nella scelta dei materiali, delle terre, delle finiture e nell’uso delle tecniche di lavorazione più appropriate una continua ricerca formale e concettuale sulle modalità di fare arte con la ceramica. Semplici operazioni manuali legate alla serialità della produzione, quali la realizzazione degli stampi per colare la ceramica, la cottura in forno o la decorazione finale diventano parti vitali di un processo che conferisce all’oggetto finito una valenza unica, che lo allontana dalla produzione in serie tipica del modello industriale, per avvicinarlo sempre più alla creazione artistica. Tra queste, la decorazione diventa forse uno degli elementi di massima originalità dell’attività di Reggiani: se infatti l’impiego di terre diverse - rossa, bruna o bianca conferisce unicità e carattere al singolo oggetto, l’uso attento e minimale dei colori di finitura - bianco, rosso, nero, blu e pochi altri - riassume tutta l’essenza del processo creativo, diventando la firma stessa dell’artista. www.reggianiceramica.com


il modellare e il dar forma alla materia diventano così nell’attività di Reggiani un modo per trasferire conoscenze, idee e concetti in oggetti concreti

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semplici operazioni manuali legate alla serialità della produzione, quali la realizzazione degli stampi per colare la ceramica, la cottura in forno o la decorazione finale diventano parti vitali di un processo che conferisce all’oggetto finito una valenza unica

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01 - Pinocchio: teira - ceramica bianca smaltata. 02 - Caffè Reggiani: tazzine - ceramica bianca smaltata, interno nero. 03 - Laboratorio: rifinitura lampada in terracotta - Andrea. 04 - Honey: lampadario - finissima porcellana bianca, inserti in vetro con magneti. 05 - Forno: cottura 1025°C.

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Stampante 3D Ceramica di Davide Tuberga La mia prima esperienza con la ceramica è avvenuta presso i laboratori Alias, all’interno dell’Università Iuav di Venezia, durante un corso organizzato da Andrea Reggiani. Durante questo periodo mi sono lasciato affascinare dalle tecniche di lavorazione tradizionali di quest’arte, ma allo stesso tempo, vista la mia passione per la tecnologia e la meccanica, mi è nata un’idea. Quest’idea sono riuscito a metterla in pratica un anno dopo, proponendo proprio ad Andrea la realizzazione di una stampante 3D che fosse in grado di estrudere non più la plastica bensì l’argilla. Abbiamo quindi fuso le nostre esperienze per costruire una stampante di tipo Delta, una struttura di stampante adatta ai nostri bisogni, che fosse

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in grado di muoversi liberamente nello spazio eludendo la rigidità dei movimenti sugli assi x,y,z, con un serbatoio centrale, connesso a un sistema ad aria compressa, che funge da vero e proprio estrusore costante di argilla. Questa macchina funziona con metodo additivo di materiale, il quale si presenta come un sottile fi lo di terra che viene applicato a spirale crescente, strato dopo strato, fino a creare l’oggetto desiderato. I pezzi che nascono dall’utilizzo di questa macchina sono complessi e articolati, a tal punto che io e Andrea non pensavamo fosse possibile la realizzazione fino a qualche mese fa. L’ unione di questo sistema innovativo con un’arte così antica, come quella della ceramica, permette di esplorare campi fino ad oggi mai studiati, realizzando oggetti impossibili da creare con le tecniche tradizionali.

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Il progetto è solo all’inizio e permette la realizzazione di forme che con metodi tradizionali risultano quasi impossibili, ma ogni giorno pensiamo a come rendere più evoluto e più efficiente tutto il sistema di stampa, dal perfezionamento della macchina e del programma che gestisce la generazione delle forme, alla progettazione dei pezzi da modellare. * Andrea Reggiani, artigiano proprietario del laboratorio Reggianiceramica a Venezia. e-mail: info@reggianiceramica.com ** Davide Tuberga, laureato in Design Industriale peresso l’Università Iuav di Venezia. e-mail: davide.tuberga@gmail.com

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06 - Laboratorio: stampi in gesso. 07 - Estrusione: Generazione bicchiere. 08 - Performance: stampa in Campo Santa Margherita. 09 - Assemblaggio: Davide Tuberga.

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VOGLIO FARE L’ARCHITETTO

Gasometro Mon Amour Una storia che comincia a Venezia

L’ amante Il cosiddetto gas illuminante fu usato per la prima volta a Londra nel 1808 per l’illuminazione pubblica2 . Il gas veniva prodotto in officine del gas tramite la distillazione del carbon fossile. Prima di essere immagazzinato nei gasometri, doveva passare inoltre attraverso differenti apparecchiature di depurazione. La prima progettazione del gasometro aveva due obiettivi principali: avere una capacità variabile ed evitare le fuoriuscite del gas. Queste esigenze

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furono risolte con l’invenzione del gasometro a chiusura idraulica, costituito da una vasca riempita d’acqua e un secondo contenitore aperto verso il basso - la campana. Questa veniva immersa nell’acqua che si innalzava e abbassava rispetto al proprio contenuto di gas. Del gasometro a chiusura idraulica esistono varie forme: - Gasometro a campana (anche g. semplice, g. ad un’alzata3). Prima forma di costruzione, composta da una vasca, una campana sola e un traliccio di guida (alzata); - Gasometro a telescopio. A differenza del

precedente è costituito da più alzate che hanno un movimento lineare; - Gasometro elicoidale (anche g. autoportante). Rispetto alle altre, questa costruzione non necessita di un traliccio di guida, perché le campane ruotano come una vite; questo sistema rende la struttura portante. Una forma particolare di gasometro, che nasconde il proprio carattere funzionale, è il gasometro con una facciata massiccia anteposta. In tal modo sembra essere piuttosto un’architettura sacrale con la sua costruzione centralizzata e la facciata articolata.

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arbone, fornaci, reti, fanali, luce, r i s c a l d a m e nt o . All’epoca, simboli di grande progresso, oggi soprattutto relitti industriali: i gasometri1. Rimangono spesso dismessi e abbandonati, ma con un’anima che ancora testimonia lo sviluppo e il significato di un’epoca intera. Queste alte costruzioni hanno plasmato, attraverso una nuova forma di architettura industriale, l’immagine delle città, e allo stesso tempo ne hanno elevato lo stile di vita.

di Barbara Berger*

queste alte costruzioni hanno plasmato, attraverso una nuova forma di architettura industriale, l’immagine delle città


8.850 m3 ed è costituito da una vasca chiodata con due campane inserite. La pianta del traliccio di guida è a forma decagonale ed è diviso in due anelli. Il traliccio è composto da colonne tonde collegate tra loro attraverso travi reticolari: sotto la base di ciascuna colonna vi è l’appoggio di un traliccio che riceve il carico verticale. Sulle colonne sono installati i montanti guida per il movimento delle campane. Osservando attentamente si possono riconoscere due fasi principali di costruzione: il gasometro originale con una campana sola fu reso telescopico con l`aggiunta di una seconda campana circa dieci anni dopo6. A sostegno di questa ipotesi, si

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Alla fine del Novecento si sono sviluppati gasometri con una capacità sempre più grande, ma con maggiori difficoltà nell’impiego del sistema idraulico. Fu inventato quindi il gasometro a secco o a disco, differente dai precedenti. Consisteva in un cilindro unico e un disco mobile che veniva inserito per regolare il contenuto del gas4. La storia Venezia si dotò presto di questo sistema innovativo e così fu inaugurata l’illuminazione a gas in Piazza San Marco nel 1841. La prima officina del gas fu

realizzata a San Francesco della Vigna, mentre la seconda fu eretta nel 1908 sull’ex-campo di San Marte5. Entrambe furono messe fuori servizio con l’avvenire del metano nel 1970. A San Francesco della Vigna oggi sono rimasti due gasometri a telescopio a due alzate, abbandonati, con danni locali di corrosione e deformazione. Tutta l`area non è più usata e non è accessibile al pubblico. Il più vecchio è il gasometro V, risalente al 1882 e visibile da Campo San Francesco della Vigna. Ha una capacità di

possono notare i due anelli di traliccio che furono costruiti con due altezze diverse e con due tecniche costruttive differenti, in particolar modo per quanto riguarda la colonna7. Questo gasometro riscontra affinità costruttive con il gasometro storico di Firenze, eretto con un brevetto francese di Lione. Dal vaporetto si riesce a scorgere più chiaramente il gasometro VI, del 1928. Ha una capacità di 8.000 m3, la stessa forma del precedente, ma gli elementi sono stati realizzati diversamente. La vasca è di calcestruzzo armato, il traliccio di guida è costituito da pilastri di profi lo angolare e per rinforzare la struttura sono state inserite travi reticolari e controventi. Rispetto all`altro gasometro questo ha un traliccio a pianta dodecagonale. La calotta fu costruita col sistema di Schwedler, un ingegnere tedesco che aveva inventato una calotta priva d’irrigidimento nella terza dimensione, una soluzione impiegata a Berlino8. In altre città dell`Italia settentrionale si possono riconoscere gasometri di im-

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portante valore. Per esempio a Torino in zona Vanchiglia si trovano due gasometri a telescopio, di cui uno ha la vasca interrata. A Firenze c’è un gasometro (ancora accessibile) a San Frediano, sull’area della prima officina del gas, mentre a Bologna esiste tuttora il primo gasometro a secco in Italia. A Trieste è conservato il gasometro di Broletto, sistema a telescopio con due alzate e completamente rivestito in muratura. A Roma si trova il gazometro di San Paolo, probabilmente il gasometro a telescopio più grande d’Italia che rappresenta un landmark un po’ diverso dall’immaginario usuale di Roma.

La ricerca Generalmente l’architetto viene immaginato davanti ad una scrivania grande con tante planimetrie, matite, lucidi e un cellulare che suona sempre perché qualcosa in cantiere non va. Pochi vedono un architetto in combinazione con un lavoro scientifico. Ma ciò che lo muove in questa direzione è la curiosità e la passione per un tema e la volontà di conferirgli nuova e maggiore luce. Ciò che mi ha spinto in questo percorso di ricerca è stato capire il valore del gasometro all’interno della storia edilizia. La nostra storia - la mia e quella dei

gasometri - dev’essere però raccontata dalle sue origini. Tutto è nato nel 2006 da uno scambio Erasmus a Venezia presso lo Iuav, senza pensare che questa scelta avrebbe segnato in modo determinante il mio futuro professionale. Ho abitato alla Celestia e ogni giorno passavo con il vaporetto davanti a delle strutture di ferro, quelle appunto di San Francesco della Vigna, che emergono rispetto al contesto urbano. Ne fui subito incuriosita. “Sono gasometri…”, mi rispondeva un veneziano. Ma questo non mi bastava, volevo saperne di più. “Che cos`è un gasometro?” “Come funziona?”

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Così, dopo esser riuscita ad accedere all’area di San Francesco della Vigna, ne fui così affascinata che divennero il tema della mia tesi di laurea9. Successivamente decisi di intraprendere la mia prima esperienza come architetto “normale”, ma non mi ha mai abbandonato la sensazione di proseguire le ricerche sui gasometri, per riportare il loro significato alla luce. Durante questo periodo ebbi inoltre la possibilità di esporre i risultati della mia tesi tramite una mostra organizzata dal prof.


IMMAGINI

Lo sviluppo dei gasometri. Da sinistra: gasometro a campana, gasometro a telescopio, gasometro elicoidale, gasometro a secco BB, 2008

Fontanari presso lo Iuav nel 201110 e una lezione di gasometria in occasione dei workshop WAVE 2012. E proprio in quest’ultima occasione, quando ho visto la sensibilità per i gasometri crescere tra gli studenti, ho capito il valore della mia missione gasometrica. Era sempre più chiaro l’obiettivo di rilevare il significato, lo sviluppo, la forma e la costruzione dei gasometri storici, essendo una parte significativa

dell’eredità ingegneristica e un grande esempio di archeologia industriale. Mi sono così iscritta alla Technische Universität di Monaco di Baviera per un dottorato di ricerca, con l’obiettivo di produrre uno specifico manuale: il gasometro come tipo edilizio. Il lavoro però non è soltanto ricerca pura e organizzazione di sopralluoghi, bensì è legato anche all’organizzazione e alla gestione dei contatti, alle richieste di borse di studio

01 - Gasometro VI, San Francesco della Vigna, Venezia. BB, 2008. 02 - Gasometro V, San Francesco della Vigna, Venezia. BB, 2013. 03 - Il guidaggio delle campane del Gasometro V, San Francesco della Vigna, Venezia. BB, 2008. 04 - Lo schizzo primigenio della tesi di laurea, San Francesco della Vigna, Venezia. BB, 2007. 05 - Il traliccio di guida del gasometro VI, San Francesco della Vigna, Venezia. BB, 2013.

e all’acquisizione di finanziamenti: questo per far sì che la ricerca possa proseguire e allo stesso tempo che questo tema si inserisca nel mondo scientifico. Ho iniziato il dottorato lavorando parttime come architetto e anche come commessa in un negozio di triathlon. Ogni spostamento in un’altra città per lavoro e non solo, ha rappresentato un’occasione per scoprire nuovi gasometri.

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Il primo sguardo ad un gasometro è sempre un momento prezioso, mi fa sorridere e dichiara la mia strada. Sono le mie muse, i gasometri, che mi ispirano e rafforzano. Grazie ad una borsa di studio presso il Centro Tedesco di Studi Veneziani, nel 2013/14 ho potuto dedicarmi esclusivamente alla ricerca e ho trovato sia il mio metodo di lavoro, sia la mia strada scientifica. C’è voluto tempo per stabilire tutti i temi principali, un`agenda di priorità e la possibilità di discutere con altri dottorandi per ampliare il proprio punto di vista e definire un metodo di lavoro. Inizialmente i gasometri sono stati localizzati e determinati attraverso l’applicazione di Google Maps e Google Street View. La difficoltà più grande è stata successivamente quella di contattare i relativi proprietari, al fine di effettuare un sopralluogo. Una volta sul posto, attraverso il primo schizzo sono stati messi a fuoco i principali aspetti della costruzione, gli elementi che la com-

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pongono e cerco di risalire alla tipologia di struttura brevettata (francese, inglese, tedesca). Il sopralluogo perfetto include una salita sul gasometro fino in cima al traliccio di guida, in modo tale da poter esaminare e sfiorare tutta la costruzione, capire com’è stato costruito fino ai particolari tecnici. Purtroppo queste operazioni sono spesso ostacolate dalle condizioni fatiscenti del gasometro, le cui scale e passarelle sono pericolanti e rendono inaccessibili soprattutto il traliccio di guida. Oltre a rilievi diretti sullo stato attuale, è importante il confronto di questi con la progettazione originale e l’individuazione dei vari cambiamenti strutturali tramite planimetrie e immagini storiche. Nel raccogliere tutte queste informazioni, sono giunta alla conclusione che la ricerca non consiste soltanto in una bella collezione di gasometri da ammirare, ma necessita di una domanda centrale e ben definita. Attraverso le domande When, Where, Why, How, Who la mia ricerca si è dunque limitata a specifiche esigenze: ovvero gasometri

* Barbara Berger è ricercatrice presso l’Istituto di Ricerca per la Storia delle Scienze e Tecnologie del Deutsches Museum, a Monaco di Baviera, e collabora con lo studio Haushochdrei GmbH di Monaco di Baviera. Borsista presso il Centro Tedesco di Studi Veneziani (Ex-Direttrice Prof. Dr. Sabine Meine) nell`anno 2013/14 e socio fondatore di Save Industrial Heritage, Bologna. Da anni prosegue la propria ricerca sulla tipologia edilizia del gasometro, attraverso uno studio sempre più approfondito sui casi italiani. Accanto alla ricerca, Barbara prosegue la propria carriera sportiva: triatleta e istruttrice di nuoto, si è avvicinata anche al mondo del canottaggio per la prima volta a Venezia nel 2007, partecipando alla sfida remiera in galeone per la Regata Storica del 2007 come atleta della squadra Iuav. Poco dopo ha iniziato a anche l’attività di dragon boat con la squadra delle Università Veneziani, partecipando a campionati di livello nazionale e mondiale.


La ricerca significa dotarsi, identificarsi e avere una relazione stretta col proprio tema. I gasometri ormai fanno parte della mia quotidianità. “Che disegno vuoi sulla schiuma del tuo cappuccino?” mi chiede il barista, un vero coffee-artist. Lo guardo e rispondo “Un gasometro.”. In questo modo, quando mi racconto, parlo della mia relazione con i gasometri. I miei amici non si stupiscono più di questa mia passione, anzi mi mandano sempre una foto quando vedono un gasometro da qualche parte, oppure mi chiedono: “Come stai? I gasometri?”. Sensibilizzare la gente sull’esistenza dei gasometri e soprattutto su come guardarli, apprezzarli e magari anche riutilizzarli, rappresenta lo scopo della mia ricerca. Con affetto Barbara & gasometri

per l’illuminazione pubblica a gas, con il sistema idraulico e secco, realizzati nell’Ottocento e nel primo Novecento in Italia settentrionale.

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la ricerca significa dotarsi, identificarsi ed avere una relazione stretta col proprio tema

NOTE

1 - La voce gasometro non è del tutto corretta. Il suffisso “metro” indica la misurazione del volume del gas. Invece il gasometro deve essere semplicemente inteso come contenitore, serbatoio, utilizzato per lo stoccaggio del gas appena prodotto dall’officina. Quindi sarebbe più corretto il termine contenitore di gas. Tuttavia in Italia ha prevalso l`uso del termine gasometro che di conseguenza viene usato anche in questo articolo. Schilling, 1860, p. 9. 2 - Schilling, Nikolaus Heinrich, Prof. Dr. Knapp, Friedrich Ludwig, Handbuch für Steinkohlengas-Beleuchtung (Manuale dell`illuminazione a gas-coke), München, Oldenbourg-Verlag, 1860, p. 9. 3 - Il numero di campane viene anche espresso con il termine alzate. 4 - Esistono anche altre forme di gasometri, però questa ricerca si focalizza su i gasometri dall’ Ottocento e primo Novecento. 5 - Zucchetta, Giampietro, Storia del gas nella città dei dogi, Marsilio Editore, Venezia, 1996, p.15/ 166 - A.S.ITG, Venezia, Faldone 109: Relazione, 1926, p. 1. 6 - A.S.ITG, Torino, Archivio Storico e Museo Italgas di Torino, Venezia, Faldone 106 Riparazione Gasometro MC. 8400 a San Francesco, 1926-27: Vecchio Gasometro da 8000 a S. Francesco - Relazione, Venezia, Marzo 1926, p. 1 7 - La prima consiste in tubi chiodati il cui diametro diminuisce verso alto. La seconda colonna ha degli elementi identici. Ogni tubo ha un diametro minore in alto rispetto alla parte bassa. 8 - Si ringrazia per le informazioni fornite l`Archivio Storico e Museo Italgas di Torino e Gruppo Veritas di Venezia. 9 - Tesi di laurea con Esther Brenner, inclusi rilievi, analisi e documentazioni varie, seguiti da un progetto di rivitalizzazione dell’area. Le ricerche e la documentazione sono stati pubblicati in una brochure. A.A. 2008/2009. www.lt.ar.tum.de/lehre-studium/diplomarbeiten-master-thesis/ 10 - www.iuav.it/Facolta/facolt--di2/NEWS1/eventi-del3/Gasometri-/index.htm

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LCA in edilizia Calcolo del consumo energetico per la realizzazione dei manufatti edilizi, dalla produzione alla dismissione

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la valutazione di tutti i flussi di materia e di energia in ingresso (consumi) e in uscita (emissioni), durante tutte le fasi, dall’estrazione delle materie prime, trasporto, produzione, distribuzione, uso e dismissione. L’intera vita di un composto o di un prodotto viene considerata “dalla culla fino alla tomba”. La metodologia, che nasce per essere applicata al settore dei prodotti industriali, trova ben presto notevoli riscontri nel mondo delle costruzioni, anche se con non poche difficoltà nella sua applicazione. L’obiettivo principale che si pone la valutazione è la riduzione degli impatti prodotti nella fase di realizzazione di un edificio, fornendo informazioni a supporto delle scelte del progettista. Le basi su cui si fonda il metodo LCA, per quello che riguarda il mondo delle costruzioni, sono la valutazione complessiva dei consumi e delle emissioni inquinanti, derivanti dalla scelta dei materiali, delle componenti edilizie, delle soluzioni tecniche costruttive e degli impianti, più una nuova variabile che riguarda la temporalità, cioè il tempo di vita utile dei materiali e dell’edificio stesso.

un procedimento oggettivo di valutazione dei carichi energetici e ambientali relativi a un processo o a un’attività

Oggi il nostro progresso non è minacciato dal numero delle imbarcazioni da pesca ma dal decrescente numero dei pesci; non dalla potenza delle pompe idriche ma dalla contrazione delle falde acquifere; non dal numero delle motoseghe ma dalla scomparsa delle foreste primarie”. (Hawken, Lovins, 2001) La Society of Environmental Toxicolog y and Chemistry (SETAC), nel 1990, conia definitivamente il procedimento, a oggi conosciuto, con il termine LCA e lo definisce come: “Un procedimento oggettivo di valutazione dei carichi energetici e ambientali relativi a un processo o a un’attività, effettuato attraverso l’identificazione dell’energia e dei materiali usati e dei rifiuti rilasciati nell’ambiente. La valutazione include l’intero ciclo di vita del processo o attività, comprendendo l’estrazione e il trasporto delle materie prime, la fabbricazione, il trasporto, la distribuzione, l’uso, il riuso, il riciclo e lo smaltimento finale”. Questo metodo porta a un’analisi completa e sistematica che valuta tutti gli impatti nell’ambiente di un prodotto, di un processo o di un servizio, durante tutto il suo ciclo di vita, attraverso

di Fabio Favero*


Le maggiori difficoltà che si riscontrano nell’analisi, riguardano diversi aspetti. Per prima cosa vediamo che la somma degli impatti dei singoli prodotti difficilmente corrisponderà all’effettivo impatto del sistema edificio, perché molte operazioni non avvengono in stabilimento ma in cantiere, luogo difficilmente controllabile dal punto di vista ambientale, avviando processi impattanti e spesso tralasciati per la difficile valutazione. Un altro tipo di impatto, di difficile analisi, che entra a far parte del processo, è la valutazione lungo tutto il ciclo di vita dell’edificio, mettendo in evidenza, come la pulizia, la manutenzione, le ristrutturazioni e gli adeguamenti impiantistici creino nuovi punti di studio per una quanto più reale e oggettiva valutazione. Aspetto portante del metodo LCA è la limitatezza del campo d’indagine, dovuta ai confini molto rigidi che ci si pone in partenza, caratteristica che allo stesso tempo è uno dei suoi punti di forza ma anche punto di debolezza. Questo perché, mette in campo le operazioni di tutto il processo edilizio dalla progettazione alla dismissione/

riciclaggio, riuscendo a dare risultati attendibili; allo stesso tempo però trascura importanti tematiche macroambientali, come il rapporto con il contesto, la qualità dell’ambiente e la vicinanza ai servizi. Il metodo LCA per gli edifici per alcuni aspetti, soprattutto nella parte iniziale, è molto simile alla valutazione del prodotto. Si parte infatti dalla definizione degli obiettivi e degli scopi dell’analisi, in base al destinatario della valutazione, definendo il grado di approfondimento da raggiungere e il tipo di dati da raccogliere.

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01 - Non esiste un vero e proprio metodo per lo studio dell’energia incorporata degli edifici ma è possibile sviluppare uno studio che integri le informazioni provenienti dal mondo del design integrandolo alla scala dell’edificio.

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la valutazione include l’intero ciclo di vita del processo o attività, comprendendo l’estrazione e il trasporto delle materie prime, la fabbricazione, il trasporto, la distribuzione, l’uso, il riuso, il riciclo e lo smaltimento finale

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L’analisi prosegue definendo l’unità di misura di riferimento o il flusso di riferimento e l’unità funzionale necessari alla raccolta dei dati, in relazione all’oggetto da analizzare, individuando l’insieme dei processi attuati durante l’intero ciclo di vita. Questo insieme di operazioni necessarie a fornire una determinata funzione, viene definito “sistema”. Per riuscire a rilevare i flussi in ingresso e in uscita dal sistema, al fine di creare un inventario dei consumi energetici e della produzione di inquinanti, si stabiliscono dei confini che isolano e delimitano il suddetto, definendo quali processi vanno tenuti in considerazione e quale sia il grado di dettaglio necessario alla raccolta dei dati. Il reperimento avverrà in base agli obiettivi che ci si è prefissati, in alcuni casi sarà necessario cercare dati primari, per altri invece, soprattutto come supporto alla progettazione, sarà sufficiente utilizzare dati secondari, raccolti dalle banche dati esistenti. Si tenga presente che tutte le valutazioni presentano delle semplificazioni e limitazioni, per renderle maggiormente gestibili, si tratta solamente di delimitare correttamente i confini in

relazione agli obiettivi posti a monte. Altra questione da tenere in considerazione, come già detto, è la durata. La complessità del bilancio è data dagli impatti generati dalla produzione, dalla fase d’uso dell’edificio e dal fine vita, ma tale durata è diversificata per le varie componenti; in alcuni casi infatti alcuni elementi verranno sostituiti dopo pochi anni e altri subiranno manutenzione. Queste azioni devono essere computate come ulteriore energia incorporata, con degli impatti associati. Ragionare dunque sulla durata è essenziale per i notevoli sviluppi che ne derivano, ma nonostante ciò, è un aspetto ancora in parte trascurato nelle valutazioni, che tengono conto solo della durata utile dell’edificio. Un altro aspetto molto importante è il ruolo dell’energia utilizzata nella produzione dei componenti. La tipologia dell’approvvigionamento energetico può variare da Stato a Stato, e modifica fortemente gli impatti ambientali che ne conseguono, visto che è possibile ridurli anche tramite la scelta di utilizzare sistemi di produzione di energia di tipo “pulito”, aumentando notevolmente l’efficienza energetica di produ-

zione. I dati che si raccolgono per la valutazione variano in base agli obiettivi e al tipo di studio, semplificato o dettagliato. Si decide così se utilizzare dati primari raccolti direttamente negli stabilimenti di produzione o se utilizzare dati secondari ricavati dalle banche dati disponibili. Rimane però il dubbio sull’affidabilità di queste banche dati per la difficoltà di comprensione nella costruzione del dato preso in considerazione. I dati vengono poi raccolti nell’inventario. A questo punto i dati raccolti vengono sintetizzati, molto spesso in maniera semplicistica, rischiando di non risultare utili come potrebbero. Scegliendo, infatti, dei dati medi sulle emissioni inquinanti di ogni operazione, cosa che molto spesso accade, viene meno la possibilità di migliorare il processo intervenendo nei picchi di massima criticità, a prova che ogni singolo prodotto può apportare delle differenze sostanziali nel processo costruttivo. Per verificare ciò che è stato detto fino ad ora, viene analizzato un edificio esistente. Un’analisi fatta a posteriori ci permette di dimostrare l’efficacia del


02 - Sezione est-ovest dell’edificio TVZEB. 03 - Esempio del calcolo LCA del pacchetto costruttivo “Piano Terra” dell’edificio preso in analisi.

metodo, portando alla luce quante più possibili questioni da analizzare. La valutazione dei consumi e delle emissioni inquinanti, derivanti dalla realizzazione di un edificio, detta anche calcolo dell’energia incorporata dei materiali, in concreto, viene svolta utilizzando un foglio di calcolo per l’analisi del bilancio energetico. Si inseriscono i parametri meteorologici, i contesti energetici, i dati generali, le modalità d’uso e di occupazione e gli impianti utilizzati, poi, inserendo i dati riguardanti i materiali in kg presenti nell’edificio, avremo i singoli valori di Embodied Energ y e l’energia incorporata totale dell’edificio. Il foglio di calcolo utilizza, per per la valutazione dell’energia incorporata, i dati provenienti dal database realizzato dall’università di Bath e ha il vantaggio di calcolare istantaneamente i valori in MJ, permettendo così un’immediata valutazione dell’incidenza del materiale preso in analisi. L’edificio preso in oggetto è TVZEB un esperimento “ad energia zero”, realizzato nel 2013 e si trova a Costabissara, in provincia di Vicenza. Il lavoro di analisi e verifica sull’edificio deriva da

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04 - Calcolo totale dell’LCA dell’edificio preso in analisi. 05 - Considerazioni sull’influenza dei diversi pacchetti analizzati sul calcolo totale.

uno studio condotto attraverso una tesi di laurea in Architettura per la Sosotenibilità, svolta presso l’Università Iuav di Venezia, dal titolo “Energia incorporata ed Energia di funzionamento, il caso studio TVZEB”, laureando Fabio Favero, Marzo 2014, relatori MariaAntonia Barucco e Massimiliano Scarpa. L’edificio ha una dimensione di circa 200 m2 sviluppati in due blocchi e sfrutta l’uso di pannelli fotovoltaici in grado si sostenere circa il 75% dei consumi energetici; utilizza pacchetti costruttivi con una notevole massa per ottenere un buon controllo climatico interno e i materiali provengono da piccole aziende artigianali locali. La forma fa si che la radiazione solare venga sfruttata al massimo nel periodo invernale ed esclusa quasi completamente nel periodo estivo. Ogni singolo elemento costruttivo è disegnato con precisione tale da ridurre al minimo i tempi di realizzazione, i costi intrinseci del cantiere, gli scarti e i rifiuti, nonché lo spreco di acqua e tempo. La pesante struttura in larice lamellare e acciaio zincato è appoggiata su due linee di fondazione longitudinali, viene assemblata a secco rendendo così TVZEB smontabile e ri-

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ciclabile. Dagli studi svolti sull’edificio vediamo che una progettazione ben ragionata a monte riduce i costi energetici per la sua realizzazione, oppure origina dei costi che sono facilmente recuperabili nell’immediato periodo, grazie all’utilizzo di tecnologie che sfruttano le energie rinnovabili. La scelta dei materiali impiegati nella costruzione, diventa fondamentale per raggiungere gli obiettivi di risparmio energetico che si traducono in un piano di ammortamento dei costi sostenuti veloce e ben giustificato. In conclusione, quello che ci sembra di

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poter sottolineare è che un intervento complessivo che voglia ottenere risultati in termini di riduzione dei costi energetici, deve tener conto di tutte le fasi indicate: dalla progettazione alla gestione, dalla scelta dei materiali a quella della manovalanza necessaria. Solo in questo modo l’obiettivo indicato diventa concreto e raggiungibile.

* Fabio Favero, Architetto, laureato in Architettura per la Sostenibilità presso l’Università Iuav di Venezia. e-mail: fabio.favero1986@gmail.com


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Interpretazione e considerazioni finali sui risultati ottenuti dal calcolo LCA dell’intero edificio.

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IMMERSIONE

Young Architects in Africa Un evento collaterale della Biennale di Venezia, di AS.Architecture-Studio

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opo le edizioni dei contest “Young Chinese Architects” (2010) e “Young Arab Architects” (2012), lo studio francese AS.Architecture-Studio, partecipa alla XIV Biennale di Architettura di Venezia, nel tentativo di dare maggiore visibilità ai giovani architetti stranieri, in questo caso provenienti dal continente africano, nell’esposizione aperta dal 7 luglio al 28 agosto scorsi, tra gli eventi collaterali della Biennale 2014. Come nelle due precedenti edizioni, gli esiti del concorso Young Architects in Africa, i progetti selezionati e i materiali pervenuti allo studio di Parigi, sono stati parte di un’esposizione che ha occupato il piano terra e il salone del piano nobile di Palazzo Ca’ Asi, in Campiello Santa Maria Nova. Tra i 194 progetti, provenienti da 26 Paesi africani, partecipanti al concorso indetto dallo studio parigino, sono stati individuati tre vincitori ex-equo: il progetto Seed, bleprint for libraries in South African Schools (Repubblica del Sud Africa), degli Architects of Justice, il Dorabis Community Spine (Namibia) di André Christensen e Mieke Droomer, e la Red Pepper house (Kenya), di Orko Sanchez. La giuria internazionale ha visto il coinvolgimento di personaggi di spicco del mondo dell’architettura e accademico africano. Essa, oltre che dai membri dello studio Martin Robain, Architetto associato e fondatore, Rodo Tisnado, Roueida Ayache e Amar Sabeh el Leil, era composta da Jean-Louis Cohen, Commissario del Padiglione Francese della quattordicesima Biennale di Venezia, l’architetto-artista Didier Faustino, il giornalista Frederick Edelmann, il direttore della

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di Francesca Guidolin traduzioni di Arianna Garatti*

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scuola d’architettura ESSECA, Jean-Jaques Kotto, l’architetto e membro dell’Accademia di Architettura Francese Nicole Roux Loupiac, e infine il presidente di Africa 24 TV Constant Nemale. L’esposizione, curata da AS con il contributo dell’artista Didier Faustino, conta più di 30 pannelli rappresentanti i 16 progetti selezionati, nonché due installazioni video. La prima, Mille Soleils di Mati Diop, si interroga sulla trasmissione simbolica e intellettuale attraverso un viaggio tra storia e geografia del Senegal1. Il secondo contributo video, [dis]connect IV & Loco-Metta, serie Fractal Scape di Emeka Ogboh, è un’opera sperimentale che indaga la megalopoli di Lagos, la sua natura complessa di città conosciuta attraverso i suoi punti di entrata e uscita.


02 - L’ubicazione dei progetti vincitori e selezionati, partecipanti al concorso. (Elaborazione grafica dell’autrice). 03 - Provenienza dei 194 progetti partecipanti al concorso.(Elaborazione grafica dell’autrice).

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Contraddizioni e Challenges In occasione della consegna dei premi agli architetti vincitori, si è svolta una tavola rotonda, “Mieux costruire en Afrique”, che ha raccolto le impressioni e riassunto per punti chiave l’attuale situazione urbanistica e architettonica del continente africano. Alle questioni proprie del progettare l’architettura, in questa occasione si sono unite le esperienze pratiche di giovani architetti, con meno di 15 anni di esperienza alle spalle. I temi della conferenza hanno potuto avere argomentazioni concrete, proprie di chi si è confrontato con il complesso iter attuativo del proprio lavoro intellettuale, di chi si è scontrato con le problematiche, le sfide, le enormi risorse che costituiscono le complessità di ordine sociale, del processo costruttivo e decisionale nell’ambito di una cultura del costruire dei Paesi in via di sviluppo. A fronte di un contesto estremamente differente in termini di possibilità e di mezzi, di risorse, tuttavia, i fondamenti dell’architettura non cambiano: è un gioco continuo di creazione con ciò che si ha, una tensione dinamica all’ottenere un risultato con il minimo sforzo. “Water, electricity, the simple things you take for granted are part of our project mandate. We expect to make comfortable buildings and spaces. Only, we have 10 thousand more challenges” 2 . L’architettura africana assume una rilevanza importante perché si configura come emblema di una forte complessità e contraddizione. Infatti essa, se da una parte, nelle componenti, materiali e tecnologie, trae le sue radici dal vernacolare, espressione più alta di un “minimalism”3 inteso come semplicità e come perfetto accordo del rapporto prestazione-

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04 04 - Alcuni pannelli dell’esposizione Young Architects in Africa, di AS.Architecture-Studio durante il Vernissage dell’esposizione. 05 - La sala d’ingresso dell’esposizione. 06 - La sala laterale del piano terra di Palazzo Ca’ Asi.

forma, dall’altra parte è espressione di una eterogeneità elevata di istanze, che l’architetto deve prendere in esame. Un architetto che diventa “il coordinatore e il direttore d’orchestra assieme, colui che dà inizio ma anche accompagna”4 secondo JeanLouis Cohen, un processo continuo di costruzione di una città, quella africana, che sembra espandersi dall’interno. Tra i temi trattati, che emergono dai progetti esposti, è chiaro il legame al vernacolare, un carattere di sedimentazione dei processi tipici delle popolazioni africane (e non solo), che oggi si mescola alle nuove tecnologie e tendenze dell’architettura contemporanea: molti degli architetti africani hanno compiuto i loro studi all’estero. “The European mindset and African mindset collide and that turns into something beautiful”5. Questa caratteristica permette la presenza di un’eterogenei-

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tà di soluzioni architettoniche che si deve necessariamente sempre relazionare con l’abitante. Autocostruzione: abitanti come risorsa La sfida del concepire architettura in e per l’Africa, come molti hanno sottolineato, si gioca sull’esigenza di creare la semplicità a fronte delle complesse esigenze del fruitore: “the more effort you put to make it look easy, the more effort it takes”6, spiega l’architetto Bruce Rowland durante la conferenza. Tra le risorse più presenti in Africa, e probabilmente meno considerate, vi è infatti la collettività, l’abitante che è spesso forza lavoro per la concretizzazione dei processi architettonici. La comunità diventa il soggetto a cui si indirizza la costruzione e assieme il costruttore, non solamente materia-


autocostruzione, inestimabile ricchezza di un processo edilizio

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le, ma anche costitutivo del progetto7. “Projects are challenges, because projects are very community-based and community- involved”8. È il progetto stesso in alcuni casi che si confà alle necessità dell’abitante in un continuo modificarsi, una incessante metamorfosi dinamica del processo: a volte si decide di lasciare piccole parti del progetto incompiute, per far sì che siano gli abitanti “to finish the design to meet their own needs”9; altre volte, si predispone la possibilità di ampliamenti futuri, secondo i bisogni, prevedendo sia l’espansione in senso verticale che in orizzontale10. Il tema dell’autocostruzione è tra quelli evidenziabili nei progetti. Autocostruzione, inestimabile ricchezza di un processo edilizio, quello africano, che fa continuamente i conti con l’importazione dell’85% dei materiali utilizzati nella costruzione11. Ma oltre alla ricchezza della forza lavoro, la necessità della costituzione di un vero insegnamento di progettazione urbanistica è ciò che l’architetto Martin Robain, fondatore di AS, ha riscontrato nella presa in esame dei progetti. Le città sembrano espandersi dall’interno, con una logica che è stata più volte defi nita durante la conferenza di caos, random. Ma anche nel caos ci può essere una certa poesia data proprio dall’approccio spontaneo, dalla necessità di adeguatezza, 06

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dalla community energ y che crea ciò di cui necessita, una risposta primaria, naturale alle necessità umane. Forse è proprio così: l’Africa “è il continente dove l’architettura sarà più esemplare: economia di mezzi, ecologia e soprattutto una risposta all’esistenzialeumano.”12 * Arianna Garatti, Laureata in Lingue e Letterature Europee, Americane e Postcoloniali all’Università Cà Foscari di Venezia.

NOTE 01 - Dalla presentazione di AS.Architecture-Studio. 02 - Alessio Lacovig (AOJ), durante la conferenza. 03 - Il termine minimalism, o forse più correttamente minimal, come sottolineato dall’architetto Roueyda Ayace, moderatrice del confronto, è stato uno dei temi chiave della tavola rotonda. Il concetto come lei stessa spiega è quello di riuscire a fare qualcosa di successful con il minimo sforzo. 04 - Jean Louis Cohen, Storico e professore di architettura, NYU, commissario del Padiglione Francese della XIV Biennale di Architettura di Venezia, da Young Architects in Africa, catalogo dell’esposizione dell’evento collaterale, AS.Architecture-Studio, Parigi, giugno 2014, p.28. 05 - “La mentalità europea e la mentalità africana collidono e si crea qualcosa di bello”. B.Rowland in verbis, durante la conferenza svolta il 5 giugno 2014 presso il palazzo Cà Asi di Venezia. 06 - “Più ti sforzi per far sì che sia semplice, più sforzo devi fare”. 07 - Boubacar Seck sottolinea le contraddizioni del lavoro in Africa, contesto in cui spesso il raggiungimento del cantiere, richiede molta energia, in termini di bilan carbon, di footprint. 08 - M.Droomer in verbis, durante la conferenza. 09 - “..a finire il design dell’oggetto architettonico secondo i propri bisogni”, M.Mutanda in verbis, durante la conferenza. 10 - Liberamente riportato dal discorso di M.J.Wilson. 11 - Dato riportato da K.Banning durante la conferenza nell’ambito del vernissage dell’esposizione. 12 - L’arch. Martin Robain, in AS.Architecture-Studio, Young Architects in Africa, catalogo dell’esposizione dell’evento collaterale presso la XIV Biennale di Architettura di Venezia, p.31.

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una tensione dinamica all’ottenere un risultato con il minimo sforzo

07 - La table ronde “Mieux construire en Afrique”. 08 - Pannello del progetto di Orko Sanchez. 09/10 - La sala d’ingresso dell’esposizione, con i pannelli del progetto di Mieke Droomer & André Christensen. 09

Tutte le foto sono dell’autrice.

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DECLINAZIONI

di Chiara Trojetto Derivato dai termini latini tassella, diminutivo di tessera, e taxillus, che significa “piccolo dado”, il termine può indicare più elementi di diversa natura e consistenza tra i quali, anzitutto: un piccolo pezzo di vario materiale utilizzato come elemento di intarsi o di mosaici, per mascherare difetti nei materiali da costruzione o per eseguire restauri e rifiniture nei mobili. Il termine indica anche i blocchetti in legno che venivano un tempo murati nelle pareti, per permettere l’inserimento di chiodi, viti o ganci e il sostegno di oggetti. Per estensione, con lo stesso termine identificano molti elementi di fissaggio e di collegamento meccanici, in genere a espansione, o chimici da inserire in appositi fori praticati nei diversi supporti (legno, muratura, pietra, calcestruzzo).

dal “Dizionario degli elementi costruttivi”, diretto da G.V.Galliani, Utet, 2001.

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di Michele Menegazzo


Tassello /ta’s:εl:o/ s. m.

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MICROFONO ACCESO Abbiamo intervistato l’architetto di origine senegalese Boubacar Seck, architetto a Bordeaux e Dakar. Lo abbiamo interrogato sulla sua visione dell’architetura africana in rapporto al contesto occidentale.

Boubacar Seck di Francesca Guidolin Architetto a Dakar e Bordeaux. Copresidente del C2D (Conseil de développement Durable de la Communauté Urbaine de Bordeaux), l’architetto senegalese Boubacar Seck è incaricato della comunicazione del Conseil de l’Ordre des Architectes d’Aquitaine e redattore capo della sua rivista «Le 308». Lavora tra Bordeaux, Parigi e l’Africa (Dakar, Abidjan, Casablanca et Ndjaména), è associato con gli architetti Cherif Diattara et Mbaye Sène (Archi art Concept) a Dakar. Attualmente, il suo studio professionale, associato con BOM architecture, ha ricevuto l’incarico di costruire la scuola del cinema a Ndjamena, mentre il cantiere di un altro suo progetto, la scuola di Manécounda in Senegal, è in via di ultimazione.

Com’è nato il vostro studio di progettazione, di cosa si occupa e com’è gestito? Il nostro studio di progettazione è nato da un incontro all’università, in Francia. Abbiamo poi scoperto di aver frequentato lo stesso liceo a Dakar. Condividiamo anche la vita tra Europa ed Africa. Per quanto riguarda i progetti, proviamo ad elaborare una produzione architettonica abbastanza diversificata, che spazia dalla casa unifamiliare ai grandi cantieri di edilizia sociale, o agli incarichi dei governi africani (es. Call Center in Marocco, Alloggi collettivi a Abidjan o Dakar, edifici per il terziario e per l’educazione e la cultura). Attualmente tra i numerosi progetti dello studio, associato con BOM Architecture, abbiamo ottenuto la commessa per la costruzione della Scuola del Cinema a Ndjaména in Chad. Insegnamo a Bordeaux e a Dakar, e partecipiamo a numerosi incontri internazionali (Bruxelles, Les Rencontres de Lomé, Biennale di Dakar, Université Populaire du Patrimoine de Casablanca, Commission Nationale du Débat Public a Parigi, Rencontre des Communautés Urbaines a Marsiglia...) Tutte queste attività permettono una continua riflessione sul paesaggio architettonico in Europa e Africa.

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01 - Boubacar Seck, architetto.

la modernizzazione non si attua più attraverso le superstructures

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Quali sono le differenze, secondo la vostra esperienza, tra nuovi studi di architettura africani e studi affermati? In relazione a questo salto generazionale, cambia il modo di concepire l’architettura? Cito spesso lo storico francese Marc Bloch “Nous sommes plus les fils de notre temps que ceux de nos pères.”1 I giovani architetti sono legati alla loro epoca. A breve, la metà della popolazione del pianeta vivrà in città e nelle metropoli africane la crescita demografica è già molto veloce. Questa progressione della modernità è accompagnata dallo spostamento della riflessione non più sull’asse dell’urbanizzazione ad oltranza, ma sulle nuove forme di concepire l’urbanizzazione, tenendo presente che la modernizzazione non si attua più attraverso le “superstructures”. La modernità si, la modernizzazione no. La convinzione che è una necessità quella di far evolvere la città coloniale non è più un tabù, ma non credo che i giovani architetti siano in ginocchio davanti a questa geniale architettura. Concepita spesso in altro luogo rispetto al continente, gli

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a volte addirittura si tratta di mettere un intero popolo in movimento

esempi sono Casablanca e Ganvié, ma anche Barcellona e Copenhagen. Un’altra differenza fondamentale è che noi siamo la generazione 2.0. Oggi viene data la parola anche le persone che non fanno parte di grandi studi: la maggior parte dei giovani architetti ha dei siti internet anche se ancora non hanno costruito le proprie architetture. Esperienze come i workshop sono allo stesso modo delle magnifiche opportunità di incontro, per sentire le voci del mondo, e quindi di costruire con correttezza. In che senso l’architettura africana è portatrice di un insegnamento e qual è l’importanza del vernacolare in questa circostanza? Un progetto di architettura in Africa è spesso una vera sfida per lo sviluppo, una sfida politica, a volte addirittura si tratta di mettere un intero popolo in movimento. È ciò che fa Francis Keré a Gando (Burkina Faso) costruendo sia con gli anziani che con i giovani. È costruire degli edifici residenziali di grande qualità, qualunque sia lo standard nelle capitali africane, è anche mostrare un’immagine positiva di un’Africa urbana dinamica, lontana dai clichés della povertà. È ciò che fanno Guillaume Koffi e Issa Diabaté ad Abidjan. È costruire una Scuola di Cinema a Ndjamena, come messaggio di pace, in Chad, in un paese dove si parla esclusivamente attraverso la guerra. Costruire una scuola materna in Casamance in Senegal, in un villaggio che ha un insegnante ma non ha scuole; è un imperativo per l’educazione dei nostri figli. È ciò che tentiamo di fare. L’impegno sociale è forse il vero insegnante. Ciò che voi chiamate «vernacolare» è ciò che io considero come due punti chiave dell’architettura: l’economia del progetto e il suo contesto. Costruire in un sito con la terra battuta, i cui depositi si trovano in prossimità, non è solamente una esigenza, ma un dovere. Il continente africano è un territorio in sviluppo costante dal punto di vista architettonico. Proprio per questo motivo gli occhi sono puntati su di esso. I giovani architetti africani possono dare degli insegnamenti per quanto

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02 - Immeuble de logements à Dakar. ©Architectes Boubacar Seck, Chérif Diattara, Mbaye Sène (Archi art concep). 03 - Ecole de cinéma de Ndjaména, Vue aérienne. ©Architectes Boubacar Seck et BOM Architecture. 04 - Ecole de cinéma de Ndjaména. Vue de l’esplanade. ©Architectes Boubacar Seck et BOM Architecture.


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riguarda questi argomenti, al mondo intero? Si, tre volte si. I giovani architetti africani hanno fatto della debolezza la loro forza: il fatto che non vi siano scuole di formazione per l’architetto nel continente ci ha spinto a “disertare”. Questo esilio, forzato o per libera scelta, sviluppa in questa generazione delle figure professionali ibride, che giocano con una doppia cultura per mettere in opera delle “interurbanité” come gli scrittori operano con delle “intertexualité”. Mi sembra sia importante per noi continuare a sviluppare quella che è la nostra forza: aprirci al mondo restando noi stessi. Aprirci ma senza complessi. Le metropoli africane non sono più unicamente delle “villes cruelles” come descriveva Eza Boto. Esse sono anche terreno di studio come Lagos è stato per Rem Koolhaas e i suoi studenti di Harvard. Si può, come diceva Gregory Scruggs “s’imprégner de la densité de l’informalité et de la vitalité de certaines villes du Sud»2 . Penso ad un aneddoto di una giovane studentessa senegalese, bocciata al secondo ciclo di una scuola di architettura francese perché a detta della commissione esaminatrice “manque de culture architecturale”. Infastidita, lei chiese se potevano

05 - Chantier de l’Ecole maternelle a Manecounda, Senegal. ©Architecte Boubacar Seck.

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citarle il nome di un architetto africano. Non riuscirono a citare alcun nome. Se tutto ciò può servire ad aiutare dei professori occidentali a riattualizzare la loro conoscenza della cultura architettonica africana e conoscere David Adjaye (Ghana), Rachid Andaloussi (Marocco), Mokena Makena (Africa del sud), JeanCharles Tall (Sénégal), non è poi così male, no? L’architetto Kotto ha detto «Les innovations techniques ont amené des changements (es. De la ventilation à la climatisation) – ça symbolise la rupture avec l’empire colonial.»3 Le innovazioni tecnologiche possono apportare dei cambiamenti, e come, in quale misura, nell’architettura africana? Sono d’accordo con la rottura. L’ho evocato poco fa d’altra parte, con il discorso sull’ evoluzione di questa città coloniale. In cambio, non sono sicuro che noi abbiamo mai trovato niente di meglio di certi sistemi di ventilazione come lo spazio tampone che rinfresca gli edifici o i balconi che creano un’ombra portata. Le regolamentazioni termiche di oggi possono impedire di aprire le finestre per aerare una stanza. È inconcepibile. Infatti si vedono in molte città africane delle piccole edicole per la climatizzazione davanti alle facciate degli edifici. «La seule connaissance technologique ne suffit pas à faire la différence pour repenser les villes» 4, diceva il senegalese Alioune Badiane. Più che l’energia dispersa o l’energia grigia, ciò che mi sembra più importante prendere in considerazione nel processo di progettazione, è l’energia della “materia grigia”.

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Consumo più energia io andando al mio cantiere sperduto a Casamance, che non la scuola che noi costruiamo. Ma laggiù tutto il villaggio ci aiuta sinergicamente a completare il nostro disegno. Un edificio o un paesaggio pensato in relazione appropriata con le variabili dell’architettura che sono il contesto, la topografia, il clima, l’economia, la destinazione d’uso (il programma) e la cultura, porterà di fatto a delle innovazioni tecniche. È di una semplicità disarmante, ma è un percorso che resta difficile.

06/07 - Ecole de Manécounda. ©Architecte Boubacar Seck.

NOTE 01 - “Noi siamo più figli del nostro tempo che dei nostri padri”. Marc Bloch, Storico francese (Lione 1886 - Les Roussilles, Lione, 1944); professore di storia medievale a Strasburgo (1919) e dal 1936 di storia economica alla Sorbona.(N.d.T) 02 - “Impregnarsi della densità, dell’informalità e della vitalità di certe città del Sud”. Gregory Scruggs, giovane ricercatore all’università newyorkese di Columbia, in C. Losson, “Forum urbain mondial: lesvilles du Sud prennent leur envol”, Liberation 12, 13 aprile 2014.(N.d.T.) 03 - “Le innovazioni tecniche hanno apportato dei cambiamenti (es. dalla ventilazione naturale alla climatizzazione) - ciò simboleggia la rottura con l’impero coloniale.” 04 - “La conoscenza tecnologica da sola non basta per fare la differenza nel ripensare le città”.

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CELLULOSA

L’uomo artigiano Richard Sennett, 2008

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ilosofi, architetti, orafi, scienziati e persino cuochi: sono numerosi ed eterogenei i mestieri che Richard Sennett considera per descrivere L’uomo artigiano. Il saggio, edito nel 2008 con il titolo originale “The craftsman” (Yale University Press), analizza l’evoluzione del rapporto tra l’uomo e il “saper fare” dai tempi più antichi ai giorni nostri: nonostante nella storia naturale il tempo occupato dalle invenzioni dell’uomo sia molto breve – un solo minuto nell’ipotetico fi lm di due ore sulla storia animale immaginato dal biologo John Maynard Smith - questo rapporto si è declinato in molti modi ed è in continuo divenire. «Una delle prime celebrazioni dell’artigiano compare nell’inno omerico a Efesto, il dio protettore degli artigiani»: nell’antica Grecia essi non erano dei tecnici, ma dei civilizzatori, coloro che usavano gli attrezzi per un bene collettivo e tramandavano le proprie abilità ai posteri. Fu Aristotele a determinare un cambiamento nell’accezione del termine abbandonando demiourgos in favore

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a cura di Chiara Trojetto di cheirotechnes, lavoratore manuale: questo comportò delle conseguenze a livello sociale in quanto la maggior parte delle “arti domestiche” riservate alle donne e un tempo celebrate, persero il loro prestigio. «Lo sviluppo della scienza classica contribuì alla divisione delle abilità tecniche lungo i confini di genere che diede luogo alla connotazione maschile della parola artigiano, particolarmente evidente nel termine inglese craftsman»: ancora oggi le attività domestiche quali il cucinare o l’allevare i figli appaiono di natura diversa dalle attività lavorative svolte al di fuori delle pareti di casa. L’influenza della civiltà antica è riscontrabile anche in un altro aspetto della società moderna: il sistema operativo open source Linux «[...] è un manufatto pubblico» e i suoi creatori incarnano alcuni degli elementi celebrati nell’inno a Efesto. Il codice sorgente del sistema è accessibile a tutti e tutti lo possono adattare, con una fi losofia simile all’implementazione delle voci di Wikipedia, tuttavia l’accesso aperto porta con sé il problema della qualità e, naturalmente, dell’uso degli strumenti tecnologici, delle macchine: «la progettazione assistita dal computer può servire da emblema di una


sullo scaffale

grande sfida alla quale la società moderna si trova di fronte: come continuare a pensare da artigiani facendo un uso corretto della tecnologia». Una possibilità, scrive l’autore, è «[...] imparare dalla macchina qualcosa di positivo sulla nostra umanità», apprezzando le irregolarità del lavoro fatto a mano e distinguendo tra replicante, un artefatto che replica, appunto, un’azione fatta dall’uomo, e robot, un ”uomo potenziato” che lavora più velocemente, con minor margine di errore e che non conosce stanchezza. Il talento, la curiosità, la coscienza materiale, impossibili da attribuire a un macchinario, sono un’esclusiva dell’uomo artigiano, così come lo è l’immaginazione, descritta come qualcosa che ci viene incontro e che prepara il terreno all’intuizione, che «[...] scatta a partire dal sentimento che ciò che ancora non esiste potrebbe esistere». Sono dunque gli attrezzi a dare concretezza all’esperienza immaginativa e a portarla a risultati produttivi. Uno degli ultimi capitoli di questo denso saggio regala al lettore una sorta di decalogo delle caratteristiche del “bravo artigiano”, che trova il positivo nel-

le limitazioni, tollera l’incompletezza evitando di accanirsi nella ricerca della perfezione e capisce quando è il momento di smettere. L’uomo artigiano fa del saper fare bene le cose per il proprio piacere una regola di vita decisamente attuale e riscontrabile nelle azioni dell’uomo a qualsiasi scala: dalla creazione di un piccolo vaso in ceramica alla complessa organizzazione di eventi d’interesse mondiale.

Stefano Micelli Futuro artigiano. L’innovazione nelle mani degli artigiani Marsilio, 2011

Francesco Franchi Designing News Changing the World of Editorial Design and Information Graphics Gestalten, 2013

Richard Sennett (Chicago, 1 gennaio 1943) è un sociologo, critico letterario e scrittore statunitense che si occupa del rapporto tra individuo e ambito urbano e di teoria della socialità e del lavoro. Insegna sociologia alla New York University e alla London School of Economics.

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ARCHITETT’ALTRO

Sostenibilità nello scenario africano Architettura in Ruanda: com’è cambiato il mio punto di vista.

L’ architettura agli occhi di un occidentale non ha nulla a che vedere con la sopravvivenza, tranne che con quella degli architetti”1. Il profondo significato di questa citazione è ciò che mi ha spinto nel Novembre 2011 a trasferirmi in Ruanda, piccolo Paese dell’est-Africa dove insegno Progettazione Architettonica III e Design Sostenibile alla Scuola di Architettura dell’Università di Kigali (UR) e dove da un anno collaboro con uno studio di architettura che si occupa di progettazione e costruzione di scuole e ospedali in collaborazione con Unicef e altri partners2 . Quando ho scelto di specializzarmi in Architettura per la Sostenibilità nel 2008 allo Iuav di Venezia, non immaginavo che l’approccio accademico fosse così lontano dalla realtà che sto sperimentando in Africa: lo studio di energie rinnovabili, cambiamenti climatici e design integrato è generalmente finalizzato all’impiego di sistemi attivi e alla certificazione energetica. L’interpretazione del termine sostenibilità per mezzo di questi soli ambiti genera però

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di Alice Tasca* un punto di vista assai parziale. Se si considera reale la previsione che la popolazione mondiale raggiungerà i nove miliardi entro il 2050, e che i paesi emergenti saranno i primi spettatori di questo boom demografico3, i problemi collegati alla crescita sociale, economica e ambientale di nazioni come India e Cina ed il continente africano acquisiscono una certa rilevanza. Questi Paesi, che sono spesso lontani dal porsi problemi sul consumo delle risorse, altresì aspirano a uno sviluppo sul modello occidentale, ma l’esperienza ci insegna che più alti sono gli standard di vita e

VENEZIA


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01 01 - Kigali_quartiere informale: la maggior parte della superficie della città di Kigali è occupata da quartieri informali _ Picture by Alice Tasca 2010. 02 - Kigali city center: il centro di Kigali rispecchia un’architettura di stampo occidentale con ampio utilizzo di calcestruzzo e vetro per la costruzione di torri sede di banche, uffici e centri commerciali _ Picture by Sebastian Kranz 2014. 03 - Kigali masterplan: la visione per la città nei prossimi 10 anni. L’idea è di trasformare Kigali nella Singapore d’Africa _ Kigali master plan by Thomas Goodfellow 2012.

5555 km

KIGALI

meno sostenibile diventa il progresso4. Il Ruanda, come altri stati africani, ha un’economa basata soprattutto su investimenti esteri, aiuti finanziari di organizzazioni non governative e fondi internazionali per lo sviluppo. Vivendo in tale contesto la sensazione è, da una parte, di essere trainati e travolti dalla crescita economica che trasforma la città in modo visibile, dall’altra di essere testimoni di un ripetersi di errori e strategie di stampo capitalista che hanno portato, tra le varie cose, polarizzazione della ricchezza, squilibri sociali, inquinamento, consumo energetico e crisi economiche già sperimentati in occidente. È evidente come sia di estrema difficoltà trovare un punto d’incontro tra la rincorsa e l’aspirazione a un progresso su modello del primo mondo e la riduzione del consumo di risorse5. Per questo nell’ambito dell’architettura diventa fondamentale il ruolo del progettista, non solo come esecutore di un oggetto che combini forma, funzione ed estetica, ma anche come catalizzatore di tradizione e stile di vita locale in un prodotto contemporaneo e soprattutto sostenibile. Vivere, insegnare e

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progettare in Ruanda hanno cambiato il mio punto di vista, mi hanno fatto riconsiderare il significato del termine sostenibilità e maturare un pensiero critico nei confronti dell’interpretazione del termine. La ricerca sull’architettura vernacolare e sui sistemi di costruzione locali, iniziata nel 2010 e in continuo sviluppo, mi ha spinta alla pratica e all’insegnamento di una progettazione profondamente contestualizzata. Essa si basa, da una parte, su autocostruzione, riciclo, riuso e impiego di materiali a chilometro zero, dall’altra sulla sensibilizzazione di studenti e comunità locali a problemi di natura socio-economica, le cui soluzioni dovrebbero essere commisurate alle necessità ambientali più che basarsi su modelli di sviluppo occidentali. Secondo l’architetto e teorico Yona Friedman “un’architettura è di sopravvivenza se non rende difficili l’approvvigionamento di acqua, la protezione climatica e l’organizzazione dei rapporti sociali e non vi è architettura tradizionale che non rispetti questi criteri (…) provando a trasformare il modo in cui l’uomo impiega le cose esistenti”6. Personalmente trovo questa citazione adatta all’inter-

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riconsiderare il significato del termine sostenibilità e maturare un pensiero critico nei confronti dell’interpretazione del termine

pretazione del termine sostenibilità nello scenario Africano: l’architettura vernacolare si basa sul principio della sopravvivenza, sul soddisfacimento dei bisogni minimi (approvvigionamento idrico, protezione dagli agenti atmosferici e rapporti interpersonali) e sull’uso di materiali disponibili in spazio e tempo immediati. La tradizione, dunque, le soluzioni tecnologiche definite dall’esperienza, i sistemi passivi e l’analisi ambientale sono principi fondamentali da cui partire per uno sviluppo sostenibile e l’esperienza che sto vivendo mi ha fatto capire come questi non siano ritenuti fondamentali agli occhi della maggioranza.

05 04 - Finestra: circa l’80% degli edifici rurali in Ruanda è costruito in terra _ Picture by Alice Tasca 2010. 05 - Ventilazione_riuso: copricerchi utilizzato in costruzione per la ventilazione naturale del sottotetto _ Picture by Alice Tasca 2010. 06 - T-riciclo: sulla base di una mancanza di oggetti di uso comune, riuso e riciclo sono ampiamente impiegati in Ruanda in diversi ambiti _ Picture by Alice Tasca 2013.

* Alice Tasca è architetto, laureata all’Università Iuav di Venezia. Lavora in Ruanda. e-mail: archialice@tiscali.it NOTE 1/6 - Friedman Yona, L’architettura di sopravvivenza - una filosofia della povertà, Torino, Bollati Boringhieri, 2009. 2 - www.activesocialarchitecture.com 3 - United Nations Population Division, World Population Prospects, The 2008 Revision. 4 - Global Footprint Network 2008. 5 - Intese come risorse energetiche, ma anche capitali sociale, economico e ambientale.

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(S)COMPOSIZIONE

“Cause he had to run, run, run, run, run” Run, Run, Run, The Velvet Underground, 1967

La Sportiva Lynx GTX 3700 km percorsi Immagine di Luca Colomban

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