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Diabete. Cala la conversione dalla fase reversibile all’insorgenza del tipo 2

CALA LA CONVERSIONE DALLA FASE REVERSIBILE ALL'INSORGENZA DEL TIPO 2: MERITO (ANCHE) DELLA PREVENZIONE

Uno studio dell’Università di Manchester indaga il cambiamento della tendenza e rileva i fattori determinanti nell’associazione con lo sviluppo della malattia

di Sara Lorusso

Il numero di persone con condizione di pre-diabete che sviluppano il diabete di tipo 2 (T2DM) è diminuito notevolmente negli ultimi due decenni. Il dato emerge da uno studio condotto dagli epidemiologi dell’Università di Manchester che hanno rilevato l’inversione di tendenza e che si sono spinti a fare delle ipotesi rispetto alle cause di questo importante cambiamento.

La ricerca dell’università britannica è stata sviluppata a partire dai dati del Clinical Practice Research Datalink, un servizio di ricerca osservazionale che opera per il Dipartimento della Salute del Regno Unito, ed ha coinvolto circa 150.000 partecipanti che esprimevano una condizione di pre-diabete nel periodo compreso tra il 2000 e il 2015. Lo studio, pubblicato su “BMJ Open”, era diretto a comprendere quanto velocemente queste persone avessero eventualmente sviluppato il diabete di tipo 2 e quali caratteristiche avesse avuto la conversione. Un obiettivo importante se si tiene conto del fatto che nel mondo la percentuale della popolazione affetta da diabete mellito di tipo 2 è aumentata e che la malattia contribuisce in modo importante sia alla mortalità sia alla spesa sanitaria a livello globale. Le stime segnalano che

nel mondo ci sono attualmente 415 milioni di persone (pari a 1 adulto su 11) che convivono con il diabete: ma per circa 193 milioni di individui non è stato ancora diagnosticato. Le cause del trend in costante crescita della prevalenza del diabete di tipo 2 e delle condizioni di pre-diabete sono rintracciabili in diversi fattori, immodificabili e non, collegati alla qualità e ai ritmi della vita contemporanea: invecchiamento della popolazione globale, diete malsane e sedentarietà diffusa. In Italia, l’Istituto Nazionale di Statistica nel 2016 aveva rilevato una popolazione di oltre 3 milioni di persone con il diabete, pari cioè al 5,3% dell’intera popolazione nazionale.

Entro il 2040 la popolazione globale affetta da diabete potrebbe arrivare a 642 milioni. A farne le spese saranno soprattutto i più giovani: negli ultimi 3 decenni è stato diffusamente osservato un aumento allarmante dell’incidenza di condizioni di pre-diabete e diabete di tipo 2 tra i più giovani come conseguenza di una progressiva diffusione dell’obesità nell’infanzia e nell’adolescenza.

Il lavoro del team dell’Università di Manchester, guidato dalla ricercatrice Rathi Ravindrarajah, si inserisce dunque in un contesto di indagine fondamentale per la definizione di efficaci strategie di prevenzione e di risposta all’insorgere della malattia. Analizzando i dati disponibili, lo studio ha verificato che tra il 2000 e il 2015, un periodo di tempo in cui in Gran Bretagna non era ancora stato introdotto dal sistema sanitario nazionale un nuovo programma di prevenzione del diabete, per l’1,6% del campione era emersa la conversione alla malattia dopo un mese dalla diagnosi di pre-diabete, cioè quella condizione riferita a livelli di glucosio nel sangue più elevati del range considerato “normale”, ma non ancora abbastanza alti da rientrare nell’intervallo considerato diabetico. Per il 4,2% del campione la conversione era arrivata dopo 6 mesi, per il 20,4% dopo 4 anni. Sul lungo periodo, però, la conversione dal pre-diabete al T2DM dopo un anno è diminuita dall’8% nel 2000 al 4% nel 2014. La diagnosi di pre-diabete è diventata, invece, molto più comune nel tempo, passando dallo 0,07% registrato nel 2000 all’1,85% nel 2015. Un dettaglio rilevante se si pensa che nel solo Regno Unito circa 5 milioni cittadini sono affetti da diabete e che nel 2019 il dato relativo agli individui con condizione di pre-diabete si è attestato a 3,9 milioni.

«Non siamo sicuri del motivo di questi cambiamenti - ha spiegato Ravindrarajah - ma sospettiamo che si tratti di una combinazione di vari fattori, a partire da una buona azione di prevenzione messa in pratica delle politiche sanitarie pubbliche fino alle modifiche della definizione di pre-diabete o “iperglicemia non diabetica (NDH)”, e la sua conseguente individuazione, che si sono succedute negli ultimi anni». Appare più plausibile, dunque, che il calo della curva sia stato determinato più da cambiamenti nelle pratiche di codifica del pre-diabete che da una riduzione dell’incidenza del T2DM.

Una delle informazioni più interessanti raccolte dallo studio riguarda la popolazione più anziana, ampiamente associata a un progressivo declino della tolleranza al glucosio, con conseguente aumento della prevalenza di diabete di tipo 2. Ma i ricercatori di Manchester hanno verificato che il rischio di conversione dal pre-diabete al diabete di tipo 2 è molto basso per gli individui con più di 85 anni.

Il rischio di sviluppare la conversione è invece emerso come più elevato negli individui di età compresa tra i 45 e i 54 anni. Un indice di massa corporea elevato, superiore a 30 kg/m2, risultava fortemente associato alla conversione. Altri fattori emersi nell’associazione, seppur in modalità meno rilevante, sono la depressione, le condizioni socialmente svantaggiate, l’abitudine al fumo. Nonostante sia diffusa la percezione del diabete quale problema soprattutto dei Paesi ad alto reddito e delle classi più agiate, in realtà sono proprio le classi economicamente e socialmente svantaggiate a esserne più gravemente colpite. Le persone indigenti e meno istruite tendono inoltre ad avere comportamenti a rischio a causa di diversi motivi, quali una errata percezione dei rischi comportamentali e una scelta limitata dei modelli di consumo, oltre a un prevedibile inadeguato accesso alle cure. Del resto l’Istituto Superiore di Sanità ha fatto più volte notare come proprio il diabete di tipo 2 sia «un esempio paradigmatico di malattia cronica, in parte evitabile, che colpisce soprattutto le classi economicamente e socialmente più svantaggiate, chiamando in causa fattori legati al contesto politico e socioeconomico, alle condizioni di vita e lavoro, a fattori psicosociali».

Quanto al genere, lo studio di Ravindrarajah e colleghi suggerisce che le donne hanno un rischio di conversione da NDH a T2DM inferiore rispetto agli uomini. Quest’ultimo risultato è apparso in con-

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traddizione rispetto a quanto espresso in precedenti ricerche: secondo gli autori ciò potrebbe essere dovuto sia alle caratteristiche della popolazione considerata (due delle più note ricerche precedenti, per esempio, erano basate su comunità di nativi americani) sia alla differente definizione utilizzata per l’iperglicemia non diabetica. Nelle politiche di prevenzione e risposta sanitaria è sempre più importante riuscire a individuare la condizione preliminare e poter così agire in anticipo rispetto all’eventualità che quel paziente possa sviluppare o meno la malattia. L’obiettivo non è semplice: le persone con condizione di pre-diabete sono solitamente asintomatiche, seppur spesso clinicamente obese. Nella maggior parte dei casi la diagnosi viene fatta per caso e alla stessa seguono generalmente consigli pratici sull’alimentazione e sullo stile di vita da mantenere. Talvolta, poi, viene affiancata una prescrizione di trattamento con i più comuni farmaci per il diabete di tipo 2. Già nel 2015 uno studio italiano, coordinat o dal LIVELLI DI GLUCOSIO

professor Giorgio Sesti, allora presidente della Società Italiana di Diabetologia, si era occupato del problema verificando come l’utilizzo del test da carico orale di glucosio, usato comunemente per la rilevazione del diabete, e in particolare una precisa attenzione alla lettura dei risultati, avrebbe potuto sostenere la previsione dell’insorgenza della malattia nei successivi cinque anni, anche in individui fino a quel momento non considerati a rischio.

Secondo stime dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) il diabete è responsabile del 2% della mortalità generale nel mondo: un contributo che risulta oltretutto sottostimato dal momento che la causa del decesso di un diabetico viene spesso codificata in base alla complicanza, come per esempio la malattia cardiovascolare. L’OMS ha quindi inserito il diabete tra le patologie croniche su cui bisogna maggiormente investire per la prevenzione. «I programmi di prevenzione del diabete - ha spiegato ancora Ravindrarajah - potrebbero dover mirare proprio alle persone che sono a maggior rischio di conversione al diabete di tipo 2». Individuare lo stadio preliminare e comprendere se e come evolverà potrebbe rivelarsi una capacità di fondamentale importanza per lo stato della salute pubblica.

LIVELLI NORMALI IPERGLICEMIA Troppi zuccheri

Quando è prediabete?

La definizione di pre-diabete cambia a seconda dei parametri utilizzati per la sua registrazione. In particolare i parametri della American Diabetes Association (ADA) individuano il limite superiore alla norma quando la glicemia a digiuno supera i 100 mg/dl, mentre l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) stabilisce il limite a 110 mg/dl. La definizione di pre-diabete utilizzando i valori di glicemia a digiuno secondo l’ADA è in genere più sensibile.

Un’emergenza che coinvolge i più giovani

La presenza di una condizione di prediabete in giovane età aumenta notevolmente il rischio di gravi malattie, a partire da quelle cardiovascolari. E poiché la condizione di “diabete latente” è più diffusa di quanto si percepisca comunemente, agire sul fronte dell’educazione e della prevenzione tra i più giovani è una via obbligata. A fine 2019 una ricerca pubblicata su “Jama Pediatrics” segnalava come negli Stati Uniti quasi un adolescente su 5 e un giovane adulto su 4 presentassero una condizione di prediabete d’America. Il 18% dei giovani tra i 12 e i 18 anni e il 24% degli adulti di età compresa tra 19 e 34 anni presentava una forma di prediabete; l’alterata glicemia a digiuno era la condizione maggiormente registrata nel prediabete con una prevalenza dell’11% tra gli adolescenti e del 15,8% tra i giovani adulti. L’allarme può tuttavia essere esteso anche all’Italia. La Società Italiana di Diabetologia (SID) stima che negli ultimi 10 anni la popolazione dei giovani con diabete di tipo 2 sia raddoppiata arrivando a interessare circa 150 mila soggetti. All’ultimo congresso dell’EASD (European Association for the Study of Diabetes), Francesco Purrello, presidente della SID ha spiegato come la letteratura concordi nell’affermare che in questa fascia di età il diabete è tra l’altro più aggressivo. «L’insorgenza di questa condizione in giovane età si associa a un aumentato rischio di complicanze croniche, sia macro che micro-vascolari, legate ad un periodo maggiore di esposizione agli elevati livelli di glicemia».

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