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ISSN 2384-9029

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OFFICINA* Bimestrale on-line di architettura e tecnologia N.04 gennaio-febbraio 2015 ISSN 2384-9029 Rivista consultabile e scaricabile gratuitamente su : www.officina-artec.com/category/publications/officina-magazine

DIRETTORE EDITORIALE

HANNO COLLABORATO A QUESTO NUMERO:

Emilio Antoniol

Elena Ambrosi, Antonia Araldi, Giovanna Astolfo, Gregorio Bonato, Alessia Bruno, Jacopo Ibello, Maria Concetta Perfetto, Giulia Vallese

COMITATO EDITORIALE Valentina Covre

IMPAGINAZIONE GRAFICA

Francesca Guidolin

Valentina Covre

Daria Petucco REDAZIONE Filippo Banchieri Margherita Ferrari Valentina Manfè Michele Menegazzo Chiara Trojetto PROGETTO GRAFICO Valentina Covre

EDITORE

Margherita Ferrari

Self-published by

Chiara Trojetto ArTec - Archivio delle Tecniche e dei materiali per l’architettura e il disegno industriale Università Iuav di Venezia Dorsoduro 2196, 30123 Venezia tel. +39 041257 1673 fax +39 041257 1678 info@officina-artec.com Copyright © 2014 OFFICINA*


Heavy Metal or not?

È il 1969 quando nelle sale esce il fi lm Easy Rider, capolavoro della controcultura cinematografica degli anni ’60, che racconta il bizzarro viaggio attraverso l’America di Wyatt (Peter Fonda) e Billy (Dennis Hopper) in sella alle loro sferraglianti motociclette. Celeberrima è anche la colonna sonora della pellicola che, tra gli altri, annovera la famosissima Born To be Wild degli Steppenwolf in cui appare, forse per la prima volta in musica, il termine heavy metal thunder proprio in riferimento al potente rombo metallico prodotto dai chopper dei protagonisti. E sarà da li a pochi anni che un nuovo genere di rock si farà strada nel panorama musicale degli anni ’70 e ‘80. L’Heavy Metal farà proprio dello sferragliare delle chitarre e della potenza dell’amplificazione la sua firma più caratteristica, presentando un repertorio di musica dura, aggressiva, heavy come il metallo. Ma davvero il metallo è così duro e pesante? Certamente tra i materiali da costruzione quelli metallici sono tra i più pensati eppure essi mettono a disposizione del progettista una varietà quasi infinita di prodotti e soluzioni per l’architettura caratterizzate da grande versatilità e flessibilità d’uso. I metalli possono essere forgiati, stampati, laminati, profi lati, stirati, estrusi o piegati dando origine a una gamma illimitata di sezioni fino a giungere a profi li da costruzione tanto esili e leggeri da poter essere comodamente assemblati a mano, in cui però le caratteristiche tecniche sono

Gustavo Perez Rangel

amplificate, come nell’Heavy Metal, fino ai limiti più estremi.


INDICE

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ESPLORARE Tina Modotti. Retrospettiva di Margherita Ferrari Mirò. L’impulso creativo di Valentina Manfè Escher di Chiara Trojetto

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6 in copertina: Shaped Steel immagine di Giacomo Bagnara*

*E’ un illustratore italiano che vive e lavora a Verona, si è laureato in Architettura al Politecnico di Milano. Collabora da alcuni anni con clienti e testate giornalistiche italiane e internazionali. sito: giacomobagnara. tumblr.com

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HEAVY METAL L’acciaio sagomato a freddo tra tecnica, architetto e società di Valentina Manfè Leggerezza portante di Margherita Ferrari Dare forma all’acciaio. Dai rotoli ai profi lati di Filippo Banchieri Alzi la mano chi è riciclabile! di Chiara Trojetto Artigiano e artista: un incontro d’oro di Alessia Bruno

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PORTFOLIO Invasione digitale Marghera di Jacopo Ibello e Maria Concetta Perfetto

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IN PRODUZIONE Rendere nobile il cartone di Emilio Antoniol

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VOGLIO FARE L’ARCHITETTO Riviviamo la piazza di Antonia Araldi Il lavoro e l’archeologia di Elena Ambrosi e Giulia Vallese

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IMMERSIONE Non solo piante officina(*)li di Michele Menegazzo


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DECLINAZIONI Fake di Valentina Covre

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MICROFONO ACCESO EXiT a cura di Daria Petucco

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CELLULOSA Madre Materia a cura di Francesca Guidolin

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ARCHITETT’ALTRO Pratiche periferiche di Giovanna Astolfo

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(S)COMPOSIZIONE Ho perso il conto di Gregorio Bonato

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ESPLORARE

Tina Modotti. Restrospettiva

Mirò. L’impulso creativo

Centro Internazionale di Fotografia Scavi Scaligeri, Verona 29 novembre 2014 - 8 marzo 2015

Palazzo Te, Mantova 26 novembre 2014 – 06 aprile 2015 www.miromantova.it

La mostra, realizzata da Cinema zero e curata da Riccardo Costantini, ricostruisce il percorso fotografico di Assunta Adelaide Luigia Modotti Mondini, meglio conosciuta come Tina Modotti. Di origine italiana, si traferisce presto negli Stati Uniti, dove si dedica agli studi di recitazione, ma il suo interesse principale resta quello legato al mondo della fotografia, conosciuto grazie alle esperienze del padre e dello zio. Nel corso degli anni Tina Modotti sarà riconosciuta come fotografa di fama internazionale, soprattutto grazie alle sue raccolte di ritratti scattati durante i 10 anni vissuti in Messico. Fu proprio qui che ebbe inizio il suo attivismo politico, il quale proseguì anche dopo l’esilio, a differenza della fotografia che ben presto abbandonò. Oneste fotografie, come lei stessa le defi nisce: raccontare la realtà attraverso l’obiettivo, senza alcun velo artistico.

“Vorrei spiegare a chi vede i miei lavori perché essi sono così, perché un giorno ho deciso di aggrapparmi alla vita segreta delle cose, e come, a poco a poco, ho eliminato tutte le realtà esteriori per giungere al segno, che è un ideogramma.” Queste le parole di Joan Miró, pittore, scultore e ceramista spagnolo, esponente del surrealismo. A Palazzo Te a Mantova sono esposte alcune delle sue più significative opere. La mostra è un vero e proprio impulso creativo, richiama ad una forza interiore che favorisce il movimento e al tempo stesso riconduce al desiderio che la guida, entrambi sono il fi lo conduttore del processo creativo dell’artista, che scaturisce da quella che lui defi niva “tensione dello spirito”. L’esposizione presenta 53 opere che abbracciano un periodo artistico che va dal 1966 al 1989; questa è divisa in 5 sezioni tematiche: il gesto, la forza espressiva del nero, il trattamento del fondo come punto di partenza creativo, l’eloquenza della semplicità e la sperimentazione materica. A completamento l’esposizione sono stati ricostruiti Studio Sert e Son

www.scaviscaligeri.comune.verona.it

di Margherita Ferrari

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Boter, dove Miró lavorava alle sue opere. Inoltre si può godere di un’affascinante proiezione relativa ad un’intervista all’artista nel suo studio. Joan Miró utilizza diverse tecniche e materiali per realizzare disegni, dipinti, bronzi, terrecotte ed arazzi. “Approfitto di tutto quello che trovo: se ricevo un pacchetto, conservo la carta dell’imballaggio; altre volte se mi mandano una bella carta dal Giappone, uso pure quella…Vede quello? Era un vecchio cartone rimasto in giro… Un materiale magnifico che ho utilizzato.” In tutte le sue opere è presente l’elemento della casualità che domina il processo creativo e al tempo stesso ogni creazione nasce da una profonda e dettagliata riflessione come dimostrano numerosi disegni preparatori riferiti a dipinti e sculture. La mostra non ha lo scopo di mettere in luce un particolare passaggio del processo creativo dell’artista. Equilibrio delle forme, essenzialità dei segni ed armonia del colore diventano per Joan Miró elementi imprescindibili, in particolare in queste opere in cui fortissimo è l’influsso della cultura giapponese. “Un giorno Picasso mi disse: la creazione pura è un graffito. Un piccolo gesto su una parete. Questa è la vera creazione. Per questo la prima tappa è tanto importante per me: è la vera creazione. Quello che mi interessa è la nascita.”

di Valentina Manfè


Escher Chiostro del Bramante, Roma 20 settembre 2014 – 22 febbraio 2015 www.chiostrodelbramante.it

Il Chiostro del Bramante ospita fi no al 22 febbraio 2015 una grande mostra antologica dedicata all’artista, incisore e grafico olandese Maurits Cornelis Escher. Molte opere sono dei celebri capolavori quali Mano con sfera rifl ettente, Giorno e notte e Casa di scale, ma il visitatore rimane colpito da ciascuna delle oltre 150 esposte poiché la comunione tra abilità tecnica e ricerca visiva rende ogni incisione un piccolo mondo che incuriosisce e incanta. Il percorso espositivo narra l’evoluzione dell’arte di Escher, originatasi nell’osservazione del paesaggio italiano e della regolarità che si nasconde dietro l’aspetto apparentemente casuale della natura e che spazia poi nelle infi nite forme e possibilità offerte dalla geometria e dalla cristallografia, terreni assai fertili per la fervida fantasia del geniale olandese con una breve esperienza passata di studente di architettura. Ogni opera invita ad entrare per qualche intenso minuto nel magico mondo creato, usando un eufemismo, a partire dalla semplice incisione di una superficie.

di Chiara Trojetto

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Steel 7,85 kg/dm3, Stainless steel 7,60 kg/dm3, Nickel silver 8,50 kg/ dm3, Aluminium 2,60 kg/dm3, Antimony 6,75 kg/dm3, Silver 10,50 kg/dm3, Beryllium 1,84 kg/dm3, Bronze 7,50 kg/dm3, Chrome 7,20 kg/ dm3, Iron 7,85 kg/dm3, Cast Iron 7,00 kg/dm3, Light alloys of aluminum 2,50 kg/dm3, Light alloys of magnesium 1,80 kg/dm3, Mercury 13,60 kg/dm3, Molybdenum 10,20 kg/dm3, Monel 8,50 kg/dm3, Nickel 8,80 kg/dm3, Gold 19,25 kg/dm3 , Brass 8,50 kg/dm3, Lead 11,34 kg/dm3, Platinum 21,40 kg/dm3, Copper 8,90 kg/dm3, Copper Beryllium 8,20 kg/dm3, Pond 7,30 kg/dm3, Titanium 4,40 kg/dm3, Tungsten 19,10 kg/ dm3, Zinc 7,10 kg/dm3. Among the building materials metals are surely the heaviest; looking at the list of metals and alloys reported above, it is possible to note that the average specific weights are usually higher than 7 kg/dm3. Even the lightest, such as aluminum, beryllium or magnesium alloys, have an average density set between 1,80 and 2,60 kg/dm3, a value which is comparable to the one of concrete, glass or clay. However, specific weight and mass are not the most relevant features of metals used in architecture and design. Technical properties such as malleability and ductility are also necessary to allow the transformation of these “heavy metals” into slender profiles, thin sheets or long cables characterized by a low weight and a high mechanical resistance. The range of products derived from the metals processing is almost endless and they can be used in any construction, design or industrial production sector. The following articles analyze some of these characteristics and, in particular, they analyze the innovative techniques of metal sheet cold bending for the

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realization of light but mechanically resistant profiles. The first article begins with an analysis of the different approaches to the cold formed steel development generated in the Western cultural context, dominated by the “architect-inventor” figure - as Prouvé and Fuller are - and in the Eastern context, characterized by the “builder man” figure. Then, the analysis moves to more technical areas with two contributions that aim to describe the cold bending technolog y for the realization of structural profiles or building components such as window frames. In both cases, the cold forming allows to obtain light shaped profiles that are also strong and versatile and in which the use of material is minimized. That aspect defines a new topic related to sustainability in construction and to the life cycle of metal products. Metals are characterized by a high durability, they are recyclable and allow the realization of totally removable dry structures. All these qualities are added to those of mechanical resistance and lightness of the cold shaped profiles. The last article concerns the design sector and, in particular, the artist’s jewelry production in which metals, light or heavy, are the absolute protagonists.


Margherita Ferrari

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cciaio 7,85 kg/dm3, Acciaio inox 7,60 kg/dm3, Alpacca 8,50 kg/dm3, Alluminio 2,60 kg/dm3, Antimonio 6,75 kg/dm3, Argento 10,50 kg/dm3, Berillio 1,84 kg/dm3, Bronzo 7,50 kg/dm3, Cromo 7,20 kg/dm3, Ferro 7,85 kg/dm3, Ghisa 7,00 kg/dm3, Leghe leggere di alluminio 2,50 kg/dm3, Leghe leggere di magnesio 1,80 kg/dm3, Mercurio 13,60 kg/dm3, Molibdeno 10,20 kg/dm3, Monel 8,50 kg/dm3, Nichel 8,80 kg/dm3, Oro 19,25 kg/dm3, Ottone 8,50 kg/dm3, Piombo 11,34 kg/dm3, Platino 21,40 kg/ dm3, Rame 8,90 kg/dm3, Rame al Berillio 8,20 kg/dm3, Stagno 7,30 kg/ dm3, Titanio 4,40 kg/dm3, Tungsteno 19,10 kg/dm3, Zinco 7,10 kg/dm3. Tra tutti i materiali da costruzione quelli metallici sono sicuramente tra i più pesanti, basti notare come nella lista di metalli e leghe appena riportata i pesi specifici medi siano quasi sempre superiori ai 7 kg/dm3. Anche i più leggeri, come l’alluminio, il berillio o le leghe di magnesio, presentano comunque una densità media compresa tra 1,80 e 2,60 kg/dm3, valore equiparabile a quello del calcestruzzo, del vetro o del laterizio. Tuttavia, peso specifico e massa non sono sicuramente le caratteristiche più rilevanti dei metalli usati in architettura e nel design. Sono invece proprietà tecniche quali la malleabilità e la duttilità a consentire la trasformazione di questi “materiali pensati” in esili profili, in sottili lamiere o in lunghi cavi caratterizzati da un peso contenuto e da un’elevata resistenza meccanica. La gamma di prodotti derivata dalla trasformazione dei metalli è pressoché infinita e trova impiego in ogni settore delle costruzioni, del design e della

di Emilio Antoniol produzione industriale. Negli articoli che seguono vengono indagate proprio alcune di queste caratteristiche e, in particolare, sono analizzate le innovative tecniche di piegatura a freddo delle lamiere metalliche, generalmente in acciaio, per la realizzazione di profilati leggeri ma meccanicamente molto resistenti. La riflessione si apre con un’analisi dei differenti approcci allo sviluppo della costruzione metallica in cold formed steel generatasi nel contesto culturale occidentale, dominato dalla figura del “architetto-inventore” - come sono stati Prouvé e Fuller - e in quello orientale caratterizzato invece dalla figura del “uomo costruttore”. L’analisi si sposta poi verso ambiti più tecnici con due contributi volti a descrivere la tecnologia di piegatura a freddo delle lamiere d’acciaio sia per la realizzazione di profili strutturali che per la produzione di componenti edili quali i serramenti. In entrambi i casi, la formatura a freddo consente di ottenere prodotti dalle sagome estremamente leggere ma anche resistenti e versatili, in cui l’uso di materiale è ridotto al minimo. Tale aspetto allarga l’orizzonte di riflessione su altre questioni legate alla sostenibilità nelle costruzioni e al ciclo di vita dei prodotti in metallo. Questi sono caratterizzati da una elevata durabilità, sono riciclabili e consentono la realizzazione di strutture a secco totalmente smontabili, qualità queste che si aggiungono a quelle di resistenza meccanica e di leggerezza dei profili sagomati a freddo. L’ultimo contributo si rivolge invece al mondo del design e, in particolare, a quello della produzione di gioielli d’artista in cui il metallo, leggero o pesante che sia, è assoluto protagonista.

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HEAVY METAL

L’acciaio sagomato a freddo tra tecnica, architetto e società Innovazione di una tecnica attraverso il progetto qualitativo dell’architetto

Valentina Manfè architetto, laureata in Architettura per la Costruzione e assegnista di ricerca presso l’Università Iuav di Venezia. Ha maturato esperienze sia nel campo della progettazione, che della ricerca e della formazione. e-mail: valentinamanfe@yahoo.it

This article describes the use of the cold formed steel (cfs) through a “excursus” which involves technique, architect and society. It is an innovative system whose aim is to satisfy the needs of the individual and society. It was used by architects and inventors for the first time, who, thanks to their experience, have caught the potentiality of such system to make high architectural project. Jean Prouvé in France and Richard Buckminster Fuller in America are two examples of how the innovation technolog y linked to the use of cold formed steel in constructions is not a merely technique but a philosophy of technique, whose some project will be analyzed where the main concepts are prefabrication and functionality. In another view point the modern Japanese industry of building is based on prefabrication and on the importance of the manufacture, and it is linked to the traditional construction system applied to cfs. The BIM technolog y is a strong tool for the development of such system.

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di Valentina Manfè

nnovare ovvero rendere nuovo, fare innovazione dal latino tardo innovatio-onis che non è altro che “l’atto, l’opera di innovare, cioè di introdurre nuovi sistemi, nuovi ordinamenti, nuovi metodi di produzione”.1 L’acciaio sagomato a freddo2 , i cui prodotti derivano da una tecnica di piegatura di lamiere sottili in acciaio, al fi ne di ottenere specifici profi li sagomati, viene spesso defi nito come un sistema nuovo, anche se in realtà rappresenta un sistema innovativo, rielaborato in diversi luoghi e perfezionato nel corso del tempo. I primi prodotti in lamiera metallica piegata a freddo vennero realizzati in Gran Bretagna e negli Stati Uniti d’America già nei primi anni dell’Ottocento, prendendo il nome di “lamiere al carbone di legna” (Singer, 1965) in quanto venivano prodotti in forni alimentati con carbone dolce. Il campo d’impiego di queste lamiere era inizialmente l’oreficeria e, in seguito, la realizzazione di carrozzerie per auto, vagoni ferroviari e silos. Un forte cambiamento nella produzione avvenne nel 1932 quando in Austria, grazie a nuovi laminatoi continui sperimentali, si iniziarono ad ottenere nastri di lamiera molto lunghi e di notevole sottigliezza. In ogni caso la diffusione dei profi li in lamiera sagomati a freddo è rimasta poco diffusa fi no agli anni ’40; solo nel 1945 l’America Iron Steel Institute (AISI) sponsorizzò una prima ricerca in questo settore portando ad un’importante pubblicazione nel 1946 Specifications for the Design of Cold Formed Steel structural Membres che permise la diffusione del sistema. La lamiera sagomata a freddo fu impiegata per la prima volta in edilizia da architetti ed inventori che colsero le potenzialità di questo prodotto e proposero innovazioni sulla spinta del contesto sociale, economico e culturale che caratterizzava il loro tempo. Con la crisi del secondo confl itto mondiale e la ripresa del primo dopoguerra emerge una nuova richiesta abitativa e sociale, che diventa uno stimolo alla progettazione e alla ricerca di soluzioni economiche ed efficienti.


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Protagonista in Francia fu Jean Prouvé (1091-1984) defi nito homo faber, (Orazi, 2013), che si distinse per la passione per la costruzione: seguiva ogni fase della realizzazione dei suoi progetti, senza tralasciare alcun dettaglio, dalla struttura all’arredo. La sua formazione come fabbro fu fondamentale tanto che lui stesso si defi niva così: “Non sono che un operaio. In fondo sono partito da lì e penso che tutto ciò che ho fatto nella vita, l’ho fatto molto semplicemente, senza pormi interrogativi profondi”.3 Per Prouvé la lavorazione della lamiera non è solo un’operazione meccanica ma è tecnica di pensiero, che sfocia in architetture e oggetti di design, una fusione tra arte e industria. È del 1931 il brevetto numero FR721105A, che descrive un sistema di pareti divisorie in metallo con elementi intercambiabili; tale soluzione venne largamente utilizzata da Prouvé. Ogni elemento della parete è ottenuto mediante la sagomatura a freddo della lamiera all’interno di stampi movimentati e controllati attraverso calibri. La ricerca procede senza sosta e nel 1935, con un amico ingegnere, mette a punto una macchina per deformare lamiere d’acciaio inossidabile molto sottili, fi no a 6/10. Per Prouvé il dopoguerra fu anche l’occasione per sviluppare la produzione di mobilio per la collettività: gli elementi in metallo e in legno vengono assemblati e articolati mediante meccanismi che consentono di smontare, spostare (ed eventualmente anche modificare) ogni prodotto. Lo spirito d’avanguardia che caratterizza l’operato di Prouvé con-

fu la lamiera d’acciaio ad ispirarmi

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la lavorazione della lamiera non è solo un’operazione meccanica ma è tecnica di pensiero, che sfocia in architetture e oggetti di design

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traddistingue anche i progetti che egli propose nel 1949 al Ministero per la Ricostruzione dell’edilizia urbana, sottolineandone l’aspetto umanistico. L’obiettivo era la realizzazione di case leggere, producibili in fabbrica, economiche e facilmente montabili. Le aspettative di Prouvé vennero disattese dal Ministero che commissionò solo pochi edifici, così la produzione seriale non fu mai davvero messa in pratica e solo alcuni edifici vennero montati nel parco di Meudon in Francia. Il sistema costruttivo prevedeva l’impiego di elementi in acciaio sagomato a freddo, in virtù dei brevetti del 1939 (numero FR669430A)4 del 1941 (numero FR865235A)5. Emblematica la Stazione di servizio del 1953, ricostruita presso il Campus Vitra di Weil am Rhein nel 2003: come un arredo. L’uso della lamiera piegata consente a Prouvé di rispondere ai criteri di efficienza e solidità, i dispositivi di montaggio a vista rispondono alla ricerca di leggerezza della struttura e di forma del volume6. Il risultato è l’ideazione di una vera e propria “piccola macchina architettonica” (AA.VV., 2013): una struttura prefabbricata industriale, progettata per essere prodotta in serie in cui il doppio colore degli elementi va a distinguerne la funzione7. Il pensiero e la tecnica di Jean Prouvé trovano radici nella conoscenza dei materiali e nella possibilità di offrire dei prodotti innovativi ed efficienti alla società, analogamente anche Richard Buckminster Fuller lavora ad edifici realizzati con la lamiera piegata a freddo e progettata per la prefabbricazione e la produzione in officina. I loro progetti mirano costantemente al risparmio di materia, alla leggerezza, alla funzionalità e alla flessibilità e non si disperde in formalismi rappresentativi; risultato è la ricerca di un’alta qualità nell’architettura e nella tecnologia.

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Richard Buckminster Fuller (1895 - 1983), inventore, intuisce fi n dai primi anni del proprio operato che l’industria edilizia tradizionale non può soddisfare il problema dell’abitazione per tutti e che i bisogni dell’uomo possono essere appagati solo dall’applicazione di tecniche più evolute per la costruzione. Attraverso l’uso dell’acciaio Fuller si propone di raggiungere l’obiettivo del massimo benessere con il minimo investimento di energie materiali. Fuller disse: “(…) la costruzione artigianale, nella quale ciascun edificio è considerato come modello pilota di un modo di concepire che non raggiungerà mai lo stato della produzione industriale, è un’arte che appartiene al Medio Evo…” (Picon d’Antoin, 1997). Tra i progetti più noti di Fuller vi è la Dymaxion House (1927), espressione dei principi della cosiddetta Dymaxion philosophy. Dymaxion è un termine coniato da Fuller attraverso l’unione di tre parole: dinamic (DY), maximum (MA), tension (ION) (Manfron, 2002). La Dymaxion House fu un prototipo sperimentale che avrebbe dovuto consentire di avviare la produzione e la vendita di case su scala mondiale ma questa operazione non fu mai messa in atto. Successivamente Fuller progetta e realizza altri edifici, frutto di tale prima esperienza: tra le più note la DDU ovvero l’Unità di Dispiegamento Dymaxion 8, realizzata nel 1940 per la British War Relief Organization. La DDU è un sistema abitativo piuttosto rudimentale, prefabbricato, semplice e poco costoso; è realizzata in lamiera di metallo zincato, piegata, con pavimenti in masonite e isolamento in fibra di vetro. Un brevetto riferito a questo progetto è il numero CA417394A del 1943. Fuller concepì questo progetto in collaborazione con la Butler Manufacturing Company di Kansas City, azienda produttrice di silos in acciaio galvanizzato per la conservazione delle sementi. È proprio a partire dalla forma dei silos e dal processo di produzione di queste costruzioni che Fuller realizzò, in tre modelli, edifici dalla pianta circolare con pareti in acciaio galvanizzato, dal peso ridotto e dal tetto curvo, sostenuto da un palo centrale. Jean Prouvé in Francia e Richard Buckminster Fuller in America

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sono gli sperimentatori dell’impiego in architettura della lamiera d’acciaio piegata a freddo. Nel loro operato si legge lo studio del trasferimento tecnologico da settori legati alla nascente industria fabbrile e automobilistica, alla produzione aeronavale e industriale. Non solo tecnica ma vero e proprio pensiero architettonico legato alla costruzione al fi ne di produrre architetture di nuova e più elevata qualità, destinate a nuovi e più esigenti utenti. Ciò che più rimane dell’opera di questi progettisti è la perizia tecnica nella lavorazione e nell’impiego delle lamiere: ciò ha ricadute nel settore automobilistico, ma non solo. In America, terra fertile per le innovazioni tecnologiche, era molto diffuso l’impiego del sistema costruttivo in balloon frame, costruzione realizzata con telai in legno, ripensata attraverso l’impiego dell’acciaio grazie all’applicazione delle esperienze di lavorazione della lamiera di Prouvé e di Fuller. Tuttavia il boom delle costruzioni in acciaio sagomato a


vero e proprio passaggio dalla produzione di massa alla personalizzazione di massa

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freddo si ebbe con la ricostruzione postbellica in Giappone. Nel paese nipponico la prefabbricazione in edilizia ha radici profonde e lontane perché sin dal 710-730 d.C. era in uso un ricercato sistema di realizzazione standardizzata degli edifici, composti per parti prefabbricate di dimensioni standard, facili da acquistare e cambiare per far fronte alla ricostruzione imposta dai frequenti terremoti. Le strutture e le diverse parti degli edifici venivano costruite in legno e in carta, i carpentieri rispettavano specifici standard modulari che consentivano incastri e connessioni di precisione, ogni componente veniva siglato in modo da semplificarne le operazioni di montaggio in cantiere. Il concetto di abitazione è fortemente connesso all’azione dell’abitare che, nella lingua giapponese, è composto dai due ideogrammi che indicano rispettivamente i concetti di “uomo” e di “maestro”: gli ideogrammi fanno riferimento all’idea di “uomo costruttore” (Donà, 2006)9. La ricerca, la produzione e la progettualità sono quindi nelle mani del “costruttore”. Nella ricostruzione postbellica lo Stato assecondò questa consolidata prassi costruttiva, sostituendo però il legno con l’acciaio e agevolando così lo sviluppo dell’industria della lavorazione dei metalli, tutt’oggi leader nella produzione di acciaio. I principali attori mondiali della produzione e di tale innovazione sono meno di una decina di grandi aziende che lavorano alla produzione di edifici attraverso sistemi industrializzati, che prevedono l’impiego talvolta del legno, talvolta dell’acciaio, piuttosto che del calcestruzzo. Nel 1959 la Daiwa House Industry Co. fu la prima a progettare una casa prefabbricata in acciaio utilizzando il cold formed steel, la Mized House, dando avvio ad un intensa ricerca sui temi della prefabbricazione e della produzione di massa. Nel 1970 viene progettata la Sekisui Heim M1, un’abitazione realizzata da Katsuhiko Ohno e Sekisui Chemical Co., Ltd., in cold formed steel, di cui il progetto è stato di recente illustrato alla 14° Biennale d’Architettura di Venezia, presso il Padiglione del Giappone. Dal 1983 è proprio la Sekisui House a detenere la maggior parte del mer-

cato nazionale giapponese delle costruzioni prefabbricate; questa stessa azienda ha anche altre sedi e altri mercati, tra i quali l’Australia, in cui c’è ampia diffusione. Il cold formed steel in Giappone è forte di tale stupefacente continuità tra moderno e antico e al contempo è caratterizzato dall’innovazione. Questa porta a nuove qualità, a tempi di costruzione ridotti, alla ricerca dei materiali e nuove tecnologie per la produzione delle aste per la realizzazione degli edifici e per la loro gestione, nonché per la loro riqualificazione. La produzione, con il passare del tempo e l’evolversi delle tecnologie legate all’informatica, si fa sempre più flessibile e, dunque, pronta a soddisfare desideri e progetti on demand. Si tratta di un vero e proprio passaggio dalla “produzione di massa” alla “personalizzazione di massa” (Noguchi, 2005) in cui la qualità del progetto è fondamentale, e primaria è l’attenzione alle esigenze dell’uomo. Il progetto risponde così alla richiesta del singolo individuo e la tecnica diventa strumento fondamentale per raggiungere questi obiettivi. L’innovazione tecnologica dell’acciaio sagomato a freddo ha consentito il raggiungimento di standard tecnologici tali da soddisfare alcune importanti esigenze dell’utenza. Il sistema cfs, oltre ad assolvere ai requisiti tecnici essenziali attraverso le prestazioni del materiale in oggetto, permette di generare un progetto che fa della qualità architettonica uno dei suoi obiettivi primari. In questo contesto sono i sistemi CAD-CAM e BIM (Building Informayion Modeling)10 a permettere il grande salto da una prefabbricazione di “molti pezzi tutti uguali” a una produzione industrializzata di “molti pezzi tutti diversi”. Questi strumenti consentono di collegare la progettazione alla produzione (attraverso il computer), di controllare i processi e di praticare delle simulazioni, gestendo le informazioni sull’opera da realizzare durante tutto il suo ciclo di vita. Queste innovazioni coinvolgono sia aspetti tecnologici, che progettuali, ma anche sociali, e possono diventare uno stimolo all’individuazione di una personalità come quella di Jean Prouvé, attento a soddisfare i bisogni di coloro che abiteranno queste architetture.

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NOTE 1 - Cfr. Enciclopedia Italiana Treccani. 2 - L’acciaio sagomato a freddo viene anche chiamato cold formed steel (cfs) o light steel frame. 3 - Cfr. Manuel Orazi, “Il miglior fabbro: Jean Prouvé a Torino”, in Domus n. 968 aprile 2013. “Je ne suis qu’un ouvrier. Dans le fond, je suis parti de là et je pense que tout ce que j’ai fait dans la vie, je l’ai fait très simplement, sans me poser de questions profondes”, Jean Prouvé par luimême, a cura di A. Lavalou, Editions du Linteau, Paris 2001, p. 11. 4 - Brevetto FR669430A del 1939 per porte ed intelaiature dove una lamiera veniva deformata da una macchina che piegava il metallo supportata da sottostruttura in legno. 5 - Brevetto FR 865235A del 1941 illustra un principio costruttivo di edificio smontabile con struttura portante in lamiera d’acciaio stampata in combinazione con pannelli di legno e va ad applicare il brevetto FR669430A del 1939. 6 - Brevetto FR1065839A del 1952 per facciata in lamiera metallica sagomata a freddo. 7 - La funzione è distinta dai colori della lamiera: bianco per la struttura portante, rosso per il rivestimento e verde per la base e la copertura, in una composizione armonica e funzionale. 8 - I prototipi e le realizzazioni della Dymaxion Deployment Unit furono realizzati dalla Butler Manufacturing Company di Kansas City, odiernamente una delle industrie principali mondiali di prefabbricati in metallo. Il primo brevetto è del 1940 e deriva dell’elaborazione di un silo, il secondo brevetto del 1944 ha la chiusura inferiore in lamiera di acciaio galvanizzato. Il peso di una DDU, compresi gli attrezzi e al manuale di montaggio, è di circa quattro quintali e il tutto il tutto può essere assemblato da

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una sola persona in poco tempo. 9 – L’ideogramma del concetto di abitazione nella lingua giapponese è diventato nel tempo sempre più rappresentativo dell’azione dell’insediarsi all’interno della città, secondo l’idea poetica dello “stabilirsi in un luogo per farvi il proprio nido”. 10 - La tecnologia Building Informayion Modeling (BIM) è uno strumento basato sulla modellazione parametrica tridimensionale dell’edificio, sui tempi e sui costi ed è in grado di creare una risorsa di informazioni condivise che forma una base affidabile per le decisioni da prendere durante tutto il ciclo di vita dell’opera, dalla sua ideazione alla sua demolizione. IMMAGINI 01 - Profili in lamiera stampata per il centro amministrativo di Bayonne, Francia, 1953. Fotografia di Lucien Hervé, tratta dal testo Vitra Design Museum, “Jean Prouvé. The poetics of a technical object”. 02 - Brevetto numero FR721105A per pareti divisorie in metallo con elementi intercambiabili depositato da Jean Prouvé nel 1931. 03 - Brevetto numero FR1065839A depositato da Prouvé il 3 novembre del 1952 per facciata in lamiera metallica sagomata a freddo. 04 – Residenze nel parco di Meudon in Francia, 1949, Jean Prouvé. 05 - Nel 1937 viene concepito “Prototype de la Maison de week-end BLPS”, casa per vacanze BLPS, il cui nome è acronimo degli architetti Eugène Beaudouin (1898-1983), Marcel Lods (1891-1978) e Jean Prouvé, che in collaborazione hanno concepito nel 1937 questa casa, smontabile e trasportabile. Il prototipo consiste in un’unità abitativa di soli 10 mq (3X3m) realizzata con pannelli in acciaio piegati. Grazie al semplice incastro dei componenti era installabile ovunque l’utente lo desiderasse e pubblicizzata con lo slogan

12 “se libérer de la dépendance de l’hotel” (De Nardi, 2000). Fotografia tratta da “Fonds Marcel Lods. Académie d’architecture/Cité de l’architecture et du patrimoine/Archives d’architecture du XXe siècle”. 06/07 - Stazione di servizio del 1953, ricostruita presso il Campus Vitra di Weil am Rehin nel 2003. Fotografie di Valentina Manfè. 08 – Brevetto, DDU Dymaxion Deployment Unit, numero CA417394A del 1943. Fuller concepì questo progetto in collaborazione con la Butler Company di Kansas City, azienda produttrice di silos in acciaio galvanizzato per la conservazione delle sementi. 09 - Seconda versione della DDU Dymaxion Deployment Unit (1944) realizzata in lamiera d’acciaio galvanizzato. 10 - DDU Dymaxion Deployment Unit , Unità di Dispiegamento Dymaxion, realizzata nel 1940 per la British War Relief Organization. Elaborazione di un silo di diametro 6,10 m e alto 2,44 m, parzialmente interrato. 11 - “Sekisui Heim M1”, un’abitazione realizzata da Katsuhiko Ohno e Sekisui Chemical Co., Ltd., in cold formed steel, del 1970, riproposta di recente alla 14.Biennale d’Architettura di Venezia presso il padiglione giapponese. 12/13 - Pareti divisorie in metallo con elementi intercambiabili (Brevetto numero FR721105A depositato da Jean Prouvé nel 1931) Padiglione della Francia presso la 14Biennale d’Architettura di Venezia. Fotografie di Valentina Manfè.


BIBLIOGRAFIA - Charles Singer, L’età dell’acciaio : circa 1850-1900, Volume 5, Boringhieri, 1965. - MariaAntonia Barucco, Valeria Tatano, Cold-formed-steel. A Historical analysis in order to identify new buiding processes for the construction of social housing, 40th IAHS World Congress on Housing Sustainable Housing Construction, Portugal, Decembre 1014. - Pietro Zennaro “Lo stile Jean Prouvè”, pag. 99-102, in Sinopoli Nicola, Tatano Valeria, (a cura di), Sulle tracce dell’innovazione. Tra tecniche e architettura, Franco Angeli, Milano, 2002. -AA.VV., Jean Prouvé. La poetica dell’oggetto tecnico, in Edilizia e territorio, n.12 marzo 2007. - AA.VV., “Una passione per Jean Prouvé dal mobile alla casa. La collezione di Laurence e Patrick Seguin”, Pinacoteca Giovanni e Marella Agnelli, Torino, 2013. - Manuel Orazi, “Il miglior fabbro: Jean Prouvé a Torino”, in Domus n. 968 aprile 2013. - Christian Enjoiras , Jaen Prouvé. Les Maisons de Meudon 1949-1999, Edizione de la Villette, Parigi, 2003. Diego De Nardi, Jean Prouvé: idee costruttive, Testo & immagine, Torino, 2000 François Chaslin, Il grande lattoniere Jean Prouvé, in Rassegna. Il disegno dei materiali industriali/The Materials of Design. n. 14, giugno 1983. - Vittorio Manfron “Buckminster Fuller: la ricerca Dymaxion, una storia americana tra innovazione e utopia”, pag. 81-95, in Sinopoli Nicola, Tatano Valeria, (a cura di), Sulle tracce dell’innovazione. Tra tecniche e architettura, Franco Angeli, Milano, 2002. - Richard Buckminster Fuller Picon d’Antoin, L’Art de l’ingénieur: costructeur, entrepreneur, inventeur, Editions Centre Georges Pompidou, Paris, 1997. - National Institute of building Sciences, National Building Information Modeling Standard. Version 1, final report, December 2007. - William H. Coaldrake, “Human technology, the Japanese Home goes intelligent” in Japan Architect, n.371 del 1989. - Masa Noguchi, “Japanese Prefabricators’ Means to Commercialize ‘Mass Custom Homes’ Equipped with Photovoltaic Solar Eletric System”, in David Covo & Gabriel Mérigo Basurto, Encounters Encuentros Recontres, ACSA International Conference, McGill University, 2005. - Teresanna Donà, Faire son nid dans la ville, in Arch’it, 2006, www.architettura.it - Landolfo Raffaele, Russo Ermolli Sergio, Acciaio e sostenibilità. Progetto, ricerca e sperimentazione per l’housing in coldformed steel, Alinea, Milano, 2012.

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HEAVY METAL

Leggerezza portante Profili in acciaio sagomato a freddo: progettazione, produzione, assemblaggio.

Margherita Ferrari è architetto, assegnista di ricerca presso Iauv di Venezia. Nel corso degli anni universitari ha approfondito gli studi relativi ai sistemi costruttivi a secco, e attualmente svolge attività di ricerca sul sistema in profili in acciaio sagomati a freddo. e-mail: margheritaf@iuav.it

The construction system combines the steel with the balloon frame structure, from which results an innovative design. Light steel frame is already an affermate structure in Japan or in Canada, but the Italian context doesn’t still know it very well. Thanks to this system, it is possible to check every step of the building life cycle: the industrialization of the design, the production, the assembly and consequently its disassembly. Lightness and adaptability give to light steel frame the capability to create a qualitative solution to several requirements, with a significative optimization of time, costs and materials.

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di Margherita Ferrari

i sta affacciando anche sul panorama italiano un particolare sistema costruttivo, già affermato in altri contesti internazionali. Si tratta di una struttura realizzata con profi li in acciaio sagomato a freddo, una struttura che funziona esattamente come il balloon frame, ovvero un complesso telaio portante di aste organizzate in pareti, a loro volta assemblate e disposte in modo tale da creare una scheletro portante. Il carattere innovativo di questa soluzione costruttiva non consiste tanto nel materiale o nella tipologia strutturale, bensì nella loro combinazione e nel processo progettuale che ne deriva. Il risultato infatti è una struttura leggera, più del legno a parità di dimensioni, con differenti modalità di impiego e altamente prestazionale, in quanto permette di ottimizzare la scelta stratigrafica di un pacchetto tecnologico sulla base delle esigenze progettuali e di seguire con precisione la messa in opera. Questo sistema costruttivo nel contesto internazionale viene largamente impiegato proprio per le sue prestazioni meccaniche e di resistenza al sisma. Una delle compagnie più affermate in questo settore è la giapponese Sekisui House, che attualmente vanta una vasta esperienza sviluppata nel corso dei decenni. Anche negli Stati Uniti, in Canada e in Inghilterra questo sistema costruttivo è molto utilizzato proprio perché risponde alla tradizione del balloon frame, andando a sostituire gli elementi lignei con profi li in acciaio, più leggeri e non soggetti ad attacchi da parte di insetti. Nel contesto europeo invece l’impiego di questo sistema si è diffuso principalmente nel nord Europa, mentre negli altri paesi è ancora poco utilizzato e conosciuto: questo probabilmente perché il contesto culturale è differente e la leggerezza di questa struttura differisce dal pensiero tradizionale, legato soprattutto a un’idea più massiccia della struttura, in modo particolare nel campo dell’edilizia residenziale.


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con questo particolare sistema costruttivo si accentua sempre più l’importanza di una progettazione esecutiva integrata, cioè di interfacciare tutte le figure coinvolte nel processo edilizio, al fine di controllare e programmare la completa realizzazione dell’edificio in termini di qualità ed efficienza

La stessa normativa europea non fornisce indicazioni precise in merito al sistema costruttivo in profi li in acciaio sagomato a freddo, il cui utilizzo è permesso esclusivamente previa sperimentazione e registrazione del prodotto1. In Italia è un sistema di recente impiego e le aziende con il marchio registrato sono un numero ristretto: si pensi che ad oggi SPH S.r.l. (Oderzo, Treviso) risulta l’unica realtà italiana ad essere qualificata come centro di trasformazione2 , con successiva registrazione del proprio prodotto denominato “Sistema CIPA®” a marcatura CE (dal luglio 2014 vi è l’obbligo di questa registrazione per tutti i prodotti realizzati all’interno dell’Unione Europea). In Italia ci sono anche altre aziende che impiegano questo sistema, il cui prodotto è registrato con altro nome: nel caso di COGI S.r.l. si tratta di “SteelMax”, mentre in quello di Esse Enne S.r.l. è denominato “Smart Home Project”. Esistono anche altre realtà italiane, ma non sempre sono chiari alcuni aspetti, come ad esempio la modalità di produzione, il campo d’impiego o anche lo stesso nome del prodotto. Nel contesto italiano questo sistema costruttivo viene impiegato principalmente per ampliamenti e coperture, visto il proprio carattere di leggerezza: nonostante ciò si fatica ancora a considerarlo una soluzione di qualità e quindi ad utilizzarlo per realizzazioni in cui si richiedono elevate prestazioni tecnologiche. L’acciaio sagomato a freddo permette di realizzare una struttura in grado di

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Srotolamento della bobina, coil

Controllo di stesura

Taglio del coil in nastri

Raddrizzameno dei nastri

Controllo primo step

adattarsi alle differenti soluzioni stratigrafiche, al fi ne di ottimizzare la scelta dei prodotti in relazione alle esigenze richieste dallo specifico progetto. Il sistema è analogo a quello di una qualsiasi costruzione a secco, ma l’impiego di questa tipologia di struttura permette una migliore adattabilità3 dei materiali da impiegare.

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I profi li in acciaio sagomato a freddo utilizzati in questa struttura possono avere svariate dimensioni e sezioni. Questa differenza dipende strettamente da una scelta progettuale e produttiva: infatti nei paesi in cui questo sistema è diffuso da tempo, le tipologie di sezione sono numerose, proprio perché il mercato permette di produrre in modo differenziato i profi li a seconda della funzione che ricoprono all’interno del sistema strutturale. Invece, nei casi in cui la produzione è più limitata, si tende a lavorare su un solo profi lo e ad ottimizzarne l’utilizzo. Il Sistema CIPA® infatti ha la peculiarità di essere realizzato con un solo tipo di profi lo: da qui deriva un accurato studio della sagomatura, progettata e realizzata ad hoc al fi ne di garantire un corretto assemblaggio. Il profi lo impiegato è a C con il rinforzo di due labbra, ed è appunto la sezione generalmente più impiegata per questo sistema strutturale: altre comunemente utilizzate sono quelle a U, L, Z, ma la varietà che si può ottenere è numerosa, data a sua volta anche dalla loro disposizione, come ad esempio la composizione schiena-schiena per ottenere sezioni più resistenti. La produzione di questi profi li avviene attraverso differenti cicli di lavorazione, ciascuno dei quali deve garantire la qualità del prodotto, ovvero l’uniformità della sezione e dello strato di protezione alla corrosione (generalmente in zinco) per tutta la lunghezza dell’elemento. Attraverso un processo di laminazione a freddo si producono i coils, ovvero bobine di acciaio dello spessore del profi lo desiderato (da 0,5 a 3,0 mm) e si tagliano dei nastri della larghezza necessaria, in relazione alla dimensione del profi lo richiesto. L’ultima fase infatti riguarda la sagomatura di questi nastri, un processo che viene programmato direttamente con i sistemi di CAD/CAM,

Unità stampa e perforazione


Controllo secondo step

Profilatura

Taglio e disposizione del profilo su rpiano SISTEMA DI PRODUZIONE DEI PROFILI IN ACCIAIO SAGOMATO A FREDDO Le lavorazioni qui riportate sono quelle più diffuse, ma non le uniche: anche la loro disposizione può cambiare. Questo si può selezionare attraverso le impostazioni della macchina, programmata ad eseguire specifiche operazioni, attraverso un processo CAD/CAM.

ovvero l’impiego di software per la progettazione a computer (CADComputer Aided Design) integrato alla fabbricazione computerizzata (CAM-Computer Aided Manufacturing): in questo modo una volta defi nito il progetto esecutivo, si potrà immediatamente avviare la produzione dei profi li, defi nendone l’esatta geometria ed anche le eventuali forature per la disposizione delle viti e degli impianti. Ogni profi lo viene infi ne siglato in riferimento alla posizione all’interno del telaio, al fi ne di agevolare le fasi di montaggio. In questo modo si riducono drasticamente i tempi di realizzazione della struttura, già abbattuti dai processi stessi di produzione: si pensi infatti che “un alloggio unifamiliare da 80-100mq viene in genere realizzato in 3-4 giorni da una squadra di 2-3 persone, utilizzando 350-400 profi li.” 4 La messa in opera resta comunque una fase molto delicata e importante: di fronte alla semplicità del montaggio di questi profi li, c’è infatti l’esigenza di un’accurata posa dei restanti materiali, al fi ne di garantire le prestazioni energetiche richieste a monte del progetto e la durabilità della struttura stessa. Per poter gestire con precisione questa fase, l’assemblaggio può essere eseguito parzialmente o interamente in officina, dove si può controllare esattamente la qualità del montaggio. In base a ciò si possono infatti distinguere tre tipologie di assemblaggio, che rispecchiano quelle degli analoghi sistemi a secco, e che defi niscono le operazioni da eseguire in cantiere: • ad aste (stick built), ovvero il montaggio di tutta la struttura e delle fi niture; • a pannelli ( panel o panelized), assemblaggio di pareti prefabbricate; • volumetrico (volumetric o modular), installazione di volumi. Questa scelta però deriva anche da altre condizioni, dettate soprattutto dalla disponibilità di spazi e mezzi di trasporto che comportano le differenti tipologie di montaggio. La progettazione della cantierizzazione è fondamentale, in quanto non solo defi nisce la

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di fronte alla semplicità del montaggio di questi profili, c’è infatti l’esigenza di un’accurata posa dei restanti materiali

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il carattere innovativo di questa soluzione costruttiva non consiste tanto nel materiale o nella tipologia strutturale, bensì nella loro combinazione e nel processo progettuale che ne deriva

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produzione degli elementi costruttivi, ma anche permette di ridurre al minimo il disturbo al vicinato relativo a polveri e rumore. Con questo particolare sistema costruttivo si accentua sempre più l’importanza di una progettazione esecutiva integrata, cioè di interfacciare tutte le figure coinvolte nel processo edilizio, al fi ne di controllare e programmare la completa realizzazione dell’edificio in termini di qualità ed efficienza. Questo procedimento è conosciuto anche in analoghi sistemi a secco, ma nel caso dei sistemi costruttivi in acciaio sagomato a freddo è necessario, in quanto la modellazione dei profi li viene eseguita strettamente sulla base del progetto esecutivo. L’industrializzazione riguarda quindi le differenti le fasi del ciclo di vita di un edificio e non esclusivamente la produzione dei profi li. Tale procedimento noto come BIM - Building Information Modeling, consiste appunto nella creazione di un modello di dati e informazioni, volto a garantire un preciso computo e quindi a ridurre gli sprechi in termini di materiale, tempo e costi. Sebbene il sistema costruttivo in acciaio sagomato a freddo ponga dei limiti a livello strutturale, come ad esempio le dimensioni massime di un edificio o le luci da coprire, allo stesso tempo permette di realizzare edifici di nuova costruzione o ampliamenti di qualità, con un significativo carattere di leggerezza.


NOTE 1 - Gli Eurocodici sono norme europee per la progettazione strutturale, in linea con le norme nazionali vigenti. Nei casi in cui non vi siano indicazioni e formule specifiche, si permette l’impiego di un determinato sistema previa progettazione assistita da prove, ovvero certificando il proprio prodotto attraverso test che confermino le capacità meccaniche di quello specifico sistema analizzato. Gli Eurocodici sono numerati e suddivisi in base a differenti temi: l’Eurocodice 3 è relativo all’acciaio. 2 - Consiglio Superiori dei Lavori Pubblici, Centri di trasformazione (pagina web visionata il 16 dicembre 2014). 3 - J. Andrade, L. Bragança, “Can sustainability rating systems fairly assess construction solutions under assessment?”, in Building Sustainability Assessment Tools, Portogallo 2013. 4 - R. Landolfo, S. Russo Ermolli, “Acciaio e sostenibilità. Progetto, ricerca e sperimentazione per l’housing in cold-formed steel”, Alinea Editrice, Firenze 2012. IMMAGINI 01 - Il sistema CIPA®. Interno di un edificio realizzato ad aste (stick-built). Generalmente una volta terminata la struttura si procede alla realizzazione della stratigrafia di chiusura, verticale e orizzontale. Margherita Ferrari. 02 - Sistema di assemblaggio ad aste in cantiere (stick-built). Global Systems. 03 - Sistema costruttivo a pannelli, ovvero assemblagio di pareti prefabbricate in officina. Hanse-haus. 04 - Sitema costruttivo a moduli prefabbricati in officina. New Castle Univerisity, Richardson Road Project. 05 - Alcune tipologie stratigrafiche, relative alla chiusura verticale e alla partizione orizzontale. La molteplicità di soluzioni è ampia e l’impiego dei materiali è ottimizzato in funzione delle prestazioni richieste dal progetto. 06 - Il numero di profili che si possono ottenere è indefinito: la geometria può variare in base alla disposizione dei rulli per la profilatura. BIBLIOGRAFIA - European Lightweight Steel-Framed Construction, Victor Buck, Luxemburg, 2005. - Technical Information Sheet, SCI-The Steel Construction Institute.

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Dare forma all’acciaio. Dai rotoli ai profilati Breve descrizione della tecnica di profilatura con cui si realizzano gli elementi per i serramenti di acciaio

Filippo Banchieri laureato in Architettura per il paesaggio presso l’Università Iuav di Venezia. e-mail: fbinvent@hotmail.com

The steel has begun to be used in a diffuse way for the production of windows and doors at the beginning of ‘900; after the second World War the evolution of the processing techniques of this material have seen the transition from hot working to cold forming, thus obtaining more complex shapes. The transition from Ferrofinestra profiles to cold formed profiles solved many problems of air and water resistance, thanks to the use of plastic seals. The technique of the profiling consists in the progressive bending of the metal laminate fl oor, which is transformed into the profiled bars. Today, with the use of special machines, the steel strips (coils) are first unrolled and cut by a shearing machine, then shaped by rollers in a forming machine. Bars obtained at the end of the process, will then be assembled for the composition of the frame.

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di Filippo Banchieri

el settore degli infissi, le prime sperimentazioni di impiego dell’acciaio su larga scala risalgono all’inizio del ‘900, ma fi no agli anni ’30 i risultati furono scarsi poiché i classici profi li a T, L e Z che venivano utilizzati, non erano efficienti dal punto di vista della tenuta all’aria e all’acqua. Successivamente, per ovviare a questi problemi si cominciarono a produrre profi lati d’acciaio pieni, accoppiati in modo da ottenere tra l’incontro dei profi lati una camera d’aria, interposta tra le battute. Tuttavia, per ovviare ai persistenti difetti di tenuta all’aria e all’acqua si dovette arrivare alla realizzazione di profi li con sagome speciali con ali dei profi li svasate per permettere una migliore aderenza tra le parti della battuta (produzione del Ferrofi nestra). A partire dalla seconda metà degli anni ‘40 si sviluppò una tecnica alternativa alla profi latura a caldo: la pressopiegatura. Essa però permetteva soltanto di produrre profi lati aperti e bisognerà attendere fi no alla metà degli anni ‘50 affi nchè vengano introdotte nuove tecnologie. Grazie alle macchine per la profi latura in continuo, dotate di una serie di rulli, si poté generare un profi lo tubolare con l’impiego di un sistema misto di aggraffatura e saldatura. Rispetto ai profi li sagomati a caldo, con la nuova tecnica di lavorazione a freddo si poterono realizzare sagome molto più complesse. A differenza dei profi li più semplici tipo ferrofi nestra, era quindi possibile formare apposite sedi per guarnizioni e accessori. I primi profi lati tubolari in acciaio presero il nome di profi ltubo. La tecnica della profi latura, evolutasi nel tempo, consiste nella piegatura progressiva a freddo del metallo laminato piano che viene fatto passare attraverso varie stazioni di rulli deformatori che progressivamente portano la lamiera alla forma desiderata. I nastri di acciaio, chiamati coils, vengono forniti dalle acciaierie in rotoli di larghezza tra i 1000 e 1300 mm. A seconda del tipo di acciaio, la lunghezza dei coils può arrivare a


la tecnica della profilatura consiste nella piegatura progressiva a freddo del metallo laminato piano

700-1000 metri, ma comunque con un peso complessivo inferiore alle 10 tonnellate. Nella prima fase di lavorazione, i coils vengono inseriti in appositi supporti e srotolati all’interno di una cesoia, dove dei coltelli cilindrici tagliano delle strisce nelle larghezze corrispondenti allo sviluppo di ciascuna sagoma dei vari tipi di profi lati. Gli stretti nastri così ottenuti sono riavvolti all’interno di un altro macchinario (aspo) e i rotoli pronti per essere lavorati vengono poi spostati nella macchina profi latrice a rulli. In questa macchina i nastri saranno nuovamente srotolati e marchiati con un codice che ne identifica il materiale e la catena produttiva. Inoltre, per i profi li più moderni che prevedono un taglio termico (con assemblaggio per mezzo di una successiva colatura di materiale plastico), nella fase iniziale di profi latura, sui nastri srotolati si incidono nei bordi delle scanalature che migliorano l’aderenza della schiuma. Nella sequenza di profi latura vera e propria, i nastri sono fatti scorrere attraverso numerose coppie di rulli di acciaio sagomati; questi

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Coils

Cesoiatrice

Deposito di coils in acciaio zincato

Fase di srotolamento di un coil all’interno della cesoiatrice

Coils in diversi tipi di acciaio: zincato, inox, ottone e corten

Nastri in acciaio dopo la cesoiatura

Nastro in acciaio inox cesoiato nei primi strati

Riavvolgimento dei nastri cesoiati

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Profilatrice a rulli

Raddrizzatrice e tagliatrice a barre

Inserimento di un nastro all’interno della profilatrice

Passaggio del profilato all’interno della raddrizzatrice

Passaggio del nastro di acciaio tra due rulli

Sequenza di raddrizzatura taglio in barre

Macchina profilatrice

Macchina per il taglio in barre

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sono accoppiati in rullo inferiore e rullo superiore, in mezzo ai quali scorre la lamiera che subisce una progressiva deformazione passando da una coppia all’altra di rulli (di diametro sempre maggiore per poter tirare il nastro). Per permettere uno scorrimento migliore attraverso i rulli, i nastri sono costantemente lubrificati da una miscela di acqua, olio e paraffi na. Nella catena di profi latura, oltre ai rulli che lavorano in verticale permettendo di ottenere piegature da 0° a 90°, si possono susseguire anche altri accessori (dischi più sottili e con massa minore) attraverso i quali generare pieghe con inclinazioni superiori all’angolo retto. Al termine del processo di piegatura, i profi lati ottenuti sono fatti passare all’interno di una macchina raddrizzatrice per correggere le deformazioni causate dalle tensioni generate durante il processo. Successivamente una punzonatrice può eventualmente effettuare delle forature nei profi lati che alla fi ne sono tagliati in barre solitamente di 6 metri di lunghezza. Il prodotto che si ottiene dalla deformazione a freddo del nastro di acciaio ha elevate caratteristiche meccaniche e basse tolleranze dimensionali; i serramenti che vengono realizzati con questi elementi si compongono di un profi lato base (il telaio portavetro) e di profi lati complementari , ciascuno appositamente studiato per la funzione che deve svolgere nella composizione del serramento.

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il prodotto che si ottiene dalla deformazione a freddo del nastro di acciaio ha elevate caratteristiche meccaniche e basse tolleranze dimensionali

IMMAGINI 01 - Esempi di profilati a caldo in acciaio del tipo Z e T e “Ferrofinestra”, sviluppati nella prima metà del Novecento. 02 - Confronto tra profilati del tipo Ferrofinestra e profilati sagomati a freddo con taglio termico. 03 - Evoluzione dei profilati in acciaio, dagli anni ‘60 a oggi. A - Profiltubo 1969 B - Profiltubo 1979 C - Seccolor 1980 D - Sistema acciaio 1996 E - EBE 65 (a taglio termico) 2010 04 - Passaggio del nastro di acciaio tra due rulli posti nella parte iniziale del processo di profilatura. 05 - Sequenza dei passaggi di deformazione da un nastro in acciaio (in alto) a profilato (in basso). 06 - Schematizzazione con il modello “a fiore” della piegatura del nastro di acciaio attraverso la sovrapposizione di tutti i passaggi. 07 - Barra sagomata al termine della profilatura, all’uscita della macchina raddrizzatrice. BIBLIOGRAFIA - Lorenzo Matteoli, Manuale tecnico del serramento in acciaio, Edizioni Canova, Treviso, 1968. - Industrie Secco, Catalogo profilati e accessori per infissi metallici, tipografia editrice trevigiana, 1969. Industrie Secco, Il sistema Profiltubo, 1978. - Industrie Secco, Il sistema Seccolor, 1979. - Secco Sistemi - catalogo generale, Grafiche Antiga, 2014. - Serconsult, Che cos’è la Profilatura?, www.serconsult.com/home/profilatura.

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Alzi la mano chi è riciclabile! Nel settore delle costruzioni non tutti i materiali si prestano al riuso e al riciclo. I metalli dove stanno?

Chiara Trojetto è architetto; lavora presso l’Università Iuav di Venezia come assegnista di ricerca ed è appassionata di grafica e design di prodotto. e-mail: chiaratrojetto@iuav.it

In a world where the number of materials is constantly increasing, producing undeniable benefits and innovation on one side, but obstructing the recycling operations on the other side, it’s fundamental to consider the choice of materials with a critical eye at the moment in which something is designed. Metals and, in particular, steel offer several advantages: thanks to the electric furnace production method, the recycling rate covers almost the totality of construction steel. This material has a circular life cycle and can be reused several times before being recycled. This gives good chances to the construction sector to extend the life cycle of buildings.

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di Chiara Trojetto

hi non conosce un collezionista? Personalmente ho un cugino che in gioventù si dilettava a raccogliere francobolli e posso vantare una zia che possiede decine di rane: non rane vive o imbalsamate, ma rane di ceramica, di pietra, di metallo, di plastica, di legno, di carta; l’elenco potrebbe essere lungo. Esistono anche collezionisti molto seri, che per amore della scienza hanno girato il mondo in cerca delle declinazioni più rare dell’oggetto dei loro studi, come anche autorevolissimi detentori di primati per il possesso della quantità più elevata di qualche cosa. Al giorno d’oggi un collezionista seriamente intenzionato a sbaragliare la concorrenza dovrebbe occuparsi di materiali. Il loro numero è infatti sempre più elevato e l’industria è alla continua ricerca di nuove formulazioni per creare dei materiali innovativi da utilizzare nei campi più disparati. Se da un lato questo tipo di progresso consente la risoluzione di problemi notevoli ed eterogenei, dall’altro può causare delle difficoltà qualora sia auspicabile o necessario allungare la vita utile dell’oggetto: l’utilizzo di molti materiali differenti in un unico prodotto e la loro combinazione con tecnologie che non ne consentono la separazione ostacola o rende addirittura impossibile il disassemblaggio delle parti e il loro riuso o riciclo. La figura 1 è un lavoro di Todd Mclellan, fotografo canadese che realizza delle immagini molto curiose scomponendo fi no all’ultima rondella degli oggetti di uso comune, in questo caso un monitor. Volendo fare un paragone con il problema del riciclo dei materiali, il lavoro dell’artista non sarebbe altrettanto possibile se le parti che compongono gli oggetti da lui fotografati fossero tenute insieme in modo irreversibile. La tabella che segue (fig. 2) mostra invece in modo dettagliato i materiali che compongono una sedia per ufficio: è possibile notare la combinazione di materiali diversi nonostante si tratti di un oggetto


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un enorme vantaggio è la sua riciclabilità vicina al 100% (contro il 20% del cemento e il 13% del legno) che, insieme al suo non essere soggetto a downcycling, l’eventuale perdita di valore dei materiali in seguito al riciclo, ne fa il materiale più riciclato al mondo

piuttosto semplice e di dimensioni contenute. Un ulteriore livello di analisi della questione va fatto considerando non più i metodi per tenere insieme pezzi diversi, quanto i materiali stessi: alcuni sono infatti più adatti ad entrare in un ciclo di vita che preveda il riuso o il riciclo grazie alle loro proprietà chimico-fisiche e tecnologiche. Da questo punto di vista la complessità e la proliferazione dei materiali costituisce un problema: esistono metodi e strumenti per creare formulazioni complesse e nuovi materiali, ma è troppo difficile, anche per gli stessi produttori, identificarli e separarli, mantenerne la qualità e assicurarne la purezza in caso di riciclo. Questo accade in modo particolare con le materie plastiche, caratterizzate da un numero in costante incremento nel corso degli ultimi decenni, grazie alla creazione di nuovi polimeri da nuovi monomeri, ma soprattutto di nuovi polimeri da combinazioni di vecchi monomeri o polimeri (fig. 3), nonché da proprietà molto omogenee: nella maggioranza dei casi essi si differenziano solo a livello molecolare. Altri materiali sono al contrario molto adatti ad essere riconosciuti e quindi smistati. I metalli rientrano in questa categoria grazie a caratteristiche fisiche ben distinte quali la densità, le proprietà magnetiche, il punto di fusione, la conduttività elettrica, che rendono più agevole la loro separazione nei processi industriali di rivalorizzazione (fig. 4). Focalizzando l’attenzione sul settore delle costruzioni, il metallo

30 OFFICINA*

più utilizzato è l’acciaio. I processi industriali che, al giorno d’oggi, portano alla produzione di semilavorati in acciaio, sono principalmente due. Il primo è detto ciclo integrale: partendo da materie prime come carbon fossile e minerale di ferro, porta alla produzione di ghisa e in seguito, mediante un processo di affi nazione, di acciaio. Il secondo è il forno elettrico, che utilizza invece come materia prima rottami di acciaio ed è caratterizzato da impianti di minore complessità in quanto non comprende i macchinari per la produzione della ghisa e la sua trasformazione in acciaio. I vantaggi di questo sistema rispetto alla produzione in altoforno (ciclo integrale), che ne hanno consentito l’affermazione, sono: • la minore complessità del ciclo produttivo; • la rapida messa in marcia; • la maggiore possibilità di controllare i processi di trasformazione chimica; • l’indipendenza dell’impianto da porti o da infrastrutture quali porti, reti ferroviarie; • l’accresciuta disponibilità di rottame d’acciaio in seguito allo sviluppo industriale degli ultimi decenni. Il riciclo dei materiali ferrosi avviene grazie al recupero degli scarti nelle acciaierie, dei cascami di lavorazioni e al recupero di prodotti metallici usati quali mezzi di trasporto, elettrodomestici, macchine di vario tipo e strutture metalliche. Nonostante l’acciaio debba essere prodotto una prima volta a ciclo integrale utilizzando le materie prime presenti in natura al fi ne di ottenere le condizioni fisiche e chimiche che lo rendono tale, un


Numero della parte

Descrizione della parte

Parti per Materiale prodotto generico

Materiale specifico

Colore, finitura

Peso della parte (kg)

Peso totale % rispetto al delle parti peso totale della sedia (22,7 kg)

380 cast aluminium

nessuna

3,6

3,6

16 2,5

1

Base della sedia

1

Alluminio

2

Rotella

5

Vari

2.1

Cardine

5

Acciaio

1010 steel

placcato zinco

0,1

0,5

2.2

Asse

5

Acciaio

1215 steel

nessuna

0,04

0,2

1

2.3

Ruota

10

Nylon

Acme nylon 123

colore nero

0,03

0,3

1,5

Cilindro pneumatico

1

Vari

3.1

3

Tubo esterno

1

Acciaio

1008 steel

colore nero

1,6

1,6

7

3.2

Tubo interno

1

Acciaio

1010 steel

nessuna

0,7

0,7

3

3.3

Rondella

2

Acciaio

1215 steel

nessuna

0,2

0,4

2

3.4

Pezzi vari

2

Alluminio

6262 aluminium

nessuna

0,1

0,2

0,8

3.5

Guarnizione

2

Gomma

Kraton

nessuna

0,02

0,04

0,2

3.6

Tappo chiusura

1

Resina acetalica

Delrin

nessuna

0,07

0,07

0,3

3.7

Lubrificante

1

Lubrificante

Mobil super grease

nessuna

0,00

0,00

0,00

02

LPDE – Low-density polyethylene

PS – polystyrene

HDPE – High-density polyethylene

PET – polyethylene terephthalate

Titanio

Polimeri

PP – polypropylene

1

Magnesio

3 2

¼

4

¼

5

¼

6

Alluminio

7

PVC – Polyvinyl chloride

Acciaio

Piombo

¼

Rame

Manganese

8

Ottone 60/40

9

¼ ¼ ¼ ¼

10

Argento

11

¼

12

Metalli

Nylon

t

Densità 1000 kg/m³

0

03

l’80% dell’impatto ambientale esercitato dai prodotti, dai servizi e dalle infrastrutture attorno a noi viene determinato allo stadio progettuale

enorme vantaggio è la sua riciclabilità vicina al 100% (contro il 20% del cemento e il 13% del legno1) che, insieme al suo non essere soggetto a downcycling, l’eventuale perdita di valore dei materiali in seguito al riciclo, ne fa il materiale più riciclato al mondo2 . In Europa oltre il 45% della produzione siderurgica si basa sul recupero e sul riciclo dell’acciaio e l’Italia è al primo posto in UE per la produzione di acciaio con forno elettrico che, come detto, utilizza come materia prima i rottami 2 . In particolare il recupero dell’acciaio nel settore edilizio è molto sviluppato ed efficiente: nel Regno Unito il tasso di recupero post demolizione è del 99% per l’acciaio strutturale e del 96% per i prodotti per l’edilizia in acciaio, numeri molto lontani da qualsiasi altro materiale da costruzione3. L’acciaio è dunque un materiale che consente di unire in un sistema costruttivo molteplici vantaggi solitamente appartenenti a metodi eterogenei. In particolare esistono alcuni sistemi, come l’acciaio sagomato a freddo (cold formed steel o steel frame) che uniscono i vantag-

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Nuovi polimeri da nuove combinazione di vecchi monomeri o polimeri PPS POM PAR PTFE EPM EPDM iso-PP

Numero nuovi prodotti 15 PEO PUR PIB PET PA SBR

10

HDPE ABS PAN Epoxy PBT Silicones

PC/ABC PC/PBT PET/EPDM PP/EPDM

LDPE PMM A BR PS PVC

SAN/NBR PS/BR PVC/NBR

5 UF PF

Nuovi polimeri da nuovi monomeri

COC VLLDPE synd. PS synd. PP PBT/LCP PC/ASA PP/PA

PVC/ABS PVC/EVA PS/PPO GFK

PVC/CPE PA/PPO/PS PA/HDPE SMA/ABS POM/PUR PBT/EPDM PP/EPDM /HDPE

PEEK PEI PES PC PI PPE LCP

0 1900

1920

1940

1960

1980

2000

04

gi dati dalla costruzione con tecnologia a secco, come ad esempio la rapidità, la precisione e la reversibilità, alla scelta del materiale, riutilizzabile e riciclabile.

Reperimento delle materie prime

“L’80% dell’impatto ambientale esercitato dai prodotti, dai servizi e dalle infrastrutture attorno a noi viene determinato allo stadio progettuale. Le decisioni prese in questa fase danno forma a processi che determinano la qualità dei prodotti che utilizziamo, i materiali e le energie necessarie per la produzione, le modalità del loro utilizzo quotidiano, la loro destinazione al momento in cui non ne avremo più bisogno.”4 La scelta dei materiali e della tecnologia costruttiva per realizzare un edificio o un qualsiasi prodotto è dunque una fase cruciale per preparare il terreno ad un ciclo di vita il più possibile esteso e, meglio ancora, circolare.

Produzione di acciaio grezzo

Trasformazione e lavorazione

Riciclo Riuso

Riuso

Riuso

Manifattura dei prodotti

Riuso

Riuso

Recupero Utilizzo da parte degli utenti

Dismissione

05

32 OFFICINA*


NOTE 1 - BCSA - The British Constructional Steelwork Association Ltd. e Tatasteel, The whole story: from Cradle to Grave, (www. steelconstruction.org, www.tatasteelconstruction.com). 2 - Federacciai, Rapporto ambientale 2011, L’acciaio è sostenibilità. 3 - www.steelconstruction.info 4 - J. Thackara, In the bubble. Design per un futuro sostenibile, Allemandi, Torino 2008 (edizione originale: In the bubble, Designing in a Complex World, MIT Press, Cambridge 2005). IMMAGINI 01 - L’immagine è la copertina di Things come apart di Todd Mclellan, edito da Thames and Hudson nel 2013. www.thamesandhudsonusa.com 02 - Rielaborazione dati contenuti nel documento Cradle to cradle certifiedCM, Product standard, Version 3.0 – Material Health Assessment Methodology pubblicato nel 2013 da Cradle to Cradle Products Innovation Institute, www.c2ccertified.org. 03 - Nuovi polimeri continuano ad essere formulati, per lo più grazie alla combinazione di monomeri esistenti. Fonte: rielaborazione dati contenuti nel documento Towards the circular economy. Accelerating the scale-up across global supply chains pubblicato nel 2014 da Ellen MacArthur Foundation. www.ellenmacarthurfoundation.org 04 - Al contrario dei polimeri, i metalli possono essere agevolmente distinti secondo la densità e altre proprietà fisiche. Fonte: rielaborazione dati contenuti nel documento Towards the circular economy. Accelerating the scale-up across global supply chains pubblicato nel 2014 da Ellen MacArthur Foundation. www.ellenmacarthurfoundation.org 05 - L’acciaio è un materiale che ben si presta ad essere inserito in un ciclo di vita non più lineare come la maggioranza degli altri materiali da costruzione, ma circolare. 06 - ©Steven Taschuk.

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HEAVY METAL

Artigiano e artista: un incontro d’oro Il ruolo di Marco Filippini come editore di gioielli d’artista a Verona

di Alessia Bruno Alessia Bruno è laureata in storia del’arte, entra ed esce da musei e cinema, ma se passa da una gioielleria si ferma e ci scappa una tesi. e-mail: alessia.labruno@gmail.com

“…Marco Filippini is a Lilliputian Peter Pan who fervently pursues a dream that i sas great as it is discrete, namely to create a refined version, a new golden section, of a miniaturized museum of the protagonists of contemporary art, a pocket-size museum.” Pierre Restany Paris, 19 octobre 2000

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Marco Filippini è un lillipuziano Peter Pan che vive col più grande fervore un sogno tanto grande quanto discreto, quello di costituire la raffi nata versione, una novella sezione aurea, di un museo miniaturizzato dei protagonisti dell’arte contemporanea, un museo tascabile…”. Con queste parole il critico del Nouveau Realisme Pierre Restany descrive la figura dell’imprenditore veronese Marco Filippini che con la sua azienda orafa ha saputo unire il mondo dell’alto artigianato a quello dell’arte contemporanea. Facendo un passo indietro, prima di soffermarsi sulla figura di Filippini, è bene riflettere sui diversi approcci di studio che si possono avere quando si parla di arte orafa. Generalmente la storiografia colloca l’oreficeria insieme alle cosiddette “arti minori”, etichetta che risulta ormai decisamente obsoleta, specie quando a occuparsi di produzione in metallo prezioso sono artisti-simbolo del panorama culturale del Novecento, da Picasso a Dalì, Fontana e Man Ray, solo per citarne alcuni: per avere un’idea basta visitare la Galerie des bijoux presso il museo de Les Arts Décoratifs di Parigi e ci si rende subito conto di come tutti i grandi nomi dell’arte (a partire dalla fi ne dell’Ottocento) si siano confrontati, con esiti differenti e per periodi più o meno lunghi, con la tematica del gioiello. Protagonisti molto diversi appartenenti a correnti artistiche lontane tra loro, per cronologia e contenuti, hanno subito allo stesso modo il fascino del gioiello inteso come oggetto che racchiude contemporaneamente diversi livelli di lettura: al valore intrinseco dato dalla preziosità del materiale, sia esso metallo o pietre, si aggiunge quello decorativo come monile per il corpo e, in alcuni casi, quello apotropaico come amuleto (partendo dagli scarabei egizi arrivando all’uso del corallo-cornetto come portafortuna). Molto spesso inoltre al gioiello è legata la sfera emotiva, connessa con l’occasione per cui se ne fa dono e non è un caso che molti artisti abbiano iniziato con l’intento di farne regalo a una donna, uno su tutti Picasso con i suoi primi gioielli per Dora Maar.


01

gioielli di forte impatto visivo mantenevano una pratica portabilità grazie alla leggerezza, come un tessuto appunto, dell’oro

Un punto che molto spesso si tende a dimenticare è che questi gioielli sono realizzati nella stragrande maggioranza da artigiani orafi, ovvero da coloro che conoscono e praticano tecniche di lavorazione, dalla fusione alla martellatura, per lo più sconosciute agli artisti, che quindi si limitano a fornire un bozzetto o un primo modello in cera da cui partire per la realizzazione dell’oggetto. In questa relazione tra artigiano e artista si può inserire la figura dell’editore, figura che molto spesso resta nell’ombra, ma che può rivelarsi essenziale per fare da tramite all’artista che voglia avvicinarsi ai metalli preziosi; con il termine editore, riferito alla produzione di gioielli, si possono indicare diverse figure: non necessariamente si tratta sempre di orafi specializzati, tuttavia si fanno interpreti delle esigenze degli artisti, sapendo coniugare le loro conoscenze, tecniche e non, con la sfera creativa di ciascun artista, proponendo soluzioni formali a progetti che spesso non tengono conto della portabilità ultima del gioiello. Alcuni esempi italiani sono stati i Fratelli Fumanti a Roma che, sulla scia del gioielliere

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in questa relazione tra artigiano e artista si può inserire la figura dell’editore, figura che molto spesso resta nell’ombra, ma che può rivelarsi essenziale per fare da tramite all’artista che voglia avvicinarsi ai metalli preziosi

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Mario Masenza, il quale invitava artisti figurativi a disegnare delle vere e proprie collezioni, contribuirono a enfatizzare l’approccio artistico al gioiello, anche inteso come multiplo prezioso da numerare e riprodurre in serie limitata, tanto da inaugurare la prima importante mostra al riguardo nel 1972: “Aurea: mostra e mercato dell’arte orafa”. Un altro noto esempio nostrano è quello legato all’esperienza di Giancarlo Montebello che opera a Milano sempre negli stessi anni dei Fumanti: Montebello insieme alla moglie Teresa Pomodoro provò a organizzare una produzione semi-industriale di gioielli d’artista, i cui primi interlocutori furono i cognati Arnoldo e Giò Pomodoro, ma ben presto allargò la sua cerchia a Man Ray, Arman e César. Quando si guarda a questi progetti artistici non bisogna mai scordare che sempre presente è anche il carattere economico di tale operazione, cioè quello di promuovere un mercato d’arte alternativo, in cui il gioiello diventa a tutti gli effetti una sorta di piccola scultura, nella quale sono comunque riconoscibili gli stilemi dell’artista rintracciabili in opere di più ampio respiro; come sottolinea Pierre Restany nella citazione iniziale, si tratta di una sorta di museo tascabile e in alcuni casi più accessibile ai collezionisti. In questo contesto si inserisce l’attività di Marco Filippini, conclusasi dopo la prematura scomparsa nel 2012, a causa della quale non è stato semplice indagare tale realtà produttiva nel mezzo di contese legali dovute alla successione e molto spesso sono mancati gli interlocutori diretti per avere un riscontro completo. Ad

ogni modo, si è rivelato essenziale procedere in senso cronologico seguendo i documenti della Camera di Commercio di Verona così da ricostruire la storia dell’azienda che risale, sotto forma di bottega, al 1938 per poi arrivare al boom tra il 1966 e il 1969 in cui la neo-azienda registra con cento dipendenti il numero più alto di impiegati. In quegli anni i fratelli Filippini, titolari dell’attività, si erano specializzati in una lavorazione particolare dell’oro: avevano applicato una tecnica tessile alla fusione del metallo dando il via a collezioni dal nome “Calza” e “Maglia” in cui gioielli di forte impatto visivo mantenevano una pratica portabilità grazie alla leggerezza, come un tessuto appunto, dell’oro. Forte degli introiti dovuti al successo di questa lavorazione, Marco Filippini, una volta prese le redini dell’azienda nel 1982, si lancia nella sperimentazione dei gioielli d’artista grazie alla compagna del tempo Gemma Perlini, e poi con la moglie Marina Ruggieri, dando il via alla linea “Gemma Gioielli”, interamente dedicata alla collaborazione con personaggi quali Arman, Spoerri, Melotti, Folon, Mimmo Rotella, Pol Bury e Yoko Ono, tra i più noti. L’approccio che Filippini aveva con gli artisti era del tutto particolare, il più delle volte si trattava di amicizie di vecchia data, altre nascevano all’interno della fabbrica situata nella zona industriale di Verona, in cui Filippini accoglieva gli artisti come un vero mecenate e si metteva al lavoro con loro, coinvolgendo il suo team di artigiani, cercando di soddisfarne le richieste e proponendo soluzioni adatte alla realizzazione. La collaborazione più lunga e fruttuosa fu sicuramente quella con Arman,

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protagonisti molto diversi appartenenti a correnti artistiche lontane tra loro, per cronologia e contenuti, hanno subito allo stesso modo il fascino del gioiello inteso come oggetto che racchiude contemporaneamente diversi livelli di lettura

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nata da un primo braccialetto disegnato per la moglie, con il quale produsse diverse collezioni che ebbero anche un buon successo di pubblico, una su tutte la serie dedicata agli strumenti musicali tanto cara all’artista francese. I pezzi usciti dalla fabbrica Filippini hanno trovato collocazione in alcune tra le più importanti mostre internazionali dedicate ai gioielli d’artista, come quella tenutasi a New York nel 2011 presso il Museum of Arts and Design curata da Diane Venet dal titolo From Picasso to Jeff Koons- the artist as jeweler: anche in questo caso viene messo in risalto l’artista come gioielliere, non evidenziando che molto spesso dietro tali artisti si sono adoperati veri artigiani ed editori, come Filippini, per promuoverne la produzione orafa. Questo tipo di esperienze, forse perché difficilmente incanalabili e riconducibili a un’unica defi nizione, sono rimaste strettamente legate al promotore di turno, motivo per cui si sono purtroppo concluse una volta venuto a mancare colui che ne incarnava lo spirito appassionato a creativo. Il tema del gioiello in tutte le sue sfaccettature resta tuttavia ancora oggi motivo di forte interesse, non a caso lo scorso dicembre si è inaugurato a Vicenza il Museo del Gioiello ospitato all’interno della Basilica Palladiana e, tra le varie sezioni, non poteva mancare quella dedicata all’arte e agli artisti che subirono il fascino perenne dell’oro.


IMMAGINI 01 - “Bracciale con strumenti” Arman, 1990-1991. Archivio Filippini. 02 - “Ruote” Fausto Melotti, 1998 . Archivio Filippini. 03 - “Mistero” Mimmo Rotella, 1998. Archivio Filippini. 04 - “Bracciale” Pol Bury, 2001. Archivio Filippini. 05 - “La luce dell’anima” Fabrizio Plessi, 2007. Archivio Filippini. SITOGRAFIA - Azienda Filippini, Verona. www.gemmagioielli.com - Il Museo del Gioiello, Basilica Palladiana, Piazza Vicenza. www.museodelgioiello.it

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PORTFOLIO

Invasione digitale Marghera Passeggiata notturna tra gli elefanti di Marghera

Jacopo Ibello e-mail: jacopo.ibello@gmail.com Maria Concetta Perfetto e-mail: mariaconcetta.perfetto@hotmail.com Gabriele Al Jarrah Al Kahal e-mail: kahalgabriele@hotmail.com Approfondimenti sugli autori in coda all’articolo.

Last May a group of photographers, explorers, architects and industrial heritage enthusiasts met in Porto Marghera, Venice’s large industrial and harbour area, to set up the most exotic of the Italian Digital Invasions. Aim of the event was to discover an often forgotten part of Venice, geographically separated but, historically and economically, deeply connected with the Lagoon city and not only: Marghera is a tangible sign of the Italian rise toward its industrialization and post-industrial present, with all the contradictions this not-much-controlled process has implied. The association Save Industrial Heritage organised this event not only to enhance the historical importance of Marghera, but also to let the people feel the power and the beauty of the industrial landscape with all its noises, lights, giant structures and scary brownfields. Sensations that few other places in the world can offer.

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di Jacopo Ibello e Maria Concetta Perfetto Foto di Gabriele Al Jarrah Al Kahal

a anni ormai le aree industriali sono vissute come un corpo estraneo rispetto al resto del tessuto urbano. Vale per le aree produttive ancora in attività, espulse dai centri abitati per motivi diversi (logistici, ambientali, ecc.), ma anche per quelle dismesse che si trovano fisicamente ancora all’interno dei centri abitati. Aree di degrado e violenza, simboli di un lontano boom economico di cui i ricordi si fanno sempre più sfumati. Marghera rappresenta entrambi i casi: all’interno della vasta zona industriale si alternano fabbriche attive e altre ormai spente, in un paesaggio fatto di ciminiere, scheletri, gru, torri, silos, canali. Ciò che viene percepito come estraneo a tutto quello che rappresenta Venezia è in realtà parte integrante della sua storia. Marghera fu, dopo la I Guerra Mondiale, il salto defi nitivo per la città lagunare nell’era industriale, rappresentando la rinascita economica di una città che era rimasta addormentata per secoli, passata la gloria della Serenissima. Oggi, in un contesto di crisi per il sistema industriale tradizionale, Porto Marghera rappresenta ancora un’opportunità per l’economia veneziana. Le grandi aree dismesse possono diventare luogo di sperimentazione urbanistica, la valorizzazione di attività industriali avanzate motore di nuovo lavoro. Per questo Save Industrial Heritage ha scelto come evento inaugurale delle sue attività l’Invasione Digitale a Marghera (3 maggio 2014): mostrare come l’industria, anche se non la vogliamo vedere, faccia ancora parte della nostra società, della nostra economia e della nostra cultura. La scelta di farlo in un orario particolare, la sera, è dovuta al fatto di voler mostrare che l’industria rappresenta anche un paesaggio che sa essere spettacolare e, perché no, foriero di un nuovo modello di bellezza. Un contrasto ancora più intrigante trovandosi Marghera di fronte a quella che da molti viene defi nita come la città più bella del mondo.


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01- La centrale termoelettrica “Giuseppe Volpi”, oggi in fase di smantellamento, era al momento della sua apertura (1922) la più potente del suo genere in Italia. Ciononostante nacque come impianto ausiliario per i periodi di scarse precipitazioni, essendo le dighe alpine della SADE la principale fonte di elettricità per gli stabilimenti di Porto Marghera. Il declino della Volpi cominciò con la costruzione della grande centrale “Andrea Palladio” nel 1964. 02 - Ponte strallato, progettato dallo Studio Novarin e inaugurato nel 2005. È stato costruito per collegare Marghera direttamente con il terminal container, liberando dal traffico le banchine intorno ai canali. La sua particolarità sta nell’inclinazione di 19 gradi della pila che sostiene l’impalcato attraverso gli strali.

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02

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03

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04

03 - Le imponenti gru Reggiane della Fincantieri. I cantieri navali sono l’insediamento industriale attivo più antico di Marghera, aperti dalla Breda nel 1917. Lo stabilimento rimase votato alla produzione bellica fin oltre la Seconda Guerra Mondiale; negli anni ’70 vennero intrapresi profondi lavori di riqualificazione del cantiere per il passaggio della produzione dalle navi da guerra a quelle da crociera, settore in cui ancora oggi è tra i leader mondiali. Dal 1984 fa parte di Fincantieri. 04 - Gli invasori davanti al petrolchimico. La chimica, settore una volta trainante dell’industria locale, sta cercando di uscire dalla crisi attraverso una riconversione verso settori ad alta tecnologia e a basso impatto ambientale.

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SAVE INDUSTRIAL HERITAGE

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In principio Save Industrial Heritage nasce nel 2011 come un gruppo virtuale, diventando col tempo il punto di riferimento su social network e canali informatici per le persone interessate al patrimonio industriale provenienti da tutto il mondo. Oggi, SIH è un’associazione multidisciplinare – così come lo è l’archeologia industriale – composta da nove soci tra appassionati e professionisti, i quali intendono mettere insieme il loro background e le loro esperienze per migliorare la cultura industriale a livello locale, nazionale e internazionale. Infatti il punto di forza di tale associazione sta proprio nel fatto che i suoi fondatori siano figure provenienti da diversi ambiti formativi e professionali che si propongono di valorizzare l’Industrial Heritage attraverso le seguenti azioni: • Studio della storia industriale attraverso l’analisi storica di fonti bibliografiche, archivistiche e orali; • Creazione di un archivio digitale di fonti orali relativo alla cultura industriale; • Organizzazione a livello locale, nazionale e internazionale di incontri, convegni, mostre ed eventi sul tema della cultura industriale; • Favorire lo sviluppo del turismo industriale attraverso la creazione di itinerari e pacchetti turistici in collaborazione con istituzioni locali e operatori turistici pubblici e privati, nonché l’organizzazione da parte dell’associazione stessa di itinerari ed escursioni alla scoperta dei luoghi testimoni dell’industrializzazione; • Collaborazione con istituti scolastici sulle tematiche dell’archeologia, del patrimonio e della cultura industriale; • Collaborazione con associazioni, istituzioni, organizzazioni ed enti locali per promuovere l’inserimento della cultura industriale nel dibattito culturale complessivo; • Collaborazione con le imprese del territorio per organizzare visite guidate all’interno delle fabbriche ancora attive; • Sensibilizzazione dell’opinione pubblica sulle tematiche del recupero e del riuso delle aree dismesse; • Favorire la conservazione degli edifici e dei complessi industriali di grande valore storico e architettonico; • Promuovere il patrimonio industriale italiano ed estero attraverso la condivisione di informazioni e specifiche attività di comunicazione; • Offrire attività di consulenza scientifica su progetti media a larga diffusione che abbiano come tema centrale la cultura industriale; • Industrial heritage management.

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GLI AUTORI Jacopo Ibello (1987) nasce a Latina ma risiede a Bologna da circa 20 anni, dove nel 2010 ha conseguito la laurea in “Geografia”. Attraverso la sua tesi in Storia Economica descrive le trasformazione economiche occorse nella regione della Ruhr negli ultimi 20 anni, entrando così in contatto con il mondo dell’Industriekultur. Attratto dai molteplici aspetti che costituiscono questo campo (storia, tecnologia, turismo ma anche paesaggio e fotografia), entra a far parte nel 2011 dell’AIPAI (Associazione Italiana per il Patrimonio Archeologico Industriale) e un anno dopo consegue il Master in “Conservazione, Gestione e Valorizzazione del Patrimonio Industriale” presso l’Università di Padova. Partendo dall’esperienza virtuale del gruppo Facebook “Save Industrial Heritage” (2011), fonda con alcuni appassionati e professionisti l’omonima associazione. Ha lavorato nel 2013/14 presso la Fondazione CDSE di Vaiano (Prato) occupandosi di progetti ed eventi legati alla storia locale della Val Bisenzio. Attualmente collabora con l’associazione “Amici delle Acque/ Bologna Sotterranea” ed è promotore con quest’ultima del Comitato per la salva-

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guardia della Centrale del Battiferro e per il recupero del Mulino di Bentivoglio. Maria Concetta Perfetto (1983) nasce a Termoli (CB). La passione per l’archeologia industriale nasce nel 2005 durante il suo Erasmus a Vienna, più precisamente con la visita al Simmering, un distretto industriale della città. Laureata in “Archeologia, Beni Culturali e Turismo”, ha discusso una tesi in Storia del Patrimonio Industriale, elaborando un’analisi storica e realizzando un ProjectGis per il recupero, la tutela e la valorizzazione del patrimonio del lavoro di Agnone (IS). Nel 2012 consegue il titolo di Master di II livello in “Conservazione, Gestione e Valorizzazione del Patrimonio Industriale” presso l’Università di Padova. Nel frattempo svolge un tirocinio al CDSE della Val di Bisenzio (PO). Dottoranda in “Accountig, Management and Finance” presso il Dipartimento di Economia Aziendale dell’Università degli studi G. D’Annunzio di Chieti-Pescara, sta portando avanti un progetto di ricerca relativo al management dell’industrial heritage. Dal 2013/2014 è vicepresidente dell’asso-

06 ciazione “Save Industrial Heritage” ed è impegnata in progetti nazionali ed europei per il censimento, la catalogazione ed il recupero del patrimonio industriale. Gabriele Al Jarrah Al Kahal (1986) nasce a Vittorio Veneto (TV), si laurea in “Informatica” presso l’Università Ca’ Foscari e attualmente è sviluppatore software. I genitori lo ricordano ancora piccolo quando gli affidavano una Pentax a rullino per scattare foto ricordo delle vacanze, notando stupiti che le immagini dimostravano un occhio attento alla composizione fotografica. Passano gli anni e le gite scolastiche continuano a dare i loro piccoli frutti, finchè Gabriele ha la fortuna di avere tra le mani uno strumento capace di lasciare la libertà di fotografare senza i limiti del “preimpostato”. Da allora è alla ricerca di ritrarre ciò che le persone spesso hanno davanti agli occhi, ma che la frenesia della civiltà lascia passare inosservato. Predilige la fotografia paesaggistica e l’archeologia industriale del XX secolo riguardo la quale ha realizzato il suo primo progetto fotografico dal nome “Desolate geometrie”.


05 - L’industria petrolchimica arrivò a Marghera nel 1950 su iniziativa congiunta della Edison e della Monsanto, che realizzarono un impianto per produrre, tra gli altri, fertilizzanti e materie plastiche. A tutt’oggi, nonostante dismissioni e ridimensionamenti, a Porto Marghera si produce gran parte della plastica italiana. Lo stabilimento, per la sua storia, rappresenta in modo tangibile il progresso italiano del boom economico e il prezzo che questo è costato in termini di salute e impatto ambientale. 06 - Banchina dei Mulini. Lo stabilimento dei Grandi Molini Italiani di Marghera risale al 1926, quando venne aperto dalla ditta Chiari e Forti. Nonostante il mulino abbia subito un profondo rinnovamento alla fine degli anni ’90, conserva ancora le strutture originali dalla tipica architettura industriale di inizio Novecento, che si integrano con gli edifici più moderni a formare uno dei maggiori complessi molitori d’Europa. 07 - La torre di raffreddamento della Vetrocoke Azotati in attesa di una nuova vita. Il progetto prevede un ristorante panoramico sulla cima della struttura. È una delle poche tracce rimaste di un complesso industriale voluto dal senatore Giovanni Agnelli nel 1924. Una grande cokeria trasformava il carbon fossile in coke destinato all’utilizzo nella metallurgia e nelle centrali elettriche, mentre i gas liberati da questo processo servivano a realizzare prodotti chimici e vetro.

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Rendere nobile il cartone La missione di Ti-Vu Plast da oltre 45 anni

Emilio Antoniol, architetto, dottorando presso l’Università Iuav di Venezia e-mail:antoniolemilio@gmail.com

Ti-Vu Plast produces paper honeycomb structure since 45 years. Focusing on a constant innovation, the company has recently released a new line of products, Nidoboard, that is an honeycomb panel enclosed between two fine covers, available in nine color combinations. The panels are easily cut and printable on both sides, so they are suitable for the realization of displays, totems or fitting equipments. Nidoboard also includes a series of fireproof panels, suitable for applications where a high attention to the fire risk is needed. The latest product offered by Ti-Vu Plast is Nidopack, an original, eco-friendly and versatile packaging obtained by milling and shaping a cardboard honeycomb panel.

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arta e cartone non sono propriamente materiali che, nel l’i m mag i na r io collettivo, vengano associati all’architettura a causa delle loro caratteristiche tecniche che li fanno apparire come fragili e poco durevoli. In realtà prodotti a base di carta sono presenti in edilizia da molti decenni, generalmente accoppiati con altri materiali, basti pensare al cartongesso o ai sistemi alveolari che formano l’interno di porte o pannelli. Recentemente tuttavia, anche grazie alla spinta verso l’uso di materiali naturali imposta dalla crescente cultura della sostenibilità, la carta e il cartone hanno iniziato a trovare nuovi spazi e applicazioni nell’industria delle costruzioni. Da un lato sono stati sviluppati nuovi prodotti come gli isolanti termo-acustici in fibra di cellulosa o il papercrete, una miscela di carta e cemento, entrambi ottenuti dal riciclo della carta, fi no a giungere poi alla realizzazione di vere e proprie costruzioni di cartone in cui la struttura portante è costituita da tubi in carta di elevato spessore1. Dall’altro lato, anche prodotti più tradizionali, come i pannelli sandwich o i tamburati alveolari, sono stati oggetto di un’intensa attività di innovazione atta a renderli idonei alle nuove esigenze imposte dal mercato dell’architettura e del design.

di Emilio Antoniol Trasformare una materia prima povera come il cartone in un prodotto elegante e versatile è da anni la missione di Ti-Vu Plast S.r.l., azienda trevigiana nata nel 1967 ad opera del Cav. Danilo Vanzo ora affiancato dai figli Simone e Robert, che produce nido d’ape in cartone da oltre 45 anni. La Ti-Vu Plast, da sempre all’avanguardia nel settore cartario, si caratterizza per un’organizzazione aziendale che fa della “cultura del processo” un meccanismo consolidato dove il management organizzativo e il personale sono protagonisti in prima persona di processi produttivi orientati al soddisfacimento del cliente. L’azienda fa infatti del problem solving uno dei suoi punti di forza, dando risposta a specifiche esigenze o problematiche progettuali, offrendo un know how tecnico derivato dall’esperienza e dalle numerose collaborazioni con prestigiosi marchi di design nazionali e internazionali. Forte di questa organizzazione, l’azienda punta costantemente sull’innovazione tecnologica con l’intento di fornire ai clienti un elevato standard qualitativo del prodotto fi nale, pur mantenendo i costi di produzione a livelli competitivi, ma soprattutto proponendo nuovi materiali, nuovi prodotti e nuove fi niture. Partendo dalla produzione di nido d’ape in cartone per pannelli tamburati, già agli inizi degli anni ’90 la Ti-Vu Plast ha dato risposta a svariate richieste applicative con Nidopan, un pannello in cartone alveolare


Nidoboard è stampabile su entrambi i lati e si adatta perfettamente alla realizzazione di display, totem ed espositori per allestimenti di vetrine ma anche per stand per fiere ed eventi temporanei

di spessore variabile dai 10 ai 110 mm usato primariamente come materiale da imballaggio generico e caratterizzato dall’elevata versatilità e dalla totale eco-compatibilità. Negli ultimi anni, grazie alle innovative tecniche di stampa fl at-bed e di taglio in piano, la Ti-Vu Plast ha creato una nuova gamma di pannelli denominati Nidoboad di spessore variabile dai 10 ai 50 mm. Questi sono derivati da Nidopan, presentando sempre una struttura interna in cartoncino a nido d’ape, ma sono rivestiti con copertine pregiate di elevata grammatura in kraftliner avana o in cartone che può essere bianco, nero o colorato. Le anime alveolari interne possono presentare diverse conformazioni con due larghezze della maglia: la T10, con alveoli da 10 mm, dà origine ad un prodotto leggero ed economico mentre la T8, con alveoli da 8 mm, conferisce maggiore rigidità e resistenza al pannello, permettendo inoltre lavorazioni di taglio più precise. Le peculiarità di questo nuovo prodotto hanno consentito all’azienda di entrare in nuovi mercati legati all’architettura quali la comunicazione visiva, il design e la produzione di arredamenti ecosostenibili proponendo pannelli robusti, leggeri e che possono essere facilmente tagliati e sagomati in forme e geometrie personalizzabili. Inoltre, Nidoboard è stampabile su entrambi i lati e si adatta quindi perfettamente alla realizzazione di display, totem ed espositori per alle-

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stimenti di vetrine ma anche per stand per fiere ed eventi temporanei. A partire dal 2012 l’azienda ha poi introdotto sul mercato una versione del pannello Nidoboard con interno alveolare bianco e, nel 2013, la gamma prodotti è stata completata anche con l’alveolare nero, portando così ad un totale di nove il numero delle possibili combinazioni cromatiche di base messe a disposizione del cliente. Questi nuovi pannelli sono particolarmente apprezzati nei settori della comunicazione visiva e del design per la loro anima bianca o nera; ciò consente di mantenere l’omogeneità cromatica del prodotto fi nito anche a seguito di tagli, pieghe o lavorazioni che portino a vista il nido d’ape interno, conferendo così al materiale un nuovo stile, raffi nato ed elegante, in grado di “rendere nobile il cartone”, slogan che da anni definisce l’obiettivo che l’azienda porta avanti con passione e professionalità. A completamento della gamma Nidoboard e in risposta a nuove esigenze di sicurezza imposte dal mercato, la Ti-Vu Plast ha inoltre recentemente messo in produzione

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un nuovo tipo di panello caratterizzato da proprietà ignifughe e certificato in classe M1 per la reazione al fuoco2 in conformità con gli standard francesi. Questo prodotto è particolarmente indicato per la realizzazione di allestimenti fieristici o di vetrine dove sia necessaria un’elevata attenzione al rischio di incendio. Con Nidoboard, la Ti-Vu Plast ha quindi rivoluzionato il modo di utilizzare il cartone a nido d’ape, proponendo soluzioni originali, innovative ma anche attente alla sostenibilità. Tutta la gamma è infatti certificata FSC3, marchio che garantisce che il prodotto a base di cellulosa sia stato realizzato con materie prime derivanti da foreste correttamente gestite secondo i principi della gestione forestale e della catena di custodia. Si tratta inoltre di un materiale ecocompatibile grazie alla totale riciclabilità dei pannelli. Sul piano delle applicazioni altre caratteristiche peculiari di Nidoboard sono la facilità di taglio e la rigidezza del pannello che rendono il prodotto particolarmente idoneo per la realizzazione di oggetti d’arredo

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tutta la gamma Nidoboard è certificata FSC, marchio che garantisce che il prodotto a base di cellulosa sia stato realizzato con materie prime derivanti da foreste correttamente gestite


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SCHEDA NIDOBOARD Tipologia Pannello in cartone alveolare Fornitura Lastre Dimensioni Standard 305x110 cm Spessore 10-16-20-30-40-50 mm (ulteriori spessori a richiesta) Finitura nido d’ape Colore avana, bianco o nero Finiture copertina Bianco patinato, kraftliner, nero, colorato Stampa Stampabile su ambo i lati Applicazioni Visual, design, arredo Certificazioni FSC 06

anche con sagome complesse e articolate, consentendo inoltre pieghe a 90° e 180°. Le lavorazioni possono essere eseguite sia con plotter da taglio che con tecnologia laser, permettendo inoltre l’incisione a 45°, la fresatura, la cordonatura e la bordatura. Per il taglio piano si possono impiegare sia utensili a lama fissa che oscillante, in funzione dello spessore del prodotto. La prima consente al cliente un taglio preciso e rapido entro spessori contenuti, mentre l’uso di una lama oscillante non ha limiti di spessore ma richiede tempi maggiori per il taglio. Le lavorazioni possibili sono quindi molteplici e adattabili alle esigenze della clientela, permettendo così di trasformare il pannello in modo creativo e originale.

Ed è proprio in questa direzione di mercato che si sta rivolgendo oggi l’azienda con il lancio di un nuovo prodotto, Nidopack, che consiste in un packaging innovativo, ecocompatibile e versatile ottenuto dalla fresatura e sagomatura di pannelli in cartone a nido d’ape di diversi spessori. Con Nidopack si può contenere, trasportare e infi ne esporre il prodotto direttamente nel punto vendita andando al tempo stesso a proteggerlo nelle varie fasi di trasporto. Inoltre, sfruttando la facilità di lavorazione dei pannelli e le infi nite possibilità di personalizzazione con grafiche e testi, Nidopack diventa un ottimo e mirato strumento di comunicazione e marketing in grado di valorizzare il proprio contenuto.

Caratteristiche quali l’eco-compatibilità, la leggerezza, la robustezza, la versatilità e l’eleganza delle fi niture hanno quindi reso questi pannelli delle valide alternative ai tradizionali supporti o sistemi plastici permettendo, grazie all’esperienza di Ti-Vu Plast, di trasformare un materiale semplice come il cartone in un prodotto di alta qualità a disposizione di architetti e designer.

con Nidopack si può contenere, trasportare e infine esporre il prodotto direttamente nel punto vendita

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NOTE 1 - Si veda per approfondire Zonzin Diletta, Architettura di Carta. La paper tube structure di Shigeru Ban, in OFFICINA* 03, novembre-dicembre 2014, pp.54-59. 2 - La reazione al fuoco è definita come il grado di partecipazione di un materiale combustibile al fuoco al quale è stato sottoposto. È una caratteristica intrinseca del materiale che viene convenzionalmente espressa in classi di reazione al fuoco. 3 - Forest Stewardship Council – sito di riferimento www.it.fsc.org IMMAGINI Tutte le immagini sono state gentilmente fornite da Ti-Vu Plast S.r.l. 01 - Nido d’ape in cartone. 02 - Linea di produzione dei pannelli in cartone alveolare. 03/04 - Allestimenti fieristici realizzati con i pannelli Nidoboard. 05 - Esempi di arredo realizzato con i pannelli Nidoboard. 06 - Le nove combinazioni cromatiche disponibili per i pannelli Nidoboard. 07 - Nidopack, contenitore ed espositore per bottiglie di vino. 08 - Magazzino di stoccaggio dei pannelli in cartone alveolare. CONTATTI AZIENDA Ti-Vu Plast S.r.l Via M. Pellicciaio 6, 31100, Treviso www.tivuplast.it e-mail: info@tivuplast.it

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VOGLIO FARE L’ARCHITETTO

Riviviamo la piazza Esperimento di rigenerazione urbana partecipata nella prima periferia di Mantova

di Antonia Araldi Antonia Araldi è coordinatrice del progetto Reazione a Catena e Presidente Arci Fuzzy. e-mail: antonia.araldi@gmail.com

“Riviviamo la piazza” is an urban regeneration event, held in Mantova, Valletta Valsecchi neighbourhood 1-5 october 2014, in a square where most of the shops were closed. For one week, the empty spaces were brought back to life thanks to their temporary reuse as exhibition spaces for young artists, painters, photographers and associations. Collective events were held in the square: self construction workshops, neighbourhood collective dinner under the porch, a fl ea.

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Riviviamo la Piazza” è stato un evento di una settimana di rigenerazione urbana nel quartiere nella prima periferia di Mantova, un progetto del gruppo Reazione a Catena in collaborazione con Arci Fuzzy. L’azione si è concretizzata in una settimana di eventi e attività che hanno coinvolto attivamente sia gli abitanti del quartiere sia i creativi locali, su quella che una volta fu la piazza del quartiere ed ora versa in stato di quasi totale abbandono, per un totale di cinquanta vetrine vuote. Questo è avvenuto attraverso l’uso delle vetrine vuote come spazi espositivi, concesse in comodato d’uso temporaneo, e la rivitalizzazione della piazza tramite workshop, laboratori e attività nel corso di una settimana. Questo spazio è un luogo simbolico per lo stato di salute del quartiere, e la moltitudine di vetrine vuote abbandonate sotto i portici anni Sessanta, provocano in residenti e visitatori un senso di grande depressione e abbandono. Animare la piazza e simularne la vitalità significa dare un messaggio di speranza, mostrare nuove forme di sviluppo e indagare quali potrebbero essere le vocazioni di questo spazio; al tempo stesso questo luogo risulta emblematico per il fenomeno cittadino dello svuotamento delle vetrine commerciali, e l’agire qui, è una palestra di

ricerca di soluzioni nuove per l’uso di queste vetrine a livello comunale. Il progetto ha coinvolto persone di tutte le età, dai bambini agli anziani, e appartenenti a tutte le comunità presenti sul territorio. Tutte queste categorie di persone abitano il quartiere, ma spesso non lo vivono perché non lo riconoscono come spazio di senso e nemmeno bello. Il tentativo (riuscito) è stato quello di riportarle in piazza a confrontarsi, stare insieme, ballare. Si è tentato di coinvolgere attivamente il maggior numero di soggetti, le associazioni, le realtà attive sul quartiere, i commercianti e soggetti e associazioni esterne al quartiere, che fossero interessate a riempire gli spazi in concessione e a partecipare all’esperimento, quindi creativi locali e limitrofi, gruppi associativi attivi e sensibili alla tematica. Inoltre sono state chiamate a partecipare realtà nazionali, a testimoniare progetti virtuosi durante gli incontri o ad animare i momenti ludici. L’iniziativa ha così generato un programma intenso ed esteso volto ad incentivare la fruizione della piazza progressivamente e in diverse ore del giorno da parte di differenti tipologie di persone. Il giorno 0 è stato quello delle pulizie generali, dove tramite appello pubblico, sono stati invitati tutti a partecipare; i destinatari delle vetrine, abitanti del quartiere, amici e in alcuni casi i proprietari stessi, hanno


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tutte queste categorie di persone abitano il quartiere, ma spesso non lo vivono perché non lo riconoscono come spazio di senso e nemmeno bello. Il tentativo (riuscito) è stato quello di riportarle in piazza a confrontarsi, stare insieme, ballare

partecipato a pulire i negozi rimasti vuoti da più di 5 anni. Nei giorni successivi un condomino ha provveduto allo sfalcio dell’erba. Poi la settimana di attività si è concentrata dal mercoledì 1 alla domenica 5 ottobre 2014, abitando progressivamente gli spazi e costruendo gli allestimenti. L’iniziativa si è sviluppata attraverso 5 percorsi paralleli: A) il riuso temporaneo delle vetrine vuote per pop up shop, associazioni ed esposizioni; B) attività di spettacolo e musica; C) laboratori spontanei; D) incontri e dibattiti su nuove strategie di rigenerazione dello spazio pubblico; E) un workshop di rigenerazione urbana partecipata: con i materiali reperiti in loco (tavoli di cartone recuperati dal Festival letteratura e delle vecchie tende) è stato creato un monumento, un portale d’ingresso alla piazza che costituisse anche un portico ombreggiato e un collegamento tra i due lati

della piazza. I primi giorni la gente guardava curiosa e diffidente l’avvicendarsi di ragazzi e persone intente ad allestire gli spazi, e piano piano è cresciuto l’entusiasmo fi no ai giorni principali ovvero nel weekend, in cui gli allestimenti erano pronti e le attività moltissime, grazie al moltiplicarsi dei contributi in corso d’opera. Nel corso della settimana è stato allestito attorno a un plastico un laboratorio di progettazione partecipata; la gente poteva esprimere le proprie volontà su una bacheca pubblica e l’ultimo giorno, quando i negozi erano tutti allestiti, è stato fatto un mercato dell’usato, con musica, balli popolari e uno spettacolo di giocoleria. Questo evento ha rappresentato un’applicazione di una visione più grande di rinascita e rigenerazione degli spazi urbani degradati, nato dalla tesi di laurea magistrale in

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immaginare la rigenerazione urbana dal basso,coinvolgendo direttamente i suoi abitanti e i soggetti che vivono il territorio, per rianimare un dibattito nei quartieri e supportare la rete tra le realtĂ attive, le associazioni, i comitati

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architettura di Antonia Araldi e Luca Stancari, elaborata presso la sede mantovana del Politecnico di Milano: Reazione a Catena (www.issuu.com/lucastancari/docs/tesi_ magistrale), da cui il nome del Gruppo. Il progetto di tesi è un laboratorio sui due quartieri della prima periferia di Mantova, Fiera Catena e Valletta Valsecchi, l’area industriale ottocentesca affacciante sul porto e un area di conurbazione anni Sessanta, progettata come quartiere giardino che si affaccia sui laghi. L’area ha grandissime po-

tenzialità date soprattutto dall’enorme patrimonio dismesso e dalla vicinanza al lago; però quest’area della città è caduta progressivamente in degrado, a causa appunto dei grandi vuoti e dell’invecchiamento della popolazione, non integrata alla nuova popolazione migrante abitante nelle case popolari di nuova edificazione. L’approccio del progetto è stato quello di immaginare la rigenerazione urbana dal basso, coinvolgendo direttamente i suoi abitanti e i soggetti che vivono il territorio,

per rianimare un dibattito nei quartieri e supportare la rete tra le realtà attive, le associazioni, i comitati. Inoltre si intende aiutare il dialogo intergenerazionale e interculturale e creare dei momenti e dei luoghi di espressione per il quartiere. Si è riflettuto su strategie razionali, di coinvolgimento e distribuzione dell’investimento tra pubblico, privato e cittadinanza attiva, per il riuso dell’enorme patrimonio inutilizzato: capannoni industriali dismes-

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si, proprietà militari demaniali, condomini Ater abbandonati e la moltitudine di negozi e appartamenti sfitti. A seguito della tesi il processo è continuato trovando applicazione in un circolo Arci esistente sul quartiere, che già durante la tesi è stato usato come ufficio-laboratorio per la scrittura. Entrando nella gestione del circolo e promuovendo attività culturali si è progressivamente lavorato sulla conoscenza della rete di associazioni e dei residenti attivi, costruendo un processo di fiducia. Dal circolo sono state promosse diverse iniziative di rigenerazione urbana: a maggio 2013 è stato ricolorato il sottopassaggio insieme agli abitanti, e poco dopo sono stati auto-costruiti degli orti da marciapiede sul plateatico del circolo in quattro casse assemblate con pallet; a settembre 2013 as-

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sieme a una classe del liceo artistico e allo streetartist milanese Pao sono stati colorati i “panettoni” (dissuasori per il traffico) distribuiti per il quartiere creando scenette inconsuete in contesti sempre più grigi e vuoti; a ottobre 2014 è stato fatto questo evento sulla Piazza “Riviviamo la Piazza”. A seguito dell’iniziativa è iniziata una contrattazione con i proprietari per replicare l’esperienza del mercato bimestralmente, assieme all’utilizzo temporaneo degli spazi ogni volta in forma diversa, in relazione alle stagioni; il tentativo è quello di cercare di convincerli a sottoscrivere un contratto per un periodo sperimentale di concessione temporanea calmierata per l’avvio di nuove attività, con il sostegno del Comune per la diminuzione di alcune tasse sulle proprietà e la collaborazione degli enti di fornitura

per degli sconti agevolati. Inoltre si sta cercando di reperire fondi per ripetere l’esperimento di una settimana di workshop sulle vicine sponde del lago, anch’esse poco vissute e degradate. Quindi aspettate un “Riviviamo le sponde” per inizio estate e venite ad aiutarci! Il cambiamento, a questo punto, può partire solo dalla nostra volontà.


a seguito dell’iniziativa è iniziata una contrattazione con i proprietari per replicare l’esperienza del mercato bimestralmente assieme all’utilizzo temporaneo degli spazi ogni volta in forma diversa

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IMMAGINI 01 - Locandina dell’evento 02 - Vista dall’alto della giornata di domenica con il mercato e l’installazione 03 - Il pittore locale novantenne Ottone Mora con due aiutanti 04 - La cena di quartiere sotto il portico 05 - Il portico nord con il bar temporaneo 06 - L’installazione sulla piazza in notturna SITOGRAFIA - www.reazioneacatena.tumblr.com - www.facebook.com/reazioneacatenamn

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Il lavoro e l’archeologia A spasso nel tempo tra i reperti dell’Olivetti e dei Campi Flegrei

di Elena Ambrosi e Giulia Vallese Elena Ambrosi è architetto. Ora si divide tra l’impresa di famiglia e uno studio con base a Verona oltre a seguire la sua vocazione di Sommelier. www.issuu.com/elena_ambrosi Giulia Vallese laureata in Architettura per il Paesaggio all’Università Iuav di Venezia. Dopo varie parentesi estere, ora fa cose e vede gente. www.giuliavallese.wix.com

Adriano Olivetti changed the reality of his era. Farsighted capitalist who wanted to make real the utopian image of a fraternal society, in balance. Unicum of a total project without echo, where the Real, known as sumptuous privileged status, becomes contingent, pragmatic, middle-class truth. The Olivetti in Pozzuoli, in the Campania’s industrial context, becomes an experience that ends in itself; happy island of Campi Flegrei that, with the absence of his father and master (Adriano), was fated to be altered. Alter - action from reality, the crisis of the production system that becomes history, museal destintion for archaeological find of a golden past. Another action that is adaptation to survive, a cultural stance, in a antipodes context, positioned to see and be seen, clinging to a difficult terrain, adapted to a new economy, a new presence is born at the foot of olivettian’s reminiscences. There isn’t defined space as indefinite and therefore not determined is its role and its future.

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[..] il lavoro dovrebbe essere una grande gioia ed è ancora per molti tormento, tormento di non averlo, tormento di fare un lavoro che non serva e non giovi a un nobile scopo [...]. Il lavoro solo ha trasformato il mondo e siamo alla vigilia di una trasformazione defi nitiva [...].”1

verso approccio di Olivetti ai vari aspetti del lavoro, non avendo come unico scopo quello del profitto, ma anche quello di dare una dignità lavorativa ai propri dipendenti. Quello dell’imprenditore era un progetto totale, il piano previsto era un sistema unico nel suo genere, un tenere insieme vari aspetti, varie discipline e vari saperi tendendo ad uno scopo comune rappresentato dalla Comuntà.

Inserita in una riflessione più ampia che prende in esame l’architettura degli spazi del lavoro, questa tesi si propone di analizzare l’esperienza Olivetti nella sua totalità, ma anche, nello specifico, lo stabilimento industriale di Pozzuoli, insediatosi nel 1955. Adriano Olivetti rappresenta la figura dell’imprenditore illuminato, lungimirante e dagli interessi eclettici ma sempre focalizzato allo sviluppo della propria azienda. Si tratta inizialmente lo studio e il confronto di quattro eccellenze industriali del ventesimo secolo: Olivetti, AEG, Ford e Fiat. Delle quattro imprese vengono considerate le risposte rispetto a diverse tematiche: l’urbanistica, l’architettura dello spazio lavorativo, i servizi proposti dall’azienda, la figura dell’operaio, il design del prodotto, la pubblicità, lo scopo, la situazione post bellica. Da questo confronto risulta che la politica olivettiana si esprime in maniera trasversale rispetto alle altre; sottolineando il di-

Adriano era l’Imprenditore ecclettico: impegnato uomo politico, di cultura, urbanista, scrittore ed editore, decise di insediarsi al sud per motivazioni economiche, territoriali e sociali. Economiche: in risposta alla crisi post bellica decise - controcorrente rispetto alle altre industrie - di aumentare la produzione per esportare il proprio prodotto all’estero; motivazioni territoriali in quanto Pozzuoli era in possesso di una storia nel campo industriale e quello era il posto giusto per insediare una nuova industria; infi ne sociali, per cercare di ricucire il sempre precario rapporto tra Nord e Sud tentando di risollevare l’Italia Meridionale. L’imprenditore di Ivrea affida l’incarico di progettare la nuova fabbrica di Pozzuoli all’Ingegnere napoletano Luigi Cosenza. Sebbene siano due personalità appartenenti a due contesti totalmente diversi (imprenditore l’uno, membro di spicco del partito comunista l’altro) instaurano


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un monumento al lavoro si pone tra due industrie finite -Olivetti e Sofer-, un luogo privilegiato che diventa cannocchiale per guardare il territorio in cui è inserito, che guarda e che si fa guardare 02

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la fabbrica si identifica in un progetto totale dove nulla veniva trascurato, ma il riverbero della sua azione non fu colto dal territorio flegreo

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una collaborazione dalla quale nascerà l’Opo, lo stabilimento Olivetti di Pozzuoli. Per il progetto dello stabilimento l’Ing. Cosenza apporta la novità del sistema a croce, inizialmente non accettato dalla direzione di Ivrea, fu comunque appoggiato da Adriano e quindi realizzato. Oltre a questa, molte sono le accortezze pensate per una maggiore efficienza produttiva, ma anche per un maggior benessere dell’operaio, poiché sebbene impossibile cancellare l’alienazione data da un lavoro seriale e meccanico, almeno si poteva intervenire migliorando l’ambiente in cui questa nasceva, sfruttando la fortunata posizione della fabbrica che si affaccia sul Golfo di Pozzuoli. Cosenza si avvale della collaborazione di numerose figure che contribuiscono a definire l’identità del progetto e si pongono con azioni complementari: dal disegno degli spazi aperti, ad opera del paesaggista Pietro Porcinai, allo studio dei colori dei vari edifici costituenti la fabbrica con Marcello Nizzoli.

L’ingegnere di Napoli utilizza elementi della propria cultura, delle sue tradizioni con reminiscenze barocche e romane, in un rapporto con la storia sempre presente e protagonista. La fabbrica si identificava in un progetto totale dove nulla veniva trascurato, ma il riverbero della sua azione non fu colto dal territorio flegreo, dove questo nuovo modello non convince e non si radica come nuovo esempio da seguire; perciò essa diviene eccezione che conferma la regola, in un contesto difficile, assurge ad isola introversa e riuscita in se stessa. Protagonista è anche il territorio flegreo dove l’Olivetti si insediò; viene fatta una panoramica sulla situazione territoriale, la sua evoluzione e le difficoltà in una zona compromessa dal bradisismo e dalle cronache che contribuiscono alla non valorizzazione delle forti presenze culturali locali, ma dove comunque persiste un’idea di resistenza, dettata dalla volontà di sopravvivere. Qui è sottile il confi ne tra resistenza


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e abbandono, in un luogo ricco di reperti archeologici che spesso non vengono valorizzati; ed in questo frangente si inserisce lo stabilimento Olivetti, che resiste, attraverso i numerosi frammenti delle industrie insediatesi che ne hanno ridisegnato l’interno. Si assiste alla necessità di cambiamento rispetto alle richieste del mercato, alla storicizzazione di un processo produttivo, quello della lavorazione del prodotto dalla A alla Z, il lavoro diventa storia, una fase industriale a cui si guarda, forse, con un occhio nostalgico, come si guarda un antico reperto archeologico. Ci si propone, infi ne, di dare una risposta alle domande sorte lungo la ricerca attraverso un nuovo progetto. Prendendo gli elementi del contesto flegreo e dell’importante presenza olivettiana, una ipotetica committenza costituita da una cooperativa di aziende, investe in uno spazio indipendente e libero dove si insedia una cittadinanza attiva, dove avanza un nuovo tipo di

lavoro dove sono necessari spazi condivisi e flessibili, per una apertura mentale all’altro, al territorio, all’esterno. Una responsabilità culturale perché consapevole delle proprie scelte e dunque politica; sita in un avamposto privilegiato, attenta al contesto in cui si trova, segnata dalla bellezza della natura e dalla brutalità dell’industria fordista, da quando il denaro ridisegnò le città. Un monumento al lavoro si pone tra due industrie fi nite - Olivetti e Sofer - un luogo privilegiato che diventa cannocchiale per guardare il territorio in cui è inserito, che guarda e che si fa guardare; ma che cerca di resistere alla difficoltà della situazione in cui si trova: fisica, perché arroccato nella scarpata, e sociale cercando alternative ad una crisi che è cambiamento e perciò scelta di superare la storia. Gli spazi del lavoro oggi si configurano come nuove realtà adattate ad un nuovo modo di pensare il lavoro basato su una rete di idee e servizi. La lezione di Olivetti con la sua idea di una città sociale, con

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edifici industriali che vanno oltre il loro ruolo produttivo e che comprendono un rapporto con gli spazi pubblici e il paesaggio viene oggi riaffermandosi con le diverse factory nascenti nella speranza, un giorno, di dimostrare di aver imparato la lezione di Olivetti.

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Adriano era l’Imprenditore ecclettico: impegnato uomo politico, di cultura, urbanista, scrittore ed editore, decise di insediarsi al sud per diverse motivazioni


NOTE 1 - Adriano Olivetti, Città dell’uomo, 1960. IMMAGINI 01 - Sodalizio tra l’ingegnere Luigi Cosenza e l’imprenditore Adriano Olivetti per la ricerca di un nuovo modello di fabbrica. Illustrazione di A. Maffioletti, Alvvino, rielaborata da E. Ambrosi e G. Vallese. 02 - La fabbrica Olivetti di Pozzuoli come un’isola felice. Essa non risponde al progetto moderno di Adriano in quanto non rappresenta un motore di trasformazione sociale e territoriale. Anche il Sistema a corte dell’impianto allude ad un organismo introverso che non dialoga con l’esterno. Immagine rielaborata da E. Ambrosi e G. Vallese. 03 - Campi flegrei composti da articoli di cronaca che denunciano i problemi che si troviamo nel territorio: abuso edilizio, inquinamento ambientale, il problema dei rifiuti, dell’abbandono dei siti archeologici e ambientali che non favoriscono lo sviluppo del settore turistico. Denuncia dell’incendio avvenuto il 4 marzo 2013 alla Città della Scienza di Bagnoli, Napoli. Immagine rielaborata da E. Ambrosi e G. Vallese. 04 - Mappa dell’abbandono e delle resistenze. Confronto tra siti archeologici ed industriali distinguendo quali resistono e quali invece si trovano in uno stato di abbandono. Il risultato finale è un territorio formato da un arcipelago di opportunità non sfruttate. Immagine rielaborata da E. Ambrosi e G. Vallese. 05 - NUOVO SCENARIO. Storicizzare lo stabilimento di Pozzuoli. La produzione deve diventare un motivo di attrazione, un’opportunità. Immagine rielaborata da E. Ambrosi e G. Vallese. 06 - Veduta del golfo di Pozzuoli dall’interno del progetto. Progetto e fotomontaggio di E. Ambrosi e G. Vallese. BIBLIOGRAFIA G. Cosenza, “Luigi Cosenza: la Fabbrica Olivetti di Pozzuoli” Clean, Napoli, 2006 C. Olmo, “Costruire la città dell’uomo:Adriano Olivetti e l’urbanistica.” Edizioni di Comunità, Torino, 2001 A. Olivetti, con introduzione di Giuseppe Berta, “Città dell’uomo.” Edizioni di Comunità, To¬rino, 2001 R. Astarita, prefazione di C. de Seta, “Gli architetti di Olivetti: una storia di committenza industriale.” F. Angeli, Milano, 2000 C. de Seta, “Gli ambienti di lavoro e il colore” in ArQ, n. 10, 1993 A. Abriani, E. Calvi “Il sogno pubblicitario olivettiano”, in Rassegna, n. 43, 1990 G. Cosenza, F. D. Moccia, “Luigi Cosenza: l’opera completa.” Electa, Napoli, 1987; P. Volponi, “Memoriale.” Unione tipografico, Torino, 1976 N. Ginzburg “Lessico famigliare.” Arnoldo Mondadori, 1973 A. Olivetti, a cura di R. Zorzi, “L’ordine politico delle comunità: le garanzie di libertà in uno Stato so¬cialista.” Edizioni di Comunità, Milano, 1970 O. Ottieri “Donnarumma all’assalto.” Valentino Bompiani, 1963 “Comunità: giornale mensile di politica e cultura”, n. 1 del 1946

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IMMERSIONE

Non solo piante ( ) officina * li L’evoluzione dell’Orto Botanico di Padova: da centro per la preparazione di medicamenti a presidio della biodiversità

Michele Menegazzo è un ingegnere edile padovano. Attualmente svolge attività di ricerca come assegnista presso l’Università Iuav di Venezia. e-mail: kavaeta@yahoo.it

Inspired by the world community’s growing commitment to sustainable development, the Convention on Biological Diversity (1993) focuses on three levels of this topic: genes, species and ecosystems. Botanical gardens can be critical in both conserving natural resources ex situ and studying local native plants in situ. Established in 1545, the Botanical Gardens of the University of Padua have remained in the same location and have preserved their scientific importance and architectural layout through the centuries: for this reason they were inscripted in the UNESCO World Heritage List in 1997. This article presents the project of the new five greenhouses reproducing several ecosystems that were inaugurated in September 2014.

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partire dalla seconda metà dell’Ottocento, le attività antropiche hanno condizionato in maniera sempre più pesante gli equilibri su cui si reggono gli ecosistemi del nostro pianeta, causandone la sempre più veloce degradazione. Negli ultimi vent’anni, la riduzione della diversità biologica è diventata un problema da risolvere in maniera prioritaria per gli enti governativi e per le associazioni ambientali: la Convention on Biological Diversity (CBD) del 1993 ha ampliato il campo d’azione stabilito nella Convention on International Trade of Endangered Species (CITES) del 1973. La varietà genetica può essere preservata sia in situ, proteggendo i biomi unici, sia ex situ, mantenendo gli organismi interi o immagazzinandone una parte significativa dal punto di vista genetico in un’apposita banca. In quest’ultimo caso, i semi di molte specie vegetali possono essere conservati ad una temperatura di -20 °C e a un tasso di umidità del 5% anche per periodi molto lunghi. Questi centri venivano inizialmente situati lontano dai luoghi di origine; oggi, invece, si tende a collocarli vicino agli ecosistemi di riferimento, in modo da facilitare le operazioni di raccolta, catalogazione, studio e confronto. In futuro, il contributo delle banche sarà sempre più importante, ma anche limitato da numerosi fattori: in

di Michele Menegazzo primis, il numero delle risorse genetiche è tanto ampio da renderne improbabile la completa salvaguardia; in secondo luogo, i semi di alcune specie non possono essere essiccati, in quanto il processo li uccide. Notevoli difficoltà di conservazione sono state riscontrate anche per alcune piante tropicali, come quella del cacao, o per alcune specie di noccioline e di girasole, mentre i semi dell’orzo, del fagiolo e del mais riportano difetti genetici se conservati troppo a lungo. Inoltre, alcune piante, quali la patata, la manioca e le orchidee, si propagano solo per via vegetativa, mentre alcuni alberi, quali il melo e il pero, non mantengono la purezza della varietà se si propagano per semi. A ciò si aggiungono i possibili danni causati da una prolungata interruzione di energia elettrica e il mancato adattamento evolutivo agli agenti patogeni. Una soluzione efficace per contrastare l’erosione genetica può essere studiata all’interno degli orti botanici, in quanto essi permettono di integrare al proprio interno la conservazione sia delle piante che dei semi e di essere posti in prossimità di alcuni ecosistemi originari. Aristotele, per primo, crea dei giardini dove studiare le piante inviategli da Alessandro Magno dai paesi conquistati. La sua opera viene continuata dall’allievo Teofrasto, autore del maggior contributo alla botanica dell’antichità, la Storia delle piante. Negli


horti simplicium dei conventi, delle certose e dei monasteri dell’Alto Medioevo le piante sono coltivate per ricavarne medicamenti (simplices); nel Viridarium Novum, realizzato da papa Nicolò III e nel Giardino della Minerva della Scuola Medica Salernitana questa destinazione viene arricchita dalla funzione didattica. Solo nel Cinquecento gli orti botanici assumono una struttura simile a quella odierna, per rispondere alle nuove esigenze delle scuole di medicina. Fino ad allora, l’uso terapico delle piante è infatti realizzato seguendo i testi greci, latini e arabi che, trascritti in modo a volte controverso o errato, portano a creare prodotti inefficaci o dannosi. Il bolognese Luca Ghini, primo studioso e docente della botanica moderna, privilegia invece l’osservazione diretta delle specie. Grazie alla sua autorevolezza in materia il granduca di Toscana Cosimo I gli affida l’organizzazione dell’orto dell’Università di Pisa nel 1543 e di quello di Firenze nel 1545. Sempre nel 1545 viene fondato a Padova quello che è oggi il più antico orto botanico universitario del mondo ad aver conservato ubicazione e struttura originarie. Il terreno messo a disposizione per la costruzione è già utilizzato dai monaci benedettini di S. Giustina per la coltivazione di piante medicinali. La forma trapezoidale del lotto e la presenza del canale Alicorno condizionano fortemente il disegno della pianta. Coloro

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che lo tracciano, il dotto patrizio veneziano Daniele Barbaro e il professore di medicina Pietro da Noale, sono influenzati dalle concezioni scientifiche e fi losofiche del tempo. Ne risulta una rappresentazione densa di significati geografici, astrologici ed esoterici che fa riferimento all’universo (cerchio) e alla Terra (quadrato). Due viali, orientati secondo i punti cardinali, simboli degli elementi, individuano quattro spalti, ripartiti a loro volta in aiuole (areole) con eleganti geometrie. L’edificio ad anello, da utilizzarsi come serra nei mesi invernali e come deambulatorio riparato per le lezioni, non viene realizzato. Nel 1552, a seguito di alcuni furti di piante, viene comunque co-

struito un alto muro circolare di recinzione provvisto di cancelli (hortus conclusus). Risale alla fi ne del Cinquecento anche l’albero più noto dell’Orto, la palma di Goethe: si tratta di una palma di San Pietro con 25 fusti, così denominata perché ispira una teoria sulla metamorfosi delle piante allo scrittore tedesco mentre è a Padova nel settembre del 1786. Alla fi ne del Seicento e durante tutto il Settecento, l’Orto è oggetto di alcune modifiche volte a migliorarne l’aspetto formale e l’efficienza e a porre rimedio ad alcuni danni subiti. La struttura architettonica è arricchita sia da quattro ingressi monumentali con piloni bugnati, acroteri e cancellate

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in ferro battuto, sia da una balaustra con colonnine in pietra d’Istria posta a coronamento del muro circolare. Gli spalti, all’epoca alti 70 centimetri rispetto al livello dei viali, vengono abbassati e riorganizzati in più aiuole, senza stravolgerne l’impianto precedente. Il numero crescente di piante porta ad estendere l’Orto anche all’area esterna alla recinzione, con l’impianto di un Arboretum e la realizzazione di alcune fontane, come quella di Teofrasto e quella delle Quattro Stagioni. Nell’Ottocento vengono erette numerose serre stabili: alcune di modesta dimensione sono in muratura e dotate di un impianto di riscaldamento, all’epoca molto innovativo; una molto alta ospita un esemplare di Araucaria excelsa; un’altra, rifatta nel Novecento, accoglie la già citata Palma di Goethe. Nel 1842 si realizza il cosiddetto “teatro botanico”, un’aula a emiciclo con capienza di cento studenti, usata per tenere le lezioni e riunioni. Inoltre, si apportano alcune migliorie all’impianto di irrigazione e si inseriscono tre meridiane (cubica, sferica, cilindrica). Nel Novecento, esigenze legate alla ricerca e alla didattica portano ad utilizzare le serre sia per ampliare la biblioteca e l’erbario, sia per ricavare laboratori. Dopo il trasferimento di questi ultimi in una struttura più adatta, il piano terra della cosiddetta Casa del Prefetto – il direttore dell’Orto – viene destinato a spazio espositivo, il primo ad

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archivio, erbario e biblioteca, il secondo a uffici, laboratori per la conservazione dei semi e banca del germoplasma. L’intervento di restauro del 2008-2009 interessa molte delle strutture architettoniche: vengono ripristinati l’intonaco a cocciopesto del muro circolare, la balaustra marmorea sopra di esso, i portoni di accesso, gli acroteri, le statue, le fontane e i cancelli in ferro battuto. L’Orto Botanico di Padova è noto soprattutto per la grande varietà delle piante raccolte, provenienti anche dai paesi dove la Repubblica di Venezia aveva possedimenti o rapporti commerciali. Oltre la palma di Goethe, meritano di esser ricordati un ginkgo biloba del 1750 – alto 18 metri e con la particolarità di essere una pianta maschio con un innesto di femmina – e una Magnolia grandifl ora, probabilmente piantata nel 1786 e ritenuta perciò la più antica d’Europa. Nell’Arboretum al di fuori del muro circolare si trovano invece un Platanus orientalis del 1680, un cedro dell’Himalaya del 1828, primo esemplare di questa specie in Italia e un frammento di tronco subfossile di Quercus robur fatto risalire al 700 a.C., testimonianza delle foreste che un tempo ricoprivano la Pianura Padana. L’importanza dell’Orto è confermata nel 1997 quando viene inserito nella lista del Patrimonio mondiale dell’Unesco come bene culturale “all’origine di tutti gli orti

botanici del mondo” e motore del progresso di molteplici discipline, dalla botanica alla medicina, dalla chimica alla farmacia, all’ecologia. Questo ruolo viene rafforzato quando aderisce al Piano d’Azione per gli Orti Botanici dell’Unione Europea del 2000, ponendosi come obiettivi l’incentivazione della ricerca, la promozione della varietà genetica, la diffusione della conoscenza e la valorizzazione del patrimonio. La difesa della biodiversità viene intrapresa dall’Orto Botanico già dal 1985 con la conservazione di piante spontanee rare e minacciate dell’Italia nord orientale, per continuare poi nel 1992 con l’istituzione di una banca del germoplasma e nel 2005 con l’adesione alla RIBES. Il racconto della biodiversità vegetale nel nostro pianeta è lo scopo anche delle serre inaugurate il 16 settembre scorso, risultato di un concorso di idee vinto dallo studio VS Associati dell’arch. Giorgio Strappazzon. Un intervento importante durato poco più di tre anni, che ha permesso di portare la superficie a disposizione delle piante e del pubblico da 22.000 a 37.000 metri quadri. Il collegamento dell’ampliamento con l’orto antico avviene per mezzo di un taglio praticato in una collina piantumata. Il vuoto urbano degli orti benedettini preesistenti agli interventi degli anni Cinquanta sorprende il visitatore con la vista dell’imponente fianco nord della chiesa di S. Giustina.


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Collocato sul lato est dell’area, il volume principale è un cuneo lungo 100 metri, alto 18 metri e di larghezza variabile. Il fronte principale è costituito da una facciata continua a punti con lastre Pilkington Optifloat Clear con dimensioni di 1000 x 2000 mm, spessore di 12 mm e trasmittanza termica di 5,5 W/m 2K. L’intenso irraggiamento diretto cui è sottoposta la costruzione può indurre forti sollecitazioni sui vetri, ragion per cui sono stati sottoposti a Heat Soak Test. Con la collaborazione di Fischer è stato creato il tassello FZP-G, un innovativo sistema di fissaggio a fori non passanti che ottimizza diversi aspetti: la poca invasività delle dimensioni, la sicurezza struttu-

rale, la possibile distanza dal bordo, i costi per la foratura e la facilità d’installazione. La copertura è stata realizzata con cuscini in EFTE dalla trevigiana P.A.T.I.: tali componenti innovativi sono vantaggiosi per le caratteristiche termiche, il peso non elevato, l’alta trasparenza ai raggi UV, necessari alle piante, e la capacità autopulente. La copertura dell’edificio a sud è invece piantumata con una nuova tecnica di crescita degli arbusti che si sviluppa in circa 4 cm di spessore. I costi per la climatizzazione sono generalmente molto elevati nelle serre a causa della scarsa inerzia termica ottenibile con strutture leggere e trasparenti. In questo caso,

il progetto energetico ha posto fortemente l’accento sul ruolo positivo della radiazione solare sul bilancio totale e sul comfort. L’effetto serra, generalmente connotato da un’accezione negativa, diventa utile per mantenere gli ambienti su valori di temperatura e umidità costanti e adeguati alle esigenze di vita delle piante. Nella stagione estiva, l’irraggiamento può essere opportunamente calibrato tramite tendaggi oppure sfruttato per produrre moti convettivi d’aria e ridurre così la temperatura percepita interna. In inverno, l’energia accumulata di giorno viene ceduta durante la notte con uno sfasamento prestabilito. Eventuali necessarie integrazioni vengono garantite da

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22 aerotermi installati da Sabiana, 18 dei quali pensili a soffitto con proiezione verticale, ideali per il riscaldamento di ambienti di grande altezza. I pannelli fotovoltaici posti sulla copertura delle serre producono circa 47 kW di energia elettrica garantendo il funzionamento dell’impianto autonomo di alimentazione idrica e dei sistemi di controllo climatico secondo una logica off grid. Infi ne, il sole attiva il composto fotocatalitico che riveste le superfici opache interne ed esterne per abbattere l’inquinamento atmosferico. Un altro tema ricorrente nel progetto è quello dell’acqua: si incontra questo elemento già a partire dalla terrazza del padi-

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glione d’accoglienza a sbalzo sul canale Alicorno, per poi ritrovarlo nelle serre sotto forma di cascate e vasche. La maggiore di queste ha una capacità di 450 mc e viene utilizzata per il recupero dell’acqua piovana per l’irrigazione. L’impianto a goccia realizzato nel 1999 viene alimentato anche da un pozzo artesiano profondo circa 300 metri che pesca acqua ad una temperatura costante di 24 °C lungo tutto il corso dell’anno; sofisticati sensori di umidità consentono di dosare l’apporto secondo le esigenze delle piante. Gli impianti di nebulizzazione forniti da Idrotech by Idrobase Group garantiscono invece il giusto livello di umidità previsto nei singoli ambienti.

La prima parte dei percorsi espositivi illustra al visitatore cosa siano i vegetali, cosa li renda diversi dall’uomo e come comunichino tra loro attraverso i loro venti sensi. Le 1300 specie presenti sono state disposte ispirandosi alla suddivisione del globo terrestre in fasce climatiche e raggruppate secondo criteri di natura geografica. La Pianta e l’Uomo racconta l’evoluzione delle piante determinanti per la vita umana nei diversi contesti biogeografici e storici. Molto spesso, infatti, le specie native sono state addomesticate e diffuse anche in altri luoghi, venendo ulteriormente modificate. L’esperienza di esplorazione è arricchita tramite i-Beacon, applicazione per smartphone iOS e Android messa a punto da H-Art, che consente di ricevere informazioni quando ci si avvicina ad una pianta. In questa sezione sono presenti tre installazioni con fi nalità didattiche e di ricerca sui temi della vegetazione, delle colture e della biodiversità, curate dallo studio di design dotdotdot. La prima di questi, I lunghi viaggi delle piante, invita a scoprire la provenienza geografica, la storia, la cultura e i valori nutrizionali delle specie vegetali presenti in alcune ricette. Essa è composta di un planisfero, di un cursore in movimento e di un monitor touch, attraverso cui sono integrate le informazioni grafiche intercettate dal cursore. Le piante intorno a noi permette di conoscere proprietà, tradizioni e utilizzi di alcune specie, semplicemente estraendo la


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relativa scheda da una consolle. Costruisci il tuo orto planetario è uno strumento strutturato in maniera analoga al primo, ma l’obiettivo in questo caso è comprendere come costruire un orto incrociando condizioni climatiche, sementi e vegetali desiderati. I pannelli infografici delle tre installazioni sono stati realizzati da Veneto Vetro utilizzando la tecnologia Cromoglass. La retrostampa digitale riduce i riflessi al minimo, agevolando la lettura ed è inalterabile in condizioni di temperatura, umidità ed irraggiamento elevati, come quelle presenti nelle serre. Le fotografie ad alta risoluzione vengono processate attraverso un apposito software e applicate in esacromia tramite plot-

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ter a getto di inchiostro sulle lastre già lavorate. I pigmenti inorganici depositati sulla superficie vengono fusi all’interno del vetro una volta temprato o indurito. Rispetto alle serigrafie realizzate con telai e racle, la stampa Cromoglass risulta più vantaggiosa dal punto di vista economico e dei tempi di produzione. Anche in questo caso sono stati impiegati i tasselli a fori non passanti FZP-G per suggerire la sensazione di vetri sospesi. L’ultimo percorso didattico, La pianta nello spazio, illustra come sia possibile ricreare le condizioni favorevoli alla vita delle piante in tre contesti extraterrestri. Il primo di questi è una navicella in viaggio a zero

gravità, dove vengono applicate tecniche di coltivazione idroponica secondo cicli di vita prestabiliti. Un secondo ambiente è di tipo lunare, all’interno delle cavità create dalla colate laviche (lava-tunes) in modo da difendere i vegetali dalle pesanti radiazioni e dai meteoriti che colpiscono il suolo. Un ultimo scenario è quello dei pianeti simili a Marte, dove è presente una forma di atmosfera e la relativa protezione rispetto alle radiazioni cosmiche. L’Orto Botanico di Padova è una delle eccellenze italiane coinvolte in Expo 2015. Il 14 gennaio è stato inaugurato nell’Aula Magna di Palazzo Bo un ciclo di incontri sul cibo che verranno tenuti presso la nuova sala convegni del Giardino della Biodiversità ogni mercoledì alle 17.00 fi no all’inaugurazione della manifestazione milanese. Organizzati e curati da professori universitari, essi saranno aperti alla cittadinanza in maniera gratuita, previa prenotazione, e fi no a esaurimento posti. Un protocollo d’intesa sottoscritto da Expo e Università degli Studi sancisce anche una collaborazione per la progettazione, lo sviluppo e la realizzazione sia di un’area dedicata alla biodiversità nella Mostra dell’Identità Italiana, sia degli spazi di rappresentanza al quarto piano di Palazzo Italia: in particolare, il percorso La Potenza del Futuro ospiterà una pianta per ogni regione italiana per raccontare la ricchezza del nostro paesaggio.


IMMAGINI 01 – L’Orto Botanico di Padova in una litografia di A. Tosini, tratta da: Ceni Antonio, “Guida all’Imp. Regio Orto Botanico in Padova”, Padova, 1854. 02 – Vista odierna dell’Orto Botanico; sulla sinistra, la serra contenente la palma di Goethe – © Orto Botanico dell’Università degli Studi di Padova. 03 – Planimetria della parte antica e del nuovo ampliamento dell’Orto Botanico – © Studio VS Associati. 04 – Lo spazio verde davanti alle nuove serre; sulla destra, il prospetto nord della chiesa di S. Giustina – © Orto Botanico dell’Università degli Studi di Padova. 05 – L’impianto di nebulizzazione in una delle serre – © Orto Botanico dell’Università degli Studi di Padova. 06 – Le piante acquatiche – © Orto Botanico dell’Università degli Studi di Padova. 07 – L’installazione “I lunghi viaggi delle piante” ideata da dotdotdot – © Laura Fantacuzzi e Maxime Galati Fourcade. 08 – L’installazione “Le piante intorno a noi” ideata da dotdotdot – © Laura Fantacuzzi e Maxime Galati Fourcade. 09 – L’installazione “Conosci il tuo orto planetario” ideata da dotdotdot – © Laura Fantacuzzi e Maxime Galati Fourcade. 10 – Pannelli espositivi realizzati con tecnologia Cromoglass – © Veneto Vetro. 11 – Pannello espositivo realizzato con tecnologia Cromoglass – © Veneto Vetro. 12 – Pannelli espositivi realizzati con tecnologia Cromoglass – © Veneto Vetro. 13 – Piante nella serra della fascia desertico-arida – © Studio VS Associati. SITOGRAFIA - www.ortobotanicopd.it - www.bgci.org - www.ortobotanicoitalia.it - www.vsassociati.it - www.dotdotdot.it - www.venetovetro.com

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DECLINAZIONI

di Valentina Covre fake n. falso s. m., agg. [lat. falsus, propr. part. pass. di fallĕre «ingannare»]. anything made to appear otherwise than it actually is, counterfeit / contrario o non corrispondente al vero, quindi menzognero, bugiardo/ che non corrisponde alla realtà / ingannevole, illusorio / alterato intenzionalmente a scopo doloso / mancante di naturalezza, di sincerità / di persona, che fa o dice il contrario di ciò che pensa o finge o professa d’esser ciò che non è / posticcio / tutto ciò che è sostanzialmente non vero, ma è creduto o si vuol far passare per vero / che non ha fondamento di verità e si discosta da essa pur avendone l’aspetto, per cui può trarre in inganno o condurre all’errore / che non è quello vero, quello autentico / simulato, finto / contrafftto, alterato / storia: documento formalmente o apparentemente genuino, in realtà contenente dati inesatti o inventati oppure prodotto in epoca diversa da quella pretesa o presunta / botanica: un organo o apparato che ne simula un altro, essendo però di natura diversa / arte: copia di un’opera d’arte di cui si imitano la tecnica e i materiali, affinchè sia ingannevolmente atribuito all’autore originale / informatica: un file che viene spacciato per un altro, semplicemene rinominandolo; e-mail con mittente falso o inesistente, associato ad una richiesta di dati personali che l’utente, credendo originale la missiva, spesso concede (spam, phishing)

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Fake

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MICROFONO ACCESO Tre architetti under 40 e uno studio associato: EXiT. Cinque domande sulla formazione, la professione di architetto qui e oggi, e infine una loro “fotografia” attraverso un’architettura, un libro e un film per loro significativi

EXiT a cura di Daria Petucco Daria Petucco, architetto e dottoranda all’Università Iuav di Venezia e-mail: dariapetucco@gmail.com

Quanto hanno influito le differenti esperienze all’estero che avete avuto nella vostra formazione e soprattutto nel lavorare ora qui e oggi? Una decina di anni fa, subito dopo la laurea, siamo stati in Spagna e Portogallo dove abbiamo avuto la possibilità di collaborare con studi importanti su lavori complessi (Cruz y Ortiz a Siviglia, Gonçalo Byrne e Proap a Lisbona). Uscire dall’Italia è stata prima di tutto un’occasione ma soprattutto una necessità dopo gli anni universitari. Collaborare e conoscere gruppi di lavoro multidisciplinari e avere la fortuna di vedere realizzate le idee che si sviluppavano in studio sono state occasioni preziose di crescita. Sono state occasioni che hanno influito moltissimo nella nostra formazione professionale e hanno potenziato la forte base culturale assorbita allo Iuav. Il Veneto è Palladio, Carlo Scarpa (per citarne solo due...) ma anche capannoni, villette, bifamiliari “copia e incolla”; è ruralità, tradizione ma è anche (o era?) industria. Come ci si confronta e si opera da giovani architetti in un territorio di questo tipo? Il Veneto è un territorio complesso e parzialmente compromesso. È un territorio fragile con il quale bisogna confrontarsi con attenzione e cultura. Crediamo ancora che la figura dell’architetto, come uomo di cultura in senso generale, sia fondamentale per saper prima di tutto interpretare e leggere un luogo e uno spazio, e soprattutto per saper individuare gli interventi e le azioni che andranno a riconfigurare un ambito territoriale.

EXiT is an architecture studio founded by Francesco Loschi, Giuseppe Pagano and Paolo Panetto in 2006 and is located in Treviso. EXiT have been published on Wallpaper*, Mark, A10, C3, L’Arca and selected for “XII Premio Oderzo”, “Archdaily Building of the Year 2011”. In 2011 EXiT won the “Barbara Cappochin Prize of Architecture - provincial section”.

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Definire le cose è importante: cos’è per voi un’architettura sostenibile? Sostenibilità non è certificazione. Ci sono molti fraintendimenti nel termine che ora comincia a diventare di moda e d’uso comune. Risulta sicuramente parziale defi nire sostenibile un rivestimento “a cappotto” in EPS oppure una certificazione energetica a scopi commerciali. Il progetto sostenibile è altro. Rientrano temi legati alla risposta precedente e alla capacità di un luogo di poter “sopportare” e “supportare” una serie di azioni. Gli ultimi rapporti sull’industria delle costruzioni sembrano parlare abbastanza chiaro: si va verso l’intervento sull’esistente. Qual è la vostra visione ed esperienza concreta in materia? Quali sono in questo ambito le competenze necessarie? La maggior parte dei nostri progetti intervengono sull’esistente. Le competenze le abbia-


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mo sviluppate “sul campo” defi nendo di volta in volta le soluzioni migliori per pianificare l’intervento sul costruito. Probabilmente intervenire sul costruito richiede la capacità del progettista di saper fare “un passo indietro”, saper adattare le strategie progettuali al luogo e alle preesistenze e non cadere in facili protagonismi. Il progetto deve avere in sé la capacità di adattarsi alle molteplici variabili (burocratiche, tecniche, normative) per continuare a perseguire un tema portante lungo tutto l’iter progettuale. Di fatto oggi in Italia l’architetto è schiacciato da una molteplicità di figure tecniche e burocratiche, di vincoli e restrizioni che accerchiano il progetto. Il vero talento è fare l’acrobata tra questi ostacoli e uscirne come un contorsionista. In senso più generale è necessario sapersi adattare alla mutevolezza del mondo contemporaneo, essere rapidi e agili. Potrei chiedervi se volete più bene a Mies Van der Rohe o a Le Corbusier, ma in fondo sono domande che non si fanno mai. Vi chiedo invece di lasciare una “fotografia” di voi attraverso tre elementi che sono stati significativi (o lo sono tutt’ora) per il vostro essere architetti: un luogo o un edificio, un libro e infine un film. Francesco. La Piscina di Leça de Palmeira di Alvaro Siza per la capacità di leggere e interpretare un luogo. Il concetto dell’edificio come massa scavata che ho scoperto ancora studente in “Bramante” di Arnaldo Bruschi. Infi ne “La fonte meravigliosa” di King Vidor. Giuseppe. Il Padiglione dei Paesi Nordici di Sverre Fehn perché c’è tutto quello che uno deve imparare per fare l’architetto. Per quanto riguarda un il libro cito “Significati del confi ne” di Pietro Zanini perché ha avviato il mio sconfi namento culturale. Infi ne, il fi lm “The Truman Show” di Peter Weir perché mi ha posto i primi dubbi verso le città che stiamo costruendo. Paolo. Il convento de La Tourette di Le Corbusier meta di un meraviglioso viaggio di parecchi anni fa con Giuseppe e Francesco. Sto rileggendo “Specie di spazi” di Perec e dopo parecchio tempo dalla prima lettura, lo trovo assolutamente incisivo rispetto ad alcune riflessioni sullo spazio che stiamo facendo in studio. Per quanto riguarda il fi lm propongo “Lisbon Story” di Wenders che da ragazzo ha in qualche modo fatto scattare il mio interesse e passione per l’architettura.

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probabilmente intervenire sul costruito richiede la capacità del progettista di saper fare “un passo indietro”, saper adattare le strategie progettuali al luogo e alle preesistenze e non cadere in facili protagonismi


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AUTORI Francesco Loschi, Giuseppe Pagano, Paolo Panetto, architetti e fondatori di EXiT architetti associati e-mail: exit@exitstudio.it IMMAGINI 01 - Studio EXiT 2014 – foto Colin Dutton. 02 - B&B, Musile di Piave – 2014-2015 – Immagine EXiT architetti associati. 03 - Recupero di un Tabià (esterno), Selva di Cadore – 2008-2010 – foto Teresa Cos. 04 - Recupero di un Tabià (interno), Selva di Cadore – 2008-2010 – foto Teresa Cos. 05- Recupero di una casa di campagna, Oderzo – 2007-2010 – foto Silvia Longhi.

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CELLULOSA

Madre Materia Fernando Espuelas, 2009

a cura di Francesca Guidolin

Francesca Guidolin è architetto dal 2012. Dopo alcune esperienze di formazione e professionali in Francia e in Italia, è attualmente dottoranda in Nuove tecnologie per il Territorio, la città e l’ambiente, presso l’Università Iuav di Venezia. Sta approfondendo i temi della riqualificazione architettonica. e-mail:arch.francesca.guidolin@gmail.com

In Madre Materia, Fernando Espuelas delineates an investigation of the word “matter”, drawn by antithesis. Starting with the etymological meaning, he tries to analyse the significance of this concept in ten different essays. The antithetical concepts with whom he creates the narration are: matter- form, mass-lightness, inner-outer, truth-appearance, perception-representation, body-intellect. The dissertation consists in some studies from the philosophical history (Plato, Aristotle, Heidegger, Merleau-Ponty), the history of art and litterature (Michelangelo, Gordon MattaClark, Paul Valery...). In the contemporary society, this word reaches a high level of complexity, due to the multiplication of the meanings that are transmitted by it. For this reason, the important meanings of this book can be perfectly contextualized in an analytical dissertation. The contemporary society is suspended between what is material and the significances that this matter transmits.

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Fernando Espuelas architetto e studioso spagnolo, insegna progettazione presso la Scuola di Architettura dell’Università Europea di Madrid, della quale è stato Preside dal 2003 al 2006. In Italia ha pubblicato Il Vuoto, Riflessioni sullo spazio in architettura (Christian Marinotti Edizioni, 2004).

non sono un fisico, né un chimico, né tantomento un fi losofo: sono un architetto, ovvero un insieme di conoscenze diverse, esperto in niente o forse solo nel rendere il vuoto abitabile.”1 Inizia così il saggio Madre Materia: con la dichiarazione di ciò che non è, e con l’immagine del vuoto. Un vuoto trasformato, un vuoto che si riempie di significato. Sull’etimologia del termine mater, radice di materia e di madre al contempo, prende forma un’indagine, una silloge, di differenti aspetti dell’argomento in cui l’unico refrain dichiarato diventa l’associazione (o dissociazione) di immagini e concetti al tema principale: materia/forma, materia/ tempo, massa/leggerezza, interno/esterno, verità/fi nzione, percezione/rappresentazione, corpo/intelletto. Le argomentazioni di questi dualismi, a volte antitetici, provengono da citazioni del mondo fi losofico: dal pensiero classico di Platone e Aristotele, fi no ad Heiddeger e ai più recenti Lévy-Strauss, Merleau-Ponty e Deleuze; dal mondo della tradizione matematica di Pitagora ed Euclide; dell’arte con Michelangelo, Gordon Matta Clark, Lara Almarcegui, e infi ne della letteratura con le citazioni di Watanabe, Valery... Matèria, è “ciò che costituisce tutti i corpi, assumendo forme diverse nello spazio,


sullo scaffale

Salvatore Settis Se Venezia muore Einaudi, 2014 può essere oggetto di esperienza sensibile, ed è in generale concepita come esistente indipendentemente dalla coscienza individuale.” 2 Il pensiero occidentale è permeato dalla contrapposizione duale, di stampo aristotelico, materia-forma. Lo sviluppo del tema si snoda attraverso la storia del pensiero dal mondo classico di Aristotele a quello moderno di Focillon sulla supremazia o meno dell’una sull’altra, fi no alla contemporanea “generazione della forma indipendente dal materiale.”3 Questa traslazione di priorità e importanza trova riscontro nelle parole di Gregotti: “il compito degli architetti antichi era essenzialmente trasformare, montandole, materie in elementi di architettura”, “il nostro è quello, più modesto, di assemblare prodotti presignificati tentando di far assumere ad essi un nuovo senso.” 4 Tuttavia, la contestualizzazione dei processi di produzione nella società contemporanea introduce il problema della “dematerializzazione della materia”5 in una società che preferisce vedere dei messaggi portati sullo strato più superficiale della materia, piuttosto che cercare i significati contenuti all’interno. I messaggi, e non più i significati, legati alla materialità sono espliciti, immediati, utilitaristici. Oggi le corcostanze stanno rapidamente cambiando: nel saggio Artefatti, Ezio Manzini sostiene che “se il significato

dell’oggetto arcaico e dell’oggetto della recente tradizione industriale doveva essere colto estraendolo da una profondità, quello dell’oggetto contemporaneo tende ad essere tutto condensato nel suo strato superficiale; l’oggetto stesso ci appare come qualcosa assimilabile a una pagina scritta: un elemento bidimensionale la cui superficie si presta a diventare supporto di informazioni.” 6 Lo stesso Espuelas premette che “la necessità di occuparsi della materia in una società dominata dall’immagine può sembrare una forma di resistenza.” 7 Ma forse è proprio di questo che abbiamo bisogno: “Lo scopo è produrre significato.”8

1- F.Espuelas, Madre Materia, introduzione p.5. 2 - Definizione dal dizionario etimologico Treccani. 3 - A. Giachetta, Architettura e tempo: la variabile della durata nel progetto di architettura. Tesi di dottorato; tutor R. Raiteri; Dottorato di ricerca in Tecnologia dell’architettura e dell’ambiente, Politecnico di Milano, 2003. 4 - Vittorio Gregotti , Architettura, tecnica, finalità. Editori Laterza, 2003. 5 - E. Manzini op.cit., p.103 . 6 - Ezio Manzini, Artefatti, Verso una nuova ecologia dell’ambiente artificiale, Edizioni DA, 1990, p.25. 7 - F.Espuelas, Madre Materia, introduzione p.5. 8 - G. Deleuze in F. Espuelas, op. cit., p.31.

Vincenzo Trione Effetto città arte/cinema/modernità Bompiani, 2014

Massimo Rossetti, Domenico Pepe La riqualificazione energetico-ambientale degli edifici scolastici Maggioli Editore, 2014


ARCHITETT’ALTRO

Pratiche periferiche

Giovanna Astolfo, architetto, PhD / Teaching Fellow, The Bartlett DPU. e-mail: giovanna.astolfo@gmail.com

If it is true that less than the 2% of the global built environment is done by architects, it is likely that most of them do other things. Giancarlo De Carlo, in a famous lecture on the autonomy of architecture in the 1960s, explained that the nebulous and ambiguous nature of architecture is related to its origins, suspended between art and technique. If many architects today are concerned with peripheral practices, it is precisely because of such non technocratic dimension.

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S

e è vero il dato secondo cui solo il 2% del costruito al mondo è fatto dagli architetti, è verosimile che molti architetti facciano altro. E che quindi l’architettura sia una pratica eterodossa. Giancarlo De Carlo in una celebre lezione del ‘691 discuteva dell’autonomia della disciplina attribuendo lo stato ‘nebuloso’ e ambiguo dell’architettura alle sue origini, sospese tra arte e tecnica. Giovanni Corbellini ha definito l’architettura una disciplina a statuto scientifico debole. La debolezza dell’architettura, il suo peccato originale, è di essere programmaticamente anti-programmatica. All’università, nei primi anni 2000, ci insegnavano ad essere bulimici divoratori di tutto, collocando giustamente l’educazione teorico-intellettuale dell’architetto in un contesto interdisciplinare. Se tanti architetti oggi si occupano di pratiche periferiche, è perche la formazione flessibile e non tecnocratica lo permette e perche la disciplina è sufficientemente indisciplinata. Ironicamente l’architettura è diventata maggiormente complessa, influente e centrale nella cultura, nella società e nell’economia contemporanea, mentre la posizione dell’architetto sembra essere rimasta più marginale. Dalla laurea al dottorato, dal dottorato al lavoro in studio alla ricerca

di Giovanna Astolfo

l’architettura è troppo importante per essere lasciata agli architetti G.De Carlo

VENEZIA

9700 km

SAN


siamo tutti - con diversi specifici impatti - architetti G.De Carlo

PAOLO

9500 km

LONDRA

post doc, da Venezia a San Paolo a Londra, negli ultimi dieci anni è stata una ricerca impaziente di defi nizione e ridefi nizione di un’idea di architettura e di ruolo, tra teoria e progetto, coincisa con una ricerca non scevra di contraddizioni, paradossi, ricredimenti, dubbi e luoghi comuni. Nei tre anni passati in studio la parola d’ordine era resistere, psicologicamente e fisicamente, affi nando la sottile arte del compromesso e della negoziazione, con agenti erosivi quali la scarsa cultura architettonica, il difficile dialogo col luogo e con la storia, il mercato immobiliare, l’attività degli amministratori, la speculazione edilizia. Se dovessi ricostruire una narrativa del mio percorso di ricerca, credo che la parola ‘altro’ sarebbe centrale. Ho sempre avuto un interesse per gli spazi altri e negletti nella città. Tesi di laurea e dottorato si sono occupati di eterotopie quali il cimitero, i vuoti urbani, le industrie dismesse e le caserme, nel rarefatto territorio urbano del nordest. Più di recente la mia ricerca si è focalizzata su borders, spazi liminali, città divise e geografie confl ittuali, in città extra europee. L’approccio ha sempre cercato di essere riflessivo, investigativo, debole, poco assertivo, e il progetto è stato inteso come speculazione, senza interesse a fornire soluzioni statiche, ma piuttosto nuove domande. Mi sono progressivamente allontanata dalla comfort zone della composizione, da certe

salde certezze legate allo spazio, alla sua dimensione e misura, ed è aumentata l’attenzione e attrazione verso le componenti sociali. In realtà poco di quello di cui mi occupo ora potrebbe essere più lontano dai 9 quadrati di Juan Gris e dall’educazione di un architetto di Hejduk 2 , da cui ero partita qualche anno fa. Eppure tutto ciò convive, in qualche modo. Loose ends. Durante il dottorato, mi sono avvicinata ad alcuni temi, prima la nozione, vasta, di densità, poi quella, affascinante, molteplice, di prossimità, e la sua interpretazione spaziale nella città. Ho incontrato il concetto di ‘giusta distanza’: qual è la distanza tollerabile alla quale ci concediamo di vivere? Come estensione logica, mi sono interessata alle dinamiche di inclusione ed esclusione nella città. Partendo dalla defi nizione di Jennifer Robinson secondo cui viviamo in un mondo di città formate da processi che vanno ben oltre la loro estensione, ho deciso di espandere il mio orizzonte geografico verso quello che a Londra, con un distinzione non sempre condivisibile, chiamano il Global South, per esplorare il contesto delle megacittà sudamericane. Con un idea preliminare di studio urbano comparativo, nel 2012 mi sono spostata alla FAU (Faculdade de Arquitetura e Urbanismo) di San Paolo dove ho fatto ricerca e lavorato su informalità, segregazione spaziale e infrastrutture per la mobilità, e nel 2013 a Londra al DPU

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everyone can become part of the spatial production process and everyone can take an active role in these spatial negotiations H. Lefebvre (Development Planning Unit 3), un incubatore ideale per studiare, ricercare e progettare i temi che mi interessano. Seguo inoltre la didattica del laboratorio di design urbano che si confronta con le complesse e molteplici trasformazioni socio-spaziali in ambiti urbani contestati. Pratiche abitative, di convivenza e di resistenza sono al centro di una riflessione collettiva sulle potenzialità del tactical urbanism: piccoli interventi e assestamenti contingenti di incremental housing e slum upgrading. Un’esperienza che rimette in discussione ancora una volta i paradigmi della partecipazione, il ruolo dell’architetto e il potenziale politico dell’architettura.

NOTE 1 - De Carlo G., [1969] Architecture’s public, in Architecture and Participation, ed. by Peter Blundell Jones, Doina Petrescu and Jeremy Till (Abingdon: Spon Press, 2007), pp. 3-22. 2 - Hejduk J., Education of an Architect: The Cooper Union School of Art and Architecture, 1964-1971 (Monacelli Press, 2000). 3 - Il dipartimento si occupa di development planning nel sud del mondo. Nacque 60 anni fa come dipartimento per l’architettura tropicale al Architectural Association; ora è parte della Bartlett,Facoltà di architettura di UCL, University College of London. www.bartlett.ucl.ac.uk/dpu IMMAGINI 01 - The Political Equator (Teddy Cruz)

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(S)COMPOSIZIONE

Ho perso il conto

Immagine di Gregorio Bonato

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