Giornale dei Biologi
Lo studio ha importanti implicazioni nel campo dei biomateriali per dispositivi e impianti biomedici Sarà anche possibile istruire i geni in modo che portino alla sintesi programmata nel tempo di diversi farmaci a RNA
Lo studio ha importanti implicazioni nel campo dei biomateriali per dispositivi e impianti biomedici Sarà anche possibile istruire i geni in modo che portino alla sintesi programmata nel tempo di diversi farmaci a RNA
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Imboccare
Geni artificiali per imitare il processo di costruzione delle cellule di Elisabetta Gramolini
Il prof. Francesco Ricci: “Geni sintetici e strutture molecolari come i lego” di Ester Trevisan
A Natale (ri)vince la tradizione: ma oggi si acquista di più online di Rino Dazzo
Occhio alle truffe, soprattutto a Natale di Rino Dazzo
Si parte: città d’arte, mare o montagna? di Rino Dazzo
INTERVISTE
Nella nocciola viterbese promettenti proprietà antitumorali di Chiara Di Martino
Tumori, scoperto meccanismo che agisce sulla lunghezza dei mitocondri di Ester Trevisan
26 Batteri modificati per vaccini antitumorali personalizzati di Carmen Paradiso
Cancro: individuati sei nuovi geni associati alla malattia di Domenico Esposito
Corpi di Lewy osservati in neuroni vivi: nuova scoperta per la ricerca sul Parkinson di Carmen Paradiso
Tumore al cervello: terapie più efficaci combinando molecole naturali di Sara Bovio
Il movimento intermittente come strategia per aumentare il dispendio energetico di Carmen Paradiso
Un bimbo ogni dieci nasce prematuro: salute a rischio anche da adulto di Domenico Esposito
Una scoperta rivoluzionaria sulla fecondazione grazie all’IA alphafold di Carmen Paradiso
Pronto l’atlante della pelle: si aprono nuovi scenari per la medicina rigenerativa di Sara Bovio
Antibiotico-resistenza: l’ultima minaccia di Domenico Esposito
Perché dormire fa bene dopo un infarto di Domenico Esposito
Antiossidanti alimentari e invecchiamento: teoria, prove attuali e prospettive di Carla Cimmino
Effetti dell’ossitocina e suoi agonisti sulla crescita dei capelli di Biancamaria Mancini
Boschi d’Italia tesoro nascosto da proteggere e valorizzare di Gianpaolo Palazzo
Verde a macchia di leopardo: il nord vola, il sud arranca ed è meno sostenibile di Gianpaolo Palazzo
Futuro ecologico: città italiane sempre più a misura di bici di Gianpaolo Palazzo
La 40esima spedizione italiana in Antartide di Michelangelo Ottaviano
L’inquinamento indoor è sempre nocivo di Pasquale Santilio
Un sensore controlla gli alimenti liquidi di Pasquale Santilio
Svelati i segreti quantistici dell’acqua di Pasquale Santilio
L’IA per studiare la salute del suolo di Pasquale Santilio
Zorzi e la hall of fame: “Il volley, inatteso fil rouge della mia vita” di Antonino Palumbo
Maratona delle sorprese: a New York vince l’outsider di Antonino Palumbo
Serenità per Brignone “Non penso alla coppa” di Antonino Palumbo
Da Baggio a Mbappè, se il campione resta a casa di Antonino Palumbo
Contro l’infarto un aiuto dal veleno di ragno di Michelangelo Ottaviano SCIENZE
La villa romana di Cancello e Arnone, un tesoro venuto alla luce
di Rino
Meningite: l’OMS accende l’attenzione su tasso di mortalità e cause di Daniela Bencardino
I livelli circolanti dei neurofilamenti nella sclerosi multipla di Teresa delle Cave, et al.
Disturbi del comportamento e alterazione della flora del microbiota di Cinzia Boschiero
Il ruolo delle proteine e degli olisaccaridi del latte nella modulazione del microbiota intestinale di Valentina Gallo
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Ufficio protocollo protocollo@cert.fnob.it
Anno VII - N. 11/12 Novembre/dicembre 2024
Edizione mensile di Bio’s
Testata registrata al n. 113/2021 del Tribunale di Roma
Diffusione: www.fnob.it
Direttore responsabile: Vincenzo D’Anna
Questo magazine digitale è scaricabile on-line dal sito internet www.fnob.it
Questo numero del “Giornale dei Biologi” è stato chiuso in redazione martedì 26 novembre 2024.
Contatti: protocollo@cert.fnob.it
Gli articoli e le note firmate esprimono solo l’opinione dell’autore e non impegnano la Federazione Nazionale degli Ordini dei Biologi.
di Vincenzo D’Anna Presidente della Federazione Nazionale degli Ordini dei Biologi
Non v’è dubbio alcuno che i Biologi siano la categoria con a disposizione la più vasta gamma di possibilità di inserimento lavorativo.
I biologi vantano oltre 80 tipologie di settori professionali: un primato assoluto rispetto a tutte le altre categorie sanitarie
Sono oltre 80, infatti, le tipologie di esercizio della professione per un laureato che, dopo essersi abilitato, si iscrive all’Albo professionale: un primato assoluto rispetto a tutte le altre categorie sanitarie.
Tutto discende dalla legge istitutiva della professione, approvata nel 1967 dal Parlamen -
to, che riconosce al Biologo una lunga serie di competenze in un campo che, nel corso degli anni, si è ampliato e sviluppato in sempre più vaste aree di conoscenze e di praticabilità.
Sono ormai lontani i tempi in cui un’erronea vulgata indicava agli iscritti all’Albo solo poche strade da percorrere quali, ad esempio, quella del laboratorio di analisi, della docenza scolastica, della cura dell’ambiente (intesa come di settore di interesse botanico e zoologico) e, infine, quella della nutrizione. Quest’ultima divenuta un
vero e proprio “refugium peccatorum” per tutti coloro che, ritenendo di non avere altre aspettative di lavoro, andavano ad infoltire la schiera dei cosiddetti “Nutrizionisti”.
Molti tra costoro con una preparazione specifica di tipo sommario, acquisita in un breve arco di tempo, si inserivano in un ambito lavorativo già di per sé stesso inflazionato. Scarsi i guadagni ed ancor peggiore la concorrenza tra gli operatori con la puntuale svendita della professione ed onorari a dir poco ridicoli.
de di sbocchi professionali da poter intraprendere.
Uno dei meriti della gestione dell’ONB negli ultimi anni è quello di aver composto l’Albero delle Opportunità che indica la miriade di sbocchi professionali
Se un merito ha avuto la gestione dell’Ordine Nazionale dei Biologi negli ultimi anni, uno di questi è quello di aver aperto gli occhi agli iscritti e composto l’Albero delle Opportunità che indica analiticamente la miria -
Tuttavia, avviarsi su nuovi sentieri senza incorrere nel difetto di farlo in modo approssimativo se non avventato e con scarsi risultati, richiede un’adeguata preparazione di base, oltre alla conoscenza dei rudimenti iniziali della specifica materia che si intende gestire. Il discorso si sposta, ancora una volta, sulla formazione post lauream. A mio avviso non bastano i soli corsi ECM teorici, gli eventi circoscritti alla trattazione di alcuni aspetti della materia seguita oppure la possibilità di potersi impadronire di un nuovo “mestiere” in campi mai praticati prima.
Occorre, invece, imparare a fare bene le cose elementari,
portare a case esperienze fatte sul campo, conoscere e praticare, sul piano pratico, la nuova professione e, se del caso, anche riconvertirsi rispetto alla vecchia che si era praticata, fino a quel momento, con scarsi risultati (anche economici).
Per fare questo lavoro occorre fornire
- agli iscritti - delle Scuole di Formazione che siano stabilizzate e funzionanti ogni anno e per molti mesi consecutivi.
La FIB e la FNOB si impegneranno per fornire agli iscritti delle Scuole di Formazione che siano stabilizzate e funzionanti
Realtà entro le quali il Biologo apprenda il “mestiere” anche dal punto di vista operativo così da essere in grado di affrontare quella determinata attività.
La Fondazione Italiana Biologi (FIB) e la Federazione Nazionale degli Ordini dei Biologi (FNOB), saranno appunto impegnati in tal senso. L’aver
creato dei Coordinamenti Nazionali nei principali ambiti di esercizio dell’attività professionale, ha determinato, appunto, la creazione di una rete di interessi specifici che sarà chiamata a consigliare, indicare e proporre le tematiche che sono di maggiore interesse in quella specifico ambito.
Con questi coordinamenti abbiamo già inaugurato una scuola per la Genetica e la Genomica in Roma con valenza professionalizzante ed attività pratiche.
Il CNBG (Coordinamento Nazionale Biologi Genetisti) ha ricevuto le necessarie risorse economiche e gli ausili per varare tale tipologia di attività.
Un’altra scuola, in Biologia Marina (proposta dal Coordinamento Ambientale, il
Cnba), nascerà invece a Reggio Calabria; a Torino vedrà la luce quella per la Procreazione Medicalmente Assistita (PMA) ed Embriologia; a Firenze quella in Bioinformatica. Altre sono in elaborazione (Nutrizione; Microscopia Elettronica e Nanotossicologia; Ambiente e Sicurezza Alimentare; Management di Laboratori e forme aggregate / consorzi; Microbiologia e Virologia). Un complesso di “istituti” ad alto profilo professionalizzante che dovrà accogliere diverse centinaia di Biologi ogni anno per avviarli nei campi lavorativi di maggiore interesse ed attualità. Tutto questo va sostenuto anche in altri ambiti, come quello legislativo e normati -
Si lavora su più piani e in più direzioni per conclamare alla FNOB e alla FIB il ruolo di sostenitori dei colleghi e di valorizzatori dei loro saperi
vo, dell’ampliamento dei posti per le Scuole di Specializzazione per i Biologi, cosa già richiesta nel recente incontro col Ministro della Salute Orazio Schillaci, anche occupando quei posti lasciati vuoti da Medici nelle discipline di specializzazione in comune, oltre a quelle di nuovo accesso come Anatomo-Cito-Isto-Patologia ed Igiene Ambientale. Per dirla tutta: si lavora su più piani ed in più direzioni per conclamare alla FNOB ed alla FIB il ruolo di sostegno ai colleghi ed alla valorizzazione dei loro saperi. Il futuro sorride ai biologi per la sempre maggiore opportunità derivante da nuove scoperte e più ampi ambiti di lavoro, occorre quindi stare al passo coi tempi.
I ricercatori intendono proporre un metodo per coordinare l’assemblaggio di componenti distinti del Dna, utilizzando geni sintetici modulari per generare una cascata di segnali. Per raggiungere questo obiettivo hanno sviluppato una piattaforma di geni sintetici ed elementi costitutivi del Dna che possono essere interconnessi in maniera componibile. Ciascun gene della cascata produce un output di Rna che trasporta istruzioni specifiche per controllare un particolare componente autoassemblante.
Come le cellule formano e smantellano le strutture molecolari in alcuni momenti precisi. La replica in laboratorio di questo affascinante processo è il risultato di un lavoro compiuto dai ricercatori dell’Università di Roma Tor Vergata e dei colleghi dell’Università della California (Ucla). Lo studio, pubblicato recentemente su “Nature Communications”, si è basato sulla progettazione e sulla disposizione su scala nanometrica di una piattaforma artificiale che apre la strada a un’ampia gamma di applicazioni, dalla biomedicina alla diagnostica. Il lavoro è partito dalla costruzione di una rete formata da geni totalmente sintetici, accoppiando le componenti capaci di autoassemblarsi a quelle che generano segnali regolatori, in grado di controllare le proprietà delle parti autoassemblate.
«Abbiamo pensato all’idea di ricreare in laboratorio reti di geni che, in base al momento della loro attivazione, possono formare o smantellare i materiali sintetici», commenta il professor Francesco Ricci, ordinario di chimica analitica presso l’Università di Roma Tor Vergata. I ricercatori hanno così utilizzato dei “mattoncini” di Dna sintetico che, «una volta mescolati in soluzione – aggiunge Ricci, interagiscono e formano strutture tubolari solo in presenza di una specifica sequenza di Rna. Un’altra sequenza di Rna, invece, può innescare il disassemblaggio di queste stesse strutture. Abbiamo quindi progettato dei geni sintetici per produrre tali sequenze di Rna in momenti precisi – spiega –, così da controllare esattamente quando le strutture si formano o si distruggono».
Grazie alle loro prevedibili interazioni, che possono essere programmate attraverso la progettazione di sequenze, il Dna e l’Rna rappresentano dei materiali ideali per costruire assemblaggi la cui precisione strutturale e complessità si avvicina a quella delle macchine molecolari naturali.
Attraverso lo studio, quindi, i ricercatori intendono proporre un metodo per coordinare l’assemblaggio di componenti distinti del Dna, utilizzando geni sintetici modulari per generare una cascata di segnali. Per raggiungere questo obiettivo, gli autori hanno sviluppato una piattaforma di geni sintetici ed elementi costitutivi del Dna che possono essere interconnessi in maniera componibile.
Ciascun gene della cascata produce un output di Rna che trasporta istruzioni speci-
fiche per controllare un particolare componente autoassemblante. Il tasso di produzione dell’Rna in uscita può essere regolato con precisione, attraverso un’attenta progettazione del gene. Inoltre, il momento in cui viene rilasciato l’Rna in uscita dipende dalla posizione del gene nella cascata.
L’approccio usato ha dimostrato che è possibile controllare, non solo il momento in cui un particolare tipo di polimero del Dna si forma o si dissolve, ma anche la composizione del polimero, che dipende dal livello di piastrelle attive in un particolare momento. La strategia si avvale di semplici porte del Dna per instradare un singolo output di Rna e controllare i due processi simultaneamente: l’attivazione delle tessere di Dna e quella dei geni a valle.
Gli autori scrivono nello studio come si aspettano che questo approccio possa essere ampliato in modo tale che un singolo gene possa controllare più processi in parallelo, mantenendo la modularità e riducendo al minimo la necessità di progettare geni aggiuntivi. «Siamo riusciti a creare una rete di geni artificiali che può controllare non solo la formazione o la distruzione delle strutture, ma anche la loro composizione in momenti precisi», spiega la professoressa Elisa Franco, ordinario presso il dipartimento di Meccanica e Ingegneria Aerospaziale dell’Università della California. «Ogni mattoncino – continua la docente – è progettato per cambiare colore in base all’attivazione temporale dei diversi geni. In questo modo possiamo monitorare visivamente l’attivazione genica e osservare come queste strutture si evolvono nel tempo, riflettendo lo stato funzionale del sistema».
La possibilità di comporre la struttura della piattaforma dei geni artificiali apre e allarga l’applicazione ad altri ambiti non soltanto della medicina: «il nostro approccio non si limita a strutture di Dna – conclude la dottoressa Daniela Sorrentino, prima autrice dello studio e che ha trascorso gli ultimi mesi del suo dottorato nel laboratorio della professoressa Franco a Los Angeles – ma può essere esteso ad altri materiali e sistemi. Coordinando i segnali biochimici, possiamo assegnare funzioni diverse agli stessi componenti, creando materiali che evolvono spontaneamente nel tempo.
Questo apre nuove strade alla biologia sintetica e a possibili applicazioni in medicina e biotecnologia».
I ricercatori dell’Università della California e di Tor Vergata propongono la strutturazione su scala nanometrica di una piattaforma che apre la strada a tante applicazioni
Intervista al docente di Chimica analitica del dipartimento di Scienze e tecnologie chimiche all’Università di Roma “Tor Vergata”
di Ester Trevisan
Francesco Ricci è professore ordinario presso il Dipartimento di Scienze e Tecnologie Chimiche dell’Università di Roma Tor Vergata dove dirige il laboratorio di biosensori e nanomacchine. Dopo il Dottorato di Ricerca in Chimica conseguito nel 2005, Ricci ha trascorso due anni come ricercatore post-doc all’Università della California nell’ambito di una fellowship Marie Curie. Ha ricevuto diversi premi tra cui quello inaugurale della ACS “Advances in Measurement Science Lectureship” e l’“Heinrich Emanuel Merck Award on Analytical Science”. I suoi interessi di ricerca spaziano dalle nanotecnologie a DNA, alla biologia sintetica fino ai biosensori e alla chimica supramolecolare.
Un team di ricercatori dell’Università di Roma Tor Vergata, in collaborazione con un team dell’Università della California, Los Angeles, ha pubblicato su Nature Communications uno studio che ha riprodotto in laboratorio il processo di assemblaggio e disassemblaggio delle strutture molecolari utilizzando geni sintetici.
Professor Ricci, il processo con cui le cellule formano o smantellano strutture molecolari, descritto nel vostro lavoro scientifico, sembra assomigliare a un puzzle o a una costruzione Lego. Ci spiega in parole semplici come funziona?
È esattamente così. Le strutture molecolari che abbiamo usato nel nostro lavoro sono costituite da migliaia di piccole sequenze (pezzetti) di DNA o RNA sintetico che interagiscono tra loro in maniera specifica e programmata proprio come dei mattoncini di lego. In particolare, nel nostro lavoro abbiamo utilizzato delle sequenze di DNA e RNA sintetico che sono progettate per legarsi tra loro e formare strutture tubulari lunghe pochi micrometri.
Queste strutture possono poi essere facilmente disassemblate in presenza di sequenze di DNA o RNA che rompono i legami responsabili dell’assemblaggio.
In laboratorio il vostro team di ricerca ha inscenato lo stesso processo con geni sintetici. Come siete riusciti a realizzarlo?
Abbiamo sfruttato quella che viene definita trascrizione in-vitro senza cellula o “cell-free transcription”, cioè la capacità di ricreare in vitro il processo biologico della trascrizione che da un gene di DNA porta alla sintesi di molte sequenze di RNA. Per fare questo, abbiamo utilizzato una sequenza di DNA sintetico che funge da gene “artificiale”. Abbiamo poi aggiunto in soluzione tutti gli ingredienti necessari alla trascrizione, tra cui l’enzima polimerasi e i mattoncini che formano l’RNA (nucleotidi). In presenza di tali ingredienti, il processo di trascrizione avviene spontaneamente e porta alla produzione di una grande quantità di RNA con la sequenza specifica codificata dal nostro gene sintetico.
Tale sequenza è esattamente quella necessaria per indurre il disassemblaggio o l’assemblaggio delle strutture descritte in precedenza. In questo modo, possiamo a tutti gli effetti utilizzare geni sintetici per controllare quando le strutture molecolari si formano o si rompono. Inoltre, possiamo programmare i geni in modo che la loro trascrizione sia controllata nel tempo e in questo modo possiamo creare dei veri e
propri cicli “vitali” in cui diverse strutture possono essere assemblate e poi distrutte a tempi diversi.
Perché è importante poter osservare e analizzare questo processo e quali sono i risvolti diagnostici e terapeutici?
Il nostro lavoro dimostra un approccio per assemblare e disassemblare strutture molecolari usando “istruzioni” contenute in geni sintetici. È sufficiente cambiare queste istruzioni per costruire diversi materiali o per modificare il tempo in cui questi materiali si formano o si disassemblano.
Questo può avere importanti risvolti nel campo dei biomateriali per costruire dispositivi e impianti biomedici. Possiamo inoltre programmare i geni in modo che portino alla sintesi programmata nel tempo di diversi farmaci a RNA (simili ai vaccini attualmente in fase di sviluppo).
Qual è il contributo che il vostro studio apporta alla biologia sintetica?
Il contributo più importante del nostro lavoro, a mio avviso, è il fatto che dimostriamo di poter programmare diversi geni sintetici in maniera molto precisa gettando le basi per creare dei veri e propri network di geni sintetici che mimano quelli che controllano tutti i processi cellulari.
Chi sono i ricercatori che hanno partecipato allo studio?
Il lavoro è frutto di una collaborazione di lungo corso tra il gruppo di ricerca che coordino, ospitato nel Dipartimento di Scienze e Tecnologie Chimiche dell’Università di Roma Tor Vergata, e il gruppo della professoressa Elisa Franco dell’Università della California, Los Angeles.
In particolare, il progetto è iniziato con un periodo di ricerca di 6 mesi svolto da Daniela Sorrentino, all’epoca dottoranda nel mio gruppo, nei laboratori della professoressa Franco ed è poi proseguito in maniera congiunta nei due laboratori. Al lavoro ha partecipato anche Simona Ranallo, giovane ricercatrice del mio gruppo di ricerca.
A tavola gli italiani si mantengono fedeli a usanze consolidate e prodotti tipici Aumentano le quote dei regali comprati sul web o effettuati in largo anticipo
Per tanti, ma non per tutti, è semplicemente «il più bel periodo dell’anno». Il Natale con le sue tradizioni, i suoi riti, le sue leccornie e gli immancabili regali è la festa più sentita. Quella da vivere in famiglia, magari nei luoghi dove si è trascorsa l’infanzia, insieme agli affetti più cari.
Quali sono le tendenze per il Natale 2024? Quanto spenderanno (o hanno già speso) gli italiani per la ricorrenza più importante? E quali tipi di regali sono più gettonati? Con l’evoluzione dei tempi e dei costumi si va verso nuove forme di cadeau oppure resistono i cari vecchi prodotti enogastronomici, dolciumi, bottiglie pregiate e simili?
Come emerso nel corso della 18ma edizione dell’Annual holiday shopping survey di Accenture, per il prossimo Natale il 79% della popolazione (quasi quattro italiani su cinque) ha deciso di mantenere stabile o di incrementare il budget per le festività, che lo scorso anno è stato media -
mente di 280 euro a persona (186 solo per vigilia e pranzo natalizio).
Cibo, vino e più in generale i prodotti enogastronomici, in prevalenza dolci e balocchi, sono sempre in vetta alla classifica dei doni: tre italiani su quattro li mettono al primo posto di questi tempi. Crescono vestiti, scarpe, prodotti di bellezza e libri, aumenta anche in modo significativo la percentuale di regali online: gift card, ebook, film e abbonamenti in streaming, musica digitale e simili. Una tendenza sempre più marcata è quella di anticipare il più possibile gli acquisti per usufruire di promozioni, sconti e offerte speciali. Il 42% degli italiani, sempre secondo Accenture, ha pianificato le sue spese natalizie in coincidenza di Black friday e Cyber monday, o comunque a novembre: questo perché mediamente sotto Natale i prezzi di molti prodotti subiscono delle impennate più o meno evidenti, soprattutto nel settore alimentare. Dove si effettuano gli acquisti? Nel 55% dei casi in negozi fisici, il resto sul web. E aumenta anche la percentuale di doni acquistati in negozi di vicinato o prossimità, superiore al 40%.
Ma dove si celebra il Natale, a casa o al ristorante? Nel 2023 un’indagine di Cna
Cibo, vino e più in generale i prodotti enogastronomici, in prevalenza dolci e balocchi, sono sempre in vetta alla classifica dei doni: tre italiani su quattro li mettono al primo posto di questi tempi. Crescono vestiti, scarpe, prodotti di bellezza e libri, aumenta anche in modo significativo la percentuale di regali online.
La tradizione la fa da padrona, da nord a sud, anche se non mancano locali che fanno dell’innovazione e della sperimentazione il loro tratto distintivo. Natale però è fatto soprattutto di ricette antiche, tramandate magari dalla nonna. Nelle tavole degli italiani non possono mancare panettoni e pandori, anche se sono sempre di meno quelli a cui piacciono uvetta e canditi, mentre i piatti tipici variano di regione in regione.
© Bogdan Sonjachnyj/shutterstock.com
Agroalimentare ha evidenziato come il pranzo del 25 sia preferito dalla metà degli italiani rispetto al cenone della vigilia e come la tendenza a festeggiare in casa e in famiglia sia ancora largamente maggioritaria. Crescono però i ristoranti aperti anche il giorno di Natale e a Santo Stefano, mentre i cenoni di San Silvestro e i veglioni organizzati in strutture ricreative sono una realtà consolidata già da moltissimo tempo. Quest’anno, secondo Fipe Confcommercio, i locali aperti a Natale saranno ancor di più rispetto ai 90mila del 2023, quando cinque milioni di persone scelsero il ristorante per una spesa complessiva di 400 milioni. Per il 2024 gli esperti stimano che non meno di 100mila locali rimarranno aperti il 25, per un ulteriore aumento delle prenotazioni e una spesa totale di mezzo miliardo di euro. Un modo per conciliare casa e ristorante? Scegliere il menu da asporto, da consumare nella propria abitazione coi propri cari. Cosa si mangia? La tradizione la fa da padrona, da nord a sud, anche se non mancano locali che fanno dell’innovazione e della sperimentazione il loro tratto distintivo. Natale però è fatto soprattutto di ricette antiche, tramandate magari dalla nonna. Nelle tavole degli italiani non possono mancare panettoni e pandori, anche se sono sempre di meno quelli a cui piacciono uvetta e canditi, mentre i piatti tipici variano di regione in regione. In Piemonte e Valle d’Aosta trionfano agnolotti, bollito misto e carbonade, carne di
manzo cotta in vino rosso, mentre in Liguria sono d’obbligo ravioli al tocco e pandolce. In Lombardia salgono le quotazioni dell’anguilla al cartoccio, in Veneto non è Natale senza polenta con baccalà e lesso con le salse. Nel Trentino si va di canederli, capriolo e strudel, nel Friuli soprattutto di brovada e muset, zuppa di rape e cotechino, con l’immancabile polenta.
In Emilia-Romagna dici Natale e pensi a tortellini in brodo, tagliatelle e lasagne, in Toscana ai crostini di fegatini, al cappone ripieno e a ricciarelli e panforte. Nelle Marche e in Umbria spopolano i cappelletti in brodo, in Abruzzo l’agnello arrostito e il bollito di manzo, dopo le classiche zuppe. A Roma e nel Lazio alla vigilia si va di pesce e il giorno di Natale di carne, soprattutto abbacchio al forno. Nel Molise il piatto tipico del cenone del 24 è il brodetto alla termolese, a base di pesce, mentre a Napoli e in Campania la sera della vigilia è all’insegna del capitone, la femmina dell’anguilla, da accompagnare con spaghetti alle vongole, insalata di rinforzo, struffoli e frutta secca.
Il giorno dopo si passa invece al brodo di gallina. In Basilicata non può mancare la minestra di scarole e verdure, in Calabria sono d’obbligo i salumi, in Puglia le pittule con capperi, origano e pomodoro. In Sardegna spopolano culurgiones e malloreddus, in Sicilia pasta con le sarde, gallina in brodo e sfincione, per finire con cannoli, cassate e buccellati.
Dai panettoni finti artigianali ai prodotti ittici congelati, dai salumi contraffatti ai vini alterati: quante frodi
Quello di Natale è il periodo dell’anno in cui è concentrata la richiesta più alta di prodotti enogastronomici tipici. Aumenta la domanda e aumentano le frodi alimentari.
Violazioni penali, amministrative e sanzioni rimangono purtroppo all’ordine del giorno, così come i sequestri di tonnellate e tonnellate di prodotti avariati, non conformi, alterati o contraffatti eseguiti dai carabinieri del Nucleo Antisofisticazione e Sanità dell’Arma dei Carabinieri: i Nas.
La truffa più ricorrente è legata ai panettoni e ai pandori prodotti
con tipologie industriali e spacciati per artigianali. Sempre panettoni e pandori, come altri prodotti dolciari, sono spesso conservati in strutture prive dei requisiti minimi di sicurezza igienico-strutturale, con presenza di parassiti al loro interno, mancanza dei documenti di tracciabilità e altre gravi violazioni. Persino la frutta secca non è esente da rischi: l’anno scorso ha fatto notizia il sequestro di un ingente materiale di queste prelibatezze, contaminate da microtossine.
La mappa delle frodi coinvolge l’estero – col tristemente celebre «italian sounding», prodotti vendu-
ti come italiani, ma che di italiano hanno soltanto il nome, spesso grossolanamente sbagliato – ma anche e soprattutto tutta la penisola. E tutti i settori dell’agroalimentare: oltre ai dolci, anche carne, pesce, salumi, prodotti caseari e naturalmente i vini.
Una fetta consistente dei sequestri e delle violazioni contestate riguarda il settore ittico, dove si stima che il 40% dei controlli porti alla scoperta di gravi irregolarità e di situazioni non a norma. La frode più ricorrente è sempre la solita: prodotti presentati come freschi e in realtà congelati da mesi, in qualche caso addirittura da anni. E poi alimenti privi di tracciabilità o conservati in modo lacunoso o irregolare, senza il rispetto delle più elementari norme igieniche.
Neppure chi va a mangiare al ristorante è al sicuro: una fetta consistente dei sequestri avviene negli esercizi di ristorazione, non solo presso le aziende fornitrici. Anche salumi e formaggi sono spesso al centro di frodi e contraffazioni. Prosciutti comuni passati per Parma o San Daniele, salumi scadenti presentati come DOP o mozzarelle fatte con latte di mucca spacciate per bufala campana sono purtroppo ancora di routine.
Il consiglio è quello di leggere con attenzione le etichette di denominazione di origine protetta di ogni prodotto, in modo da attestarne l’autenticità e il rispetto dei disciplinari di produzione, e di non fidarsi troppo degli acquisti a buon mercato e privi di etichette.
Un’ultima annotazione riguarda vini e spumanti, molto spesso annacquati, zuccherati o presentanti una gradazione alcolica diversa rispetto a quanto dichiarato. In Italia esiste una suddivisione tra il classico vino da tavola (VTD), quello di origine controllata (DOC) e i più pregiati vini tipici, siglati come IGT, DOCG e VOPRD.
Anche in questo caso, prima dell’acquisto e del consumo è d’obbligo leggere bene le etichette di tipicità per verificare l’effettiva autenticità dei prodotti. (R. D.)
Quali sono le mete più gettonate per queste festività natalizie? Gli italiani si rifugeranno in montagna, per la classica settimana bianca, o cercheranno ristoro dai rigori dell’inverno privilegiando le località esotiche o i paradisi del mare? E quanti invece hanno deciso di fare del turismo enogastronomico, trend in costante espansione negli ultimi anni? Secondo un’indagine condotta da Jetcost, solo il 21% degli intervistati rimarrà a casa tra Natale, Capodanno e l’Epifania: il resto si concederà una breve vacanza di massimo tre giorni (38%), di cinque giorni (23%), di una settimana (21%) e fino a 15 giorni (14%).
Il budget medio pro capite per una vacanza natalizia è di poco superiore agli 800 euro: i più previdenti hanno risparmiato qualcosina prenotando con largo anticipo o scegliendo sistemazioni più a buon mercato come case rurali, appartamenti, alberghi non di lusso oppure b&b. Altri si sono affidati e promozioni, offerte speciali e pacchetti. E non sono pochi quelli che partiranno last minute, altra storica occasione di risparmio.
Più di sei italiani su dieci hanno scelto di rimanere nello Stivale, puntando su località invernali oppure sulle città d’arte. La meta più gettonata? Milano, davanti a Roma e Venezia. Ma è boom di turisti, anche quest’anno, a Napoli, Firenze, Catania e Torino. In Europa le destinazioni più gettonate sono tre grandi classici: Parigi, Vienna e Londra. Per chi ha scelto l’estero, oltre a New York – altra storica meta d’elezione per questi tempi – è in vertiginoso aumento il fenomeno Dubai, insieme alle Maldive e a Sharm, celebre località sul Mar Rosso.
Se tanti italiani andranno all’estero, saranno in tanti a compiere il percorso inverno. Chi? Statunitensi, soprattutto. Secondo le analisi Sojern, il 17,7% delle prenotazioni aeree verso l’Italia per il prossimo Natale ha origine proprio dagli States. Boom di
Ecco le mete più gettonate per le festività: l’amore degli italiani per le trattorie e il turismo enogastronomico
richieste dal Regno Unito col 9,5%, buone le percentuali anche di francesi, olandesi, spagnoli, brasiliani, tedeschi, sudcoreani e canadesi.
La tendenza comune è la ricerca della tipicità dei sapori, la voglia di scoprire le reali modalità di realizzazione dei prodotti, esperienze di gusto sempre più personalizzate e autentiche. Un’attenzione, forse, che gli italiani hanno più degli stranieri.
Se americani, canadesi, cinesi, francesi e britannici in visita in Italia prediligono infatti i ristoranti gourmet, concedendosi almeno una sosta durante la loro vacanza in un locale
stellato (ma in cima, a sorpresa, ci sono i messicani col 49%), gli italiani amano soprattutto i ristoranti tradizionali, tipici e a buon mercato.
Prediligono trattorie oppure osterie, piuttosto che i locali d’alta cucina. Anche la propensione a visitare mercati contadini, fiere agricole e food festival è colorata tipicamente di tricolore: è qui che molto spesso gli italiani si riforniscono o imparano a conoscere i prodotti più genuini.
Meno gettonato, nel periodo natalizio, è il soggiorno presso agriturismi e aziende di produzione, che invece sono preferite d’estate. (R. D.)
Barbara Benassi e Maria Pierdomenico (Agenzia ENEA) raccontano i meccanismi molecolari alla base degli effetti antineoplastici di un estratto molto ricco in bioattivi
Porta la firma di un gruppo di ricerca dell’Agenzia ENEA uno studio pubblicato su Natural Product Research sull’estratto della nocciola viterbese, da cui emerge un promettente potenziale antitumorale. Due i nomi ai quali si deve questo importante tassello, foriero di possibili sviluppi terapeutici e di prevenzione del tumore al fegato: Barbara Benassi, biologa molecolare specializzata in Patologia Clinica, ricercatrice presso la Divisione di Biotecnologie dell’ENEA e docente di Genomica Applicata all’Università Campus Biomedico di Roma; e Maria Pierdomenico, biologa ricercatrice nel Laboratorio ENEA
Salute e Ambiente. Con loro, anche Loretta Bacchetta, agronoma della Divisione Sistemi Agroalimentari Sostenibili.
Dottoressa Benassi, cominciamo con lei. Da dove parte lo studio?
Poco più di cinque anni fa, nell’ambito del Dipartimento ENEA di “Sostenibilità, Circolarità e Adattamento al Cambiamento Climatico dei Sistemi Produttivi e Territoriali”, con l’obiettivo di caratterizzare le cosiddette ‘proprietà funzionali’ di alimenti come la frutta secca e la nocciola viterbese. Queste proprietà derivano dalla ricchezza in biomolecole attive, contenute principalmente nel frutto (ma non solo).
Qual è l’aspetto innovativo?
Poter caratterizzare, a valle dell’analisi del profilo chimico-metabolomico di una matrice vegetale, i meccanismi molecolari alla base degli effetti antineoplastici di un estratto molto ricco in bioattivi, dando una seconda vita a quella parte di frutti che, per dimensioni o caratteristiche “estetiche” non accettate dalla grande distribuzione, potrebbero rappresentare uno scarto. L’identificazione delle biomolecole attive responsabili dell’effetto antineoplastico, tipiche di alcune specie diffuse nel Mediterraneo, permetterebbe di ampliare la gamma di strumenti a disposizione della biomedicina per nuovi farmaci mirati al trattamento di patologie oncologiche.
Come mai ci si è concentrati su questo specifico tipo di nocciola? Si può ipotizzare che queste stesse proprietà siano comuni ad altre varietà?
La scelta della Corylus avellana L è stata motivata dal desiderio di promuovere i prodotti locali, nel nostro caso quelli del Lazio. L’analisi dei metaboliti presenti (effettuata sempre in ENEA) ha messo in luce un profilo unico di biomolecole attive, quali ad esempio polifenoli e vitamine, che contraddistingue la specie coltivata nelle aree del Lazio. Ipotizzare che queste proprietà siano comuni ad altre varietà è senz’altro possibile, a patto che ne venga sempre prima verificata la
composizione in molecole attive, il profilo comparato a quanto già noto in letteratura in termini di bioattivi e ne siano validate le proprietà funzionali in laboratorio.
Quali le implicazioni?
Valorizzare al massimo un prodotto locale e un alimento tipico della dieta mediterranea, identificando le basi molecolari delle sue proprietà funzionali sia come alimento ricchissimo dal punto di vista nutrizionale e prezioso per la prevenzione di patologie cronico-degenerative, sia come matrice per lo sviluppo di biomolecole attive per uso nutraceutico e/o farmaceutico.
Dottoressa Pierdomenico, passiamo a lei. Dove risiedono le proprietà antitumorali di queste nocciole?
Nel frutto. Dalla porzione edibile è stata infatti estratta la matrice utilizzata nei test in laboratorio in vitro sulle cellule di epatocarcinoma umano, nelle quali è stata dimostrata la potente proprietà citotossica dell’estratto. Ma, a differenza dei nostri precedenti studi, l’ultimo lavoro non va letto nell’ottica di un utilizzo della nocciola quale alimento, come se l’alimentazione potesse sostituire gli approcci terapeutici convenzionali nel contrastare il potenziale proliferativo di una patologia oncologica, ma evidenziare l’uso della matrice vegetale a base di nocciola quale materiale da cui estrarre principi attivi molto potenti che, se validati in ulteriori studi in vitro e in vivo, pos-
La ricerca non va letta nell’ottica di un utilizzo della nocciola quale alimento, come se l’alimentazione potesse sostituire gli approcci terapeutici convenzionali nel contrastare una patologia oncologica, ma ne evidenzia l’uso della matrice vegetale quale materiale da cui estrarre principi attivi molto potenti per nuove formulazioni di farmaci adiuvanti nel trattamento oncologico.
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sano rappresentare la base di nuove formulazioni di farmaci adiuvanti nel trattamento oncologico. Non farmaci di sintesi, ma molecole ricavate da matrici vegetali. Ma pur sempre farmaci che, per arrivare alla clinica, devono seguire l’iter convenzionale di sperimentazione preclinica.
A che punto è la ricerca?
All’identificazione delle singole biomolecole dell’estratto responsabili dell’effetto antineoplastico dimostrato in laboratorio; abbiamo verificato infatti che la matrice ottenuta dalla lavorazione dell’intero frutto esercita un potente effetto citotossico in vitro, senza aver ancora identificato il componente capace di svolgere direttamente l’effetto citotossico. Mediante approcci computazionali di docking e dinamica molecolare, valuteremo l’interazione tra le singole molecole della matrice e i loro possibili bersagli cellulari, per identificare e simulare i pathways molecolari alla base dell’effetto biologico anti-tumorale; a valle, caratterizzeremo ulteriormente in vitro, anche estendendo ad altre linee cellulari umane, la via di segnale regolata dai bioattivi estratti dalla nocciola.
Quali sono i prossimi step?
La caratterizzazione di altre parti della pianta, comprese quelle non edibili. Molta attenzione sarà rivolta ai materiali di scarto derivanti sia dalla coltivazione sia dalla lavorazione in un’ottica di sostenibilità e di economia circolare.
Intervista con Sirio Dupont, professore dell’Università di Padova e coordinatore dello studio “Mitochondrial mechanotransduction through MIEF1 coordinates the nuclear response to forces”, realizzato principalmente grazie al contributo di AIRC e pubblicato su Nature Cell Biology
di Ester Trevisan
Professor Dupont, ci spiega di cosa si occupa la meccano-biologia?
La meccano-biologia è una disciplina nata ai confini con l’ingegneria e con la fisica.
Si occupa dell’interazione tra i sistemi biologici e le leggi fisiche in due modalità: come i sistemi biologici (organelli, cellule, tessuti) percepiscono gli stimoli di tipo meccanico (deformazione, compressione, stiramento, elasticità, flussi di liquidi) e di conseguenza regolano le proprie funzioni, tramite processi di meccano-trasduzione; e come i principi fisici siano in grado di spiegare il comportamento dei sistemi biologici, come ad esempio i comportamenti emergenti di collettivi di cellule, nel campo di ricerca che prende anche il nome di “physics of life”.
Cosa sono i mitocondri e quali funzioni svolgono?
La visione classica dei mitocondri è quella della “centrale elettrica” della cellula, dato il ruolo centrale di questi organelli nel metabolismo energetico. Più di recente, ci si è resi conto che i mitocondri svolgono anche altri ruoli, tra cui quello di processare informazione. I mitocondri sono infatti in grado di percepire stimoli, sia interni che esterni alla cellula, di rispondere a tali stimoli cambiando il proprio stato funzionale e la propria morfologia, e di iniziare processi di segnalazione che regolano la funzione di altri organelli, compresa la trascrizione genica nel nucleo. In quest’ottica i mitocondri sono
analoghi ai microprocessori che integrano varie informazioni (input) e possono influenzare globalmente le funzioni cellulari (output).
Perché la lunghezza è una caratteristica importante dei mitocondri? Cosa determina? La morfologia dei mitocondri cambia a seconda della funzione prevalente che svolgono. Inoltre, non sono organelli statici ma vanno incontro a un processo di continua fusione (allungamento) e fissione (accorciamento) che prende il nome di dinamica mitocondriale. Sappiamo che questo processo è importante perché la mutazione degli attori molecolari di questa dinamica è associato a malattie genetiche. La dinamica mitocondriale ha numerose funzioni: permette di eliminare le parti danneggiate e malfunzionanti del network, e di rinnovarlo; permette di cambiare lo stato metabolico del network, e quindi della cellula; evita che l’intricato reticolo dei mitocondri interferisca con i processi di separazione dei cromosomi durante la mitosi. Rimane ancora molto da capire di questo affascinante processo, ad esempio recentissimi studi indicano come nella cellula possano esistere diverse sottopopolazioni di mitocondri con funzioni diverse, e che i processi di fissione possono avvenire in punti diversi del network a seconda dello stimolo, ma si sa poco della base molecolare di questi processi.
In quale modo il meccanismo indagato nella vostra ricerca influisce sull’attività dei mitocondri?
Il nostro studio propone due concetti. Innanzitutto abbiamo identificato un meccanismo che determina la lunghezza dei mitocondri in risposta da quello che avviene all’esterno della cellula, e in particolare alle forze meccaniche presenti nel microambiente. Quando una cellula è soggetta ad un elevato livello di forze, i mitocondri si allungano. Questo è dovuto alla fosforilazione di una proteina mitocondriale chiamata MIEF1, che determina una minore propensità di questa proteina a formare i complessi di fissione mitocondriale. Secondariamente, questa maggiore o minore fissione determina una serie di effetti sia a livello mitocondriale, che abbiamo appena iniziato a descrivere e su cui lavoreremo in futuro, sia più in generale sull’attività di almeno tre fattori di trascrizione. In questo modo la lunghezza dei mitocondri coordina diversi programmi genici complementari, come ad esempio il metabolismo antiossidante, la sintesi dei lipidi, la proliferazione cellulare e lo stato differenziativo. Abbiamo chiamato questo processo “meccanotraduzione mitocondriale”, e pensiamo sia generalizzabile a molti tipi cellulari e potenzialmente rilevante in molti tessuti.
A quali prospettive aprono i risultati che avete ottenuto?
Stiamo lavorando in due direzioni. La prima è testare l’idea che la fosforilazione di MIEF1 possa servire come marcatore della risposta cellulare agli stimoli meccanici nei tessuti. Questo ci darebbe la possibilità di visualizzare quali cellule rispondono ad alterazioni degli stimoli meccanici nel contesto di un tessuto o organo, quanto eterogenea è questa risposta, e se questa risposta è alterata in stati patologici. La seconda è sviluppare piccole molecole in grado di interferire con questo meccanismo in modo da poter controllare farmacologicamente la risposta delle cellule agli stimoli meccanici. Questo potrebbe avere ricadute in patologie che si ritiene siano causate o facilitate da alterazioni meccaniche, tra cui lo sviluppo di alcune neoplasie ma anche malattie fibrotiche e cardiovascolari.
Possiamo affermare che questo studio aggiunge un altro tassello alla lotta contro il cancro?
Gli stimoli meccanici sono importanti, in modi diversi, in almeno due fasi della neoplasia. Duran-
La morfologia dei mitocondri cambia a seconda della funzione prevalente che svolgono. Inoltre, non sono organelli statici ma vanno incontro a un processo di continua fusione (allungamento) e fissione (accorciamento) che prende il nome di dinamica mitocondriale. Sappiamo che questo processo è importante perché la mutazione degli attori molecolari di questa dinamica è associato a malattie genetiche.
te la crescita iniziale, alcuni tumori diventano più rigidi, e questo aiuta la loro crescita. Quando lWe cellule del tumore colonizzano i tessuti adiacenti e formano le metastasi, il loro trovarsi a contatto con tessuti normali e soffici le aiuta invece ad attivare alcune difese contro i chemioterapici. Comprendere i meccanismi di queste risposte, e poter eventualmente interferire con esse, potrebbe portare a nuovi approcci di terapia.
Da chi è composto il team autore della ricerca? Il motore di questa ricerca è stata Patrizia Romani, ricercatrice a tempo indeterminato nel Dipartimento di Medicina Molecolare, con l’aiuto di altre ricercatrici del gruppo e in collaborazione con una serie di colleghi sia italiani che stranieri, che hanno fornito expertise complementari al nostro.
Sirio
Dupont è Professore Associato di Istologia ed Embriologia presso la Scuola di Medicina dell’Università di Padova. Ha conseguito la laurea magistrale in Biologia Molecolare e successivamente, nel 2003, il dottorato di ricerca in Genetica e Biologia Molecolare presso l’ateneo patavino. Nel 2006 è diventato ricercatore in Istologia, Biologia Cellulare ed Embriologia e nel 2013 principal investigator. Si occupa di meccano-trasduzione da oltre quindici anni.
Iricercatori della Scuola di Medicina dell’Università di Stanford hanno sviluppato un nuovo approccio per le terapie contro il cancro che agisce in modo opposto rispetto a molti altri tipi di trattamenti oncologici. Gli scienziati hanno unito artificialmente due proteine per creare un nuovo complesso capace di avviare la trascrizione di geni chiave normalmente repressi in un particolare linfoma umano a cellule B, con l’obiettivo di capovolgere la normale azione della proteina del linfoma: da impedire la morte cellulare a innescarla. In questo modo gli autori della ricerca sono riusciti a ingannare le cellule tumorali e a spingerle ad autoeliminarsi. Con il naturale processo di apoptosi (morte cellulare), il nostro corpo ogni giorno elimina e sostituisce circa 60 miliardi di cellule. Queste cellule, principalmente quelle del sangue e dell’intestino, sono tutte rimpiazzate con altre nuove, ma il modo in cui l’organismo le distrugge potrebbe avere profonde implicazioni per lo sviluppo di nuove terapie contro il cancro. L’idea alla base della ricerca, di recente pubblicata su Science, è venuta a Gerald Crabtree, autore dello studio e professore di biologia dello sviluppo presso l’Università di Stanford, riflettendo su un’importante scoperta risalente agli anni ’70 e cioè sul fatto che le cellule provocano la propria morte per il bene dell’organismo. Come spiegano gli scienziati, l’apoptosi si è rivelata fondamentale per molti processi biologici, tra cui il corretto sviluppo di tutti gli organi e del nostro sistema immunitario. Questo sistema conserva le cellule che riconoscono gli agenti patogeni, ma elimina quelle che attaccano i tessuti del proprio organismo, prevenendo così le malattie autoimmuni. «Mi è venuto in mente che questo è il modo in cui vogliamo trattare il cancro», ha detto Crabtree. «Vogliamo essenzialmente avere lo stesso tipo di specificità che può eliminare 60
«Da quando sono stati scoperti gli oncogeni, nei trattamenti del cancro si è cercato di spegnerli», ha detto Roman Sarott, ricercatore presso la Stanford Medicine e primo autore dello studio. «Al contrario – prosegue il ricercatore - noi stiamo cercando di usarli per attivare una segnalazione che, speriamo, si rivelerà utile per le terapie». Il cancro spesso è in grado di adattarsi rapidamente alle terapie che colpiscono solo uno dei punti deboli della malattia, e alcuni trattamenti possono arrestare la moltiplicazione delle cellule senza ucciderle completamente.
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miliardi di cellule, senza che venga uccisa nessuna cellula che non sia il bersaglio della terapia». I trattamenti tradizionali per il cancro, ovvero la chemioterapia e la radioterapia, spesso uccidono un gran numero di cellule sane insieme a quelle cancerose. Inoltre spesso non riescono a eliminare tutte le cellule malate ma solo una loro parte. Per sfruttare la naturale e altamente specifica capacità di autodistruzione delle cellule, il team ha sviluppato una sorta di colla molecolare che unisce due proteine che normalmente non si appaiano. Una di queste proteine, l’oncogene BCL6, se mutata, è alla base del cancro del sangue noto come linfoma diffuso a grandi cellule B. Nel linfoma, la BCL6 mutata si trova sul DNA vicino ai geni che promuovono l’apoptosi e li tiene spenti, aiutando le cellule tumorali a mantenere la loro caratteristica immortalità. I ricercatori hanno sviluppato una molecola che lega BCL6 a una proteina nota come CDK9, che agisce come un enzima che catalizza l’attivazione dei geni, in questo caso, accendendo la serie di geni dell’apoptosi che BCL6 normalmente tiene spenti.
La nuova molecola è stata testata in laboratorio su cellule di linfoma diffuso a grandi cellule B ed è stata molto efficace nell’innescare la morte delle cellule tumorali. Non sono stati riscontrati effetti collaterali tossici evidenti, anche se la molecola ha ucciso una anche una specifica categoria di cellule B sane degli animali, un tipo di cellule immunitarie, che dipendono anch’esse da BCL6.
A Stanford hanno creato un nuovo complesso molecolare processo di morte programmata nelle cellule del linfoma di tipo B
I ricercatori hanno testato la molecola in laboratorio su 859 tipi diversi di cellule tumorali ma il composto chimerico ha ucciso solo le cellule di linfoma a grandi cellule B. La tecnica sembra quindi essere molto specifica per le cellule di linfoma. I ricercatori hanno inoltre scoperto che BCL6 agisce normalmente su 13 diversi geni che promuovono l’apoptosi e questo fatto rappresenta un grande vantaggio nei confronti della resistenza al trattamento, purtroppo comune nel cancro. La speranza dei ricercatori è che, colpendo le cellule con più segnali contemporaneamente che ne inneschino la morte cellulare, il cancro non sia in grado di sopravvivere abbastanza a lungo da sviluppare una resistenza e questo sarà oggetto di successivi test. Il team ha inoltre in programma di costruire altre molecole simili a quella già realizzata, che potrebbero colpire diverse proteine che causano il cancro, tra cui l’oncogene Ras, alla base di diversi tipi di cancro. (S. B.)
L’utilizzo di batteri modificati come vaccini anticancro offre una serie di vantaggi unici rispetto alle terapie tradizionali. Non solo i batteri possono essere progettati per rispondere a specifiche mutazioni genetiche del tumore, ma il loro uso potrebbe anche ridurre drasticamente gli effetti collaterali tipici dei trattamenti attuali, come chemioterapia e radioterapia.
La medicina moderna si avvicina sempre più a terapie personalizzate che utilizzano tecnologie avanzate e metodologie innovative per affrontare patologie complesse come il cancro. Una ricerca recentemente pubblicata sulla rivista Nature, riguarda l’uso di batteri geneticamente modificati come base per nuovi vaccini anticancro personalizzati. Questo rivoluzionario approccio è stato sviluppato presso la Columbia University di New York, dove un team di ricercatori guidato dal microbiologo e immunologo Nicholas Arpaia e dal bioingegnere Tal Danino, ha condotto studi pionieristici su melanoma e tumore al colon-retto in stadio avanzato. Alla base di questa scoperta vi è l’utilizzo di batteri probiotici come Escherichia coli, organismi comunemente presenti nel tratto intestinale umano e noti per le loro proprietà protettive e per il ruolo benefico che esercitano sull’equilibrio del microbiota. Questi batteri sono stati geneticamente modificati per potenziare la loro naturale capacità di stimolare il sistema immunitario, rendendoli in grado di identificare e attaccare in maniera mirata le cellule tumorali. L’ingegnerizzazione dei batteri li trasforma in piccoli soldati dotati di istruzioni specifiche per distruggere le cellule malate senza danneggiare quelle sane, attivando il sistema immunitario in modo selettivo.
Questa tecnologia si avvale dell’abilità dei batteri modificati di stimolare il sistema immunitario contro mutazioni genetiche uniche presenti nelle cellule tumorali. L’idea alla base è quella di educare l’immunità del paziente a riconoscere e combattere le mutazioni che caratterizzano le cellule cancerose, offrendo una risposta mirata, adattabile e in grado di prevenire recidive.
Negli esperimenti, i batteri geneticamente modificati si sono dimostrati in grado di attivare il sistema immunitario, portandolo a bloccare efficacemente la crescita sia dei tumori primari sia delle metastasi. In alcuni casi, il trattamento ha consentito addirittura l’eliminazione completa delle cellule tumorali. Questo risultato è particolarmente significativo, poiché i batteri hanno dimostrato di non compromettere alcuna cellula sana, riducendo così al minimo i potenziali effetti collaterali.
Secondo Andrew Redenti, uno degli autori della ricerca, «il vantaggio di questo approccio è la capacità unica di ristrutturare e contemporaneamente attivare tutto il sistema immunitario a reagire contro il tumore». Questo significa che
la terapia potrebbe rivelarsi efficace soprattutto nei tumori solidi avanzati, spesso molto resistenti alle attuali immunoterapie. Inoltre, è stato osservato un aumento della sopravvivenza, un segnale positivo che evidenzia le potenzialità terapeutiche di questa innovativa tecnologia.
Uno dei maggiori ostacoli nella cura del cancro è la grande variabilità genetica delle cellule tumorali, che differiscono non solo tra pazienti, ma anche all’interno dello stesso paziente. Le cellule malate ospitano infatti mutazioni genetiche uniche che le distinguono dalle cellule sane e rendono difficoltoso un trattamento uniforme e duraturo. Arpaia spiega: «Ogni tumore è unico e le cellule tumorali ospitano mutazioni genetiche diverse, che le distinguono dalle cellule sane».
Grazie all’ingegnerizzazione dei batteri, è possibile progettare terapie capaci di intercettare queste mutazioni specifiche, stimolando così il sistema immunitario del singolo paziente a riconoscere e attaccare esclusivamente le cellule malate. Questo rappresenta una svolta decisiva verso una medicina sempre più personalizzata e mirata.
«Ci stiamo avvicinando alla sperimentazione clinica», commenta il team, evidenziando come la ricerca sia ormai pronta a fare il salto dalle fasi precliniche verso test più ampi e complessi. Se i risultati fossero confermati, questa tecnologia potrebbe portare a una nuova classe di vaccini personalizzati per il trattamento di diversi tipi di cancro.
L’utilizzo di batteri modificati come vaccini anticancro offre una serie di vantaggi unici rispetto alle terapie tradizionali. Non solo i batteri possono essere progettati per rispondere a specifiche mutazioni genetiche del tumore, ma il loro uso potrebbe anche ridurre drasticamente gli effetti collaterali tipici dei trattamenti attuali, come chemioterapia e radioterapia. Inoltre, i vaccini batterici potrebbero potenzialmente essere adattati alle condizioni specifiche del tumore, sia nelle fasi iniziali sia nelle forme metastatiche, offrendo una soluzione flessibile e su misura per ogni paziente.
L’innovazione rappresentata dai vaccini anticancro basati su batteri modificati promette di trasformare radicalmente il panorama delle terapie oncologiche. La lotta contro il cancro potrebbe presto essere supportata da terapie sempre più precise, mirate e, soprattutto, personalizzate per rispondere alle caratteristiche uniche di ogni paziente. (C. P.)
Innovativo approccio della Columbia University utilizza batteri probiotici modificati per stimolare il sistema immunitario contro specifiche mutazioni tumorali
Idati dell’Unione Europea sui tumori sembrano solo a un primo impatto incoraggianti. Le predizioni dei decessi indicano un calo del 6,5% negli uomini e del 4% nelle donne nel periodo che va dal 2018 fino ai giorni nostri. Seppur in diminuzione nelle statistiche, ci sono alcune patologie che invece aumentano di numero: un esempio è il cancro del colon-retto che è in aumento del 26% negli uomini e del 36% nelle donne tra i 25 e i 49 anni nel Regno Unito. Insomma, la situazione non è certamente rosea, stando ai risultati dello studio pubblicati su Annals of Oncology nei quali naturalmente figurano anche altre malattie che restano in espansione.
Nel caso del colon-retto, il professor Carlo La Vecchia, docente di Statistica Medica ed Epidemiologia presso l’Università Statale di Milano, ha provato ad individuare le possibili cause: «I fattori chiave che contribuiscono all’aumento dei tassi di mortalità per il tumore al colon-retto tra i giovani includono il sovrappeso, l’obesità e le condizioni di salute correlate, come alti livelli di glucosio
nel sangue o il diabete». In effetti, l’aumento del consumo di superalcolici nell’Europa centrale e settentrionale e nel Regno Unito e la riduzione dell’attività fisica costituiscono seri fattori di rischio.
Ma non sono gli unici, sebbene lo stile di vita sia fondamentale per evitare simili conseguenze. Possono tuttavia sussistere anche altre cause alla base dello sviluppo dei tumori: sono stati infatti individuati sei nuovi geni con rare varianti della linea germinale associati al rischio di cancro.
A scoprirli sono stati gli scienziati di deCODE genetics/Amgen, il cui lavoro è stato pubblicato sulla rivista Nature Genetics. Il gruppo di ricerca, con al timone Erna V. Ivarsdottir, ha analizzato tre grandi set di dati genetici di soggetti di discendenza europea, tra cui 130.991 pazienti oncologici e 733.486 persone sane. Partendo da 22 tipologie diffe-
Lo studio realizzato dagli scienziati di deCODE genetics/Amgen potrebbe aprire la strada a terapie mirate: un significativo passo avanti nella complicata lotta ai tumori
di Domenico Esposito
renti di cancro, gli esperti hanno individuato quattro nuovi geni associati a un rischio più elevato di sviluppare malattie oncologiche: il pro-apoptotico BIK per il cancro alla prostata, l’autofagia coinvolta ATG12 per il cancro del colon-retto, TG per il cancro alla tiroide e CMTR2 sia per il cancro ai polmoni sia per il melanoma cutaneo. Non parliamo di percentuali trascurabili: l’aumento relativo del rischio di cancro conferito da queste varianti è stato sostanziale, e variava dal 90 al 275%.
A gettare un po’ di acqua sul fuoco ci hanno pensato gli stessi autori, spiegando come il design dello studio non consenta in realtà una valutazione accurata del rischio assoluto di cancro nel corso della vita. La mossa dei ricercatori è stata quella di individuare i primi geni con varianti rare che sono associate a un rischio ridotto di cancro.
In particolare, così si è scoperto che la
perdita di AURKB protegge da qualsiasi tipo di cancro e la perdita di PPP1R15A è stata associata a un rischio inferiore del 53% di sviluppare il cancro al seno. Attraverso questo dato si è capito come l’inibizione di PPP1R15A potrebbe essere un’opzione terapeutica promettente per il trattamento dei pazienti con tumore al seno.
Tutto ciò che è emerso da questa delicata ricerca può rivelarsi utile a ricevere nuove informazioni sui meccanismi biologici coinvolti nella predizione al cancro. E potrebbero portare allo sviluppo di approcci mirati per la diagnosi precoce e lo sviluppo di terapie ad hoc, migliorando la prognosi per i malati oncologici con tali configurazioni genetiche. In linea di massima, facendo un passo indietro, la scienza ci dice che il tumore non arriva mai per caso. Mai.
Sono svariate le ragioni per cui una cellula perde il controllo e inizia a crescere a un ritmo più veloce delle altre. Può dipendere dalla vecchiaia o da una serie di accumuli di danni nel tempo sfociati nella malattia e associabili al proprio stile di vita lontano da quello ideale. E poi, appunto, l’aspetto legato alla genetica. Possedere alla nascita particolari mutazioni in geni essenziali nel controllo della crescita cellulare può aumentare, oppure in alcuni casi anche diminuire, le probabilità di sviluppare un tumore.
La portata della scoperta è dunque di quelle importanti, perché aiuta a fare ulteriormente luce sul cancro e sulla lotta da intraprendere per combatterlo. In riferimento a ciò, di recente l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha lanciato un nuovo allarme che fotografa lo scenario futuro: «Nel 2050 è previsto un incremento del 77% di nuove diagnosi». Questo significa che nel mondo potrebbero registrarsi 35 milioni di casi all’anno contro i 20 stimati nel 2022. La previsione non risparmia l’Europa, dove si ritiene che si verificherà un aumento del 38% dei morti a causa dei tumori entro il 2045. Il cancro più letale continua a essere quello al polmone, con 1,8 milioni di decessi e il 18,7% del totale morti per cancro.
A seguire, il tumore del colon-retto (9,3%), quello del fegato (7,8%), il tumore al seno (6,9%, principale causa di morte per le donne) e allo stomaco (6,8%).
Partendo da 22 tipologie differenti di cancro, gli esperti hanno individuato quattro nuovi geni associati a un rischio più elevato di sviluppare malattie oncologiche: il pro-apoptotico BIK per il cancro alla prostata, l’autofagia coinvolta ATG12 per il cancro del colon-retto, TG per il cancro alla tiroide e CMTR2 sia per il cancro ai polmoni sia per il melanoma cutaneo. Non parliamo di percentuali trascurabili: l’aumento relativo del rischio di cancro conferito da queste varianti è stato sostanziale, e variava dal 90 al 275%.
Uno studio della McGill University rivela il ruolo chiave del sistema immunitario nella degenerazione cerebrale: nuove prospettive per la prevenzione e il trattamento del morbo
In uno studio pubblicato su Nature Neuroscience, un team di scienziati della McGill University in Canada ha osservato per la prima volta in neuroni vivi la formazione dei corpi di Lewy, accumuli di proteine mal ripiegate tipici del morbo di Parkinson e di alcune forme di demenza. Questa scoperta risulta significativa nella comprensione dei meccanismi che causano queste malattie neurodegenerative aprendo nuove strade per lo sviluppo di trattamenti più efficaci.
Fino ad oggi, i corpi di Lewy potevano essere studiati solo tramite autopsie su cervelli di pazienti deceduti a causa del Parkinson. A causa del deterioramento rapido dei tessuti cerebrali dopo la morte, lo studio consentiva un’osservazione dettagliata. Grazie alle cellule staminali umane coltivate in laboratorio, i ricercatori canadesi sono riusciti a riprodurre neuroni dopaminergici, ovvero i neuroni che producono dopamina e che sono più vulnerabili al Parkinson, e a indurre la formazione dei corpi di Lewy nei neuroni vivi. Questo esperimento ha permesso di osservare in tempo reale le dinamiche cellulari coinvolte nella malattia.
Una delle scoperte più significative dello studio è stata l’individuazione di un’interazione inaspettata tra i corpi di Lewy e il sistema immunitario. Gli scienziati hanno osservato che gli aggregati
proteici, che danneggiano le cellule cerebrali, si formano solo in presenza di un’attivazione delle cellule immunitarie. Quando il sistema immunitario si attiva, compromette il meccanismo cellulare deputato alla rimozione dei materialidanneggiati.Questoaccumulodisostanze
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tossiche all’interno dei neuroni contribuisce alla degenerazione neuronale, con conseguenze dirette sulla funzionalità del cervello. Secondo Peter McPherson, coordinatore della ricerca, i neuroni studiati sono stati ottenuti da cellule staminali derivate da persone sane, dimostrando che i processi patologici associati al Parkinson possono verificarsi anche in assenza di predisposizioni genetiche specifiche. Questo risultato suggerisce che la malattia di
Inoltre, l’inibizione mirata dell’attività immunitaria potrebbe avere effetti collaterali sul sistema nervoso centrale.
Sarà quindi necessario sviluppare strategie terapeutiche selettive che possano ridurre la formazione di corpi di Lewy senza compromettere il funzionamento del sistema immunitario nel suo complesso.
Parkinson potrebbe potenzialmente svilupparsi in chiunque sia esposto a determinati fattori ambientali, indicando che la genetica potrebbe non rappresentare l’unico fattore determinante per la comparsa della patologia. Questo nuovo punto di vista spinge a riconsiderare le cause della malattia anche in chiave epigenetica e ambientale. Identificare i fattori di rischio ambientali potrebbe quindi aprire la strada a programmi di prevenzione mirata. La metodologia utilizzata è stata altrettanto innovativa. Le cellule staminali umane sono state coltivate in laboratorio per generare neuroni dopaminergici. Questi neuroni, fondamentali per il controllo del movimento e dell’umore, sono fortemente colpiti nel Parkinson. Nel cervello di un paziente affetto da Parkinson, la progressiva morte dei neuroni dopaminergici riduce drasticamente la produzione di dopamina, portando ai sintomi motori caratteristici della malattia, come tremori, rigidità muscolare e rallentamento dei movimenti.
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I ricercatori hanno quindi replicato in laboratorio non solo i neuroni stessi, ma anche il microambiente in cui si sviluppano i corpi di Lewy. Tale approccio ha permesso loro di osservare le fasi iniziali dell’aggregazione proteica, monitorando come si forma e si diffonde all’interno dei neuroni e scoprendo in dettaglio il ruolo che il sistema immunitario svolge nel favorire o inibire la formazione di questi depositi tossici. La possibilità di studiare i corpi di Lewy direttamente nei neuroni vivi rappresenta una vera rivoluzione nella ricerca sul Parkinson. Con una comprensione più chiara del ruolo del sistema immunitario nella formazione degli aggregati proteici, gli scienziati potranno esplorare nuovi approcci terapeutici. Uno degli obiettivi futuri sarà quello di individuare un modo per modulare la risposta immunitaria, in modo da ridurre o prevenire l’attivazione eccessiva che sembra contribuire all’accumulo di proteine mal ripiegate. Questa ricerca evidenzia le potenzialità delle cellule staminali nel migliorare la comprensione di malattie neurodegenerative complesse come il Parkinson. Tuttavia, restano molte sfide da affrontare prima che queste scoperte possano essere tradotte in trattamenti clinici. Per esempio, resta da chiarire se altri tipi di neuroni siano soggetti alla stessa influenza immunitaria nella formazione di aggregati tossici, o se ci siano varianti individuali nella risposta immunitaria che potrebbero spiegare perché alcuni individui sviluppano la malattia e altri no. (C. P.).
Un nuovo studio ha validato l’utilità di curcumina e polidatina nel pretrattamento del glioblastoma. L’utilizzo di questi composti vegetali riduce la resistenza ai chemioterapici
Fin dall’antichità i preparati vegetali sono stati utilizzati come fonte primaria di principi terapeutici e la scoperta di nuove sostanze naturali ha in più occasioni influenzato i progressi della biologia e della terapia farmacologica. Negli ultimi decenni diversi prodotti di origine vegetale sono stati riconosciuti come promettenti candidati per lo sviluppo di farmaci chemiopreventivi o terapeutici per il cancro. Secondo un recente studio, condotto da ricercatori dell’Istituto di farmacologia traslazionale del Consiglio Nazionale delle Ricerche, Istituto superiore di sanità e Fondazione Artoi, la combinazione di curcumina e polidatina - due molecole naturaliè in grado di migliorare l’efficacia nel trattamento del glioblastoma, un tumore cerebrale molto aggressivo. La ricerca, eseguita su modelli cellulari, è stata pubblicata su un numero speciale dell’International Journal of Molecular Sciences.
Il glioblastoma è uno dei tumori cerebrali più letali, noto per la sua aggressività e, purtroppo, per la resistenza ai trattamenti: la chemioterapia con il farmaco Temozolomide, che rappresenta una delle principali opzioni terapeutiche, spesso viene inibita dalla resistenza che il tumore sviluppa nel tempo. A causa della proliferazione delle cellule tumorali residue e invasive, la malattia oncologica ricompare determinando la scarsa prognosi dei pazienti, con tempo di sopravvivenza mediano inferiore ai due anni.
Negli ultimi decenni, come si legge nello studio, l’identificazione di composti naturali che esercitano una forte attività antitumorale agendo come potenti modulatori di vie connesse al cancro ha portato alla progettazione di nuovi protocolli terapeutici che combinano questi composti con agenti chemioterapici convenzionali. In particolare, poiché i protocolli terapeutici disponibili per il trattamento del GBL non sono molto efficaci, oltre il 50% dei pazienti ricorre ad approcci complementari, tra cui le terapie a base di erbe sono le più utilizzate ma, finora, con scarso successo. «Utilizzando metodiche di biologia molecolare, microscopiche e ultramicroscopiche, abbiamo potuto dimostrare che il pretrattamento di linee cellulari di glioblastoma con curcumina e polidatina aumenta l’efficacia del trattamento con Temozolomide (TMZ), rendendo sensibili alle terapie anche le cellule tumorali dotate di resistenza intrinseca. Questa combinazione di molecole, è stata sviluppata proprio per ridurre la resistenza alle terapie che-
Il glioblastoma è uno dei tumori cerebrali più letali, noto per la sua aggressività e, purtroppo, per la resistenza ai trattamenti: la chemioterapia con il farmaco Temozolomide, che rappresenta una delle principali opzioni terapeutiche, spesso viene inibita dalla resistenza che il tumore sviluppa nel tempo. A causa della proliferazione delle cellule tumorali residue e invasive, la malattia oncologica ricompare determinando la scarsa prognosi dei pazienti, con tempo di sopravvivenza mediano inferiore ai due anni.
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mioterapiche, una criticità molto importante nel trattamento dei tumori cerebrali come il glioblastoma», spiega Giampietro Ravagnan, ricercatore del Cnr-Ift co-autore della ricerca.
La curcumina (CUR) è un composto estratto dalla curcuma, una spezia utilizzata anche in cucina, mentre la polidatina (PLD) è presente principalmente nella radice di Polygonum cuspidatum, una pianta di origine asiatica di ampio uso nella medicina tradizionale orientale. Il riconoscimento della forte attività antitumorale di queste molecole naturali ha portato alla combinazione di questi composti con agenti chemioterapici convenzionali all’interno di protocolli per terapie antitumorali integrate. In particolare, gli studiosi sono riusciti a dimostrare l’efficacia sinergica della somministrazione sublinguale di una nuova formulazione nutraceutica di CUR+PLD nel ridurre le dimensioni del tumore sottoposto a trattamento farmacologico e nel migliorare la sopravvivenza dei pazienti affetti da GBL. Per fornire alcune prove sperimentali a sostegno di questi risultati clinici, gli autori hanno valutato se il pretrattamento con una combinazione di CUR+PLD potesse migliorare la citotossicità del Temozolomide sulle cellule di GBL, analizzando gli effetti sul ciclo cellulare, sulla vitalità, sulla morfologia, sull’espressione di proteine legate alla proliferazione, alla differenziazione, all’apoptosi o all’autofagia e sulla rete di actina. I risultati hanno fornito la prova che CUR e PLD, agendo in sinergia tra loro, migliorano fortemente l’efficacia degli agenti antitumorali alchilanti come la TMZ sulle cellule GBL resistenti ai farmaci, grazie alla loro capacità di influenzare la sopravvivenza, la differenziazione e l’invasività tumorale. In conclusione, secondo gli autori, i risultati ottenuti dallo studio in vitro costituiscono una base importante a supporto delle terapie convenzionali contro il glioblastoma. La sinergia tra polidatina e curcumina, somministrabili in una forma orosolubile brevettata, potrà quindi coadiuvare trattamenti oncologici integrati. Inoltre i ricercatori credono che la combinazione sinergica di queste due molecole potrebbe essere sfruttata anche in altri tumori in cui il trattamento con agenti alchilanti è spesso inefficace, come ad esempio i tumori del pancreas. Questa ipotesi è supportata dai dati preliminari di alcune indagini cliniche in corso, che suggeriscono che la combinazione CUR+PLD potrebbe portare a risultati positivi anche nel caso del tumore del pancreas.
Un recente studio condotto dall’Università Statale di Milano, pubblicato sulla rivista Proceedings of the Royal Society, ha messo in evidenza la correlazione tra il movimento intermittente e il dispendio energetico. Secondo i ricercatori, camminare o salire le scale a intervalli di breve durata, da 10 a 30 secondi, può aumentare il consumo energetico tra il 20% e il 60% rispetto al camminare senza pause. Questo incremento è attribuibile all’inefficienza dei muscoli quando sono attivati a intermittenza, richiedendo un maggior impiego di energia chimica per generare movimento. Il gruppo di ricerca ha realizzato due esperimenti per valutare come il movimento intermittente influenzi il consumo di ossigeno e quindi il dispendio energetico complessivo. Nel primo esperimento, dieci volontari sono stati invitati a sedersi per tre minuti prima di camminare su un tapis roulant con una pendenza che simulava la salita delle scale. Ciascun partecipante ha camminato per durate variabili: 10, 30, 60, 90 secondi e 4 minuti, affrontando tutte e cinque le condizioni in ordine casuale. Tra una sessione e l’altra, i volontari sono rimasti seduti per 7 minuti, in modo da ristabilire uno stato di riposo. Il secondo esperimento ha replicato il medesimo protocollo, ma su un tapis roulant in piano, per valutare se l’effetto fosse indipendente dall’incli-
nazione del movimento. Per misurare con precisione il consumo energetico, i ricercatori hanno utilizzato uno strumento chiamato metabolimetro, in grado di quantificare l’ossigeno consumato durante ogni fase del cammino. «Quando si inizia a camminare dopo essere stati seduti, il consumo di ossigeno aumenta gradualmente, fino a stabilizzarsi dopo alcuni minuti», spiega Francesco Luciano, primo autore dello studio e ricercatore presso il Dipartimento di Fisiopatologia Medico-Chirurgica e dei Trapianti dell’Università Statale di Milano. Con il metabolimetro, i ricercatori hanno potuto anche calcolare la velocità con cui il consumo di ossigeno cresce nei partecipanti, permettendo una stima dell’energia chimica richiesta per percorrere ogni metro.
I risultati hanno evidenziato che i brevi episodi di movimento provocano un utilizzo meno efficiente dell’energia chimica da parte dei muscoli. Nelle fasi iniziali di movimento, il metabolismo è ancora in fase di attivazione e i muscoli non riescono a convertire efficacemente l’energia chimica in lavoro meccanico. Di conseguenza, per generare lo stesso movimento, i muscoli richiedono più energia chimica rispetto a un movimento continuativo.
Questa inefficienza durante i movimenti intermittenti rappresenta un’opportunità per incrementare il dispendio energetico giornaliero
Uno studio dell’Università Statale di Milano rivela che brevi intervalli di movimento incrementano il consumo di energia fino al 60%, offrendo benefici per la salute
di Carmen Paradiso
attraverso piccole abitudini quotidiane. Ad esempio, fare una breve pausa dal lavoro per fare qualche passo o scegliere di prendere le scale invece dell’ascensore possono contribuire ad aumentare il consumo di energia, con benefici potenziali per il mantenimento del peso e la salute metabolica.
I risultati di questo studio, oltre ad avere applicazioni pratiche per le persone che cercano di incrementare il loro dispendio energetico, offrono anche spunti significativi per la biologia animale. Molte specie animali si muovono in maniera intermittente, alternando brevi fasi di movimento a momenti di riposo. Secondo Luciano, queste osservazioni possono essere utilizzate per quantificare in modo più preciso il consumo energetico in specie che adottano strategie di movimento simili. Questo potrebbe contribuire a una migliore comprensione del comportamento energetico e delle strategie di sopravvivenza di varie specie. Le evidenze che emergono da questo studio sono facilmente applicabili nella vita di tutti i giorni. In un’epoca in cui molte persone passano lunghe ore sedute, alzarsi regolarmente per compiere anche brevi spostamenti potrebbe aiutare a combattere gli effetti negativi della sedentarietà. Un’attività fisica anche breve, ma
I risultati di questo studio offrono anche spunti significativi per la biologia animale. Molte specie animali si muovono in maniera intermittente, alternando brevi fasi di movimento a momenti di riposo. ©
ripetuta frequentemente, rappresenta un modo efficace per aumentare il dispendio energetico complessivo senza richiedere grandi cambiamenti nella routine quotidiana.
Studi futuri potrebbero ampliare il campione, includendo persone di diverse età e condizioni fisiche, per verificare se le stesse dinamiche siano osservabili in una popolazione più ampia. Inoltre, si potrebbe arrivare a comprendere se il movimento intermittente possa avere benefici specifici in termini di metabolismo glucidico e lipidico, importanti per la prevenzione di malattie croniche come il diabete di tipo 2 e le malattie cardiovascolari. Lo studio apre nuove prospettive sul ruolo del movimento intermittente nel dispendio energetico umano. Scegliere di integrare pause di movimento durante la giornata non solo migliora la salute fisica, ma risulta anche un’opportunità per coloro che desiderano incrementare il proprio dispendio calorico senza impegnarsi in sessioni prolungate di esercizio fisico. Come suggerisce il ricercatore Francesco Luciano, questo studio potrebbe fornire una base anche per comprendere meglio le strategie di movimento di molte specie animali, dimostrando ancora una volta come il movimento, anche se intermittente, possa giocare un ruolo cruciale nella regolazione del bilancio energetico.
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Una delle sfide della salute pubblica è quella delle nascite premature. Ogni anno, infatti, circa 15 milioni di bambini vengono alla luce ben prima del previsto. Dal punto di vista statistico, per intenderci, parliamo di un bambino ogni dieci. Se questo dato non è di per sé considerabile allarmante, bisogna aggiungerne un altro dai contorni purtroppo drammatici. Un milione di questi bimbi muore per complicanze legate proprio alla prematurità della nascita con cause che talvolta sono anche prevenibili. E c’è un altro aspetto da tenere in considerazione: gli infanti che riescono a sopravvivere rischiano di andare incontro ad altri tipi di problematiche come disabilità, disturbi dell’apprendimento, della vista o anche dell’udito.
Non si tratta di una questione geograficamente limitata ad alcuni territori, dal momento che questi numeri interessano tutto il mondo. Quando è che un bambino è considerato prematuro? Si definisce tale quando nasce prima delle 37 settimane di gestazione. Come già accennato, la nascita pretermine costituisce una vera e propria sfida per la salute pubblica. Per fortuna, però, la scienza ha compiuto straordinari progressi nel corso degli ultimi anni aumentando in modo significativo le possibilità di sopravvivenza dei piccoli. Lo step ulteriore da mettere in pratica è permettere loro di raggiungere l’età adulta in salute, attraverso un percorso costruito ad hoc.
Il compito non è di facile realizzazione, visto che la prematurità estrema è associata a un aumento del rischio di complicazioni non solo nell’epoca neonatale, ma anche in età scolare e nell’età adulta. Questo è stato il tema affrontato nel corso del XXX Congresso Nazionale della Società Italiana di Neonatologia (Sin), che si è di recente tenuto a Padova. Ciò che è stato evidenziato è come la ricerca si sia concentrata
sulla prevenzione e sul trattamento in epoca neonatale degli esiti respiratori, senza però trovare una soluzione a tale problematica sicura ed efficace. Per questo motivo stanno emergendo nuove op -
Dall’insufficienza cardiaca ai problemi respiratori, cui vanno incontro nel tempo i soggetti nati
zioni preventive che mirano a riprogrammare positivamente lo sviluppo del polmone immaturo soggetto a danno e infiammazione. Le più promettenti sono le vescicole extracellulari, effettori delle
Troppo spesso, inoltre, i nati prematuri sono gestiti in età adulta come i soggetti asmatici, sulla base di evidenze spirometriche di una riduzione del flusso espiratorio. Ma i soggetti ex-prematuri, affetti o meno da displasia broncopolmonare, non presentano un aumento dell’ossido nitrico espirato (FENo), marker tipico dell’asma e dell’infiammazione eosinofilica di tipo 2. Perciò la diagnosi di asma andrebbe effettuata con estrema cautela, essendo spesso la condizione ostruttiva conseguente alla prematurità e a una sottostante infiammazione bronchiale dissimile da quella dell’asma.
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cellule staminali, e l’Insulin-like growth factor-1 (IGF-1), entrambi attualmente oggetto di studi clinici in fase di arruolamento. Tra gli aspetti maggiormente attenzionati in letteratura ci sono quelli respiratori. Oltre alle problematiche dell’età pediatrica che comprendono un maggior rischio di infezioni respiratorie severe e wheezing (respiro sibilante), per i soggetti nati molto prematuri, c’è il rischio di una funzionalità respiratoria ridotta durante tutta la loro vita, nell’età adulta e oltre i 50 anni. Questo tipo di riduzione appare maggiore nei soggetti diagnosticati come affetti da displasia broncopolmonare (BPD), il 44,6% dei nati prima delle 28 settimane (INNSIN Rapporto 2023), ma è presente, in misura minore, anche negli individui nati molto pretermine che non hanno ricevuto la diagnosi di BPD, con evidenza di una correlazione inversa tra l’età gestazionale alla nascita e l’ostruzione delle vie aeree. Nella maggioranza dei casi, col tempo c’è un progressivo miglioramento clinico respiratorio tale da consentire agli individui di mantenere una vita apparentemente normale. Apparentemente perché sono comunque frequenti gli episodi di sintomi respiratori, che comportano un aumento delle ospedalizzazioni e una minore tolleranza all’esercizio fisico.
respiratori, ecco le possibili complicazioni nati prima delle 37 settimane di gestazione
Uno studio svedese, poi, ha mostrato come una nascita pretermine, soprattutto nella fascia dell’estrema prematurità, risulti associata a un significativo aumento del rischio di insufficienza cardiaca e cardiopatia ischemica in età giovane adulta. Così il presidente della Sin Luigi Orfeo: «Nonostante le numerose sfide, molti dei nati estremamente pretermine riescono a condurre una vita più o meno normale. Tuttavia, è chiaro che la qualità della vita può essere compromessa rispetto ai coetanei nati a termine, per la necessità di un maggiore supporto medico, educativo e sociale. Gli adulti nati estremamente pretermine, infatti, affrontano una serie di problemi che possono influenzare la loro vita durante l’adolescenza e l’età adulta e sebbene molti di questi riescano a superare le difficoltà e a condurre una vita soddisfacente, è fondamentale riconoscere e affrontare tempestivamente le sfide che possono emergere». (D. E.).
Identificato complesso molecolare che facilita la fusione tra spermatozoo e ovulo: nuove prospettive per trattamenti contro l’infertilità e contraccettivi maschili
Il processo di fusione tra spermatozoo e ovulo è fondamentale per la riproduzione, ma i dettagli molecolari che lo regolano sono rimasti poco compresi per decenni. La difficoltà principale emerge nell’osservare le interazioni molecolari coinvolte, spesso troppo deboli e di breve durata per essere studiate facilmente in laboratorio. Recentemente, l’applicazione di AlphaFold, un sistema di intelligenza artificiale sviluppato da DeepMind e vincitore del Premio Nobel per la Chimica 2024, ha aperto nuove prospettive per la ricerca in questo campo. Utilizzando AlphaFold, un gruppo di studio dell’Istituto di Ricerca per la Patologia Molecolare (IMP) di Vienna ha identificato tre proteine chiave che rivestono un ruolo centrale nel riconoscimento e nell’unione tra spermatozoo e ovulo, scoprendo una proteina fino ad ora sconosciuta. Questa scoperta non solo arricchisce la comprensione della fecondazione, ma apre anche la strada a nuovi trattamenti contro l’infertilità e allo sviluppo di metodi contraccettivi maschili.
Il team guidato da Andrea Pauli dell’IMP ha impiegato il pesce zebra (Danio rerio) come organismo modello. Questo pesce è ideale per gli studi sulla fecondazione grazie alla sua capacità di produrre grandi quantità di ovuli e spermatozoi. Il modello è stato particolarmente utile per testare la presenza e la funzione delle proteine identificate. AlphaFold è stato utilizzato per predire le strutture tridimensionali delle proteine con estrema precisione a livello atomico, fornendo un modello dettagliato delle interazioni che si verificano sulla superficie dello spermatozoo. L’obiettivo era capire come queste proteine potessero collaborare per favorire il riconoscimento tra le due cellule sessuali, un processo simile a quello di una serratura che si apre solo con la giusta chiave molecolare.
I risultati della ricerca hanno rivelato la presenza di una terza proteina, finora sconosciuta, sulla superficie dello spermatozoo. Questa proteina, insieme alle due già note, si combina per formare una struttura complessa che permette allo spermatozoo di riconoscere l’ovulo. Gli studi passati avevano individuato solo due proteine, indicate come responsabili della fusione tra spermatozoo e ovulo, una sulla membrana dello spermatozoo e l’altra su quella dell’ovulo. Tuttavia, l’identificazione di questo terzo elemento chiarisce che è l’interazione combina-
I risultati della ricerca hanno rivelato la presenza di una terza proteina, finora sconosciuta, sulla superficie dello spermatozoo. Questa proteina, insieme alle due già note, si combina per formare una struttura complessa che permette allo spermatozoo di riconoscere l’ovulo. l’identificazione di questo terzo elemento chiarisce che è l’interazione combinata delle tre proteine a creare il sito di legame necessario per l’inizio del processo di fecondazione.
ta delle tre proteine a creare il sito di legame necessario per l’inizio del processo di fecondazione. Questo meccanismo sembra essere presente in vari vertebrati, dai pesci agli esseri umani, suggerendo che sia un tratto conservato dell’evoluzione della riproduzione.
Questa scoperta segna un passo significativo nella comprensione della biologia riproduttiva e apre nuove possibilità di intervento nelle problematiche legate alla fertilità. Secondo Andrea Pauli, il trio proteico individuato agisce come una sorta di chiave molecolare che permette allo spermatozoo di avvicinarsi all’ovulo e avviare la fecondazione. Questo fenomeno è stato osservato anche in cellule di altri mammiferi, inclusi esseri umani e topi, rafforzando l’idea che si tratti di un meccanismo universale. Le applicazioni cliniche di questa scoperta sono molteplici e potrebbero includere nuovi approcci per trattare l’infertilità o per creare contraccettivi maschili selettivi. I ricercatori stanno cercando di individuare il meccanismo che consente di bloccare queste proteine per impedire la fusione tra spermatozoo e ovulo, consentendo lo sviluppo di nuove opzioni per la contraccezione senza interferire con altre funzioni cellulari.
I risultati ottenuti con AlphaFold aprono la strada allo sviluppo di trattamenti specifici per le disfunzioni legate alla fertilità. Inoltre, comprendere più a fondo i meccanismi della fusione cellulare potrebbe favorire lo sviluppo di contraccettivi maschili più efficaci, basati sull’inibizione delle proteine di riconoscimento. Questo approccio consentirebbe di limitare la capacità degli spermatozoi di legarsi all’ovulo, senza effetti collaterali sistemici.
La collaborazione tra biologia e intelligenza artificiale ha consentito ai ricercatori di ottenere risultati che sarebbero stati impensabili con i soli metodi tradizionali. AlphaFold ha accelerato i tempi di ricerca, permettendo la scoperta di un complesso molecolare che era sfuggito a decenni di studi precedenti. Questa scoperta dimostra il valore della ricerca interdisciplinare e l’importanza degli strumenti di intelligenza artificiale per comprendere meglio i processi biologici complessi. Il team dell’IMP, insieme ai collaboratori internazionali, continuerà ad approfondire il ruolo delle proteine scoperte nel processo di fecondazione, con l’obiettivo di tradurre queste conoscenze in applicazioni mediche innovative. (C. P.)
Ricercatori inglesi hanno scoperto come avviene la formazione della pelle in età embrionale e hanno trovato la “ricetta” molecolare per ricostruirla in laboratorio
Niente più cicatrici dopo un intervento chirurgico o una brutta ferita. Ciò potrebbe presto diventare realtà grazie ai risultati ottenuti dai ricercatori dell’Università britannica di Newcastle e del Wellcome Sanger Institute che hanno completato il primo atlante della pelle umana.
I ricercatori hanno analizzato e mappato le singole cellule della nostra pelle in età prenatale per capire come avviene la formazione della cute e dei follicoli piliferi. Queste nuove conoscenze, secondo gli autori, daranno origine a numerose applicazioni nel campo della medicina rigenerativa e a nuove scoperte sulle cause di alcuni disturbi cutanei congeniti.
Lo studio inglese aggiunge un importante tassello allo Human Cell Atlas, l’Atlante delle cellule umane, progetto internazionale che sta mappando tutti i tipi di cellule del nostro corpo per studiarne il cambiamento nel corso del tempo e in condizioni patologiche e arrivare a una migliore comprensione di molte malattie. Elena Winheim, autrice dello studio e ricercatrice presso il Wellcome Sanger Institute, ha dichiarato: «Con il nostro atlante della pelle umana prenatale, abbiamo fornito la prima “ricetta” molecolare per la creazione della pelle umana e abbiamo scoperto come si formano i follicoli piliferi prima della nascita».
Con un’ampiezza di circa 2 metri quadrati, la pelle è l’organo più gran-
de del corpo umano e svolge importantissime funzioni. La cute e i follicoli piliferi si sviluppano nell’ambiente sterile del grembo materno prima della nascita, quando la pelle ha la capacità unica di guarire senza lasciare cicatrici. Capire come si sviluppa quest’organo è stato finora molto complicato perché i modelli animali, spesso utilizzati negli studi, presentano importanti differenze con la nostra specie. Per questo motivo i ricercatori hanno utilizzato direttamente campioni embrionali e li hanno scomposti per osservare le singole cellule in sospensione e la loro posizione all’interno del tessuto.
Attraverso il sequenziamento di singole cellule e altre tecniche di genomica, il team ha descritto le fasi che portano alla formazione della pelle umana e dei follicoli piliferi e identificato le differenze rispetto ai follicoli piliferi dei topi.
I risultati dello studio, insieme al contributo della genetica, saranno utili per scoprire in che modo mutazioni specifiche causano disturbi cutanei congeniti, come vesciche e pelle squamosa.
Partendo da cellule staminali adulte, i ricercatori hanno anche creato in laboratorio un “mini organo” di pelle, detto organoide, che si è rivelato più simile alla pelle prenatale che a quella adulta, con perfino la capacità di far crescere i capelli.
Il professor Muzlifah Haniffa, autore dello studio e responsabile di genetica cellulare presso il Wellcome
I ricercatori hanno analizzato e mappato le singole cellule della nostra pelle in età prenatale per capire come avviene la formazione della cute e dei follicoli piliferi. Queste nuove conoscenze, secondo gli autori, daranno origine a numerose applicazioni nel campo della medicina rigenerativa e a nuove scoperte sulle cause di alcuni disturbi cutanei congeniti.
Sanger Institute, ha dichiarato: «Il nostro atlante della pelle umana prenatale e il nostro modello organoide forniscono alla comunità della ricerca strumenti liberamente disponibili per studiare le malattie congenite della pelle ed esplorare le possibilità della medicina rigenerativa».
Grazie all’organoide, gli autori sono arrivati anche all’inaspettata scoperta di come alcune cellule immunitarie svolgano un ruolo importante nel rigenerare la pelle senza lasciare cicatrici. In particolare il team ha dimostrato per la prima volta che i macrofagi, cellule immunitarie note per proteggere la pelle dalle infezioni, sostengono anche la crescita dei vasi sanguigni nella pelle umana in età embrionale. Ciò potrebbe portare ad applicazioni cliniche per prevenire le cicatrici dopo un intervento chirurgico o alla guarigione senza cicatrici dopo una ferita.
Nusayhah Hudaa Gopee, primo autore della ricerca con Elena Winheim e Bayanne Olabi, ha dichiarato: «Siamo entusiasti di aver creato un modello di organoide cutaneo in grado di far crescere i capelli». «In questo processo – ha aggiunto Hudaa Gopee - abbiamo scoperto un nuovo importante ruolo delle cellule immunitarie nel promuovere la crescita dei vasi sanguigni nel tessuto cutaneo in via di sviluppo. Questo potrebbe contribuire a migliorare altri modelli di organoidi e potrà essere sfruttato per prevenire la formazione delle cicatrici dopo gli interventi chirurgici o le ferite».
L’atlante prenatale della pelle umana sarà utilizzato anche per identificare in quali cellule sono attivi, o espressi, i geni noti per causare disturbi congeniti dei capelli e della pelle, come vesciche e pelle squamosa. I ricercatori hanno scoperto, infatti, che i geni coinvolti in questi disturbi sono espressi nella pelle prenatale, cioè hanno origine nell’utero. Gli organoidi cutanei creati nello studio inglese offrono un nuovo modello accurato per lo studio di queste malattie.
«Le nostre scoperte – conclude Elena Winheim - hanno un potenziale clinico sorprendente e potrebbero essere utilizzate nella medicina rigenerativa, quando si offrono trapianti di pelle e capelli, ad esempio per le vittime di ustioni o per chi soffre di alopecia cicatriziale». (S. B.)
La pandemia silenziosa che rischia di avere effetti devastanti: nel 2050 può diventare la prima causa di morte
Quando a maggio del 2023 il direttore generale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, Tedros Ghebreyesus, ha annunciatodopo oltre tre anni - la fine dello stato di emergenza sanitaria mondiale per il Covid-19, in ogni angolo del globo si è tirato un sospiro di sollievo. Perché la pandemia l’abbiamo drammaticamente toccata con mano.
Più di sette milioni i morti riportati dall’Oms, anche se lo stesso Ghebreyesus riconobbe che la stima era in realtà molto più alta, «di almeno 20 milioni di morti». Nel pieno dell’emergenza tutti
noi abbiamo sostenuto sacrifici per contrastare il virus, perché gli effetti della pandemia erano sotto i nostri occhi, li abbiamo vissuti sulla nostra pelle.
Più difficile, invece, è contrastare qualcosa che è invisibile, intangibile. Una pandemia silenziosa, insomma. Il riferimento è all’antibiotico-resistenza, contro cui l’Oms ha già da tempo intrapreso una dura battaglia, anche se i risultati stentano ad arrivare.
A testimonianza di quanto il fenomeno sia grave e concreto l’allarme lanciato proprio dall’Oms in un’analisi globale pubblicata sulla prestigiosa rivista scientifica The Lancet: in man-
canza di interventi immediati ed efficaci, l’antibiotico-resistenza diventerà la prima causa di morte nel 2050. Le proiezioni non fanno dormire sonni tranquilli gli esperti. Entro il 2050, infatti, è previsto un aumento dei decessi di addirittura il 70% rispetto al 2022.
Ecco perché l’antibiotico-resistenza si è rivelata oggetto di discussione anche in occasione del recente G7 Salute che si è svolto ad Ancona. Finalmente i big del pianeta iniziano ad affrontare una questione che non va più rimandata. No, proprio non c’è tempo.
Per antibiotico-resistenza si intendono le infezioni provocate da batteri ormai resistenti agli antibiotici in uso. Ciò si verifica perché i batteri sono in grado di subire mutazioni genetiche che li rendono meno sensibili agli antibiotici o di acquisire geni di resistenza da altri batteri.
Ma perché un antibiotico prima efficace per il trattamento di un’infezione all’improvviso diventa inefficace? Una delle cause - la principale - riguarda l’uso eccessivo o improprio degli antibiotici, che favorisce appunto la selezione di batteri resistenti.
Poi, l’uso degli antibiotici in zootecnia e in agricoltura, dal momento che alcuni batteri possono passare dagli animali agli esseri umani, Infine, la trasmissione di batteri resistenti, specialmente negli ospedali e nei luoghi dove l’igiene è scarsa. A tal proposito, i numeri condannano l’Italia, tra i fanalini di coda del Vecchio Continente.
Già, sono undicimila le vittime all’anno nel nostro Paese, e - pensate - circa un terzo dei decessi si registrano nelle corsie degli ospedali. Una soluzione per arginare questi che potremmo etichettare come super-batteri potrebbe essere quella di sviluppare nuovi antibiotici.
Ma al momento, come spiegato dall’Oms, «sono pochi i nuovi antibatterici in fase di ricerca e non ci sono sufficienti innovazioni per affrontare le minacce più critiche legate alla resistenza antimicrobica». (D. E.).
Direttamente da New York ecco una scoperta che testimonia come cuore e cervello siano in collegamento tra loro attraverso il sistema immunitario. Lo studio, condotto presso la Icahn School of Medicine a Mount Sinai, è stato pubblicato sulla rivista Nature ed è il primo che certifica appunto questa comunicazione tra i due organi che avviene in seguito a un grave evento cardiovascolare, più precisamente un infarto.
Nel dettaglio, gli esperti della Grande Mela hanno dimostrato che un infarto può scatenare il desiderio di dormire di più, consentendo così al cuore di guarire e ridurre l’infiammazione. Ciò si verifica perché il cuore invia segnali speciali al cervello proprio per promuovere il sonno e dunque favorire il recupero.
I risultati della ricerca a stelle strisce evidenziano quanto sia importante dormire dopo un infarto e che il sonno dovrebbe essere al centro della gestione clinica e della cura post-infarto, anche nelle unità di terapia intensiva, dove il sonno è spesso interrotto, insieme alla riabilitazione cardiaca.
Cameron McAlpine, autore principale dello studio, spiega la rilevanza della scoperta. «Questo studio è il primo a dimostrare che il cuore regola il sonno durante un danno cardiovascolare utilizzando il sistema immunitario per inviare segnali al cervello - afferma McAlpine -. I nostri dati mostrano che dopo un attacco cardiaco il cervello subisce profondi cambiamenti che aumentano il sonno e che nelle settimane successive a un infarto aumenta la necessità di dormire».
E continua: «Abbiamo scoperto che la neuroinfiammazione e il reclutamento di cellule immunitarie chiamate monociti nel cervello sono una risposta benefica che aumenta il sonno per consentire la guarigione del cuore e nello stesso tempo la riduzio -
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Uno studio americano dimostra per la prima volta come cuore e cervello interagiscono tramite il sistema immunitario
ne dell’infiammazione dannosa».
In prima battuta i ricercatori hanno studiato il cervello dei pazienti uno o due giorni dopo un infarto riscontrando un aumento dei monociti rispetto alle persone non soggette a infarto o ad altre malattie cardiovascolari, quindi hanno analizzato il sonno di oltre 80 pazienti con infarto durante le quattro settimane successive all’evento cardiovascolare e li hanno seguiti per due anni.
I pazienti che dormivano male nelle settimane successive all’infarto avevano una prognosi peggiore e il rischio di andare incontro a un altro
evento cardiovascolare era il doppio di quelli che dormivano bene. Inoltre, i pazienti con un buon sonno hanno avuto un miglioramento significativo della funzionalità cardiaca. «Il nostro studio scopre nuovi modi in cui cuore e cervello comunicano per regolare il sonno e supporta l’inclusione del sonno come parte della cura clinica dei pazienti dopo un infarto.
I medici dovrebbero informare i loro pazienti di dare priorità al sonno ristoratore durante la riabilitazione cardiaca per aiutare il cuore a guarire e riprendersi dopo un infarto» conclude McAlpine. (D. E.).
Tratto da “Food Antioxidants and Aging: Theory, Current Evidence and Perspectives” di Taiki Miyazawa, Chizumi Abe, Gregor Carpentero Bordeos, Akira Matsumoto, Masako Toda
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L’invecchiamento è un fenomeno biologico, che porta con sé la diminuzione della funzione biologica di organi e tessuti.
Essendo difficile trattare tutte le teorie esistenti sull’invecchiamento, le suddividiamo in: 1) fattori genetici associati all’invecchiamento; 2) fattori non genetici associati all’invecchiamento, 3) caratteristiche dell’invecchiamento associate a ciascuna teoria.
Fattori genetici associati all’invecchiamento
Teoria del programma
La teoria del programma sostiene che l’invecchiamento non sia un evento casuale ma legato alle informazioni genetiche. Secondo Hayflick et al. (1961) esiste una limitazione nel numero di divisioni e nella proliferazione delle cellule umane e animali (limite di Hayflick). Il DNA smette di replicarsi quando le sue basi terminali vengono perse durante la replicazione. L’uomo ha una struttura ripetuta TTAGGG (telomero) alla fine del DNA, che protegge le informazioni genetiche e consente la replicazione. Quindi la lunghezza del telomero è fondamentale nel numero di divisioni cellulari, nell’invecchiamento, e nella durata della vita.
Tuttavia, i telomeri si accorciano con l’età e influenzano il processo di invec-
chiamento perché vengono rigenerati a ogni replicazione, ma non completamente.
Fattori non genetici associati all’invecchiamento
Teoria del cross-linking
La teoria del cross-linking afferma che l’accumulo di molecole con più unità reattive dovuto al cross-linking di macromolecole scarsamente degradabili compromette la funzione cellulare e favorisce l’invecchiamento. La viscosità dell’ambiente extracellulare è indotta dalla diminuzione della solubilità, elasticità e permeabilità, dovute al cross-linking di collageni e altre molecole. Così la circolazione di nutrienti e rifiuti nelle cellule è ritardata e l’invecchiamento progredisce. I prodotti di cross-linking di glucosio e collagene (prodotti della reazione di Maillard) sono ampiamente riconosciuti come prodotti che aumentano insieme all’invecchiamento nel corpo. Bjorksten et al. dicono che la teoria dei radicali liberi è una forma di teoria del cross-linking, perché i radicali liberi inducono reazioni di cross-linking nel collagene e in altre molecole. Nonostante ci siano prove qualitative e quantitative di molecole reticolate supportanti questa teoria, non è ancora chiaro se tali molecole siano cruciali nell’invecchiamento biologico.
Teoria autoimmune
Il sistema autoimmune è stato considerato almeno indirettamente associato all’invecchiamento. I vertebrati superiori hanno due principali meccanismi immunitari, l’immunità innata e quella acquisita. La disfunzione dell’immunità acquisita è fondamentale in termini di invecchiamento. L’involuzione del timo, i tessuti linfoidi primari per l’istruzione e lo sviluppo delle cellule T, inizia in età relativamente precoce.
In un timo invecchiato, i processi biologici per l’eliminazione delle cellule T autoreattive e l’induzione delle cellule T regolatrici, sono in declino. Inoltre, l’invecchiamento è associato a un declino nella produzione di cellule B nel midollo osseo, insieme a un aumento delle popo-
lazioni di cellule B autoreattive. Nel complesso, l’immunità adattativa invecchiata promuove uno sviluppo che provoca danni ai tessuti del corpo ed è una delle principali cause di morte nelle donne di età inferiore ai 65 anni negli Stati Uniti.
Teoria della glicazione
Nel 1912, la reazione amminocarbonilica (reazione di Maillard); è considerata parte del fenomeno dell’invecchiamento biologico del corpo. I residui di glucosio e lisina delle proteine reagiscono alla temperatura corporea, formando prodotti finali di glicazione avanzata (AGE) attraverso una reazione di condensazione. Questi si accumulano in vari tessuti, come le pareti dei vasi sanguigni, e inducono inflessibilità tissutale, portando a disfunzione vasodilatatrice e ipertensione, che è considerata un fattore scatenante dell’invecchiamento.
Teoria del danno ossidativo
Gli organismi aerobici consumano ossigeno per scopi di metabolismo energetico, che produce specie reattive dell’ossigeno (ROS) nel processo metabolico. Nel 1956, Harman propose che le ROS portano all’invecchiamento causando danni alle cellule e ai tessuti. Gli anziani hanno levate elevate concentrazioni di prodotti ossidati, come proteine, DNA e lipidi, rispetto agli individui più giovani, mentre gli antiossidanti sono stati spesso evidenziati come molecole che riducono la generazione di ROS e contribuiscono a prolungare la durata della vita.
Tra gli organelli cellulari, specialmente nei mitocondri, che sono coinvolti nel metabolismo energetico aerobico, c’è un livello più elevato di ROS negli individui anziani. Inoltre, nei mammiferi, c’è una correlazione inversa tra la concentrazione di ROS nei mitocondri e la durata della vita, suggerendo che anche il danno al DNA mitocondriale e ai lipidi di membrana è un fattore strettamente correlato all’invecchiamento.
Altre teorie biologiche legate all’invecchiamento
In generale, le cellule invecchiate che
Secondo Hayflick et al. (1961) esiste una limitazione nel numero di divisioni e nella proliferazione delle cellule umane e animali (limite di Hayflick). Il DNA smette di replicarsi quando le sue basi terminali vengono perse durante la replicazione. L’uomo ha una struttura ripetuta TTAGGG (telomero) alla fine del DNA, che protegge le informazioni genetiche e consente la replicazione. La lunghezza del telomero è fondamentale nel numero di divisioni cellulari, nell’invecchiamento, e nella durata della vita. © nobeastsofierce/shutterstock.com
hanno smesso di dividersi vengono rimosse dal corpo attraverso la morte cellulare o la fagocitosi delle cellule immunitarie. Ma, ci sono cellule senescenti che si accumulano nei tessuti nonostante la divisione cellulare si sia fermata.
Studi recenti hanno dimostrato che queste cellule senescenti accumulate rilasciano sostanze infiammatorie che accelerano la senescenza delle cellule vicine, innescano un’infiammazione eccessiva e portano a disfunzione tissutale.
Cibo e invecchiamento
Potenziali alimenti anti-invecchiamento Si suppone che alcuni alimenti o alcuni composti negli alimenti abbiano funzioni preventive e curative contro le malattie. Sebbene non siano stati ancora identificati alimenti o nutrienti specifici negli alimenti correlati alla longevità, è importante dire che numerosi rapporti hanno suggerito che il consumo di alimenti relativamente ricchi di antiossidanti, ha la capacità di ridurre la mortalità.
Dieta mediterranea
Tra le diete associate alla salute e alla longevità, la dieta mediterranea tradizionale è ampiamente riconosciuta come una delle più popolari. Le diete mediterranee sono ricche di verdure, legumi, frutta, noci, cereali, frutti di mare e olio d’oliva; sono anche povere di grassi saturi, latticini e carne. L’attenzione riguardo alle funzioni dietetiche della dieta mediterranea è aumentata notevolmente nei primi anni ‘90, con (1) crescenti preoccupazioni che grandi dosi di carboidrati semplici potrebbero non essere benefiche per la salute, e (2) crescente interesse nell’uso del punteggio della dieta mediterranea per quantificare i benefici per la salute del cibo.
In uno studio di coorte di adulti greci, la mortalità correlata a malattie cardiovascolari (coronarie) e cancro è stata esaminata utilizzando il punteggio della dieta mediterranea come criterio correlata a una mortalità complessiva inferiore. Ciò può supportare il rapporto di Crous-Bou et al. che punteggi più elevati della dieta
mediterranea tendono a determinare telomeri più lunghi nelle donne sane.
Singoli prodotti alimentari
Frutta e verdura
Frutta e verdura abbondanti nella dieta mediterranea sono stati trovati correlati all’invecchiamento.
Studi: 1) di coorte di adulti statunitensi ha mostrato che il consumo di frutta e verdura può ridurre il rischio di malattie cardiovascolari e mortalità per tutte le cause;
2) di coorte di adulti in dieci paesi europei hanno anche indicato che un aumento dell’assunzione di frutta e verdura tende a ridurre la mortalità;
3) di coorte di partecipanti provenienti dalla Repubblica Ceca, dalla Polonia e dalla Russia, un aumento dell’assunzione di frutta e verdura è stato associato a una mortalità inferiore, soprattutto tra i
fumatori e i pazienti ipertesi;
4) di coorte di adulti cinesi ha indicato che l’assunzione di frutta e verdura era inversamente associata al rischio di mortalità totale sia nelle donne che negli uomini, con un modello dose-risposta che era particolarmente evidente nell’assunzione di verdure crocifere; 5) di coorte multinazionale su adulti in undici paesi sottoposti a emodialisi ha anche indicato che un maggiore apporto di verdure è associato a una minore mortalità per tutte le cause e non cardiovascolare. Il consumo di verdure sembra essere associato alla longevità; tuttavia, il consumo di sole verdure potrebbe non determinare longevità.
Noci
Le noci, che sono abbondanti nella dieta mediterranea, sono consumate in tutto il mondo.
Nel 1912, la reazione amminocarbonilica (reazione di Maillard); è considerata parte del fenomeno dell’invecchiamento biologico del corpo. I residui di glucosio e lisina delle proteine reagiscono alla temperatura corporea, formando prodotti finali di glicazione avanzata (AGE) attraverso una reazione di condensazione. Questi si accumulano in vari tessuti, come le pareti dei vasi sanguigni, e inducono inflessibilità tissutale, portando a disfunzione vasodilatatrice e ipertensione, che è considerata un fattore scatenante dell’invecchiamento.
Studi: 1) di coorte su donne statunitensi indica, che il consumo di noci, ha portato a cambiamenti nei lipidi plasmatici, nell’infiammazione e nel metabolismo del glucosio, con conseguente associazione con un rischio ridotto di morte per malattie cardiovascolari;
2) di coorte su uomini statunitensi, è stato osservato che i soggetti che consumavano noci cinque o più volte alla settimana avevano un tasso di mortalità per tutte le cause inferiore del 34% rispetto a coloro che consumavano noci meno di una volta al mese. È stato anche segnalato che diversi tipi di noci (noci, nocciole, mandorle e arachidi) hanno mostrato una significativa riduzione della morte per cancro.
Studi: 1) di coorte giapponese ha mostrato che l’assunzione totale di noci (arachidi e castagne) era inversamente associata alla mortalità per tutte le cause negli uomini. Diversi studi di coorte hanno scoperto che il consumo di noci può ridurre la mortalità.
Bevande
Il tè verde è una delle bevande più ampiamente studiate per l’invecchiamento.
Studio: 1) di coorte di giapponesi hanno riportato che il consumo di tè verde ha il potenziale per ridurre il rischio di mortalità per malattie cardiache e cardiovascolari. Hao et al. hanno confrontato gli effetti dei minerali negli alimenti e nell’acqua potabile sull’aspettativa di vita, utilizzando il database di dati demografici di diciotto contee nel censimento cinese.
Di conseguenza, la quantità di Cu, Se e Zn ingerita dalla dieta e dall’acqua potabile era correlata positivamente con la longevità, mentre Pb era correlato negativamente nella provin-
presente nel corpo umano alla concentrazione più elevata tra tutte le vitamine ed è considerata in grado di regolare lo stato redox nel corpo. La vitamina C è importante come pro-ossidante correlato alla regolazione positiva della riparazione del DNA e di altre funzioni biologiche.
cia di Hainan, nota per la sua longevità. In una meta-analisi di 757.304 individui da 12 coorti indipendenti, Wang et al. hanno riferito che dosi basse o moderate di Ca erano associate a una riduzione della mortalità, ma non a dosi più elevate, e hanno concluso che ogni individuo dovrebbe consumarne la quantità appropriata.
Potenziali alimenti che possono accelerare l’invecchiamento
Ci sono casi in cui le diete tradizionali aumentano la mortalità. Uno studio di coorte su persone in Russia, Polonia e Repubblica Ceca ha mostrato che l’elevata mortalità per malattie cardiovascolari nell’Europa orientale è correlata alle tradizionali abitudini alimentari nelle regioni target, con il consumo di strutto che molto probabilmente è responsabile dell’aumento della mortalità.
Con lo sviluppo della tecnologia di lavorazione alimentare nella società moderna, il concetto di “cibo ultra-processato (UPF)” è aumentato di importanza. È gradualmente diventato chiaro che il consumo di UPF potrebbe aumentare il rischio di morte.
UPF è definito come “formulazioni di ingredienti, per lo più di uso industriale esclusivo, in genere creati da una serie di tecniche e processi industriali” nella classificazione NOVA ed è considerato un gruppo diverso dagli alimenti non trasformati e minimamente trasformati, dagli ingredienti culinari trasformati e dagli alimenti trasformati.
Antiossidanti alimentari individuali e invecchiamento
Con l’attuale tecnologia scientifica, sembra difficile quantificare l’effetto degli “alimenti inte-
grali”, che sono composti da molte molecole, sull’invecchiamento. Tuttavia, numerosi studi hanno suggerito che una varietà di singoli antiossidanti negli alimenti sono correlati all’invecchiamento: ad esempio, la teoria autoimmune; la teoria del cross-linking; la teoria della glicazione; la teoria KEAP1-NRF2.
Tra le varie teorie sull’invecchiamento, la teoria del danno ossidativo è stata una delle teorie più popolari nella ricerca sull’invecchiamento, con molte prove sperimentali quantitative riportate dal passato al presente. Vi sono crescenti prove che le ROS possono agire come molecole di segnalazione, che non solo inducono stress ossidativo, ma alla fine prolungano anche la durata della vita. Tali tendenze hanno portato al concetto di “mitoormesi”, che afferma che le ROS promuovono l’invecchiamento ma, nelle concentrazioni appropriate, possono migliorare il sistema di difesa biologico.
La regolazione dell’equilibrio redox nel corpo è un fattore cruciale nell’invecchiamento, poiché la produzione di ATP nei mitocondri con la generazione di ROS è un fattore essenziale per l’acquisizione di energia negli organismi aerobici. Ci si aspetta inoltre che i singoli antiossidanti negli alimenti contribuiscano anche alla regolazione dell’equilibrio redox. I percorsi di segnalazione cellulare coinvolti in questo equilibrio, come MAPK, NF-κB e Nrf2 sembrano importanti negli effetti anti-invecchiamento degli antiossidanti.
Vitamine
Le vitamine sono sostanze essenziali per gli animali e per l’uomo; agiscono come cofattori e precursori degli enzimi nella regolazione dei processi metabolici, non forniscono energia e sono essenziali per l’organismo umano. L’organismo ha bisogno di un apporto di vitamine attraverso la dieta, tra cui le vitamine A, C ed E sono chiamate “vitamine antiossidanti”, e il loro rapporto con l’invecchiamento è di grande interesse.
Vitamina C
La vitamina C, nota anche come acido
La vitamina E è localizzata nelle
membrane cellulari e si ritiene che svolga un ruolo nella protezione delle cellule dai danni ossidativi.Si ritiene che la carenza di vitamina E causi l’aumento della fragilità dei globuli rossi e la degenerazione dei neuroni, in particolare degli assoni periferici e dei neuroni del corno dorsale. Hanno quantificato la concentrazione di vitamina E nel siero di pazienti con malattia di Alzheimer, lieve deterioramento cognitivo e normale funzione cognitiva e hanno riferito che la concentrazione era significativamente più bassa nei pazienti con malattia di Alzheimer e demenza rispetto ai soggetti con normale funzione cognitiva.
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L-ascorbico, è un composto lipofobico coinvolto nella sintesi del collagene nel corpo. La vitamina C è presente nel corpo umano alla concentrazione più elevata tra tutte le vitamine ed è considerata in grado di regolare lo stato redox nel corpo. In uno studio di coorte su 17.304 europei di mezza età e anziani di età compresa tra 42 e 82 anni, Lewis et al. hanno riferito che un’adeguata assunzione di vitamina C è necessaria per ridurre la progressione della fragilità e della sarcopenia causata dall’aumento dello stress ossidativo dovuto all’invecchiamento.
Qu et al. hanno riferito che la vitamina C ha inibito l’espressione della prelamina A e la secrezione di mediatori infiammatori che inducono l’invecchiamento cellulare nelle cellule staminali mesenchimali dell’osso subcondrale. Una revisione di Kaźmierczak-Barańska et al. ha riassunto che la vitamina C è importante come pro-ossidante correlato alla regolazione positiva della riparazione del DNA e di altre funzioni biologiche.
Hanno notato che la funzione della vitamina C varia in diverse linee cellulari e condizioni, il che rende difficile la ricerca.
La vitamina E, nota anche come α -tocoferolo, è un composto lipofilo. Esistono altri analoghi, come altri tocoferoli ( β -, γ -, δ -) e tocotrienoli ( α -, β -, γ -, δ -), ma solo l’ α -tocoferolo può essere chiamato “vitamina E”. La vitamina E è localizzata nelle membrane cellulari e si ritiene che svolga un ruolo nella protezione delle cellule dai danni ossidativi. Lo studio sulla prevenzione del cancro con α-tocoferolo e β-carotene (ATBC), un famoso studio statunitense su larga scala che ha esaminato gli effetti della prevenzione del cancro, ha scoperto che un’assunzione di α-tocoferolo e β-carotene non ha avuto alcun effetto sulla mortalità per cancro al fegato o malattia epatica cronica.
Tuttavia, nel 2019, Huang et al. hanno riferito di uno studio di coorte di 30 anni sui soggetti nello studio ATBC, che ha mostrato che i livelli plasmatici di vitamina E erano associati a un rischio ridotto
L’acido clorogenico è un tipo di monofenolo riconosciuto per la sua presenza in bevande come tè e caffè. Li et al. hanno riferito che la somministrazione orale di un complesso acido clorogenico-fosfolipide a topi con senescenza accelerata (SAMP8) per due settimane ha soppresso la risposta post-infarto del miocardio del cuore anziano.
di mortalità per tutte le cause e di morte per tutte le cause principali.
Si ritiene che la carenza di vitamina E causi l’aumento della fragilità dei globuli rossi e la degenerazione dei neuroni, in particolare degli assoni periferici e dei neuroni del corno dorsale.
Mangialasche et al. hanno quantificato la concentrazione di vitamina E nel siero di pazienti con malattia di Alzheimer, lieve deterioramento cognitivo e normale funzione cognitiva e hanno riferito che la concentrazione era significativamente più bassa nei pazienti con malattia di Alzheimer e demenza rispetto ai soggetti con normale funzione cognitiva.
È stato anche riferito che l’assunzione a lungo termine di vitamina E ha soppresso l’accorciamento dei telomeri nelle cellule mononucleate del sangue periferico dei pazienti con Alzheimer.
Carotenoidi
I carotenoidi, noti anche come provitamina A, sono pigmenti lipofilici classificati in due gruppi, caroteni e xantofille, in base alla loro polarità. Le concentrazioni ematiche di carotenoidi sono risultate ridotte negli anziani e nei pazienti affetti da malattia di Alzheimer.
Studi: 1) Huang et al. hanno confermato la relazione tra parametri sierici e mortalità in uno studio di coorte su 29.103 uomini nello studio ATBC e hanno riferito che una maggiore concentrazione sierica di β-carotene era associata a una minore mortalità per malattie cardiovascolari, malattie cardiache, ictus, cancro e tutte le cause di morte; 2) Min et al. hanno analizzato il plasma di 3660 persone negli Stati Uniti e hanno dimostrato che livelli elevati di β-carotene nel sangue erano correlati positivamente con la lunghezza dei telomeri dei leucociti. Modelli sperimentali che utilizzano Caenorhabditis elegans mostrano che l’assunzione continua di astaxantina fin dalla giovane età porta ad un’espressione aumentata dei geni che codificano la superossido dismutasi (SOD) e la catalasi e protegge i mitocondri e gli organelli nucleari attraverso il trasferimento nucleare
della proteina DAF-16, con conseguente estensione della durata della vita.
La quercetina è uno dei flavonoidi più riconosciuti e si dice che abbia effetti antiossidanti e antinfiammatori.
Studi: 1) El-Far et al. hanno studiato l’effetto dell’assunzione di quercetina su un modello di ratto anziano indotto da D-galattosio, ed hanno riferito che l’assunzione di quercetina ha soppresso l’apoptosi e l’aumento dei marcatori infiammatori inducendo l’espressione di marcatori anti-apoptotici correlati all’invecchiamento nel pancreas e nei reni dei ratti;
2) Geng et al. hanno utilizzato un modello della sindrome di Werner, basato su cellule staminali mesenchimali umane per selezionare potenziali composti naturali con effetti anti-invecchiamento e hanno identificato la quercetina. Hanno anche riferito che la quercetina può ridurre l’invecchiamento cellulare migliorando la proliferazione cellulare e la riparazione della struttura dell’eterocromatina.
È stato riportato che gli isoflavoni mostrano effetti simili agli estrogeni a causa delle loro somiglianze strutturali e contribuiscono alla regolazione degli ormoni nelle donne.
L’acido clorogenico è un tipo di monofenolo riconosciuto per la sua presenza in bevande come tè e caffè. Li et al. hanno riferito che la somministrazione orale di un complesso acido clorogenico-fosfolipide a topi con senescenza
accelerata (SAMP8) per due settimane ha soppresso la risposta post-infarto del miocardio del cuore anziano.
Il resveratrolo, un polifenolo che è prolifico nelle bucce della frutta, è noto per avere una forte capacità antiossidante negli studi in vitro.
Studi: 1) Gines et al. hanno riferito che la somministrazione orale di resveratrolo a topi con senescenza accelerata (SAMP8) ha ridotto l’espressione del fattore infiammatorio, inibito l’apoptosi e lo stress ossidativo nel pancreas del topo e ha avuto un effetto protettivo contro i danni pancreatici correlati all’età. Il resveratrolo commuta il gene SIRT-1, noto come gene della longevità;
2) Caldeira et al. hanno riferito che il resveratrolo ha effetti antiossidanti e antinfiammatori, ma il suo meccanismo d’azione varia con l’età cellulare.
Coenzima Q10
Gutierrez-Mariscal et al. hanno osservato gli effetti sullo stress ossidativo in 20 soggetti che hanno consumato tre diete casuali, con lo stesso apporto calorico (la dieta mediterranea, la dieta mediterranea più coenzima Q10 e una dieta ricca di acidi grassi saturi) per quattro settimane e hanno scoperto che gli effetti protettivi del DNA della dieta mediterranea erano potenziati dal coenzima Q10.
Si è scoperto che l’integrazione di topi anziani con coenzima Q10 ritardava il decadimento delle riserve ovariche e ripristinava l’espressione genica mitocondriale negli ovociti, con miglioramenti funzionali associati nel corpo. Zhang et al. è stato riportato che il coenzima Q10 inibisce l’invecchiamento attraverso il percorso di segnalazione Akt/ mTOR nelle cellule staminali mesenchimali trattate con D-galattosio.
I modelli di invecchiamento in cui il perossido di idrogeno è stato aggiunto alle cellule endoteliali vascolari umane hanno anche riportato che il coenzima Q10 ha un effetto di ritardo dell’invecchiamento sopprimendo l’espressione dei geni correlati al fenotipo secretorio associato all’invecchiamento, inibendo la produzione intracellu-
L’invecchiamento è influenzato non solo dai tipi di cibo che l’uomo ingerisce, ma anche dall’ambiente circostante; ad esempio, l’ambiente naturale, l’aria, il clima, il suolo, l’ambiente artificiale, l’ambiente sociale, gli spazi verdi urbani, il contesto economico, la coesione sociale, lo stato socioeconomico e l’attività fisica.
lare di ROS, aumentando la produzione di ossido nitrico (NO) aumentando l’espressione della sintasi endoteliale dell’ossido nitrico (eNOS) e promuovendo la funzione mitocondriale.
Le teorie sull’invecchiamento esistenti aiuterebbero a ispirare nuovi approcci per promuovere l’attuale comprensione della relazione tra cibo e processo di invecchiamento. In futuro, le teorie sull’invecchiamento basate su nuove scoperte e prospettive potrebbero essere proposte per chiarire la realtà della dieta e dei componenti alimentari nell’invecchiamento. La dieta svolge un ruolo importante nell’invecchiamento perché il corpo umano è composto da composti presenti negli alimenti che vengono consumati ogni giorno. Sembra che i modelli dietetici possano avere un impatto significativo sulla mortalità, ma la valutazione degli effetti fisiologici degli alimenti composti da più molecole, a differenza delle singole molecole, sembra essere difficile da spiegare con la tecnologia attuale.
Tuttavia, negli ultimi anni, con lo sviluppo della tecnologia AI, hanno iniziato a essere stabiliti nuovi metodi di valutazione dietetica ed effetti fisiologici. Inoltre, con lo sviluppo della nanotecnologia, il concetto di “cibo intelligente”, in cui il cibo viene elaborato su scala nanometrica per migliorarne la biodisponibilità e la conservabilità, porterà anche a progressi significativi nella ricerca sull’invecchiamento.
Considerando questi concetti, sarà ancora più importante chiarire il ruolo dettagliato degli antiossidanti derivati dal cibo nella regolazione dell’invecchiamento. L’invecchiamento è influenzato non solo dai tipi di cibo che l’uomo ingerisce, ma anche dall’ambiente circostante; ad esempio, l’ambiente naturale, l’aria, il clima, il suolo, l’ambiente artificiale, l’ambiente sociale, gli spazi verdi urbani, il contesto economico, la coesione sociale, lo stato socioeconomico e l’attività fisica. La maggior parte delle ricerche precedenti sugli antiossidanti derivati dagli ali-
La ricerca sugli antiossidanti alimentari e l’invecchiamento è stata ampiamente basata sulla “teoria del danno ossidativo” tra le teorie sull’invecchiamento. Si prevede che in futuro saranno sviluppate nuove tecnologie in grado di dimostrare che i singoli antiossidanti alimentari hanno il potenziale per estendere la durata della vita; inoltre, la tecnologia può valutare la relazione tra invecchiamento e il cibo nel suo complesso.
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menti e sulla durata della vita si è basata sulla teoria del danno ossidativo, e molti rapporti hanno suggerito che l’attività antiossidante è un fattore importante nel promuovere la longevità. I vari alimenti citati, che possono estendere la durata della vita, sembrano essere ricchi dei singoli antiossidanti discussi in questo capitolo.
Si è scoperto che le concentrazioni di antiossidanti derivati dagli alimenti nel corpo diminuiscono con l’invecchiamento. Pertanto, potrebbe essere possibile che singoli antiossidanti possano contribuire all’estensione della durata della vita, ma non è stata ancora chiarita una chiara relazione causa-effetto.
Gli attuali metodi per chiarire la relazione tra singoli antiossidanti e invecchiamento potrebbero ancora avere alcuni dettagli da chiarire.
Sebbene i meccanismi degli effetti dei singoli antiossidanti sulle singole malattie, tra cui il morbo di Alzheimer e le malattie legate allo stile di vita, stiano diventando più chiari, sembra che i modelli sperimentali e i metodi di valutazione per spiegare “l’invecchiamento” siano attualmente insufficienti. Ad esempio, la quantificazione della capacità di riparazione del DNA negli esseri umani per quanto riguarda l’instabilità genomica legata all’età non è stata ancora stabilita.
I difetti della proteostasi sono stati identificati come un nuovo meccanismo di invecchiamento ma, ad oggi, non esiste
una tecnologia efficace per questo scopo. Anche l’esaurimento delle cellule staminali può essere un importante marcatore dell’invecchiamento, ma non sono ancora stati stabiliti metodi per la sua valutazione. I telomeri, che sono un importante indicatore dell’invecchiamento, non sono ancora stati messi in pratica nella pratica clinica perché gli attuali metodi di valutazione presentano problemi con l’accuratezza dell’analisi, come l’eterogeneità tra cellule e individui.
Con lo sviluppo della tecnologia per tali metodi di valutazione, il concetto di antiossidanti derivati dagli alimenti e invecchiamento diventerà più visibile. Sarà inoltre necessario cercare di avvicinare le due distinte interpretazioni di “cibo” nel suo complesso e di “singoli nutrienti”.
La ricerca sugli antiossidanti alimentari e l’invecchiamento è stata ampiamente basata sulla “teoria del danno ossidativo” tra le teorie sull’invecchiamento. La maggior parte degli studi di coorte menzionati, suggerisce che i componenti antiossidanti alimentari possono influenzare la durata della vita; tuttavia, non ci sono prove dirette e l’effetto rimane poco chiaro.
Si prevede che in futuro saranno sviluppate nuove tecnologie in grado di dimostrare che i singoli antiossidanti alimentari hanno il potenziale per estendere la durata della vita; inoltre, la tecnologia può valutare la relazione tra invecchiamento e il cibo nel suo complesso.
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Studi recenti affermano che l’ossitocina ha benefici terapeutici sullo stress e su diversi organi, come l’apparato digerente, muscolare, riproduttivo e ora anche sulla crescita capillare
Sulla prestigiosa rivista Nature viene pubblicata una nuova scoperta tricologica firmata dall’équipe dei ricercatori giapponesi Kageyama e Fukuda. Una serie di studi mette in luce un nuovo percorso ormonale implicato nella crescita dei capelli. La molecola protagonista è l’ossitocina (OXT), un ormone peptidico di nove amminoacidi prodotto dai nuclei ipotalamici e secreto nella neuroipofisi, presente in tutti i mammiferi. La secrezione di ossitocina è spesso correlata alle coccole, all’amore e al travaglio del parto ed è un ormone che allevia lo stress psico fisico. La scoperta del suo ruolo nella ricrescita dei capelli è di grande potenziale scientifico-commerciale in quanto già oggi gi effetti dell’ormone possono essere mimati da alcune sostanze disponibili sul mercato.
Nello studio giapponese sono stati esaminati in vitro gli effetti dell’OXT sulla capacità di stimolare la crescita dei capelli agendo sulle cellule della papilla dermica (DP), la zona attraverso la quale la radice del capello acquisisce il nutrimento durante le attività mitotiche. In particolare, viene testato un trattamento con OXT a diverse concentrazioni (0, 0,1, 1 e 10 µM) da somministrare alle cellule DP in coltura per 6 giorni. I ri-
sultati mostrano che l’OXT ha un effetto positivo sulla crescita dei capelli attraverso l’incremento dei marcatori che caratterizzano le cellule della DP. I marcatori rilevati, tra cui versicano (VCAN), fosfatasi alcalina (ALP), fattore legante linfoide enhancer 1 (LEF1), membro della famiglia Wnt 5A, proteina morfogenetica ossea 4 (BMP4) e noggin (NOG), sono generalmente correlati all’innesco della crescita dei capelli. Si è osservato che le espressioni geniche di questi marcatori sono gradualmente aumentate con l’integrazione di OXT in modo dipendente dalla concentrazione.
Tra questi, i livelli di VCAN, ALP e NOG sono stati significativamente sovraregolati da trattamenti con 10 µM di OXT. Ciò si traduce in una maggiore crescita dei capelli grazie al trattamento. Questi studi suggeriscono inoltre, che i meccanismi associati alle attivazioni delle cellule DP includono la secrezione di citochine e fattori di crescita tramite l’attivazione del pathway di segnalazione OXT. Sappiamo già che la molecola minoxidil oggi in commercio agisce migliorando la funzione delle cellule DP per aumentare la produzione di fattori di crescita come VEGF e FGF7; poiché l’OXT ha un effetto simile, l’OXT può essere un candidato come reagente per la crescita dei capelli.
Tuttavia, l’uso clinico dell’ossitocina è difficoltoso a causa della sua rapida degradazione in vivo e della scarsa permeabilità dovuta al suo grande peso molecolare.
In seguito a tali considerazioni, lo stesso team giapponese pubblica ad ottobre 2024 uno studio sugli effetti degli agonisti del re-
La secrezione di ossitocina è spesso correlata alle coccole, all’amore e al travaglio del parto ed è un ormone che allevia lo stress psico fisico. La scoperta del suo ruolo nella ricrescita dei capelli è di grande potenziale scientifico-commerciale in quanto già oggi gi effetti dell’ormone possono essere mimati da alcune sostanze disponibili sul mercato.
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cettore dell’ossitocina (OXTR) sulla promozione della crescita dei capelli. Un attivatore di OXTR è l’acido cinnamico presente nella cannella, capace di promuovere la crescita dei capelli proprio attraverso l’attivazione dell’espressione del recettore dell’ossitocina. Nell’ultimo articolo i ricercatori hanno sviluppato agonisti non peptidici dell’ossitocina (LIT001 e WAY267464) che si sono rivelati agenti terapeutici efficaci per il targeting dell’OXTR. LIT001 e WAY267464 hanno un peso molecolare inferiore a quello dell’ossitocina (peso molecolare = 531 e 655, rispettivamente). LIT001 è un agonista con elevata affinità per l’OXTR.
Inoltre, LIT001 non mostra effetti agonisti né antagonisti sui recettori della vasopressina. Gli agonisti OXTR hanno aumentato l’espressione dei geni correlati alla crescita dei capelli nelle cellule DP e hanno accelerato l’allungamento dei capelli nei follicoli piliferi. Questi risultati sono stati ulteriormente supportati dai risultati della coltura di follicoli piliferi umani, un test standard per l’indagine di agenti che promuovono la crescita dei capelli.
WAY267464 e LIT001 sono naturalmente endogeni, ma sono stati sintetizzati e potrebbero essere acquistabili.
Bibliografia
• Kageyama T, Seo J, Yan L, Fukuda J. Effects of oxytocin on the hair growth ability of dermal papilla cells. Sci Rep. 2023 Oct 20;13(1):15587. doi: 10.1038/s41598-023-40521-x. PMID: 37863919; PMCID: PMC10589336.
•Kageyama T, Seo J, Yan L, Fukuda J. Effects of oxytocin receptor agonists on hair growth promotion. Sci Rep. 2024 Oct 13;14(1):23935. doi: 10.1038/s41598-024-74962-9. PMID: 39397061; PMCID: PMC11471796.
Tutti gli studi citati hanno rivelato i ruoli dell’OXT e dei suoi agonisti sui follicoli piliferi in vitro, ma siamo ancora all’inizio e sarebbe fondamentale capire se l’OXT influisce anche sui follicoli piliferi in vivo per poterlo valutare come principio attivo per il trattamento della caduta dei capelli. Gli studi futuri dovranno esaminare inoltre i possibili effetti collaterali utilizzando un modello di topo alopecico. Non ultimo, il presente studio ha utilizzato cellule DP derivate da donatori sani e dovranno essere condotte ulteriori indagini utilizzando cellule DP di pazienti con alopecia. Infine, sarà necessario comprendere l’efficacia di OXT in rapporto all’età e al sesso perché la sua produzione differisce con l’età e il sesso. La concentrazione di OXT e il tempo di trattamento dovrebbero essere ottimizzati in modo più preciso attraverso questi esperimenti.
Solo in seguito a tali ulteriori studi, si verificherà se OXT può essere un nuovo farmaco per il trattamento dell’alopecia.
L’Italia ha un gigante verde nascosto. Pur vantando un patrimonio forestale esteso il 36,7% del territorio nazionale, pari a oltre undici milioni di ettari in costante crescita, il nostro Paese soffre di una gestione non sempre oculata delle proprie risorse. Mentre le foreste rappresentano un tesoro inestimabile per la biodiversità, la regolazione del clima e l’economia locale, importiamo l’80% del legname necessario, trascurando il potenziale delle nostre filiere, la deforestazione globale e il traffico illegale. Solamente il 18% del patrimonio boschivo dispone di un piano di gestione che garantisca il rispetto di rigorosi standard ambientali, sociali ed economici. Inoltre, appena il 10% è certificato, a testimonianza di una carente pianificazione e vigilanza da parte delle autorità competenti.
Di fronte a questo scenario preoccupante, Legambiente lancia un appello al Governo, sottolineando l’urgenza di un cambio di rotta. Non si può più ignorare l’allarme lanciato dalla comunità scientifica (Lista Rossa IUCN - Unione Internazionale per la Conservazione della Natura): con oltre un terzo delle specie arboree a rischio estinzione, proteggere gli alberi è un imperativo categorico. Il Regolamento UE 2023/1115 (EUDR) rappresenta un’opportunità unica per noi italiani, utile a dimostrare il proprio impegno nella lotta al disboscamento, salvaguardare la biodiversità e contrastare la compravendita illecita del legno pregiato, una piaga che alimenta le casse della criminalità organizzata, seconda solo al commercio degli stupefacenti.
«Serve più Europa per le foreste. Infatti, gli ecosistemi forestali - dichiara Stefano Ciafani, presidente nazionale di
Legambiente - non trovano ancora espressa menzione nei trattati europei e l’Europa ancora non dispone di una politica comune lasciando il settore forestale nelle mani dei singoli Stati membri. Con questo modello continueranno a mancare gli appigli burocratici e legislativi per garantire le risorse finanziarie necessarie affinché il settore forestale da prevalentemente produttivo venga considerato nel suo ruolo multifunzionale. L’Italia, dal canto suo, dovrà mettere in atto speditamente la gestione sostenibile e la valorizzazione responsabile del suo patrimonio e promuovere una visione comune tra le istituzioni, le parti economiche e sociali, il sistema della cultura e ricerca, definendo per il decennio 2020-2030 una proposta per le foreste italiane. Solo così potrà raggiungere gli obiettivi al 2030 su clima e biodiversità e del Green Deal Europeo, e vincere la sfida della transizione ecologica».
Se si vuole invertire la tendenza negativa, l’associazione del cigno verde propone un piano d’azione in sette punti. Nel primo si chiede di valorizzare e puntare sul Made in Italy forestale e le ciclo produttivo locale, limitando l’importazione di materie prime di almeno il 10% entro il 2030, promuovendo i “Cluster Foresta Legno” regionali; 2) contrastare il commercio illegale e promuovere la lotta allo sboscamento applicando la EUDR nei tempi richiesti col fine di potenziare produzioni di qualità; 3) consolidare la
custodia della biodiversità per rallentare gli effetti della crisi climatica, adottare rapidamente la Nature Restoration Law con i piani d’azione nazionali; 4) aumentare la protezione e creare “santuari per la biodiversità”, tutelando integralmente il 10% delle foreste nazionali e riducendo le minacce sugli ecosistemi provenienti da desertificazione, incendi e malattie.
Al punto cinque viene suggerita l’attuazione dei livelli di pianificazione contemplati nelle norme e il sostegno alla certificazione per una gestione sostenibile; 6) accrescere e documentare il verde urbano per riqualificare le città e rendere operativi i criteri minimi ambientali negli appalti per il verde pubblico; 7) ottimizzare ricerca, conoscenza e monitoraggio degli ecosistemi.
«Ritardare l’attuazione dell’EUDR - sostiene Antonio Nicoletti, responsabile aree protette di Legambiente - rischia di farci perdere tempo prezioso nella lotta contro la distruzione degli habitat che vede l’Unione euro-
pea tra i maggiori responsabili per la produzione di materiali di origine legnosa e l’Italia (insieme a Germania, Francia e Olanda) responsabile del 50% delle importazioni forestali in Europa. Sebbene l’EUDR sia in vigore già da metà 2023, nell’ottobre 2024 la Commissione UE ha proposto di concedere una proroga alla sua applicazione di 12 mesi.
L’Italia applichi la norma europea speditamente, anche nell’interesse della reputazione positiva delle nostre imprese e dei prodotti “Made in Italy”, imponga il taglio di almeno il 10% delle importazioni di prodotti legnosi entro il 2030 e investa nella crescita delle filiere forestali locali creando catene di valore territoriali». (G. P.).
Proteggerle significa salvaguardare noi stessi e il nostro Pianeta.
Il nostro Paese è ricoperto da vaste aree forestali, ma non sfrutta appieno il potenziale Legambiente chiede d’investire in sostenibilità e promuovere le filiere locali
Il rapporto Ecosistema Urbano 2024 di Legambiente svela le città più virtuose Reggio Emilia primeggia grazie alla raccolta differenziata e alla mobilità © Mark B Pixels/shutterstock.com
Mentre alcune città del Nord brillano per le loro politiche sostenibili, al Sud la situazione è più complessa. Il rapporto “Ecosistema Urbano 2024”, scritto da Legambiente in collaborazione con “Ambiente Italia” e “Il Sole 24 Ore”, ha stilato una classifica dettagliata delle performance ambientali nei 106 capoluoghi di provincia, rivelando un divario crescente tra le due macro-aree. Reggio Emilia si conferma regina verde, scalando e conquistando il primo posto.
Grazie a un impegno costante nella raccolta differenziata, con un tasso che ha raggiunto l’83,8% nel 2023, e a una rete ciclabile sempre più estesa (48,14 metri equivalenti di piste ciclabili ogni 100 abitanti), si distingue per la vivibilità. Anche la riduzione dei consumi idrici (dai 130 l/ab/ giorno ai 127), l’aumento nell’utilizzo dei trasporti pubblici (dai 91 viaggi pro-capite annui dello scorso anno ai 102) e i metri quadrati di suolo a disposizione dei pedoni (da 52,8 mq/abitante dell’anno passato a 56,4) hanno contribuito a questo importante risultato. Trento e Parma seguono a ruota, completando il podio. L’aggiornamento metodologico, con la revisione del “peso” di alcuni indicatori e l’introduzione di uno nuovo sul suolo, ha generato un rimescolamento delle carte. Questa evoluzione dimostra come lo sviluppo sostenibile sia un concetto in continua evoluzione, che richiede un monitoraggio costante e attento.
Nelle prime dieci posizioni vince a mani basse il Settentrione: dopo il terzetto di testa, seguono Pordenone (posizione n. 4), Forlì (5), Treviso (6), Mantova (7), Bologna (8), Bolzano (9), Cremona (10). L’Emilia Romagna ha più capoluoghi green in vetta e fra questi c’è anche Bologna, nuova arrivata e unica grande (l’anno scorso era ventiquattresima) con una risalita dovuta, particolarmente, alla raccolta differenziata (dal 62,6% al 72,9%). Dopo bisogna arrivare sino a Milano, 56esimo posto, pur con un buon trasporto pubblico, mentre Napoli è quasi in fondo 103esima, (era 98esima). Roma sale al 65esimo posto (era 89esima). Il Centro se la sfanga grazie a Macerata (23esima), Siena (26) e Livorno (29). Brutte notizie, viceversa, dal Mezzogiorno con
Fra le note positive c’è l’edilizia residenziale pubblica, al centro d’importanti piani nella rigenerazione urbana. A Latina, il progetto “A gonfie vele, in direzione ostinata e contraria” punta a costruire nuove case popolari e a riqualificare il tessuto urbano, mentre a Ferrara l’Acer (Azienda Casa Emilia Romagna) ha da anni ampliato l’offerta di alloggi a canone sociale. Tali esempi dimostrano come sia possibile migliorare la qualità nella vita dei cittadini attraverso interventi con residenze a prezzi accessibili. I nostri Comuni, quindi, sono un cantiere aperto: con impegno e creatività, possiamo farli diventare esempi di come vivere in armonia con la natura, promuovendo innovazioni a basso impatto.
otto capoluoghi tra le ultime dieci: Caserta (98esima), Catanzaro (99), Vibo Valentia (101), Palermo (102), Napoli (103), Crotone (104), Reggio Calabria (105), Catania (106) che lo scorso anno era penultima. Cosenza (13esima), anche se regredendo leggermente, è l’unica meridionale nelle prime 15 posizioni, seguita al 24esimo posto da Cagliari. Il primato per la qualità dell’aria va a L’Aquila (prima per minore incidenza di PM10), poiché ha una situazione “ottima”. “Buona”, ugualmente, l’aria di Ragusa. «Per città più sostenibili, resilienti e sicure - dichiara Stefano Ciafani, presidente nazionale di Legambiente - serve un’azione congiunta a livello nazionale e territoriale da parte del Governo, delle Regioni e dei capoluoghi di provincia. Oggi, purtroppo, i temi ambientali sono i grandi dimenticati dall’agenda politica, che affronta i temi legati alla sicurezza dei cittadini, solo in riferimento ai fenomeni migratori, ma serve affrontare questo problema sotto tutti i punti di vista, senza lasciare da soli gli amministratori locali nella sua risoluzione. Da parte del Governo nazionale servono politiche coraggiose, a 360 gradi, e risorse economiche all’altezza della sfida per rendere davvero sicuro il nostro Paese. Si pensi, ad esempio, all’adattamento alla crisi climatica, che causa sempre più danni e perdite di vite umane; alla rigenerazione urbana e alla messa in sicurezza degli edifici, dalla presenza di amianto e dal rischio terremoti; alla lotta allo smog, che causa quasi 50mila morti premature solo per il PM2,5, o al processo di miglioramento del livello qualitativo dei controlli ambientali in capo alle Agenzie regionali protezione ambientale, oggi disomogenei sul territorio nazionale». Legambiente sollecita un’azione nazionale per rendere i nostri Comuni migliori. L’iperturismo è una piaga che minaccia molti centri ed è necessario un approccio olistico che coinvolga tutti i livelli istituzionali, dalle grandi metropoli ai piccoli borghi, per garantire un’attività turistica di qualità che rispetti l’ambiente e le comunità locali. Le soluzioni sono a portata di mano, poiché basterebbe ispirarsi alle esperienze positive di altre cittadine europee e superare la timidezza dimostrata finora. (G. P.)
Aria più pulita, meno traffico, città più vivibili: i benefici della mobilità attiva sono sotto gli occhi di tutti e i numeri del XIV “Giretto d’Italia”, organizzato da Legambiente ed Euromobility, lo confermano. Grazie a politiche mirate e infrastrutture dedicate, sempre più italiani scelgono di spostarsi a piedi o in bicicletta, contribuendo a migliorare la qualità della vita nelle vie dei nostri centri urbani. Durante la Settimana Europea della Mobilità Sostenibile (16 - 22 settembre 2024) sono stati monitorati 22 comuni (nel 2023 furono 36) sopra i quindicimila abitanti e 17 aziende, per un totale di oltre 39mila passaggi dai 154 checkpoint installati per poter registrare gli spostamenti casa-lavoro e casa-scuola. Le due ruote conquistano alcuni capoluoghi: Padova, Piacenza (entrambe riconfermano le posizioni del 2023) e Bolzano ne sono la prova. Le tre, prime classificate hanno dimostrato che è possibile trasformare radicalmente il modo di muoversi. Grazie a piani che puntano sul rafforzamento del trasporto pubblico locale, la realizzazione di nuove corsie ciclopedonali e il potenziamento della sharing mobility, la bici è diventata un mezzo di tra-
sporto sempre più attrattivo e sicuro. Anche le aziende, come la milanese Tecne SPA del Gruppo Autostrade per l’Italia, l’Azienda ULSS 6 Euganea della provincia di Padova e, infine, la torinese Synesthesia srl SB hanno lavorato nella stessa direzione. Il numero assoluto dei passaggi effettuati nei comuni aderenti è stato: Padova (7251), Piacenza (5046), Bolzano (3227), Ravenna (3048), Monza (2857), Torino (2548), Faenza (2360), Pesaro (2258), Trento (1881), Fano (1651), Carpi (1073), Bologna (887), Pavia (802), Chiavari (593), Udine (442), Collegno (435), Firenze (389), Roma (343), Jesi (246), Milano (158), Rivoli (93), Alessandria (67).
«Il bilancio del Giretto d’Italia - sostiene Roberto Scacchi, responsabile nazionale mobilità di Legambiente - conferma ciò che Legambiente sostiene
Il Giretto d’Italia incorona Padova, Piacenza e Bolzano come le più ciclabili. Anche le aziende fanno la loro parte, con in testa Tecne SPA del Gruppo Autostrade per l’Italia
di Gianpaolo Palazzo
da sempre, ossia quanto la mobilità attiva e a emissioni zero cresca nei contesti urbani dove si punta su qualità e sicurezza delle infrastrutture insieme a piani che tendono a riequilibrare la ripartizione modale nei trasporti. Senza politiche determinate, con le quali si scelgono queste direzioni, con tanta difficoltà la cittadinanza opta per muoversi in bici o in micromobilità elettrica, con la conseguenza di una presenza sempre preponderante dell’auto privata lungo le arterie stradali urbane. Il percorso che renderà concreta e strutturale la mobilità attiva sostenibile non può prescindere da un cambio culturale degli stili di spostamento e di vita delle persone, e per farlo bisogna intervenire in maniera trasversale sull’ampliamento dell’accessibilità ai servizi di prossimità, sul potenziamento del tpl, sulla redistribuzione dello spazio cittadino a beneficio degli utenti deboli, con maggiori investimenti».
Le due ruote conquistano alcuni capoluoghi: Padova, Piacenza (entrambe riconfermano le posizioni del 2023) e Bolzano ne sono la prova. Le tre, prime classificate hanno dimostrato che è possibile trasformare radicalmente il modo di muoversi. Grazie a piani che puntano sul rafforzamento del trasporto pubblico locale, la realizzazione di nuove corsie ciclopedonali e il potenziamento della sharing mobility, la bici è diventata un mezzo di trasporto sempre più attrattivo e sicuro.
Oltre alle posizioni sul podio, il resoconto dell’iniziativa rivela dati interessanti sulle abitudini di spostamento degli italiani. Trento e Milano guidano la classifica dello smart working, rispettivamente con 577 e 126 lavoratori da remoto, dimostrando come possa contribuire alla riduzione di traffico e inquinamento. Padova, con dodici aziende partecipanti, si distingue per l’impegno del tessuto imprenditoriale locale. L’Emilia-Romagna (quattro comuni e due aziende), la Lombardia e il Piemonte, ciascuna con quattro comuni e un’azienda, sono le regioni più attive. Dopo Piacenza (4,89%), è Faenza (RA) che si piazza al secondo posto tra quelle con il più alto numero di spostamenti sostenibili rapportati alla popolazione residente (4,01%), seguita da Padova (3,50%) Infine, quest’ultima ha preferito la bicicletta (6787 passaggi in bici), mentre Bolzano, con 1022, ha puntato sui mezzi di micromobilità elettrica.
«Lo sviluppo della mobilità sostenibile in Italia è rallentato dallo squilibrio tra gli obiettivi ambientali e sociali che vorrebbero le nostre città caratterizzate da spostamenti a basso impatto, rapidi ed economici per tutti. A causare questo divario - dichiara Giorgio Zampetti, direttore generale di Legambiente - è certamente l’inefficacia delle politiche nazionali e territoriali. All’orizzonte poi, c’è la riforma del Codice della Strada che ci preoccupa, poiché non sembra introdurre risolutive misure che aumentino la sicurezza su strada per gli utenti deboli e, inoltre, si corre il rischio di imbrigliare gli amministratori locali nella definizione di misure di mobilità attiva e condivisa. Non va meglio sul versante degli investimenti, vista anche la preoccupante previsione di tagli nella nuova legge di Bilancio a iniziative che favoriscono il diritto alla mobilità, una sottrazione che rischia di seguire i definanziamenti già effettuati nella Manovra precedente e nel PNRR a sfavore di nuove infrastrutture e mobilità ciclistica». L’appuntamento è ora a settembre 2025, nella fascia oraria dedicata al monitoraggio (2 ore a scelta tra le 7.00 e le 10.00 del mattino) per cogliere l’occasione di mettersi in gioco, scoprire nuove strade e fare la propria parte a favore del cambiamento e verso un ambiente più sano.
Un’esplorazione dei misteri del continente ghiacciato per comprendere il cambiamento climatico e la biodiversità
Nel silenzio gelido della vastità bianca la terra si fa teatro di una ricerca che sfida i confini del possibile. Un continente che per lontananza e inospitalità ha lambito per secoli la definizione di enigma è oggi al centro di una nuova missione scientifica: la quarantesima spedizione italiana in Antartide. Gestita dal Programma Nazionale di Ricerche in Antartide (PNRA), questa missione ha come obiettivo principale l’esplorazione di un continente che continua a rivelare misteri per quel che riguarda i cambiamenti climatici alle dinamiche ge -
ologiche, passando per l’affascinante studio della biodiversità che resiste in condizioni estreme.
La base italiana “Mario Zucchelli”, situata a Terra Nova Bay, e la stazione “Concordia”, operativa tutto l’anno a più di 3.200 metri di altitudine, sono i principali punti di partenza per gli scienziati, che affrontano ogni anno queste condizioni proibitive in nome della ricerca. Un tema centrale della quarantesima spedizione è lo studio del cambiamento climatico e dei suoi effetti sugli ecosistemi antartici. Il continente, seppur lontano dalle luci del mondo, gioca un ruo -
lo fondamentale nel regolare il clima globale. I ricercatori italiani stanno monitorando i ghiacciai e le calotte polari per capire come questi immensi strati di ghiaccio possano influire sul livello del mare. Le anomalie nel ghiaccio marino e il ritiro dei ghiacciai, infatti, sono indicatori precisi delle variazioni climatiche in atto. Un altro progetto importante riguarda la ricerca geofisica e l’analisi della crosta terrestre, per comprendere la struttura geologica dell’Antartide e la sua evoluzione.
In particolare, la spedizione esaminerà l’attività sismica e le peculiarità del sottosuolo, mirando a scoprire nuovi dati sulla tettonica delle placche e sul potenziale vulcanismo della regione. Inoltre, in questo luogo dove la vita sembra impossibile, proliferano ecosistemi incredibilmente resilienti. Piccole forme di vita, come i muschi e i licheni, resistono alle condizioni estreme, mentre le acque antartiche ospitano creature marine che hanno modificato le loro caratteristiche fisiologiche per sopravvivere nel buio e nel freddo.
L’esplorazione di questi ecosistemi unici, attraverso l’analisi della biodiversità marina e terrestre, fornisce indizi fondamentali sulla capacità degli organismi di adattarsi ai cambiamenti estremi. La biologia, così come la climatologia, è quindi fondamentale per comprendere come l’Antartide risponde ai mutamenti del clima globale.
I ricercatori italiani studieranno l’impatto che l’aumento delle temperature potrebbe avere su queste fragili specie, nonché le possibili ripercussioni sugli equilibri ecologici di tutto il pianeta. In conclusione, il continente antartico continua a rivelare agli studiosi i suoi segreti, mettendo in luce la fragilità e la resilienza dei suoi ecosistemi e offrendo fondamentali spunti per la comprensione dei cambiamenti climatici in atto. (M. O.).
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Stesso impatto sulla salute al pari dell’inquinamento esterno anche a basse concentrazioni di polveri sottili
Da uno studio condotto da ENEA e dall’Istituto di scienze dell’atmosfera e del clima del Cnr, in collaborazione con le Università Sapienza di Roma e Milano Bicocca, nell’ambito del progetto VIEPI (Valutazione Integrata dell’Esposizione al Particolato Indoor), finanziato da Inail e pubblicato sulla rivista Environmental Pollution, è emerso che se il particolato fine (PM2.5) e ultrafine (PM0.1) generato dal traffico veicolare urbano si infiltra in un ambiente interno, può attivare la risposta del tessuto bronchiale umano.
Come? Attraverso specifici geni legati all’infiammazione e ad un particolare meccanismo biochimico (metabolismo degli xenobiotici), che permette al nostro organismo, come azione protettiva, di riconoscere, trasformare ed eliminare le sostanze estranee.
La ricerca, tramite un innovativo sistema biotecnologico portatile messo a punto per la prima volta al mondo dagli studiosi coinvolti, ha esaminato, in particolare, la risposta tossicologica delle cellule del tessuto polmonare umano esposte alle nanoparticelle dell’aerosol atmosferico (PM2.5, PM0.1) all’interno di un’aula
dell’Università Sapienza di Roma. Massimo Santoro di ENEA e Francesca Costabile del Cnr-Isac, primi autori del lavoro, al quale hanno contribuito anche Maria Giuseppa Grollino e Barbara Benassi della divisione ENEA di Biotecnologie, Maurizio Gualtieri (Milano Bicocca) e Matteo Rinaldi del Cnr-Isac, Paolo Monti dell’Università Sapienza di Roma e Armando Pelliccioni e Monica Gherardi dell’INAIL, hanno spiegato: “La ricerca ha rivelato, che le caratteristiche chimico-fisiche dell’aerosol atmosferico dell’ambiente esterno, influenzato, soprattutto, dal traffico veicolare urbano e delle variabili meteorologiche esterne (bassa pressione, piogge e vento), sono significativamente alterate infiltrandosi in ambiente indoor, aumentando così il potenziale tossicologico del PM2.5 e PM0.1. A ciò bisogna aggiungere la presenza degli studenti in aula, che contribuiscono alla variazione di biomassa all’interno dell’aula, e dei sistemi di trattamento dell’aria interna”.
Massimo Santoro (ENEA di Biotecnologie), ha sottolineato: “Questi risultati rappresentano una base importante per fornire un solido supporto scientifico alle politiche di adeguamento delle normative sulla qualità dell’aria in ambiente indoor, che comprende anche altri contesti come uffici, abitazioni e luoghi di sport e svago, evidenziando il ruolo critico delle particelle fini e ultrafini come vettori di molecole tossiche per la salute umana”.
Ha proseguito Francesca Costabile di Cnr-Isac: “La nostra ricerca suggerisce come le condizioni meteorologiche, climatiche e la qualità dell’aria esterne abbiano un significativo impatto sulle proprietà del PM2.5 e PM0.1 in ambiente indoor”. Le principali fonti di inquinamento dell’aria indoor nelle nostre città includono l’infiltrazione di aria dall’esterno (traffico veicolare e riscaldamento) e le sorgenti interne (fumo di tabacco, prodotti per la pulizia, cottura di cibi).
L’utilizzo di fluorescenza e Risonanza Plasmonica di Superficie per rilevare, direttamente nei luoghi di produzione, l’eventuale presenza di pesticidi, metalli pesanti e microbi in alimenti liquidi provenienti da catene produttive a filiera corta come miele, latte crudo e birra ha determinato il risultato ottenuto, dopo 42 mesi di lavoro, dal progetto europeo di ricerca denominato h-ALO, nato da un’idea dell’Istituto per lo studio dei materiali nanostrutturati del Cnr di Bologna e di Warrant-Hub, tra i principali operatori europei nella consulenza strategica e finanziaria per l’innovazione, la trasformazione digitale e lo sviluppo sostenibile delle imprese.
Il progetto è stato finanziato dalla Commissione Europea nell’ambito del programma Horizon 2020 con un budget di oltre 4,2 milioni di euro. Il sistema creato dai ricercatori è semplice, può essere usato anche da personale non specializzato e garantisce risultati accurati e affidabili per vari tipi di sostanze liquide.
Inoltre, include tecnologie sviluppate per facilitare i test sul campo, un chip integrato per il rilevamento fluorescente e la capacità di individuare contemporaneamente diversi tipi di antiparassitari. Il team ha sviluppato anche una piattaforma software, che gestisce i dati in cloud, consentendo azioni correttive mirate per ridurre gli sprechi alimentari e migliorare la resa produttiva.
Il software include un database di limiti normativi e suggerimenti gestionali, offrendo alle aziende strumenti per prendere decisioni conformi alle leggi in caso di risultati sfavorevoli, supportando operatori e responsabili della certificazione lungo l’intera filiera.
Isella Vicini, Direttore della Service Line European Funding Development di Warrant Hub, ha affermato: “Siamo fieri che h-ALO sia riuscito a sviluppare un sistema innovativo per
Realizzato un innovativo sistema, che rivela la presenza di pesticidi, metalli pesanti e microbi in alimenti liquidi
l’industria alimentare internazionale. I risultati ottenuti sono frutto della preziosa collaborazione tra le eccellenze scientifiche presenti nel progetto, i partner industriali, le associazioni di controllo qualità della filiera agroalimentare, le associazioni di agricoltori e i produttori stessi: il coinvolgimento dell’intera value-chain è stato un valore aggiunto che Warrant Hub ha contribuito a costruire grazie ad un’attenta definizione iniziale del consorzio e con la sua attività di responsabile della divulgazione scientifica e di supporto al Coordinatore. Questo progetto rappresenta l’av-
vio di nuovi percorsi di collaborazione per la stesura di altrettanti progetti di ricerca e innovazione che auspichiamo, possano avere gli stessi risultati tecnico-scientifici e lo stesso impatto sulla società previsto per h-ALO”.
Stefano Toffanin, coordinatore del progetto per il Cnr-Ismn, ha affermato: “L’avanzamento tecnologico ottenuto con lo sviluppo del nostro biosensore portatile per la rilevazione di sostanze nocive in matrici alimentari, bevande e liquidi, rappresenta un passo significativo verso una maggiore sicurezza alimentare e sostenibilità ambientale”. (P. S.).
Misurati gli effetti quantistici, elettronici e nucleari con una nuova spettroscopia. Lo studio pubblicato su Science
Per la prima volta, una ricerca internazionale ha fatto luce sulle complesse interazioni dinamiche che uniscono le molecole dell’acqua, l’elemento più indispensabile per la vita. Lo studio è stato coordinato dalla Scuola di Ingegneria dell’Ecole Polytechnique Federale di Losanna, al quale hanno partecipato anche l’Istituto per i processi chimico-fisici del Cnr di Messina, l’ICTP di Trieste, l’Ecole Normale Superieure di Parigi e la Queen’s University di Belfast.
L’interazione che “lega” molecole di H2O, cioè il legame a idrogeno, che
si forma quando gli atomi di idrogeno e ossigeno tra le molecole d’acqua interagiscono, condividendo carica elettronica nel processo, rimane alquanto misteriosa. Questa condivisione di carica è una caratteristica fondamentale del network tridimensionale dei legami a idrogeno, che conferisce all’acqua liquida le sue proprietà uniche. Tuttavia, finora i fenomeni quantistici alla base di tali network di legami sono stati compresi solo attraverso simulazioni al calcolatore.
Il team che ha svolto la ricerca è riuscito a misurare come si comportano le molecole d’acqua quando parteci-
pano al network di legami a idrogeno attraverso lo sviluppo di una nuova metodologia, vale a dire la spettroscopia vibrazionale correlata (CVS).
Il vantaggio di tale metodo è quello di poter distinguere tra molecole “partecipanti”, cioè che interagiscono e molecole distribuite casualmente, non legate a idrogeno e non interagenti, superando i limiti di altre metodologie usate, che forniscono misurazioni su entrambi i tipi di molecole contemporaneamente, rendendo impossibile la distinguerle.
Sylvie Roke, che ha guidato lo studio e responsabile del Laboratorio di Biofotonica Fondamentale della Scuola di Ingegneria dell’EPFL, ha spiegato: “I metodi spettroscopici attuali misurano la dispersione della luce laser causata dalle vibrazioni di tutte le molecole in un sistema, quindi bisogna ipotizzare o assumere che ciò che si osserva sia dovuto all’interazione molecolare di interesse. Con la CVS, la modalità vibrazionale di ogni tipo di molecola ha il proprio spettro vibrazionale. E poiché ogni spettro ha un picco unico corrispondente alle molecole d’acqua che si muovono avanti e indietro lungo i legami a idrogeno, possiamo misurare direttamente le loro proprietà, come quanta carica elettronica viene condivisa e come viene influenzata la forza di questo legame”.
Per distinguere tra molecole interagenti e non interagenti, gli scienziati hanno illuminato l’acqua liquida con impulsi laser brevissimi, nell’ordine di femtosecondi nello spettro vicino all’infrarosso. Questi brevissimi lampi di luce creano piccole oscillazioni di carica e spostamenti atomici nell’acqua, che provocano l’emissione di luce visibile. Tale luce emessa appare in uno schema di dispersione che contiene informazioni chiave sull’organizzazione spaziale delle molecole, mentre la frequenza dei fotoni emessi contiene informazioni sugli spostamenti atomici all’interno e tra le molecole. (P. S.).
Una ricerca condotta da ENEA e dall’Università degli Studi di Bari, ha avuto come obiettivo lo studio, grazie all’intelligenza artificiale, dell’impatto dei cambiamenti climatici sulla salute del suolo. I risultati sono stati pubblicati sulla rivista Machine Learning and Knowledge Extraction.
Claudia Zoani, ricercatrice della Divisione ENEA Sistemi Agroalimentari Sostenibili e coautrice dello studio insieme al gruppo di lavoro dell’Università degli Studi di Bari coordinato dalla professoressa Sabina Tangaro, ha spiegato: “Le tecniche di machine learning che abbiamo usato ci hanno permesso di identificare una delle principali sentinelle della salute del terreno, il microbioma, vale a dire l’insieme di batteri, funghi e protisti che popolano il terreno e giocano un ruolo cruciale nella dinamica del carbonio nel suolo in risposta al cambiamento climatico”.
Il cambiamento climatico altera i regimi di temperatura e le precipitazioni, influenzando direttamente la temperatura del suolo e la disponibilità di acqua. Questi cambiamenti modificano la distribuzione delle comunità microbiche nel suolo e, di conseguenza, i processi di decomposizione della materia organica.
La ricercatrice ENEA ha sottolineato: “L’aumento delle temperature accelera i processi di decomposizione del microbioma, incrementando la quantità di gas serra emessi in atmosfera, come l’anidride carbonica e il metano. Il risultato è un peggioramento della qualità del suolo che mette a rischio la produzione agricola e la sicurezza alimentare di milioni di persone nel mondo”.
Il valore che misura l’aumento dell’attività dei microrganismi nel suolo quando la temperatura sale di 10°C si chiama Q10 e, nello specifico, indica la sensibilità della respirazione microbica alle variazioni di temperatura. Quando la temperatura del suolo aumenta, i microrganismi tendono a
I risultati di una ricerca aprono nuove prospettive anche per la tutela dell’ambiente e la sicurezza alimentare
lavorare più velocemente e a produrre più anidride carbonica che sarà rilasciata in atmosfera.
Conoscere questo valore dell’attività del microbioma diventa importante per prevedere come il ciclo del carbonio nel suolo risponderà al riscaldamento globale. Il ciclo del carbonio nel suolo è il processo attraverso il quale il carbonio si muove tra il suolo, le piante, gli animali e l’atmosfera. In sintesi: le piante assorbono il carbonio dall’atmosfera sotto forma di anidride carbonica durante la fotosintesi e lo usano per crescere. Quando le piante e gli animali muoiono o lasciano residui,
questa materia organica cade nel suolo e il contenuto di carbonio entra nel terreno. Successivamente, i microrganismi del suolo (batteri, funghi, ecc.) scompongono la materia organica.
La professoressa Tangaro ha concluso: “L’intelligenza artificiale può giocare un ruolo fondamentale, perché offre strumenti molto efficaci per analizzare dati complessi, fare previsioni e sviluppare soluzioni innovative per mitigare gli effetti del cambiamento climatico e adottare pratiche agricole sostenibili che promuovano la produzione alimentare nel lungo termine”. (P. S.).
Il veleno di Hadronyche Infensa potrebbe ispirare nuovi farmaci con minori rischi rispetto agli anticoagulanti
Un team di ricercatori della University of Queensland, in Australia, ha fatto una scoperta che potrebbe aprire nuovi orizzonti nella prevenzione dell’infarto. Il segreto di questa potenziale rivoluzione arriva dal veleno di un ragno, Hadronyche infensa, una specie appartenente al genere degli “aracnidi letali”, il cui veleno è noto per i suoi effetti neurotossici.
Sebbene il veleno di ragno sia generalmente visto come una minaccia per la salute umana, sempre più spesso i ricercatori scoprono che alcune delle sue componenti possono essere utiliz-
zate per scopi terapeutici. Dal 2017, un gruppo di scienziati australiani sta infatti studiando le proteine contenute nel suo veleno, con particolare attenzione alla Hi1a, una proteina che ha dimostrato straordinarie proprietà terapeutiche, poiché sembra in grado di prevenire i danni cardiaci che si verificano a seguito di un infarto.
Il veleno di Hadronyche infensa è composto da una miscela complessa di proteine, peptidi e altre sostanze biologiche, molte delle quali potenzialmente utili in medicina. Negli esperimenti condotti dai ricercatori australiani, Hi1a ha mostrato di avere
la capacità di bloccare l’aggregazione delle piastrine nel sangue, un fenomeno che gioca un ruolo cruciale nella formazione di coaguli che possono portare a un infarto.
L’efficacia di Hi1a risiede nel suo meccanismo di azione: essa inibisce l’attività di alcune molecole nel sangue fondamentali per la coagulazione, che in circostanze normali previene la perdita eccessiva di sangue in caso di ferite. Tuttavia, in situazioni patologiche come l’infarto, la coagulazione può essere dannosa poiché i coaguli possono bloccare i vasi sanguigni impedendo il flusso di sangue verso il cuore e causando danni irreparabili al muscolo cardiaco.
La proteina Hi1a agisce come un potente anticoagulante, ma con un vantaggio rispetto ai tradizionali farmaci con la stessa funzione: essa non causa gli effetti collaterali che spesso si associano a questi ultimi, come il rischio di emorragie. Inoltre, la proteina sembra essere in grado di selezionare specificamente le piastrine coinvolte nella formazione del coagulo, riducendo al minimo gli effetti sul resto del sistema sanguigno. La scoperta della Hi1a potrebbe quindi segnare un passo fondamentale nello sviluppo di farmaci più sicuri ed efficaci per prevenire i danni da infarto. Attualmente, i trattamenti per l’infarto e altre patologie cardiovascolari si basano principalmente su farmaci come l’aspirina o i più moderni anticoagulanti diretti. Tuttavia, questi farmaci non sono esenti da rischi, e il trattamento ottimale non è sempre facilmente raggiungibile. Inoltre, l’approccio basato sul veleno di ragno potrebbe portare allo sviluppo di una nuova classe di farmaci bioispirati, che sfruttano le risorse naturali in maniera del tutto nuova.
La strada verso l’approvazione di un farmaco basato sulla Hi1a non è ovviamente priva di ostacoli, e nonostante i promettenti risultati, saranno necessari ulteriori studi clinici per verificare la sicurezza e l’efficacia della proteina sull’uomo.
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La scoperta durante gli scavi per la realizzazione di un nuovo impianto agrivoltaico. Due le fasi edilizie, una risalente all’età repubblicana e augustea, l’altra al IV secolo
di Rino Dazzo
Avolte i tesori più significativi del passato vengono alla luce per caso, quasi senza volerlo. Ed è proprio questo che è accaduto a Cancello e Arnone, piccola cittadina del Casertano costituita da due località separate dal fiume Volturno: la prima parte del nome rimanda alla presenza di un cancello che delimitava un’antica area venatoria, la seconda a un nome proprio di origine longobarda, Arno, oppure al latino Ad Nonum, che si riferiva probabilmente a una stazione della Via Appia.
È qui che gli operai che stavano mettendo in campo le opere preventive alla realizzazione di un impianto agrivoltaico Enel Green Power (struttura che combina la produzione di energia solare fotovoltaica con l’agricoltura tradizionale) si sono imbattuti nei resti di quella che aveva tutta l’aria di essere una costruzione antica, molto antica. E gli scavi di archeologia preventiva, quelli approntati d’urgenza proprio in seguito all’affiorare di reperti e testimonianze di epoca storica o preistorica, hanno confermato speranze e aspettative: i resti emersi a giugno 2023 in provincia di Caserta, infatti, appartenevano a una villa rustica di età romana.
I lavori di indagine e ricerca, eseguiti da un’equipe di archeologi sotto la direzione scientifica della Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per le province di Caserta e Benevento e conclusi a ottobre di quest’anno, hanno consentito di definire
l’intera estensione della costruzione e di delimitare con una certa precisione il periodo della sua prima edificazione e dei successivi rifacimenti e ampliamenti. Due i livelli di frequentazione dell’abitazione, che doveva essere una villa rustica di una certa importanza e prestigio per il tempo.
La prima è databile intorno alla fine del I secolo a.C., alla tarda età repubblicana, periodo in cui la villa è stata costruita con le tipiche strutture in opera reticolata del tempo. Per circa duecento anni, fino alla fine del I secolo d.C., la villa deve aver mantenuto lo stesso aspetto. Poi, in una seconda fase coincidente con la tarda età imperiale, più o meno intorno al IV secolo, è stata ampliata e arricchita: a testimonianza di ciò, le strutture in laterizio rinvenute in diversi punti della villa stessa.
L’area di pertinenza della costruzione copre una superficie di circa 1600 metri quadrati e ha restituito alcuni elementi molto significativi dal punto di vista archeologico, storico e artistico quali una serie di eccezionali pavimentazioni in cocciopesto, delle anfore e altre strutture murarie in fondazione e in elevato, una notevole quantità di materiale ceramico tra cui una lucerna in sigillata italica raffigurante una scena erotica e soprattutto un gran numero di dolia, tipici contenitori in terracotta di grandi dimensioni utilizzati per la conservazione degli alimenti.
Tutti i reperti sono stati ritrovati in ottimo
La villa rustica di Cancello e Arnone, col suo prezioso carico di oggetti, reperti, pavimenti e contenitori, costituisce un’opportunità unica per la ricostruzione e lo studio delle dinamiche di insediamento nell’agro storico della Campania settentionale, l’Ager Falernus dei Romani, che è stato istituito nel 318 a.C. tra il monte Massico e il fiume Volturno e che alcuni anni dopo sarebbe stato tagliato dalla Via Appia, la prima strada consolare romana.
«Le indagini svolte hanno restituito non solo un tesoro di inestimabile valore ma anche preziosissime fonti documentali indispensabili alla comprensione del passato e alla ricerca storica e archeologica cui stiamo dando impulso con straordinari risultati» © MiC
stato di conservazione e saranno sottoposti a ulteriori studi e analisi, che potrebbero portare alla scoperta di ulteriori elementi di grande interesse. E non è escluso che le aree vicine possano contenere altri importanti tesori del passato, nascosti sotto il livello del terreno.
La villa rustica di Cancello e Arnone, col suo prezioso carico di oggetti, reperti, pavimenti e contenitori, costituisce un’opportunità unica per la ricostruzione e lo studio delle dinamiche di insediamento nell’agro storico della Campania settentionale, l’Ager Falernus dei Romani, che è stato istituito nel 318 a.C. tra il monte Massico e il fiume Volturno e che alcuni anni dopo sarebbe stato tagliato dalla Via Appia, la prima strada consolare romana.
Un territorio particolarmente apprezzato per la fertilità delle terre e per il paesaggio estremamente rigoglioso. È proprio in questi territori che, nel 217 a.C., si combattè una battaglia tra Annibale e l’esercito romano di Quinto Fabio Massimo, il Temporeggiatore, durante la II Guerra Punica: i Cartaginesi riuscirono a evitare l’accerchiamento e a proseguire nelle loro scorribande nella penisola.
Tra i cento e i centocinquanta anni dopo quegli importanti avvenimenti, è stata edificata la villa riemersa durante la realizzazione dell’impianto green. «Il nostro territorio ci consegna un’altra straordinaria testimonian -
za del passato», ha sottolineato il soprintendente di Caserta e Benevento, Mariano Nuzzo, in una nota diffusa alla conclusione dei lavori condotti in seguito ai primi rinvenimenti dei resti della struttura.
«Le indagini svolte hanno restituito non solo un tesoro di inestimabile valore ma anche preziosissime fonti documentali indispensabili alla comprensione del passato e alla ricerca storica e archeologica cui stiamo dando impulso con straordinari risultati. Il notevole risultato raggiunto sigla l’importanza della cooperazione tra Istituzioni e privati e ci ricorda, ancora una volta, il valore delle azioni di tutela svolte dalle Soprintendenze, che consentono – ha concluso Nuzzo – la salvaguardia e la conservazione del nostro patrimonio culturale senza arrestare il processo evolutivo del nostro Paese».
*Calabria
Campania-Molise
Emilia Romagna-Marche
Lazio-Abruzzo
Lombardia
Piemonte-Liguria-Valle D’Aosta
Puglia-Basilicata Sardegna
Sicilia
Toscana-Umbria
Veneto-Friuli Venezia Giulia-Trentino Alto Adige
Il 59enne leggenda azzurra inserito nell’Olimpo dei personaggi influenti della pallavolo. Oggi lo sport è la lente con la quale osserva e racconta il mondo
di Antonino Palumbo
Il segno di Zorro sulla Hall of fame internazionale del volley. Strano che già non ci fosse in realtà. Ma la mancanza è stata colmata a fine ottobre quando Andrea Zorzi, 59 anni, ex pallavolista e personaggio a tutto tondo del mondo del volley, è entrato ufficialmente nella Volleyball Hall of Fame con sede a Holyoke, negli Stati Uniti.
“Per il suo contributo significativo al successo della pallavolo maschile italiana e per la sua straordinaria carriera che ha ispirato innumerevoli giocatori e tifosi” si legge nella motivazione. Assieme a Zorzi, altra new entry italiana è Giuseppe Panini, fondatore della Panini Modena e creatore ed ideatore delle figurine famose nel mondo, inserito nella categoria “leader”.
Ora sono otto gli italiani nella Hall of fame internazionale, nella quale figuravano già Silvano Prandi, il tecnico che lanciò Zorzi in Nazionale, e cinque volti super noti della “Generazione di fenomeni” degli anni Novanta: Lorenzo Bernardi, Andrea Gardini, Andrea Giani, Samuele Papi e il tecnico Julio Velasco.
Generazione di fenomeni
«Sono molto felice di questa opportunità – racconta Zorzi - ed è stato un piacere
tornare in un posto che avevo visitato qualche anno fa e ritrovare dopo anni alcuni amici.
La Hall of fame di Holyoke nasce in ambiente anglosassone, ma a differenza di altre abbraccia il mondo intero. E il fatto che ci sia tanta Italia rafforza il fatto che la Nazionale maschile azzurra abbia avuto un grande impatto. Dico sempre che, se si mettessero in un sacchetto i protagonisti di quella Nazionale e se ne estraesse uno a sorte, qualsiasi estratto meriterebbe di entrare nella Volleyball Hall of fame».
Il volley in campo, in tv e a teatro Zorzi e il volley si sono scoperti quando lui aveva sedici anni - «imprevedibilmente: non era né un’aspirazione, né un desiderio» - e per Andrea la pallavolo è stata la quotidianità fino ai 33.
Anche dopo, però, è rimasta un fil rouge: «Ha continuato a essere sfondo principale per le mie attività, con declinazioni diverse – racconta il campione di Noale - all’inizio occupandomi di teatro con Giulia, che a sua volta ha lo sport nel suo passato, e poi in altre attività».
Andrea è collaboratore di Sky con cui ha commentato le Olimpiadi di Londra, dopo aver seguito quelle di Pechino per la Fivb (Fédération Internationale de Volleyball).
Nello spettacolo teatrale “La leggenda del pallavolista volante” lo sport rimane archivio e lente con cui Zorro guarda il mondo.
Lo sport fotografia della società
Zorzi è anche un’intellettuale, uno studioso dello sport come tramite per capire la società contemporanea.
«Non credo si possa dire che lo sport deve essere un modello da applicare – sostiene - perché vorrebbe dire che vita è partita che vinci o perdi, o che si debbano catalogare azioni in vincenti o perdenti. Ma possa diventare uno specchio molto efficace, anche impietoso, di quello che il mondo occidentale fa in vari settori».
After hours e palla avvelenata
Assieme ad Andrea Brogioni, Zorzi è anche volto e voce di “After hours”, il talk coni protagonisti della Serie A Credem Banca, trasmesso in diretta ogni domenica sul -
la pagina Facebook e sul canale Youtube di Lega Pallavolo Serie A.
Una trasmissione che «non si è preoccupata dell’approfondimento, ma di creare un contesto familiare, se possibile non conflittuale, in cui si parla di aspetti anche tecnici con un approccio rilassato». Poi c’è Palla avvelenata, con un’impronta diverse, grazie all’ironia pungente di Leo Turrini: «Non so se qualcuno si è mai arrabbiato, di sicuro nessuno ci ha mai chiamato per lamentarsi».
Se Zorzi giocasse oggi
Fra gli altri temi, ci sono i cambiamenti della volley, dei suoi protagonisti, della società, delle abitudini. Zorzi come si sarebbe trovato nella pallavolo di oggi? «Mi vien da dire che io e quelli della mia generazione avremmo reagito come gli atleti contemporanei, di fronte ai cambiamenti nella preparazione fisica, nell’alimentazione, nel data analysis.
Mi vien da dire, presuntuosamente, che saremmo stati comunque atleti top».
Data analysis e creatività
“Zorro” ricorda anche come sono cambiati i metodi e le filosofie di allenamento. E ci si affida, spesso in maniera troppo assoluta, al data analysis. Ma Zorzi avverte: «Bisogna evitare un eccesso di riduzionismo, non si può spiegare l’uomo in modo matematico.
Serve un equilibrio con l’idea che l’uomo sia un essere unico, magico, speciale, inimitabile. La creatività non si può ridurre a una singola formula».
L’uomo e il bisogno dell’ignoto
Secondo Zorzi, di fronte agli enormi progressi tecnologici e della conoscenza, l’uomo ha bisogno di preservare quello spazio in cui può risiedere l’ignoto, che si è ridotto di molto. Serve un approccio che vada oltre la comprensione razionale: «Abbiamo enorme bisogno dell’ignoto – è il pensiero di Andrea - perché se l’uomo ritenesse che i processi analitici possano spiegare chi siamo, cosa e perché lo facciamo, si perderebbe il senso più profondo dell’essere umano. La modernità rischia perciò di minare questo bisogno profondo di sentirsi speciali, non spiegabili. La nostra vera umanità forse risiede solo in ciò che noi non abbiamo capito di noi stessi».
Zorzi è anche un’intellettuale, uno studioso dello sport come tramite per capire la società contemporanea. «Non credo si possa dire che lo sport deve essere un modello da applicare – sostiene - perché vorrebbe dire che vita è partita che vinci o perdi, o che si debbano catalogare azioni in vincenti o perdenti. Ma possa diventare uno specchio molto efficace, anche impietoso, di quello che il mondo occidentale fa in vari settori»
prestigioso evento podistico del mondo degli italiani negli anni ’80 e non solo
grandi favoriti
erano il campione olimpico Tamirat Tola e la “detentrice” Hellen Obiri. Ma non sempre la Maratona di New York fa felice che parte con il pronostico dalla propria parte. Se diciamo Giacomo Leone, i meno giovani sanno di cosa si parla. E così, quest’anno, dopo una gara incerta e combattuta, sono stati due outsider a scrivere il proprio nome nella storia.
Fra gli uomini il 35enne olandese Abdi Nageeye, primo europeo da Giacomo Leone (1996): è infatti nato in Somalia ma si è trasferito con la famiglia, come rifugiato, nei Paesi Bassi dall’età di sei anni. Fra le donne, invece, la vittoria è andata a Sheila Chepkirui, per la sesta vittoria consecutiva
Abdi Nageeye. Fra gli uomini il 35enne olandese
Abdi Nageeye, primo europeo da Giacomo Leone (1996): è infatti nato in Somalia ma si è trasferito con la famiglia, come rifugiato, nei Paesi Bassi dall’età di sei anni. Fra le donne, invece, la vittoria è andata a Sheila Chepkirui, per la sesta vittoria consecutiva di una keniana a New York, davanti alle connazionali Hellen Obiri e Vivian Cheruiyot, 41enne veterana già terza a Parigi.
di una keniana a New York, davanti alle connazionali Hellen Obiri e Vivian Cheruiyot, 41enne veterana già terza a Parigi. Intendiamoci, non si parla di “ultimi arrivati” - anche metaforicamente - perché primeggiare nella New York City Marathon non è mai facile, visto che al via arrivano sempre i grandi nomi della disciplina desiderosi di consegnarsi alla storia, lungo i chilometri che portano da Staten Island a Central Park attraverso Brooklyn, Queens, Bronx e Manhattan.
Noi italiani ne sappiamo qualcosa. E del resto il Tricolore è stata la prima bandiera di un Paese europeo a sventolare sul gradino più alto del podio in quel di New York. Ripetendosi poi in altre tre occasioni, tanto da appiccicare alla competizione l’appellativo di “Maratona degli italiani”.
Il 1984 era un anno di grandi speranze, l’anno olimpico. Speranze che, però, andarono deluse: i Giochi di Los Angeles li visse da spettatore. New York, però, no sebbene inizialmente non risultasse fra gli iscritti. Pettorale numero 100 (l’ultimo disponibile), gambe che alla vigilia sembravano non girare e ancora addosso la frustrazione per non riuscire a esprimere il suo grande potenziale. E lo espresse il 28 ottobre 1984, a New York, in una giornata calda e umidissima.
A metà gara il vicentino staccò tutti, a 10 km dalla fine aveva 70 secondi di vantaggio. Come ha raccontato Pizzolato, si poneva come obiettivo il prossimo ristoro e l’arrivo fra i primi cinque. A 3 km dall’arrivo, però, con gli inseguitori alle calcagna, decise di non concedersi più pause, né girarsi: c’era solo il traguardo e lo tagliò per primo. “PizzoWhat?” (“PizzoCosa?”) sbalordirono i telecronisti statunitensi e così avrebbe titolato il New York Times, a conferma della grande sorpresa che accolse la sua fuga e il suo trionfo.
L’anno dopo, il bis. Affatto scontato. In rimonta, negli ultimi dieci chilometri, mosso dalla fame di vittoria. Una doppietta che, per usare le parole di Pizzolato, zittì le malelingue che l’avevano bollato come “fortunato”. A completare la sorprendente tripletta dell’Italia a New York, nel 1986, fu Gianni Poli, azzurro di riferimento nella maratona in quel decennio, che superò nel finale l’au -
stralianoDe Castella (poi terzo) per un’altra vittoria memorabile, davanti al polacco Niemczaik. Era il 2 novembre e quel finale è annoverato ancora oggi fra i momenti più emozionanti della storia di quella maratona. Quell’anno la norvegese Grete Waitz conquistò l’ottava di nove vittorie a New York: a inserirsi in questo dominio solo Allison Roe nel 1981 e Priscilla Welch nel 1987. Fra le sorprese degli anni Ottanta, a New York, ci fu il primo successo di un atleta africano, il keniano Ibrahim Hussein (2h11’01”), che interruppe la serie azzurra nel 1987. Oggi il Kenya comanda la classifica delle vittorie sia in campo maschile (17), sia femminile (16).
Il dominio dell’Africa nella Grande Mela è cominciato, fra gli uomini, nel 1997. Nella prima parte del decennio, invece, si era distinto il Messico con quattro successi e poi, nel 1996, il ritorno dell’Italia con Giacomo Leone, che rivendicherà sempre con orgoglio la rinuncia al ricco gettone di partecipazione alla Maratona di Venezia (dov’era giunto secondo l’anno prima) per correre a New York. «Mi esaltavo nelle sfide», dice spesso.
Tra le donne, nell’edizione del 1994, la keniana Tegla Loroupe è stata la prima africana a vincere la gara newyorkese e anche la più giovane vincitrice della corsa, da quando questa si disputa attraverso cinque quartieri. Non si può definire proprio sorprendente l’unica vittoria italiana in campo femminile, quella di Franca Fiacconi nel 1998, visto che era arrivata seconda due anni prima (e poi nel 2000) e terza nell’edizione precedente.
Fra i debuttanti di successo la Marathon di New York annovera Ghirmay Ghebreslassie, che s’impose nel 2016 a ventun anni non ancora compiuti. Non fu una sorpresa totale, perché l’anno prima si era imposto ai Mondiali di Pechino. Ma non era certo scontato interrompere la striscia di successi keniani delle ultime quattro edizioni, diventando il più giovane vincitore nella storia della prova nella Grande Mela.
Pillola finale sull’edizione 2024. Nella maratona dalla quale escono tutti vincitori, l’ultimo classificato è un italiano. Non uno qualunque: Mario Bollini, 74enne abruzzese di Giulianova, gareggia a New York dal 1985. Da allora non ha mai smesso. (A. P.)
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La sciatrice ha vinto la gara d’esordio in Coppa del Mondo, uno slalom gigante, e fa sognare il bis dello storico trionfo del 2020
“Ogni dettaglio del mio lavoro è studiato per migliorare”. E forse è questo il (non) segreto dei campioni come Federica Brignone, concentrato di classe, consapevolezza e serenità, che ha commentato così il suo debutto vincente nella Coppa del mondo femminile di sci. A Sölden, in Austria, dove nel 2015 aveva centrato la sua prima vittoria fra le big. E dove non aveva, poi, più vinto malgrado il numero dei suoi successi nel Circo Bianco al femminile sia intanto lievitato a 28 (e i podi a 70). Una bacheca imprezio-
sita da un titolo mondiale (combinata a Courchevel/Méribel 2023) e da una Coppa del mondo assoluta, oltre a due argenti iridati (in gigante a Garmisch-Partenkirchen 2011 e Courchevel/Méribel) e tre podi olimpici fra Pyeaongchang e Pechino.
Federica Brignone ha scritto pagine di storia di sci con inchiostro azzurro e non vuole fermarsi. Perché se il suo anno d’oro è stato il 2020, con i titoli di gigante e combinata oltre a quello assoluto, ora la 34enne valdostana nata a Milano ha la serenità e la maturità di inseguire grandi obiettivi senza dichiararli. «Ho degli obiettivi di performan-
ce per la stagione, non starò a pensare a vittorie, record o Coppe. Vedremo tappa dopo tappa come andrà» ha dichiarato dopo la vittoria di Sölden.
I nerd delle statistiche si stanno divertendo molto, grazie a Federica. Dopo essere diventata la donna più anziana in assoluto a vincere un gigante in Coppa del mondo, in Austria è diventata l’italiana “meno giovane” a conquistare un successo nella più importante competizione sciistica femminile. Riuscendo a vincere, prima del trofeo, anche l’immancabile tensione: «Sölden è un appuntamento sempre un po’ stressante, anche se ci ho corso tantissime volte negli anni scorsi. Quindi cerco di stare tranquilla anche se è difficile non mettersi pressione addosso» aveva detto alla vigilia.
Il modo in cui Brignone si è imposta sulle nevi del Tirolo è stato autoritario e significativo. Dopo la prima manche era terza alle spalle dell’icona Michaela Shiffrin (97 vittorie in Coppa del Mondo dopo la stagione 2023-2024, mai nessuno come lei) e della talentuosa 22enne neozelandese Alice Robinson. Eppure «ero tranquilla nella seconda manche - ha raccontato – ero molto vigile, ho fatto bene alcuni passaggi. Forse ho tenuto un po’ troppo nella prima parte e non pensavo di essere davanti a Robinson. Mi sono davvero divertita». Shiffrin ha sbagliato troppo nella parte finale e ha concluso quarta, dietro Julia Scheib al suo primo podio in CdM. Federica ha vinto. E fa sognare.
La Coppa del mondo è proseguita in Austria e Finlandia con due gare di slalom, non esattamente la specialità di Federica, che si prepara a tornare all’attacco nei tre fine settimana oltre oceano. Brignone testerà le sue grandi possibilità in due slalom giganti, una discesa libera e un Super G. Il 30 novembre e 1° dicembre si gareggia a Killington nel Vermont (Stati Uniti), il 6 e 7 dicembre a Mont-Tremblant (Canada) dove l’anno scorso ha vinto due volte in gigante, il 14 e il 15 a Beaver Creek (Stati Uniti). (A. P.).
Talmente forte da non aver bisogno di un fuoriclasse per primeggiare. Nell’ultima giornata dei gironi della Nations League di calcio, la Francia ha restituito all’Italia il 3-1 di Parigi, espugnando lo stadio Meazza di Milano e conquistando sul filo di lana il primato e un sorteggio più agevole per i quarti di finale.
Ma ha fatto rumore, sin dai giorni precedenti, la mancata convocazione di Kylian Mbappé, asso del Real Madrid, che si era messo a disposizione del ct Didier Deschamps ma è rimasto comunque escluso. A ottobre era stato invece Mbappé a chiedere di non essere convocato. Si era rilassato andando in vacanza a Stoccolma, una trasferta che gli ha creato qualche grana di natura privata. «Non ho considerato i problemi extrasportivi» ha tagliato corto Deschamps.
Al di là delle vicende private del calciatore, l’esclusione di un campione dalla lista dei convocati - per quanto non si trattasse di eventi calcistici di punta come un Europeo o un Mondiale - fa sempre notizia. In Italia ricordiamo ancora oggi, a distanza di oltre vent’anni, la clamorosa “bocciatura” di Roberto Baggio da parte di Giovanni Trapattoni alla vigilia del Mondiale 2002, dopo un recupero a tempo di record dalla rottura del legamento crociato anteriore.
Qualche lustro prima del Divin Codino, anche un grande attaccante come Roberto Pruzzo e un centrocampista di riconosciuto valore come Agostino Di Bartolomei si erano visti “negare” un Mondiale che sentivano di meritare, Pruzzo nel 1986, Di Bartolomei nel 1978. Ma l’elenco è nutrito: Enrico Albertosi da Argentina ‘78, l’attaccante Evaristo Beccalossi da Spagna ‘82 e, un paio di volte a testa, Giuseppe Rossi e Christian Panucci. Scelte tecniche o di spogliatoio, la delusione per gli esclusi non cambia.
A proposito di azzurro, va ricordata anche l’assenza di Sara Gama,
L’assenza del francese dai match decisivi del girone di Champions League ci ricorda altre esclusioni eccellenti, in Italia e non solo
icona del movimento calcistico femminile in Italia, dai Mondiali dello scorso anno in Australia e Nuova Zelanda, che si era messa a disposizione per esserci anche senza avere la certezza di giocare.
Dai convocati agli Europei il ct inglese Gareth Southgate ha invece escluso Jack Grealish, terzo acquisto più costoso del calcio inglese e popolare in tutto il mondo. Tanta la concorrenza in attacco e qualche infortunio di troppo che ne ha condizionato il rendimento, anche se Southgate ha ammesso: «È stata una scelta difficile». In Germania hanno fatto rumore
le assenze, fra gli altri, di Mats Hummels, Marco Reus e Leon Goretzka.
A volte le sorprese nei convocati sono legate a inserimenti inaspettati, che si rivelano clamorose gaffe. Come nel caso della lista di giocatori diramata, proprio dalla Germania, per le sfide di Nations League con Bosnia ed Erzegovina e Olanda. Fra gli altri, compariva infatti Dario Sits, 20enne lettone. «Errore di database», la giustificazione della Federcalcio tedesca. Poco dopo, la Federcalcio lettone ci ha scherzato su twittando: «Spiacenti, ma Dario ha già un volo prenotato per Riga». (A. P.).
Un romanzo potente sull’immaginazione e sullo stare al mondo, dove il protagonista convive con un male invisibile e insolito da misurare
di Anna Lavinia
Giulia Caminito
Il male che non c’è Bompiani - 18,00 euro
Loris lavora in una casa editrice, ha una fidanzata, dei genitori che lo aiutano e una passione per la lettura come tanti. Apparentemente ha anche una vita normale. Da fuori sembra che vada tutto bene ma c’è qualcuno al suo interno che porta i connotati dell’ipocondria e si fa conoscere con il nome di Catastrofe.
Un male invisibile e insolito da misurare, lo accompagna ovunque a volte con sembianze differenti ma che ritorna sempre in un’unica ossessione. Condiziona la sua già precaria esperienza lavorativa trasformandosi in un’inadeguatezza costante. I dolori lancinanti alla pancia, al petto o a qualsiasi altra parte del corpo tolgono il sonno e poco a poco la vita. Succede che il timore di morire a causa di una patologia che nessuno riconosce diventa così invalidante da trasformarsi in paura di vivere. È complicato esistere con un’ossessione per la malattia, ogni responso medico è una sconfitta per chi non viene capito e di conseguenza curato. “Non hai niente”, “non devi preoccuparti”, “non hai nulla che non va”, scendono come una condanna a vita le nega-
zioni nelle frasi degli specialisti che affondano il coltello nella piaga del dolore e fanno più male di qualsiasi afflizione del corpo.
Per caso - o forse no - nei titoli della scrittrice romana c’è spesso un incastro di negazioni che tengono vive le storie dei suoi personaggi maschili e femminili e capovolgono il significato dell’azione. “L’acqua del lago non è mai dolce” (Bompiani, 2021) finalista al premio Strega e vincitore del premio Campiello 2021 e adesso “Il male che non c’è” la sua ultima fatica letteraria per la stessa casa editrice.
È proprio la fatica una delle grandi nemiche del ragazzo ipocondriaco del romanzo, è il sintomo ricorrente dei suoi giorni che lo portano a scoprire un’infinità di malattie possibili collegate a quello stato di debolezza generalizzato che lo affatica estremamente e che quelli bravi chiamano astenia. Quale sia l’origine del suo dolore è una domanda che lo perseguita ma lui prova a liberarsene, su internet nelle infinite finestre aperte sulla rete. Chi non ha mai chiesto a dottor Google un sintomo e con sorpresa ha scoperto di soffrire di decine, centinaia di malattie? Il moltepli-
ce materiale guadagnato dal mondo virtuale si evolve in autodiagnosi nella vita reale che non fanno che sfamare l’ossessione e la placano solo nel momento in cui trovi qualcuno come te. Così prima scovi il tuo terrore, poi ne confermi i sintomi ed infine alimenti generosamente le tue inquietudini. Vivere nella grande illusione di poter controllare il corpo con ogni sua cellula e di conoscere il futuro con ogni suo giorno che ci aspetta.
Il domani invece è sempre incerto e indecifrabile soprattutto se i trent’anni sono appena passati. L’inquietudine del corpo che gli altri non riescono a percepire si trasforma in un’altra fatica, quella di desiderare. È il male comune di una generazione. Il dolore che all’esterno non c’è ma che racchiude tanti disturbi della contemporaneità come la depressione, l’ansia, l’anoressia, la bulimia e le dipendenze patologiche.
Dall’essere in ritardo sulla diagnosi di una malattia e non prenderla in tempo, all’essere in ritardo sulla propria esistenza. Loris, come tutti noi, rincorre costantemente qualcosa da stanare per avere una vita migliore o almeno libera dal male.
Cristian Manni
Diario Di Un Nutrizionista
EBS Print, 2024 - 24,50 euro
Cosa mangia ogni giorno un nutrizionista?
Lo rivela il suo diario alimentare, lo specialista in scienza dell’alimentazione spiega cosa portare a tavola quotidianamente, quale attività fisica fare e alcune riflessioni personali per affrontare il problema del peso in eccesso. Il tutto condito dettagliatamente da utili ricette stagionali. (A. L.)
Zoë Schlanger
Le Mangiatrici Di Luce
Einaudi, 2024 - 19,00 euro
Se vuoi sopravvivere devi avere una straordinaria creatività biologica. A questo avranno pensato quelle incredibili piante che con la loro vita intelligente si sono meritate un posto d’onore nel libro della giornalista dell’Atlantic. Sono loro le protagoniste del viaggio incantato nella complessità del mondo vegetale. (A. L.)
Eva Munter
Storie Periodiche
APOGEO Editore, 2024 – 25,00 euro
Molti conoscono la tavola periodica degli elementi ma pochi sanno le intricate quantità di storie che ci sono dietro le rivoluzionarie scoperte che hanno portato alla loro riuscita. Ad ovviare al problema c’è la divulgatrice scientifica @chimica_in_pillole che li mette insieme tutti in 118 originali e coinvolgenti storie. (A. L.)
Delineato un piano d’azione per sconfiggere la meningite entro il 2030 includendo prevenzione, diagnosi, sorveglianza, e comunicazione
di Daniela Bencardino *
La meningite continua a rappresentare una delle principali sfide globali per la salute pubblica, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS). L’attenzione su questa malattia, caratterizzata da un alto tasso di mortalità e gravi complicazioni a lungo termine, è stata recentemente riaccesa dalla tragica morte di Lara Ponticiello, una studentessa italiana di 23 anni in Erasmus a Berlino.
La meningite è un’infiammazione che colpisce le tre membrane protettive (meningi) che rivestono il cervello e il midollo spinale. Lo strato esterno delle meningi è chiamato dura madre, seguito dall’aracnoide e dalla pia madre. I due strati interni (aracnoide e pia madre) sono anche detti leptomeningi e sono separati dallo spazio subaracnoideo, che contiene il liquido cerebrospinale.
Le epidemie di meningite sono un fenomeno globale e possono essere causate da diversi microrganismi: batteri, virus, funghi e parassiti. La definizione di “meningite asettica” è usata per indicare l’infiammazione delle meningi causata da patogeni diversi dai batteri che producono pus. La meningite virale è il tipo più comune di meningite asettica, colpisce generalmente i bambini piccoli e gli enterovirus ne sono i principali agenti causali [1]. Ma è la meningite batterica a preoccupare maggiormente poiché colpisce con un impatto devastante: su 6 persone che la contraggono una muore e 1 su 5 subisce gravi complicazioni.
* Comunicatrice scientifica e Medical writer
L’OMS, insieme agli esperti coinvolti nella prevenzione e controllo della meningite, ha guidato lo sviluppo del percorso da seguire per sconfiggere la meningite entro il 2030. Questo processo ha coinvolto centinaia di rappresentanti degli Stati membri, partner, organizzazioni della società civile e del settore privato attraverso consultazioni multidisciplinari.
Per raggiungere questo obiettivo sarà necessario intraprendere azioni concertate su cinque pilastri interconnessi: 1. prevenzione e controllo delle epidemie, con un focus sullo sviluppo di nuovi vaccini, il raggiungimento di una copertura vaccinale elevata, il miglioramento delle strategie di prevenzione e la risposta alle epidemie;
2. diagnosi e trattamento, concentrati sulla conferma rapida della meningite e sulla gestione ottimale;
3. sorveglianza della malattia per guidare la prevenzione e il controllo della meningite;
4. cura e supporto per coloro che sono colpiti dalla meningite, con un focus sul riconoscimento precoce e l’accesso migliorato alla cura e al supporto per le conseguenze della meningite;
5. advocacy e coinvolgimento, per garantire una consapevolezza elevata della meningite, l’inclusione nei piani dei paesi e l’aumento del diritto alla prevenzione, cura e servizi post-cura.
Sebbene il programma affronti tutte le forme di meningite indipendentemente dalla causa, si concentra principalmente sulle principali cause di meningite batterica acuta (meningococco, pneumococco, Haemophilus influenzae e streptococco di gruppo B), che sono state responsabili di oltre il 50% dei 250.000 decessi per meningite di tutte
le cause nel 2019. Inoltre, causano altre malattie invasive come sepsi e polmonite e contro le quali sono disponibili vaccini efficaci, o lo saranno presto [2].
L’OMS sottolinea che il modo più efficace per fornire una protezione duratura contro questa malattia è l’uso dei vaccini disponibili, che sono efficaci e sicuri. La meningite batterica acuta è una malattia che insorge rapidamente, fa registrare alti tassi di mortalità e morbilità e può essere causa di numerosi focolai epidemici. Ad oggi sono disponibili vaccini per la prevenzione delle infezioni da Haemophilus influenzae di sierotipo b (HIB), da Neisseria meningitidis (meningococco) di sierogruppo A, B, C, W, Y e da alcuni sierotipi di Streptococcus pneumoniae (pneumococco), efficaci già nel primo anno di vita. Negli ultimi 30 anni i progressi fatti nella gestione di questa malattia sono stati tanti, soprattutto grazie alla vaccinazione e a una maggiore conoscenza del ruolo dell’ospite e del patogeno negli studi clinici [3,4].
Epidemiologia
La meningite batterica acquisita in comunità, quindi al di fuori degli ambienti ospedalieri o sanitari nel corso della normale vita quotidiana, è principalmente causata da tre patogeni:
1. Streptococcus pneumoniae; 2. Neisseria meningitidis (meningococco); 3. Haemophilus influenzae di tipo B.
A questi si aggiungono Streptococcus suis nel Sud-est asiatico, Listeria monocytogenes, Streptococchi di gruppo B e batteri Gram-negativi come Escherichia coli e Kleb-
siella pneumoniae causano meningite nei soggetti più a rischio, come i neonati, le donne in gravidanza, i riceventi di trapianti e gli anziani [4].
Negli ultimi decenni, il numero di casi di meningite batterica segnalati ai siti di sorveglianza è aumentato in tutto il mondo, con un’incidenza fortemente correlata alla povertà. Tuttavia, si registra una differenza nell’incidenza geografica. Infatti, nei Paesi in via di sviluppo, l’incidenza della meningite batterica acuta si è ridotta mentre nei paesi dove persistono epidemie di meningite dovute a N. meningitidis e S. pneumoniae, l’incidenza raggiunge i 1000 casi per 100.000 abitanti [5].
La meningite batterica è associata alle stagioni più fresche e secche, ed è quindi probabile che il cambiamento climatico influenzi l’incidenza della meningite, ma mancano evidenze a riguardo. L’epidemiologia globale della meningite negli ultimi 25 anni ha fatto registrare molti cambiamenti tra adulti e bambini, determinati dalla diffusione dei vaccini coniugati, dall’introduzione di trattamenti antiretrovirali e antibatterici, inclusa la prevenzione della trasmissione madre-figlio, e dai progressi fatti nelle strategie di sviluppo e riduzione della povertà.
Patogenesi
L’insorgenza della maggior parte delle meningiti batteriche acute assume un modello sequenziale. La prima fase è la colonizzazione della nasofaringe, a seguito della quale si verifica l’invasione del flusso sanguigno attraverso le mucose. Questo consente la circolazione del batterio che raggiunge il sistema nervoso centrale (SNC) invadendolo
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e colonizzandolo.
Nelle forme causate da Listeria monocytogenes, Streptococco di gruppo B e Streptococcus suis, la batteriemia ha origine nel tratto gastrointestinale o genitourinario. In alcune occasioni, la meningite batterica acuta può essere acquisita attraverso un’invasione diretta del SNC e della lamina cribrosa (porzione orizzontale dell’osso etmoide). In condizioni normali, il SNC è sotto continua sorveglianza immunologica grazie alla barriera emato-encefalica, dove periciti, astrociti, microglia e cellule endoteliali specializzate lavorano in sinergia per resistere all’invasione patogena e per uccidere i batteri all’ingresso. I batteri superano la barriera interagendo con i recettori e sfruttando vie endocitiche [6]. Tuttavia, i meccanismi con cui i batteri eludono le barriere del SNC per causare la meningite non sono completamente descritti. Per esempio, nel 10-30% dei casi di meningite batterica acuta senza batteriemia concomitante, i batteri possono interagire con gangliosidi, aderire al bulbo olfattivo, invadere l’epitelio olfattivo e traslocare direttamente al cervello [7].
I batteri si replicano rapidamente nel SNC e rilasciano pattern molecolari che si legano a specifici recettori innescando segnali associati al danno tramite l’attivazione del fattore NF-kB, fattore di trascrizione coinvolto in tutte le reazioni delle cellule agli stimoli, quali stress, citochine, radicali liberi, irradiazione con ultravioletti e attacco proveniente dagli antigeni dei batteri o virus [8].
I fattori di virulenza batterici esercitano danni diretti sulle delicate strutture del SNC. Per esempio, i fattori di
virulenza pneumococcica, tra cui la capsula e la pneumolisina, riducono la motilità e la chemiotassi delle microglie. La pneumolisina è implicata negli effetti tossici diretti sulle cellule ospiti, particolarmente all’interno della barriera emato-encefalica e dell’ippocampo. Altri stimolano e aumentano i livelli del fattore di necrosi tumorale alfa (TNF-α) e promuovono la rottura della barriera emato-encefalica [9].
Sintomi
I sintomi e i segni della meningite possono variare a seconda del tipo, soprattutto in termini di gravità e rapidità di insorgenza. Tuttavia, indipendentemente dalla forma di meningite, alcuni sintomi comuni possono presentarsi in tutti i pazienti, eccetto nei neonati e, talvolta, nei pazienti molto anziani e immunodepressi. Tra questi troviamo:
• cefalea;
• febbre;
• rigidità nucale.
I pazienti possono apparire letargici o rallentati. La rigidità nucale si manifesta come una resistenza alla flessione passiva o attiva del collo e può richiedere del tempo per diventare evidente. Le manovre per rilevarla, in ordine di sensibilità crescente, sono:
• segno di Kernig: resistenza all’estensione passiva del ginocchio;
• segno di Brudzinski: flessione completa o parziale delle anche e delle ginocchia durante la flessione del collo;
• difficoltà ad avvicinare il mento al petto con la bocca chiusa;
• difficoltà ad avvicinare la fronte o il mento al ginocchio.
La rigidità nucale causata da irritazione meningea si distingue dalla rigidità del collo dovuta ad artrosi della colonna cervicale o a una grave mialgia secondaria a influenza. In questi ultimi casi, i movimenti del collo sono limitati in tutte le direzioni, mentre nella rigidità nucale da meningite la flessione del collo è principalmente interessata, permettendo di ruotare il collo ma non di piegarlo in avanti [10].
Diagnosi e trattamento
La conta dei leucociti è il valore predittivo più forte della meningite batterica acuta. La somministrazione di antibiotici prima della puntura lombare influenza la composizione del liquido cerebro-spinale, pertanto i medici si affidano sempre di più alla PCR diagnostica. Dati recenti suggeriscono che, sebbene i piccoli pannelli multiplex mirati all’Haemophilus influenzae, meningococchi e pneumococchi siano altamente sensibili e specifici, pannel-
li più ampi che includono patogeni virali, nosocomiali e comunitari più rari hanno sensibilità e specificità variabili e al momento non sono raccomandati [4]. Più di recente, il sequenziamento nuova generazione (NGS) e la metagenomica del liquido cerebro-spinale sono stati proposti per rilevare patogeni nei casi con un elevato sospetto di meningite batterica acuta con PCR negativa [11].
Tutte le linee guida raccomandano che i pazienti con sospetta meningite ricevano antibiotici per via parenterale entro 1 ora. Tuttavia, si è visto che questo si verifica solo nel 46% dei pazienti a causa dei ritardi che si registrano nei reparti di pronto soccorso. Il trattamento della meningite batterica si basa soprattutto sulla terapia antibiotica, pertanto l’identificazione e caratterizzazione del batterio responsabile è importante per orientare la terapia del paziente e per definire se è necessaria la profilassi dei contatti. La scelta dell’antibiotico, inoltre, dovrebbe essere determinata dal grado di rischio del paziente, dalle allergie e dalle linee guida locali, incluse quelle riguardanti l’antibiotico-resistenza. Attualmente, la resistenza alla penicillina in Streptococcus pneumoniae è del 15-20% in alcuni contesti, ma rimane <5% in Neisseria meningitidis. L’incertezza diagnostica porta spesso alla somministrazione di terapie antibiotiche e antivirali prolungate, che possono essere associate a complicanze nosocomiali [12].
Dagli anni Novanta è comune la vaccinazione contro Haemophilus influenzae b, che in Italia rientra tra quelle previste per tutti i nuovi nati. Sono disponibili anche i vaccini contro alcuni sierotipi di pneumococco e alcuni sierogruppi di meningococco. Per quanto riguarda lo pneumococco, in Italia, sono disponibili il vaccino coniugato 10 valente, il vaccino coniugato 13 valente e il vaccino 23 valente polisaccaridico.
Contro il meningococco sono disponibili vaccini coniugati polisaccaridici contro i sierogruppi A, C, W e Y e il vaccino coniugato contro il sierogruppo C, oltre a nuove formulazioni vaccinali proteiche per prevenire le forme invasive da meningococco di sierogruppo B. In caso di focolai epidemici da meningococco C, le raccomandazioni internazionali indicano l’opportunità di rafforzare la vaccinazione nell’area geografica interessata, in particolare quando l’incidenza è superiore a 10 casi per 100.000 abitanti nell’arco di tre mesi [13].
Conclusioni
La meningite batterica acquisita in comunità continua a essere un problema serio nonostante i tanti progressi fatti dalla medicina moderna. L’interazione ospite-patogeno che si instaura nel sistema nervoso centrale ne determina le conseguenze cliniche che sono ampiamente influenzate dalla suscettibilità genetica dell’ospite stesso. L’analisi del liquido cerebrospinale è fondamentale per
diagnosticarla, e la conta dei leucociti rimane il predittore più efficace. I pannelli PCR multiplex sono sempre più utili nella diagnosi mentre il sequenziamento di nuova generazione (NGS) rimane un valido strumento di ricerca. Le persone affette continuano a sperimentare complicazioni significative, tra cui morte e disabilità permanenti. La vaccinazione efficace e accessibile, valida per tutti i sierogruppi, rimane la strategia vincente per arrestarne la diffusione.
1. Kohil A, Jemmieh S, Smatti MK, Yassine HM. Viral meningitis: an overview. Arch Virol [Internet]. 2021;166:335–45. Available from: https://doi.org/10.1007/s00705-020-04891-1
2. WHO. Defeating Meningitis By 2030. Web Page [Internet]. 2019;68. Available from: https://www.who.int/immunization/sage/meetings/2019/april/2_DEFEATING_MENINGITIS_BY_2030_baseline_situation_analysis.pdf?ua=1
3. Boeddha NP, Schlapbach LJ, Driessen GJ, Herberg JA, Rivero-Calle I, Cebey-López M, et al. Mortality and morbidity in community-acquired sepsis in European pediatric intensive care units: A prospective cohort study from the European Childhood Life-threatening Infectious Disease Study (EUCLIDS). Crit Care. 2018;22:1–13.
4. Wall EC, Chan JM, Gil E, Heyderman RS. Acute bacterial meningitis. Curr Opin Neurol. 2021;35:386–95.
5. Koelman DLH, Van Kassel MN, Bijlsma MW, Brouwer MC, Van De Beek D, Van Der Ende A. Changing Epidemiology of Bacterial Meningitis since Introduction of Conjugate Vaccines: 3 Decades of National Meningitis Surveillance in the Netherlands. Clin Infect Dis. 2021;73:E1099–107.
6. Rustenhoven J, Kipnis J. Bypassing the blood-brain barrier. Science (80- ) [Internet]. 2019 [cited 2024 Jun 2];366:1448–9. Available from: https://www.science.org/doi/10.1126/science. aay0479
7. Mukerji R, Briles DE. New Strategy Is Needed to Prevent Pneumococcal Meningitis. Pediatr Infect Dis J. 2020;39:298–304.
8. Ká ň ová E, Tká č ová Z, Bhide K, Kulkarni A, Jiménez-Munguía I, Mertinková P, et al. Transcriptome analysis of human brain microvascular endothelial cells response to Neisseria meningitidis and its antigen MafA using RNA-seq. Sci Rep. 2019;9:1–16.
9. Giridharan V V., Generoso JS, Collodel A, Dominguini D, Faller CJ, Tardin F, et al. Receptor for Advanced Glycation End Products (RAGE) Mediates Cognitive Impairment Triggered by Pneumococcal Meningitis. Neurotherapeutics. 2021;18:640–53.
10. WHO. Who is at risk? - CCMV. Disponibile on line: https://www.cmv.org.au/what-is-cmv/ who-is-at-risk/
11. Wilson MR, Sample HA, Zorn KC, Arevalo S, Yu G, Neuhaus J, et al. HHS Public Access. 2019;380:2327–40.
12. Tenforde MW, Mokomane M, Leeme TB, Tlhako N, Tsholo K, Chebani T, et al. Mortality in adult patients with culture-positive and culture-negative meningitis in the Botswana national meningitis survey: a prevalent cohort study. Lancet Infect Dis [Internet]. 2019 [cited 2024 Jun 2];19:740. Available from: /pmc/articles/PMC7645732/
13. EpiCentro. Meningite, malattie batteriche invasive (sepsi e meningiti). 2020; Disponibile on line: https://www.epicentro.iss.it/meningite/
La determinazione di biomarcatori circolanti che coadiuvano la diagnosi della SM potrebbe migliorare la gestione clinica dei pazienti
Teresa Delle Cave *, Rosanna Sansone *, Annarita Lametta *, Antonella Guastaferro *, Luca Musella * , Gabriella Auriemma *, Sara Varriale *, Giuseppina D’Ausilio * , Daniela Terracciano *
La sclerosi multipla (SM) è una malattia neurodegenerativa autoimmune che colpisce il sistema nervoso centrale causando disabilità e disfunzioni neurologiche1. L’inizio tempestivo della terapia può migliorare la prognosi e ridurre l’insorgenza di danni neurologici, con conseguente miglioramento della qualità della vita e riduzione dei costi a carico del Sistema Sanitario Nazionale. In questo contesto è di fondamentale importanza la diagnosi precoce della SM.
Attualmente, la diagnosi della SM risulta particolarmente difficile a causa dell’elevata variabilità dei sintomi di esordio che si configurano in quadri clinici di complessa interpretazione (Figura 1). Per tale motivo, la determinazione di biomarcatori circolanti che coadiuvino la diagnosi della SM potrebbe migliorare la gestione clinica dei pazienti. I neurofilamenti (Nfs), proteine presenti nel sistema nervoso centrale, assicurano l’integrità strutturale delle cellule nervose e rivestono un ruolo fondamentale nel garantire la corretta conduzione degli impulsi elettrici lungo gli assoni. Sono costituiti da eteropolimeri composti da diverse subunità, tra cui una catena leggera (NfL), una catena media (NfM), una catena pesante (NfH) e l’ α -internexina ( α -int)2,3. In condizioni fisiologiche, si osserva un costante rilascio di bassi livelli di NfL da parte
* Dipartimento di Scienze Mediche Traslazionali, Università degli studi di Napoli Federico II
degli assoni e tale rilascio incrementa nei soggetti di età avanzata, in parte a causa di cambiamenti strutturali e alla perdita di neuroni, nonché alle modificazioni metaboliche. Tuttavia, in presenza di un danno assonale o degenerazione neuronale, si verifica un significativo rilascio di NfL nel liquido cerebrospinale (CSF), seguito dalla sua diffusione nel sangue3. Il danno e la perdita di fibre nervose rappresentano il fondamento patologico di numerose malattie neurodegenerative, sia acute che croniche, che spesso portano a disabilità permanente, come la sclerosi multipla. Avere la capacità di rilevare tempestivamente e seguire questo danno è di fondamentale importanza per valutare l’attività della malattia, monitorare l’efficacia dei trattamenti e prevedere l’andamento clinico. Per questo motivo si ricercano biomarcatori che possano riflettere in modo preciso il danno neuroassonale. I neurofilamenti, in particolare la catena leggera, sembrano candidati promettenti poiché sono esclusivamente espressi nei neuroni e mostrano livelli anomali in molte patologie neurodegenerative. In particolare, nella sclerosi multipla si è osservato che la concentrazione di NfL nel CSF aumenta sia nella sua prima presentazione clinica, sia in caso di malattia conclamata. In entrambe queste condizioni, i NfL nel CSF possono essere utilizzati con elevata precisione per distinguere i pazienti dai controlli privi di malattie neurologiche. Risultati simili sono stati riportati anche per il NfL nel sangue. L’utilizzo di immunodosaggi di seconda generazione ha rivelato tre aspetti chiave correlati alla SM che influenzano i livelli di NfL nel liquor: il grado di disa -
Figura 1: sintomi più comuni della sclerosi multipla. La figura è stata realizzata utilizzando componenti rilasciate da Servier Medical Creative Commons Attribution 3.0.
bilità, l’attività della malattia e il tempo trascorso dall’ultima ricaduta nei pazienti con SM recidivante-remittente. Inoltre, si è riscontrata una riduzione dei livelli di NfL in CSF in risposta a trattamenti per la SM come natalizumab, mitoxantrone, fingolimod e rituximab, suggerendo che i NfL possano essere utilizzati come indicatori per monitorare l’efficacia terapeutica nella gestione della SM. L’utilizzo del liquido cerebrospinale per misurare i livelli di NfL nei pazienti con disturbi neurologici è una procedura invasiva e poco pratica per il monitoraggio continuo. L’obiettivo è quindi, trovare biomarcatori ematici alternativi che siano facili da prelevare, a basso costo e che consentano misurazioni ripetute. Un vantaggio cruciale dei NfL rispetto ad altri biomarcatori ematici è la forte correlazione che mostrano con i livelli di NfL nel liquor. Ciò suggerisce che i NfL nel sangue possano riflettere la fisiopatologia del sistema nervoso centrale, con una interferenza periferica trascurabile. Potrebbe essere interes -
sante valutare l’utilità dei livelli di neurofilamenti nel plasma (pNfL) nei pazienti affetti da sclerosi multipla come biomarcatore non invasivo per la caratterizzazione e il monitoraggio dell’evoluzione clinica della malattia. Tramite l’utilizzo di un sistema automatizzato in chemiluminescenza, è possibile misurare i livelli di catena leggera dei neurofilamenti plasmatici (pNfL) in campioni ottenuti da pazienti con SM sottoposti a prelievo ematico. Questo approccio permetterebbe di valutare l’associazione tra i livelli di pNfL e l’attività clinica o radiologica della malattia. Inoltre, è plausibile che i fattori di rischio cardiovascolare concomitanti, che contribuiscono al danneggiamento neuroassonale a lungo termine e alla progressione clinica, possano essere correlati ai livelli di pNfL. In questo contesto, la determinazione dei NfL circolanti potrebbe costituire la nuova frontiera nella gestione clinica dei pazienti affetti da MS, dalla diagnosi al follow-up.
1. Compston A, Coles A. Multiple sclerosis. Lancet. 2008 Oct 25;372(9648):1502-17. doi: 10.1016/S0140-6736(08)61620-7. PMID: 18970977.3. Gaetani, L., Blennow, K., Calabresi, P., Di Filippo, M., Parnetti, L., &
2. Zetterberg, H. (2019). Neurofilament light chain as a biomarker in neurological disorders. Journal of Neurology, Neurosurgery, and Psychiatry, 90, 870–881. doi:10.1136/jnnp-2018320106.
3. Khalil, M., Teunissen, C. E., Otto, M., Piehl, F., Sormani, M. P., Gattringer, T., Barro, C., Kappos, L., Comabella, M., Fazekas, F., Petzold, A., Blennow, K., Zetterberg, H., & Kuhle, J. "Neurofilaments as biomarkers in neurological disorders.
Disturbi d’ansia, iperattività, fino all’autismo possono essere legati in qualche modo all’interazione con l’intestino: i dati di una review italiana di 22 studi internazionali
di Cinzia Boschiero
Ha riscosso notevole interesse una revisione italiana presentata durante il XXXI Congresso SIGENP (Società Italiana di Gastroenterologia, Epatologia e Nutrizione Pediatrica) a Palermo. Da diversi studi scientifici è confermato che esista un asse microbiota - intestino - cervello che, partendo dall’infanzia, influenzi lo sviluppo e diverse funzioni dell’organismo per tutta la vita.
Proprio per questo un gruppo di ricercatori appartenenti alla SIGENP, Società Italiana di Gastroenterologia Epatologia e Nutrizione Pediatrica, hanno analizzato in modo approfondito i risultati delle ricerche internazionali e degli studi condotti sulla relazione tra i disturbi del comportamento dei bambini e il loro microbiota intestinale. Per microbiota si intende il mix di batteri ospitati dall’intestino. Scopo dello studio è stato quello di valutare i dati esistenti in letteratura scientifica su questo argomento.
La ricerca, terminata lo scorso aprile, ha considerato 631 pubblicazioni e 22 studi scientifici originali, dimostrando un’associazione frequente tra microbiota intestinale e disordini del neurosviluppo in età pediatrica. Nei disturbi da deficit di attenzione, iperattività, stati d’ansia sono state riportate disbiosi, cioè stati di squilibrio del microbiota intestinale, con una riduzione di alcuni ceppi di microorganismi, in particolare Faecalibacterium e Prevotella e un aumento di Bacteroides.
“Fino a pochi anni fa le scienze biomediche consideravano il microbiota un insieme di microrganismi con solo funzioni difensive intestinali senza attribuire loro altri effetti specifici,” sottolinea Silvia Salvatore, Professoressa Associato di Pediatria dell’Università dell’Insubria, Varese,”Attual-
mente, grazie allo sviluppo della tecnologia, sappiamo che questo complesso sistema svolge un ruolo imprescindibile per molti aspetti e sono stati chiamati in causa anche per alcuni disturbi dell’umore e del comportamento”.
Il microbiota ha una massa totale di circa un chilogrammo, è formato da diverse specie ed è presente in tutte le superfici interne ed esterne del corpo umano, con maggiore concentrazione nell’intestino tenue e del colon. Ma come può influire su comportamenti come deficit di attenzione, iperattività, stati d’ansia nei bambini? “Sappiamo ora che alcune sostanze, come molecole infiammatorie e neurotrasmettitori, come la serotonina e la dopamina, per esempio, possono essere sintetizzate e modulate da microorganismi che fanno parte del microbiota intestinale”; spiega la prof. ssa Salvatore,” C’è una comunicazione continua e bidirezionale tra il cervello e l’intestino, e, per la ricchezza di cellule e fibre nervose, il microbiota intestinale viene chiamato anche secondo cervello”.
Dalla revisione sistematica dei dati riportati da studi internazionali su pazienti in età pediatrica è emerso che alterazioni del microbiota intestinale sono spesso presenti nei bambini con disturbi del neurosviluppo e dell’umore: tuttavia, per la prima volta, viene sottolineato che, ad oggi, i risultati sono molto eterogenei e non ancora conclusivi per quanto riguarda i metodi di valutazione del microbiota intestinale, il gruppo di bambini considerati e gli interventi effettuati, sia di tipo nutrizionale sia di utilizzo di probiotici.
“Questa osservazione”, evidenzia il prof. Claudio Romano, presidente di SIGENP,”serve per chiarire che l’alterazione del microbiota può avere un ruolo nell’obesità,
nelle malattie infiammatorie croniche, nella celiachia ma anche nelle forme di ansia, depressione fino a una possibile coinvolgimento nei disturbi del neurosviluppo”. Il microbiota può influenzare i comportamenti sociali attraverso la produzione di sostanze, molecole e specifici circuiti neuronali che mediano la gestione psicofisica dello stress e quindi i comportamenti umani.
Mantenerne l’equilibrio quindi può essere importante anche per la psiche e per la vita di relazione. I bambini con disturbi dello spettro autistico spesso hanno problemi di alimentazione e presentano diete molto selettive che determinano l’alterazione del loro ecosistema intestinale. Come fare per mantenerlo in salute? “I primi nemici del microbiota sono gli antibiotici: vanno assunti con cautela, solo quando prescritti e secondo le indicazioni del medico curante,” ribadisce la prof.ssa Salvatore, ”Quotidianamente influenziamo il nostro microbiota attraverso la dieta.
Limitare cibi industriali, prodotti confezionati, carboidrati raffinati, zuccheri semplici e seguire una dieta salutare, come quella mediterranea, sono fondamentali per il benessere psicofisico, già dalle prime fasi di crescita in età pediatrica. A maggior ragione, ora che sappiamo quanto un microbiota sano, equilibrato, composto da microorganismi ‘buoni’ sia importante per modulare il comportamento”. Sono numerosi gli studi su microbioma e microbiota che hanno implicazioni cliniche in pediatria.
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Il microbiota nel primo anno di vita è diverso da quello di un adulto a causa di una complessità batterica e stabilità della specie. Dai 18 mesi in poi si forma e si stabilizza. L’insieme dei microorganismi che costituiscono il microbiota intestinale, un tempo denominato flora intestinale, svolge un ruolo fondamentale nella salute umana soprattutto per lo sviluppo del sistema immunitario del neonato, agendo come barriera contro i patogeni (es. virus, batteri e funghi).
Quando l’equilibrio da loro garantito (definito eubiosi o normobiosi) viene perturbato si innesca un processo di alterazione del microbiota (definito disbiosi) che gioca un ruolo centrale nell’insorgenza e progressione di molte malattie, compresa l’obesità, gli stati allergici, le malattie infiammatorie intestinali e le alterazioni metaboliche.
Anche l’ecologia microbica è fortemente dipendente dagli stimoli esterni, rappresentati prevalentemente da cibo, modalità di parto, etc., fattori che tutti insieme costituiscono l’esposoma. Durante il periodo di allattamento
e svezzamento del bambino l’ampio sistema di batteri del microbiota è soggetto a oscillazioni che danno origine a un’alta variazione nella composizione e funzione.
L’allattamento materno potenzia fortemente il numero delle cosiddette specie buone, come Lattobacilli e Bifidobatteri. Con l’introduzione di cibo solido nella dieta del bambino (svezzamento) comincia tutta una serie di attività metaboliche più complesse, che possono essere evidenziate mediante tecnologie omiche (tecnologie di analisi che consentono la produzione di informazioni, dati, in numero molto elevato e nello stesso intervallo di tempo) quali la metabolica e la proteomica.
La nutrizione è molto importante per il mantenimento del microbiota sano e per la sua corretta modulazione. Una tipologia sana di alimentazione è la dieta cosiddetta mediterranea, ricca di apporti nutritivi molto importanti che facilitano tutte quelle componenti microbiche che hanno un metabolismo altamente positivo per l’ospite (bassa somministrazione di grassi saturi, un buon apporto di carboidrati e un contenuto apporto proteico).
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Alternativamente, anche quando l’alimentazione è supportata da probiotici o prebiotici, si possono avere delle ricadute positive sul microbiota, anche in età infantile. La somministrazione dei probiotici deve essere ora considerata in una nuova veste, e, cioè, come una conseguenza del profilo del microbiota intestinale, ossia in termini di medicina personalizzata del microbiota. Il microbiota materno svolge un ruolo cruciale nel processo di crescita e cognitivo dei bambini nei primi mille giorni di vita insieme al tipo di allattamento ricevuto.
Sempre più studi confermano l’esistenza di un asse bidirezionale intestino-microbiota-cervello capace di influenzare, attraverso i neurotrasmettitori e non solo, il sistema cognitivo e la patogenesi/sintomatologia di pazienti affetti da patologie neurologiche. Un team di studiosi dell’Istituto Giannina Gaslini di Genova nel 2022 aveva presentato dei dati sullo studio del microbiota di diversi bambini attraverso nuove metodologie di sequenziamento e tramite l’elaborazione di nuovi questionari alimentari che potrebbero aiutare ad avere nuovi strumenti predittivi ed a correlare il microbiota intestinale e l’asse bidirezionale intestino-cervello con l’alimentazione.
Il team aveva trattato l’importanza del microbiota intestinale e del suo ruolo nelle principali malattie neurologiche/neuropsichiatriche dell’età pediatrica ed era formato da Antonella Riva e Pasquale Striano, Neurologia
Pediatrica e Malattie Muscolari, IRCCS Istituto Giannina Gaslini di Genova; Isabel Venara, Dipartimento di Scienze Agrarie, Forestali e Biotecnologie alimentari, Università di Torino; Mattia Grasso, Sara Casalini, Dipartimento di Neuroscienze, Riabilitazione, Oftalmologia, Genetica e Scienze Materno-Infantili, Università di Genova; Chiara Panicucci e Claudio Bruno, Centro di Miologia Traslazionale e Sperimentale, IRCCS Istituto Giannina Gaslini, Genova. Secondo uno studio su Nature, il microbiota intestinale nella prima infanzia cambia in tre fasi.
Il modo in cui il microbiota intestinale muta nel tempo è poco conosciuto, ma questa ricerca ha analizzato oltre 12.000 campioni di feci di circa 900 bambini di età compresa tra 3 e 46 mesi, ed ha identificato tre fasi distinte della progressione del microbioma: fase di sviluppo (3-14 mesi di età), fase di transizione (15-30 mesi) e fase stabile (31 mesi in poi). Si ha dunque una immagine più dettagliata di come si sviluppi il microbiota intestinale in età precoce, in particolare in relazione al diabete di tipo 1, e si aprono nuove strade per indagare il ruolo dei microbi intestinali negli stati di salute e malattia anche in età pediatrica.
Lo studio, condotto da Christopher Stewart del Baylor College of Medicine, a Houston, in Texas, ha indicato che l’allattamento al seno è associato a livelli più elevati di Bifidobatteri, mentre lo svezzamento porta a un aumento della diversità microbica. La nascita vaginale è associata a un aumento di Bacteroides, mentre altri fattori, come la convivenza con fratelli o animali domestici, influenzano i profili del microbiota intestinale.
Lo studio Environmental Determinants of Diabetes in the Young (TEDDY) è il più grande studio clinico sul microbioma infantile fino a oggi. Per dieci anni i ricercatori hanno raccolto campioni da sei centri clinici in Europa e negli Stati Uniti, per determinare che cosa scateni il diabete di tipo 1 nei bambini ad alto rischio genetico per la malattia.
Oltre alle pratiche di alimentazione, anche la modalità di nascita è stata associata a cambiamenti nella composizione del microbiota durante il primo anno di vita. Altri fattori sono stati associati a differenze nel microbiota in-
testinale della prima infanzia e un ruolo importante lo ha l’allattamento.
All’ultimo congresso della Società Italiana di Gastroenterologia Epatologia e Nutrizione Pediatrica (SIGENP) tenutosi a Palermo a fine settembre quindi i risultati preliminari di una revisione sistematica della letteratura scientifica internazionale di studi pediatrici sulla possibile associazione e relazione tra microbiota intestinale e comportamento ha riscosso molto interesse perché il tema è assai rilevante per la salute in età pediatrica ed è stato molto dibattuto negli anni.
La Professoressa Silvia Salvatore, Professore Associato di Pediatria dell’Università dell’Insubria di Varese, coordinatore della revisione e membro dello Special Interest Group sul Microbiota Intestinale della Società Europea di Gastreoenterologia Epatologia e Nutrizione Pediatrica (ESPGHAN) sottolinea: “Ci sono attualmente centinaia di studi pubblicati sull’ asse microbiota-intestino-cervello. L’intestino, per la ricchezza di neuroni, fibre intestinali e molecole con effetto sul sistema nervoso, è chiamato anche secondo cervello.
Con l’encefalo e il sistema nervoso il sistema gastrointestinale ha in atto una comunicazione continua, bidirezionale, che permette degli scambi di informazioni e di messaggi che regolano moltissime funzioni. Il microbiota intestinale è, a sua volta, un ecosistema complesso ma fondamentale per il nostro benessere. E’ composto da moltissime specie di microorganismi (batteri, ma anche virus e funghi) che hanno azioni di tipo metabolico, immunologico, difensivo e regolatorio della permeabilità intestinale e dell’infiammazione.
Domanda: cosa è emerso? “Negli ultimi anni,” dice la professoressa Silvia Salvatore,” è emerso come il microbiota possa produrre diverse molecole e citochine ad azione locale intestinale ma anche extraintestinale, acidi grassi a catena corta (come l’acido butirrico), neuromodulatori e neurotrasmettitori, come la serotonina e la dopamina, l’ossitocina, l’acido gamma aminobutirrico (GABA) che possono regolare l’umore e il comportamento, la nostra risposta allo stress e al dolore”. Domanda: da cosa è influenzato il microbiota?
“Il microbiota”, dice la professoressa Silvia Salvatore,”è influenzato da diversi fattori ambientali e subisce delle variazioni, spesso transitorie, già dalle prime epoche di vita, dipendenti soprattutto dal tipo di parto, dalla dieta, dalle infezioni e dall’utilizzo di farmaci (antibiotici ma anche acido-inibitori).
La presenza di disbiosi (cioè di un’alterazione dell’equilibrio del microbiota) è stata
rilevata in diversi studi pediatrici che hanno incluso bambini con disordini del neurosviluppo e dell’umore. Scopo del nostro studio è quello di aggiornale e fornire un approfondimento clinico dei dati scientifici esistenti sul rapporto tra microbiota intestinale e comportamento in età pediatrica”.
Domanda: La vostra revisione sistematica della letteratura è stata svolta in collaborazione con due medici dell’Università di Bruxelles? Risposta:”Sì, e abbiamo seguito il metodo PRISMA attualmente raccomandato per questo tipo di ricerca, usando i database PubMed, Web of Science e Cochrane e i termini (MESH) Microbiota e Comportamento, limitati all’età pediatrica (0-18 anni) e alla lingua inglese e aggiornata a maggio 2024.
Dei 631 risultati ottenuti, abbiamo considerato solo gli studi originali e 22 articoli sono risultati elegibili e inclusi nell’analisi perché rispettavano i criteri impostati per la ricerca. La maggior parte degli studi sono osservazionali con disegno trasversale e analisi della composizione del microbiota in relazione al comportamento sociale o ai disturbi di umore di un gruppo di bambini. Solo pochi studi hanno valutato prospetticamente l’effetto a livello di comportamento di un intervento (dietetico o di supplementazione di probiotici) sul microbiota. Alcuni lavori hanno evidenziato una significativa differenza di composizione del microbiota tra il gruppo di bambini con disturbi dello spettro autistico o di deficit di attenzione o problemi di depressione e il gruppo controllo.
In particolare è emersa una minore ricchezza e diversità (alfa e beta) del microbiota, un aumento di Batterio-
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idi e una riduzione dei batteri (come Faecalibacterium e Prevotella) che producono acidi grassi a catena corta nei bambini con disturbi del comportamento e dell’umore.
Domanda: Tuttavia, va sottolineato come ci sia, tra i diversi studi, molta variabilità e discrepanza nei metodi di identificazione del microbiota, nell’età dei bambini considerati, nel gruppo di controllo incluso, nel tipo di dieta, nella presenza o assenza di sintomi gastrointestinali, nell’intervento considerato e nei risultati esaminati, è così?
Risposta:”Sì e ci sono inoltre diversi studi con limiti metodologici importanti, con incompleta raccolta di dati e con analisi dei risultati che spesso non considera tutte le possibili variabili confondenti,” spiega la professoressa Silvia Salvatore,”Ciò è da tenere particolarmente presente per l’interpretazione dei risultati dal momento che è noto come la presenza di disturbi gastrointestinali come la stipsi o il colon irritabile si associ frequentemente ad una disbiosi anche in soggetti senza disturbi di comportamento.
Inoltre, i bambini con disturbi dello spettro autistico difficilmente riescono ad assumere un’alimentazione varia ed equilibrata, presentando spesso problemi anche del comportamento alimentare con appetito selettivo verso particolari cibi o diete di eliminazione.
Evidenziare quindi una ridotta ricchezza e diversità del microbiota in questo gruppo di bambini rispetto ad un gruppo controllo di pari età che si nutrono normalmente, non dimostra pertanto una relazione causale tra il microbiota intestinale e le alterazioni del comportamento ma potrebbe essere una conseguenza correlata alle differenze di alimenti assunti.
Infine, la differenza di metodi utilizzati per l’analisi del microbiota non consente né una definizione precisa di specie e ceppi di microrganismi coinvolti né dei metaboliti da questi prodotti né un confronto accurato tra i diversi studi”.
Domanda: pertanto al momento non c’è accordo su quale sia il metodo ottimale di valutazione del microbiota o su quale deve essere la composizione ideale dei microrganismi intestinali nelle diverse età pediatriche o su eventuali implicazioni future sul comportamento e l’umore dei bambini? Risposta: ”E’ così, pur essendoci quindi dimostrazione di un ruolo importante della comunicazione continua tra intestino e cervello, non sono al momento raccomandati test di analisi del microbiota intestinale e i risultati clinici osservazionali e di intervento sono ancora estremamente eterogeni e controversi” evidenzia la professoressa Silvia Salvatore.
Già uno studio del febbraio 2022 sullo sviluppo del microbiota intestinale in bambini sani nei primi dieci anni di vita aveva evidenziato associazioni con comportamenti internalizzanti ed esternalizzanti. Prove crescenti indicano che i disturbi psicopatologici sono associati al microbiota intestinale. Tuttavia, mancano in gran parte i dati relativi alle coorti di nascita longitudinali a lungo termine, in particolare quelle che comprendono individui sani a basso rischio.
Pertanto, questo studio ha descritto lo sviluppo del microbiota intestinale in bambini sani dalla nascita fino all’età di 10 anni, ed ha indagato le potenziali associazioni con il comportamento internalizzante ed esternalizzante.
Il cammino è ancora lungo.
1 .Riva A, Venara I, Grasso M, Casalini S, Panicucci C, Bruno C, Striano P. “Microbiota e patologie neurologiche in età pediatrica: ruolo e sviluppi futuri” AreaPed 2022;23(4):174-180. doi 10.1725/3942.39252
2.“Temporal development of the gut microbiome in early childhood from the TEDDY study” - Christopher J. Stewart, Nadim J. Ajami, Jacqueline L. O’Brien, Diane S. Hutchinson, Daniel P. Smith, Matthew C. Wong, Matthew C. Ross, Richard E. Lloyd, HarshaVardhan Doddapaneni, Ginger A. Metcalf, Donna Muzny, Richard A. Gibbs, Tommi Vatanen, Curtis Huttenhower, Ramnik J. Xavier, Marian Rewers, William Hagopian, Jorma Toppari, Anette-G. Ziegler, Jin-Xiong She, Beena Akolkar, Ake Lernmark, Heikki Hyoty, Kendra Vehik, Jeffrey P. Krischer & Joseph F. Petrosino Nature volume 562, pages 583–588 (2018)
3.Development of the gut microbiota in healthy children in the first ten years of life: associations with internalizing and externalizing behavior, February 2022
Yangwenshan Ou, Clara Belzer, Hauke Smidt, Carolina de Weerth
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Il termine microbiota definisce l’intera comunità microbica (inclusi commensali, mutualistici o patogeni) che abitano un dato habitat; in questo senso, il microbiota intestinale si riferisce all’insieme di microrganismi (cioè Archea, Bacteria, Eukarya e virus) che risiedono nel tratto gastrointestinale (GI).
Miliardi di microrganismi simbionti popolano l’intestino umano, presiedendo a funzioni strutturali (Heintz-Buschart et al., 2018), protettive (Chiu et al., 2017), neurologiche e metaboliche, instaurando una relazione così intima e intricata che dà origine a un’unità chiamata olobionte (Rinninella et al., 2019).
Il microbiota intestinale viene acquisito alla nascita ed è caratterizzato da una grande instabilità in termini di struttura e composizione nel corso dell’infanzia (Koenig et al., 2011). Dopo l’infanzia, il microbiota intestinale, pur mantenendo un comportamento molto dinamico, inizia a differenziarsi in una struttura più definita (Bäckhed et al., 2015). Infatti, il microbiota intestinale degli adulti è caratterizzato da una composizione quasi costante di quelle specie microbiche che sono più avvantaggiate nel microambiente intestinale (Lozupone et al., 2019).
Ad esempio, i batteri del microbiota intestinale più rappresentati appartengono ai phyla Firmicutes, Bacteroidetes, Actinobacteria, Fusobacteria, Proteobacteria, Verrucomicrobia e Cyanobacteria, dove Firmicutes e Bacteroidetes costituiscono più del 90%. È degno di nota che il rapporto Firmicutes/ Bacteroidetes svolga un ruolo chiave nell’influenzare l’omeostasi intestinale. Infatti, la variazione del rapporto Firmicutes/ Bacteroides è fortemente associata alla disbiosi intestinale e alle
* Dipartimento di Scienze, Università degli Studi Roma Tre.
malattie ad essa associate, inclusi l’obesità e i disturbi infiammatori intestinali (Stojanov et al., 2020).
Tuttavia, l’abbondanza relativa dei phyla batterici e/o la colonizzazione da parte di altri microrganismi possono variare notevolmente a seconda di tutti i fattori capaci di influenzare i parametri del microambiente intestinale (ad esempio, pH, livelli di ossigeno, temperatura, disponibilità di nutrienti).
Questi fattori includono le abitudini alimentari, l’età, le terapie farmacologiche (ad es., antibiotici), la genetica dell’ospite, la posizione geografica dell’ospite, le patologie, lo stile di vita e lo stress ambientale, e giustificano le alte variazioni nel tempo intra-individuali e la diversificazione inter-individuale. Rispetto ai microbiota che colonizzano altre sedi corporee (ad esempio, mucosa orale, vagina e pelle), il microbiota intestinale è il principale oggetto di interesse dei ricercatori a causa della sua maggiore rilevanza clinica (Gomaa et al., 2020).
Infatti, studi hanno dimostrato che l’equilibrio tra lo stato di salute e l’insorgenza di uno stato di malattia è fortemente influenzato dalla composizione del microbiota, particolarmente dall’equilibrio tra le diverse specie e dalla predominanza di alcune di esse. Nonostante le difficoltà nel definire una composizione standard di un microbiota “sano”, a causa della grande variabilità legata a fattori dell’ospite e ambientali, diversi studi riportano una forte correlazione tra disbiosi intestinale, che porta a una diminuzione della diversità microbica, e l’insorgenza di varie condizioni patologiche.
Queste includono disturbi infiammatori e metabolici, obesità e diabete di tipo II, ma la disbiosi intestinale è stata anche associata alla promozione di alcuni tipi di cancro, incluso il cancro colorettale, così come a disturbi neurologici e neuropsichiatrici, inclusa la malattia di Alzheimer e la de-
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pressione maggiore, attraverso la compromissione dell’omeostasi dell’asse intestino-cervello. Viceversa, molte patologie sono spesso associate allo sviluppo di disbiosi intestinale, che spesso aggrava le conseguenze della malattia.
Grandi sforzi sono stati compiuti e sono ancora in corso per definire i fattori che influenzano la composizione altamente dinamica del microbiota intestinale umano e per comprendere meglio il suo ruolo nella salute e nella malattia. Sulla base di questi, gli interventi terapeutici volti a ripristinare l’instaurazione di un microbiota intestinale promuovente la salute potrebbero essere utili per la prevenzione e il trattamento della disbiosi intestinale. Diverse strategie, che vanno dall’uso di probiotici, prebiotici e composti farmaceutici a approcci non farmacologici, come il trapianto di microbiota fecale, hanno dimostrato di essere efficaci nel modulare positivamente il microbiota.
È importante notare che un’area che ha guadagnato crescente interesse negli ultimi anni è il ruolo dei prebiotici in questi processi. I prebiotici sono un gruppo di molecole non digeribili derivate da fonti alimentari che sono fermentate selettivamente dai probiotici, microrganismi intestinali benefici per la salute (ad es., generi Bifidobacterium e Lactobacillus), stimolando la loro crescita e inducendo cambiamenti benefici nella composizione del microbiota intestinale; è importante sottolineare che i loro effetti nel mantenere un rapporto ottimale Firmicutes/Bacteroides sono ben documentati.
In questo contesto, il latte e i suoi componenti bioattivi sono stati a lungo studiati per il loro potenziale come prebiotici. Infatti, a causa del suo contenuto di molecole bioattive, inclusi proteine, lipidi e oligosaccaridi, il latte è considerato un alimento funzionale le cui attività antimicrobiche, im-
munologiche e antitumorali sono state ampiamente studiate e sfruttate nei campi nutraceutico e biomedico per supportare il trattamento e la prevenzione delle malattie (Neri-Numa et al., 2020; Huang et al., 2023).
Il microbiota intestinale dei neonati si sviluppa alla nascita e il latte materno gioca un ruolo chiave in questo processo. Diversi studi hanno collegato i cambiamenti nelle abitudini alimentari durante la gravidanza ad importanti alterazioni nel microbiota intestinale materno e in quello infantile (Manoppo et al., 2022), e studi metagenomici hanno dimostrato una marcata differenza tra il microbiota intestinale dei neonati allattati al seno e quelli alimentati con formula (Yatsunenko et al., 2012). Risultati da diversi studi indicano che il microbiota dei neonati allattati al seno è meno diversificato ma consiste principalmente in batteri benefici per la salute come bifidobatteri, lattobacilli e stafilococchi.
Oltre al ruolo esercitato dal proprio microbiota, che contribuisce a una sana diversificazione microbica del microbiota intestinale dei neonati, i componenti bioattivi del latte, specialmente gli oligosaccaridi e le proteine del siero come la lattoferrina, il lisozima e l’α-lattalbumina, hanno dimostrato di svolgere un ruolo cruciale nel plasmare il microbiota intestinale dalla nascita all’età adulta. Infatti, è stato dimostrato il ruolo dei costituenti del latte umano e bovino nella promozione della crescita di batteri probiotici benefici, inclusi B. infantis, B. Pennsylvanicus, B. longum, B. bifidum e B. breve.
In questo articolo è stata revisionata la letteratura più significativa sul ruolo degli oligosaccaridi e di alcune delle principali proteine del siero del latte nell’influenzare e modulare la composizione del microbiota intestinale nei neonati e nel corso della vita. Verrà valutato l’impatto dei cambiamenti del microbiota mediati da queste molecole bioattive del latte sulla salute. Questo articolo si propone di fornire e diffondere conoscenze aggiornate su questo promettente campo di ricerca e di sensibilizzare sui principali limiti attuali.
Ciò potrebbe essere utile per stimolare ulteriori ricerche volte a migliorare la nostra comprensione degli effetti prebiotici di queste molecole, dei meccanismi d’azione sottostanti e dei loro potenziali effetti benefici sulla salute, e per aprire la possibilità di utilizzare queste molecole, da sole o in sinergia con altri farmaci, come agenti terapeutici per trattare e/o adiuvare il trattamento della disbiosi intestinale e delle malattie ad esso associate.
2. Attività Prebiotica degli Oligosaccaridi del Latte
Il latte è composto da tre principali classi strutturali di
oligosaccaridi: fucosilati, non fucosilati neutri e sialilati, che sono composti da cinque residui di zucchero con un grado variabile di polimerizzazione. Il latte umano ha un contenuto di oligosaccaridi superiore rispetto al latte vaccino, che è circa 20 volte inferiore; inoltre, le specie fucosilate e neutre sono predominanti nel latte umano, mentre le specie sialilate sono più abbondanti nel latte vaccino.
Due principali meccanismi sono stati associati alla modulazione del microbiota intestinale da parte degli oligosaccaridi del latte (MOs) (De Leoz et al., 2015). Il primo meccanismo è legato a un’attività prebiotica diretta degli MOs, che hanno dimostrato di promuovere selettivamente la crescita di determinati ceppi di Bifidobacterium, inclusi B. infantis, B. breve e B. bifidum, così come alcune specie di Lactobacillus.
Inoltre, studi in vitro hanno mostrato che le differenze strutturali negli MOs sono responsabili della loro utilizzazione selettiva da parte dei batteri del microbiota intestinale. Il secondo meccanismo è legato all’inibizione della colonizzazione da parte di vari patogeni enterici, inclusi Vibrio cholerae, Salmonella fyris, Campylobacter jejuni, Clostridioides difficile e vari ceppi di Escherichia coli, impedendo l’adesione epiteliale. Infatti, studi hanno dimostrato la capacità degli MOs, in particolare di quelli appartenenti alla classe fucosilata, di competere con i patogeni per legarsi ai recettori delle cellule ospiti e di sequestrare i patogeni agendo come analoghi liberi dei recettori delle cellule ospiti (Coppa et al., 2006).
Oltre a un ruolo protettivo contro diversi patogeni enterici, studi suggeriscono che gli effetti degli MOs sul microbiota intestinale possono portare a una modulazione del sistema immunitario, riducendo il rischio di allergie, asma e malattie infiammatorie (Singh et al. 2022). Infatti, è stato dimostrato che una carenza di bifidobatteri, e quindi dei geni richiesti per il metabolismo degli MOs, è correlata a infiammazione sistemica e disregolazione del sistema immunitario nei neonati.
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Inoltre, gli MOs hanno dimostrato di essere importanti substrati per la produzione di acidi grassi a catena corta, in particolare butirrato, che è mediato da un’interazione tra bifidobatteri e batteri produttori di butirrato (Rivière et al., 2016).
Questo ha profonde implicazioni per la salute, poiché il butirrato gioca un ruolo critico nel mantenere la barriera mucosale intestinale e nel modulare il sistema immunitario dei neonati e degli adulti. Inoltre, l’effetto bifidogeno degli MOs è importante per la produzione di altri metaboliti promotori della salute, inclusi il neurotrasmettitore GABA e l’acido indolo-3-lattico, che è coinvolto nell’attivazione del recettore degli idrocarburi aromatici, un regolatore dell’asse intestino-cervello, dell’omeostasi intestinale e della risposta immunitaria. Tuttavia, negli adulti, i livelli di bifidobatteri diminuiscono notevolmente (fino al 90%) e questo è stato dimostrato essere correlato all’insorgenza di varie malattie e disturbi GI, inclusi quelli associati a cambiamenti nella permeabilità intestinale (intestino permeabile).
In questo contesto, sono stati condotti studi in vitro e trial clinici per valutare gli effetti degli MOs nella modulazione del microbiota intestinale degli adulti, nel tentativo di sfruttare queste molecole come terapie per il ripristino di un intestino più sano.
I risultati da questi studi evidenziano gli effetti benefici degli HMOs, suggerendo il loro potenziale nel supportare il ripristino di un microbiota intestinale sano sia nell’infante che nell’adulto (Šuligoj et al., 2020; Elison et al., 2016; Iribarren et al., 2021). I risultati hanno inoltre mostrato che le differenze di composizione del microbiota dipendenti dall’età, specialmente in termini di ceppi di Bifidobacterium, influenzano fortemente l’utilizzo degli HMOs e la risposta individuale al trattamento, suggerendo che lo sviluppo di integratori nutrizionali specifici per l’età utilizzando HMOs potrebbe massimizzare i loro effetti benefici (Bajic et al. 2023).
3. Attività Prebiotica delle Proteine del Siero del latte.
Il latte contiene due classi principali di proteine: caseine e proteine del siero. Le proteine del siero del latte umano includono α-lattalbumina, immunoglobuline, albumina sierica, lattoferrina, glicomacropeptide, lattoperossidasi e lisozima. Il latte bovino si differenzia da quello umano per la presenza di β-lattoglobulina e per livelli inferiori di α-lattalbumina.
Le proteine del siero esercitano diverse funzioni, tra cui quelle antiossidanti, antitumorali, antimicrobiche, antinfiammatorie e immunomodulatorie.
Inoltre, evidenze suggeriscono un ruolo benefico delle proteine del siero nella mo-
dulazione positiva del microbiota intestinale sia nei neonati che negli adulti.
La lattoferrina è una glicoproteina legante il ferro di 80 kDa, caricata positivamente, che appartiene alla superfamiglia delle transferrine ed è presente in alte concentrazioni in vari fluidi biologici, in particolare nel latte e nel colostro. A seconda del grado di saturazione del ferro, esiste in due forme: quella priva di ferro (apo) e quella satura di ferro (olo). Entrambe le forme, apo e olo, della lattoferrina e i suoi derivati peptidici, inclusa la lattoferricina, giocano un ruolo importante nella promozione e nel mantenimento di un microbiota intestinale funzionale e nell’inibizione del danneggiamento della barriera intestinale.
Evidenze sperimentali suggeriscono che queste attività sono principalmente dovute alla sua forte attività antimicrobica, inclusi effetti batteriostatici (relativi alla funzione di sequestrazione del ferro) e battericidi (collegati al legame e alla conseguente neutralizzazione di alcune componenti superficiali batteriche anioniche, come i lipopolisaccaridi), oltre a funzioni immunomodulatorie, che aiutano a preservare l’integrità della barriera intestinale (Mastromarino et al., 2014; Boscaini et al., 2023).
Vari studi in vitro suggeriscono un ruolo prebiotico della lattoferrina e del suo derivato peptidico, la lattoferricina, sul microbiota intestinale (Oda et al., 2014; Vega-Bautista et al., 2019). Sebbene i meccanismi debbano ancora essere chiariti meglio, sono stati osservati effetti prebiotici indiretti, principalmente correlati a un’inibizione selettiva della crescita batterica. Infatti, la lattoferrina invece di promuovere direttamente la crescita dei probiotici (ad es. Bifidobatteri e Lactobacilli), agisce principalmente inibendo la crescita dei patogeni, che sono meno resistenti alla sua attività antibatterica.
Il sequestro di ferro mediato dalla lattoferrina è alla base di questa selettività antibatterica; infatti, a differenza di molti patogeni, come E. coli, diversi probiotici, inclusi molti ceppi di Bifidobatteri, non hanno necessariamente bisogno di ferro per crescere e sono in grado di predominare sui patogeni in condizioni di deprivazione di ferro. Tuttavia, vari studi hanno mostrato anche effetti prebiotici diretti; in questo contesto, diversi meccanismi d’azione sono stati postulati dai risultati degli studi in vitro (Seyoum et al., 2021).
Alcuni studi suggeriscono un ruolo per la lattoferrina come fornitore di β-N-glicani per stimolare la crescita dei bifidobatteri, mentre altri studi in vitro hanno mostrato che la forma olo della lattoferrina promuove la crescita di Bifidobacterium breve agendo come fornitore di ferro (Miller-Catchpole et al., 1997). Inoltre, alcuni studi hanno riportato la presenza di proteine leganti la lattoferrina sulla superficie di alcuni probiotici sensibili all’azione prebiotica della lattoferrina, suggerendo che l’interazione tra la superficie cationica della lattoferrina e alcune componenti superficiali cellulari anioniche potrebbe essere
coinvolta nella mediazione di questo processo. Infatti, studi hanno dimostrato che queste interazioni favoriscono l’internalizzazione citosolica della lattoferrina, che, in presenza di ATP, si dissocia in N-lobo e C-lobo; è stato suggerito che l’internalizzazione del C-lobo nel nucleo media la modulazione dei geni coinvolti nella replicazione del DNA e nella crescita cellulare (Rahman et al., 2009; Semenov et al., 1999).
Indipendentemente dai meccanismi coinvolti, i risultati ottenuti testando diverse condizioni sperimentali hanno indicato che l’attività prebiotica diretta della lattoferrina può variare in base a fattori come ceppo batterico, temperatura, livelli di ossigeno, livelli di saturazione del ferro nella lattoferrina e dosaggio (Kim et al., 2004). In questo contesto, poiché l’attività prebiotica della lattoferrina è fortemente dipendente dal ceppo, ulteriori studi su altri ceppi probiotici potrebbero essere utili per comprendere meglio i meccanismi sottostanti.
Diversi studi in vivo e trial clinici hanno investigato gli effetti della supplementazione di lattoferrina sul microbiota intestinale e i suoi potenziali effetti promuoventi per la salute, documentando il ruolo della lattoferrina nella modulazione positiva del microbiota intestinale e gli effetti associati alla promozione della salute (Conesa et al., 2023; Wang et al., 2029; Sun et al., 2016; Wang et al., 2021; Yang et al., 2021; Ma et al., 2022; Sherman et al., 2016; Pammi et al., 2021; Vujkovic-Cvijin et al., 2013).
L’α-lattalbumina è una proteina globulare di 14 kDa prodotta dalle cellule epiteliali delle ghiandole mammarie e coinvolta nella regolazione della sintesi del lattosio. L’α-lattalbumina è la proteina del siero più prevalente nel latte umano, costituendo circa il 35%, mentre la sua quantità è inferiore nel latte bovino, dove rappresenta la seconda proteina del siero più abbondante (circa il 17%) dopo la β-lattoglobulina (assente nel latte umano). Grazie alle sue proprietà nutrizionali e terapeutiche, l’α-lattalbumina è utilizzata come componente delle formule per neonati e come supplemento per modulare le funzioni gastrointestinali e neurologiche e migliorare diverse condizioni patologiche.
Sebbene il meccanismo d’azione alla base di questi effetti benefici dell’α-lattalbumina debba ancora essere chiarito, diversi studi suggeriscono che un ruolo fondamentale sia svolto dai peptidi bioattivi dell’α-lattalbumina (Kamau et al et al., 2010). È importante sottolineare che l’α-lattalbumina e alcuni dei suoi peptidi bioattivi hanno dimostrato di avere un ruolo nella modulazione del microbiota intestinale agendo come prebiotici, e gli studi suggeriscono che ciò sia correlato sia a una promozione diretta della crescita dei probiotici, inclusi i bifidobatteri, sia, indirettamente, alla loro attività antimicrobica contro diversi patogeni (Pellegrini et al., 1999; Lajnaf et al., 2020). Tra i vari studi condotti, Xie et al. (2023) hanno dimostrato che i topi iperuricemici a cui sono stati sommini-
strati per via orale idrolisati gastrointestinali di α-lattalbumina mostrano una riduzione dei livelli di acido urico sierico, creatinina e azoto ureico in associazione con un aumento dell’abbondanza di alcuni batteri produttori di acidi grassi a catena corta (SCFA), e una diminuzione della crescita di generi associati a iperuricemia e infiammazione.
In uno studio precedente, Xie e colleghi (2022) hanno dimostrato che il trattamento con idrolisati di α-lattalbumina è efficace nell’alleviare la disbiosi del microbiota intestinale associata all’ipertensione in ratti spontaneamente ipertesi. In uno studio condotto da Chen e colleghi (2021), sono stati investigati gli effetti del trattamento con il peptide α-lattalbumina Asp-GlnTrp in topi con steatosi epatica non alcolica (NAFLD) indotta da una dieta ad alto contenuto di grassi (HFD); i risultati hanno mostrato che il trattamento ha modulato positivamente il microbiota intestinale, riducendo l’abbondanza relativa di batteri patogeni e aumentando l’abbondanza relativa di Firmicutes e batteri produttori di acidi grassi a catena corta (SCFA).
Li et al. (2023) hanno dimostrato che l’idrolisato di α-lattalbumina bovina altera il microbiota intestinale modulando i rapporti Bacteroidetes/Firmicutes e aumentando l’abbondanza relativa di Lachnospiraceae e Blautia in topi obesi indotti da HFD.
Altri studi hanno dimostrato che gi effetti benefici sulla salute dell’α-lattalbumina, associati ai suoi effetti sulla modulazione positiva del microbiota intestinale, possono essere potenziati quando la proteina è utilizzata in combinazione con altri farmaci e/o altri componenti bioattivi del latte.
Ad esempio, in uno studio clinico controllato randomizzato, l’aggiunta di 3,0 g/L di oligofruttosio a una formula per neonati arricchita di α-lattalbumina ha portato a un effetto sinergico, risultando in un aumento maggiore dei bifidobatteri fecali rispetto ai neonati che ricevevano la formula di controllo senza oligofruttosio (Wernimont et al., 2015).
3.3. Lisozima
La lisozima è un enzima antibatterico di 14,4 kDa presente in piante e animali. Negli animali, la lisozima è presente in diversi fluidi biologici, inclusi saliva, lacrime e latte. Il latte umano, in particolare il colostro, ha un alto contenuto di lisozima (che varia da 0,2 a 0,9 g/L, a seconda della fase di lattazione), mentre il suo contenuto è significativamente inferiore nel colostro bovino, con solo tracce rilevabili nel latte bovino maturo. Come per la lattotransferrina, l’attività antibatterica della lisozima ha un ruolo nella riduzione della complessità del microbiota intestinale, aumentando la resistenza alla colonizzazione intestinale da parte di alcune specie batteriche, inclusi i patogeni, favorendo comunque la crescita di batteri benefici e migliorando il recupero da diverse condizioni patologiche gastrointestinali (Xu et al., 2018; Larsen et al., 2021). I meccanismi alla base della resistenza di alcuni ceppi probiotici all’azione anti-
batterica della lisozima non sono ancora completamente chiariti. Tuttavia, i risultati di studi in vitro su bifidobatteri residenti nell’uomo hanno indicato che la tolleranza tra alcuni ceppi di bifidobatteri può essere attribuita all’attività antibatterica non enzimatica della lisozima (Sakurai et al., 2017).
Diversi studi condotti in vitro e in vivo hanno dimostrato che il lisozima è efficace nel modulare positivamente il microbiota intestinale (Lu et al., 2014; Minami et al., 2016; Zhou et al., 2019; Du et al., 2021). Ad esempio, è stato dimostrato che il lisozima umano riduce significativamente il numero di coliformi ed E. coli nell’intestino di giovani suini alimentati con latte di capre transgeniche che esprimono livelli comparabili di lisozima umano, rispetto ai suini alimentati con latte di capre non transgeniche (Maga et al., 2006). Risultati di studi simili hanno mostrato che la presenza di lisozima umano nel latte di capra migliora l’infiammazione intestinale (Cooper et al., 2011), inibisce la crescita di E. coli patogeno in modelli di suini giovani e accelera il recupero dalla diarrea indotta da E. coli (Cooper et al., 2013).
Oltre a modulare il microbiota intestinale dei suini riducendo il numero di batteri patogeni, il latte di capra transgenico con lisozima ha mostrato di aumentare il rapporto di batteri benefici, e questi cambiamenti sono stati associati a un miglioramento della salute intestinale. Le analisi del microbiota fecale hanno mostrato cambiamenti nell’abbondanza batterica a livello dei phyla Firmicutes e Bacteroidetes, con una diminuzione dei Firmicutes e un aumento dei Bacteroidetes, così come una riduzione di clostridi, Streptococcaceae e batteri correlati a malattie come Mycobacteriaceae e Campylobacterales, nei suini alimentati con latte di capra contenente lisozima rispetto ai controlli (Maga et al., 2012).
Inoltre, la presenza di lisozima nel latte di capra ha portato a un microbiota intestinale più simile a quella dei neonati allattati al seno, che presentava un’abbondanza maggiore di Bifidobacteriaceae e Lactobacillaceae. A sostegno di questi risultati, altri studi hanno valutato gli effetti della carenza di lisozima sull’insorgenza di disbiosi intestinale. È noto che la produzione di lisozima da parte delle cellule di Paneth è un fattore chiave nella mo-
dulazione e stabilizzazione del microbiota intestinale (Cui et al., 2023). Infatti, è stato dimostrato che le carenze nella secrezione di lisozima da parte delle cellule di Paneth sono correlate a disturbi del microbiota intestinale e a una maggiore vulnerabilità a infezioni batteriche e infiammazione intestinale (Strigli et al., 2021; Gaudino et al., 2021).
È interessante notare che i risultati di uno studio in vivo condotto su topi con deplezione di cellule di Paneth indotta da deossinivalenolo hanno dimostrato che la supplementazione con lisozima è stata efficace nel migliorare la funzionalità delle cellule di Paneth e nel ripristino del microbiota intestinale (Cui et al., 2023).
3.4. Glicomacropeptide
Il glicomacropeptide (GMP) è un peptide bioattivo glicosilato di 64 aminoacidi derivato dalla regione C-terminale della kappa-caseina. Il GMP si trova principalmente nei prodotti caseari, essendo rilasciato nel siero durante i processi di digestione enzimatica durante la produzione del formaggio. Tuttavia, si trova anche libero nel latte di mucca e nel siero, sebbene in quantità inferiori.
L’ampia glicosilazione del GMP è responsabile della maggior parte delle sue proprietà biologiche (Liu et al., 2021), che includono effetti antibatterici, antitumorali e immunomodulatori. È interessante notare che studi hanno dimostrato che la glicosilazione, in particolare le catene oligosaccaridiche con un alto contenuto di acido sialico, è responsabile dell’attività prebiotica del GMP, che è stata suggerita come responsabile delle diverse attività biologiche e degli effetti benefici sulla salute del GMP (Sawin et al., 2015).
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Oltre a numerosi studi in vitro che hanno dimostrato l’efficacia del GMP nell’indurre la crescita di probiotici come Bifidobacterium infantis, Bifidobacterium breve e Bifidobacterium bifidum (Azuma et al., 1984; O’Riordan et al., 2018), anche studi in vivo e trial clinici hanno investigato gli effetti prebiotici del GMP. Le prime dimostrazioni in vivo sono arrivate da studi condotti
su topi a cui è stato somministrato il GMP per via orale. In uno studio, il trattamento ha indotto una significativa diminuzione di Enterobacteriaceae e coliformi fecali insieme a un aumento di Lactobacillus e Bifidobacterium (Chen et al., 2012). In un altro studio, è stato osservato che il GMP induce una modulazione nel microbiota intestinale, principalmente riducendo la crescita di Desulfvibrio e aumentando i Firmicutes, e porta a un aumento delle concentrazioni cecali di acidi grassi a catena corta (SCFA) (Sawin et al., 2015). Esperimenti condotti su ratti sensibilizzati ad allergeni (ovalbumina) trattati per via orale con GMP hanno dimostrato che l’amministrazione di GMP esercita un’azione prebiotica sui batteri del microbiota protettiva contro le allergie, aumentando la quantità di Lactobacillus e Bifidobacterium dopo 3 giorni di trattamento, e di Bacteroides dopo 17 giorni di trattamento, suggerendo che ciò, insieme ad altre risposte indotte dal GMP, potrebbe avere un ruolo nelle attività antiallergiche del GMP (Jiménez et al., 2016). Inoltre, è stato dimostrato che l’idrolisato di GMP aumenta il rapporto Bacteroidetes/Firmicutes e l’abbondanza di S24-7, Ruminiclostridium, Blautia e Allobaculum, in modelli murini di diabete di tipo 2 indotti da dieta ad alto contenuto di grassi e da streptozotocina, e questi cambiamenti del microbiota intestinale sono stati associati agli effetti antidiabetici osservati (yuan et al., 2020).
Riferendosi agli effetti del GMP nella modulazione del microbiota umano, uno studio condotto utilizzando un modello di colon artificiale del microbiota intestinale degli anziani ha mostrato che il GMP sostiene la diversità del microbiota, riducendo l’abbondanza di Clostridium cluster IV e Ruminococcus e favorendo la crescita di Blautia spp. (Ntemiri et al., 2017), suggerendo che il GMP potrebbe esercitare anche negli esseri umani la forte attività prebiotica che è stata osservata negli studi in vitro e sugli animali. Questa ipotesi è stata confermata in alcuni trial clinici.
In uno studio controllato prospettico e non randomizzato, sono state osservate alterazioni del microbiota intestinale, consistenti in un significativo aumento dell’abbondanza di Bifidobacterium, in neonati molto pretermine alimentati con una formula per neonati contenente una specifica miscela prebiotica di 0,65 g di scGOS/lcFOS (9:1) e caseina GMP fornendo 40 mg di acido sialico/100 mL; questi cambiamenti del microbiota hanno portato a una produzione più efficiente di composti neuroattivi e a un utilizzo delle fonti energetiche (Yu et al., 2022).
Inoltre, in un trial clinico di due settimane condotto su donne obese in postmenopausa, sono state osservate alterazioni nel microbiota fecale, consistenti in una riduzione dei membri del genere Streptococcus e di tutta la diversità α, dopo una supplementazione con 15 g di GMP + 10 g di proteine del siero due volte al giorno per una settimana, e tre volte al giorno per una settimana, rispettivamente. Questo studio ha dimostrato che la supplementazione di GMP, in combinazione con altre proteine del siero, migliora la sazietà e regola l’omeostasi del glucosio,
suggerendo il suo potenziale ruolo come supplemento nutrizionale utile per ridurre il rischio di sindrome metabolica nelle donne obese in postmenopausa (Hansen et al., 2023).
Tuttavia, in altri studi clinici, non sono state osservate alterazioni significative del microbiota intestinale dopo il trattamento con GMP. Uno di questi studi è stato condotto su soggetti adulti con sindrome dell’intestino irritabile, e non sono state osservate modifiche significative nel microbiota fecale e nei marcatori immunitari fecali dopo un periodo di tre settimane di supplementazione giornaliera con 30 g di GMP (Wernlund et al., 2021; Montanari et al., 2022).
Alcuni ricercatori hanno suggerito che diversi fattori, comprese le variazioni nell’espressione genica specifiche per specie, possono spiegare i risultati divergenti ottenuti dagli studi in vitro e sugli animali rispetto a quelli degli studi clinici (Qu et al., 2023). Tuttavia, tutti gli studi sopra discussi presentano alcune limitazioni, tra cui variabilità interindividuale e dimensione del campione, e sono necessari ulteriori studi clinici per valutare appieno il ruolo del GMP nella modulazione del microbiota intestinale umana.
4. Conclusioni
È stato dimostrato che la disbiosi del microbiota intestinale può essere innescata da vari fattori, tra cui fattori ambientali, abitudini alimentari, terapie farmacologiche e diverse condizioni di salute. D’altra parte, un microbiota intestinale disregolata si è dimostrata un fattore cruciale nell’insorgenza di varie condizioni di salute, aumentando la suscettibilità non solo alle malattie infiammatorie intestinali croniche, ma anche a diverse patologie sistemiche, tra cui il cancro, il diabete di tipo II e alcuni disturbi neurologici.
Diversi studi hanno suggerito che un microbiota intestinale sana può essere ripristinata da composti bioattivi derivati da fonti alimentari, inclusi i latticini. La possibilità di ripristinare naturalmente il microbiota intestinale, sfruttando le risorse alimentari, è intrigante; tuttavia, la correzione dietetica da sola potrebbe richiedere molto tempo, e una possibilità più vantaggiosa sarebbe quella di utilizzare questi componenti alimentari bioattivi, singolarmente o in combinazione con altri composti, come integratori alimentari.
In questo contesto, sono stati condotti diversi studi per valutare gli effetti di singoli composti bioattivi del latte o di una combinazione di essi sul microbiota intestinale. Le evidenze provenienti da studi in vitro e in vivo hanno dimostrato il potenziale degli oligosaccaridi del latte e delle proteine del siero nel modulare positivamente la microbiota intestinale, che ha dimostrato di esercitare una forte attività prebiotica, contribuendo al ripristino di un microbiota intestinale sana e alle condizioni di salute associate.
Curiosamente, questi risultati sono stati confermati da studi clinici condotti sia su neonati che su adulti affetti da diverse pa-
tologie e/o sottoposti a terapie farmacologiche. Inoltre, questi studi hanno contribuito a chiarire i meccanismi d’azione legati all’attività prebiotica di questi composti; questi includono l’attività prebiotica diretta e meccanismi d’azione indiretti principalmente correlati all’attività antimicrobica selettiva esercitata da alcuni di questi componenti bioattivi del latte, entrambi i quali favoriscono la crescita di determinate ceppi probiotici a discapito di patogeni o di altri ceppi non benefici.
Questi risultati potrebbero aprire la possibilità di sfruttare queste molecole come terapie per il trattamento dei disturbi del microbiota intestinale e delle patologie associate. Tuttavia, mentre i risultati della maggior parte degli studi forniscono prove plausibili dell’efficacia degli oligosaccaridi del latte e delle proteine del siero nella modulazione e nel ripristino di un microbiota intestinale sano, è necessario considerare che molti studi sono stati condotti su animali e che, sebbene studi sugli esseri umani abbiano dato risultati simili, alcuni di essi sono divergenti.
Pertanto, sono necessari ulteriori studi clinici per superare le attuali limitazioni e designare queste molecole come candidati efficaci per il trattamento della disbiosi intestinale negli esseri umani.
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