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MORIRE DI CALDO
Nel 2099 2,3 milioni in più di vittime
Roma, Napoli e Milano tra le città europee con più morti
Febbraio
Morti per caldo in aumento: l’Italia tra i paesi più vulnerabili di Rino Dazzo
Caldo: aumentano pure virus e malattie di Rino Dazzo
Riscaldamento globale: quanto ci costi di Rino Dazzo
In Italia 38mila vittime in 30 anni per il clima di Rino Dazzo
Obbligo ECM: modifiche legislative sul tema
INTERVISTE
Schizofrenia: uno studio individua possibili biomarcatori nel sangue di Chiara Di Martino
Tumori, bloccare l’acido lattico per contrastare la resistenza ai farmaci di Ester Trevisan
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Fertilità maschile: identificati geni Y cruciali per la riproduzione di Sara Bovio
Primo genoma sintetico del lievito: svolta storica per la biologia di Carmen Paradiso
Virus respiratorio sinciziale: un rischio per i bambini, un aggravio per i genitori di Elisabetta Gramolini
Staphylococcus aureus: scoperta una mappa genetica del superbatterio di Carmen Paradiso
Impiantato un cuore totalmente artificiale per la prima volta nel sud Italia di Domenico Esposito
Scoperte le proprietà rivoluzionarie della lipocartilagine di Sara Bovio
Il ruolo dell’embriologo nell’ambito multidisciplinare dei centri di PMA di Giovanni Ruvolo
Tumore alla prostata: ok al radiofarmaco di Domenico Esposito
Hikikomori: casi raddoppiati post covid di Domenico Esposito
Emarginati e invisibili: lo stato di salute in Italia di Elisabetta Gramolini
Le opportunità inespresse del mondo microscopico per la società di Simone Pescarolo
Cosmetici con derivati dell’acido cinnamico per supportare il trattamento di dermatosi selezionate di Carla Cimmino
Intelligenza artificiale nella cura della calvizie di Biancamaria Mancini
Zone umide in agonia la crisi climatica si fa sempre più soffocante di Gianpaolo Palazzo
Benefici ambientali e sociali delle comunità energetiche rinnovabili (CER) di Elena De Luca
Per tutelare il mare Ispra recupera reti fantasma lunghe fino a 260 metri di Gianpaolo Palazzo
L’uso insostenibile dell’acqua minaccia la sicurezza alimentare e ambientale di Carmen Paradiso
Alghe coralline: alleate invisibili nella lotta al cambiamento climatico di Carmen Paradiso
Non solo una bevanda ma miniera di molecole preziose e versatili di Gianpaolo Palazzo
Energia e IA: corsa a gas e nucleare di Michelangelo Ottaviano
Berte minori e la tutela della biodiversità di Michelangelo Ottaviano
INNOVAZIONE
Speqtem, un microscopio elettronico avanzato di Pasquale Santilio
Latte di qualità per i neonati fragili di Pasquale Santilio
Eco-ready per la sicurezza alimentare di Pasquale Santilio
Il riso italiano ha la carta di identità di Pasquale Santilio
Palatino, riapre la Schola Praeconum: tornano visibili gli araldi di Rino Dazzo
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Sci alpino, Brignone e l’oro nel parallelo illuminano i mondiali azzurri di Antonino Palumbo
Nella scia dei fenomeni: i nuovi talenti del nuoto azzurro di Antonino Palumbo
“Parità” in figurina: primo album calciatrici Panini di Antonino Palumbo
Ciclismo: a marzo strade bianche e “Sanremo” di Antonino Palumbo
SCIENZE
Antibiotico-resistenza e microplastiche nelle acque reflue ospedaliere di Daniela Bencardino
Il diario alimentare come strumento di salute a scuola di Matteo Pillitteri, et al.
Gestione nutrizionale della donna in gravidanza di Michelina Petrazzuoli
Additivi alimentari, etichette e rischi per la salute umana
di Marco Guida e Federica Carraturo
SPORT
Informazioni per gli iscritti
Si informano gli iscritti che gli uffici della Federazione forniranno informazioni telefoniche di carattere generale dal lunedì al giovedì dalle 9:00 alle ore 13:30 e dalle ore 15:00 alle ore 17:00. Il venerdì dalle ore 9:00 alle ore 13:00
Tutte le comunicazioni dovranno pervenire tramite posta (presso Federazione Nazionale degli Ordini dei Biologi, via Icilio 7, 00153 Roma) o all’indirizzo protocollo@cert.fnob.it, indicando nell’oggetto l’ufficio a cui la comunicazione è destinata.
È possibile recarsi presso le sedi della Federazione Nazionale degli Ordini dei Biologi previo appuntamento e soltanto qualora non sia possibile ricevere assistenza telematica. L’appuntamento va concordato con l’ufficio interessato tramite mail o telefono.
UFFICIO CONTATTO
Centralino 06 57090 200
Ufficio protocollo protocollo@cert.fnob.it
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Anno VIII - N. 2 Febbraio 2025
Edizione mensile di Bio’s
Testata registrata al n. 113/2021 del Tribunale di Roma
Diffusione: www.fnob.it
Direttore responsabile: Vincenzo D’Anna
Giornale dei Biologi
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MORIRE DI CALDO
Nel 2099 2,3 milioni in più di vittime
Roma, Napoli e Milano tra le città europee con più morti
Questo magazine digitale è scaricabile on-line dal sito internet www.fnob.it
Questo numero del “Giornale dei Biologi” è stato chiuso in redazione il 27 febbraio 2025.
Contatti: protocollo@cert.fnob.it
Gli articoli e le note firmate esprimono solo l’opinione dell’autore e non impegnano la Federazione Nazionale degli Ordini dei Biologi.
Immagine di copertina: © Artst0ry/shutterstock.com
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Il lacero mantello delle buone intenzioni
di Vincenzo D’Anna Presidente della Federazione Nazionale degli Ordini dei Biologi
Per coloro che l’avranno studiato ed ancora ne hanno memoria, sento di dover citare un testo classico scritto dallo storico romano Publio Cornelio Tacito: gli “Annali”. In quell’opera, l’autore si sofferma a studiare i segreti della gestione del potere da parte del principe che ne dispone una volta giunto al vertice. Anticipando di quindici secoli Niccolò Machiavelli ed il famoso “Il Principe”, Tacito indaga sull’arte della politica ed in particolar modo su quali metodi di gestione e su quali espedienti ed inganni debba utilizzare il detentore del potere per poterlo difendere conservandolo per quanto più tempo possibile. Una reminiscenza che mi è più volte venuta in mente allorquando qualche iscritto si lamenta o diffonde in giro la metafisica esistenza di un tiranno oppure di un despota alla guida della FNOB ed ancor prima del disciolto ONB. Certo si tratta di un’esigua minoranza, a dir poco ininfluente su di un numero di iscritti che sfiora le sessantamila unità, ma per quanto sparuta sia la consistenza di codesti iscritti, va pur data loro una risposta. Non fosse altro perché dietro quella
Un’esigua minoranza si lamenta o diffonde in giro la metafisica esistenza di un tiranno oppure di un despota alla guida della FNOB
insulsa considerazione si nasconde l’inconfessato desiderio, l’opinione che essi possano e debbano fare - come gli pare e piace - l’esercizio professionale anche contravvenendo alle norme di legge, alla buona prassi professionale ed allo stesso codice deontologico. Il tutto, spesso e volentieri, ignorando le informazioni, le comunicazioni e qualsivoglia notizia che riguardi la vita dei loro ordini territoriali e della stessa Federazione. Ma non basta! Costoro pretendono di porre, all’occorrenza, domande e chiarimenti su fatti e circostanze che a loro interessano, dalle quali emerge sia l’ignoranza dei fatti (sui quali si interrogano), sia l’assoluta pregressa attenzione verso tutto quanto concerne quei fatti stessi che già da mesi magari erano stati chiariti e risolti. Insomma, stiamo
Stiamo parlando di orecchianti distratti, di anarchici e liberi pensatori, che alla fine tutto criticano e di nulla si informano prima di aprir bocca
parlando di orecchianti distratti, di anarchici e liberi pensatori, che alla fine tutto criticano e di nulla si informano prima di aprir bocca. Diversi tra questi peraltro non rivolgono i loro quesiti agli ordini territoriali né alla Federazione nazionale quanto ad altri enti che non hanno né ruolo né facoltà di trattare quegli argomenti! Per non fare nomi ma solo cognomi, nel caso dei cosiddetti Biologi Nutrizionisti (cosiddetti perché manca finora una norma di legge che li riconosca come tali, ma ai più poco importa e poco è nota quella carenza) che rivolgono interpelli, dubbi e quesiti al nostro Ente di Previdenza, l’Enpab, che, in verità, in tempi remoti ha svolto spesso anche compiti vicarianti dell’ONB esorbitando le specifiche competenze istituzionali dell’Ente
di rappresentanza previdenziale.
Una sorta di “surrogato” dell’Ordine/Federazione per coloro che esercitano quell’attività professionale, ossia per parte dei quattordicimila iscritti che si occupano di scienza dell’alimentazione umana. Il che significa circa i due terzi di tutti gli iscritti alla cassa di previdenza. Quindi aventi un peso determinante sulle sorti dell’Enpab.
Circostanza, questa, che ha sempre indotto lo stesso Ente ad essere alquanto accondiscendente alle richieste dei nutrizionisti, ben sapendo di non doverne poi rispondere né di avere responsabilità di sorta innanzi alla legge ed al ministero vigilante. Questi “giovani Signori”, di pariniana memoria, sono quindi abituati a sentirsi risposte affermative e permissive alle proprie richieste, elargite con
Coloro che non possono derogare al dovere di dire le cose come stanno, assumono la sgradita veste di ‘tiranni’ su presunti sudditi
toni suadenti e sorrisi smaglianti dai dirigenti eletti di Enpab, che, ottimamente, utilizzano il “fair play” come metodo dialogico. Questo cozza con il metodo dialogico proposto invece dai dirigenti dell’Ordine i quali però hanno dirette responsabilità sulla conduzione dell’esercizio professionale degli iscritti all’Albo dei Biologi, ne rispondono innanzi alla legge ed al ministero vigilante. Siffatte diverse condizioni operative spesso inducono a dover richiamare e correggere i colleghi, a deluderne le ottimistiche previsioni ed a redarguire chi vìola il codice deontologico e la prassi professionale, oltre che la legge e le norme che pure regolano la loro specifica attività. Quelli dell’Ordine sono dirigenti che non possono elargire sorrisi ed i più disparati assen -
si alle domande che pervengono, peraltro in un clima idilliaco. Nasce in tal modo un’erronea comparazione tra le due diverse tipologie dialogiche, tra i due modi di fare. Coloro che non possono derogare al dovere di dire le cose come stanno assumono la sgradita veste di “tiranni” che maramaldeggiano su presunti sudditi. Ma quando alle strette, quegli stessi “sudditi” chiedono maggiori competenze, riconoscimento del titolo professionale in leggi dello Stato, più posti per potersi specializzare e per potersi formare sul campo, allora sono i “tiranni” a doversi rimboccare le maniche per giungere a soluzioni concrete. Tornando a Tacito, egli individuò gli “Arcana Imperi”, cioè i metodi del comando: tre mantelli che il principe utilizzava per governare
I tiranni non possono indossare l’intentio perché viene richiesto loro di risolvere problemi, non di provarci con buone intenzioni
e rassicurare il popolo. Il primo era per la “salus publica”, ho fatto questa cosa per la tutela della salute del popolo; il secondo il “bonus publicum”, ho fatto questa cosa per il bene del popolo; il terzo, il mantello più lacero perché il più utilizzato, era quello dell’“intentio”, ossia delle “buone intenzioni”, ho fatto questa cosa ma per buona intenzione. I tiranni non possono indossare l’intentio perché viene richiesto loro di risolvere problemi non di provarci con tutte le buone intenzioni senza approdare a nulla. Peraltro questi presunti despoti vengono eletti con democratiche elezioni e queste poco si addicono al dispotismo ma alla libera scelta degli iscritti. Sono legittimati a governare dal voto e dal consenso. E bene fanno a farsi rispettare in ogni caso.
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MORTI PER CALDO IN AUMENTO L’ITALIA TRA I PAESI PIÙ VULNERABILI
Due milioni e 300mila vittime in Europa per il cambiamento climatico fino al 2099
Se non s’interviene, le metropoli della Penisola rischiano di pagare il prezzo più alto
L’Italia potrebbe pagare un tributo pesantissimo al cambiamento climatico, in particolare all’aumento prolungato delle temperature e alle ondate, sempre più diffuse, di caldo torrido previste nei prossimi decenni. A lanciare una volta di più l’allarme è una ricerca condotta dalla London School of Hygiene & Tropical Medicine, a cui hanno partecipato l’Ispra (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale), l’Università Ca’ Foscari di Venezia e l’Asl Roma 1.
Tre metropoli del Belpaese, Roma, Milano e Napoli, e una quarta città, Genova, sono infatti nella top ten – per nulla edificante e soprattutto rassicurante – di centri urbani in cui si stima il maggior numero di vittime dovute proprio all’aumento di temperature entro la fine del secolo. Secondo lo studio, in particolare, le morti potrebbero aumentare di 2,3 milioni in tutta Europa entro il 2099, con una concentrazione di decessi maggiore nell’area mediterranea. E l’Italia, che è al centro del Mare nostrum, come lo chiamavano i Romani, si troverebbe nel pieno dell’emergenza.
La ricerca, di respiro internazionale, ha riguardato 854 città del Vecchio Continente e la loro capacità di affrontare le sfide imposte dal riscaldamento globale. Secondo i promotori
dello studio, anche in presenza di adattamenti degli ambienti urbani e nonostante l’adozione di contromisure, l’aumento dei decessi diventerebbe inevitabile in assenza di azioni rapide, urgenti e non più procrastinabili per ridurre drasticamente le emissioni di carbonio. Che, se adottate e rispettate pienamente, potrebbero ridurre del 70% il numero di morti. Le cifre stimate degli stessi sono impressionanti. Al primo posto ci sarebbe Barcellona, che potrebbe perdere ben 246mila vite fino a fine secolo a causa delle temperature in aumento. Al secondo Roma, con quasi 148mila decessi, tallonata da Napoli, terza con 147mila. Quindi Madrid e un’altra metropoli tricolore, Milano, quinta con poco più di 110mila decessi stimati fino al 2099. Tra le prime dieci città a rischio pure Valencia, Atene, Marsiglia, Bucarest e la quarta italiana, Genova, con poco più di 36mila vittime.
Particolarmente preoccupante l’aumento del tasso di mortalità stimato dai promotori della ricerca per Italia, Spagna, Portogallo e Malta, i paesi considerati più vulnerabili. Se nel periodo 2050-54 il tasso medio di mortalità per caldo è ipotizzato in 91,2 vittime ogni 100mila abitanti, nel periodo 2095-99 la cifra sarebbe più che raddoppiata, con 191,3 morti ogni 100mila abitanti provocati dalle
di Rino Dazzo
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temperature in aumento.
E le città, soprattutto i grandi centri urbani costieri o comunque non lontani dal litorale, pagherebbero un prezzo salatissimo. Secondo il coordinatore dello studio, Pierre Masselot, si può ancora intervenire per evitare il peggio. Ma bisogna agire subito: «I nostri risultati sottolineano l’urgente necessità di perseguire in modo aggressivo sia la mitigazione del cambiamento climatico sia l’adattamento all’aumento del caldo. Ciò è particolarmente critico nell’area del Mediterraneo dove, se non si interviene, le conseguenze potrebbero essere disastrose.Intraprendendo un percorso più sostenibile potremmo evitare milioni di morti prima della fine del secolo».
Se il Mediterraneo rappresenta l’area più esposta e vulnerabile alle insidie del cambiamento climatico, man mano che ci si allontana dalle sue coste si prevedono effetti meno drammatici. In altre capitali come Parigi, Bruxelles, Amsterdam o Berlino, infatti, le morti a causa del caldo registrerebbero infatti degli aumenti, ma meno significativi. In altre città, come quelle del Regno Unito o dei paesi nordici e della Scandinavia, l’aumento delle temperature avrebbe addirittura effetti benefici, riducendo il numero dei decessi provocati dal freddo e dal clima rigido.
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Secondo i promotori dello studio, anche in presenza di adattamenti degli ambienti urbani e nonostante l’adozione di contromisure, l’aumento dei decessi diventerebbe inevitabile in assenza di azioni rapide, urgenti e non più procrastinabili per ridurre drasticamente le emissioni di carbonio. Che, se adottate e rispettate pienamente, potrebbero ridurre del 70% il numero di morti.
© Maksim Safaniuk/shutterstock.com
Un numero minore di vittime, in ogni caso, ampiamente controbilanciato dagli aumenti nel resto d’Europa e in particolare nel sud del continente, col risultato di 2,3 milioni di decessi in più legati al cambiamento climatico. Il fatto che l’aumento del caldo sia comunque un problema più grande per Italia e Spagna rispetto a Francia, Germania o Regno Unito, accresce la preoccupazione sulla capacità di dettare la linea in merito a possibili interventi volti a contrastare il fenomeno.
Tra i co-autori della ricerca c’è l’italiano Antonio Gasparrini, dell’Istituto britannico, che sottolinea: «Questo studio fornisce prove convincenti del fatto che il forte aumento dei decessi legati al caldo supererà di gran lunga qualsiasi calo legato al freddo, con un conseguente aumento netto della mortalità in tutta Europa.
I risultati confutano le teorie sugli effetti ‘benefici’ del cambiamento climatico spesso proposte per opporsi a politiche di mitigazione che invece – è il monito del ricercatore – dovrebbero essere implementate il prima possibile». Insomma, il futuro dell’intero pianeta è legato all’adozione di pratiche e percorsi sostenibili: ma quello dell’Italia, soprattutto delle sue città più grandi e popolose, lo è ancora di più.
© Tom Wang/shutterstock.com
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CALDO: AUMENTANO PURE
VIRUS E MALATTIE
Un altro fattore di rischio: c’è un legame diretto tra alte temperature e maggior circolazione di vettori patogeni
Aumenta il caldo, aumenta pure la circolazione di virus e malattie infettive. Le ondate di calore, diretta conseguenza del riscaldamento globale in atto, potrebbero portare anche a un sensibile aumento delle malattie sensibili al clima in Italia e in tutto il Vecchio Continente. Lo certificano numerose pubblicazioni, tra cui l’ultimo report – datato 2022, ma quanto mai attuale – dell’Agenzia Europea per l’Ambiente: «Cambiamenti climatici come minaccia per la salute e il benessere in Europa: focus su caldo e malattie infettive».
Esiste infatti un legame diretto tra l’aumento del caldo e la possibilità che il clima europeo diventi sempre più idoneo a ospitare agenti patogeni e i loro vettori, con conseguenti maggiori probabilità di trasmissione di malattie su larga scala. Il rischio di importare epidemie dall’estero attraverso viaggi e scambi sempre più frequenti, dunque, si associa alla possibilità, sempre meno campata in aria, che possano insorgere focolai locali di malattie considerate come lontane o esotiche. Se l’Europa del sud, e l’area mediterranea in particolare, sono le più esposte agli aumenti delle tempera -
ture e dei tassi di mortalità, l’Europa centrale e orientale risultano più idonee alla trasmissione sempre più massiccia di malattie come dengue, malaria e West Nile, mentre l’area del Baltico – secondo il rapporto – è più a rischio di infezioni da Vibrio.
L’Europa occidentale e settentrionale, infine, presenta vulnerabilità particolari legate alle alte temperature in relazione agli alti livelli di urbanizzazione e alle elevate percentuali di anziani nella popolazione. Non solo legato all’Europa è poi un altro aspetto: più le temperature si alzano, più aumentano le possibilità di scambio di virus tra tutte le specie animali, con la possibilità di insorgenza di nuove epidemie che dalle loro aree di riferimento – Africa subsahariana e Asia sudorientale, soprattutto –potrebbero trasformarsi rapidamente in pandemie.
Un altro studio pubblicato su Nature stima, infatti, in 15mila i nuovi scambi di virus tra mammiferi nei prossimi 50 anni. Se il cambiamento climatico non sarà arrestato, gli habitat della fauna selvatica si sposteranno e si avvicineranno sempre di più a quelli tipici di altri animali o dello stesso uomo, con conseguente aumento del rischio di spillover, il salto di specie di una malattia da animali a esseri umani. Cosa si può fare per mitigare i rischi? Favorire politiche green e improntate alla sostenibilità, anzitutto. Quindi – come suggeriscono i curatori del rapporto dell’Agenzia Europea per l’Ambiente – attuare piani d’azione specifici, educare e formare gli operatori sanitari e della salute pubblica sulle minacce e sulle sfide dei cambiamenti climatici, investire nella ricerca e nello sviluppo di politiche efficaci, oltre che approntare monitoraggi costanti ed efficaci dei vettori e della sorveglianza delle malattie, intervenendo subito ai primi campanelli d’allarme e predisponendo vaccinazioni o altre misure efficaci di natura sanitaria. (R. D.).
© lassedesignen/shutterstock.com
Oltre che sulla salute, il riscaldamento globale rischia di avere effetti negativi anche sul portafoglio. Anzi, gli aumenti e i rincari sono già una realtà per chi, per vincere la calura, ricorre a condizionatori, ventilatori o altri dispositivi in grado di fornire sollievo contro una canicola che fino a qualche anno fa durava due o tre mesi, adesso invece inizia a maggio e finisce – magari – soltanto in pieno autunno. Anche nel 2025 il cambiamento climatico si farà sentire nelle tasche degli italiani.
Le previsioni degli esperti del settore non lasciano spazio a dubbi: contando gas e luce, una famiglia tipo potrebbe spendere 2.765 euro rispetto ai 2.495 dell’anno precedente. Un aumento superiore al 10%. Contando solo la bolletta dell’energia elettrica, il rincaro previsto è di 105 euro, dalle 805 del 2024 alle 910 del 2025: un aumento vicino al 13%. Colpa delle temperature che non solo sono sempre più alte e che minacciano di esserlo sempre di più in futuro, ma che – appunto – rimangono elevate per un periodo sempre più esteso nel corso dell’anno.
Certo, il caldo non è l’unico responsabile degli aumenti. Che sono legati anche all’instabilità internazionale, alla presenza o meno di guerre e conflitti, all’imposizione di dazi e gabelle per l’acquisto dell’energia. Una possibile soluzione per il contribuente? Contenere per quanto possibile i costi e mettersi in proprio. Come? Riducendo per quanto possibile gli sprechi, investendo sempre di più in tecnologie innovative e sostenibili e ricorrendo a forme di energia pulita.
Tutto questo, insieme all’adozione di comportamenti responsabili, può essere il modo più efficace non solo per abbassare gli importi da versare in bolletta, ma anche per contribuire attivamente alla lotta contro il cambiamento climatico e il surriscaldamento del pianeta. Che sta mettendo in crisi, tra gli altri, un settore cruciale del mondo dell’abbigliamento: quello specializza-
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RISCALDAMENTO GLOBALE
QUANTO CI COSTI
Bollette più alte per l’uso intensivo di condizionatori e anche il settore dell’abbigliamento invernale è in crisi
to in capi invernali. I dati non mentono e fotografano in modo impietoso il momento no del comparto.
Tutti i marchi outdoor specializzati in giubbotti, giacconi, accessori e calzature da alta montagna, ma anche in attrezzatura tecnica o sportiva per sci, trekking e discipline invernali accusano da alcuni anni preoccupanti cali nelle vendite. Anni in cui il clima si è trasformato, rimanendo sempre più estivo o primaverile anche in mesi – è il caso di ottobre – che un tempo segnavano il cambio nelle abitudini dei consumatori.
Oggi gli inverni durano sempre
meno ed è più forte la tendenza in chi compra a ponderare meglio gli acquisti, valutando di volta in volta i prodotti da sistemare nel proprio guardaroba o comprando su piattaforme web capi già usati.
Per contrastare la flessione il settore moda le sta provando tutte. Anticipare la data d’inizio dei saldi e prolungare la loro durata, ad esempio. Ma con risultati non consoni alle aspettative, almeno a giudicare dal grido di dolore delle associazioni di categoria, Confesercenti in testa, che continuano a invocare interventi governativi. (R. D.).
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IN ITALIA 38MILA VITTIME
IN
30 ANNI PER IL CLIMA
Il nostro paese è primo in Europa e quinto al mondo per i danni causati da eventi estremi e fenomeni naturali
Se le previsioni sono allarmanti – due milioni e 300mila morti in Europa fino al 2099 per il caldo in aumento, con l’Italia e l’area mediterranea tra le più flagellate – le stime delle vittime che il cambiamento climatico ha già provocato sono altrettanto impietose.
L’associazione ambientalista Germanwatch nel suo «Climate Risk Index 2025», rapporto basato sui dati dell’International disaster database e su quelli forniti dal Fondo monetario internazionale, ha fatto la conta dei morti provocati dal clima dal 1993
al 2022: quasi 800mila, 765mila per la precisione, causati da più di 9.400 eventi meteo estremi. I danni? Circa 4.200 miliardi di dollari, quanto il Pil di un paese altamente industrializzato come la Germania.
Se a guidare la tragica classifica mondiale dei decessi sono paesi come Dominica, Cina, Honduras e Myanmar, al quinto posto – prima in Europa – c’è l’Italia, con oltre 38mila vittime e danni per una sessantina di miliardi di dollari. Soltanto nel 2022 il nostro paese si è piazzato al terzo posto a livello mondiale, dietro soltanto Pakistan e Belize. Un macabro
e dolorosissimo trend che l’Italia condivide con altri paesi affacciati sul Mediterraneo, Spagna e Grecia, guarda caso i tre stati dell’Unione Europea tra i dieci più colpiti al mondo, a livello di vittime, dal 2003 al 2022.
«Le temperature torride, la siccità, gli incendi, la riduzione della produttività agricola, i danni alle infrastrutture e la pressione sui servizi sanitari e sulle reti energetiche hanno contribuito a queste perdite», spiega Lina Adil, una delle autrici del rapporto nonché policy advisor di Germanwatch. Se nell’ultimo ventennio l’Italia ha registrato a più riprese ondate di calore estremo, «anche le forti inondazioni, soprattutto lungo il fiume Po, come quelle del 1994 e del 2000 in Piemonte, hanno causato vaste distruzioni». Da qui la necessità di mettere in campo azioni e misure più efficaci per fronteggiare catastrofi naturali ed eventi sempre meno in linea con le abitudini del passato.
«Meno investiamo oggi nella mitigazione e nell’adattamento, più saranno elevati i costi umani ed economici in futuro», è il monito di David Eckstein, consigliere di Germanwatch, co-autore del report. Un invito condiviso dal Wwf Italia: «Auspichiamo che i dati di questo rapporto inducano anche il Governo e il Parlamento italiani a prendere iniziative attive per rilanciare l’azione climatica in tutte le sedi, da quelle multilaterali al G7 e G20. E a fare la propria parte per abbattere le emissioni di gas serra».
Un altro aspetto su cui lavorare è rappresentato dalla mutualità relativa a sciagure e disastri: dal 1980 i fenomeni naturali gravi in Italia sono praticamente raddoppiati, ma appena il 6% delle abitazioni e il 5% delle imprese sono coperte da assicurazione. Il motivo? I costi delle polizze piuttosto alti. «Solo un’ampia diffusione della copertura è in grado di permettere il contenimento dei prezzi delle polizze stesse», assicura il segretario generale dell’Ivass, Stefano De Polis. (R. D.).
© New Africa/shutterstock.com
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Di seguito riportiamo una sintesi delle modifiche apportate in sede legislativa sul tema ECM, i Crediti formativi in medicina obbligatori per tutte le professioni sanitarie.
Con l’approvazione definitiva del Decreto Milleproroghe, la scadenza per il recupero dei crediti ECM è stata ufficialmente prorogata fino al 31 dicembre 2025.
Un cambiamento che offre due anni in più per mettersi in regola con l’obbligo formativo ed evitare sanzioni. Il cambiamento riguarda lo spostamento crediti al triennio 2020-2022 che viene prorogato al 31/12/2025. In precedenza, il termine era fissato al 31 dicembre 2023. Questa estensione consente ai professionisti sanitari di regolarizzare la propria posizione per il triennio 2020-2022 senza il rischio di sanzioni disciplinari o limitazioni professionali.
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OBBLIGO ECM: MODIFICHE
LEGISLATIVE SUL TEMA
Le novità inerenti all’acquisizione dei crediti in medicina e le modalità per ottemperare ai trienni formativi
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È stato inoltre apportato un ampliamento dei trienni formativi considerati.
In precedenza, infatti, il recupero era consentito solo per i trienni 20142016 e 2017-2019, adesso viene incluso anche il triennio 2020-2022. I professionisti sanitari che non hanno raggiunto il fabbisogno formativo per uno o più di questi trienni potranno completare i crediti mancanti entro la fine del 2025.
Le modalità per il recupero dei crediti saranno definite dalla Commissione nazionale per la formazione continua, che dovrà emanare un apposito provvedimento.
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SCHIZOFRENIA
UNO STUDIO INDIVIDUA POSSIBILI BIOMARCATORI NEL SANGUE
Al centro della ricerca due amminoacidi atipici
Ne parla Alessandro Usiello del Ceinge di Napoli
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SI livelli sierici di due amminoacidi atipici D-aspartato e D-serina potrebbero rappresentare biomarcatori utili per tracciare gli stadi precoci di psicosi, candidandosi a diventare potenziali indicatori di rischio della transizione da fasi prodromiche del disturbo all’esordio conclamato della malattia.
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embrano essere nel sangue due spie della schizofrenia, un disturbo – le cui cause sono in gran parte ancora sconosciute – che secondo l’Oms colpisce, nel mondo, circa 24 milioni di persone, 245mila in Italia.
Uno studio tutto italiano, pubblicato sulla rivista del gruppo Nature, Schizophrenia, che porta la firma di Ceinge Biotecnologie
Avanzate Franco Salvatore di Napoli e Università Aldo Moro di Bari, con la collaborazione di Azienda Ospedaliero-Universitaria Consorziale Policlinico di Bari, Università Federico II di Napoli, Irccs Ca’ Granda Ospedale Maggiore Policlinico di Milano e Università Luigi Vanvitelli della Campania. Sotto i riflettori, due amminoacidi atipici, in quanto non implicati nella biosintesi delle proteine, le cui concentrazioni appaiono ‘alterate’ nei soggetti a rischio di schizofrenia. Che, in due parole, può voler dire: diagnosi precoce delle psicosi.
A coordinare lo studio, Alessandro Usiello, direttore del Laboratorio di Neuroscienze Traslazionali del CEINGE e professore ordinario di Biochimica Clinica dell’Università della Campania Lugi Vanvitelli. È lui a indicarci la portata delle prospettive aperte da questa ricerca.
Cominciamo dal principio
Allora dobbiamo tornare indietro a qualche anno fa se vogliamo far riferimento alle prime nostre scoperte sull’argomento nelle quali trovammo in collaborazione con il professore di biochimica Loredano Pollegioni nei cervelli post mortem di pazienti con schizofrenia una significativa alterazione del metabolismo del D-aspartate .
L’idea è stata fin dall’inizio quella di caratterizzare da un punto di vista neurobiologico le funzioni di questa classe di amminoacidi denominati atipici, in quanto “non rilevanti per la sintesi proteica”.
E quali sono?
D-aspartato e D-serina. Pionieristici studi negli anni 80-90 condotti da scienziati giapponesi, americani ed italiani hanno dimostrato che i D-amminoacidi ritenuti dogmaticamente peculiari molecole del mondo batterico venivano altresì trovati in concentrazioni rilevanti nel cervello dei mammiferi agendo come possibili molecole segnale per i recettori del glutammato NMDA (n-metil-d-aspartato).
In particolare, mentre per la D-serina il suo ruolo come co-agonista dei recettori NMDA a livello delle sinapsi eccitatorie è
di Chiara Di Martino
stato descritto in numerosi studi; il significato fisiologico del D-aspartato - particolarmente abbondante durante lo sviluppo del cervello è restato per molto tempo enigmatico e per questo motivo di grande curiosità nella comunità scientifica.
Le nostre ricerche precliniche, nel corso degli ultimi 15 anni, hanno portato ad oltre 50 pubblicazioni scientifiche su riviste internazionali che nel complesso hanno dimostrato che il D-aspartato similarmente alla D-serine stimola i recettori NMDA influenzando in modo incisivo la trasmissione sinaptica e modulando i processi nervosi sottesi alla memoria e all’attenzione e al comportamento sociale.
Lo step successivo agli studi preclinici?
Con Francesco Errico, associato di Biochimica all’ Università Federico II, Loredano Pollegioni, Ordinario di Biochimica presso l’Università dell’ Insubria e con il coinvolgimento di tre neuropsichiatri di rinomata fama Internazionale Antonio Rampino e Alessandro Bertolino dell’Università di Bari Aldo Moro, e Andrea De Bartolomeis, Federico II di Napoli abbiamo nel corso degli anni studiato le relazioni tra metabolismo cerebrale del D-aspartate e schizofrenia in specifiche aree cerebrali di cervelli post-mortem di pazienti con diagnosi di malattia quando comparati ai soggetti di controllo.
Recentemente, in un piccolo studio pilota abbiamo altresì descritto con similarmente a quanto identificato nella corteccia dei pazienti con schizofrenia il D-aspartato fosse down regolato anche nel siero di pazienti con forme croniche di schizofrenia. Quello che è importante precisare è che i livelli nel sangue di una molecola non sono misura di ciò che succede a livello neuronale, eppure i due sistemi sono in qualche modo interdipendenti.
E il nuovo studio?
Il campione della coorte di soggetti analizzata da un punto di vista biochimico clinico si è ampliata in modo rilevante, infatti con l’Università di Bari abbiamo studiato circa 250 soggetti, ma soprattutto abbiamo caratterizzato 4 gruppi sperimentali con diagnosi diverse: controlli sani, pazienti a rischio psi -
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© Africa Studio/shutterstock.com
cosi, pazienti con esordio della psicosi e pazienti con schizofrenia cronica e conclamata.
Abbiamo confermato quanto già pubblicato in altre ricerche dove amminoacidi come -glutammato, glicina, L-serina e aspartato sono up regolati nella fase cronica -, ma abbiamo altresì dimostrato per la prima volta l’aumento di D-aspartato e D-serina, che aumentano specificatamente nella fase di esordio, mentre tendono a diminuire nel sangue dei pazienti schizofrenici in fase cronica.
Sinteticamente?
I livelli sierici di due amminoacidi atipici D-aspartato e D-serina potrebbero rappresentare biomarcatori utili per tracciare gli stadi precoci di psicosi, candidandosi a diventare potenziali indicatori di rischio della transizione da fasi prodromiche del disturbo all’esordio conclamato della malattia.
Cosa c’è nel prossimo futuro?
Ampliare ulteriormente la coorte di pazienti con schizofrenia, investigare i livelli del D-aspartate nei pazienti con disturbo bipolare e, ancora più avanti, puntare a possibili trial clinici per ipotizzare l’utilizzo di D-aspartato nella supplementazione alimentare di pazienti con schizofrenia.
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A coordinare lo studio, Alessandro Usiello, direttore del Laboratorio di Neuroscienze Traslazionali del CEINGE e professore ordinario di Biochimica Clinica dell’Università della Campania Lugi Vanvitelli.
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TUMORI, BLOCCARE L’ACIDO LATTICO PER CONTRASTARE
LA RESISTENZA AI FARMACI
L’acido lattico prodotto dalle cellule tumorali neutralizza le terapie con farmaci antineoplastici
Il professor Antonio Mazzocca, coordinatore dello studio realizzato dall’Università di Bari, ci racconta i dettagli
di Ester Trevisan
Professor Mazzocca, perché molti tumori sviluppano una risposta refrattaria alle terapie oncologiche?
Diverse sono le ragioni e i meccanismi conosciuti per cui i tumori possono diventare refrattari alle terapie oncologiche. In linea generale, si può dire che le cellule tumorali sono entità dinamiche mai presenti in uno stato di fissità biologica. Cioè sistemi dinamici complessi in grado di rispondere a stimoli esterni, come per i farmaci, e sviluppare robustezza del sistema.
La natura dinamica dei tumori e la loro capacità di sviluppare resistenza complicano le strategie di trattamento, ponendo sfide allo sviluppo di terapie efficaci che dobbiamo affrontare.
Tra i meccanismi alla base della farmaco-resistenza c’è anche il cosiddetto effetto Warburg, su cui si è focalizzata la ricerca del suo team. Ci spiega in cosa consiste?
Abbiamo osservato che quando le cellule tumorali diventano resistenti ai farmaci, potenziano la capacità di fermentare il glucosio in lattato a scapito della respirazione cellulare, il cosiddetto effetto Warburg, appunto. Ancora più importante è l’aver scoperto che il lattato blocca la fosforilazione ossidativa e quindi la respirazione cellulare, alimentando così l’effetto Warburg.
Come si può intervenire per bloccare questo fenomeno e ripristinare la sensibilità delle cellule tumorali ai farmaci?
Ciò che noi abbiamo fatto, per esempio, è inibire sperimentalmente la produzione di lattato mediante l’inibizione dell’enzima lattato deidrogenasi e riattivare la respirazione mediante attivatori del complesso IV della catena respiratoria mitocondriale. Così facendo, abbiamo osservato che le cellule tumorali diventano sensibili ai farmaci verso i quali avevano sviluppato resistenza.
Gli esiti di questo studio trovano conferma anche nella teoria sistemico-evoluzionistica sull’origine del cancro (SETOC) formulata in altri studi condotti da lei. Su quali principi si basa la SETOC?
La SETOC integra un principio di biologia evoluzionistica, l’endosimbiosi, con la biologia dei sistemi. L’endosimbiosi è il processo dal quale ha avuto origine la cellula eucariotica. Circa due miliardi e mezzo di anni fa, l’unione di due batteri ha dato origine a un endosimbionte che sarebbe poi diventato la cellula eucariotica.
Più precisamente, si ritiene che un archebatterio, probabilmente un’archea di Asgard, che alla fine ha formato il nucleo-citoplasma, abbia fagocitato senza eliminarlo un α -proteobatterio che, in seguito, è
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diventato il mitocondrio. L’approccio della biologia dei sistemi utilizzato dalla SETOC si concentra proprio sulle complesse interazioni tra questi due sistemi cellulari: il nucleo-citoplasma (l’archea ancestrale) e il mitocondrio (il proteobatterio ancestrale).
In condizioni fisiologiche, i due sistemi sono perfettamente integrati da un punto di vista funzionale e questo garantisce la differenziazione e lo stato di coesione delle cellule nei tessuti. Tuttavia, in risposta a insulti persistenti, che nel tempo causano rimodellamento del tessuto, infiammazione cronica e fibrosi, le cellule vanno incontro a un continuo processo di adattamento alle alterate condizioni del microambiente tissutale che alla fine si traduce in un maladattamento.
Questo processo vede alla base un meccanismo che possiamo definire di de-endosimbiosi, ossia la progressiva rottura della relazione endosimbiontica tra i due sottosistemi cellulari: il nucleare-citoplasmatico e il mitocondriale. Questa rottura porta a funzioni e comportamenti cellulari non coordinati con prevalenza di un sistema rispetto all’altro (in genere il vecchio archea), portando alla fine alla trasformazione neoplastica.
Per sopravvivere alle mutate condizioni, l’intero sistema cellula si riadatta, diventando più robusto grazie all’impiego di antichi programmi conservati con l’evoluzione nelle nostre cellule. Programmi simili a quelli utilizzati da certi batteri e lieviti, come per esempio la fermentazione lattica o il ciclo di Krebs in modalità reversa. La SETOC pone,
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Le cellule tumorali sono entità dinamiche mai presenti in uno stato di fissità biologica. Cioè sistemi dinamici complessi in grado di rispondere a stimoli esterni, come per i farmaci, e sviluppare robustezza del sistema. La natura dinamica dei tumori e la loro capacità di sviluppare resistenza complicano le strategie di trattamento, ponendo sfide allo sviluppo di terapie efficaci.
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quindi, l’enfasi sui meccanismi evolutivi di endosimbiosi coinvolti nello sviluppo del cancro rispetto ai più tradizionali processi di selezione darwiniana che si affidano esclusivamente alle mutazioni genetiche per spiegare il vantaggio competitivo delle cellule. La de-endosimbiosi consente alle cellule tumorali di adattarsi, evolversi e prosperare attivando meccanismi di sopravvivenza primordiali.
Da chi è composto il gruppo di ricerca?
Dai dottori Davide Gnocchi, Dragana Nikolic, Rita Paparella, che desidero ringraziare insieme ad altri collaboratori.
Antonio Mazzocca
è Professore Ordinario di Patologia Generale presso la Scuola di Medicina dell’Università di Bari, dove svolge ricerche sul cancro.
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Dopo la laurea in Medicina e Chirurgia e il Dottorato di Ricerca in Fisiopatologia Clinica, ha condotto ricerche negli Stati Uniti, prima alla Harvard Medical School e poi alla Vanderbilt University. I suoi interessi scientifici sono rivolti ai meccanismi eziopatogenetici alla base dello sviluppo del cancro. Autore di numerose pubblicazioni scientifiche su riviste internazionali, propone la teoria “sistemico-evoluzionistica” sull’origine del cancro denominata SETOC. È autore del saggio “Teorie del Cancro” edito da Santelli.
Iricercatori del Francis Crick Institute di Londra hanno scoperto quali geni del cromosoma Y regolano lo sviluppo degli spermatozoi e influiscono sulla fertilità maschile. Lo studio, pubblicato su Science, fornisce nuove conoscenze che potrebbero aiutarci a capire perché alcuni uomini non producono abbastanza spermatozoi e altri sono sterili. Il patrimonio genetico degli esseri umani è composto da 23 coppie di cromosomi, compresa una coppia di cromosomi sessuali, XX per le femmine e XY per i maschi. Tra i cromosomi, che solitamente contengono centinaia o migliaia di geni, il cromosoma Y è un’eccezione, poiché comprende solo poche decine di geni. Nonostante le sue ridotte dimensioni, Y è noto agli scienziati per essere fondamentale per la fertilità maschile nei mammiferi. Finora però è stato poco chiaro quali fossero nello specifico i geni più importanti presenti su questo cromosoma nel processo di spermatogenesi e per garantire la riproduzione.
Nello studio gli scienziati hanno utilizzato la tecnica dell’editing genetico con lo scopo di rimuovere in modo selettivo alcuni geni Y e dopo osservare l’effetto prodotto sulla fertilità. Hanno quindi analizzato la capacità di riprodursi esaminando il numero di figli, il numero di spermatozoi prodotti, l’aspetto e la motilità dello sperma.
Dai risultati della ricerca è emerso che sul cromosoma Y sono presenti diverse famiglie di geni fondamentali per la riproduzione. La rimozione di alcuni di questi geni, infatti, non consentiva che la riproduzione andasse a buon fine a causa dell’assenza o della riduzione del numero di spermatozoi, della mancata produzione di una riserva di cellule staminali spermatiche o di una forma o un movimento anomalo dello sperma.
Un altro aspetto sottolineato dai ricercatori è che altri geni non hanno avuto alcun effetto sulla fertilità se rimossi singolarmente, ma hanno portato alla produzione di spermatozoi anomali se rimossi insieme. È questo il caso di un gruppo di tre geni presenti sulla regione del cromosoma chiamata AZFa. Come spiegano gli autori della ricerca, le delezioni di AZFa sono una causa comune dei casi più gravi di infertilità maschile, ma non era chiaro quali geni della regione ne fossero responsabili.
I risultati dello studio inglese suggeriscono che molti geni Y svolgono un ruolo nella fertilità maschile e possono compensarsi a vicenda in caso di perdita di un gene. Ciò significa anche che alcuni casi di infertilità sono probabilmente dovuti alla
FERTILITÀ IDENTIFICATI GENI PER LA RIPRODUZIONE
Uno studio inglese scopre sul di diverse famiglie di geni implicati in difetti di terapie per correggere
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MASCHILE
GENI Y CRUCIALI
RIPRODUZIONE
sul cromosoma Y la presenza difetti di fertilità aprendo così allo sviluppo correggere mutazioni dannose
perdita di più geni contemporaneamente. Come spiegato dagli autori, oltre a regolare lo sviluppo e la produzione degli spermatozoi, alcuni geni Y sono attivi anche in altri organi, come il cuore e il cervello, dove possono svolgere ruoli molto importanti. Inoltre, con l’età, alcuni uomini possono perdere i cromosomi Y nel sangue a causa di errori nella divisione cellulare. Questa perdita si assocerebbe allo sviluppo di condizioni come il morbo di Alzheimer o il cancro. Per questo motivo, i ricercatori del laboratorio Sex Chromosome Biology del Francis Crick Institute stanno proseguendo gli studi con lo scopo di capire cosa succede in altri organi in caso di delezioni nel gene Y.
Jeremie Subrini, ricercatore del laboratorio di biologia dei cromosomi sessuali e primo autore dello studio, ha dichiarato: «La nostra ricerca ha dimostrato che per la fertilità maschile sono necessari più geni Y di quanto si pensasse. Abbiamo visto che alcuni geni sono cruciali, ma altri hanno un effetto cumulativo. Storicamente, il cromosoma Y è stato frainteso. Per molto tempo si è pensato che non fosse essenziale negli adulti e alcuni hanno persino ipotizzato che sarebbe scomparso del tutto. Ora sappiamo che non è così!».
Già in seguito alla prima descrizione di questo cromosoma nel 1921 la comunità scientifica ha espresso delle opinioni divergenti sul ruolo del cromosoma Y e sulla sua importanza nell’uomo. Data l’abbondanza di sequenze non codificanti, per un lungo periodo di tempo Y è stato considerato inerte dal punto di vista genetico e la sua estinzione futura è stata ipotizzata da alcuni scienziati.
Secondo James Turner, autore responsabile dello studio, l’infertilità è un grosso problema, tanto che una coppia su sei, fatica a concepire. Oggi sappiamo che in una percentuale significativa di casi, i fattori genetici, in particolare quelli che coinvolgono le microdelezioni del cromosoma Y, ne sono la causa. Tuttavia, i dettagli sono difficili da individuare in parte perché il sequenziamento e lo studio del cromosoma Y sono tecnicamente impegnativi.
«Ora che abbiamo fatto luce sui geni del cromosoma Y – conclude Turner - sarà importante iniziare a sequenziare Y in un numero sempre maggiore di individui, per scoprire potenzialmente cause inspiegabili di infertilità maschile. Con nuove ricerche, un giorno potremmo essere in grado di sostituire i geni mancanti nelle cellule che producono lo sperma per aiutare le coppie ad avere figli attraverso la fecondazione in vitro». (S. B.).
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Dai risultati della ricerca è emerso che sul cromosoma Y sono presenti diverse famiglie di geni fondamentali per la riproduzione. La rimozione di alcuni di questi geni, infatti, non consentiva che la riproduzione andasse a buon fine a causa dell’assenza o della riduzione del numero di spermatozoi, della mancata produzione di una riserva di cellule staminali spermatiche o di una forma o un movimento anomalo dello sperma.
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Dopo oltre dieci anni di ricerca, gli scienziati completano la sintesi del genoma di un organismo eucariotico, aprendo la strada a innovazioni in farmaceutica, bioenergia e materiali sostenibili
PRIMO GENOMA SINTETICO DEL LIEVITO: SVOLTA STORICA PER LA BIOLOGIA
Dopo oltre un decennio di ricerca e sviluppo, il progetto di costruzione del primo genoma completamente sintetico di un organismo eucariotico, il lievito saccharomyces cerevisiae, ha raggiunto il suo traguardo. Il risultato, pubblicato sulla rivista Nature Communications, rappresenta un passo storico per la biologia sintetica, aprendo nuove prospettive nella progettazione e costruzione di organismi su misura per applicazioni biotecnologiche.
Lo studio è stato guidato da un team internazionale di scienziati della Macquarie University in Australia, con il coordinamento di Isak Pretorius e Ian Paulsen. Questo lavoro non solo fornisce nuove conoscenze su come costruire cromosomi da zero, ma permette anche di correggerli in modo mirato, aprendo la strada a organismi più resilienti e ottimizzati per la produzione di farmaci, biocarburanti e altri prodotti industriali.
Il lievito Saccharomyces cerevisiae è stato scelto come modello per questa impresa perché, pur essendo un organismo unicellulare, condivide molte caratteristiche con le cellule umane ed è ampiamente utilizzato nell’industria alimentare, farmaceutica e biotecnologica. Inoltre, il suo genoma relativamente piccolo, ma più complesso di quello dei batteri, ha rappresentato una sfida ideale per testare la capacità di ingegnerizzazione del Dna su larga scala.
Dopo anni di lavoro, i ricercatori sono riusciti a costruire tutti i cromosomi sintetici del lievito, completando un puzzle genetico che ha richiesto sofisticate tecnologie di editing del Dna e di sintesi genetica. Uno degli aspetti più innovativi di questo studio è stata l’applicazione di tecniche avanzate per la costruzione e la modifica del genoma, in particolare la tecnologia Crispr D-Bugs. Questo metodo prende spunto dall’informatica, dove i bug rappresentano errori di programmazione che devono essere individuati e corretti. Nel caso del Dna sintetico, la Crispr D-Bugs è stata utilizzata per scansionare il codice genetico e identificare errori che compromettevano la funzionalità del lievito.
Infatti, una delle difficoltà riscontrate dai ricercatori è stata la scoperta che alcune costruzioni genetiche, pur teoricamente corrette, non permettevano una crescita normale dell’organismo. Il problema risiedeva nel fatto che alcuni geni fondamentali venivano attivati o disattivati in momenti sbagliati, interferendo con il meta-
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L’ingegneria genetica sta entrando in una nuova era in cui la progettazione di organismi su misura diventerà una realtà sempre più concreta. Il completamento del genoma sintetico del lievito rappresenta una piattaforma tecnologica che potrebbe rivoluzionare la produzione industriale, ridurre gli sprechi e migliorare la sostenibilità ambientale. Gli scienziati prevedono che, con il continuo avanzamento delle tecnologie di sintesi e modifica genetica, sarà possibile applicare lo stesso approccio ad altri organismi unicellulari e, in futuro, anche a piante e altri organismi complessi.
bolismo della cellula. Grazie alla Crispr D-Bugs, gli scienziati sono stati in grado di correggere questi problemi, migliorando il design del cromosoma sintetico finale. L’importanza di questo risultato va oltre la semplice realizzazione di un lievito sintetico. La possibilità di progettare e costruire cromosomi personalizzati apre la strada a un futuro in cui gli organismi possono essere ottimizzati per svolgere specifiche funzioni industriali e farmaceutiche.
Uno degli obiettivi principali della biologia sintetica è quello di creare microrganismi in grado di produrre farmaci in modo più efficiente ed economico. Il lievito Saccharomyces cerevisiae è già utilizzato per la produzione di insulina, vaccini e altri farmaci, ma con la modifica genetica su misura, potrebbe essere reso ancora più efficace. Un’altra importante applicazione riguarda la produzione di biocarburanti e materiali sostenibili. I lieviti sintetici potrebbero essere utilizzati per convertire fonti di carbonio rinnovabili in biocarburanti avanzati, riducendo la dipendenza dai combustibili fossili. Inoltre, potrebbero essere impiegati per sintetizzare plastiche biodegradabili o altri materiali ecocompatibili.
L’ingegneria genetica sta entrando in una nuova era in cui la progettazione di organismi su misura diventerà una realtà sempre più concreta. Il completamento del genoma sintetico del lievito rappresenta una piattaforma tecnologica che potrebbe rivoluzionare la produzione industriale, ridurre gli sprechi e migliorare la sostenibilità ambientale. Gli scienziati prevedono che, con il continuo avanzamento delle tecnologie di sintesi e modifica genetica, sarà possibile applicare lo stesso approccio ad altri organismi unicellulari e, in futuro, anche a piante e altri organismi complessi. Tuttavia, questa nuova frontiera della biotecnologia solleva anche importanti questioni etiche e di biosicurezza. La capacità di creare organismi sintetici su misura impone una regolamentazione rigorosa per garantire che tali tecnologie vengano utilizzate in modo sicuro ed etico. Il completamento del primo genoma sintetico del lievito Saccharomyces cerevisiae segna un momento storico per la biologia sintetica. Dopo oltre dieci anni di ricerca, i ricercatori hanno dimostrato che è possibile progettare, costruire e correggere geneticamente un organismo eucariotico complesso, aprendo nuove possibilità per l’industria biotecnologica. (C. P.).
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Quasi un terzo (32,9%) delle infezioni respiratorie acute nei bambini in età prescolare è associato al virus respiratorio sinciziale.
La durata media della malattia è di circa 12 giorni, con oltre il 45% dei genitori che ha dovuto assentarsi dal lavoro e il 70% dei bambini che ha perso giorni di scuola o asilo.
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Non è solo il responsabile di un terzo delle infezioni respiratorie dei bambini sotto i cinque anni è anche, a cascata, il motivo di assenza dal posto di lavoro per i genitori che necessariamente accudiscono i piccoli. È il virus respiratorio sinciziale (Rsv), una delle principali cause di bronchiolite e di polmonite nei bambini in età prescolare.
Uno studio, pubblicato su The Lancet Respiratory Medicine, ha valutato l’impatto sociale di questa patologia su famiglie e servizi sanitari in cinque Paesi europei: Italia, Belgio, Paesi Bassi, Spagna e Regno Unito. La ricerca, a cui ha partecipato in qualità di partner l’Università di Pisa, dal 2021 al 2023, ha coinvolto oltre 3.400 bambini attraverso il National institute for public health and the environment con sede nei Paesi Bassi.
Già a livello mondiale la letteratura mostra come il virus respiratorio sinciziale causi ogni anno circa 33 milioni di infezioni delle basse vie respiratorie nella popolazione pediatrica, con 3,6 milioni di ospedalizzazioni e oltre 100mila decessi. Il costo indotto è di circa 4,82 miliardi di euro. Più del 60% dei bambini contrae il virus entro il primo anno di vita e quasi tutti entro i due anni. Considerando un’intera coorte di nascita, circa il 20% dei neonati sviluppa un’infezione grave che richiede assistenza medica, quasi il 4% nel primo anno di vita necessita di ospedalizzazione, mentre tra i ricoverati, il 20% finisce in terapia intensiva.
In base ai risultati della ricerca appena pubblicata, limitata alla popolazione di riferimento, quasi un terzo (32,9%) delle infezioni respiratorie acute nei bambini in età prescolare è associato al virus. La durata media della malattia è di circa 12 giorni, con oltre il 45% dei genitori che ha dovuto assentarsi dal lavoro e il 70% dei bambini che ha perso giorni di scuola o asilo. I dati evidenziano inoltre notevoli differenze tra i Paesi coinvolti nello studio in termini di approcci terapeutici, di utilizzo delle risorse sanitarie e di impatto sociale.
“Questo studio – osservano gli autori nell’articolo – sottolinea l’importanza di considerare le stime dell’onere delle cure primarie specifiche per paese quando si considera l’implementazione dei programmi di vaccinazione per il virus respiratorio sinciziale (Rsv)”.
La parte dedicata all’Italia rivela che il tasso di positività al virus sinciziale nei bambini è
VIRUS RESPIRATORIO UN RISCHIO UN AGGRAVIO
Uno studio pubblicato su The Lancet della patologia su famiglie e
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RESPIRATORIO SINCIZIALE
PER I BAMBINI
PER I GENITORI
Lancet Respiratory Medicine ha valutato l’impatto sociale servizi sanitari in cinque Paesi fra i quali l’Italia
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stato del 42,6%, il più alto tra i Paesi partecipanti. I bambini italiani sono stati sottoposti in media a tre visite in assistenza primaria, dato che ci mette al pari della Spagna contro le 1,4 dei Paesi Bassi. La durata media della malattia è stata di 11,7 giorni, poco al di sotto della media generale. Il 76,8% dei bambini italiani RSV-positivi ha ricevuto farmaci, con broncodilatatori e antibiotici tra i più prescritti, mentre in Paesi come il Regno Unito, il ricorso alle medicine è stato più limitato. In linea con il dato generale, il 45,7% dei genitori italiani si è dovuto assentare dal lavoro con una media di 4,1 giorni persi, dato che ci equipara al Belgio contro invece 1,3 giorni della Spagna.
“I risultati mettono in luce la necessità di migliorare la prevenzione per alleviare il carico sulle famiglie e sui sistemi sanitari, soprattutto nel periodo invernale in cui il virus circola di più”, spiega Caterina Rizzo, ordinario di Igiene e medicina preventiva presso il dipartimento di Ricerca traslazionale e delle nuove tecnologie in medicina e chirurgia all’Università di Pisa. “Negli ultimi anni – aggiunge – sono stati approvati in Europa nuovi strumenti preventivi contro il virus sinciziale, tra cui un nuovo anticorpo monoclonale che permette di immunizzare i neonati ed un vaccino da somministrare durante la gravidanza, si tratta di misure che possono avere un impatto positivo non solo sulla salute dei bambini, ma anche sull’organizzazione complessiva delle cure primarie”.
Divisi sui rischi del nuovo farmaco
Nei mesi scorsi, in Italia, la Società italiana di pediatria (Sip) e la Società italiana di neonatologia (Sin) tramite una nota congiunta, hanno richiesto che la protezione dal virus respiratorio sinciziale “sia offerta a tutti i nuovi nati” attraverso la somministrazione dell’anticorpo monoclonale Nirsevimab-Beyfortus.
Le due Società sono andate così contro un’altra nota dell’Istituto superiore di sanità, indirizzata al ministero della Salute, in cui si diceva che: “sebbene il farmaco possa rappresentare un utile strumento preventivo in soggetti affetti da patologie concomitanti o con fattori di rischio, occorrerebbe valutare con attenzione se il basso livello di rischio dei bambini sani giustifichi adeguatamente il ricorso ‘a tappeto’ ad un trattamento che, per quanto sulla base degli studi clinici appaia sufficientemente sicuro, non può essere ovviamente considerato del tutto privo di rischi”.
di Elisabetta Gramolini
Uno dei batteri più diffusi nell’uomo, ma anche tra i più pericolosi, è al centro di una delle analisi genetiche più dettagliate mai realizzate. Stiamo parlando dello staphylococcus aureus, un microrganismo comunemente presente sulla pelle e nelle cavità nasali, ma capace di provocare infezioni anche gravi, come polmoniti, endocarditi e intossicazioni alimentari. La sua pericolosità è accresciuta dalla crescente resistenza agli antibiotici, che rende sempre più difficile trattare le infezioni che causa.
Un team di ricercatori internazionali, guidato dall’Istituto di Biomedicina di Valencia, dall’Università di Cambridge e dal Wellcome Sanger Institute britannico, ha condotto uno studio pubblicato sulla rivista Nature Communications. Analizzando il Dna di oltre 7mila campioni di staphylococcus aureus prelevati da più di 1.500 individui, gli scienziati hanno creato una sorta di mappa delle strategie genetiche di adattamento del batterio nell’organismo umano.
Questa ricerca potrebbe aprire la strada a nuove strategie per migliorare la prevenzione, la diagnosi e il trattamento delle infezioni da staphylococcus. A differenza di molte ricerche precedenti, che si concentravano sulla crescita del batterio in laboratorio, questa indagine ha analizzato il superbatterio direttamente nel suo habitat naturale: la pelle e le mucose umane. Questo approccio ha permesso di identificare con precisione le variazioni genetiche che permettono al batterio di adattarsi e prosperare nell’organismo, rivelando dettagli cruciali sui suoi meccanismi di sopravvivenza e sulla sua capacità di eludere le difese immunitarie.
L’ampiezza dello studio ha reso possibile individuare mutazioni genetiche che conferiscono un vantaggio selettivo a determinati ceppi, favorendone la sopravvivenza e la diffusione. Questo è un passo fondamentale per comprendere le dinamiche evolutive e per sviluppare strategie più efficaci per contrastarlo. L’analisi genetica ha permesso di individuare alcuni geni fondamentali per la sopravvivenza del batterio. Tra questi, particolare rilievo assumono quelli legati al metabolismo dell’azoto, un processo che sembra essere essenziale per la sua capacità di adattarsi a diversi ambienti corporei.
Inoltre, i ricercatori hanno scoperto geni che consentono al superbatterio di sfuggire al sistema immunitario umano. Alcuni di questi geni
Uno studio su oltre 7mila campioni rivela del batterio, aprendo la strada a nuove
STAPHYLOCOCCUS SCOPERTA
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i meccanismi di adattamento e resistenza strategie di prevenzione e trattamento
STAPHYLOCOCCUS AUREUS
UNA MAPPA SUPERBATTERIO
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permettono al batterio di sfruttare a proprio vantaggio sostanze prodotte da altri microrganismi presenti nell’organismo ospite. Questo meccanismo lo aiuta a eludere le risposte immunitarie e a insediarsi stabilmente in determinate aree del corpo. La capacità di adattarsi così efficacemente all’ambiente umano è una delle ragioni per cui è così difficile da debellare e perché alcune infezioni diventano persistenti o recidivanti.
Uno degli aspetti più preoccupanti dello staphylococcus aureus è la sua capacità di sviluppare resistenza agli antibiotici. Il ceppo più noto e temuto è il Methicillin-Resistant Staphylococcus aureus (MRSA), che rappresenta una delle principali sfide per la sanità pubblica. La capacità di adattarsi rapidamente e di acquisire geni di resistenza rende il trattamento delle infezioni sempre più complicato.
I risultati dello studio suggeriscono che, per contrastare il batterio sarà necessario un approccio multidisciplinare. Migliorare le pratiche di igiene, sviluppare nuovi antibiotici e implementare strategie mirate basate sulla genetica del batterio sono passi fondamentali per ridurre il rischio di infezioni. Una delle possibili strategie future potrebbe consistere nell’interferire con il metabolismo dell’azoto del batterio, un processo che si è rivelato cruciale per la sua sopravvivenza. Inoltre, comprendere meglio come il batterio utilizza le sostanze prodotte da altri microrganismi per eludere il sistema immunitario potrebbe aiutare a sviluppare trattamenti in grado di bloccare questi meccanismi.
La ricerca suggerisce anche che una maggiore attenzione al microbiota cutaneo e alle sue interazioni con lo staphylococcus potrebbe offrire nuove strategie di controllo. Se si riuscisse a modulare la presenza di altri batteri sulla pelle e nelle mucose in modo da ostacolare la proliferazione del batterio, si potrebbe ridurre il rischio di infezioni senza ricorrere agli antibiotici, limitando così la selezione di ceppi resistenti.
La mappa genetica di staphylococcus aureus rappresenta un importante passo avanti nella lotta contro questo pericoloso batterio. L’analisi su vasta scala condotta dai ricercatori ha fornito nuove informazioni sui meccanismi di adattamento e resistenza, aprendo la strada a nuove strategie di prevenzione e trattamento. Sebbene la battaglia contro le infezioni da staphylococcus sia ancora lunga, queste scoperte rappresentano una svolta significativa. (C. P.).
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Uno degli aspetti più preoccupanti dello staphylococcus aureus è la sua capacità di sviluppare resistenza agli antibiotici. Il ceppo più noto e temuto è il Methicillin-Resistant Staphylococcus aureus (MRSA), che rappresenta una delle principali sfide per la sanità pubblica. La capacità di adattarsi rapidamente e di acquisire geni di resistenza rende il trattamento delle infezioni sempre più complicato.
di Domenico Esposito
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L’intervento è stato effettuato all’ospedale Monaldi di Napoli: così è stata salvata la vita ad un 46enne affetto da scompenso cardiaco acuto in attesa di trapianto
Dario sorride, finalmente. Ed è un sorriso sincero, ritrovato, liberatorio. Un sorriso che segna un punto di svolta. Il peggio è alle spalle: ora può (ri)abbracciare la moglie e i suoi due figli consapevole sì di aver rischiato grosso, ma nello stesso tempo fiducioso per ciò che verrà.
Una storia di buona, anzi ottima sanità arriva da Napoli, e più precisamente dal Monaldi (Azienda Ospedaliera dei Colli), dove è stato impiantato un cuore artificiale totale a un 46enne colpito da uno scompenso cardiaco acuto. Si tratta del terzo intervento del genere effettuato in Italia, il primo che riguarda un paziente del Sud Italia. Del resto, il Centro Trapianti Cuore del Monaldi è un’eccellenza del Belpaese.
La scelta di ricorrere al cuore artificiale totale Carmat, che poi è l’unico autorizzato e commercializzato nell’Unione Europea, è dovuta al fatto che le condizioni dell’uomo, seguito da oltre 20 anni dai cardiologi della struttura sanitaria del capoluogo partenopeo, si erano aggravate, ma purtroppo non c’era disponibilità di organi per procedere al trapianto. Ecco, dunque, la decisione di optare per questo dispositivo di passaggio che per circa 12 mesi assisterà il paziente in attesa di un cuore nuovo da donatore.
L’intervento, eseguito presso la Cardiochirurgia generale e dei trapianti al cui timone vi è il dottor Claudio Marra, è perfettamente riuscito. Sì, Dario ha risposto bene all’operazione e, adesso, pensa alla sua nuova vita. Certo, per voltare definitivamente pagina è necessario il trapianto, ma un primo passo importante è stato già compiuto e il domani di conseguenza spaventa meno. Il cuore artificiale totale Carmat è stato realizzato dall’omonima azienda francese allo scopo di sostituire il cuore naturale nei pazienti che presentano insufficienza cardiaca terminale. Ciò si verifica nel momento in cui l’organo non riesce più a pompare il sangue in maniera corretta, creando un accumulo di liquidi nei polmoni e in altri tessuti. Nel dettaglio, questo dispositivo innovativo si pone come alternativa al trapianto quando appunto manca un donatore compatibile.
Pur essendo una soluzione tampone dalla durata di circa 12 mesi, il cuore della Carmat fornisce un supporto prezioso a tutti quei soggetti affetti da insufficienza cardiaca biventricolare terminale che non sono in grado di trarre benefici da una terapia medica, miglio-
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Misirligul/shutterstock.com
Ogni anno in Italia si registrano 80mila nuovi casi di persone colpite da scompenso cardiaco cronico e sono più di 200mila i ricoveri ospedalieri. Per quanto riguarda i trapianti di cuore nel mondo, è coperto solo il 10% del fabbisogno totale. Per fortuna i numeri nel nostro Paese sono in costante miglioramento, come sottolineato di recente dal ministro della Salute, Orazio Schillaci in occasione della presentazione dei dati 2024 su donazioni e trapianti di organi e cellule staminali emopoietiche. © Ahmet
randone la qualità della vita. In totale sono già più di 80 gli interventi nel Vecchio Continente, la maggior parte dei quali in Francia e in Germania. L’obiettivo è far sì che questa soluzione ponte diventi in realtà definitiva, soprattutto perché non è facile procedere al trapianto. E i dati lo dimostrano.
Ogni anno in Italia si registrano 80mila nuovi casi di persone colpite da scompenso cardiaco cronico e sono più di 200mila i ricoveri ospedalieri. Per quanto riguarda i trapianti di cuore nel mondo, è coperto solo il 10% del fabbisogno totale. Per fortuna i numeri nel nostro Paese sono in costante miglioramento, come sottolineato di recente dal ministro della Salute, Orazio Schillaci in occasione della presentazione dei dati 2024 su donazioni e trapianti di organi e cellule staminali emopoietiche.
In riferimento ai trapianti di cuore si è registrato un +13% rispetto al 2023, ma «abbiamo ancora strada da fare, perché il fabbisogno non è ancora soddisfatto» ha ricordato Schillaci. E, allora, si torna al discorso del cuore artificiale totale, che sostituisce in tutto e per tutto - tanto nella forma quanto nell’azione - il cuore naturale. A giovare di questo dispositivo «sono quei pazienti che hanno uno shock cardiaco avanzato non responsivo ad altro tipo di terapia medica cardiologica. Di solito pazienti ricoverati in terapia intensiva cardiochirurgica, il cui cuore non riesce a dare una gittata cardiaca sufficiente agli altri organi.
Pazienti ritenuti in pericolo imminente di morte» fa chiarezza il responsabile del reparto di Cardiochirurgia generale e dei trapianti dell’ospedale Monaldi, Claudio Marra. «Ricerca e tecnologia consentono di dare speranza a pazienti senza ulteriori opzioni terapeutiche. Ben vengano queste innovazioni per la sanità pubblica» chiosa il direttore generale dell’Azienda ospedaliera dei Colli, Anna Iervolino.
Il mese di febbraio è dedicato alla prevenzione delle malattie cardiovascolari, che rappresentano la prima causa di morte anche in Italia. Un corretto stile di vita (dieta equilibrata, attività fisica regolare e l’eliminazione di fattori di rischio come fumo e alcol) è necessario per tutelare il cuore. Quindi, gli esami di laboratorio: da monitorare glicemia, creatinina e GFR, colesterolo totale, HDL e LDL, acido urico e trigliceridi. Il test della troponina, proteina presente nel muscolo cardiaco, serve a determinare se il paziente abbia avuto un infarto.
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SCOPERTE LE PROPRIETÀ RIVOLUZIONARIE DELLA LIPOCARTILAGINE
Un team internazionale ha individuato caratteristiche uniche che rendono la lipocartilagine “simile” al pluriball e offrono nuove opportunità per la medicina rigenerativa
di Sara Bovio
Uno studio internazionale guidato dall’Università della California, Irvine, e pubblicato su Science, annuncia una vera e propria rivoluzione nel campo dell’ingegneria dei tessuti.
Gli scienziati hanno caratterizzato per la prima volta in modo completo la biologia molecolare, il metabolismo e il ruolo strutturale della lipocartilagine presente nelle orecchie, nel naso e nella gola dei mammiferi scoprendo le sue uniche proprietà. Il tessuto, ricco di lipidi, presenta caratteristiche simili a quelle di un materiale da imballaggio come il pluriball: è morbido, elastico e dotato di una grande stabilità, qualità che lo rendono adatto a essere impiegato nel campo della medicina rigenerativa e nell’ingegneria dei tessuti.
Gli autori dello studio hanno scoperto che la lipocartilagine è ricca di cellule piene di grasso chiamate lipocondrociti capaci di fornire un supporto interno molto stabile, ma consentendo allo stesso tempo al tessuto di rimanere morbido ed elastico.
Come spiegano gli autori della ricerca, la maggior parte della cartilagine si basa per la sua resistenza su una matrice extracellulare esterna, mentre la lipocartilagine è ricca di lipocondrociti che forniscono un supporto interno molto stabile. Nello studio i ricercatori descrivono come le cellule lipocartilaginee creino e mantengano i propri serbatoi di lipidi, rimanendo di dimensioni costanti. A differenza dei normali adipociti, i lipocondrociti non si restringono né si espandono in risposta alla disponibilità di cibo.
«La resilienza e la stabilità della lipocartilagine forniscono una qualità elastica e conforme, perfetta per parti del corpo flessibili come i lobi delle orecchie o la punta del naso, aprendo interessanti possibilità nella medicina rigenerativa e nell’ingegneria dei tessuti, in particolare per i difetti o le lesioni del viso», ha dichiarato Maksim Plikus, autore dello studio e professore di biologia cellulare e dello sviluppo dell’Università della California - Irvine. «Attualmente – prosegue il ricercatore - la ricostruzione della cartilagine richiede spesso il prelievo di tessuto dalla costola del paziente, una procedura dolorosa e invasiva. In futuro, i lipocondrociti specifici per il paziente potrebbero derivare da cellule staminali, purificati e poi utilizzati per produrre cartilagine su misura per le esigenze individuali. Con l’aiuto della stampa 3D, questi tessuti ingegnerizzati potrebbero essere modellati per adat-
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La scoperta della biologia lipidica unica della lipocartilagine sfida le ipotesi di lunga data della biomeccanica e apre le porte a innumerevoli opportunità di ricerca. Le direzioni future includono la comprensione di come i lipocondrociti mantengono la loro stabilità nel tempo e i programmi molecolari che regolano la loro forma e funzione, nonché approfondimenti sui meccanismi dell’invecchiamento cellulare. © nerve ana/shutterstock.com
tarsi con precisione, offrendo nuove soluzioni per il trattamento di difetti congeniti, traumi e varie malattie della cartilagine».
I ricercatori spiegano che in realtà i lipocondrociti sono stati individuati per la prima volta nel 1854 da Franz Leydig, una scoperta che fino ad oggi era stata ampiamente dimenticata. Solo grazie a moderni strumenti biochimici e a metodi di imaging avanzati, è stato possibile caratterizzare in modo completo la biologia molecolare, il metabolismo e il ruolo strutturale della lipocartilagine nei tessuti scheletrici.
«Tradizionalmente, l’imaging microscopico richiede l’uso di coloranti o molecole di grandi dimensioni, che possono ostacolare lo studio del metabolismo di piccole molecole, come il tracciamento del glucosio - ha detto Richard Prince, della East Tennessee State University -. In questo caso, abbiamo utilizzato l’imaging vibrazionale senza coloranti per tracciare il metabolismo del glucosio in gocce lipidiche, rivelando il meccanismo di formazione della lipocartilagine».
I ricercatori hanno anche scoperto il processo genetico che sopprime l’attività degli enzimi che scompongono i grassi e riducono l’assorbimento di nuove molecole di grasso, bloccando di fatto le riserve lipidiche dei lipocondrociti. Quando viene privata dei suoi lipidi, la lipocartilagine diventa rigida e fragile, evidenziando l’importanza delle sue cellule piene di grasso nel mantenere la combinazione di durata e flessibilità del tessuto. Inoltre, il team ha osservato che in alcuni mammiferi, i lipocondrociti si uniscono in forme intricate, come avviene nelle creste parallele presenti nelle grandi orecchie dei pipistrelli, che potrebbero migliorare l’udito modulando le onde sonore.
L’autore principale dello studio, Raul Ramos, ha dichiarato: «La scoperta della biologia lipidica unica della lipocartilagine sfida le ipotesi di lunga data della biomeccanica e apre le porte a innumerevoli opportunità di ricerca. Le direzioni future includono la comprensione di come i lipocondrociti mantengono la loro stabilità nel tempo e i programmi molecolari che regolano la loro forma e funzione, nonché approfondimenti sui meccanismi dell’invecchiamento cellulare. I nostri risultati - termina il ricercatore - sottolineano la versatilità dei lipidi al di là del metabolismo e suggeriscono nuovi modi per sfruttare le loro proprietà nell’ingegneria tissutale e in medicina».
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IL RUOLO DELL’EMBRIOLOGO NELL’AMBITO MULTIDISCIPLINARE
DEI CENTRI DI PMA
Specialista in Biologia, ha il compito di manipolare in laboratorio gameti ed embrioni, garantendo le condizioni idonee alla procedura di fecondazione e allo sviluppo dell’embrione fuori dall’utero
di Giovanni Ruvolo*
Negli ultimi decenni, la Procreazione Medicalmente Assistita (PMA) ha assunto un ruolo sempre più centrale nella lotta all’infertilità, un problema che coinvolge circa il 15% delle coppie in età fertile. Tra le figure professionali che operano nei centri di PMA, tra i quali il ginecologo, l’andrologo-endocrinologo, lo psicologo e l’ostetrico, l’embriologo riveste un ruolo chiave nel processo di fecondazione assistita, contribuendo in maniera determinante al successo delle terapie. Ma chi è l’embriologo? Quali competenze possiede e quale percorso formativo deve affrontare per svolgere questa professione? Qual è la sua giornata lavorativa tipo?
L’embriologo è uno specialista in biologia della riproduzione che si occupa della manipolazione di gameti ed embrioni in laboratorio. Il suo compito principale è garantire le migliori condizioni per la fecondazione e lo sviluppo embrionale prima del trasferimento in utero. L’embriologia clinica in campo umano si è sviluppata negli anni ’60 del secolo scorso, mutuando molte conoscenze dal campo della veterinaria.
Ma solo alla fine degli anni ’70, grazie all’incessante lavoro del biologo inglese Robert Edward, si ottenne la prima gravidanza da un programma di fecondazione assistita. Solo nel 2010, Robert Edwards ricevette il premio Nobel proprio per gli studi condotti nel campo della biologia della riproduzione umana, rendendo l’embriologia clinica una branca specialistica della biologia.
Le competenze di un embriologo clinico sono molteplici e spaziano dalla conoscenza della biologia cellulare e molecolare alla padronanza di tecniche di laboratorio molto avanzate. Tra le principali mansioni troviamo:
• Preparazione e selezione dei gameti: analisi e preparazione del liquido seminale per le tecniche di I e II livello, selezione degli ovociti maturi;
• Tecniche di fecondazione assistita: fecondazione in vitro convenzionale (FIVET),
* Biologo e Biotecnologo, Responsabile dei laboratori di embriologia clinica del Centro di Biologia della Riproduzione di Palermo e del Centro Italiano di Riproduzione Assistita CIPA-SDM di Roma. E’ membro del Consiglio direttivo della SIRU e socio fondatore della SIERR. E’ membro del CIG di Enpab
iniezione intracitoplasmatica dello spermatozoo (ICSI), utilizzo di tecniche di time-lapse per il monitoraggio dello sviluppo embrionale;
• Coltura e selezione embrionale: valutazione dello sviluppo embrionale fino allo stadio di blastocisti, selezione degli embrioni con maggiore potenziale di impianto;
• Crioconservazione: congelamento di ovociti, spermatozoi, embrioni e tessuto ovarico e testicolare tramite il protocollo di “slow freezing” e vitrificazione;
• Diagnosi genetica preimpianto (PGT): esecuzione della biopsia embrionale allo stadio di blastocisti per la successiva analisi genetica per identificare anomalie cromosomiche o malattie genetiche ereditarie;
• Gestione della qualità: implementazione di protocolli per garantire elevati standard di sicurezza e tracciabilità nei laboratori di PMA. Diventare embriologo richiede una formazione accademica e specialistica approfondita. Il percorso tipico prevede l’acquisizione di una laurea magistrale in Biologia (LM-6) o lauree equiparate, ma in assenza di una scuola di specialità dedicata, è necessario acquisire le competenze necessarie attraverso la partecipazione a Master o corsi di approfondimento in Biologia della Riproduzione che consentono di perfezionare la pratica per l’esecuzione delle tecniche di PMA e la gestione dei laboratori di embriologia clinica. Risulta comunque necessaria anche la formazione pratica attraverso dei tirocini che possano offrire un’esperienza diretta nei laboratori di PMA, sotto la guida di embriologi esperti. Come per tutte le professioni sanitarie per esercitare la professione, l’embriologo clinico deve essere iscritto all’Ordine dei Biologi territoriale e seguire corsi di formazione continua per aggiornarsi sulle nuove tecnologie e normative a cui l’attività è soggetta. Bisogna evidenziare che un Centro che si occupa di PMA è un Istituto dei Tessuti censito nel registro europeo, equiparato ad un Centro Trapianti e soggetto all’invio dei dati di tutte le procedure all’Istituto Superiore di Sanità ed è sottoposto a controlli biennali da parte delle Regioni e del CNT. Tutto questo evidenzia il livello di competenze e responsabilità in capo al biologo che opera all’interno del laboratorio, cuore nevralgico di un centro di PMA.
La giornata lavorativa tipica di un embriologo inizia con il controllo dei parametri fisici
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L’embriologo è uno specialista in biologia della riproduzione che si occupa della manipolazione di gameti ed embrioni in laboratorio. Il suo compito principale è garantire le migliori condizioni per la fecondazione e lo sviluppo embrionale prima del trasferimento in utero. Le competenze di un embriologo clinico sono molteplici e spaziano dalla conoscenza della biologia cellulare e molecolare alla padronanza di tecniche di laboratorio molto avanzate.
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© VYAKOBCHUK VIACHESLAV/shutterstock.com
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Il lavoro dell’embriologo ha un impatto diretto sulle probabilità di successo dei trattamenti di PMA, pertanto si comprende quanto sia necessaria l’acquisizione di una competenza di altissimo livello.
L’accuratezza nelle tecniche di laboratorio, la capacità di selezionare gli embrioni migliori e la gestione ottimale delle procedure di crioconservazione sono determinanti per aumentare il tasso di gravidanza.
© Peakstock/shutterstock.com
del laboratorio e degli incubatori e delle colture embrionali e la valutazione dello sviluppo degli embrioni. Successivamente, dopo i prelievi ovocitari e la produzione del liquido seminale da parte dei partner maschili, vengono preparati i gameti per le tecniche di fecondazione assistita. Durante la giornata si effettuano anche le procedure di transfer in utero degli embrioni, di crioconservazione, la biopsia embrionale e l’analisi dei parametri biologici degli embrioni. Il lavoro si conclude con la documentazione e l’aggiornamento dei dati clinici per garantire la massima trasparenza e tracciabilità.
Il lavoro dell’embriologo ha un impatto diretto sulle probabilità di successo dei trattamenti di PMA, pertanto si comprende quanto sia necessaria l’acquisizione di una competenza di altissimo livello. L’accuratezza nelle tecniche di laboratorio, la capacità di selezionare gli embrioni migliori e la gestione ottimale delle procedure di crioconservazione sono determinanti per aumentare il tasso di gravidanza. Inoltre, la ricerca continua e lo sviluppo di nuove tecnologie, come l’intelligenza artificiale applicata alla selezione embrionale, stanno rivoluzionando il settore e offrendo nuove prospettive alle coppie infertili.
Purtroppo, ad oggi, in Italia, non esiste un percorso formativo dedicato a questa importante figura professionale, e i ruoli dirigenziali vengono assegnati a biologi che hanno acquisito altre competenze, che sono molto lontane da
quelle richieste per esercitare il lavoro dell’embriologo clinico. Nel 2010, il CUN (Consiglio Universitario Nazionale), definì il ruolo e le competenze dell’embriologo clinico e nel 2018, l’Ordine Nazionale dei Biologi approfondì il profilo professionale dell’embriologo clinico, specificando le mansioni ed il numero minimo di procedure per certificare l’acquisizione delle competenze sia per l’embriologo clinico che per il responsabile di laboratorio.
L’evoluzione della medicina e la biologia della riproduzione umana stanno portando a importanti innovazioni tecnologiche. L’uso dell’intelligenza artificiale per la selezione degli embrioni, le nuove metodologie di crioconservazione e il miglioramento delle tecniche di coltura embrionale promettono di incrementare le probabilità di successo. Gli embriologi sono chiamati a mantenersi costantemente aggiornati e sempre di più risulta necessario definire una norma che tracci il percorso formativo.
Conclusione
L’embriologo è una figura indispensabile nei centri di PMA, il cui lavoro nel laboratorio di embriologia clinica ha un impatto fondamentale sul successo delle terapie riproduttive. La sua formazione scientifica, le competenze tecniche e l’aggiornamento continuo sono elementi essenziali per garantire elevati standard di qualità e offrire alle coppie la migliore possibilità di realizzare il loro sogno di genitorialità.
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TUMORE ALLA PROSTATA
OK AL RADIOFARMACO
Una nuova opzione terapeutica per i pazienti con malattia metastatica: via libera dell’Aifa al primo radiofarmaco
Il cancro della prostata è il tumore più diffuso nella popolazione maschile e rappresenta il 18,5% di tutti i tumori diagnosticati nell’uomo. Sebbene l’incidenza sia elevata, il rischio che la malattia abbia un esito infausto è basso e va riducendosi man mano che la ricerca va avanti. A tal proposito, l’Agenzia Italiana del Farmaco ha deciso di rendere disponibile a breve il primo radiofarmaco per i pazienti italiani malati di tumore alla prostata.
La terapia consiste nel rilascio di radiazioni direttamente nelle cellule tumorali. I beneficiari di questa im-
portante rivoluzione saranno i pazienti con malattia già diffusa, con specifiche caratteristiche, e che hanno già assunto altri trattamenti. Parliamo dunque di soggetti alle prese con una malattia difficile da affrontare: la forma metastatica resistente alla castrazione è infatti la fase più avanzata della malattia, con una sopravvivenza a cinque anni che in media non supera il 30%.
Ecco, per tutti loro ci sarà una valida opzione in più nella lotta alla malattia attraverso una terapia che ha dimostrato di aumentare la sopravvivenza dei malati. Il Lutetium (177Lu) vipivotide tetraxetan si somministra per via endo-
venosa e combina un composto target (un ligando) con un radionuclide terapeutico (una particella radioattiva, in questo caso lutezio-177). Il radiofarmaco si lega poi alle cellule target, ossia le cellule tumorali della prostata che esprimono Psma, colpendole e uccidendole con il radioisotopo.
Della nuova terapia ha parlato Giuseppe Procopio, responsabile dell’Oncologia Medica Genitourinaria presso la Fondazione IRCCS Istituto Nazionale dei Tumori di Milano: «Una svolta per i pazienti con carcinoma prostatico avanzato, perché offre nuove speranze a chi ha già ricevuto precedenti trattamenti». E spiega: «Questa terapia colpisce selettivamente le cellule tumorali che esprimono sulla superficie il recettore Psma, presente in più dell’80% dei pazienti con malattia metastatica. Lo studio clinico di fase III Vision ha dimostrato una riduzione del 38% del rischio di morte rispetto al miglior standard di cura. Lutetium (177Lu) rappresenta una soluzione terapeutica importante che può migliorare significativamente la qualità e l’aspettativa di vita dei pazienti, aprendo nuove opportunità terapeutiche».
Questo approccio innovativo consente di identificare i marcatori delle cellule tumorali, che possono poi diventare target terapeutici. In base al radiofarmaco utilizzato, è possibile diagnosticare e trattare in modo mirato e personalizzato le malattie, soprattutto quelle oncologiche. Così Carmine Pinto, direttore dell’Oncologia Medica del Comprehensive Cancer Centre, dell’AUSL-IRCCS di Reggio Emilia: «Con l’introduzione in pratica clinica dei radioligandi si introduce un nuovo tassello nella più moderna medicina di precisione.
Le terapie con radioligandi costituiscono una significativa innovazione nella lotta contro il cancro, poiché offrono un approccio mirato che combina la medicina nucleare con la selettività di una terapia personalizzata». (D. E.).
© Kateryna Kon/shutterstock.com
Dopo il periodo della pandemia da Covid, il termine giapponese Hikikomori è diventato improvvisamente d’attualità anche in Italia. Letteralmente significa stare in disparte. Ed è riferito in particolare ai giovani che tendono ad autorecludersi in casa evitando ogni contatto con il mondo esterno. Una forma di isolamento totale in cui di fatto sono banditi contatti diretti con amici, familiari e conoscenti, rimpiazzati dai social media.
L’allarme è stato lanciato attraverso uno studio pubblicato sulla rivista Scientific Reports del gruppo Nature e condotto dal gruppo multidisciplinare di ricerca “Mutamenti sociali, valutazione e metodi” (MUSA) dell’Istituto di ricerche sulla popolazione e le politiche sociali del Consiglio nazionale delle ricerche di Roma (Cnr-Irpps), in collaborazione con Gianni Corsetti dell’Istat. Quanto emerso non può in alcun modo essere ignorato. Perché il numero di adolescenti che non incontrano più i loro amici nel mondo extrascolastico è in netta crescita, quasi raddoppiato dopo la pandemia.
Per intenderci: nel nostro Paese gli hikikomori sono passati dal 5,6% del 2019 al 9,7% del 2022, quindi uno su dieci. Si tratta di un fenomeno che richiede interventi celeri e concreti, dal momento che a questa sindrome sono associate ansia sociale, depressione e difficoltà a gestire la pressione scolastica e lavorativa. Internet e videogiochi diventano il rifugio in cui tuffarsi, rinchiusi tra le mura della propria abitazione.
La ricerca degli esperti si è focalizzata sui dati di due indagini trasversali effettuate dal gruppo nel 2019 e nel 2022 su studenti di scuole pubbliche secondarie di secondo grado e su campioni rappresentativi a livello nazionale composti rispettivamente da 3.273 e 4.288 adolescenti con un’età compresa tra 14 e 19 anni. In base a ciò, è stato possibile identificare tre profili di adolescenti: le farfalle sociali, gli
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HIKIKOMORI: CASI
RADDOPPIATI POST COVID
Anche in Italia sono in aumento gli adolescenti che tendono ad autorecludersi in casa per trovare rifugio nel web
amico-centrici e i lupi solitari.
Tra i lupi solitari c’è poi un sottogruppo formato da adolescenti che non incontrano più i loro amici nel mondo extrascolastico: i cosiddetti ritirati sociali, il cui numero è appunto quasi raddoppiato in seguito alla pandemia. Ma che cosa determina questo chiudersi a riccio? Lo spiega Antonio Tintori, tra gli autori del lavoro assieme a Loredana Cerbara e Giulia Ciancimino del gruppo di ricerca Musa del Cnr-Irpps: «L’iperconnessione, ossia la sovraesposizione ai social media, è il principale responsabile dell’autoisolamento e
anche dell’esplosione delle ideazioni suicidarie giovanili».
Lo studio evidenzia che non solo dal 2019 al 2022 sono «drasticamente aumentati i giovani che si limitano alla sola frequentazione della scuola nella loro vita, ma anche nel mondo adolescenziale è diminuita in maniera significativa l’abitudine a trascorrere il tempo libero faccia a faccia con gli amici: i lupi solitari sono addirittura triplicati in tre anni, passando dal 15 al 39,4%». Il fenomeno, che è leggermente più diffuso tra le ragazze, riguarda entrambi i sessi e non presenta sostanziali differenze regionali. (D. E.).
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EMARGINATI E INVISIBILI LO STATO DI SALUTE IN ITALIA
Uno studio delle Università di Pisa e Firenze ha indagato la diffusione dell’epatite B e C con uno screening su oltre 1800 persone che vivono nelle comunità ai confini della società
Individuati e indirizzati alle cure. Sono più di 1800 le persone, appartenenti a gruppi marginali della popolazione in Italia, che sono state sottoposte a una serie di screening, distribuiti in più anni, per monitorare l’incidenza delle infezioni da epatite B (Hbv) e C (Hcv). Le campagne di esami sono state condotte all’interno di uno studio seguito dai ricercatori delle Università di Pisa e Firenze.
Le persone che risultavano positive hanno avuto accesso all’assistenza clinica e, quando necessario, alla terapia, grazie alla collaborazione diretta con le unità assistenziali di Firenze, Empoli, Prato e Pistoia. I risultati dello studio prospettico, dal titolo “Hbv and Hcv testing outcomes among marginalized communities in Italy, 2019–2024: a prospective study”, sono stati pubblicati sulla rivista The Lancet Regional Health - Europe.
L’indagine ha riscontrato prevalenze delle infezioni molto più alte della media nazionale e nei soggetti di età molto giovane. In particolare, per quasi cinque anni (con la sola sospensione dovuta alla pandemia di Covid-19), il gruppo di ricerca ha testato marcatori per le infezioni da Hbv (antigene di superficie dell’Hbv – HbsAg) e da Hcv (anticorpi anti-Hcv) in 1.812 soggetti che frequentano mense popolari, centri di accoglienza, scuole di italiano per stranieri, nelle aree metropolitane di Firenze, Prato e Pistoia. Sul totale dei partecipanti allo screening, gli esiti hanno rilevato il 4,4% di positivi all’HBsAg, segno di infezione attiva, mentre il 2,9% presentava anti-Hcv, indicativi di un’esposizione al virus.
La positività a Hbv è risultata più frequente tra gli uomini (91%) e individui di origine non italiana, provenienti soprattutto da aree con basse coperture vaccinali. I partecipanti positivi a Hcv includevano una maggiore proporzione di cittadini italiani (51,9%) con storie di marginalità estrema, spesso legate ad un pregresso consumo di droghe per via endovenosa.
Lo screening è stato effettuato direttamente presso le strutture di accoglienza, con test rapidi su sangue capillare e risultati disponibili in pochi minuti. La modalità ha permesso un’alta adesione, pari all’82%, facilitata inoltre dalla presenza di mediatori culturali e dalla collaborazione con gli operatori delle associazioni che hanno aiutato il collegamento dei pazienti positivi ai centri clinici locali. Il 66,3% dei positivi all’Hbv e il 37,8% di quelli all’Hcv hanno
intrapreso un percorso di monitoraggio o cura, in base alla valutazione clinica. Tra i pazienti con infezione da Hcv attiva, tutti quelli trattati con farmaci antivirali hanno ottenuto la guarigione.
“Le infezioni da Hbv e Hcv possono evolvere in gravi patologie come la cirrosi e il tumore al fegato e molti dei soggetti colpiti non sono consapevoli della loro condizione fino alle fasi avanzate della malattia – spiega Laura Gragnani, corresponding author, ricercatrice del dipartimento di Ricerca traslazionale e delle nuove tecnologie in Medicina e Chirurgia dell’Università di Pisa –. Questo ritardo diagnostico è evidente nelle comunità marginali, che non sono raggiunte dai programmi di prevenzione e screening nazionali e regionali, che spesso incontrano barriere nell’accesso ai servizi sanitari, come la mancanza di informazioni, fiducia o risorse economiche. I risultati raggiunti col nostro studio dimostrano l’importanza di strategie di screening mirate per ridurre le disuguaglianze sanitarie, ridurre la circolazione di questi virus nell’intera comunità e raggiungere l’obiettivo dell’Organizzazione mondiale della sanità di eliminare le epatiti virali come minaccia infettiva entro il 2030”.
La ricerca ha dunque evidenziato “l’importanza di ‘agganciare’ e curare i soggetti marginali che spesso non accedono ai canali ufficiali di assistenza sanitaria”, afferma Monica Monti, prima autrice, ricercatrice del Centro MaSVE dell’Università degli Studi di Firenze. Gli autori scrivono inoltre che “la partecipazione e il collegamento alle cure hanno avuto successo”.
“Il nostro studio – sottolineano – dimostra che il modello di test integrato in loco che abbiamo adottato potrebbe fungere da quadro utile per i politici incaricati di rivalutare le politiche sanitarie esistenti e i sistemi relativi all’eliminazione dell’epatite virale a livello nazionale ed europeo. Inoltre, l’Italia è il primo porto di scalo per molti migranti che cercano di raggiungere l’Unione Europea. La fornitura di interventi tempestivi di screening Hbv e Hcv potrebbe facilitare la gestione clinica nei Paesi di destinazione finale, migliorando lo stato sanitario e sociale individuale.
Per raggiungere l’eliminazione globale dell’Hbv e dell’Hcv, è essenziale sviluppare strategie che migliorino l’accessibilità all’assistenza sanitaria, costruendo al contempo fiducia e impegno con le comunità emarginate”. (E. G.).
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Le infezioni da Hbv e Hcv possono evolvere in gravi patologie come la cirrosi e il tumore al fegato e molti dei soggetti colpiti non sono consapevoli della loro condizione fino alle fasi avanzate della malattia. Questo ritardo diagnostico è evidente nelle comunità marginali, che non sono raggiunte dai programmi di prevenzione e screening nazionali e regionali, che spesso incontrano barriere nell’accesso ai servizi sanitari, come la mancanza di informazioni, fiducia o risorse economiche.
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LE OPPORTUNITÀ INESPRESSE DEL MONDO MICROSCOPICO PER LA SOCIETÀ
Il mondo microscopico viene sfruttato, in maniera più o meno consapevole, da millenni Solamente di recente, però, sta emergendo il vero potenziale di questo sconfinato universo
© Oleksandra Klestova/shutterstock.com
di Simone Pescarolo*
La prima volta che aprii un volume di astronomia rimasi, per un non indifferente lasso di tempo, rapito ad osservare una fotografia scattata dal telescopio Hubble: migliaia di sfolgoranti ammassi luminosi brillavano sulla carta lucida da stampa, separati solamente dal nero assoluto dello spazio profondo.
La didascalia sinteticamente spiegava che se il lettore avesse tentato di contare tutte le galassie e le stelle ivi raffigurate, l’impresa avrebbe richiesto anni per essere terminata. Da quel momento fu quello per me l’asintoto mentale che delimitava il concetto di estremamente numeroso.
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Questo pensiero si espanse ulteriormente appena ebbi la possibilità di ammirare durante una delle mie prime esperienze all’interno di un laboratorio di microbiologia, la prima coltura microbiologica su piastra di Petri: su una pallida e traslucida gelatina, dal lieve sentore di brodo vegetale, si stagliava un caleidoscopico insieme di carnevaleschi colori, che altro non erano che ammassi di cellule cresciute le une sovrastando le altre (fig. 1). In 90 mm di plastica erano concentrate decine di unità formanti colonie a loro volta frutto dell’accumulo di migliaia e migliaia di singole cellule batteriche e fungine confusamente ammassate.
Da qui in poi compresi l’enorme quantità di organismi microscopici che potevano svilupparsi tutt’attorno a noi. Per più facilmente far comprendere un tale supposto basti pensare che si stima come la flora batterica dell’intestino possa raggiungere un peso netto di 1,5 Kg, se considerata nella sua interezza. Ad un primo impatto tale valore non parrebbe particolarmente significativo, ma se si calcola come un singolo
* Biologo, Biotecnologo industriale
batterio possa pesare mediamente 1 pg (1×10^15 Kg), allora dovremo poter calcolare che nel nostro intestino sopravvivono circa 1×10^15 cellule (valore che eccede enormemente le stelle presenti nella Via Lattea). Considerando poi che alcune di queste posso raggiungere mediamente i 5 µm di diametro, mettendole tutte in fila, potremmo percorrere 13 volte la distanza che separa la luna dalla terra. Queste sterili speculazioni matematiche hanno ovviamente poca applicabilità e utilità pratiche, ma servono per dimostrare l’inimmaginabile quantità di microrganismi presenti tutt’intorno a noi. Ovviamente tutti questi “individui” microscopici non sono gli uni uguali agli altri, ma si differenziano per molti fattori biologici, ognuno di questi evoluto nel tempo al fine di permettere l’adattamento, la sopravvivenza e la riproduzione della cellula, determinandone così la specificità. Basti pensare che ad oggi sono registrate circa 30mila specie, solamente considerando quelle batteriche, ognuna di esse con una propria peculiarità.
L’inimmaginabile varietà di specie, unita all’enorme adattabilità e velocità di crescita, fanno dei microrganismi un impareggiabile giacimento di opportunità pronto per essere sfruttato con lo scopo ultimo di rispondere alle sempre crescenti necessità della moderna società. Oggigiorno si cerca infatti con sempre maggior insistenza e premura un bilanciamento tra un sistema produttivo in grado di soddisfare il fabbisogno di tutti e una sostenibilità ambientale ormai sempre più minata da un incontrollato assorbimento di cibo, materie prime ed energia.
Le attività produttive, estrattive e distributive proprie del sistema economico moderno, che man mano stanno erodendo molti degli ecosistemi del nostro pianeta, forse potrebbero essere efficacemente sostituite dalla molti-
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L’implacabile aumento della popolazione mondiale sta trascinando in grave sofferenza il sistema produttivo alimentare. La crescente desertificazione, l’impoverimento dei suoli e la forte urbanizzazione stanno riducendo sempre di più i terreni da destinare ad allevamento e coltivazioni con conseguente abbattimento della disponibilità degli alimenti essenziali. La microbiologia applicata potrebbe intervenire per mitigare tale fenomeno. Molti microrganismi sono composti o producono le molecole fondamentali necessarie alla nutrizione animale, come vitamine, proteine e carboidrati.
Figura 1. Una delle prime foto da me scattate di una piastra di Petri.
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© Billion Photos/shutterstock.com
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L’inimmaginabile varietà di specie, unita all’enorme adattabilità e velocità di crescita, fanno dei microrganismi un impareggiabile giacimento di opportunità pronto per essere sfruttato con lo scopo ultimo di rispondere alle sempre crescenti necessità della moderna società.
© MP Art/shutterstock.com
tudine di possibilità offerte dai microrganismi: questi, infatti, sono in grado di ottenere autonomamente i prodotti necessari al proprio sostentamento (vedi i miceti in grado di scindere la cellulosa delle piante), convertendoli in molecole dall’enorme potenziale energetico (metano, idrogeno), strutturale (bioplastiche), nutritivo (vitamine, amminoacidi essenziali) e medicale (antibiotici). Tale fenomeno è una certa conseguenza delle enormi possibilità che queste microscopiche “fabbriche” offrono.
Queste però sarebbero troppe per poterle elencare tutte, in quanto, ognuna di esse, racchiuderebbe a sua volta una matriosca di sotto argomenti ognuno di essi definito da sfumature tecniche complesse. Tuttavia, vale la pena soffermarsi su alcuni esempi.
L’implacabile aumento della popolazione mondiale sta trascinando in grave sofferenza il sistema produttivo alimentare. La crescente desertificazione, l’impoverimento dei suoli e la
forte urbanizzazione stanno riducendo sempre di più i terreni da destinare ad allevamento e coltivazioni con conseguente abbattimento della disponibilità degli alimenti essenziali. La microbiologia applicata potrebbe intervenire per mitigare tale fenomeno. Molti microrganismi sono composti o producono le molecole fondamentali necessarie alla nutrizione animale, come vitamine, proteine e carboidrati.
Il sistema agrozootecnico inoltre comporta un notevole dispendio energetico e genera ogni anno quantitativi considerevoli di scarti. Per questo motivo, dal punto di vista energetico e di economia circolare, uno degli esempi più lampanti e maggiormente interessanti dell’applicazione dei microrganismi è certamente la produzione di biometano da scarti organici. Questa attività consiste nella progressiva bioconversione di scarti organici in CH4, attraverso una serie di passaggi biochimici, in un preciso equilibrio di reciproci scambi di molecole e di tanto raffinate quanto delicate ragnatele di reazioni biochimiche.
Spesso, però, produzione energetica viene associata, non erroneamente, ad inquinamento. L’elettricità viene ancora prodotta per lo più attraverso processi che prevedono la combustione, generando prodotti gassosi deleteri per il pianeta e il clima, come ad esempio l’anidride carbonica (CO2).
Purtroppo, saturare l’atmosfera di CO2 rappresenta un facile compito per l’economia moderna. Ad invertire tale tendenza, in parte, ci pensano gli organismi fotosintetici. Tra questi esseri viventi troviamo, ovviamente le piante, ma anche le microalghe. La loro esponenziale velocità di crescita, dovuta alla loro relativa semplicità strutturale, e l’enorme ecosistema acquatico a loro disposizione, fanno sì che la loro presenza sul nostro pianeta sia pressoché ubiquitaria. Tutte queste incredibili caratteristiche hanno dato lo spunto alla comunità scientifica per lo sviluppo di processi biologici di cattura della CO2 basati su questa tipologia di microrganismi.
Questi pochi e sintetici esempi altro non sono che la cuspide di millenni di evoluzione della biologia dei microrganismi e della capacità dell’essere umano di comprenderli e applicarli a proprio vantaggio. Tuttavia, ancora non tutto è stato scoperto, lasciando aperte innumerevoli, se non infinite, possibilità, quasi quante sono le stelle nell’universo.
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COSMETICI CON DERIVATI DELL’ACIDO
PER SUPPORTARE IL TRATTAMENTO
DI DERMATOSI SELEZIONATE
Tratto da: “Cinnamic Acid Derivatives as Potential Multifunctional Agents in Cosmetic Formulations the Treatment of Selected Dermatoses” di Małgorzata Kabat,
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Justyna Popiół, Agnieszka
di Carla Cimmino
Formulations Used for Supporting Agnieszka Gunia-Krzyżak
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Le dermatosi più comuni, che incidono sulla qualità della vita dei pazienti, tra cui acne vulgaris, dermatite atopica, iperpigmentazione post-infiammatoria (PIH) e dermatite da contatto. Queste condizioni, pur avendo cause e meccanismi distinti, presentano legami con stress ossidativo, infezioni microbiche e infiammazione, fattori chiave nella loro patogenesi.
L’acne vulgaris è una malattia dell’unità pilosebacea caratterizzata da eccesso di sebo, anomalie nella cheratinizzazione e infiammazione, con un contributo significativo del batterio Cutibacterium acnes. Questo batterio stimola una risposta immunitaria tramite i recettori Toll-like, dando inizio alla produzione di citochine infiammatorie. Inoltre, lo stress ossidativo, con un aumento delle specie reattive dell’ossigeno, amplifica il processo infiammatorio, danneggiando le cellule cutanee. Anche l’enzima 5-lipossigenasi gioca un ruolo nell’infiammazione associata a questa patologia. La dermatite atopica, una condizione cronica e ricorrente, si manifesta con prurito e secchezza della pelle, risultati di disfunzioni della barriera cutanea e disregolazione immunitaria. Le mutazioni del gene della filaggrina compromettono l’integrità della pelle, aumentando la sensibilità agli allergeni. La colonizzazione da parte di Staphylococcus aureus amplifica l’infiammazione attraverso la produzione di superantigeni, rendendo la risposta immunitaria più intensa. Al contrario, la dermatite da contatto si manifesta con rossore e prurito in seguito a esposizione a irritanti o allergeni. Nella variante irritante, vi è un danno diretto alla pelle che scatena l’infiammazione, mentre nella forma allergica si attiva una reazione immunitaria mediata dalle cellule T, dando origine a sintomi infiammatori nel sito di contatto con l’agente irritante.
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L’acido cinnamico potrebbe rappresentare un approccio terapeutico efficace per mitigare gli effetti negativi dello stress ossidativo, contribuendo a migliorare la salute della pelle e a contrastare fenomeni come l’iperpigmentazione e l’invecchiamento precoce.
© Corona Borealis Studio/shutterstock.com
L’iperpigmentazione post-infiammatoria si sviluppa a seguito di condizioni infiammatorie come acne, dermatite atopica e dermatite da contatto, ed è legata al processo di melanogenesi, che determina la produzione di melanina nei cheratinociti. Questo processo complesso è regolato da diversi enzimi, in particolare la tirosinasi, essenziale per la sintesi della melanina.
L’acido cinnamico, un composto vegetale, occupa un ruolo significativo in questo contesto. È un intermedio chiave nel percorso dell’acido shikimico e deriva da precursori come tirosina e fenilalanina. Presente nelle forme cis e trans, la forma trans, più stabile, è interessante anche per la sua capacità di formare esteri con altri composti, evidenziando un legame con la cannella.
L’acido cinnamico e i suoi derivati, come l’acido p-cumarico, caffeico, ferulico e sinapico, sono ampiamente utilizzati nel settore cosmetico, grazie alle loro proprietà benefiche per pelle e capelli. L’acido p-cumarico si trova in piante come il ginseng e negli oli di semi di camelia, mentre l’acido ferulico è presente nella crusca di frumento e in erbe aromatiche come rosmarino e timo. L’acido sinapico si reperisce in piante quali segale e senape, mentre l’acido caffeico, uno degli acidi fenolici più comuni, è molto concentrato nei chicchi di caffè e nel rosmarino. Questi composti rivestono un’importanza cosmetica per le loro proprietà depigmentanti e anti-invecchiamento e sono utilizzati come filtri UV.
La microincapsulazione di questi composti è fondamentale per migliorarne la stabilità e la biodisponibilità, consentendo loro di essere incorporati in una varietà di prodotti cosmetici. tuttavia, sebbene presentino noti benefici terapeutici nel trattamento di dermatosi, possono anche scatenare reazioni allergiche in persone sensibili. Uno dei ruoli chiave dell’acido cinnamico è la riduzione dello stress ossidativo, un fattore importante nella patogenesi di diverse dermatosi. Lo stress ossidativo si verifica quando le specie reattive dell’ossigeno (ROS) superano la capacità delle cellule di neutralizzarle, contribuendo all’invecchiamento cutaneo tramite la degradazione di collagene ed elastina. L’acne vulgaris, ad esempio, mostra un aumento di ROS legato all’eccesso di
sebo e all’azione del batterio Cutibacterium acnes, provocando danni ai cheratinociti e una risposta infiammatoria aggravata. In situazioni infiammatorie, il sistema immunitario produce ROS in risposta a infezioni, ma tale produzione eccessiva può danneggiare i tessuti circostanti. In caso di dermatite atopica, una scarsa produzione di enzimi antiossidanti aumenta ulteriormente lo stress ossidativo, compromettendo la barriera cutanea. Inoltre, lo stress ossidativo stimola la melanogenesi, poiché i ROS incrementati dall’esposizione ai raggi UV o inquinanti inducono i melanociti a produrre più melanina. Pertanto, l’acido cinnamico potrebbe rappresentare un approccio terapeutico efficace per mitigare gli effetti negativi dello stress ossidativo, contribuendo a migliorare la salute della pelle e a contrastare fenomeni come l’iperpigmentazione e l’invecchiamento precoce.
I derivati dell’acido cinnamico possiedono significative proprietà antiossidanti, dovute principalmente alla presenza di un frammento vinilico e a un anello fenilico. Gli idrossili coi gruppi catecolici presenti nell’anello fenilico potenziano ulteriormente queste proprietà. In particolare, i composti diidrossilici esercitano un’azione antiossidante più accentuata rispetto ai monoidrossilici, grazie ai due gruppi – che migliorano la capacità di neutralizzare i radicali liberi. L’efficacia antiossidante si manifesta attraverso l’inibizione dell’ossidazione lipidica e la rimozione dei radicali liberi.
Un esempio significativo è l’acido p-cumarico, dotato di un gruppo idrossilico in posizione para rispetto al gruppo carbossilico, che lo rende un eccellente donatore di elettroni e particolarmente efficace nella neutralizzazione dei radicali, utile nel trattamento della dermatite atopica. Inoltre, l’acido p-cumarico mostra un’attività biologica migliore rispetto all’acido o-cumarico (il suo isomero) a causa della maggiore disponibilità del gruppo idrossilico e della capacità di formare legami idrogeno intramolecolari, che aumentano gli effetti benefici nonostante possano limitare la reattività e la biodisponibilità. Grazie alle sue proprietà antiossidanti, l’acido p-cumarico inibisce vie di segnalazione legata alla tirosinasi, implicata nella melanogenesi e nell’iperpigmentazione. Tuttavia,
nonostante questi vantaggi, il suo utilizzo in cosmetica è limitato, risultando più comune nei derivati del Panax ginseng utilizzati nelle formulazioni anti-invecchiamento.
L’acido caffeico, apprezzato per la sua capacità di ridurre i livelli di specie reattive dell’ossigeno (ROS), offre notevole protezione contro lo stress ossidativo grazie alla neutralizzazione dei radicali liberi. La presenza di gruppi idrossilici nel suo anello fenilico gli consente di formare legami idrogeno robusti e di donare protoni, amplificando le sue capacità antiossidanti.
Un altro composto significativo è l’acido ferulico, che con la combinazione di un gruppo idrossilico e uno metossilico, inibisce l’ossidazione delle lipoproteine a bassa densità (LDL), proteggendo cellule e tessuti. La sua struttura, arricchita di un gruppo metossilico, aumenta la lipofilia, facilitando l’assorbimento cutaneo e potenziando l’efficacia della protezione antiossidante, aspetto cruciale nelle formulazioni cosmetiche.
Infine, l’acido sinapico contribuisce a ridurre radicali come DPPH e ABTS, grazie alla presenza di due gruppi metossilici che agevolano la donazione di elettroni. L’estere
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In situazioni infiammatorie, il sistema immunitario produce ROS in risposta a infezioni, ma tale produzione eccessiva può danneggiare i tessuti circostanti. In caso di dermatite atopica, una scarsa produzione di enzimi antiossidanti aumenta ulteriormente lo stress ossidativo, compromettendo la barriera cutanea.
© Evgeniia Primavera/shutterstock.com
fenetilico dell’acido caffeico presenta proprietà simili, inibendo la formazione di anioni superossido e migliorando la biodisponibilità e la lipofilia. I gruppi idrossilici sull’anello fenilico elevano ulteriormente il potenziale di rimozione dei radicali e la permeabilità attraverso lo strato corneo della pelle.
D’altro canto, l’estere etilico dell’acido ferulico, pur mostrando una capacità antiradicalica inferiore rispetto all’acido ferulico stesso, si rivela più efficace nella neutralizzazione delle specie reattive dell’ossigeno (ROS) generate da leucociti attivati. Questa caratteristica è fondamentale per prevenire danni durante i processi infiammatori legati a varie condizioni cutanee.
In aggiunta, l’acido clorogenico esercita un’azione protettiva sulle cellule grazie alla sua capacità di eliminare i radicali DPPH e gli anioni superossido. Questo processo è potenziato dal legame stereo con l’acido chinico, che migliora sia la solubilità che la biodisponibilità dell’acido clorogenico stesso. I gruppi idrossilici presenti nella sua struttura contribuiscono ulteriormente alle sue proprietà antiossidanti, facilitando la stabilizzazione dei radicali e la donazione di idrogeno. Queste
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L’acido cinnamico e i suoi derivati, naturali e sintetici, sono utilizzati nei cosmetici per trattare dermatosi come acne vulgaris, dermatite atopica, dermatite da contatto e iperpigmentazione. I loro meccanismi d’azione includono proprietà antiossidanti, antinfiammatorie e antimicrobiche, in aggiunta all’attività antimelanogenica.
© Bacsica/shutterstock.com
caratteristiche rendono l’acido clorogenico un potenziale candidato per il trattamento di patologie come l’acne vulgaris, perché capace di contrastare l’ossidazione dei lipidi.
L’acido criptoclorogenico, d’altro canto, dimostra di ridurre la produzione di ROS e di aumentare l’attività di enzimi antiossidanti, come il superossido dismutasi (SOD), promuovendo la rigenerazione cellulare e diminuendo i danni cutanei. Questi effetti sono fondamentali non solo nel trattamento di diverse dermatosi, ma anche nella routine di cura quotidiana della pelle.
Analogamente, l’acido neoclorogenico presenta notevoli proprietà antiossidanti, contrastando in modo efficace i radicali liberi e alleviando lo stress ossidativo sulle cellule cutanee. Questa sua capacità di modulare le reazioni ossidative contribuisce a mantenere l’integrità della pelle e a migliorare la sua salute generale.
È possibile dedurre che diversi composti naturali, come l’estere etilico dell’acido ferulico, l’acido clorogenico, l’acido criptoclorogenico e l’acido neoclorogenico, mostrano caratteristiche di promettenti agenti antiossidanti e antinfiammatori. Perché non solo aiutano a combattere lo stress ossidativo associato a diverse condizioni dermatologiche, ma
possono anche essere integrati nelle routine di cura della pelle quotidiana per promuovere una pelle sana e protetta. La combinazione infatti di attività antiossidante, capacità di ridurre le infiammazioni e supporto alla rigenerazione cellulare rappresenta un’importante area di interesse nella ricerca e nello sviluppo di nuovi prodotti cosmetici.
L’acido cinnamico e i suoi derivati, naturali e sintetici, sono utilizzati nei cosmetici per trattare dermatosi come acne vulgaris, dermatite atopica, dermatite da contatto e iperpigmentazione. I loro meccanismi d’azione includono proprietà antiossidanti, antinfiammatorie e antimicrobiche, in aggiunta all’attività antimelanogenica. Neutralizzando le specie reattive dell’ossigeno, riducono lo stress ossidativo, migliorando così la funzione della barriera cutanea e regolando la produzione di melanina.
Gli effetti antinfiammatori possono giovare all’acne perché modulano la risposta infiammatoria; possono alleviare l’infiammazione causata da irritanti, in caso di dermatite da contatto. Non bisogna sottovalutare i potenziali rischi di reazioni allergiche, pertanto risulta fondamentale la valutazione degli effetti avversi nella formulazione cosmetica.
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Sebbene sia ancora da ottimizzare, l’IA in ambito sanitario mira ad aiutare la diagnosi, la personalizzazione degli approcci terapeutici e la valutazione oggettiva della risposta al trattamento.
Nella tricologia l’IA può essere usata nella diagnosi e nel monitoraggio dei problemi di capelli grazie a reti di algoritmi che analizzano immagini digitali del cuoio capelluto per identificarne segni discriminanti di alopecia androgenetica, alopecia areata o altre forme di diradamento in tempo reale.
Esistono diversi gruppi di studio in tutto il mondo che lavorano con l’IA per velocizzare e automatizzare l’analisi delle immagini in modo da rilevare e classificare i segni di diradamento con una precisione eccezionale. L’IA in questo modo può aiutare a identificare lesioni cutanee e caratteristiche cliniche che i pazienti spesso non menzionano durante la visita.
Nell’analisi tricologica la valutazione del sebo è essenziale per quei pazienti che cercano trattamenti cosmetici mirati a condizioni come l’iperseborrea e l’acne. La valutazione tradizionale della produzione di sebo si basa sull’osservazione manuale soggettiva, mentre l’IA ha la capacità di sostituire questo processo con un parametro oggettivo più misurabile come riportato in diversi studi in cui si raggiunge un’accuratezza del 98% nel classificare immagini della pelle preelaborate.
L’IA può anche essere utilizzata nella personalizzazione di trattamenti tricologici, ottimizzando così l’approccio terapeutico per ciascun paziente; infatti oltre l’analisi delle immagini, è possibile considerare i dati genetici, le abitudini di vita, il profilo ormonale e le risposte individuali suggerendo in output un trattamento personalizzato. Le piattaforme di IA possono designare un profilo di risposta al trattamento basandosi su dati provenienti da test genetici come la sensibilità al DHT, biomarcatori e studi clinici.
L’IA può in aggiunta accelerare lo sviluppo di nuove terapie farmacologiche per la calvizie, utilizzando algoritmi per identificare nuove molecole e ottimizzare le combinazioni sinergiche terapeutiche, migliorare le formulazioni cosmetiche o
INTELLIGENZA ARTIFICIALE NELLA CURA
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L’uso dell’IA nella cura della calvizie è una frontiera emergente, che sta portando innovazioni significative nella diagnosi, nel trattamento e nel monitoraggio della perdita dei capelli. Con l’avanzamento di queste tecnologie, i pazienti potrebbero ottenere trattamenti più efficaci, mirati e personalizzati, migliorando significativamente i risultati e l’esperienza complessiva. © New Africa/shutterstock.com
Un campo in continua evoluzione, che sta nel monitoraggio e nel trattamento
di Biancamaria Mancini
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farmaceutiche, prevedendo in modo efficiente l’efficacia dei principi attivi contro la calvizie e i possibili effetti collaterali. Le reti di algoritmi possono essere utilizzate per analizzare milioni di combinazioni di molecole, suggerendo quelle più promettenti e progettando sistemi che veicolano i principi attivi in modo più efficiente attraverso la nanotecnologia.
Oltre alla diagnosi e al trattamento,
ARTIFICIALE CURA DELLA CALVIZIE
sta aprendo nuove prospettive nella diagnosi trattamento della perdita dei capelli
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l’IA può supportare il monitoraggio dei protocolli raccogliendo dati da dispositivi come cuffie intelligenti o app per il cuoio capelluto e analizzando i cambiamenti nei capelli nel tempo. Le app basate su IA possono essere utilizzate per monitorare la densità dei capelli nel tempo e valutare i progressi attraverso immagini digitali e dati biometrici, ottimizzando i trattamenti senza la necessità di visite frequenti.
Il trapianto di capelli robotizzato è un altro esempio di come l’IA stia migliorando la precisione delle tecniche chirurgiche. Tramite algoritmi sofisticati e analisi delle immagini, l’intelligenza artificiale può misurare con precisione la salute dei follicoli piliferi durante il trapianto di capelli, fornendo al chirurgo un punteggio di verosimiglianza che indica la probabilità che un follicolo pilifero sopravviva al trapianto.
I robot assistiti da IA possono analizzare la densità e la qualità dei follicoli piliferi, eseguire estrazioni precise e ridurre i danni ai follicoli andando ad abbreviare molto la curva di apprendimento per il chirurgo stesso. Attualmente il medico deve configurare adeguatamente il robot per riuscire a raccogliere da 500 a 1000 innesti all’ora e a creare da 1500 a 2000 siti riceventi ogni ora.
L’uso dell’IA nella cura della calvizie è una frontiera emergente, che sta portando innovazioni significative nella diagnosi, nel trattamento e nel monitoraggio della perdita dei capelli; algoritmi di machine learning per la personalizzazione dei trattamenti, la robotica assistita da IA e le analisi delle immagini sono solo alcune delle applicazioni promettenti. Con l’avanzamento di queste tecnologie, i pazienti potrebbero ottenere trattamenti più efficaci, mirati e personalizzati, migliorando significativamente i risultati e l’esperienza complessiva.
Nonostante il grande potenziale di IA, ad oggi non ci sono tecnologie disponibili che possano sostituire un clinico esperto, emerge piuttosto l’opportunità di bilanciare il processo decisionale basato sulle prove dell’IA con il tocco umano dei medici. Possiamo considerare le metodiche di IA in ambito sanitario e tricologico come uno strumento complementare piuttosto che come una sostituzione della competenza umana che rimane insostituibile.
Bibliografia
1.Barbara Kania et al.: “Artificial intelligence in cosmetic dermatology” 27 August 2024 https://doi.org/10.1111/jocd.16538
2.Hafsah Sheikh HBSc et al.: “The Future of Machine Learning Enabled Technologies for Hair Loss Treatment” Journal of Drugs in Dermatology. Volume 24. Issue 2. February 2025
ZONE UMIDE LA CRISI CLIMATICA SEMPRE PIÙ
Il Delta del Po, il Lago Trasimeno, di San Giuliano in grave difficoltà, con alterazioni
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UMIDE IN AGONIA
CLIMATICA SI FA SOFFOCANTE
Giuliano e Pergusa sono solo alcune delle aree alterazioni che minacciano la loro esistenza
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Il report IPBES stima che l’85% degli ecosistemi acquatici sia a rischio di scomparsa, con la conseguente estinzione di 4.294 specie su 23.496 animali d’acqua dolce iscritti nella Lista Rossa IUCN, tra cui il 30% dei crostacei decapodi (gamberi, granchi, gamberetti), il 26% dei pesci d’acqua dolce e il 16% degli odonati (libellule, damigelle). © ennar0/shutterstock.com ©
L’avvenire delle zone umide, essenziali per la biodiversità e fondamentali contro gli eventi meteorologici estremi, è seriamente minacciato dalla crisi climatica. Legambiente, nel proprio focus “Ecosistemi acquatici 2025”, pubblicato in occasione della Giornata mondiale lo scorso 2 febbraio, dipinge una situazione allarmante. L’Italia, che ne ospita cinquantasette d’importanza internazionale in quindici regioni, ha già perso il 75% negli ultimi 300 anni, secondo una ricerca apparsa su “Nature”.
A livello globale, il report IPBES (https://www.ipbes.net/global-assessment) stima che l’85% sia a rischio di scomparsa, con la conseguente estinzione di 4.294 specie su 23.496 animali d’acqua dolce iscritti nella Lista Rossa IUCN, (dell’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura, in inglese IUCN Red List of Threatened Species) tra cui il 30% dei crostacei decapodi (gamberi, granchi, gamberetti), il 26% dei pesci d’acqua dolce e il 16% degli odonati (libellule, damigelle).
A gravare su questi fragili luoghi, l’innalzamento del livello del Mediterraneo, che potrebbe sommergere vaste aree costiere, e l’aumento di frequenza e inten-
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sità dei periodi di siccità, i quali nel 2024 hanno colpito duramente soprattutto il Sud Italia e la Pianura Padana.
L’associazione del cigno verde ha individuato i veri e propri “scrigni di cristallo”. Tra questi, il Delta del Po (Veneto-Emilia-Romagna), alle prese con le secche e l’inquinamento delle falde da acqua salata (risalita del cuneo salino), con gravi contraccolpi su agricoltura e approvvigionamento idrico di tante comunità, il Lago Trasimeno (Umbria), con livelli di piovosità e portata delle sorgenti ai minimi storici, quello di San Giuliano (Matera), con una riduzione dei volumi d’acqua del 60-70%, e l’altro di Pergusa (Enna), stazione di sosta per numerose specie di volatili durante il viaggio dall’Africa all’Europa e forziere di ricchezze florofaunistiche, completamente prosciugato durante l’estate dello scorso anno.
Un’attenzione particolare è rivolta anche alle “piscine naturali” della Tenuta presidenziale di Castelporziano (Roma), che, a causa dei prelievi idrici, hanno subito una riduzione del 43% dal 2000. Sono debolissime, ma ricche di macroinvertebrati, vertebrati e piante rare, che richiedono investimenti su ricerca e analisi, sebbene vi siano enti che già collaborano con la Tenuta (Enea e le Università La Sapienza di Roma e Roma Tre).
Di fronte a questa emergenza, gli ambientalisti sollecitano il Governo ad un impegno concreto per la tutela e il ripristino. Tra le priorità, la protezione del 30% di questi ecosistemi entro il 2030, l’istituzione di nuovi parchi e riserve fluviali, la gestione unitaria tra aree naturali protette e Rete Natura 2000, e il ripristino di almeno il 20% di quelli degradati, dando priorità a soluzioni Nature-based Solutions. Occorre, quindi, non vanificare il “secondo tempo” della COP 16 romana di fine febbraio e adoperarsi per un accordo sul finanziamento della protezione naturale nei Paesi poveri e sulla mobilitazione di ulteriori risorse finanziarie.
«In piena crisi climatica, il valore
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delle zone umide e degli ecosistemi acquatici cresce considerevolmente: oltre a conservare la biodiversità, - dichiara Stefano Raimondi, responsabile biodiversità Legambiente - immagazzinano grandi quantità di carbonio, assorbono le piogge in eccesso arginando il rischio di inondazioni, rallentano l’insorgere della siccità e riducono al minimo la penuria d’acqua.
Il Governo italiano recuperi i ritardi nell’attuazione della Strategia per la biodiversità al 2030 e della Nature Restoration Law; una riforma, quest’ultima, che ha fortemente osteggiato, ma fondamentale, che impone all’esecutivo di presentare, entro il 1° settembre 2026, un piano nazionale di ripristino alla Commissione europea per riportare da cattive a buone condizioni almeno il 30% degli habitat coperti dalla legge entro il 2030 e il 90% entro il 2050. Fondamentale anche per affrancarsi dal numero alto di richiami che riceve dall’UE per il mancato rispetto delle direttive sulla biodiversità (come la direttiva Uccelli e il regolamento REACH)».
Vengono segnalate, comunque, alcune storie di successo come il pro -
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Gli ambientalisti sollecitano il Governo ad un impegno concreto per la tutela e il ripristino. Tra le priorità, la protezione del 30% di questi ecosistemi entro il 2030, l’istituzione di nuovi parchi e riserve fluviali, la gestione unitaria tra aree naturali protette e Rete Natura 2000, e il ripristino di almeno il 20% di quelli degradati, dando priorità a soluzioni Nature-based Solutions.
© Runawayphill/shutterstock.com
© ermess/shutterstock.com
getto europeo “Grew”, che, attraverso un’app e un sistema di monitoraggio, studia gli effetti del riscaldamento globale in lagune e paludi transfrontaliere italiane e croate. Si passa poi ai progetti di ripopolamento, come quello nell’Oasi naturale di Cascina Oschiena (VC) per riportare le Pittime Reali (raro uccello migratore) e quello nel Parco del Delta del Po che, secondo i dati dell’Associazione ornitologi dell’Emilia-Romagna, ha avuto un aumento dei fenicotteri, da 9.927 esemplari censiti nel 2023 a 10.795.
Si aggiungono, inoltre, la definizione delle Linee Guida per la conservazione della trota mediterranea e la gestione oculata in Valnerina: grazie a Legambiente Umbria, sono state svolte molte attività di vigilanza, controllo e tutela del territorio (fauna ittica, qualità delle acque), di comunicazione e informazione per comunità, sindaci, pescatori e turisti. Un impegno collettivo e costante è ciò che serve per proteggere le zone umide italiane, patrimonio naturale eccezionale e delicato, tesoro che, se custodito con cura, continuerà a donarci i suoi benefici per ancora molti anni. (G. P.).
BENEFICI AMBIENTALI
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Come funzionano le CER, chi può partecipare e quali sono i vantaggi di questa innovativa forma di autoconsumo collettivo basata sulle fonti rinnovabili © witsarut sakorn/shutterstock.com
di Elena De Luca*
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Sono 168 le CER attive sul territorio nazionale costituite prevalentemente nelle forme di associazione e cooperativa. Tra le soluzioni tecnologiche maggiormente rappresentate spiccano il fotovoltaico e l’eolico, ma anche l’idroelettrico, la digestione anaerobica, per la produzione di biogas e biometano, e la geotermia possono rappresentare delle scelte vantaggiose a seconda del territorio in cui si andranno a inserire.
Le Comunità Energetiche Rinnovabili (CER) rappresentano un modello innovativo di produzione e gestione dell’energia che nasce con l’obiettivo di condividere l’energia elettrica prodotta da impianti alimentati da fonti rinnovabili nella disponibilità di uno o più soggetti facenti parte della comunità.
Una CER può essere costituita da cittadini, piccole e medie imprese, Enti territoriali e Autorità locali, Enti di ricerca, Enti religiosi, associazioni del terzo settore e di protezione ambientale. Tali soggetti - che di fatto sono allo stesso tempo produttori e consumatori di energia, i così detti prosumers - devono essere localizzati all’interno di un medesimo perimetro geografico, sotteso a parte della Rete Nazionale di distribuzione dell’energia elettrica, rendendone possibile la condivisione virtuale.
Le ricadute ambientali dello sviluppo delle CER sono state tra gli elementi fondanti delle norme che le hanno regolamentate a livello comunitario e, successivamente, a livello nazionale. Con il Decreto legislativo 199/2021, l’Italia è stata tra i primi Paesi membri dell’UE a recepire la direttiva UE 2018/200, nota come RED II, che ha introdotto a livello normativo il tema della CER.
Con il recente Decreto legislativo 134/2024 è stata poi recepita la Direttiva (UE) 2022/2557, nota come Direttiva CER, che introduce norme armonizzate per rafforzare la resilienza dei soggetti critici, intervenendo in settori come l’energia, i trasporti, le telecomunicazioni, la salute pubblica e l’acqua potabile.
Oltre a specifici finanziamenti per i piccoli Comuni inclusi nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), per tutte le CER sono previsti incentivi sull’energia elettrica autoconsumata mentre quella eccedente resta nella disponibilità dei produttori ed è valorizzata a condizioni di mercato.
Le CER offrono numerosi vantaggi am-
*Prima Ricercatrice ENEA, Commissione Tecnica PNRR-PNIEC MASE, Componente Comitato Centrale FNOB con Delega Area Ambiente, Comitato Scientifico CNBA
bientali, tra cui:
• la riduzione delle Emissioni di CO2;
• la valorizzazione delle aree marginali;
• l’economia circolare;
• il miglioramento della qualità dell’aria;
• l’uso sostenibile delle risorse naturali.
Tra le soluzioni tecnologiche maggiormente rappresentate spiccano il fotovoltaico e l’eolico, ma anche l’idroelettrico, la digestione anaerobica, per la produzione di biogas e biometano, e la geotermia possono rappresentare delle scelte vantaggiose a seconda del territorio in cui si andranno a inserire.
Accanto alle ricadute ambientali, è opportuno considerare gli aspetti socioeconomici nei seguenti ambiti:
• l’autonomia energetica, riducendo la dipendenza dalle fonti fossili;
• la riduzione dei costi energetici, permettendo ai membri della comunità di risparmiare sui costi dell’energia;
• il ritorno economico, la vendita dell’energia in eccesso può generare entrate da investire in progetti a beneficio della comunità;
• la creazione di posti di lavoro, generando nuove opportunità a livello locale per diverse figure professionali;
• la coesione sociale, rafforzando il senso di comunità e la collaborazione tra i cittadini.
È ampiamente riconosciuto che le CER rappresentano un volano per la realizzazione di progetti di energia rinnovabile. Tra gli elementi di successo delle iniziative, il coinvolgimento attivo dei cittadini rafforza il legame con le istituzioni, creando un clima di fiducia e influenzando positivamente l’accettabilità sociale degli impianti.
Accanto a questo, la partecipazione finanziaria, regolata attraverso un quadro giuridico e normativo definito sulla base dei diversi modelli organizzativi, è essenziale per il coinvolgimento diretto dei cittadini . Lo sviluppo di nuove tecnologie del settore ICT ha favorito nuove forme di economia collaborativa - la sharing economy - basate su token, smart contracts e blockchain che rappresentano utili strumenti per la gestione delle CER e la partecipazione del pubblico.
Sono 168 le CER attive sul territorio nazionale costituite prevalentemente nelle forme di associazione e cooperativa. Per favorire la realizzazione di queste iniziative virtuose, le competenze scientifiche e tecniche dei biologi possono supportare le Pubbliche Amministrazioni nell’implementazione delle politiche legate alla transizione ecologica e allo sviluppo sostenibile, nella gestione di procedimenti amministrativi complessi, come le valutazioni ambientali, e nei progetti di conservazione della biodiversità.
Nell’ambito della comunicazione e della divulgazione, i biologi possono organizzare attività educative e di sensibilizzazione per la comunità, promuovendo la consapevolezza ambientale e l’importanza delle energie rinnovabili. Nel settore della ricerca, sia in ambito pubblico che privato, i biologi possono contribuire allo sviluppo tecnologico di sistemi efficienti di produzione e uso dell’energia, anche in relazione ai cambiamenti nello stile di vita dovuti all’uso di nuove apparecchiature integrate nell’ambiente domestico e lavorativo.
Infine, i biologi possono offrire servizi di consulenza ambientale alle aziende aiutandole a conformarsi alle normative e nel monitoraggio delle performance ambientali.
Bibliografia
1.https://www.gse.it/servizi-per-te/autoconsumo/le-comunita-energetiche-rinnovabili-in-pillole
2.Michael Krug M., Di Nucci M.R., Caldera M. and De Luca E. (2022) Mainstreaming Community Energy: Is the Renewable Energy Directive a Driver for Renewable Energy Communities in Germany and Italy? Sustainability, 14, 7181
3.De Luca E., Zini A., Amerighi O., Coletta G., Oteri M.G., Giuffrida L.G., Graditi G. (2020) A technology evaluation method for assessing the potential contribution of energy technologies to decarbonisation of the Italian production system, International Journal of Sustainable Energy Planning and Management, http://dx.doi.org/10.5278/ijsepm.4433
4.De Luca E., Nardi C., Giuffrida L.G., Krug M., Di Nucci M.R. (2020) Explaining Factors Leading to Community Acceptance of Wind Energy. Results of an Expert Assessment, Energies, 13, 2119
5.Massa G. e Meloni C. (2024) Energia e blockchain a supporto della community: la Local Token Economy, Energia Ambiente e Innovazione, ENEA
6.Politecnico di Milano, ES Energy & Strtatecy (2025) ELECTRICITY MARKET Report 2024
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C’L’operazione ha coinvolto tecnologie avanzate per mappare e contribuendo alla protezione degli habitat e promuovendo una
PER TUTELARE IL MARE
ISPRA RECUPERA RETI FANTASMA
LUNGHE FINO A 260 METRI
di Gianpaolo Palazzo
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è stata un’epica battaglia per la salvezza dei mari siciliani.
L’esercito era formato da sommozzatori esperti, armati di strumenti all’avanguardia, che si sono immersi per combattere un nemico silenzioso e letale: le reti fantasma. L’azione di recupero condotta da Ispra (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale) con il supporto di RTC Ghostnets (Castalia, Conisma e Marevivo) e finanziata dal Pnrr, ha liberato i fondali della costa siciliana, tra Augusta e Siracusa, da un flagello letale.
L’intervento, parte del progetto Mer (Marine Ecosystem Restoration), ha visto impegnati professionisti altamente qualificati per riprendere oltre 30 sistemi per la pesca, alcuni dei quali lunghi fino a 260 metri, pari all’incirca a un grattacielo di 100 piani, e bonificare approssimativamente 60mila metri quadrati. Si tratta di un’area vasta quanto diversi campi di calcio, finalmente libera da un intrico mortale.
Conosciute in inglese come Aldfg (Abandoned lost or discarded fishing gear, attrezzi da pesca abbandonati, persi o gettati), rappresentano una delle piaghe più gravi per l’ambiente marittimo. Sono rea-
lizzate con materiali sintetici resistenti e durevoli, continuano a “pescare” anche dopo essere state abbandonate, intrappolando un’ampia varietà di animali, tra cui pesci, mammiferi, tartarughe, uccelli e invertebrati. Spesso incapaci di liberarsi, muoiono per soffocamento, fame o ferite. Un destino crudele che si ripete incessantemente, giorno dopo giorno, ma non è tutto.
Danneggiano anche le praterie di Posidonia oceanica con ombreggiamento e abrasione, che uccidono o sradicano le piante. Possono, peraltro, rompere i coralli, alterando equilibri naturali.
Di fronte a questa emergenza, le operazioni hanno preso il via con una fase di ricognizione, in cui le profondità sono state mappate e caratterizzate con il Multibeam per la batometria, il Side Scan Sonar per l’individuazione con immagini dettagliate di oggetti sommersi e il Rov (Remotely operated vehicle) per la raccolta di filmati e dati in tempo reale. Una vera e propria caccia al tesoro, ma con un obiettivo nobile: salvare vite e ripristinare biosistemi.
Un ruolo fondamentale è stato svolto dagli Operatori tecnici subacquei (OTS).
caratterizzare i fondali maggiore consapevolezza
MARE FANTASMA METRI
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© Jukkis/shutterstock.com
Questi
esperti sono scesi a profondità di 40-60 metri. Hanno lavorato in condizioni difficili e pericolose, spesso in presenza di forti correnti e scarsa visibilità. Si sono calati tramite una struttura di supporto, una sorta di piattaforma metallica chiamata “stage” o “gabbia”, assicurata alla nave madre. Durante il lavoro, hanno mantenuto un collegamento costante con la superficie attraverso un cavo “ombelicale” multifunzionale. Tale cordone non solo fornisce aria o miscele respiratorie essenziali per la sopravvivenza sott’acqua, ma funge anche da linea di comunicazione audio e video, permettendo agli operatori di scambiare informazioni con il team di supporto in superficie. Inoltre, garantisce assistenza immediata in caso di necessità.
Una volta individuate le “magagne”, ci si adopera per liberarle dal fondo. Se neces-
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Le operazioni hanno preso il via con una fase di ricognizione, in cui le profondità sono state mappate e caratterizzate con il Multibeam per la batometria, il Side Scan Sonar per l’individuazione con immagini dettagliate di oggetti sommersi e il Rov (Remotely operated vehicle) per la raccolta di filmati e dati in tempo reale. Una vera e propria caccia al tesoro, ma con un obiettivo nobile: salvare vite e ripristinare biosistemi.
© krstrbrt/shutterstock.com
sario, vengono utilizzati strumenti da taglio per sezionare in parti più piccole e facili da gestire. Successivamente, le porzioni sono legate a funi o cime apposite, predisposte per il sollevamento. Un verricello, azionato dal ponte della nave, recupera tutto, issandolo delicatamente. L’intera operazione è stata eseguita con la massima cura per preservare l’integrità e prevenire ulteriori danni alla fauna e alla flora circostanti.
Sono stati salvati, infatti, cerianti (anemoni cilindriche), ricci diadema, magnose (simili ad aragoste “schiacciate”), cernie brune e madrepore a grappolo, tutte specie protette, molte liberate immediatamente in mare, mentre altre sono state curate e poi rilasciate.
A bordo, si è proceduto a un setaccio meticoloso per consentire la fuoriuscita di ricci matita, stelle marine, piccoli scorfani, ricci di prateria e svariati crostacei: «Questa campagna di recupero è un grande passo avanti per la tutela dei nostri mari - spiegano i ricercatori di Ispra - ma rimane fondamentale promuovere una maggiore consapevolezza tra gli operatori del settore e continuare a investire in tecnologie e politiche di prevenzione».
Importanti passi avanti sono stati fatti, ma non bastano. È fondamentale adottare misure per evitare che molti oggetti vengano buttati. Si sta continuando a lavorare per sensibilizzare i pescatori sulla problematica e promuovere l’utilizzo di pratiche sosteni- bili. È necessario investire in tecniche e materiali che riducano il rischio di abbandono e facilitino il recupero dei “fantasmi”.
Quelli di “Ghostnets” non solo sono stati smaltiti in modo appropriato, ma laddove possibile, saranno avviati a un processo di riciclo. Tale azione virtuosa s’inserisce in una logica di economia circolare, in cui i materiali vengono reintrodotti nel ciclo produttivo, riducendo l’impatto ambientale complessivo e trasformando ciò che era un rifiuto in una risorsa.
La salvaguardia è una battaglia complessa, ma non impossibile, dato che la sinergia tra scienze, competenze e impegno civile può portare a risultati tangibili e duraturi. Un mare pulito è un mare di vita, di opportunità, di futuro.
Farooq/shutterstock.com
© Sajjad
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L’USO INSOSTENIBILE DELL’ACQUA MINACCIA LA SICUREZZA ALIMENTARE E AMBIENTALE
L’agricoltura, l’industria e i cambiamenti climatici stanno esaurendo le risorse idriche Strategie e soluzioni per una gestione sostenibile dell’acqua
Ambiente
L’acqua è una risorsa essenziale per la vita umana e per il raggiungimento degli Obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite. Tuttavia, l’uso insostenibile delle risorse idriche sta mettendo a rischio la sicurezza alimentare e ambientale, specialmente nei paesi con una forte pressione demografica e agricola.
Un recente studio pubblicato su Nature Communications e intitolato “Deepening water scarcity in breadbasket nations” ha analizzato la crescente scarsità d’acqua in tre delle più grandi nazioni produttrici di cibo al mondo: Cina, India e Stati Uniti. I risultati hanno evidenziato un preoccupante aumento della domanda di acqua blu – ovvero l’acqua prelevata da fiumi, laghi e falde acquifere – con conseguenze dirette sulla disponibilità delle risorse idriche e sulla loro sostenibilità a lungo termine.
Lo studio, condotto dal Politecnico di Torino, dalla University of Delaware, dalla Peking University e dalla Virginia Polytechnic Institute, ha analizzato i dati relativi alla domanda idrica tra il 1980 e il 2015 nei tre Paesi. I risultati hanno mostrano un significativo incremento nell’uso dell’acqua blu, con aumenti del 70% in Cina, dell’83% in India e del 22% negli Stati Uniti. Questo incremento è strettamente legato all’irrigazione agricola, ma anche ad altri settori come l’uso domestico, industriale e l’allevamento.
Sebbene negli Stati Uniti il consumo idrico si sia stabilizzato intorno ai 100 km³ all’anno, in Cina e India la domanda continua a crescere, mettendo sempre più sotto pressione le risorse idriche disponibili. In particolare, lo studio ha evidenziato che il 32% dei bacini fluviali in Cina, il 61% in India e il 27% negli Stati Uniti subiscono almeno quattro mesi di scarsità idrica all’anno. Le aree più critiche includono le pianure settentrionali della Cina, le regioni centrali e settentrionali dell’India e gli stati occidentali degli Stati Uniti come Arizona, Nevada, Nuovo Messico e Utah. Il settore agricolo è il principale responsabile dell’aumento della domanda di acqua, in particolare nei periodi di picco dell’irrigazione. Tuttavia, lo studio ha rivelato che in alcuni bacini idrografici il sovrasfruttamento è dovuto anche ad altri fattori: l’allevamento intensivo nella Cina centro-occidentale, l’uso domestico eccessivo nell’est dell’India e un mix di usi domestici, zootecnici e industriali negli Stati Uniti.
Uno degli aspetti più critici è la dipendenza dall’acqua di falda per l’irrigazione, specialmen-
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Un recente studio ha analizzato la crescente scarsità d’acqua in tre delle più grandi nazioni produttrici di cibo al mondo: Cina, India e Stati Uniti. I risultati hanno evidenziato un preoccupante aumento della domanda di acqua blu – ovvero l’acqua prelevata da fiumi, laghi e falde acquifere – con conseguenze dirette sulla disponibilità delle risorse idriche e sulla loro sostenibilità a lungo termine.
Peter Milto/shutterstock.com
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te in India, dove molte aree agricole si affidano ai pozzi profondi per sopperire alla scarsità delle piogge. Questo ha portato a un abbassamento dei livelli delle falde acquifere, rendendo sempre più difficile l’accesso all’acqua per la popolazione e aumentando il rischio di desertificazione.
Anche il cambiamento climatico gioca un ruolo chiave in questa crisi idrica. Le variazioni nei modelli di precipitazioni, l’aumento delle temperature e l’evaporazione accelerata stanno contribuendo alla riduzione delle riserve idriche disponibili, aggravando ulteriormente la situazione in molte aree già vulnerabili. Per affrontare questa emergenza, il team di ricerca ha individuato diverse strategie che potrebbero aiutare a rendere più sostenibile l’uso delle risorse idriche come miglioramento dell’efficienza dell’irrigazione. L’adozione di tecnologie avanzate come l’irrigazione a goccia e i sistemi di monitoraggio dell’umidità del suolo potrebbe ridurre significativamente le perdite d’acqua e ottimizzare il consumo agricolo. L’adozione di colture meno idro-esigenti, attraverso la promozione di coltivazioni di piante più resistenti alla siccità potrebbe contribuire a ridurre la pressione sulle risorse idriche. Il rafforzamento del commercio di prodotti agricoli, attraverso la creazione di un sistema commerciale che bilanci la domanda e l’offerta di acqua tra regioni con abbondanza e scarsità idrica potrebbe ridurre la pressione sui bacini idrici più stressati. Il miglioramento della capacità di stoccaggio dell’acqua piovana, potenziando i sistemi di trattamento delle acque reflue e sviluppando nuove fonti di approvvigionamento idrico (come il riutilizzo delle acque depurate) potrebbero garantire una gestione più sostenibile.
Governance e gestione integrata delle risorse idriche: Un approccio più coordinato nella gestione dell’acqua, che tenga conto dell’interconnessione tra i vari bacini idrografici e settori economici, potrebbe evitare politiche frammentarie e inefficaci. Ad esempio, l’implementazione di sistemi di diritti idrici basati sul mercato e incentivi economici per la riduzione dei consumi potrebbe favorire un uso più razionale dell’acqua.
Nonostante queste soluzioni, lo studio sottolinea che molte di esse vengono spesso applicate in modo isolato, senza considerare gli effetti a cascata su altre regioni o settori. Una gestione frammentata dell’acqua può portare a risultati controproducenti, aggravando la scarsità idrica invece di risolverla. (C. P.).
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Studio del National Biodiversity Future Center rivela il ruolo cruciale dei letti di alghe coralline nella cattura del carbonio e nella conservazione della biodiversità marina
ALGHE CORALLINE
INVISIBILI NELLA LOTTA
di Carmen Paradiso
La biodiversità marina si sta rivelando un elemento fondamentale nella lotta contro il cambiamento climatico. Un recente studio del National Biodiversity Future Center (NBFC), il primo centro di ricerca nazionale italiano dedicato alla biodiversità e finanziato dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR – Next Generation EU), ha dimostrato che i letti di alghe coralline rappresentano una risorsa chiave per la cattura del carbonio atmosferico.
Lo studio, pubblicato sulla rivista scientifica Nature Communications, è stato guidato dalla dottoressa Nadine Schubert dell’Università dell’Algarve e ha coinvolto un team di esperti italiani del NBFC. Tra questi, il professor Gianluca Sarà, co-responsabile dello Spoke 1 Mare in NBFC, la dottoressa Mar Bosch-Belmar e il dottor Paolo Mancuso, entrambi appartenenti al team di Ecologia del Dipartimento di Scienze della Terra e del Mare (DISTEM) dell’Università di Palermo. Allo studio hanno collaborato anche le ricercatrici della stazione zoologica Anton Dohrn, Maria Cristina Mangano e Federica Ragazzola, esperta di alghe coralline e responsabile del progetto MEDRHODO, supportato dalla British Physiological Society.
L’indagine ha dimostrato che le alghe coralline sono in grado di assorbire ingenti quantità di carbonio atmosferico e di accumulare carbonato di calcio nelle loro strutture. Questi organismi marini funzionano come veri e propri serbatoi di carbonio, contribuendo così a mitigare gli effetti del cambiamento climatico. Uno dei siti chiave per la ricerca è stata l’Area Marina Protetta (Amp) di Capo Gallo-Isola delle Femmine, situata vicino Palermo. Questa zona, monitorata dall’Università di Palermo, ospita vasti letti di maerl, un habitat fondamentale per numerose specie marine. La fragilità di questi ecosistemi e il rischio di degrado rendono prioritario il loro monitoraggio e la loro conservazione.
Le alghe coralline sono diffuse in tutto il mondo, coprendo vaste aree delle piattaforme costiere. La loro presenza si estende su fondali marini tra i due e i cinquantuno metri di profondità, dove contribuiscono significativamente alla produttività biologica degli ecosistemi marini. I risultati dello studio hanno dimostrato che la produttività netta di carbonio di questi habitat varia in base alla disponibilità di
luce e alla composizione delle specie presenti. Alcuni letti di alghe coralline sono stati in grado di catturare fino a 1,35 grammi di carbonio per metro quadrato al giorno, un valore che supera le stime riportate per altri ecosistemi marini, come le foreste di macroalghe.
Gli habitat studiati sono caratterizzati dalla presenza di rodoliti e maerl, con le loro tipiche tonalità rosa. Questi ecosistemi sono di cruciale importanza non solo per la loro funzione di carbon sink (serbatoi di carbonio), ma anche perché forniscono rifugio e nutrimento a numerose specie marine. I ricercatori hanno evidenziato l’urgenza di integrare i letti di alghe coralline nei programmi di conservazione marina. Attualmente, questi ecosistemi non sono inclusi nella rete Natura 2000, il principale strumento dell’Unione Europea per la conservazione della biodiversità. In un contesto di crescente acidificazione degli oceani, il ruolo delle alghe coralline come serbatoi di carbonio diventa ancora più fondamentale.
La protezione di questi habitat non è solo una questione ecologica, ma anche una strategia fondamentale nella lotta al cambiamento climatico. Il team di ricerca ha sottolineato la necessità di implementare politiche di conservazione mirate, aumentando il monitoraggio e promuovendo la sensibilizzazione sull’importanza di questi ecosistemi marini.
Lo studio rappresenta un passo significativo verso una maggiore consapevolezza dell’importanza della biodiversità marina nella mitigazione del cambiamento climatico. Gli autori hanno evidenziato la necessità di ulteriori ricerche per comprendere a fondo il ruolo delle alghe coralline nel ciclo globale del carbonio e per sviluppare strategie efficaci di conservazione.
Le alghe coralline, nonostante il loro aspetto delicato, hanno un impatto significativo sugli equilibri ecologici del pianeta. Proteggerle significa non solo salvaguardare la biodiversità marina, ma anche contribuire in modo concreto alla riduzione della CO2 atmosferica. L’inclusione di questi habitat nei programmi di tutela ambientale rappresenta una sfida cruciale per il futuro. Con il supporto della ricerca scientifica e l’impegno delle istituzioni, i letti di alghe coralline potranno continuare a svolgere il loro prezioso ruolo nella lotta ai cambiamenti climatici e nella conservazione degli ecosistemi marini.
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Le alghe coralline sono in grado di assorbire ingenti quantità di carbonio atmosferico e di accumulare carbonato di calcio nelle loro strutture. Questi organismi marini funzionano come veri e propri serbatoi di carbonio, contribuendo così a mitigare gli effetti del cambiamento climatico.
I sottoprodotti del caffè, come il pergamino e la silverskin, si trasformano in risorse che possono svolgere il ruolo di antiossidanti e additivi antifungini
NON SOLO UNA BEVANDA MA MINIERA DI MOLECOLE PREZIOSE E VERSATILI
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Dalla sua scoperta, ha conquistato i palati di tutto il mondo, diventando una bevanda irrinunciabile per milioni di persone. Oltre ad essere molto più di una semplice pausa gustosa, è una risorsa preziosa che racchiude un tesoro di molecole benefiche, capaci di rivoluzionare interi settori.
L’Enea, con il supporto di alcuni istituti di ricerca messicani (El Collegio de Michoacàm, Istituto Tecnològico Superior de Zongolica CONAHCYT) e dell’Organizzazione Internazionale Italo-Latino Americana (IILA), ha condotto una ricerca che svela il potenziale nascosto del caffè, aprendo nuove frontiere per l’industria alimentare, nutraceutica, cosmetica e agricola. Lo studio, pubblicato sulla rivista scientifica “Plants” (https://www.mdpi. com/2978978), ha identificato molecole bioattive, in particolare nella cascara, la buccia essiccata, quella meno studiata.
«Gli scarti del chicco di caffè - spiega la ricercatrice Enea Loretta Bacchetta, coautrice dello studio insieme ai colleghi Oliviero Maccioni (Laboratorio di Bioeconomia circolare rigenerativa), Gianfranco Diretto e Sarah Frusciante (Laboratorio Biotecnologie GREEN) - sono spesso considerati un problema, ma, grazie alla ricerca scientifica, possono trasformarsi in ‘miniere’ di molecole benefiche, come antiossidanti, polifenoli, carotenoidi, flavonoidi e minerali, per realizzare prodotti a valore aggiunto per vari settori».
Oliviero Maccioni aggiunge: «Abbiamo identificato il numero più alto di sempre di molecole non volatili della cascara essiccata, ben 93, aprendo la strada a un suo migliore riutilizzo, in linea con i principi di economia circolare e bioeconomia, generando reddito aggiuntivo per i coltivatori di caffè».
La valorizzazione, quindi, non solo riduce l’impatto ambientale, ma crea nuove opportunità economiche. Condotta in Messico nella Sierra de Zongolica, a Veracruz, area montuosa rinomata per la coltivazione biologica di chicchi con alta qualità senza l’uso di sostanze chimiche, la ricerca ha evidenziato le straordinarie proprietà della cascara. Siamo a oltre mille metri sul livello del mare, all’ombra.
Si coltiva utilizzando pratiche agricole adattate ai contesti locali, associate a colture per l’autoconsumo, che proteggono la biodiversità e mantengono una bassa dipendenza da sostegni esterni. La raccolta avviene tramite selezione manuale dei frutti maturi con la partecipazione di donne e altri membri della famiglia. «In quella regione del Messico i sistemi agricoli tradizionali si trovano ad affrontare grandi sfide legate ai cambiamenti climatici e socioculturali, oltre che a relazioni commerciali asimmetriche (circa l’80% del guadagno va alle aziende che qui lo acquistano).
Per questi motivi - sottolinea Bacchetta - un gruppo di 20 famiglie di coltivatori ha avviato un processo di diversificazione rispetto alla produzione di caffè, riutilizzando i suoi sottoprodotti, in particolare la cascara essiccata sotto forma di fertilizzante (il 40%) e d’infuso per bevande (5%). Ma si tratta di un prodotto che potrebbe es-
Ambiente
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Il pergamino, ad esempio, può essere utilizzato come erbicida vicino agli alberi da frutto. La silverskin diventa un ingrediente alimentare, addensante e colorante, in aggiunta agli infusi e per migliorare le proprietà fisico - chimiche dell’appezzamento agricolo dedicato alla coltivazione di funghi. Non sono state escluse neanche applicazioni in creme antietà e antirughe e come agenti protettivi in diversi cosmetici.
sere utilizzato anche come additivo nutrizionale e funzionale in campo alimentare, come ad esempio già succede in Svizzera».
Le potenzialità sono molteplici: il pergamino, ad esempio, può essere utilizzato come erbicida vicino agli alberi da frutto. La silverskin diventa un ingrediente alimentare, addensante e colorante, in aggiunta agli infusi e per migliorare le proprietà fisicochimiche dell’appezzamento agricolo dedicato alla coltivazione di funghi. Non sono state escluse neanche applicazioni in creme antietà e antirughe e come agenti protettivi in diversi cosmetici. La composizione di molecole bioattive, tuttavia, può variare significativamente in base a diversi fattori, tra cui il metodo di lavorazione, la specie e varietà, il tipo e l’origine del caffè.
La produzione, concentrata nei Paesi in via di sviluppo tra i due Tropici, rappresenta una risorsa economica fondamentale per milioni di persone. Il caffè, secondo prodotto più commercializzato al mondo dopo il petrolio, vede una produzione stimata per il 2023-2024 di circa 180 milioni di sacchi da 60 kg (57% qualità Arabica e il 43% Robusta). I sottoprodotti, invece, sia provenienti dalla lavorazione del prodotto fresco sia dalla torrefazione, raggiungono circa 840 milioni di sacchi nel biennio, sottolineando l’importanza di una gestione virtuosa. «Considerando la volatilità dei prezzi internazionali del caffè, - conclude Loretta Bacchetta - i fattori ambientali come il cambiamento climatico e i parassiti, il commercio e la valorizzazione dei sottoprodotti del caffè potrebbero essere vantaggiosi per le famiglie produttrici, l’industria globale del caffè e l’ambiente».
La scoperta apre un ventaglio di opportunità per le comunità locali, che possono trasformare le sfide in nuove fonti di sviluppo, diventando un motore di progresso per un’ampia gamma di utilizzi sino alla bioedilizia. L’impegno dell’Enea, dei partner messicani e internazionali è un esempio virtuoso di come la ricerca scientifica possa contribuire a un futuro più sostenibile e inclusivo. In questo modo, la tazzina di caffè, da simbolo di convivialità e piacere, si trasforma in un sorso d’innovazione e progresso per l’intera società. (G. P.).
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ENERGIA E IA
CORSA A GAS E NUCLEARE
Chevron punta sui gas naturali per alimentare i data center mentre i colossi dell’IA investono in energia nucleare
L’intelligenza artificiale è la rivoluzione tecnologica che più di tutte sta sconquassando la nostra epoca, e lo sta facendo al punto da costringere le generazioni future a dover tracciare una linea che separerà un prima e un dopo il suo avvento. Il contributo dell’IA in ogni settore della società sta infatti crescendo sempre di più.
Tuttavia, a crescere è anche il quantitativo di energia richiesto per il suo sostentamento, e se in un futuro si vorranno mantenere i ritmi a cui questa lavora, sarà essenziale trovare
soluzioni energetiche innovative e sostenibili. Aziende come Chevron e i giganti tecnologici Google, Amazon e Microsoft stanno infatti esplorando nuove vie per alimentare i loro data center, puntando rispettivamente sul gas naturale e sull’energia nucleare. Chevron, colosso del petrolio e del gas, ha recentemente lanciato un ambizioso programma per costruire impianti a gas naturali collegati direttamente ai data center. Mike Wirth, l’amministratore delegato dell’azienda statunitense, ha dichiarato che le turbine a gas rappresentano una soluzione temporanea, ma necessaria,
per affrontare la crescente domanda energetica delle applicazioni IA. L’obiettivo è fornire energia affidabile e immediata, riducendo allo stesso tempo le emissioni rispetto ai combustibili fossili tradizionali. Quindi, ecco che Google, Amazon e Microsoft hanno prontamente stretto accordi con alcune compagnie nucleari per lo sviluppo di reattori modulari di nuova generazione (detti SMR), pensati per essere più sicuri, efficienti e meno costosi rispetto a quelli tradizionali.
I tre colossi delle Big Tech vedono nel nucleare una fonte di energia stabile e a basse emissioni per alimentare i loro data center, riducendo al contempo l’impatto ambientale. Tali scelte sono al centro di un dibattito acceso, che sta facendo emergere una serie di contraddizioni. Il gas naturale rappresenta una soluzione pronta all’uso, con costi relativamente bassi e una transizione energetica più semplice rispetto ad altre fonti.
Tuttavia, rimane una fonte di energia legata alle emissioni di carbonio, sebbene in misura minore rispetto al carbone stesso. D’altro canto, l’energia nucleare offre una fonte pulita, etichettata tra quelle “sostenibili”, con un impatto ambientale relativamente ridotto. I reattori modulari di nuova generazione (SMR) promettono maggiore sicurezza ed efficienza, sebbene presentino sfide significative in termini di costi iniziali e gestione dei rifiuti radioattivi.
Tali iniziative rappresentano dei passi importanti nell’ambito della gestione della domanda energetica, ma le implicazioni negative non possono certo essere ignorate, come non può essere ignorato il fatto che questi approcci evidenziano una visione a breve termine dell’idea di sostenibilità ambientale.
Solo attraverso una visione a lungo termine e un vero impegno nella sostenibilità si potrà garantire un progresso tecnologico che rispetti l’ambiente e il futuro.
© Gorodenkoff/shutterstock.com
di Michelangelo Ottaviano
L’ecosistema del Mediterraneo è un luogo dall’incredibile biodiversità, ma anche di sfide crescenti. Tra queste, la protezione delle specie autoctone è una priorità urgente, ma le strategie attuate finora non sempre hanno condotto ai risultati desiderati. Un esempio emblematico è il caso portato alla luce dalla biologa e divulgatrice scientifica Lisa Signorile, circa la condizione delle berte minori (Puffinus yelkouan), uccelli iconici del Mare nostrum.
Questi volatili nidificano su numerose isole del Mediterraneo e sono conosciuti per la loro abilità nel volare per lunghi periodi sopra il mare aperto. Tuttavia, nonostante la grande adattabilità all’ambiente marino, le berte minori sono costrette ad affrontare diverse minacce per la loro sopravvivenza. Come riportato nell’articolo di Signorile, l’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura (IUCN) spiega che il principale fattore di rischio per queste specie è la cattura accidentale durante le attività di pesca commerciale o artigianale.
Un altro pericolo è la predazione da parte di specie invasive come ratti e gatti; i roditori attaccano le uova e i pulcini nei nidi, mentre i felini cacciano gli esemplari adulti. Gli sforzi e i tentativi di avvelenare e rimuovere queste specie invasive sono stati spesso deludenti, come dimostra quanto è avvenuto sull’isola di Malta, dove anche dopo la rimozione dei gatti la sopravvivenza degli adulti è rimasta bassa. Ciò significa che la gestione delle popolazioni di berte minori richiede approcci più complessi e integrati, che considerino non solo la gestione delle specie invasive, ma anche la protezione degli habitat marini e la riduzione delle catture accidentali. Il turismo crescente e l’urbanizzazione delle coste dove le berte nidificano rappresentano quindi un problema rilevante.
Le luci e i rumori notturni confondono gli uccelli, mentre l’inquinamento da plastica e petrolio,
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BERTE MINORI E LA TUTELA
DELLA BIODIVERSITÀ
Un’indagine sugli errori italiani nella tutela della biodiversità dal caso delle berte minori nel Mediterraneo
incrementato dal traffico marino, danneggia gravemente l’ambiente. I cambiamenti climatici, con l’aumento delle piogge torrentizie sulle scogliere verticali dove le berte minori depongono le uova, costituiscono un ulteriore fattore di rischio.
La sopravvivenza di questi volatili dipende dalla capacità di adattarsi a queste condizioni mutevoli e dalla protezione efficace delle loro aree di nidificazione. Il caso delle berte minori non è ovviamente isolato. Un confronto utile può essere fatto con il caso della tartaruga marina Caretta caretta, anch’essa minacciata da fattori simili.
Le tartarughe marine sono vittime di cattura accidentale durante le attività di pesca, inquinamento marino e predazione da parte di specie invasive.
Tuttavia, a differenza delle berte minori, le esse hanno beneficiato di programmi di conservazione più efficaci, come la creazione di aree protette. Questo confronto evidenzia l’importanza di approcci mirati per la conservazione delle specie. La tutela della biodiversità necessita di un approccio olistico e sostenibile, e le strategie attuali devono essere rivisitate per garantire la sopravvivenza delle specie autoctone. (M. O.).
© Marc Baldevey Quilez/shutterstock.com
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SPEQTEM, UN MICROSCOPIO
ELETTRONICO
AVANZATO
Uno strumento innovativo che sarà utilizzato nell’ambito della ricerca quantistica e dell’innovazione tecnologica
Nell’Edificio di Fisica del campus dell’Università di Modena e Reggio Emilia, si è svolta la cerimonia inaugurale del nuovo microscopio elettronico SPEQTEM, acronimo di Spectroscopic Quantum Transmission Electron Microscope, strumento innovativo realizzato in collaborazione tra l’Istituto Nanoscienze del Cnr, l’Università di Modena e Reggio Emila e Thermo Fisher Scientific, azienda leader mondiale nelle tecnologie scientifiche.
Il microscopio, acquisito da Cnr-Nano e installato nel Dipartimen-
to di Scienze Fisiche, Informatiche e Matematiche di Unimore, con il sostegno dei progetti iENTRANCE e NQSTI, avrà un ruolo chiave nella ricerca e innovazione, con due principali obiettivi: rappresentare una piattaforma all’avanguardia per esperimenti di ottica quantistica degli elettroni e fungere da facility integrata per la ricerca applicata e industriale di frontiera. Equipaggiato con tecnologie avanzate, tra cui un monocromatore e un filtro energetico, SPEQTEM è in grado di produrre immagini a risoluzione atomica e analisi approfondite delle proprietà dei materiali, aprendo
nuove possibilità per lo studio di fenomeni quantistici e dei campi elettromagnetici interni alla materia. Con un valore complessivo che supera i due milioni di euro, lo strumento rappresenta un investimento strategico che sarà gestito dal gruppo di ricerca TEM@Modena, composto da ricercatori di Cnr Nano e FIM Unimore.
Maria Chiara Carrozza, Presidente del Cnr, ha dichiarato: «Con l’acquisizione di SPEQTEM, il Cnr consolida la posizione di leadership nella microscopia elettronica avanzata nel nostro Paese. Il microscopio rappresenta un’innovazione al servizio della scienza e del territorio: sarà infatti a disposizione non solo del mondo accademico, ma anche dell’industria e delle infrastrutture regionali, integrandosi con le strumentazioni del Cnr già presenti sul territorio emiliano, in particolare nel campo della microscopia e dei materiali, e contribuendo a rafforzare a livello di eccellenza scientifica della regione Emilia-Romagna».
Carlo Adolfo Porro, Rettore Unimore, ha sottolineato: «SPEQTEM è uno strumento altamente innovativo che ci permette di studiare i fenomeni quantistici e le proprietà dei materiali a livello atomico. Il fatto che, grazie alla collaborazione tra Cnr e Unimore, resa possibile dal supporto di Thermo Fisher Scientific, sia ora a disposizione dei nostri ricercatori ci rende molto orgogliosi. Il microscopio apre la strada a nuove possibilità per affrontare sfide cruciali, come l’energia sostenibile e lo sviluppo di materiali innovativi».
Alberto Tinti, Senior Director of Sales & Business Development di Thermo Fisher Scientific, ha commentato: «La collaborazione di lunga data con il gruppo di ricerca di Modena riflette il nostro impegno nel valorizzare eccellenze scientifiche. Unendo la nostra tecnologia e l’approccio innovativo di questo team, puntiamo a sviluppare soluzioni avanzate e prototipi in grado di rispondere alle nuove sfide della ricerca scientifica».
© CI Photos/shutterstock.com
di Pasquale Santilio
Ideato e brevettato dal Consiglio nazionale delle ricerche, dall’Università degli Studi di Torino e dall’azienda GIADA Sas di Gariglio Gian Marco & C., un nuovo pastorizzatore in grado di migliorare la qualità del latte umano per i neonati più fragili.
L’innovativo strumento, risultato di molti anni di ricerche, pubblicate su riviste internazionali, è basato sulla tecnologia High Temperature Short Time (HTST, 72°C per 15 secondi), una tecnica di pastorizzazione comunemente utilizzata per pastorizzare il latte fresco bovino che consente di ottenere il miglior compromesso tra sicurezza microbiologica e qualità nutrizionale. Ad oggi, questa tecnica non è adoperata in ambito umano, perché gli impianti industriali hanno portate dell’ordine di tonnellate, e non contemplano la possibilità di pastorizzare piccoli volumi.
Ricordiamo che, il latte materno è universalmente considerato l’alimento di prima scelta per tutti i neonati (1-3). In caso di mancata disponibilità o insufficienza di latte materno, il latte umano donato rappresenta la migliore alternativa per l’alimentazione di questi neonati (14) ed è stato associato a una ridotta incidenza di enterocolite necrotizzante, sepsi e altre infezioni e a una migliore tolleranza alimentare (2-5).
Il sistema attualmente in uso per pastorizzare il latte delle mamme donatrici, adoperato per bimbi ricoverati in terapia intensiva e in patologia neonatale se quello materno non è disponibile, è il metodo di pastorizzazione Holder (62.5°C per 30 minuti), fondamentale per garantire la sicurezza microbiologica del latte; questo metodo, tuttavia, modifica il valore nutrizionale e riduce, in particolare la capacità del latte umano di fornire difese e di stimolare il sistema immunitario del neonato rospetto al latte fresco, a causa dell’intenso danno termico.
Dalla collaborazione tra i neonato-
© Julia Zavalishina/shutterstock.com
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LATTE DI QUALITÀ
PER I NEONATI FRAGILI
Realizzato un nuovo pastorizzatore per migliorare la qualità del latte umano, donato a beneficio dei neonati fragili
logi della terapia intensiva neonatale universitaria dell’Università di Torino (Alessandra Coscia e Enrico Bertino), un gruppo di ricercatrici dell’Istituto di Scienze delle Produzioni Alimentari del Consiglio nazionale delle ricerche del capoluogo piemeontese (Laura Cavallarin, Marzia Giribaldi e Sara Antoniazzi), e Gian Marco Gariglio, titolare dell’azienda GIADA Sas è nata, quindi, l’idea di realizzare un pastorizzatore per piccoli volumi di latte da impiegare per il latte materno presso le banche del latte e i centri ospedalieri di neonatologia.
La produzione e la commercializ-
zazione del pastorizzatore è stata affidata tramite un contratto di licenza esclusivo all’azienda Labor baby di Tribiano (Milano), che ha completato lo sviluppo industriale del pastorizzatore e ne ha avviato la commercializzazione, vendendo il primo strumento alla Banca del Latte dell’Ospedale Regina Margherita di Torino, dove è iniziato il suo utilizzo dallo scorso mese di gennaio per fornire il latte non solo ai neonati critici dell’ospedale Sant’Anna, ma anche a quelli ricoverati nel Dipartimento di Patologia e Cura del Bambino Ospedale Regina Margherita di Torino. (P. S.).
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ECO-READY PER LA SICUREZZA ALIMENTARE
Enea è tra i partner di un progetto europeo finanziato dal Programma Horizon Europe con oltre 14milioni di euro
Il principale obiettivo del progetto europeo ECO-READY è il rafforzamento della sicurezza alimentare in Europa attraverso la creazione di un sistema di sorveglianza in tempo reale, disponibile come piattaforma elettronica e applicazione mobile, a disposizione dei cittadini, della comunità scientifica e dei decisori politici.
Insieme ad altre istituzioni europee, tra cui Confagricoltura in Italia, Enea ha realizzato un’analisi sistematica di tutti i documenti di politica europea su cambiamenti climatici, sicurezza alimentare e biodiversità,
considerati a riferimento nelle diverse misure legislative della Comunità, confrontandoli con i più recenti dati scientifici per individuare strumenti più idonei a favorire la transizione della filiera agroalimentare europea verso la sostenibilità.
Annamaria Bevivino, ricercatrice della Divisione Sistemi Agroalimentari Sostenibili e referente Enea del progetto, ha spiegato: «I risultati del nostro studio evidenziano i progressi compiuti dall’Unione europea in aree come la promozione dell’agricoltura sostenibile e della biodiversità. Ma, al contempo, fanno emergere punti
di debolezza che suggeriscono di rafforzare la sicurezza alimentare attraverso l’elaborazione di politiche UE supportate sempre di più da solide evidenze scientifiche sullo stretto legame tra cambiamenti climatici, biodiversità e sistema agricolo».
Appare necessario favorire una maggiore trasparenza e disponibilità dei dati scientifici nella definizione delle politiche europee per contribuire a migliorare l’efficacia delle misure esistenti. La ricercatrice ha aggiunto: «Dalla nostra ricerca emerge anche l’urgente necessità di strumenti di monitoraggio in tempo reale per garantire la sicurezza alimentare e di modelli di scenario che tengano conto della complessità delle condizioni tecniche, economiche e sociali per progettare soluzioni su misura per il complesso sistema agroalimentare europeo.
Il coinvolgimento di diversi stakeholder, attraverso un’attività di Scoping Group per favorire il dialogo con i principali decisori politici, professionisti dell’industria alimentare, agricoltori, consumatori, associazioni regionali, ONG ambientali, imprese agroalimentari, ha permesso di raccogliere feedback e rafforzare il legame tra dati e politiche fornendo spunti di riflessione per colmare le lacune dei dati e migliorare la rilevanza delle politiche europee».
Inoltre, lo studio Enea incoraggia l’utilizzo di Internet of Things e Intelligenza Artificiale per migliorare la sostenibilità delle pratiche agricole e contribuire al raggiungimento della sicurezza alimentare. Un esempio concreto è l’agricoltura di precisione che impiega tecnologie avanzate come GPS e analisi dei dati per ottimizzare la produzione agricola riducendo l’impatto sulle risorse idriche.
Ma anche l’utilizzo di microrganismi benefici, come funghi e batteri che fissano l’azoto atmosferico, solubilizzano il fosforo e riducono il solfato, consentendo di ridurre l’uso di fertilizzanti chimici. (P. S.).
© Nuttawut Uttamaharad/shutterstock.com
Ufinanziata dal PNRR, che mira a offri re nuovi strumenti a beneficio di pro duttori e consumatori, è la garanzia dell’origine e della qualità del riso ita liano. Analisi in campo rapide, precise e non distruttive hanno permesso di arrivare a questo traguardo.
Claudia Zoani, ricercatrice della Divisione Enea di Sistemi agroali mentari sostenibili e coautrice dello studio insieme ai colleghi del Labo ratorio Enea di Diagnostica e me trologia coordinati dalla ricercatrice Antonia Lai, ha spiegato: «Per questo studio abbiamo analizzato dieci cam pioni di riso della cultivar Carnaroli provenienti da altrettante località ita liane e coltivati con metodologie dif ferenti. I risultati che abbiamo otte nuto dimostrano che le tecniche che abbiamo applicato in campo sono un efficace strumento per l’identificazio ne di tipi di riso della stessa varietà potenzialmente utili per conoscere l’area e i metodi di coltivazione».
Grazie ad una particolare tecni ca di analisi, i ricercatori Enea han no ottenuto informazioni molecolari dettagliate per ogni chicco, identifi cando una sorta di carta di identità attraverso la raccolta di ben 45 spettri di luce per ogni campione, equivalenti a “fotografie” della loro composizione chimica. I dati così acquisiti sono stati elaborati utilizzando metodi statistici avanzati che hanno permesso di differenziare i campioni in due principali gruppi in relazione alla metodologia di semina (interrata o in acqua). Questi gruppi, pur mostrando una parziale sovrapposizione, hanno evidenziato chiaramente la capacità del modello di rilevare differenze nei metodi di coltivazione attraverso sottili variazioni chimiche.
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IL RISO ITALIANO
HA LA CARTA DI IDENTITÀ
Attraverso una particolare tecnica di analisi, si ottengono informazioni per meglio garantire origine e qualità
qualità di questo cereale è influenzata dall’area geografica di coltivazione, grazie alle peculiarità dell’ambiente naturale che comprendono la qualità del suolo e dell’acqua. In Italia il riso è sottoposto a un controllo rigoroso della filiera, per garantire e certificare la sua origine.
sino tracciare l’origine e i metodi di produzione attraverso analisi non distruttive. Un altro vantaggio di questa tecnologia è la possibilità di eseguire analisi rapide, senza bisogno di manipolazioni o pretrattamenti particolari dei campioni, garantendo una notevole risoluzione spettrale.
La coltivazione del riso in Italia è diffusa principalmente in Piemonte, Lombardia, Veneto ed Emilia. La
Tra le varie tecnologie disponibili c’è la spettroscopia Raman che i ricercatori Enea hanno impiegato per questo studio: si tratta di una tecnica all’avanguardia che utilizza l’interazione tra luce e molecole per identificare la composizione chimica, distinguere tra materiali simili e per-
E per queste sue caratteristiche viene impiegata in molti settori che spaziano dall’industria chimica alla medicina, fino ai beni culturali, trovando utili applicazioni anche nel settore alimentare, ad esempio per l’analisi di autenticità, qualità e tracciabilità dei prodotti. (P. S.).
© David San Segundo/shutterstock.com
PALATINO, RIAPRE LA SCHOLA PRAECONUM TORNANO VISIBILI GLI ARALDI
Completato il restauro della struttura da cui partivano gli incaricati degli annunci Una speciale rampa conduce alla sala dello straordinario mosaico e dei dipinti parietali
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Èil primo dei dieci progetti del Pnrr Caput Mundi destinati al Parco archeologico del Colosseo a essere portato a compimento. Dopo otto mesi di lavori, e grazie a un finanziamento di mezzo milione di euro, ha riaperto i battenti la Schola Praeconum, conosciuta anche come la Scuola degli Araldi del Circo Massimo, uno dei siti storici più suggestivi del periodo tardo-imperiale. Situato alle pendici meridio -
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nali del Palatino, con la sua tipica copertura a volte e con affaccio diretto sul Circo, la Schola Praeconum era il punto di partenza degli araldi chiamati ad annunciare all’occorrenza al popolo di Roma i cortei, le cerimonie religiose o i giochi organizzati dall’imperatore e dal Senato.
Grazie al restauro, è diventata nuovamente visitabile attraverso una rampa che ne facilita l’ingresso ed è stata dotata di una vetrata che consente una visione migliore e più dettagliata del mosaico e delle pitture raffiguranti appunto gli araldi, i praecones, da cui l’intera struttura ha preso il nome. Le visite sono previste ogni domenica e lunedì, nell’ambito di tour guidati.
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© Viacheslav Lopatin/shutterstock.com
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La riapertura della Schola Praeconum costituisce il primo traguardo, terminato nei tempi previsti, dei dieci progetti del Pnrr che il Parco archeologico del Colosseo sta portando avant. Il cantiere, che ha unito archeologia, restauro, valorizzazione illuminotecnica e accessibilità, rappresenta un modello di ricerca e progettazione interdisciplinare, in cui le indagini archeologiche hanno fornito nuovi dati per la comprensione del sito, mentre il restauro ha disvelato colori perduti e l’accessibilità per tutti consente di vedere e toccare il mosaico che ha dato il nome all’edificio.
© essevu/shutterstock.com
La scoperta della scuola risale alla fine dell’Ottocento, quando fu rinvenuto l’ambiente ipogeo contraddistinto da una serie di pitture raffiguranti un banchetto. Gli scavi sono poi ripresi negli Anni 30 del secolo scorso, col rinvenimento di tre ambienti e dello straordinario mosaico in bianco e nero dedicato agli araldi che, muniti del vessillo tipico del dio Mercurio, il caduceo, erano intenti in una processione. L’intervento di restauro finanziato coi fondi del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. nell’ambito della Missione 1 Digitalizzazione, Innovazione, Competitività, Cultura e Turismo, ha consentito di recuperare quel che resta dell’edificio, realizzato in età severiana, nel III secolo d.C., e oggetto di trasformazione tra l’età di Massenzio e il V secolo, quando fu interessato da crolli dovuti ai numerosi terremoti documentati in quel periodo, oltre che probabilmente da devastazioni e saccheggi. La Schola Praeconum, in particolare, era stata edificata tra il Circo Massimo e il Paedagogium, la scuola dei giovani di buona famiglia destinati a far carriera nell’amministrazione dell’impero. Durante le operazioni di restyling è stata realizzata una speciale rampa dotata di mappa tattile con pianta del monumento e testi in italiano, inglese e braille, che da via de Cerchi consente l’accesso alla sala mosaicata e che nel suo percorso dà modo di ammirare un pilastro angolare della corte porticata, un fusto di colonna
in marmo cipollino della stessa corte e un vasto ambiente absidato. Rampa che conduce alla sala mosaicata, dove sono presenti il bellissimo mosaico dai colori bianco e nero, unico nell’intero panorama della produzione musiva romana, e le pitture raffiguranti uomini ad altezza naturale, compresa tra 160 e 180 centimetri.
I prossimi interventi riguarderanno la pedonalizzazione della via di accesso alla Schola, mentre è già stato eseguito il minuzioso rilievo fotogrammetrico 3D dell’intero sito, insieme al restauro conservativo di tutte le superfici che ha consentito, tra l’altro, di far venire alla luce minuscoli frammenti di decorazioni cromatiche in rosso e in oro.
Particolarmente ingegnoso e sofisticato è il nuovo sistema di illuminotecnica realizzato da iGuzzini, gruppo internazionale attivo dal 1959 e specializzato nel settore dell’illuminazione architetturale, che prevede all’esterno una luce governata da un orologio astronomico e che illumina all’interno sia la sala ipogea sia l’intero contesto, consentendo di apprezzare i lacerti di intonaci dipinti nella sala centrale, con i soffitti a cassettoni e quel che resta dei colori delle decorazioni.
Ma gli interventi non sono conclusi, così come le indagini archeologiche volte a far luce su tutte le sequenze storiche di utilizzo dell’edificio. Sette i periodi che hanno lasciato traccia, dal I al XIX secolo, con vari sbalzi temporali da riassemblare e mettere insieme. Un progetto di cui è responsabile unica Federica Rinaldi, con direzione dei lavori affidata invece ad Aura Picchione.
«La riapertura della Schola Praeconum costituisce il primo traguardo, terminato nei tempi previsti, dei dieci progetti del Pnrr che il Parco archeologico del Colosseo sta portando avanti», sottolinea Alfonsina Russo, direttore del Parco archeologico del Colosseo. «Il cantiere, che ha unito archeologia, restauro, valorizzazione illuminotecnica e accessibilità, rappresenta un modello di ricerca e progettazione interdisciplinare, in cui le indagini archeologiche hanno fornito nuovi dati per la comprensione del sito, mentre il restauro ha disvelato colori perduti e l’accessibilità per tutti consente di vedere e toccare il mosaico che ha dato il nome all’edificio.
La riapertura della Schola al pubblico, con percorsi didattici accompagnati la domenica e il lunedì, avvia un percorso di riqualificazione del fronte del Palatino rivolto verso il Circo Massimo, che vedrà ulteriori riaperture e nuovi ingressi entro il 2026». (R. D.).
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Argento nel Super G, Federica si è laureata campionessa iridata in Gigante dopo il sorprendente debutto degli slalomisti nella gara a squadre
SCI ALPINO, BRIGNONE E L’ORO
NEL PARALLELO ILLUMINANO I MONDIALI AZZURRI
di Antonino Palumbo
Una medaglia d’oro e quattro volti felici nel parallelo a squadre. E poi Federica, l’infinita Brignone, argento in un Super G femminile che poco le sorrideva e poi campionessa del mondo in Gigante, a 14 anni dal suo primo podio iridato a Garmisch-Partenkirchen (Germania). Sono state queste le gioie luccicanti dell’Italia ai Mondiali di sci disputati dal 4 al 16 febbraio scorsi a Saalbach-Hinterglemm, in Austria.
A secco stavolta Sofia Goggia, altra leader del movimento femminile nelle discipline veloci. E nessun exploit in campo maschile, dove il sempreverde Dominik Paris ha ottenuto buoni piazzamenti in discesa libera e Super G senza però salire sul podio, mentre nelle discipline tecniche l’Italia si è confermata in un periodo decisamente crepuscolare. A Mondiali chiusi, l’oro ottenuto da Alex Vinatzer, Filippo Della Vite, Lara Della Mea e Giorgia Collomb nel parallelo a squadre, gara d’apertura della rassegna, sa ancor più di impresa, visti la successiva magra nelle gare di slalom. Eliminate Ucraina, la forte Francia e l’agguerrita Svezia, l’Italia l’ha spuntata in finale contro la corazzata Svizzera, grazie alla grande manche di Vinatzer, all’unico e provvidenziale acuto del suo Mondiale.
Parallelo a parte, a salvare il bilancio – altrimenti disastroso – dell’Italia nelle discipline tradizionali e più significative dello sci alpino è stata Federica Brignone. Malgrado le grandi aspettative dovute a una poliedrica campionessa, arrivata al Mondiale da leader di Coppa del Mondo, la 34enne valdostana è riuscita a concentrarsi sulla sua sciata e a domare un tracciato che - soprattutto nelle specialità veloci – non le sorrideva. Ne è la riprova il decimo posto in discesa libera, disciplina che l’aveva vista andare a segno per due volte in coppa nel mese di gennaio. Come accade sovente negli eventi importanti a gara secca, l’oro è andato a un’atleta mai vittoriosa prima d’ora in Coppa del Mondo, l’americana Breezy Johnson. Quasi perfetta, invece, la prestazione di Federica in Super G, dove meglio di lei ha fatto solo la svizzera Stepanie Venier per appena 10 centesimi.
Ma è nello slalom gigante, però, che la Tigre –disegnata sul casco di Federica – ha lasciato la sua zampata. In testa nella prima manche, Brignone ha risposto alla superlativa prova di Alice Robinson, scesa nella seconda prima di lei, con una gara all’attacco, facendo registrare nuovamente il miglior tempo parziale e trionfando con 90 centesimi sulla neozelandese. «Questa è la medaglia più bel-
la, lo sognavo da tutta la carriera» il commento di Brignone, che ha aggiunto: «È bello arrivare a un grande evento così focalizzata sulle cose giuste».
Nessuna medaglia, invece, per l’altra grande protagonista femminile dello sci azzurro, la bergamasca Sofia Goggia. Quinta in Super G, a soli 30 centesimi da Venier, è arrivata solo 16esima in discesa (dopo una caduta in prova) e non ha concluso il gigante. Da una campionessa del suo calibro, ci si attende sempre qualcosa in più. Non c’erano grandi aspettative di podio nello slalom femminile dove, peraltro, l’azzurra più quotata (Martina Peterlini) è arrivata all’impegno in condizioni cagionevoli. Alla fine la migliore delle italiane è stata Lara Della Mea, risalita dal 19esimo posto della prima manche al 13esimo finale. Peccato per Marta Rossetti, scesa dall’11esimo al 15esimo posto, dopo una manche e mezza interpretate al meglio. A ridosso della Top 20 Collomb e Peterlini. In campo maschile si sperava soprattutto nelle discipline veloci, salvo improbabili “miracoli” da parte di slalomisti e gigantisti. Ed è in discesa libera che Dominik Paris ha sfiorato la medaglia di bronzo, piazzandosi quarto a soli 14 centesimi di secondo dallo svizzero Alexis Monney, terzo, e a 45 dal neocampione del mondo, l’altro elvetico Franjo von Allmen. Argento all’austriaco Vincent Kriechmayr. In precedenza, Paris si era classificato settimo nel Super G vinto dal fuoriclasse svizzero Marco Odermatt.
Italia lontana dal podio nello slalom gigante vinto dall’Austria, grazie all’exploit di Raphael Haaser, mai sul podio in Coppa del Mondo eppure capace di rimontare e battere i grandi favoriti, Imprese che piacciono agli amanti dello sport, in attesa che anche il movimento azzurro torni a esprimere atleti da podio, per non dire da vittoria. Il migliore dei “nostri” è stato Luca De Aliprandini, sesto dopo la prima manche ma soltanto nono alla fine. È andata ancora peggio nello slalom che ha chiuso l’intero programma iridato: l’unico italiano a completare le due manche è stato Stefano Gross, 38 anni e mezzo, ventesimo. Dietro di lui, il nulla. La Svizzera ha perfezionato il suo dominio nella rassegna iridata grazie a Loic Meillard, tornando a vincere un oro in questa specialità dopo 75 anni. Nelle gare maschili, gli elvetici hanno vinto 3 ori su 4 possibili.
Neppure le gare di combinata mista hanno regalato gioie all’Italia: ottava la coppia Delago-Rossett fra le donne, sesti Schieder-Kastlunger tra gli uomini con tanti rimpianti per l’uscita di Vinatzer in slalom dopo il terzo posto di Paris in discesa.
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In testa nella prima manche, Brignone ha risposto alla superlativa prova di Alice Robinson, scesa nella seconda prima di lei, con una gara all’attacco, facendo registrare nuovamente il miglior tempo parziale e trionfando con 90 centesimi sulla neozelandese. «Questa è la medaglia più bella, lo sognavo da tutta la carriera» il commento di Brignone, che ha aggiunto: «È bello arrivare a un grande evento così focalizzata sulle cose giuste».
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NELLA SCIA DEI FENOMENI I NUOVI TALENTI
Ceccon, Martinenghi, Pilato e Quadarella riferimenti di una Nazionale che vede crescere nuovi talenti, da Curtis a Giannelli
© Marco Iacobucci
Chi nuota nella scia dei Ceccon e dei Martinenghi, delle Pilato e delle Quadarella, dei Paltrinieri e dei Detti? Un anno e mezzo fa, la grande Federica Pellegrini parlò di una “generazione di fenomeni” e di una nazionale di nuoto che non è mai stata così forte. Competenza dei tecnici, centri federali, unione della squadra sono stati i fattori che hanno contribuito a fare dell’Italia la prima potenza europea, malgrado si sia intanto ritirata la Divina (Pellegrini, appunto), e che permettono di guardare al futuro con grande ottimismo. I risultati degli ultimi grandi evento raccontano il grande valore del nuoto italiano. Parlando di Olimpiadi, a Rio 2016 sono arrivate quattro medaglie: un oro (Gregorio Paltrinieri nei 1500m sl), un argento (Rachele Bruni nella 10 km) e due bronzi (Detti nei 1500m sl e nei 400m sl). A Tokyo 2020 nessun successo, ma ben sette podi totali: due argenti (Paltrinieri negli 800m sl e la staffetta 4x100m sl maschile) e cinque bronzi (Nicolò Martinenghi nei 100m rana, Federico Burdisso nei 200m farfalla, Simona Quadarella negli 800m sl maschili), la staffetta 4x100m misti maschili e, in acque libere, Paltrinieri nella 10 km. A Parigi, la scorsa estate, hanno scintillato gli ori di Martinenghi nei 100m rana e Thomas Ceccon nei 100m dorso. Paltrinieri si è preso l’argento nei 1500m sl e il bronzo negli 800m sl. Podio anche per la 4x100m stile libero maschile e Ginevra Taddeucci nei 10 km in acque libere.
Fondamentale è il discorso della continuità. Perché, mentre si affacciano nuove leve alle spalle di campioni esaltati da un grande lavoro tecnico, questi campioni sono ancora nel pieno del vigore e pronti ad esaltarsi ed esaltare gli appassionati italiani, a partire dai prossimi Mondiali in programma dall’11 luglio al 3 agosto a Singapore. Per intendersi: Benedetta Pilato, cinque podi mondiali (fra cui un oro), quattro titoli europei e 17 italiani, ha appena compiuto vent’anni. Thomas Ceccon ne ha 24, Martinenghi ne compirà 26 in estate, Quadarella li ha appena compiuti, festeggiandoli con una medaglia d’argento nei 1500 m stile libero (alle spalle della tedesca Isabel Gose) agli Europei in vasca corta.
Si, tutto bello, si dirà: ma le stelle emergenti? La prima, probabilmente, sarà già risuonata alle orecchie di chi legge. Si chiama Sara Curtis, classe 2006, primatista mondiale juniores e
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L’Italia è costantemente nelle zone nobili del medagliere anche ai Mondiali di nuoto, che includono anche l’artistico, la pallanuoto e i tuffi oltre al nuoto in corsia e al fondo: riassumendo in cifre, 19 medaglie (con tre ori) a Doha 2024, 14 medaglie (con due ori) a Fukuoka 2023, 22 medaglie (con 9 ori) nella straordinaria vendemmia di Budapest 2022, solo per citare le edizioni post Covid.
© Raffaele Conti 88/shutterstock.com
detentrice del record italiano assoluto nei 50 metri stile libero femminili. Può già vantare una semifinale individuale olimpica e una finale olimpica in staffetta. Lo scorso novembre, ai campionati italiani in vasca corta, ha stabilito il nuovo primato italiano dei 50m sl in vasca corta (23”77), per poi vincere l’oro mondiale a Budapest con la 4x50m stile libero mista. Classe 2009 è Caterina Santambrogio, altra promessa del nuoto italiano. Già in evidenza tre anni fa nel successo della nazionale giovanile nella Coppa Comen-Mediterranean Swimming Cup a Limassol, Cipro, la lombarda ha stabilito nel 2023 il record italiano di categoria nei 100 sl e ha vinto l’argento agli Europei juniores di Vilnius l’anno successivo.
Nel mezzofondo potrebbe essere Emma Vittoria Giannelli a raccogliere il testimone di Simona Quadarella: l’anno scorso ha vinto l’argento nei 1500 stile libero e un super bronzo negli 800 metri stile libero agli Europei Juniores, ma ha dominato a livello nazionale giovanile anche nelle discipline veloci. Brava sia al Settecolli sia a Euro junior la giovanissima Lucrezia Domina, promessa dei 400 ma anche dei 200 metri. Giovani astri nascenti da tener d’occhio sono anche l’abruzzese Valentina Procaccini, classe 2008, e la giovanissima Alessandra Mao, veneziana classe 2011, che sta facendo parlare di sé in virtù di prestazioni e risultati eclatanti: ama i 200m stile libero, ma va fortissima anche nel fondo.
In campo maschile cresce bene Carlos D’Ambrosio, classe 2007 veneto di Valdagno, abile sia nei 100m sia nei 200m stile libero, bravo a qualificarsi per le Olimpiadi di Parigi 2024 e sfortunato protagonista con la 4x200 stile libero. Poi c’è Alessandro Ragaini, classe 2006 marchigiano di Jesi, già a segno agli Europei giovanili e più volte sul podio mondiale di categoria. Altri due nomi di prospettiva sono quelli di Daniele Momoni, campione europei juniores nei 100 farfalla (specialità dove l’Italia ha bisogno di volti nuovi) e Daniele Del Signore, oro nei 100m dorso agli Europei juniores. Il suo riferimento è Thomas Ceccon, deve solo stare attento a non “bruciarsi”. A Budapest si sono fatti notare anche Christian Bacico, classe 2005, specialista del dorso, più volte a podio a livello giovanile, e Davide Dalla Costa, specialista dello stile libero, cresciuto sia nei 100 sia nei 200 metri. (A. P.).
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“PARITÀ” IN FIGURINA: PRIMO ALBUM CALCIATRICI PANINI
Per la presidente della Divisione Serie A femminile, “il calcio delle donne cresce e acquista sempre più importanza”
Una svolta storica. E, a quanto pare, decisamente gradita. Tanto che il “prodotto” è andato esaurito subito online e rivenduto a cifre superiori ai cento euro. Si parla del primo album Panini dedicato espressamente alle calciatrici: 322 figurine, 48 pagine con le protagoniste della Serie A ma anche della Serie B e della Nazionale. Calciatrici 20242025 è stato presentato lo scorso 6 febbraio all’Aleph Rome Hotel, Curio Collection by Hilton di Roma.
Al vernissage c’era la cosiddetta platea d’eccezione. Volti del calcio femminile, come la presidente della
Divisione Serie A femminile professionistica, Federica Cappelletti, la responsabile del settore femminile per l’Associazione italiana calciatori, Chiara Marchitelli (che è anche capodelegazione della Nazionale donne) e il ct delle ragazze azzurre, Andrea Soncin. Ma c’erano anche il presidente della Federazione italiana giuoco calcio, Gabriele Gravina, il direttore mercato Italia di Panini, Alex Bertani, il capodelegazione della Nazionale maschile, Gianluigi Buffon, e il presidente dell’Associazione italiana allenatori calcio, Renzo Ulivieri. «Dopo 64 edizioni dell’album
maschile, avere finalmente l’album dedicato alle calciatrici è un’emozione grande – le parole della presidente della Divisione Serie A femminile professionistica, Federica Cappelletti –. Questa è la dimostrazione che il calcio femminile sta crescendo molto e sta diventando sempre più importante: per tutte le calciatrici ma anche per i collezionisti questa è una svolta epocale. Stiamo entrando nella storia e questo ci riempie di orgoglio: io ci ho creduto da subito e sono contenta di essere arrivata a questo traguardo grazie a Panini e grazie allo staff della Divisione Serie A Femminile».
Sulla copertina del primo album dedicato alle calciatrici sono rappresentate le dieci squadre di Serie A, attraverso le loro giocatrici più rappresentative, dalla romanista Manuela Giugliano, unica italiana candidata al Pallone d’Oro, alla juventina Cristiana Girelli, passando per Vero Boquete (Fiorentina), Michela Cambiaghi (Inter), Nadia Nadim (Milan), Eleonora Goldoni (Lazio), Benedetta Orsi, (Sassuolo), Eli Del Estal (Como Women), Paola Di Marino (Napoli Femminile) e Cecilia Re (Sampdoria).
In passato, le calciatrici avevano fatto capolino nell’album di figurine dedicato al calcio maschile, con un paio di pagine nel 2002-2003 e spazi molto limitati in seguito. Nel 20222023 è uscita la prima collezione Calciatrici in versione digitale. Quest’anno, la vera parità. O quasi: ha fatto discutere infatti il colore “rosa” utilizzato per la scritta, il logo, lo sfondo dell’album e le bustine delle figurine, per alcuni rimando a una distinzione cromatica fra uomini e donne considerata ormai uno stereotipo di genere.
L’album Calciatrici 2024-2025 è stato distribuito gratuitamente al pubblico negli stadi che hanno ospitato partite di Serie A e Coppa Italia femminile. In campo, le capitane si sono invece scambiate le maxi-figurine con i rispettivi loghi prima dell’inizio dei match. (A. P.).
© ErreRoberto/shutterstock.com
Manuela Giugliano.
Per gli amanti del ciclismo, marzo non è solo il mese della primavera. E, se lo è, è perché alla stagione del rifiorire è legato l’appellativo di una serie di corse, dette appunto “Classiche di primavera”. Dall’Italia alle Ardenne, dal viale Roma a Sanremo al pavé del Nord: uno spettacolo per grandi campioni e appassionati di ogni età.
Ad aprire il programma, mercoledì 5 marzo, sarà come da tradizione il Trofeo Laigueglia, in Liguria, giunto all’edizione numero 62. Sarà un gustoso antipasto della Strade Bianche. L’azzeccata collocazione in calendario, infatti, ne fa una corsa di buon livello con otto formazioni World Tour, nove Professional e otto Continental pronte a darsi battaglia sul percorso di 197 chilometri che avrà nell’ascesa di Colle Micheri e in quella di Capo Mele le difficoltà principali, nel circuito conclusivo.
Scaldati i motori, ecco sabato 8 marzo la “Strade Bianche”, 213 chilometri con partenza dalla Fortezza medicea e arrivo in Piazza del Campo a Siena, con 16 settori di sterrato (uno in più dello scorso anno) per 81,7 chilometri totali. Fra i punti-chiave della gara c’è, come al solito, il nono settore con il Monte Sante Marie. E c’è il muro di Santa Caterina, a 500 metri dall’arrivo in Piazza del Campo, con pendenze che arrivano al 16 per cento, prima della volata finale. Lo scorso anno trionfò, da dominatore, Tadej Pogacar che naturalmente punta al bis.
Nella stessa giornata, prima della gara maschile, ci sarà anche lo spettacolo della Strade Bianche femminile, con Elisa Longo Borghini vicecampionessa uscente (assente la “detentrice”, Lotte Kopecky) e Pauline Ferrand Prevot prima contendente. Per loro 136 km, con 50 di sterrato.
Cerchiata in rosso dagli appassionati di ciclismo c’è però - e non potrebbe essere altrimenti, per storia e fascino - la Milano-Sanremo, giunta all’edizione numero 116. Ma c’è un
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CICLISMO: A MARZO STRADE BIANCHE E “SANREMO”
Attesa per il campione del mondo Pogacar sia in Toscana (8 marzo) sia nella Classicissima dove si prevede il duello con Van der Poel
motivo in più, in questo scorcio di secolo, per godersi lo spettacolo della Classicissima di primavera. C’è il campione del mondo e campione di (quasi) tutto, lo sloveno Tadej Pogacar, che la Milano-Sanremo la vuole “fortissimamente”, dopo averla solo sfiorata giungendo quinto, quarto e terzo nelle ultime tre edizioni.
In un quadriennio, va sottolineato, in cui ha si è aggiudicato per quattro volte il giro di Lombardia, due volte la Liegi-Bastogne-Liegi, un Giro delle Fiandre, un titolo iridato, due Tour de France e un Giro d’Italia. Sulla strada, però, Pogi troverà un altro gigan-
te, quel “polistrumentista” del ciclismo chiamato Mathieu Van der Poel che la Milano-Sanremo l’ha vinta due anni fa, per poi contribuire al successo del compagno di squadra Jasper Philipsen nel 2024, andando a riprendere proprio lo sloveno piglia(quasi)tutto.
Come lo scorso anno, e come accadrà fino al 2027, la corsa scatterà da Pavia e si snoderà sul percorso classico con il Turchino, i Capi, la Cipressa e il Poggio prima del gran finale in Via Roma dopo 289 chilometri. Pogacar o Van der Poel? Per dirla con Lucio Battisti, «lo scopriremo solo vivendo». (A. P.).
© Lecker Studio/shutterstock.com
Tadej Pogacar.
IL POTERE DEL TATTO IL SENSO CHE CI CONNETTE AL MONDO
Un viaggio esplorativo tra fisiologia, biologia e neuroscienza alla scoperta del tatto
Un sorprendente ritratto del senso dimenticato, toccare per credere
di Anna Lavinia
Laura Crucianelli
Storia naturale del tatto
Utet, 2024 – 17,00 euro
Se ci chiedessero a quale senso non potremmo mai rinunciare, non penseremmo mai al tatto ma senza dubbio ci concentreremmo sulla vista o sull’udito e a quanto sarebbe complicato vivere senza. Eppure il tatto è il senso della vita.
È quello che ci permette di entrare in contatto con il mondo ed il primo a svilupparsi dopo la nascita. Il contatto fisico come la parola fa da ponte tra noi e l’altro, tra madre e figlio, tra passato e futuro.
Fino a prova contraria, solo il tatto ci dice cosa esiste e cosa no. È il senso che ci àncora a terra e ci consente di trasmettere e ricevere emozioni. Lo diamo per scontato ma numerosi benefici che ignoriamo derivano proprio da questo senso straordinario. Riduce il dolore psicologico, quella sensazione di benessere che ci avvolge quando diamo un abbraccio è merito suo. Un tocco trasformandosi in carezza può diventare un potente strumento terapeutico naturale a disposizione di tutti.
Lo dice anche la scienza: accarezzare i bambini nati prematuramente migliora in modo significativo la loro ossigenazione e il battito car-
diaco. Il tatto è la nostra pelle, una questione biologica, psicologica e neurologica.
Quanta superficie abbiamo a disposizione per toccare ed essere toccati, siamo costantemente stimolati anche se non ne siamo consapevoli. Le emozioni passano tangibilmente dal nostro corpo, è il caso dei brividi che arrivano involontariamente quando ascoltiamo, vediamo o gustiamo qualcosa di speciale.
Perfino il linguaggio verbale è ricco di metafore e modi di dire che hanno a che fare con il tatto e i suoi derivati, ad esempio quando esprimiamo simpatia o antipatia per un individuo semplicemente giudicandolo “a pelle”.
È vero che da una stretta di mano si possono capire molte cose della persona che si ha davanti ma è proprio il tatto a fornirci preziose informazioni fisiologiche ed emotive. Il tatto è un vero e proprio linguaggio che abbatte barriere culturali e linguistiche e parla direttamente al cuore. Ma attenzione, la misura e le modalità di questa lingua non sono uguali per tutti. Condizioni climatiche e latitudini influenzano le interazioni sociali e fanno una popolazione ad alto o basso contatto fisico. In Giappone, al pri-
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mo incontro, non si aspettano di certo due baci sulla guancia come in uno scambio tra amici italiani così come gli svedesi in fila esigono uno spazio personale di almeno un metro l’uno dall’altro. Non solo tra sconosciuti, anche tra le coppie ci sono dei limiti nell’uso del tatto affettivo.
Alcuni studi dimostrano che le coppie italiane e greche hanno una tendenza maggiore al tocco rispetto alle corrispettive francesi, olandesi e inglesi. È fondamentale allora comprendere ed accettare il ruolo dello spazio personale nel tatto dell’altro perché questo possa aiutare a gestire il consenso per stabilire un contatto fisico sano e rispettoso.
L’autrice di questo volume ci suggerisce un’immagine che riflette la straordinaria capacità del tatto nell’essenza di tutta la vita.
L’attimo prima di un tocco, quel minuscolo spazio tra le dita di Dio e di Abramo che Michelangelo dipinge nella Cappella Sistina. Le due mani si avvicinano al limite ma non si toccano mai completamente. È proprio quell’aspettativa incredibile creata dalla tensione delle due mani a “sottolineare il ruolo centrale del tatto nel comunicare significati profondi e universali”.
Niklas Brendborg
Ancora un pò
Sonzogno, 2025 – 18,00 euro
Il volto che ci costruiamo determina davvero chi siamo? Neuroscienze, semiotica, storia dell’arte e moda si mescolano per studiare il viso e il rapporto che intratteniamo con esso. Dall’antichità all’inevitabie selfie, più che un libro è un invito a guardare con occhi nuovi ciò che vediamo tutti i giorni, la nostra faccia. (A. L.).
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Nadia Terranova
Quello che so di te Guanda, 2025 – 19,00 euro
Un cardiologo è come un orologiaio. Smonta e rimonta i meccanismi del cuore ma non potrà mai entrare nel suo tempo. Tra un elettrocardiogramma e una sala operatoria, il medico e autore di questo volume si rivolge all’arte, al cinema, alla musica e alla letteratura per poter parlare di cuore e cure con i suoi pazienti. (A. L.).
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Linda De Luca
Avrai sempre la mia voce Bollati Boringhieri, 2025 – 15,00 euro
“Il suono è onnipresente all’esterno ma brontola anche all’interno: entra dalle orecchie e non ne esce, attraversa il corpo senza difficoltà, raggiunge gli organi, tocca i figli che portiamo in grembo.” Di fronte a tutto il rumore del mondo, il silenzio è segreto ma necessario al suono. Che forme assume, come e dove lo troviamo? (A. L.).
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ANTIBIOTICO-RESISTENZA E MICROPLASTICHE NELLE ACQUE REFLUE OSPEDALIERE
Le microplastiche diffondono batteri e geni resistenti agli antibiotici minacciando la salute umana
di Daniela Bencardino*
Le microplastiche possono trasportare, anche a lunga distanza, batteri resistenti agli antibiotici diffondendoli nell’ambiente. La diffusione di batteri resistenti agli antibiotici è un’emergenza di salute pubblica e la contaminazione ambientale da antibiotici contribuisce a peggiorare questa condizione, esercitando un effetto di selezione sui microrganismi, anche a concentrazioni molto basse.
In Italia, il consumo di antimicrobici è tra i più alti in Europa e, secondo l’European Centre for Disease Prevention and Control (ECDC), il nostro Paese ha uno dei tassi più elevati di antibiotico-resistenza. Inoltre, l’uso di antimicrobici in medicina veterinaria aggrava la situazione, sebbene negli ultimi anni si sia registrata una riduzione del loro uso di oltre il 3-4% grazie all’approccio “One Health” promosso dall’Organizzazione Mondiale della Salute (OMS).
Anche l’inquinamento da microplastiche è una questione preoccupante. Nel 2019, l’OMS ha mostrato una presenza allarmante di microplastiche nell’acqua destinata al consumo umano, compresa quella potabile. La lenta degradazione della plastica è la principale causa di persistenza nell’ambiente. Le microplastiche sono particelle di plastica con dimensioni comprese tra 0,1 µm e 5 mm. Le particelle con dimensioni comprese tra 0,001 e 0,1 µm sono definite “nanoplastiche”. Le microplastiche sono classificate come “primarie” se prodotte dall’industria e aggiunte intenzionalmente a vari prodotti per modificar-
* Comunicatrice scientifica e Medical writer
ne la consistenza e la stabilità, o caratteristiche come la capacità abrasiva (medicinali e cosmetici, fertilizzanti e prodotti fitosanitari, detergenti industriali e domestici, vernici e prodotti utilizzati nell’industria del petrolio e del gas). Le microplastiche secondarie, invece, derivano dalla frammentazione e dalla degradazione di materiali plastici più grandi, come dal lavaggio di indumenti sintetici o dall’usura dei pneumatici [1,2].
Le microplastiche possono trasportare sostanze chimiche tossiche nell’ambiente, grazie alla loro capacità di assorbire vari tipi di inquinanti, e possono percorrere anche lunghe distanze e rilasciare queste sostanze tossiche nel suolo o nell’acqua. Il Mar Mediterraneo è risultato particolarmente inquinato da microplastiche, essendo un mare chiuso circondato e con un importante flusso commerciale, con una stima di circa 1.178.000 tonnellate di plastica accumulate. La capacità di assorbimento delle microplastiche le rende un substrato ideale per l’adesione microbica. Il termine “plastisfera” è stato coniato per riferirsi a una comunità microbica di eterotrofi, autotrofi, predatori e simbionti. Le comunità batteriche sulla plastisfera sono selezionate in base alle proprietà della plastica, colonizzano la superficie delle microplastiche, producono molecole extracellulari e proliferano.
Inoltre, molte hanno subìto una maggiore degradazione a causa della loro permanenza nell’ambiente e la loro concentrazione di inquinanti è quindi più alta. L’abrasione meccanica, la radiazione solare e la biodegradazione ne causano la depolimerizzazione e l’alterazione delle loro proprietà fisico-chimiche, aumentando la superficie di scambio e promuovendo l’adesione chimica e
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©SIVStockStudio/shutterstock.com
biologica. L’adesione microbica alle microplastiche determina la formazione di biofilm, all’interno dei quali possono accumularsi i vari inquinanti [3].
Uno studio condotto da un team di ricercatori cinesi dell’Università Tecnologica di Nanchino e dell’Università di Zhejiang ha analizzato i contenitori in polistirene per cibo da asporto e la loro capacità di formare microplastiche e contribuire all’aumento della resistenza agli antibiotici. Questo materiale, una volta trasformato in microplastiche, può fornire un substrato ideale per ospitare non solo microrganismi e contaminanti chimici, ma anche i geni di resistenza. Inoltre, è stato dimostrato che l’esposizione ai raggi UV, anche solo per 5-20 giorni, può aumentare la dimensione dei pori all’interno delle microplastiche, favorendo così l’adesione di batteri resistenti agli antibiotici, la formazione di biofilm e lo scambio di geni di resistenza [4].
Anche gli additivi o gli inquinanti che si accumulano sulle microplastiche influiscono sulla presenza di geni di resistenza. Per esempio, il rame e lo zinco possono favorire il legame dei geni che conferiscono resistenza a macrolidi, lincosamidi e aminoglicosidi. Nel biofilm che si forma sulle microplastiche, l’elevata densità e il contatto fisico ravvicinato tra le cellule facilitano il trasferimento dei geni, così come la loro resistenza agli agenti fisici esterni e, quindi, la loro persistenza nell’ambiente [5].
Il ruolo delle acque reflue
Una frazione significativa di microplastiche raggiunge le acque superficiali e marine dopo il trattamento delle acque reflue. Questo processo è in grado di rimuovere circa il 90% delle microplastiche, ma una parte rimane comunque nell’effluente finale scaricato nei corpi idrici.
Circa il 67% della popolazione mondiale non ha accesso alla rete fognaria pubblica e, in particolare, nei paesi a medio-basso e basso reddito, circa il 20% delle acque reflue domestiche non subisce nemmeno il trattamento secondario. In questi paesi, le microplastiche possono essere presenti in concentrazioni più elevate nelle fonti di acqua potabile; tuttavia, i rischi per la salute associati all’esposizione a patogeni in acqua non trattata, o trattata in modo inadeguato, sono considerati di gran lunga superiori [2].
La pressione selettiva promossa dall’uso ampio e inappropriato di antibiotici, sia in medicina umana che veterinaria, crea ceppi di batteri resistenti agli antibiotici negli esseri umani e negli animali che vengono espulsi con urine e feci. Questo può portare alla contaminazione ambientale e favorire la trasmissione dei determinanti genetici della resistenza agli antibiotici ad altri microrganismi presenti sia nell’ambiente che nel microbioma di animali e piante. Inoltre, questa situazione è aggravata dalla co-selezione di geni di resistenza ai metalli pesanti e ai biocidi, fenomeno riscontrato nei sistemi di trattamento delle acque reflue [6]. Rispetto alle acque reflue urbane, quelle ospedaliere contengono una varietà di sostanze tossiche o persistenti, come farmaci, radionuclidi, disinfettanti per scopi medici in diverse concentrazioni e, in particolare, microrganismi patogeni contenenti geni di resistenza.
L’Italia è considerata endemica per la diffusione di Enterobacterales produttori di metallo-beta-lattamasi, che possono conferire resistenza alla maggior parte dei beta-lattamici, come le cefalosporine e i carbapenemi, utilizzati per trattare le infezioni più gravi. Nonostante la diminuzione della prevalenza di Klebsiella pneumoniae produttrice di carbapenemasi degli ultimi anni, è stato
registrato un aumento di Escherichia coli. La resistenza ai carbapenemi si è diffusa anche tra le specie di Acinetobacter, spesso combinata con la resistenza ai fluorochinoloni e agli aminoglicosidi. Tra i Gram-positivi, è stata documentata la crescita di Enterococcus faecium resistente alla vancomicina e di Staphylococcus aureus resistente alla meticillina (MRSA). In Italia, una delle azioni prioritarie è l’uso di metodi innovativi nel trattamento di depurazione delle acque reflue urbane e ospedaliere, al fine di intercettare il maggior numero di contaminanti prima che possano raggiungere le matrici ambientali.
A causa della loro diffusa disseminazione, persistenza e impatto sull’ambiente, le microplastiche, i batteri resistenti agli antibiotici e i geni di resistenza sono motivo di crescente preoccupazione per il loro potenziale effetto sulla salute umana [1,2].
Gli effetti sulla salute umana
Le microplastiche possono entrare nel corpo umano tramite ingestione e inalazione. Dopo essere penetrate nei sistemi polmonare e gastrointestinale, il loro accumulo e la loro distribuzione nei tessuti umani sono direttamente correlati alla dimensione delle particelle. La principale via di esposizione umana alle microplastiche tramite ingestione è rappresentata dal loro accumulo negli organismi acquatici.
Il rilascio continuo di microplastiche non degradabili negli ambienti acquatici contribuisce alla contaminazione permanente di questi ecosistemi e, di conseguenza, all’ingresso delle microplastiche nella catena alimentare [7].
Un altro veicolo per l’ingresso delle microplastiche nel corpo umano è rappresentato dall’acqua del rubinetto e
dall’acqua in bottiglia. Si stima che l’80% dell’acqua del rubinetto urbana nel mondo sia contaminata da microplastiche, con una concentrazione che varia da 1.383 a 4.464 particelle/L nell’acqua grezza e da 243 a 684 particelle/L nell’acqua trattata.
Per quanto riguarda l’acqua in bottiglia, i residui di polimeri sintetici più frequentemente rilevati sono i componenti principali delle bottiglie stesse, identificando l’imballaggio come una delle principali fonti di contaminazione. Per queste ragioni, l’Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare (EFSA) indica un potenziale rischio legato alla presenza di alte concentrazioni di inquinanti, come i bifenili policlorurati (PCB) e gli idrocarburi policiclici aromatici (PAH) negli alimenti e nell’acqua, oltre alla presenza di residui di composti utilizzati negli imballaggi, come il bisfenolo A (BPA), un composto genotossico [1,8].
Si presume che l’assorbimento delle microparticelle da parte delle cellule M nelle placche di Peyer nell’ileo sia la principale via di entrata nel sistema circolatorio. Le microplastiche possono raggiungere il sistema linfatico intestinale e poi il fegato prima di essere escrete. La loro distribuzione e accumulo sono stati dimostrati nei tessuti di topo, come fegato, reni (nefrotossicità) e intestino (tossicità gastrointestinale). Esperimenti condotti sui roditori mostrano che i linfonodi possono assorbire fino allo 0,3% dei frammenti di plastica più piccoli di 150 µ m, mentre le microplastiche più piccole di 110 µ m sono state rilevate nella vena porta e persino negli organi quando hanno dimensioni inferiori a 20 µ m.
Un’altra via di ingresso è rappresentata dal sistema respiratorio. Le microplastiche provenienti dall’atmosfera possono entrare nel corpo tramite inalazione, causando reazioni tossiche e disturbi in vari organi e sistemi, esponendo persino animali e umani a un potenziale rischio di cancro. Le microplastiche più piccole raggiungono gli alveoli, dove possono causare infiammazione polmonare e genotossicità secondaria.
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L’inalazione di microplastiche del diametro di 5 µm induce fibrosi polmonare in modo dose-dipendente nei topi, attivando un intenso stress ossidativo nei polmoni [9]. L’impatto delle microplastiche sul sistema cardiovascolare è stato identificato
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dopo aver esposto i ratti a microplastiche di 0,5 µm di concentrazioni di 0,5, 5 e 50 mg/L per 90 giorni.
I ricercatori hanno riscontrato un aumento dei livelli di Troponina I e creatina chinasi-MB (CK-MB) nel siero, danni strutturali e apoptosi delle cellule miocardiche e proliferazione del collagene [10]. Le microplastiche presenti negli alimenti rappresentano un pericolo fisico, relativo alla loro dimensione, un pericolo chimico, a causa di monomeri non legati, additivi e sostanze chimiche assorbite dall’ambiente, e un pericolo biologico per i microrganismi che possono aderire e colonizzare le microplastiche formando biofilm. Nell’intestino umano, le microplastiche possono alterare la quantità di muco, la composizione del microbiota intestinale, e causare l’infiammazione delle cellule intestinali, la perdita di proteine delle giunzioni strette e richiamare le cellule immunitarie.
Le microplastiche, arricchite di microrganismi e geni di resistenza, influenzano la flora intestinale alterando il tratto intestinale umano e trasportando potenziali patogeni. Questi meccanismi potrebbero contribuire alla crescita della resistenza agli antibiotici negli esseri umani [11].
Conclusioni
La diffusione ubiquitaria delle microplastiche è una minaccia per la salute umana è aggravato dalla loro capacità di fungere da “cavallo di Troia” assorbendo sostanze chimiche e microrganismi dall’ambiente circostante tramite la formazione di biofilm. La presenza di microplastiche negli effluenti degli impianti di depurazione contribuisce alla persistenza di questi contaminanti organici e inorganici, assorbiti come parte del biofilm sulla loro superficie, anche dopo la disinfezione finale, e, di conseguenza, possono essere rilevati nei corsi d’acqua superficiali.
Per questo motivo, sono considerate un vettore per la diffusione della resistenza agli antibiotici anche a lungo
distanza. Questo fenomeno è particolarmente rilevante per le acque reflue ospedaliere, dove la presenza di geni di resistenza e antibiotici è maggiore rispetto alle acque reflue urbane, facilitando la selezione e il trasferimento orizzontale dei geni.
Questa emergenza deve essere gestita in tempi brevi attraverso una corretta gestione dei rifiuti di plastica e un trattamento adeguato delle acque reflue, in particolare degli effluenti ospedalieri. Un altro passo da compiere è quello di approfondire la conoscenza sul comportamento ambientale delle microplastiche e sul loro ruolo nella trasmissione dei geni, studiando il resistoma e il potenziale trasferimento all’ambiente circostante.
Bibliografia
1. Tuvo B, Scarpaci M, Bracaloni S, Esposito E, Costa AL, Ioppolo M, et al. Microplastics and Antibiotic Resistance: The Magnitude of the Problem and the Emerging Role of Hospital Wastewater. Int J Environ Res Public Health. 2023;20.
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3. Eriksen M, Lebreton LCM, Carson HS, Thiel M, Moore CJ, Borerro JC, et al. Plastic Pollution in the World’s Oceans: More than 5 Trillion Plastic Pieces Weighing over 250,000 Tons Afloat at Sea. PLoS One. 2014;9:1–15.
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5. Imran M, Das KR, Naik MM. Co-selection of multi-antibiotic resistance in bacterial pathogens in metal and microplastic contaminated environments: An emerging health threat. Chemosphere. 2019;215:846–57.
6. Romero JL, Grande Burgos MJ, Pérez-Pulido R, Gálvez A, Lucas R. Resistance to Antibiotics, Biocides, Preservatives and Metals in Bacteria Isolated from Seafoods: Co-Selection of Strains Resistant or Tolerant to Different Classes of Compounds. Front Microbiol. 2017;8:1–16.
7. Beer S, Garm A, Huwer B, Dierking J, Nielsen TG. No increase in marine microplastic concentration over the last three decades – A case study from the Baltic Sea. Sci Total Environ. 2018;621:1272–9.
8. Schymanski D, Goldbeck C, Humpf HU, Fürst P. Analysis of microplastics in water by micro-Raman spectroscopy: Release of plastic particles from different packaging into mineral water. Water Res. 2018;129:154–62.
9. Wang YL, Zheng CM, Lee YH, Cheng YY, Lin YF, Chiu HW. Micro-and nanosized substances cause different autophagy-related responses. Int J Mol Sci. 2021;22.
10. Yang Y, Yang H, Kiskin FN, Zhang JZ. The new era of cardiovascular research: Revolutionizing cardiovascular research with 3D models in a dish. Med Rev [Internet]. 2024;4:68–85. Available from: https://doi.org/10.1515/mr-2023-0059
11. Zainab SM, Junaid M, Xu N, Malik RN. Antibiotics and antibiotic resistant genes (ARGs) in groundwater: A global review on dissemination, sources, interactions, environmental and human health risks. Water Res. 2020;187:116455.
IL DIARIO ALIMENTARE COME STRUMENTO DI SALUTE A SCUOLA
L’eduzione alimentare fin dalla prima infanzia come strumento di prevenzione per stili di vita salutari
di Matteo Pillitteri 1, Vittoria Agnello 4, Giuseppe Bacchi 2, Daniela Ferrara 3, Accursia Marciante 5, Elisabetta Sanfilippo 4
Educare i bambini a sane abitudini alimentari fin dalla prima infanzia, rappresenta un positivo approccio per un futuro stile di vita salutare e può prevenire sovrappeso e obesità. L’obesità è globalmente riconosciuta come un problema di salute pubblica in tutti i Paesi occidentali, compresa l’Italia.
I bambini con obesità hanno maggiori probabilità di sviluppare disturbi cardio-metabolici, fisici e psicosociali, che limitano fortemente lo svolgimento di attività fisica. Si crea così un circolo vizioso, che peggiora la gravità dell’obesità e ha un impatto negativo sulla qualità della vita. Nella moderna e globalizzata società del benessere si assiste sempre di più alla diffusione di patologie, dismetaboliche e cardiovascolari, legate ad errori nutrizionali che compromettono il complessivo stato di salute dell’individuo.
Un recente studio del Centro Nacional de Investigaciones Cardiovasculares di Madrid, ha coinvolto 1771 bambini di 48 scuole elementari, seguiti per tre anni, e ha evidenziato che gli interventi di educazione alimentare svolti nei primi tre anni di scuola hanno registrato un minore aumento sia di peso che di massa corporea, oltre a un accumulo significativamente inferiore di grasso addominale rispetto a quelli che hanno ricevuto l’educazione alimentare in fasi
1Biologo Nutrizionista
2Agronomo
3Pedagogista, Ufficio Educazione alla Salute ASP di Agrigento. Distretto Sanitario di Base di Sciacca (Ag)
4Pediatra, Associazione Culturale Pediatri “Empedocle”
5Perito agrario
successive o non l’hanno ricevuta affatto.
Questa ricerca suggerisce che gli interventi che promuovono abitudini di vita sane possono essere più efficaci nel ridurre l’obesità infantile se attuati precocemente, nei primi anni della scuola elementare.
Tra le cattive abitudini che concorrono all’eccesso di peso nel bambino: il rifiuto della prima colazione, delle verdure fresche e della frutta, l’abuso fuori pasto di merendine, snack, bevande gassate e zuccherate fin dai primi anni di vita nonché ridotti livelli di attività fisica, come rilevato dai dati nazionali.
“OKkio alla SALUTE”, sistema di sorveglianza del Ministero della Salute, nel 2023 evidenzia che nel nostro Paese i bambini in sovrappeso sono il 19%, gli obesi il 9,8% e fra di essi quelli con obesità grave il 2,6% (secondo i valori soglia dell’International Obesity Task Force - IOTF); i maschi hanno valori di obesità leggermente superiori alle femmine (maschi obesi 10,3% vs femmine obese 9,4%). Si evidenzia inoltre un chiaro trend geografico che vede le Regioni del Sud avere valori più elevati di eccesso ponderale in entrambi i generi e anche una maggiore prevalenza nelle famiglie in condizioni socioeconomiche più svantaggiate.
In Sicilia i bambini in sovrappeso sono il 20,5% e gli obesi il 13,3%, “OKkio alla SALUTE”, ha coinvolto 2.578 scuole e 2.802 classi IIIa, e oltre 46.000 bambini della scuola primaria.
I dati statistici del 2023 mostrano un trend in aumento dell’abitudine a saltare la prima colazione (10,9%) o a consumarla in maniera inadeguata (36,5%), così come la fruizione di una merenda abbondante a metà matti -
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na (66,9%). Dall’indagine emerge anche che i bambini (25,9%) non assumono quotidianamente frutta e/o verdura, mentre diminuisce l’assunzione giornaliera di bevande zuccherate e/o gassate (24,6%).
Un dato interessante emerso è che le madri dei bambini in sovrappeso o obesi hanno una erronea percezione dei loro figli che considerano sotto-normopeso, ritengono adeguata l’attività fisica svolta e non eccessiva la quantità di cibo assunta. Questi dati indicano un bisogno di salute e la necessità di intervenire, sancita anche da un protocollo di intesa tra il Ministero della Salute e il Ministero dell’Istruzione.
L’Educazione Alimentare rappresenta un intervento di prevenzione primaria e per questo si configura come un importante tassello dell’Educazione alla Salute.
È compito di tutte le figure professionali che si occupano dei bambini accompagnare i genitori nel percorso di “costruzione” del benessere psico-fisico (NICE).
La consapevolezza che proprio in età scolare si impostino e consolidino le abitudini alimentari degli alunni attribuisce alla scuola il ruolo di agenzia formativa e luogo privilegiato di incontro tra le istituzioni e le famiglie, con un forte mandato educativo, per costruire una cultura attenta al benessere e a stili di vita sani.
La fascia di età tra i 3 e i 10 anni, nelle scuole dell’infanzia e primaria, è il target prioritario per una strate -
gia di prevenzione della salute. Fra i banchi di scuola i bambini imparano a relazionarsi con i compagni e a condividere con loro i pasti, soprattutto durante la ricreazione. Ma pur essendo così importante, la merenda difficilmente viene gestita correttamente dagli adulti, che tendono spesso a sovrastimarla fornendo alimenti o porzioni molto più vicine a quelle di un pasto, per una sorta di recupero calorico dovuto ad una prima colazione assente o inadeguata.
Il nostro gruppo di lavoro attraverso un percorso formativo, che dura ormai da oltre venti anni, nelle scuole primarie e dell’infanzia di Sciacca (Ag) incentiva il consumo della prima colazione a casa e promuove la merenda adeguata per quantità e qualità attraverso il diario settimanale che mira in particolare a diminuire il consumo di merende elaborate contenenti troppi grassi, zuccheri o sale, insaccati e fritture, etc.
Il diario guida alunni, insegnanti e genitori verso l’acquisizione di una scelta alimentare più consapevole e re -
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fig.1
fig.2
sponsabile, regolamentando le calorie da fornire, circa il 5-10% del fabbisogno calorico giornaliero del bambino (70-90 kcal) e rappresenta un’azione concreta per fornire ai bambini un’esperienza coinvolgente capace di stimolare l’adozione di uno stile alimentare sano ed equilibrato.
Il diario della merenda a scuola codifica il consumo di uno spuntino nutrizionalmente adeguato
Il diario, nato come strumento educativo, è stato distribuito nelle scuole primarie e dell’infanzia di Sciacca (Ag) con l’obiettivo di aiutare i bambini, costanti consumatori di merendine, bevande zuccherate, insaccati, prodotti di scarso valore salutistico e ricchi di calorie ‘vuote’, a modificare abitudini e comportamenti.
Questo strumento prevede il consumo di una merenda nutrizionalmente corretta, con l’alternanza di due volte la settimana di frutta e ortaggi di stagione (del nostro territorio), inclusa anche la frutta secca, yogurt o formaggio una volta a settimana e due volte la settimana un piccolo panino condito con olio o miele o marmellata o una fetta di dolce fatto in casa o focaccina, sempre presente l’acqua in borraccia adeguata (per limitare il consumo della plastica) (fig. 1).
Invece, il diario proposto alle scuole dell’infanzia che fruiscono della mensa, data l’età dei piccoli, prevede come merenda solo il consumo di frutta e ortaggi di stagione preferibilmente a Km0 (con taglio antisoffocamento). Nelle scuole dell’infanzia senza mensa il diario proposto include in aggiunta n. 2 biscotti secchi o 2 fettine di pane con olio EVO o marmellata o miele o piccola porzione di prodotto da forno (fig. 2).
In merito alle “porzioni” si è proposto di utilizzare la mano del bambino per stabilire l’adeguata quantità di alimento da consumare (fig. 3). Il diario della merenda è diventata prassi educativa per le scuole di Sciacca.
L’adesione al diario da parte degli insegnanti di tutte le classi è del 85%, mentre quella delle famiglie è del 70%. L’utilizzo del diario ha anche influenzato l’offerta di acquisto, in quanto alcuni commercianti, in sintonia con esso, hanno preparato le merende previste, facilitando l’adesione dei genitori.
L’approccio multidisciplinare, nato da un protocollo di intesa tra istituzioni, associazioni e figure professionali, è riconosciuta dagli stessi genitori, che hanno sperimentato il sostegno per una sana merenda, come un valido aiuto. Secondo aggiornate evidenze scientifiche, per contrastare l’obesità infantile deve essere coinvolta tutta la famiglia in un miglioramento condiviso delle abitudini alimentari, con cibi preparati in casa, ingredienti di buona qualità e anche a minor costo rispetto agli alimenti industriali.
L’approccio multidisciplinare e la partecipazione attiva dei bambini, attraverso i laboratori di educazione al gusto, hanno permesso la conoscenza e la degustazione di alcuni prodotti
alimentari presenti nel diario e con il coinvolgimento delle famiglie rappresentano i punti di forza del progetto.
fig.3
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Bibliografia
•Santos-Beneit et al. Effect of Time-Varying Exposure to School-Based Health Promotion on Adiposity in Childhood. J Am Coll Cardiol. 2024; 84:499-508.
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•OKkio alla SALUTE: risultati 2014, P. Nardone, S. Cardullo
•OMS Obesità infantile – Iniziativa di sorveglianza (COSI) 2022-2024
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GESTIONE NUTRIZIONALE DELLA DONNA IN GRAVIDANZA
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La gravidanza è uno stato fisiologico particolare durante il quale il corpo della donna subisce profonde modificazioni che lo rendono adatto a contenere, nutrire e permettere la crescita e lo sviluppo di un nuovo organismo. In questo momento della vita nella donna si verificano numerosi cambiamenti che riguardano l’assetto ponderale e gli apparati genitale, cardiovascolare, urinario, digerente e scheletrico.
Anche a livello ematologico avvengono dei cambiamenti, infatti, aumentano sia il volume plasmatico che la massa eritrocitaria. Questi cambiamenti permettono una più elevata capacità di trasporto dell’ossigeno per rispondere sia all’accresciuta richiesta durante lo sviluppo del feto, sia alle maggiori dimensioni degli organi riproduttivi materni. Le secrezioni ormonali anche subiscono modifiche. La placenta, per esempio, produce la somatomammotropina che probabilmente favorisce l’utilizzo di lipidi a fini energetici e permette di risparmiare glucosio e amminoacidi utilizzabili per il feto.
Metabolismo e meccanismi omeostatici si adattano alla nuova condizione, a prescindere dallo stato nutrizionale della gestante per far fronte alla maggior domanda di nutrienti in favore dello sviluppo della nuova vita. Metabolicamente, nel corso della gravidanza diminuisce il catabolismo degli amminoacidi, come meccanismo di risparmio delle proteine che vengono accumulate per rispondere al
* Biologa Nutrizionista
fabbisogno del feto, elevato soprattutto nell’ultimo periodo di sviluppo. Aumenta la capacità di assorbimento di ferro e calcio ed anche di rame e zinco, mentre diminuisce l’escrezione renale di riboflavina e taurina. Verso la fine della gravidanza, aumenta la secrezione di aldosterone che determina un maggior riassorbimento di sodio con aumento di ritenzione idrica. Tutto l’organismo, dunque si predispone a favorire lo sviluppo di nuovi tessuti e organi.
Alimentazione in gravidanza
Una delle prime preoccupazioni che insorgono quando il test risulta positivo è cosa sarà più giusto portare a tavola da quel momento e per i mesi successivi. Le donne sviluppano mille perplessità in merito e a quel punto il passo più ponderato diventa quello di rivolgersi ad un bravo Gienecologo e ad un bravo Biologo Nutrizionista che sapranno meglio orientare le scelte di vita ed alimentari della futura mamma. Nel corso degli anni la Comunità Scientifica ha stabilito quali e quanti nutrienti sia giusto assumere per non incorrere in carenze e disturbi.
Le linee guida per una sana alimentazione raccomandano ad ogni individuo di alimentarsi con una dieta sana e variata in ogni momento della vita. Tale raccomandazione risulta particolarmente importante per le donne fin da quando intendono intraprendere una gravidanza e poi per tutto il periodo gestazionale che comprende non solo il periodo di sviluppo del feto, ma anche il periodo di lattazione e quello successivo di recupero della madre. Il mancato rispetto di tali raccomandazioni può avere gravi
di Michelina Petrazzuoli*
conseguenze sul buon esito della gravidanza e sulla salute sia del feto che della madre.
La dieta della madre deve fornire energia e nutrienti in quantità tali da rispondere contemporaneamente alle esigenze dell’organismo materno e del feto durante la gravidanza e dell’organismo materno e del neonato dopo il parto, durante il periodo di lattazione. Tuttavia le raccomandazioni dietetiche per le gestanti e le nutrici normopeso, in buono stato nutrizionale, sono in genere molto
simili a quelle delle normali donne adulte con poche, benché importanti, eccezioni.
Nelle tabelle successive si riportano i livelli di assunzione raccomandati (LARN) del 1996 e quelli dell’ultima revisione proposta nel 2024 per le donne in età fertile, per le gestanti e per le nutrici, elaborati a cura della Società Italiana di Nutrizione Umana. Importanti sono anche le RDA (Raccomanded Daily Allowance) cui fa riferimento la Comunità Europea.
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In pratica, a una donna che si trova in buono stato di salute e in buono stato nutrizionale, si consiglia semplicemente di aumentare la quantità di alimenti che consuma normalmente, al fine di soddisfare l’aumentato fabbisogno di energia e di alcuni nutrienti con la particolar raccomandazione di consumare alimenti sani, ricchi di folati e di ferro. Per quanto riguarda i folati, si esorta ad aumentare la loro assunzione già da prima del concepimento.
La particolare attenzione alla salubrità degli alimenti è necessaria per minimizzare il rischio di assumere contaminanti microbiologici e chimici. Tuttavia, poiché ogni individuo presenta una storia particolare, le raccomandazioni vanno personalizzate a seconda delle caratteristiche peculiari di ogni donna che intende procreare.
L’incremento calorico della dieta durante il periodo gestazionale è variabile dipendendo da diversi fattori tra cui, molto importanti, l’indice di massa corporea (BMI, Body Mass Index) della madre, correlato peraltro al suo stato
© Tijana Moraca/shutterstock.com
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nutrizionale al momento del concepimento e l’aumento di peso che subirà durante la gravidanza. Importanti sono anche le abitudini, lo stile di vita e le caratteristiche genetiche.
Peso e stato nutrizionale della donna al momento del concepimento
È importante sottolineare il fatto che lo stato ponderale della donna incide sulla sua fertilità che risulta influenzata, più che dal peso totale, dalla percentuale di grasso corporeo che in media risulta vicina al 28%.
È noto che sia in carenza (meno del 22%) che in eccesso di lipidi non avviene l’ovulazione e scompaiono le mestruazioni. Il ritorno al normopeso ripristina la fertilità sulla quale sembra influire anche la localizzazione del grasso. Il grasso addominale pare avere un’influenza più negativa del grasso periferico, probabilmente perché è associato con l’insulino-resistenza e i suoi effetti sull’assetto ormonale portano ad una riduzione della vitalità dell’ovulo.
In ogni caso, avvenuto il concepimento, il peso e lo stato nutrizionale della madre incidono sulla possibilità di crescita e sviluppo del feto e quindi sulla sua salute.
Nell’embrione la divisione cellulare è molto rapida e la gran parte degli organi è già formata 3-7 settimane dopo l’ultima mestruazione. Risulta quindi evidente che, se la madre presenta carenze nutrizionali al momento del concepimento, quando la gravidanza spesso non è ancora riconosciuta, possono verificarsi anomalie nello sviluppo dell’embrione che determinano conseguenze permanenti. L’esempio più noto al riguardo è forse costituito dall’acido folico la cui carenza nel periodo peri- concezionale porta a malformazioni permanenti del tubo neurale.
Per spiegare le gravi conseguenze sulla salute dell’individuo adulto in caso di uno stato nutrizionale materno non adeguato al momento del concepimento, è stata sviluppata la “Fetal Origins Hypotesis” secondo la quale malattie croniche che si manifestano nell’età adulta possono essere una conseguenza del “fetal programming”.
Unitamente a quanto già esposto una donna adeguatamente nutrita sia prima che durante il periodo gravidico e nella successiva fase di allattamento avrà un decorso di gravidanza e allattamento del tutto fisiologico e il bambino avrà un adeguato sviluppo intrauterino e post- partum. Al contrario se la gestante ha carenze o si trova a contatto con sostanze teratogene tali condizioni avranno un riflesso sul nascituro a breve o lungo termine.
In pratica, uno stimolo o un insulto in un periodo critico dello sviluppo dell’embrione ha un effetto permanente su strutture, fisiologia e funzioni di tessuti e organi perché può determinare modificazioni strutturali e variazioni metaboliche permanenti che rendono l’organismo più predisposto alle malattie croniche nell’età adulta.
In alcuni Paesi sono state formulate raccomandazioni
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anche per le donne che intendono intraprendere una gravidanza. Tali consigli riguardano soprattutto lo stile di vita e la dieta. Per quanto riguarda l’alimentazione, le raccomandazioni sono molto simili a quelle dirette alle donne in gravidanza: seguire una dieta sana ed equilibrata affinché, al momento del concepimento, il loro stato nutrizionale sia ottimale. La diffusione di queste raccomandazioni risulta particolarmente importante poiché, secondo indagini condotte di recente un numero elevato di donne in età fertile, anche nei Paesi più sviluppati, assume numerosi nutrienti in quantità inferiore rispetto ai LARN e alle RDA.
Per quanto riguarda il peso, bassi indici di massa corporea (BMI), sia prima che durante la gravidanza, aumentano il rischio di neonati sottopeso associato ad un aumento di malattie e mortalità nell’infanzia e a un maggior rischio di sviluppare malattie croniche nell’età adulta.
Diversamente, sovrappeso e obesità sono associati a diabete gestazionale, ipertensione, preeclampsia per la gestante e difetti congeniti per il bambino.
L’obesità, in particolare, è legata a un maggior rischio di parti anormali ed emergenze di parto cesareo. Risulta inoltre che i nati pretermine di madri obese hanno minor possibilità di sopravvivenza.
Il problema del sovrappeso in alcuni paesi occidentali riguarda oltre il 40% delle donne in età fertile e pertanto costituisce la causa più comune delle complicanze che si presentano in gravidanza.
Guadagno di peso in gravidanza e fabbisogno energetico
Un guadagno di peso adeguato riduce il rischio di complicanze sia per quanto riguarda l’esito positivo della gravidanza che per il mantenimento di un buono stato di salute della madre.
Una eccessiva crescita di peso, che determina elevato BMI da parte della gravida, provoca infatti un aumentato rischio di permanere in uno stato di sovrappeso e di obesità dopo il parto.
Diversamente uno scarso aumento di peso è associato ad un incremento del rischio di partorire neonati sottopeso che presentano una più elevata incidenza di malat -
tie perinatali e poi, nella vita adulta, un maggiore rischio di sovrappeso, insulino-resistenza e disturbi metabolici associati. Pertanto, come già anticipato, l’incremento di energia e di nutrienti richiesto per soddisfare le esigenze dello stato fisiologico particolare della gravidanza sono differenti a seconda della situazione ponderale e nutrizionale della madre. Esso sarà più elevato per le gravide sottopeso mentre dovrà essere più scarso per quelle sovrappeso. In ogni caso, l’aumentato fabbisogno calorico varia nell’arco del periodo della gravidanza. Per quanto riguarda la gravida normopeso, si considera in genere che l’incremento richiesto vari da 70 a 400 kcal/ die dall’inizio alla fine della gravidanza (media 300-400 kcal/die nel 2°-3° trimestre).
Tuttavia nel Regno Unito la raccomandazione è di assumere un extra di 200 kcal/die solo nel 3° trimestre, specificando che questo valore è stato stabilito dal momento che si assiste ad una sensibile riduzione di attività fisica durante la gravidanza e che esso può variare sensibilmente dipendentemente dal metabolismo, dal grasso di deposito e dal livello di attività fisica di ogni donna.
L’optimum di incremento totale di peso viene mediamente indicato intorno a 12 Kg (compreso nell’intervallo 11,5-16 Kg), per donne con normali valori di BMI (19,8 -25 Kg/m2). In questo caso l’aumento parziale dovrebbe essere: 1Kg nel primo trimestre, 4 Kg a 20 settimane, 8 Kg a 30 settimane, per raggiungere 12 Kg alla fine della gravidanza. Per le gravide con BMI elevati l’incremento si può ridurre a 6-7 Kg, mentre può arrivare a 18 Kg per le donne sottopeso. Anche nel caso di gravidanze gemellari l’aumento di peso deve essere maggiore in particolare nei primi mesi di gestazione.
Peso del neonato
Un valore di peso del neonato, compreso tra 3,1-3,6 Kg, è associato con risultati ottimali sia per il bambino (minori nascite pretermine) che per la madre (minori casi di preeclampsia). Come già ricordato, la nascita sottopeso è collegata ad un aumento di malattia e di mortalità del neonato e poi, nell’età adulta, con un accresciuto rischio
© Dasha Petrenko/shutterstock.com
di malattie cardiovascolari, ipertensione, diabete tipo 2 e insulino-resistenza.
Dieta sana ed equilibrata
Una dieta equilibrata per la gravidanza deve essere abbondante di zuccheri complessi (amido contenuto in pane, pasta, riso e patate), che devono fornire circa il 50% delle calorie, e di frutta e verdura.
Deve essere moderata in prodotti caseari e in alimenti quali carni magre, pesce, uova, legumi ricchi di proteine che devono fornire circa il 20% delle calorie e limitata in alimenti ricchi di zuccheri semplici e lipidi che non dovrebbero fornire più del 30% delle calorie totali.
Abbiamo già detto che la donna gravida deve porre particolare attenzione all’igiene degli alimenti per ridurre il rischio di esposizione ai microorganismi patogeni. Agenti di particolare pericolo sono microrganismi quali Listeria, la cui tossinfezione può determinare aborto, gravi malattie e anche morte nel nascituro, Salmonella, causa di aborto e parto prematuro, Toxoplasma che può provocare, benché raramente, gravi anomalie nel feto ed inoltre Campylobacter, responsabile di aborto, parto prematuro e anche morte.
Pertanto alimenti quali carni e uova devono essere assunti ben cotti; il latte deve essere pastorizzato e per quanto riguarda i latticini, non presentano rischi quelli preparati con latte pastorizzato. Frutta e verdura devono sempre essere ben lavate.
Raccomandazioni particolari
Come la popolazione in generale, la gravida dovrebbe consumare almeno due porzioni di pesce ogni settimana, di cui, almeno una, costituita da pesci ricchi di grasso.
In alcuni Paesi, si consiglia invece di non consumare in gravidanza più di due porzioni di pesce ricco di grasso per ridurre i rischi di esposizione a contaminanti liposolubili, quali diossina e bifenili policlorurati, di evitare comunque i pesci predatori (es. pesce spada) e di limitare l’assunzione di tonno per il rischio di esposizione al metilmercurio (Scientific Advisory Committe on Nutrition - U.K.).
In alcuni Paesi (es. Regno Unito) si raccomanda di evitare anche alimenti troppo ricchi in retinolo (fegato, alimenti a base di fegato e olio di fegato di pesci) per i provati effetti teratogeni di dosi troppo alte di vitamina A.
Particolari raccomandazioni riguardano anche caffeina, alcol e allergeni.
Caffeina
È stata dimostrata una associazione tra forte consumo di caffeina e maggior difficoltà di concepire, aumentato rischio di aborti spontanei e neonati sottopeso.
Il collegamento tra consumo di caffè e i problemi su
indicati è stato considerato evidente per un consumo di caffeina intorno a 300mg/die, tuttavia lavori più recenti riportano un valore più basso, intorno a 100 mg/die (7).
È da considerare che nel caffè potrebbero essere presenti anche altre sostanze che, come la caffeina, potrebbero costituire fattori di rischio per gli eventi negativi associati col consumo di caffè. Ancora bisogna tener presente che, oltre a caffè e the, numerosi altri alimenti, riportati in tabella, e anche alcuni medicinali contengono caffeina.
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Alcol
L’alcol dovrebbe essere limitato nella dieta delle donne che programmano una gravidanza, poiché se assunto in elevata quantità influisce sulla capacità di concepire e sulla validità del concepimento ed inoltre potrebbe provocare danni all’embrione ancor prima del riconoscimento della gravidanza. Si è visto che l’assunzione da parte della gravida di più di 80g/die (10 unità) di etanolo rende elevato il rischio di sindrome da alcol del feto che si manifesta con lunghezza e peso ridotti, testa di piccole dimensioni e caratteristico aspetto facciale.
Si possono verificare anche anomalie congenite e ritardo mentale. Gli effetti dell’alcol possono risultare più gravi in caso di carenze nutrizionali, frequenti negli alcolisti, che riguardano soprattutto le vitamine del gruppo B, in genere carenti per scarsa assunzione con la dieta.
Per quanto riguarda in particolare l’acido folico, il problema può essere aggravato da ridotta capacità di assorbimento e utilizzazione. Chi abusa di alcol presenta inoltre una ridotta concentrazione serica di vitamine antiossidanti (vit. A, C, D, E).
In conclusione, tenute in considerazioni tutte le indicazioni del caso, ai professionisti che prendono in carico la donna in gravidanza, seguendola e guidandola nel suo percorso verso un nuovo equilibrio di vita è richiesto di esercitare un elevato grado di empatia che oltre a fornire rassicurazione psicologica, permette una gestione più adeguata della persona e degli eventuali fisiologici disturbi di questo particolare momento della vita.
Salute, nutrizione, ambiente e territorio
Bologna
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ADDITIVI ALIMENTARI ETICHETTE E RISCHI PER LA SALUTE UMANA
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Un Additivo Alimentare è una sostanza chimica (ve ne sono oltre 3000), aggiunta ad un particolare alimento per una specifica ragione durante la fase di produzione o durante lo stoccaggio, che può modificare le caratteristiche dell’alimento, o diventare parte dell’alimento.
Gli additivi alimentari non possiedono alcun valore nutrizionale, ma vengono aggiunti agli alimenti in piccole quantità per svolgere una funzione specifica. Alcuni, come i conservanti, impediscono ai batteri, lieviti muffe o altri spoilage microorganisms di deteriorare gli alimenti, in modo da allungarne la shelf-life, ossia il tempo minimo di conservazione, anche conosciuto come vita di scaffale.
Sono diversi gli usi degli additivi alimentari:
Migliorare o mantenere le caratteristiche nutrizionali dell’alimento
Migliorare la qualità del prodotto alimentare e favorirne il miglioramento
Ridurre gli scarti alimentari
Incrementare l’accettabilità da parte del consumatore
Rendere l’alimento più facilmente disponibile
Facilitare la preparazione degli alimenti
Preservare l’alimento, dare sapore, consistenza, colore, ai cibi
I coloranti sono utilizzati per migliorare le caratteristiche organolettiche degli alimenti; gli emulsionanti consentono di tenere l’acqua e gli oli che sono inseriti come
* Università degli Studi di Napoli Federico II - Dipartimento di Biologia
ingredienti in un’emulsione, (ad esempio, la maionese). Ogni additivo che troviamo sul nostro piatto in Europa viene accuratamente testato e, sulla base dell’analisi di dossier adeguatamente prodotti dagli stakeholders, è classificato come sicuro e approvato per l’uso dall’Autorità europea per la sicurezza alimentare (EFSA). Il framework normativo a livello europeo che porta
©nau2018/shutterstock.com
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di Marco Guida* e Federica Carraturo*
all’autorizzazione di una sostanza quale additivo alimentare si basa sul Regolamento (CE) n. 1333/2008, che definisce additivo alimentare: “qualsiasi sostanza abitualmente non consumata come alimento in sé e non utilizzata come ingrediente caratteristico di alimenti, con o senza valore nutritivo, la cui aggiunta intenzionale ad alimenti per uno scopo tecnologico nella fabbricazione, nella trasformazione, nella preparazione, nel trattamento, nell’imballaggio, nel trasporto o nel magazzinaggio degli stessi, abbia o possa presumibilmente avere per effetto che la sostanza o i suoi sottoprodotti diventino, direttamente o indirettamente, componenti di tali alimenti”.
Soltanto gli additivi alimentari indicati nella normativa europea sono autorizzati ad essere aggiunti agli alimenti, a determinate condizioni.
Un’Etichetta Nutrizionale è definita come “qualunque marchio commerciale o di fabbrica, segno, immagine o altra rappresentazione grafica scritto, stampato, stampigliato, marchiato, impresso in rilievo o ad impronta sull’imballaggio o sul contenitore di un alimento o che accompagna tale imballaggio o contenitore”. Il riferimento normativo è il Regolamento UE 1169/2011. Le indicazioni previste dal suddetto Regolamento riguardano esclusivamente i prodotti pre-confezionati o pre-imballati.
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©Drazen Zigic/shutterstock.com
ma alimentare più sano e sostenibile, la Commissione Europea ha inteso proporre un sistema di etichettatura nutrizionale obbligatorio armonizzato a livello comunitario, che doveva essere adottato entro la fine del 2022, poi successivamente rimandato.
In base al Regolamento, le etichette dei prodotti preconfezionati devono riportare obbligatoriamente le seguenti indicazioni:
Denominazione di vendita
Elenco degli ingredienti
Termine minimo di conservazione o data di scadenza
Nome, ragione sociale o marchio depositato e la sede del fabbricante o del confezionatore o di un venditore residente nella UE
Sede dello stabilimento
Quando si parla di etichette, ai fini della sicurezza alimentare deve venire considerata anche in relazione ai Food Contact Materials. È necessario infatti considerare i limiti di durabilità dei materiali a contatto con gli alimenti (MOCA), di particolare rilievo nel caso delle migrazioni di sostanze pericolose da materiali plastici, plastiche riciclate e bioplastiche.
In aggiunta, Nell’ambito della «Farm to Fork» strategy, un percorso pensato per condurre verso un siste -
L’etichetta di un prodotto alimentare non è sempre e solo composta dalle sue uniche informazioni obbligatorie di base: come previsto dal Regolamento CE 1924/2006 infatti, molto spesso le confezioni sono arricchite da “claims”, ossia indicazioni di marketing a scopo propagandistico che devono rispettare alcuni parametri, in special modo se riferite a specifiche indicazioni salutistiche. Le etichette dei prodotti alimentari “parlano” sempre di più ed i claims aiutano mediante la loro comunicazione nella scelta del consumatore, che deve essere fatta in maniera consapevole
Questo perché è fondamentale considerare che l’etichetta di un prodotto alimentare riveste per il consumatore una importante funzione di tutela, favorendo acquisti consapevoli. Conoscerle e capirle rappresenta un atto di responsabilità per la salvaguardia della salute che permette di impostare una più corretta alimentazione fornendo informazioni sulle reali caratteristiche del prodotto, sugli ingredienti utilizzati e sulla sua qualità.
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CORSI ECM PER BIOLOGI
Consulta gli eventi della Fnob che erogano i crediti formativi
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LINEE GUIDA PER LA PROFESSIONE
DI BIOLOGO
IN AMBITO NUTRIZIONALE
Approvate dalla Fnob il 3 dicembre 2024
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