Il Giornale dei Biologi - N.7/8 - Luglio/Agosto 2024

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Giornale dei Biologi

IL NOBEL

DEL DNA

Ritratto di Francis Crick, a vent’anni dalla scomparsa dello scienziato che, insieme a James Watson, descrisse la struttura del Dna

Luglio/Agosto 2024 Anno VII - N. 7/8

Statua di Francis Crick a Northampton (UK) sua città natale

Convegno

NUTRITION, DISEASE AND LONGEVITY

ROMA

16 SETTEMBRE 2024

Parco dei Principi Grand Hotel & SPA Via Gerolamo Frescobaldi, 5

250 partecipanti

Con il patrocinio di

Direttori scientifici:

Dott.ssa Carla Cimmino

Dott.ssa Elvira Tarsitano

Dott.ssa Livia Galletti

PRIMO PIANO

Vent’anni fa l’addio a Francis Crick, il biologo che ha svelato il Dna di Rino Dazzo

Progetto Genoma: l’altra pietra miliare di Rino Dazzo

Terapie geniche: la grande speranza di Rino Dazzo

INTERVISTE

Mytho, il gene che controlla l’invecchiamento cellulare e la longevità di Ester Trevisan

Cancro del colon-retto: acido acetilsalicilico attiva risposta immunitaria di Chiara Di Martino

Cellule di lievito trasformate in microlenti biologiche ottiche di Ester Trevisan

24 Tumore al seno: terapia del freddo per evitare chirurgia di Domenico Esposito

Intensificare lo screening per salvare dal carcinoma polmonare di Eleonora Caruso

Scoprire il Parkinson con un test del sangue di Carmen Paradiso

Modulare la temperatura corporea: strategia contro l’antibioticoresistenza di Carmen Paradiso

Identificazione di sei biotipi di ansia e depressione tramite Fmri e circuiti cerebrali di Carmen Paradiso

L’obesità non dipende solo dall’alimentazione, ma anche da un difetto genetico di Domenico Esposito

Attività fisica al mattino o di sera? La “proposta” pubblicata su obesity di Carmen Paradiso

Biologi specializzati in sicurezza alimentare: formazione, competenze e opportunità di Simona Mango

Un nuovo farmaco per l’apnea notturna di Domenico Esposito

Ketamina in pillole per la depressione di Domenico Esposito

Istat, calo mortalità nel 2021 in Italia. Ma è più alta del periodo pre-pandemico di Carmen Paradiso

Long acting, nuovi farmaci per l’Hiv di Eleonora Caruso

Il coenzima q10 e l’influenza sulla pelle di Carla Cimmino

Associazione tra calvizie, bassa statura e pelle chiara di Biancamaria Mancini

AMBIENTE

Sotto il sole d’Italia litorali da sogno da tutelare di Gianpaolo Palazzo

Acque cristalline e cinque vele. Il blu più belle in cui tuffarsi di Gianpaolo Palazzo

Italia in fiamme. Superfici bruciate in aumento al sud e nelle isole di Gianpaolo Palazzo

Batteri patogeni proliferano sulle microplastiche disperse nel Tirreno di Sara Bovio

Lo scioglimento dei ghiacciai in Alaska di Michelangelo Ottaviano

Wobec, Antartide sotto osservazione di Eleonora Caruso

INNOVAZIONE

Bracciali robotici per alleviare il dolore e controllare le protesi di Sara Bovio

Microplastiche in mare, vita per i batteri di Pasquale Santilio

Le cellule biologiche come lenti ottiche di Pasquale Santilio

Nanoprismi di oro per rigenerare i tessuti di Pasquale Santilio

Opere d’arte, un QR code per il gradimento di Pasquale Santilio

I duecento anni del museo egizio: i tesori del Nilo nel cuore di Torino di Rino Dazzo

Olimpiadi per l’Italia. Nove vele gonfie di speranza di Antonino Palumbo

Sofia e le farfalle in volo verso Parigi di Antonino Palumbo

Machere e caschetti. Quando l’accessorio diventa un’icona di Antonino Palumbo

Calcio, la “vertenza” del mondiale per club di Antonino Palumbo

Rubrica letteraria

Concorsi pubblici per Biologi

SCIENZE

Gli effetti della crisi climatica sulla salute fisica e mentale di Daniela Bencardino

Stili di vita sostenibili con la Landsenses ecology di Elvira Tarsitano

Antibioticoresistenza e one health di Alessandra Mazzeo

BENI CULTURALI

Informazioni per gli iscritti

Si informano gli iscritti che gli uffici della Federazione forniranno informazioni telefoniche di carattere generale dal lunedì al giovedì dalle 9:00 alle ore 13:30 e dalle ore 15:00 alle ore 17:00. Il venerdì dalle ore 9:00 alle ore 13:00

Tutte le comunicazioni dovranno pervenire tramite posta (presso Federazione Nazionale degli Ordini dei Biologi, via Icilio 7, 00153 Roma) o all’indirizzo protocollo@cert.fnob.it, indicando nell’oggetto l’ufficio a cui la comunicazione è destinata.

È possibile recarsi presso le sedi della Federazione Nazionale degli Ordini dei Biologi previo appuntamento e soltanto qualora non sia possibile ricevere assistenza telematica. L’appuntamento va concordato con l’ufficio interessato tramite mail o telefono.

UFFICIO CONTATTO

Centralino 06 57090 200

Ufficio protocollo protocollo@cert.fnob.it

Anno VII - N. 7/8 Luglio/agosto 2024

Edizione mensile di Bio’s

Testata registrata al n. 113/2021 del Tribunale di Roma

Diffusione: www.fnob.it

Direttore responsabile: Vincenzo D’Anna

Giornale dei Biologi

Questo magazine digitale è scaricabile on-line dal sito internet www.fnob.it

Questo numero del “Giornale dei Biologi” è stato chiuso in redazione lunedì 29 luglio 2024.

Contatti: protocollo@cert.fnob.it

Gli articoli e le note firmate esprimono solo l’opinione dell’autore e non impegnano la Federazione Nazionale degli Ordini dei Biologi.

Immagine di copertina: © chrisdorney/www.shutterstock.com

L’autunno che verrà

“S

i sta come d’autunno sugli alberi le foglie” scriveva, durante la guerra, nel 1918, il poeta Giuseppe Ungaretti, per rappresentare, in maniera ermetica, la caducità dell’umana esistenza. E tuttavia così non sarà per la categoria dei biologi italiani, che le guerre intestine hanno sedato emarginando i guerrafondai, ovviamente nel circoscritto ambito delle loro attività.

L’autunno prossimo, infatti, sarà ricco di eventi prestigiosi organizzati dalla FNOB a beneficio degli iscritti all’Albo, un modo anche per fare conoscenze e rinsaldare lo spirito di appartenenza professionale. A cominciare dal 16 settembre, presso il Parco dei Principi di Roma, ci attende il meeting internazionale sulla nutrizione che consentirà, ai partecipanti, di ascoltare tre lezioni magistrali tenute da scienziati ed esperti del settore. I nomi sono più che noti.

L’autunno prossimo, sarà ricco di eventi prestigiosi organizzati dalla Federazione dei Biologi a beneficio degli iscritti all’Albo, a cominciare da Roma

Si tratta di Valter Longo, Frank B. Hu e Raphael De Cabo. Tre big che relazioneranno sul rapporto tra nutrizione e longevità e si sottoporranno alle domande dei presenti. Un appuntamento a partecipazione gratuita, quello della Capitale, che ospiterà oltre 250 biologi nutrizionisti nel rinomato “grand hotel” affacciato sul parco di Villa Borghese.

Seguirà Napoli, con l’evento sulla diagnostica di laboratorio, con un vasto focus dedicato ai metodi ed alle innovazioni nel campo delle analisi cliniche

A seguire, il 23 e 24 ottobre, alla Mostra d’Oltremare di Napoli, ecco l’evento sulla diagnostica di laboratorio, con un vasto focus dedicato ai metodi ed alle innovazioni nel campo delle analisi cliniche con tanto di annessa

esposizione di attrezzature scientifiche per quel comparto. Nel corso della kermesse partenopea diverse sessioni scientifiche tratteranno tutti gli ambiti della materia, compreso l’utilizzo dell’intelligenza artificiale nella specifica disciplina. Anche per l’evento napoletano, così come per quello romano, il parterre dei relatori sarà vasto e qualificato (come si potrà apprendere dal programma che sarà reso noto tra pochi giorni).

Ancora: per novembre è prevista l’apertura della scuola di genetica e genomica a cura della Fondazione Italiana Biologi (FIB) con corsi settimanali, sia

teorici che pratici, per una formazione professionalizzante alla quale verranno ammessi settanta biologi ogni anno. La dirigerà Antonio Novelli, biologo, direttore del laboratorio di genetica dell’ospedale pediatrico “Bambino Gesù”. La parte pratica avrà luogo presso l’Istituto Mendel di Roma ove i partecipanti potranno “familiarizzare” con le tecniche. La gratuità della partecipazione sarà assicurata come sempre anche in questo caso. La stessa Fondazione dei Biologi (FIB) aprirà a progetti di ricerca e di start-up che una commissione di scienziati, insediata all’uopo, valuterà e

A novembre è prevista l’apertura della scuola di genetica e genomica a cura della FIB con corsi settimanali, dedicati a settanta biologi ogni anno

selezionerà per avviarli a finanziamento, come negli scopi che la stessa FIB si è prefissata all’atto della nascita. Non mancheranno altri eventi patrocinati e finanziati dalla FNOB, dalla FIB e da parte degli Ordini regionali dei Biologi dislocati in varie parti d’Italia. Insomma, la macchina organizzativa e scientifica si è messa in moto per replicare l’intensa attività formativa avviata dal disciolto Ordine Nazionale dei Biologi nel periodo 2018-2022. Così per le FAD del progetto “Formare informando” che la FNOB ha attivato con l’Agenas, attraverso il giornale online che distribui -

sce una dozzina di crediti ECM per numero editato e relativo corso FAD.

Sempre in autunno arriverà, finalmente, il decreto attuativo della legge sulle lauree abilitanti con la prevista tripartizione dell’Albo Nazionale in Biologi Nutrizionisti, Biologi Ambientali e Biologi Generali. Una catalogazione fondata sui titoli posseduti dall’iscritto e che indicherà tutte le speciali competenze professionali per le rispettive aree di attività. Competenze per i Biologi che nel Decreto sono state aggiornate ed ampliate per stare al passo dell’evoluzione che la materia biologica ha sviluppato.

In autunno arriverà il decreto attuativo della legge sulle lauree abilitanti con la tripartizione dell’Albo in Biologi Nutrizionisti, Ambientali e Generali

Sempre in autunno la fase iniziale delle attività della FNOB entrerà nel vivo con il primo congresso nazionale dei Biologi Italiani, che avrà non solo lo scopo di riunire tutti i biologi impegnati negli svariati campi di attività, vecchi o nuovi che essi siano, ma anche per fare il punto con esperti dei settori, rappresentanti accademici, uomini di scienza ed autorità politiche ed istituzionali, enti interessati (come il CNR, le Arpa, gli Istituti Zooprofilattici, l’Enea ed i Ministeri), sullo stato dell’arte che interessa una categoria in forte ripresa e che si inserisce in sempre più ampi settori

delle professioni sanitarie (e non solo in queste).

Ci aspettiamo che la partecipazione sia numerosa e qualificata per elevare l’immagine ed il peso della grande famiglia dei biologi italiani. Gli sforzi sono tesi a coinvolgere gli iscritti ed a far comprendere che gli Ordini territoriali e la Federazione che li rappresenta, forniscono un’opportunità, una tutela, un supporto per qualificare la professione, per ottenere un quadro legislativo e normativo migliore. Coloro che si estraniano da questo processo di riqualificazione, quanti non seguono le attività e le informazioni, resteranno

Coloro che si estraniano dal processo di riqualificazione, resteranno fuori ed estranei al contesto ed ai benefici di questa molteplicità di iniziative

ancora una volta fuori ed estranei al contesto ed ai benefici di questa molteplicità di iniziative, che è la migliore espressione di un rilancio della categoria. Ci teniamo a sottolinearlo ancora una volta: l’Ordine non è una tassa da pagare, per quanti ne sfruttano le opportunità, i vantaggi, le informazioni, le consulenze, la difesa dei diritti e delle competenze spettanti a ciascun iscritto. Non possiamo obbligare nessuno a seguirci, ma potremo sempre ignorare le lamentazioni e le critiche generiche che non servono a niente nessuno di gente che di nulla si interessa e tutto critica.

Primo piano
Francis Crick.

VENT’ANNI FA L’ADDIO A FRANCIS CRICK, IL BIOLOGO CHE HA SVELATO IL DNA

Il suo nome, insieme a quello di James Watson, è legato a una fondamentale scoperta: quella della struttura a doppia elica, che nel 1953 ha rivoluzionato il mondo scientifico

Sono passati vent’anni. Il 28 luglio 2004 uno dei biologi più famosi e conosciuti della storia, Francis Crick, si spegneva a San Diego, in California. Aveva 88 anni e ha legato il proprio nome, insieme a quello di James Watson, a una delle scoperte più significative della storia della biologia: l’individuazione della struttura del DNA. Già: Crick e Watson sono un po’ i “papà” del DNA, acronimo che sta per acido desossiribonucleico, vale a dire la molecola all’interno della quale sono contenute tutte le istruzioni necessarie a una cellula per sopravvivere e svolgere le proprie funzioni. Struttura che in realtà, come vedremo, di papà ne ha pure un terzo, Maurice Wilkins, così come una mamma, Rosalind Franklin. Anche se il Nobel della medicina fu assegnato nel 1962 solo a Crick, Watson e Wilkins: alla Franklin sarebbero arrivati soltanto i ringraziamenti di Crick. Francis, in particolare, era un biologo nato durante la Grande Guerra a Northampton, nel Regno Unito. Il padre Harry l’avrebbe voluto al lavoro nella sua fabbrica di scarpe, la mamma Annie era infermiera. La passione per le scienze e la ricerca l’ha ereditata dal nonno Walter, biologo dilettante, e dallo zio Arthur, che ne ha finanziato gli studi allo University College di Londra. Laureatosi in fisica, dopo il secondo conflitto mondia-

le Crick ha trovato posto a Cambridge, dove dopo qualche tempo ha iniziato a lavorare presso il Cavendish Laboratory, che studiava la struttura molecolare dei sistemi biologici. Qui, nel 1951, ha incontrato il suo amico-nemico, James Watson, biochimico statunitense. Dal loro lavoro comune, che in più di una circostanza è stato aspro e conflittuale, sarebbe venuta fuori la scoperta più rilevante della storia della biologia.

La particolarità è che né Crick, né Watson erano incaricati di studiare il DNA. Francis avrebbe dovuto approfondire le conoscenze sull’emoglobina, James sulla mioglobina. Chi stava studiando - e con ottimi risultatiil DNA era invece Maurice Wilkins, biologo del King’s College, coadiuvato da una brillante biochimica, Rosalind Franlin. Forse la vera pioniera delle prime scoperte sulla struttura a elica, anche se - relegata al ruolo di assistente - tutte furono etichettate come intuizioni di Wilkins. Utilizzando i raggi X, gli studiosi del King’s College avevano elaborato, appunto, un’idea di struttura del DNA comprendente un’elica, da cui Crick e Watson presero spunto per elaborare, a novembre 1951, un primo modello di DNA: una struttura a tre catene con scheletro di fosfato e zucchero, da cui emergevano le basi. Il modello non fu ritenuto corretto e i due furono garbatamente invitati a occuparsi d’altro. Ma non si arresero

di Rino Dazzo

e tornarono alla carica. Il 21 febbraio 1953, dopo aver visto alcuni mesi prima un’immagine ai raggi X scattata da Franklin, mostrata loro a sua insaputa da Wilkins, in cui si potevano apprezzare nitidamente la natura elicoidale dei fili antiparalleli a doppia elica, le dimensioni e la struttura dell’elica stessa, Crick e Watson proposero un nuovo modello di DNA a doppia elica, a basi complementari. Ogni giro di elica era costituito da dieci nucleotidi, le basi formavano tra di loro legami a idrogeno, rompendo i quali la struttura poteva essere aperta come una cerniera dai codici duplicabili. I risultati dello studio, pubblicati sulla rivista Nature, garantirono a Crick e Watson enorme fama e popolarità. E negli anni successivi il biologo inglese portò a termine il suo studio sulla struttura dell’emoglobina, lanciandosi versa una nuova sfida: decifrare il codice genetico.

Qualche anno dopo, nel 1962, sarebbe arrivato anche il Nobel per la medicina, condiviso con James Watson e Maurice Wilkins: Rosalind Franlin era morta quattro anni prima, nel 1958. Solo Crick riconobbe l’apporto fontamentale da lei avuto nella ricostruzione della struttura del DNA, citandola espressa-

Dal loro lavoro comune, che in più di una circostanza è stato aspro e conflittuale, sarebbe venuta fuori la scoperta più rilevante della storia della biologia. La particolarità è che né Crick, né Watson erano incaricati di studiare il DNA. Francis avrebbe dovuto approfondire le conoscenze sull’emoglobina, James sulla mioglobina.

© nobeastsofierce/shutterstock.com

mente all’interno del resoconto fornito a Jacques Monod sulle circostanze della scoperta. Un resoconto propedeutico all’assegnazione del premio e in cui Crick scrisse: «I dati che ci hanno aiutato in modo imprescindibile a risalire alla struttura sono stati ottenuti in buona parte da Rosalind Franklin, deceduta qualche anno fa». La scrittura, del resto, è stata un’altra grande passione di Crick. Che nel 1981 ha pubblicato L’origine della vita, dedicato alla nascita della vita nell’universo, e nel 1986 ha dato alle stampe La folle caccia, una sorta di autobiografia in cui ha trattato di tutto fuorché della scoperta del DNA, già ampiamente trattata in altri libri scritti da Watson o da altri autori, spesso fonte di litigi e ripicche. Due mogli, tre figli, carattere spigoloso: negli ultimi anni della sua vita Crick si è dedicato a una serie di studi sul cervello. Nel 2003, dopo un intervento chirurgico alle arterie con sostituzione di parte dell’aorta e con un tumore al colon, ha fatto in tempo a festeggiare il cinquantesimo anniversario del suo studio sulla doppia elica. Un anno dopo è morto mentre lavorava, in casa, a un progetto sul caustro cerebrale. Le sue scoperte sul DNA rimarranno per sempre la sua eredità più preziosa.

Francis Crick (a destra) e James Watson (al centro) con il genetista Maclyn McCarty.

Un’altra pietra miliare in campo scientifico dopo la scoperta della struttura a doppia elica è stata posta con la mappatura dei singoli geni che compongono il DNA umano. Il Progetto Genoma Umano (Human Genome Project) è scattato nel 1990 e si è concluso definitivamente nel 2022, dopo 32 anni di instancabili e accurate ricerche. L’obiettivo? Mettere in ordine più di tre miliardi di lettere, di tasselli costituenti il codice della vita. Impresa poderosa, titanica, portata avanti sotto il coordinamento del National Human Genome Research Institute degli Stati Uniti (tra gli scienziati coinvolti anche James Watson) e che ha visto l’impegno diretto di ricercatori provenienti da sei paesi diversi: Stati Uniti, appunto, e poi Germania, Francia, Cina, Giappone e Regno Unito. L’obiettivo? Completare la mappatura del patrimonio genetico umano per mettere a punto terapie sempre più innovative, personalizzate e soprattutto efficaci. Insomma, una vera e propria rivoluzione, una sorta di opera magna del settore biomedico. Opera che è stata portata a termine, almeno in un primo tempo, il 14 aprile 2003, due anni prima rispetto al previsto, con l’annuncio della conclusione della prima fase del progetto. Mappato e sequenziato il 92% del patrimonio genetico umano, con una prima sorpresa piuttosto significativa: i ricercatori, infatti, hanno scoperto che il numero di geni del DNA umano era notevolmente inferiore rispetto al previsto. Si pensava, infatti, che i geni potessero essere più di 100mila: ne sono stati individuati e catalogati tra 20 e 25mila. Uno sforzo enorme, ma non ancora definitivo. Rimaneva infatti da mappare il restante 8% del patrimonio genetico dell’essere umano, con circa 400 rebus da sciogliere. Dei buchi nella ricerca da colmare attraverso ulteriori studi, sempre più accurati e sempre più onerosi. La ricerca è ripresa solo qualche anno più tardi

PROGETTO GENOMA

L’ALTRA PIETRA MILIARE

Cos’è l’Human Genome Project e perché il suo completamento nel 2022 è stato un evento importante

ed è arrivata a una definitiva conclusione nel 2022, grazie agli sforzi del consorzio T2T (Telomere-to-Telomere) che ha sequenziato l’ultima parte del DNA.

Solo da un paio di anni, dunque, i geni umani non hanno più segreti per la scienza. E i benefici della mappatura, compiutamente, si apprezzeranno solo tra qualche tempo, quando saranno implementate e messe in campo ulteriori terapie mirate e rivolte alla cura di un numero potenzialmente elevatissimo di patologie geniche. Prima ancora che un’operazione di eccezionale valore biomedico e scientifico,

il Progetto Genoma Umano ha rappresentato – e rappresenta – un volano cruciale per lo sviluppo di una particolare disciplina, la bioinformatica, dedicata alla risoluzione di problemi biologici a livello molecolare attraverso l’utilizzo di metodi e strumenti di natura informatica. La catalogazione di un’enome mole di dati, inoltre, è stata propedeutica allo sviluppo di altre opere di respiro internazionale e di fondamentale importanza a livello medico, quali – giusto per citare un paio di esempi – il Progetto mille genomi oppure l’Atlante dei geni dei tumori. (R. D.)

TERAPIE GENICHE

LA GRANDE SPERANZA

Utilizzate per prevenire e curare un numero molto ampio di malattie: ecco come funzionano e i rischi che comportano

Sin dagli Anni Settanta, non troppo tempo dopo le importanti scoperte di Crick e Watson, diversi medici e scienziati hanno ipotizzato la possibilità di intervenire a livello genetico per prevenire o curare malattie attraverso la ricombinazione del DNA, eliminando o inserendo geni all’interno delle cellule. Nel corso degli Anni 80 si è iniziato a lavorare attivamente sui virus e nel 1990 la terapia genica è stata sperimentata per la prima volta al mondo su una bimba di cinque anni affetta da ADA-SCID, deficit di adenosina deaminasi. Negli anni seguenti

gli studi e le terapie si sono allargati ad altre sindromi genetiche come la sindrome di Wiskott-Aldrich o l’amaurosi congenita di Leber. Nel 2012, invece, è stata approvata la prima terapia genica in Europa per il trattamento di una malattia rara del fegato, mentre negli anni successivi altre terapie sono state approvate nell’Unione Europea e negli Stati Uniti contro altre malattie genetiche e contro diverse forme di tumore.

La terapia genica, proprio come immaginavano i primi pionieri del settore, può consistere nella sostituzione o nella disattivazione di un gene mala-

to, nell’inserimento di un gene mancante oppure nella capacità di rendere le cellule maggiormente visibili o riconoscibili al sistema immunitario. Per raggiungere lo scopo, si utilizzano come mezzi di trasporto dei virus opportunamente manipolati e resi innocui, capaci di portare il materiale genetico nel cuore della cellula bersaglio. Alcuni di questi virus, come i retrovirus, integrano anche il proprio materiale genetico, oltre al gene corretto, nella cellula umana; altri, come gli adenovirus, conducono il DNA nella cellula, senza però integrarlo con quello umano. Altri possibili vettori che i ricercatori stanno mettendo a punto per il trasporto del materiale genetico sono i liposomi, speciali particelle di natura grassa, o le cellule staminali. L’inserimento del materiale, inoltre, può avvenire ex vivo, con le cellule del paziente prelevate e messe in coltura prima del trasferimento dei geni modificati, oppure in vivo, con l’inserimento del gene direttamente nel paziente.

L’approvazione o la messa al bando di una nuova terapia genica è decisa da comitati di esperti a livello nazionale e internazionale: in Europa il compito di coordinare e raccordare il lavoro dei vari Laboratori per il Controllo dei Medicinali è affidato al Gene Therapy Working Group, che si occupa tanto dei rischi clinici quanto delle questioni etiche legate all’implementazione delle varie terapie. Bisogna anzitutto escludere che il sistema immunitario riconosca come una minaccia la particella virale incaricata di trasportare il materiale genetico, scatenando reazioni gravi, o che il materiale sia portato in cellule sbagliate. Quanto alle questioni etiche, particolarmente acceso è soprattutto il dibattito legato all’utilizzo delle terapie geniche germinali, effettuate cioè su cellule della linea germinale e introducenti modifiche genetiche trasmesse alle future generazioni. (R. D.)

© Max Acronym/shutterstock.com

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MYTHO, IL GENE CHE CONTROLLA L’INVECCHIAMENTO CELLULARE

E LA LONGEVITÀ

Intervista a Marco Sandri, docente del Dipartimento di Scienze biomediche dell’Università di Padova e coordinatore dello studio pubblicato sul Journal of Clinical Investigation

Il gene Mytho controlla l’invecchiamento cellulare e la longevità. La scoperta è stata realizzata da un team di ricerca internazionale diretto da Marco Sandri, docente del Dipartimento di Scienze biomediche dell’Università di Padova e Principal Investigator dell’Istituto Veneto di Medicina Molecolare, in collaborazione con Eva Trevisson, genetista del Dipartimento di Salute della donna e del bambino dell’ateneo patavino.

Professor Sandri, per quale motivo le cellule invecchiano, e noi con loro?

Perché ogni giorno le cellule sono sottoposte a stress di varia natura: chimici, che dipendono per esempio da ciò che mangiamo o dal fumo di sigaretta; fisici, legati per esempio a fattori meccanici, termici o ad esposizione a radiazioni ultraviolette; biologici, innescati da infezioni batteriche o virali. Ogni cellula ha un sistema di risposta allo stress che prevede l’attivazione di diversi meccanismi per preservare la funzione cellulare/tissutale e per riparare il danno innescato dall’evento stressante. Con l’avanzare dell’età, questi sistemi di riparo e rigenerazione diventano meno efficienti e quindi la cellula ed il tessuto iniziano ad accumulare danni a diversi livelli dalle proteine agli organelli, al DNA. La somma di questi processi dannosi e il mancato riparo determi -

nano l’insorgenza dell’invecchiamento delle cellule che perdono alcune funzioni come l’efficienza nel replicarsi ed acquistano un fenotipo di senescenza che predispone all’insorgenza di malattie.

Da quali evidenze scientifiche è partito lo studio?

C’è una via di segnale importante per la longevità, che è attivata dalla restrizione calorica, ed è la via dell’insulina. Per l’allungamento della vita legata all’inibizione della via dell’insulina è richiesta l’attività di un fattore trascrizionale chiamato FoxO. Noi siamo partiti proprio dallo studio dei geni che potessero essere sotto il controllo di questo fattore trascrizionale, perché avevamo modelli genetici di animali in cui questo fattore era bloccato. Grazie ad un’analisi bioinformatica condotta per identificare potenziali geni controllati da FoxO che fossero ancora sconosciuti nella loro funzione, che fossero conservati tra le diverse specie animali e che contenessero dei domini strutturali che li facessero appartenere al sistema di controllo della qualità delle proteine e degli organelli, abbiamo scovato il gene Mytho.

Come si è articolata la ricerca?

Prima di tutto, abbiamo verificato che il gene fosse espresso durante l’invecchiamento in modelli murini e anche in biopsie di soggetti umani di diverse età. Abbiamo no -

di Ester Trevisan

tato che più i soggetti erano anziani, più era elevato il livello di espressione. Poi abbiamo verificato che effettivamente il gene Mytho regolasse il sistema di pulizia chiamato autofagia, importante per rimuovere proteine o organelli danneggiati e preservare l’omeostasi cellulare e la bioenergetica. Una volta confermati questi due aspetti, siccome questo gene è estremamente conservato tra le diverse specie animali, abbiamo usato il verme Caenorhabditis Elegans (c. elegans) per verificare se la sua regolazione in senso inibitorio o attivatorio avesse un effetto sulla sopravvivenza e soprattutto sulla qualità della vita di questo animale.

Generalmente gli studi di laboratorio si basano su mammiferi, come i topi, che presentano molti punti in comune con l’uomo. Perché in questo caso l’osservazione si è concentrata su un verme?

Per diversi motivi. Prima di tutto, la proteina Mytho come sequenza di aminoacidi è conservato molto bene e c’è una alta omologia tra uomo e verme. Inoltre, la maggior parte delle scoperte dei geni e delle vie di segnale che controllano la longevità sono state fatte con questo modello animale. Infatti, il c. elegans ha una vita breve - appena un paio

Le nostre cellule invecchiano perché ogni giorno le cellule sono sottoposte a stress di varia natura: chimici, che dipendono per esempio da ciò che mangiamo o dal fumo di sigaretta; fisici, legati per esempio a fattori meccanici, termici o ad esposizione a radiazioni ultraviolette; biologici, innescati da infezioni batteriche o virali.

Chi è

Marco Sandri è docente ordinario di Patologia clinica del Dipartimento di Scienze Biomediche dell’Università di Padova, Principal Investigator del VIMM Professore Ordinario in Patologia Clinica e Adjunct Professor presso la McGill University a Montreal, Canada. Laureato in Medicina e Specializzato in Medicina di Laboratorio a Padova, ha ricevuto numerosi riconoscimenti internazionali, tra cui due premi alla carriera da parte del Telethon e vincitore di un prestigioso finanziamento “consolidator” da parte dell’European Research Council ed è stato insignito del titolo di Highly Cited Researchers da Clarivate Web of Science™. Nel 2023 ha ricevuto il premio “Alfredo Margreth”. La sua attività di ricerca è documentata da più di 180 articoli peer-reviewed.

di settimane - ed è facilmente manipolabile geneticamente. Ciò ci consente di verificare rapidamente se i nuovi geni che stiamo studiando hanno un impatto sulla sopravvivenza e sulla longevità ed anche di identificare in quale, tra le diverse via di segnale che promuovono la longevità, Mytho agisce giocando un ruolo importante per mantenere un invecchiamento in salute.

Quali saranno gli sviluppi futuri?

Il prossimo step potrebbe riguardare l’identificazione di possibili modulatori in grado di mantenere attivo Mytho per preservare la funzionalità cellulare. Si potrebbe trattare di composti chimici, come i farmaci, ma anche di composti naturali. Uno screening potrebbe essere utile per identificare le molecole che determinano l’attivazione del gene. Inoltre, la scoperta che Mytho controlla l’invecchiamento cellulare apre lo studio sul ruolo che Mytho, presente in vari tessuti, svolge nei diversi organi e sull’insorgenza di alcune malattie tipiche dell’invecchiamento come, per esempio, le malattie neurodegenerative come l’Alzheimer e il Parkinson, l’eccessiva perdita di forza muscolare come la sarcopenia, fino anche all’insorgenza di tumori.

CANCRO DEL COLON-RETTO ACIDO ACETILSALICILICO ATTIVA RISPOSTA IMMUNITARIA

Un aumento della proteina CD80 sembra migliorare la capacità delle cellule di allertare altre cellule di difesa sulla presenza di proteine associate al tumore. Ne parla Marco Scarpa (Unipd)

Ègià noto che l’uso quotidiano a lungo termine e a basse dosi dell’acido acetilsalicilico, la cosiddetta “aspirinetta” assunta per limitare i rischi di malattie cardiovascolari, sembra ridurre l’incidenza e la mortalità dovuta al cancro del colon-retto, i cui pazienti rappresentano il 14,3% di tutti i pazienti oncologici. Quale sia il meccanismo con cui questo farmaco antinfiammatorio sembra attivare una risposta immunitaria contro questa patologia –che rappresenta 1/3 dei tumori al colon e costituisce la seconda causa di morte per cancro e, nelle donne, la seconda causa di tumore – è oggetto dello studio multicentrico “Immunoreact 7”, che coinvolge 14 gruppi di ricerca italiani, coordinati Marco Scarpa del Dipartimento di Scienze chirurgiche, oncologiche e gastroenterologiche dell’Azienda ospedale Università di Padova. Sostenuto da Fondazione AIRC per la ricerca sul cancro, lo studio – pubblicato sulla rivista Cancer (link alla ricerca http:// doi.wiley.com/10.1002/cncr.35297) -, ha l’obiettivo di valutare l’effetto dell’acido acetilsalicilico sul microambiente tumorale, sull’immunità sistemica e sulla mucosa sana che circonda il cancro del colon-retto. Cerchiamo di capirne di più, grazie alle risposte del dott. Scarpa.

Come parte questo studio e chi coinvolge?

È iniziato nel 2016, all’Istituto Oncologico Veneto, e ne abbiamo raccolto i risultati preliminari nel 2019. Grazie al coinvolgimento di 14 centri oggi abbiamo un campione di 1200 pazienti che utilizzavano la cardioaspirina o per prevenzione primaria o per problemi cardiovascolari. Lo studio, comunque, si riferisce a soggetti presunti sani o comunque con carcinogenesi precoce, non naturalmente su pazienti con stadi avanzati di cancro.

In quante fasi avete suddiviso il lavoro?

Nella prima parte dello studio abbiamo analizzato retrospettivamente campioni e dati di pazienti con diagnosi di cancro al colon-retto operati tra il 2015 e il 2019 presso l’Azienda Ospedale Università di Padova. Abbiamo quindi studiato, sempre in campioni ottenuti dai pazienti, l’espressione dell’mRNA dei geni associati alla sorveglianza immunitaria nelle cellule primarie di cancro del colon-retto di pazienti che assumevano acido acetilsalicilico. Abbiamo replicato queste misurazioni sperimentalmente presso l’Università di Padova e dell’Istituto Oncologico Veneto e abbiamo ulteriormente studiato il microambiente immunitario della mucosa sana che circonda il cancro del colon-retto in campioni ottenuti da un ampio sottogruppo di pazienti

di Chiara Di Martino

che ha partecipato a IMMUNOREACT in rapporto all’assunzione cronica di acido acetilsalicilico.

E cosa è emerso?

Rispetto ai campioni di tessuto di pazienti che non assumevano il farmaco, quelli ottenuti da pazienti che lo assumevano hanno mostrato una minore diffusione del cancro ai linfonodi e una maggiore infiltrazione di cellule immunitarie nel tumore.

Dov’era la “chiave”?

Nelle analisi sulle cellule tumorali di colon-retto in laboratorio, abbiamo osservato che l’esposizione di tali cellule all’acido acetilsalicilico ha causato un aumento della proteina CD80, un modulatore della funzione immunitaria. Questa circostanza sembra avere migliorato la capacità delle cellule di allertare altre cellule di difesa sulla presenza di proteine associate al tumore. Nei pazienti con cancro del colon-retto, chi assumeva acido acetilsalicilico aveva livelli di proteina CD80 più elevati nel tessuto rettale sano, suggerendo così che il farmaco induca un effetto di sorveglianza immunitaria.

Cosa ne avete dedotto?

I dati che abbiamo raccolto mostrano che il trattamento con acido acetilsalicilico può far aumentare l’espressione di CD80, migliorando la capacità delle cellule di cancro del colon-retto di presentare attivamente i propri antigeni tumorali ai linfociti T. Questi ultimi sono le cellule delle nostre difese deputate, tra le altre cose, a eliminare le cellule cancerose, una volta riconosciuti i loro specifici antigeni. Va anche aggiunto che, nei pazienti con cancro del retto, sia la concentrazione di proteina CD80 nelle cellule epiteliali, sia il rapporto tra linfociti citotossici e linfociti T totali erano più alti tra coloro che assumevano acido acetilsalicilico.

Cosa vuol dire?

Che l’acido acetilsalicilico assunto a lungo termine eserciti un effetto di sorveglianza immunitaria già sulla mucosa normale e non solo all’interno del tumore. In altre parole, oltre ad assicurare il suo classico meccanismo farmacologico che comporta l’inibizione dell’infiammazione, può anche agire a favore della prevenzione e della cura del cancro del colon-retto.

Rispetto ai campioni di tessuto di pazienti che non assumevano il farmaco, quelli ottenuti da pazienti che lo assumevano hanno mostrato una minore diffusione del cancro ai linfonodi e una maggiore infiltrazione di cellule immunitarie nel tumore.

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Marco Scarpa, specializzato in Chirurgia Generale, dal 2018 lavora presso l’Azienda Ospedale Università di Padova inizialmente nell’Unità Operativa di Chirurgia Generale e dal 2020 presso la Clinica Chirurgica I. Ha ideato e coordina il progetto IMMUNOREACT che coinvolge diversi centri chirurgici (Padova, Treviso, Belluno, Montepulciano, Reggio Emilia e molti altri) e che mira ad analizzare i predittori molecolari delle metastasi linfonodali nel carcinoma rettale precoce e la risposta completa nel carcinoma retto localmente avanzato.

Chi è

CELLULE DI LIEVITO TRASFORMATE IN MICROLENTI BIOLOGICHE OTTICHE

Studio interdisciplinare pubblicato su Advanced Optical Materials. Intervista a Pietro Ferraro, dirigente di ricerca al Cnr-Isasi di Pozzuoli e coordinatore del team di scienziati

Dottor Ferraro, la vostra ricerca dimostra che le cellule biologiche possono essere modificate per comportarsi come microlenti ottiche. Come avviene questo mutamento?

Il mutamento avviene tramite la modifica dei vacuoli intracellulari delle cellule di lievito di birra. Questi vacuoli, che sono piccole sacche all’interno delle cellule, possono essere ingegnerizzati per comportarsi come microlenti. In particolare, quando risospesi in acqua, i vacuoli di lievito si rigonfiano formando delle strutture perfettamente sferiche. Tale morfologia può essere ottenuta anche con metodi di ingegneria genetica per alterare le proprietà morfologiche delle cellule, permettendo loro di interagire con la luce in modo controllato. Questo processo consente infatti ai vacuoli di disperdere la luce piuttosto che concentrarla, il che è un comportamento unico rispetto alle precedenti ricerche sulle biolenti cellulari.

Perché avete scelto di concentrare lo studio sulle cellule di lievito di birra?

Le cellule di lievito di birra sono un modello eccellente per questo tipo di ricerca grazie alla loro facilità di manipolazione, rapida crescita e robustezza. Inoltre, sono ben caratterizzate scientificamente, il che facilita le modifiche e l’osservazione delle

proprietà ottiche introdotte. La capacità di modificare rapidamente i vacuoli intracellulari delle cellule di lievito le rende ideali per il nostro studio sulle microlenti biologiche. Per quali scopi possono essere impiegate le cellule biologiche nelle vesti di microlenti ottiche?

Le cellule biologiche modificate come microlenti ottiche possono essere utilizzate in diversi campi, tra cui la microscopia avanzata e la biofotonica. Possono migliorare la risoluzione e la qualità delle immagini in microscopia ottica, proprio come se fossero delle vere lenti, permettendo così una visione più dettagliata delle strutture intracellulari. Intendiamo testare queste microlenti in modelli animali per verificarne l’efficacia in vivo e collaborare con partner industriali per sviluppare prototipi di dispositivi medici basati su questa tecnologia. Continueremo anche a esplorare le applicazioni pratiche di queste microlenti in vari settori, inclusi i computer ottici ibridi che integrano componenti elettronici e biologici.

I risultati della ricerca possono essere di supporto sul fronte diagnostico e terapeutico?

Assolutamente sì. La nostra ricerca potrebbe rivoluzionare il campo della diagnostica medica, permettendo diagnosi

più precise e meno invasive. Le microlenti biologiche possono essere utilizzate per migliorare le tecniche di imaging diagnostico e per sviluppare nuovi dispositivi biofotonici. Questi dispositivi potrebbero aiutare a rilevare rapidamente malattie come quelle da accumulo lisosomiale, il cancro e infezioni virali, migliorando anche l’efficacia dei trattamenti farmacologici. È un percorso ambizioso, e quindi lungo e difficile, ma lo abbiamo intrapreso al CNR già da qualche anno e i risultati sono molto incoraggianti.

Quali saranno i prossimi step del progetto “Luna” di cui fa parte questo studio?

I prossimi passi del progetto “Luna”, ideato e guidato dai due giovani e brillanti ricercatori, Vittorio Bianco del CNR e Massimo D’Agostino dell’Università Federico II di Napoli, e finanziato dal programma dell’Unione Europea NextGenerationEU, includono l’ottimizzazione delle proprietà ottiche dei vacuoli modificati e la loro integrazione in sistemi di imaging avanzati. Inoltre, queste microlenti possono essere integrate in dispositivi diagnostici e terapeutici, migliorando la capacità di rilevare e trattare situazioni patologiche in modelli cellulari umani. Inoltre, modellare vacuoli citoplasmatici come delle lenti ne consente una migliore caratterizzazione e identificazione in cellule umane soggette a diverse patologie. Nell’ambito del progetto utilizzeremo questi vacuoli come biomarcatori endogeni per finalità di diagnostica medica e per testare l’efficacia di farmaci.

Da chi è composto il team di ricerca?

Il nostro team è composto da esperti in diverse discipline, tra cui fisici, biologi cellulari, medici, ingegneri delle telecomunicazioni. Collaboriamo strettamente con l’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) con il gruppo di ricerca guidato dal dottor Matteo Lombini, che ha contribuito alle simulazioni numeriche delle biolenti, e l’Università degli Studi di Napoli Federico II. Il nostro team include ricercatrici e ricercatori sia senior con vasta esperienza sia giovani scienziati innovativi e studenti di dottorato: Daniele Pirone, Giusy Giugliano, Lisa Miccio, Pasquale Memmolo del CNR, Fausto Cortecchia, Emiliano Diolaiti, Giuseppe Mongelluzzo di INAF. (E. T.)

Le cellule biologiche modificate come microlenti ottiche possono essere utilizzate in diversi campi, tra cui la microscopia avanzata e la biofotonica.

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Direttore della ricerca all’Institute of Applied Sciences & Intelligent Systems “E.Caianiello” presso il CNR, Pietro Ferraro è un fisico ed appassionato scienziato le cui ricerche spaziano dalle biotecnologie e nuove applicazioni in medicina fino all’aerospazio. Negli ultimi anni le sue ricerche si sono concentrate sui sistemi intelligenti ed ha infatti sviluppato i cosiddetti Lab on a Chip, che consistono in dispositivi miniaturizzati utilizzati per la diagnostica sia in campo medico che ambientale. Fondatore nel 2016 dell’Istituto di Scienze Applicate e Sistemi Intelligenti del CNR e autore di oltre 600 pubblicazioni scientifiche, nel 2020 è stato insignito del prestigioso premio internazionale “SPIE- Dennis Gabor Award”.

Chi è

Ferretti e Giuseppe Macino questi risultati aprono la strada alla scoperta di nuove molecole di RNA, utili per lo sviluppo della terapia genica e la definizione di biomarcatori per la diagnosi e la gestione dei pazienti nella medicina di precisione.

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Un team internazionale di ricercatori, composto da ricercatori dell’Università Sapienza di Roma, dell’Istituto MDC di Berlino e dell’Università di Milano, ha sviluppato un metodo innovativo chiamato ‘Open-ST’. Questo approccio permette di creare mappe tridimensionali precise delle cellule di un tessuto e di identificare le interazioni molecolari al loro interno. Il progetto, finanziato dal Ministero dell’Università e della Ricerca (MUR) tramite il Centro Nazionale per la Terapia Genica e Farmaci RNA nell’ambito del PNRR, è stato pubblicato sulla rivista Cell. I risultati ottenuti consentiranno di migliorare la comprensione della fisiologia tissutale e offriranno nuove informazioni fondamentali per la medicina di precisione. Elisabetta Ferretti del Dipartimento di Medicina Sperimentale ha sottolineato che lo studio nasce dalla collaborazione con Giuseppe Macino, emerito dell’Università Sapienza e presidente della Fondazione Forge di Udine, con Nikolaus Rajewsky, direttore del Laboratorio di Biologia dei Sistemi degli Elementi Regolatori Genici presso l’Istituto di Biologia dei Sistemi Medici di Berlino del Max Delbrück Centre (MDC-BIMSB), e con Massimiliano Pagani dell’Università di Milano e direttore del Laboratorio di Oncologia Molecolare e Immunologia presso IFOM.

La capacità di mappare i tessuti distinguendo le singole cellule in tre dimensioni rappresenta un obiettivo cruciale nella ricerca clinica in patologia e fisiologia. Per raggiungere questo traguardo, è fondamentale perfezionare i sistemi di analisi e mappatura dei campioni biologici, rendendoli sempre più precisi, efficienti ed economici. Questo studio aprirà anche nuove strade per la diagnosi precoce e la personalizzazione delle terapie mediche.

Il nuovo sistema permette di analizzare tridimensionalmente i trascritti, cioè le molecole di RNA che trasmettono le informazioni genetiche all’interno della cellula. Fino a pochi anni fa, le tecniche di analisi molecolare erano limitate a fornire valori medi per un ampio numero di molecole, impedendo di ottenere analisi dettagliate. Negli ultimi dieci anni, però, l’uso di strumenti single-cell omics ha reso possibile lo studio di ogni singola cellula e del suo specifico contributo molecolare in un campione. Anche se queste analisi

hanno aumentato notevolmente la quantità di informazioni disponibili, non permettevano di identificare la localizzazione spaziale di ogni cellula all’interno di un tessuto. Grazie a Open-ST, è ora possibile mappare con precisione la posizione di ciascuna cellula, migliorando la comprensione delle interazioni cellulari e delle dinamiche dei tessuti.

Recentemente, sono state sviluppate tecnologie capaci di considerare la disposizione spaziale delle cellule. Questi metodi di analisi dei trascritti caratterizzano le molecole di RNA trascritte da ciascun gene mantenendo la loro posizione all’interno del tessuto. Tuttavia, queste tecnologie sono limitate dall’alto costo e dalla risoluzione insufficiente per la definizione delle molecole a livello di singola cellula.

Il nuovo sistema Open-ST supera queste limitazioni, consentendo uno studio tridimensionale dei componenti cellulari attraverso una serie di passaggi sperimentali precisi. Questi includono l’analisi dei marcatori molecolari, la suddivisione delle cellule in subunità per analisi separate, l’editing e la visualizzazione digitale dei dati tramite software specializzati.

Per dimostrare l’efficacia di Open-ST, i ricercatori hanno applicato il sistema a vari tipi di tessuti. In particolare, hanno analizzato con successo tessuti di carcinoma umano, noto per la sua elevata variabilità genetica, e tessuti di linfoma, dimostrando come l’approccio OpenST possa identificare biomarcatori cruciali per la caratterizzazione del tessuto tumorale.

Elena Splendiani dell’Università Sapienza di Roma e prima autrice dello studio, ha spiegato che i trascritti di RNA sono fondamentali per la trasmissione delle informazioni genetiche. Misurare la loro quantità con la nuova tecnologia Open-ST permette di definirli accuratamente e di conoscerne la distribuzione in 3D a livello intracellulare, ottenendo nuove informazioni sul posizionamento e la comunicazione tra le cellule. Ha inoltre sottolineato che sono stati analizzati i primi campioni di tessuti sani e tumorali, mettendo a punto la nuova tecnologia.

Giuseppe Macino ha aggiunto che con l’analisi ad alta definizione su un campione tumorale sono stati identificati 10 diversi tipi di cellule tumorali all’interno di un unico tumore, rivelando dettagli dell’eterogeneità tumorale mai descritti prima. (C. P.).

Secondo Elisabetta

SVILUPPATO OPEN-ST: METODO

INNOVATIVO PER LA MAPPATURA

TRIDIMENSIONALE DELLE CELLULE

Collaborazione internazionale tra Università Sapienza di Roma, MDC di Berlino e Università di Milano rivela nuove informazioni fondamentali per la medicina di precisione

La lotta al tumore al seno prosegue senza sosta e con risultati sempre più incoraggianti. Basti pensare che nel 2024 si prevede una diminuzione del 6% di casi nell’Unione Europea col passaggio da 14 casi per 100.000 donne nel 2018 a 13 nel 2024. I dati sono in miglioramento anche per quanto riguarda il Regno Unito, per il quale si parla di riduzione dell’11%, da 15 a 13 casi per 100.000 donne. Certo, tanti altri passi avanti devono ancora essere compiuti, ma grazie al progresso della scienza e a campagne informative mirate si può guardare al futuro con un pizzico di fiducia in più. E tra gli obiettivi che si intende raggiungere nel più breve tempo possibile c’è senza dubbio quello di evitare la chirurgia invasiva nelle pazienti malate in stadio iniziale. In tal senso un ruolo fondamentale potrebbe ricoprirlo la cosiddetta terapia del freddo.

Diversi studi, infatti, hanno già dimostrato che questo tipo di trattamento è di fatto paragonabile al bisturi. Il primo studio clinico italiano sulla crioablazione è stato avviato dall’Istituto Europeo di Oncolo -

TUMORE AL SENO: TERAPIA DEL FREDDO PER EVITARE LA CHIRURGIA

Al via il primo studio clinico italiano sulla crioablazione: la tecnica può essere utilizzata per le pazienti con un cancro in stadio iniziale

gia. Questo progetto ha preso il nome di Precice e ha ricevuto l’immediato supporto da parte della Fondazione Veronesi con un coinvolgimento di 234 pazienti di età superiore ai 50 anni che presentano tumori mammari di piccole dimensioni (fino a 15 mm) a basso rischio.

Quello che cambia non è di poco conto per le pazienti coinvolte in questa fase di sperimentazione terapeutica assolutamente calcolata. Il percorso da compiere rimane quello standard, con radioterapia e chemio se necessaria. Ma la rimozione del tumore avviene senza effettuare alcun taglio chirurgico. In questa maniera alle pazienti è concesso di tornare immediatamente a casa nel giorno stesso del trattamento, senza alcuna degenza, senza nessuna cicatrice e senza il bisogno di applicare alcuna protesi.

di Domenico Esposito

Ma come funzione la crioablazione? La terapia del ghiaccio è una tecnica che sfrutta temperature estremamente basse per distruggere i tessuti tumorali. Tale procedura è eseguibile in anestesia locale tramite l’inserimento di una sonda dalle dimensioni di un ago (criosonda), guidata da ecografia, fino a raggiungere il tumore. Una volta individuato e raggiunto l’obiettivo, la sonda rilascia la sua carica refrigerante, che può arrivare a -190 gradi, distruggendo il tumore.

I vantaggi della crioablazione sono evidenti. Quello più evidente è legato alla sua natura, tutt’altro che invasiva rispetto alla chirurgia.

Dopodiché c’è anche l’aspetto estetico che non va trascurato, oltre al numero di complicazioni che risulta inferiore, non essendoci stato intervento. Infine, l’ultimo aspetto da considerare è quello dei costi che sono più bassi per il sistema sanitario.

L’efficacia della crioablazione è stata portata alla ribalta dallo studio americano ICE3 (Cryoablation of Low Risk

Small Breast Cancer), che ha coinvolto donne con tumori di piccole dimensioni e a basso rischio, dimostrando l’efficacia della terapia del ghiaccio nella capacità di controllare il tumore. Nel dettaglio, la ricerca ha evidenziato una capacità di successo della terapia del 96,4% nella prevenzione delle recidive a cinque anni, indicando questa tecnica come quella del futuro o quanto meno una valida e meno invasiva alternativa da prendere in seria considerazione rispetto alla chirurgia tradizionale.

Paolo Veronesi, direttore del programma senologia dell’Istituto Europeo di Oncologia e presidente della Fondazione Veronesi, ha spiegato proprio la necessità di ridurre l’invasività del bisturi. «La chirurgia è il trattamento standard per le donne con tumore del seno ed è il caposaldo delle cure per questa malattia - ha spiegato l’esperto -.

Negli ultimi 40 anni, tuttavia, l’impegno di tutti i senologi del mondo, e in prima linea qui all’Istituto Europeo di Oncologia, si è concentrato nel ridurre al minimo l’invasività dell’atto chirurgico per ottenere il minore impatto possibile sulla vita della donna a parità di sicurezza oncologica». L’obiettivo è proprio quello di inserire questa pratica nell’offerta di cura del tumore al seno: «Vogliamo fare in modo che la donna che si presenta a noi con una diagnosi di cancro mammario abbia sempre la consapevolezza rassicurante di ricevere una terapia su misura qualsiasi sia lo stadio e il tipo della sua malattia» ha aggiunto Veronesi.

Tecniche come la crioablazione sono in grado di aprire nuove prospettive per il futuro allargando gli orizzonti dei trattamenti conservativi. Proprio quest’ultimo aspetto è stato trattato da Veronesi che ha così chiosato: «Per curare in modo conservativo sono necessarie due condizioni: una diagnosi precocissima e strumenti mininvasivi capaci di cogliere il vantaggio di intercettare un tumore estremamente piccolo. La tecnica della crioablazione è uno di questi strumenti ed è sicuramente fra i più innovativi. Con questo primo studio italiano vogliamo dimostrare che l’uso della crioablazione percutanea nel trattamento del carcinoma mammario a basso rischio non è inferiore rispetto alla chirurgia».

INTENSIFICARE LO SCREENING PER SALVARE DAL CARCINOMA POLMONARE

Anticipare la diagnosi e avere maggiore probabilità di cura per una delle forme tumorali con più alta incidenza di mortalità

Il carcinoma del polmone è la principale causa di decesso per cancro in tutto il mondo sia per gli uomini che per le donne. Tra le varie cause, per l’85% dei casi è legato al fumo di sigaretta. I sintomi possono essere tosse, oppressione toracica o dolore, perdita di peso, e, più raramente, emottisi; tuttavia, molti pazienti si presentano alla prima diagnosi con malattia metastatica con o senza sintomi clinici.

La diagnosi è effettuata sulla base di una radiografia o una TC del torace ed è confermata da una biopsia polmonare. In base allo stadio della malattia, il trattamento comprende la chirurgia, la chemioterapia, la radioterapia, o un loro impiego combinato. Negli ultimi decenni, la prognosi di un paziente con tumore al polmone era scadente, solo il 15% dei pazienti sopravviveva 5 anni dal momento della diagnosi. Per i pazienti allo stadio IV della malattia (metastatico), il tasso di sopravvivenza globale a 5 anni era dell’1%. Tuttavia, i risultati sono migliorati a causa dell’identificazione di alcune mutazioni che possono essere mirate alla terapia e gli attuali tassi di sopravvivenza a 5 anni sono del 19% (23% per le donne e 16% per gli uomini).

Nella maggior parte dei casi il carcinoma viene scoperto quando ormai è in stadio avanzato. È opportuno che gli adulti di età compresa tra 50 e 80 anni, che fumano almeno 20

pacchetti all’anno o che hanno smesso di farlo entro i 15 anni precedenti, si sottopongano ogni anno a esami imaging per la diagnosi precoce di tumore al polmone. Nell’ultimo periodo infatti è stata confermata la teoria secondo la quale prevenire il tumore grazie allo screening può allungare la vita. Molti studiosi hanno notato che sottoporre a controlli annuali le persone a rischio permette di diagnosticare prima il tumore, così da avere più speranze di curarlo. Dato che i dati di real-life sono limitati, è stato valutato l’impatto effettivo del programma tra i pazienti seguiti dalla Veterans Health Administration, il sistema di assistenza sanitaria attivo negli States rivolto ai veterani, che avevano ricevuto una diagnosi di cancro ai polmoni nel periodo 2011-2018. Su un totale di 57.919 assistiti colpiti dal tumore, 2.167 (3,9%) erano stati sottoposti a screening prima della diagnosi. Ebbene, fra questi ultimi sono stati osservati tassi più alti di diagnosi precoce (52% di casi in stadio I, rispetto al 27% tra il gruppo non screenato), nonché tassi più bassi di morte per qualsiasi causa (49,8% contro 72,1%) e di morte per CANCRO (41% contro 70,3%) in 5 anni.

Così poi si è espresso Michael Green dell’università del Michigan e del Veterans Affairs Ann Arbor Healthcare System: «È incredibile essere testimoni di come gli sforzi nazionali volti ad aumentare gli screening nell’ambito

di Eleonora Caruso

del Programma di oncologia di precisione per il polmone possano portare a miglioramenti sostanziali negli esiti della malattia».

Inoltre, uno studio condotto sui veterani Usa e pubblicato su ‘Cancer’, rivista dell’American Cancer Society, ha promosso un approccio di prevenzione secondaria che il nostro Paese intende adottare su scala nazionale. Ha affermato il ministro della Salute Orazio Schillaci nel marzo scorso, ospite a Roma dell’evento Adnkronos Q&A “Salute e sanità, una sfida condivisa”: «Spero che l’Italia diventi la prima nazione Ue ad avere uno screening per il cancro del polmone».

Lo screening, dunque, rappresenta una risorsa preziosa per la salute pubblica dato che anticipare la diagnosi di tumore significa cambiare radicalmente la prognosi ed evoluzione della malattia, con un impatto rilevante sull’aspettativa di vita e al contempo sui costi sociali dovuti alla perdita di produttività. Proprio per questo sono attivi da tempo, per molte patologie oncologiche, come per esempio il cancro al seno, dei programmi organizzati, promossi dal Servizio Sanitario Nazionale e Regionale, rivolti alle fasce di popolazione più a rischio.

I risultati hanno indicato che accumulare oltre il 50% dell’attività fisica moderata-vigorosa in serata era associato a una significativa riduzione dei livelli di glucosio nel sangue durante il giorno, la notte e complessivamente, rispetto all’essere inattivi.

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Recentemente è stato anche promosso dall’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano il Risp, un programma gratuito di diagnosi precoce del tumore al polmone con Tac torace. Il programma ha l’obiettivo di reclutare 10.000 candidati ad alto rischio, e coinvolge 18 centri in 15 differenti regioni italiane. «L’obiettivo strategico del programma Risp - spiega Ugo Pastorino, direttore della Sc Chirurgia toracica dell’Istituto nazionale dei tumori (Int) di Milano e responsabile del progetto Risp - è quello di implementare su tutto il territorio nazionale un programma di screening del tumore polmonare con Ldct, attraverso una rete di centri ad elevata competenza clinica multidisciplinare, allo scopo di ottenere una significativa riduzione della mortalità per cancro polmonare nei forti fumatori (dal 40% al 50%) e, potenzialmente, anche per altre patologie causate dal fumo. Il tutto attraverso un sistema di diagnosi precoce che utilizza la Ldct torace con periodicità variabile, sulla base del rischio individuale di ogni soggetto. Il programma Risp ha ottenuto un numero di adesioni superiori alle attese».

SCOPRIRE IL PARKINSON

CON UN TEST DEL SANGUE

Un approccio innovativo che combina spettrometria di massa e apprendimento automatico per scoprire biomarcatori del sangue utili alla diagnosi precoce

Un test multiplex di spettrometria di massa proteomica mirato a identificare gli individui a rischio di sviluppare il morbo di Parkinson questo l’obiettivo della ricerca pubblicata su Nature Communications guidata dalla University College London e Centro Medico Universitario di Goettingen (Germania) con il contributo italiano dell’Università di Bologna e dell’Istituto delle Scienze Neurologiche di Bologna. I ricercatori hanno utilizzato una combinazione di fenotipizzazione proteomica tramite spettrometria di massa e apprendimento automatico per individuare biomarcatori del sangue nelle fasi iniziali del morbo di Parkinson.

Per sviluppare misure preventive e trattamenti che modifichino la progressione della malattia, è essenziale comprendere meglio gli eventi iniziali della patogenesi molecolare del morbo di Parkinson. Questo richiede biomarcatori nei fluidi periferici che siano oggettivi e meno invasivi, insieme ad analisi approfondite dei biofluidi. Biomarcatori capaci di individuare la malattia in una fase precoce potrebbero migliorare lo screening della popolazione per identificare i pazienti a rischio, facilitando la loro partecipazione a futuri studi preventivi e migliorando il monitoraggio del morbo.

Il gruppo di studio esplorativo ha coinvolto pazienti con morbo di Parkinson non trattati (otto maschi, età media 67 anni) e dieci soggetti sani di controllo (cinque uomini, età media 66 anni) provenienti dalla coorte DeNoPa. La

coorte di validazione ha coinvolto 99 individui con diagnosi recente di Parkinson motorio (49 maschi, età media 66 anni), 36 soggetti sani di controllo (HC, 20 uomini, età

di Carmen Paradiso

media 64 anni) e 29 individui con altri disturbi neurologici (OND, età media 70 anni). La coorte di validazione prodromica ha incluso54 individui pre-motori con disturbo comportamentale del sonno REM isolato (iRBD, 27 maschi, età media 68 anni).

I ricercatori hanno impiegato la proteomica plasmatica mirata nella fase I, affinando i risultati con la cromatografia liquida-spettrometria di massa (LC-MS) nella fase II. Durante la fase I, hanno classificato i pazienti con Parkinson e i soggetti di controllo utilizzando vettori di supporto lineari. Hanno analizzato la relazione tra le proteine e i dati clinici confrontando l’espressione proteica nei pazienti con Parkinson e nei soggetti di controllo (dalla fase I) con i punteggi del Mini-Mental State Examination (MMSE), lo stadio Hoehn & Yahr (H&Y) e la Unified Parkinson’s Disease Rating Scale

Il Parkinson è una malattia neurologica in aumento che compromette il sistema nervoso centrale, manifestandosi con sintomi sia motori che non motori, causati dall’aggregazione di alfa-sinucleina nelle cellule dopaminergiche. I biomarcatori nei fluidi periferici, come la catena leggera dei neurofilamenti (NfL), hanno mostrato incrementi che sono correlati alla progressione dei sintomi motori e cognitivi.

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(UPDRS) I-III. In questa fase, hanno esaminato le correlazioni e creato mappe di calore delle proteine rilevate dalla spettrometria di massa mirata, mettendole in relazione con le valutazioni cliniche nei soggetti di controllo e nei pazienti con Parkinson.

Nella fase II, i ricercatori hanno sviluppato e convalidato un test proteomico mirato ad alto rendimento, utilizzando spettrometria di massa multiplexata, basato sui biomarcatori individuati durante la fase di scoperta. In questa fase, hanno riscontrato differenze proteiche significative tra i gruppi di controllo sani (HC), pazienti con Parkinson de novo (DNP), individui con altri disturbi neurologici (OND) e quelli con disturbo comportamentale del sonno REM isolato prodromico (iRBD). I ricercatori hanno prelevato campioni di sangue e liquido cerebrospinale (CSF) dai partecipanti. Le proteine sono state identificate tramite spettrometria di massa e l’espressione proteica è stata valutata con saggi immunoenzimatici (ELISA) e nefelometria. Hanno esaminato il ruolo delle proteine espresse in modo differenziato nei processi molecolari utilizzando l’analisi dei pathway. La diagnosi di Parkinson è stata determinata utilizzando i criteri della United Kingdom Brain Bank, mentre la diagnosi di iRBD è stata convalidata tramite polisonnografia videoregistrata (vPSG).

L’algoritmo di apprendimento automatico ha identificato con precisione i pazienti con Parkinson e ha classificato il 79% degli individui pre-motori fino a sette anni prima dell’insorgenza dei sintomi motori. I ricercatori hanno individuato tre cluster principali di pathway: molecole inibitorie della serina proteasi o serpine, componenti della coagulazione e del complemento, proteine legate allo stress termico e endoplasmatico, e molecola di adesione cellulare vascolare 1 (VCAM1), subunità catalitica della proteina fosfatasi-3 beta (PPP3B) ed espressione di SELE. I pathway infiammatori erano i più rilevanti, seguiti da quelli che regolano il ripiegamento delle proteine, le proteine da shock termico e lo stress del reticolo endoplasmatico.

Questo studio apre la strada a diagnosi più precise e precoci, permettendo la somministrazione delle terapie più efficaci e una prevenzione utile a rallentare la progressione della malattia.

MODULARE LA TEMPERATURA CORPOREA: STRATEGIA CONTRO

L’ANTIBIOTICORESISTENZA

Lo studio rivela come l’aumento della temperatura influenzi la mutazione batterica e l’efficacia degli antibiotici

Modulare la temperatura corporea come strategia per contrastare la resistenza agli antibiotici è un concetto innovativo che potrebbe offrire nuove prospettive nel trattamento delle infezioni. È questo l’obiettivo dello studio pubblicato sulla rivista scientifica JAC-Antimicrobial Resistance.

La temperatura corporea è una componente fondamentale della risposta immunitaria. Durante un’infezione, il corpo può aumentare la sua temperatura per creare un ambiente ostile ai patogeni. Molti batteri e virus hanno una gamma di temperatura ottimale per la loro crescita, e un aumento della temperatura corporea può inibire la loro replicazione. La resistenza agli antibiotici è uno dei problemi più gravi e urgenti che la salute pubblica globale deve affrontare. È un fenomeno evolutivo complesso che si manifesta attraverso la selezione naturale su mutazioni casuali all’interno del genoma dei batteri. Questo processo può essere accelerato o guidato attraverso l’applicazione di uno stress evolutivo a una popolazione batterica, spingendo i batteri a sviluppare meccanismi di difesa contro gli antibiotici. Una volta che un batterio acquisisce un gene di resistenza, può trasmettere queste informazioni genetiche ad altri batteri tramite un processo noto come trasferimento genico orizzontale, che spesso avviene attraverso lo scambio di plasmidi. Quando un batterio accumula più geni di resistenza, viene classificato come multiresistente. Questi batteri multiresistenti sono comunemente noti come superbatteri, poiché possono sopravvivere a trattamenti con diversi tipi di antibiotici, rendendo le infezioni che causano estremamente difficili da trattare. Questo problema non si limita solo ai batteri, motivo per cui si usa spesso il termine resistenza antimicrobica per includere anche altri microrganismi come funghi, virus e parassiti che mostrano resistenza ai trattamenti antimicrobici. La crescita di batteri multiresistenti è alimentata da vari fattori, tra cui l’uso eccessivo e inappropriato di antibiotici in medicina. La capacità dei batteri di scambiare geni di resistenza complica ulteriormente il controllo delle infezioni, rendendo essenziale lo sviluppo di nuove strategie terapeutiche e misure preventive.

La resistenza antimicrobica dei patogeni è riconosciuta dall’OMS come una delle principali minacce per la salute pubblica. Ci sono due strategie per affrontarla: sviluppare nuovi farmaci

Una volta che un batterio acquisisce un gene di resistenza, può trasmettere queste informazioni genetiche ad altri batteri tramite un processo noto come trasferimento genico orizzontale, che spesso avviene attraverso lo scambio di plasmidi. I plasmidi sono piccoli segmenti di DNA che possono essere facilmente trasferiti tra batteri, facilitando la diffusione della resistenza.

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o prevenire la comparsa della resistenza. Timo van Eldijk, co-primo autore dello studio, ha spiegato che è noto come la temperatura influisca sul tasso di mutazione nei batteri; ciò che si voleva esaminare era come l’aumento della temperatura associato alla febbre incidesse sul tasso di mutazione verso la resistenza agli antibiotici. Secondo Van Eldijk la maggior parte delle ricerche sulle mutazioni di resistenza erano state effettuate abbassando la temperatura ambiente e, per quanto ne sapevano, nessuno aveva utilizzato un aumento moderato rispetto alla temperatura corporea normale. Dopo aver coltivato batteri E. coli a 37 o 40 gradi Celsius ed esposto i batteri a tre diversi antibiotici per valutarne l’effetto, è emerso che alcuni studi precedenti sull’uomo avevano esaminato la relazione tra temperatura e antibiotici, ma non era stato controllato il tipo di farmaco utilizzato. Nel loro esperimento di laboratorio, il team ha impiegato tre antibiotici con differenti modalità di azione: ciprofloxacina, rifampicina e ampicillina.

I risultati hanno evidenziato che l’aumento della temperatura ha causato un incremento del tasso di mutazione verso la resistenza per due farmaci, ciprofloxacina e rifampicina. Al contrario, l’ampicillina ha mostrato una diminuzione del tasso di mutazione verso la resistenza alle temperature febbrili. Van Eldijk ha confermato che per verificare questi risultati, lo studio è stato replicato in due laboratori differenti, presso l’Università di Groningen e l’Università di Montpellier, ottenendo gli stessi esiti. I ricercatori hanno teorizzato che l’efficacia dell’ampicillina fosse influenzata dalla temperatura e hanno convalidato questa ipotesi attraverso un esperimento. Ciò spiega perché la resistenza all’ampicillina è meno probabile a 40 gradi Celsius. Lo studio dimostra come un cambiamento minimo della temperatura possa alterare significativamente il tasso di mutazione verso la resistenza antimicrobica, senza influire su altri parametri come il tasso di crescita. Se questi risultati fossero confermati, potrebbero aprire nuove strade nella lotta contro la resistenza antimicrobica, attraverso l’uso di farmaci antipiretici per abbassare la temperatura o somministrando antibiotici più efficaci a temperature elevate ai pazienti febbricitanti. Secondo il team di ricerca la combinazione ottimizzata di antibiotici e strategie di riduzione della febbre potrebbe costituire una nuova arma contro la resistenza agli antibiotici. (C. P.).

Un sistema di classificazione quantitativa delle disfunzioni neurobiologiche basato su un modello teorico potrebbe migliorare la diagnosi clinica dei disturbi legati ad ansia e depressione, rendendo potenzialmente più efficaci i trattamenti farmacologici e comportamentali.

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In un recente studio pubblicato su Nature Medicine, i ricercatori hanno impiegato dati di risonanza magnetica funzionale (fMRI) per analizzare la funzione dei circuiti cerebrali e ottenere punteggi personalizzati e interpretabili di disfunzione cerebrale nei pazienti con ansia e depressione. Questi punteggi sono stati utilizzati per identificare quantitativamente biotipi in base alle somiglianze nella disfunzione neurobiologica, con l’obiettivo di migliorare la risposta alle terapie farmacologiche e comportamentali.

La crescente comprensione dei disturbi mentali rivela che ansia e depressione costituiscono una parte significativa del carico globale sulla salute pubblica. Tuttavia, la diversità nei fenotipi e nelle cause dell’ansia e della depressione presenta numerose sfide per un trattamento efficace. L’applicazione di etichette univoche da parte del sistema diagnostico attuale a sindromi diverse con sintomi e processi neurobiologici sovrapposti è uno dei motivi per cui i trattamenti di prima linea non risultano efficaci per molti pazienti con diagnosi di depressione maggiore o ansia generalizzata.

Un sistema di classificazione quantitativa delle disfunzioni neurobiologiche basato su un modello teorico potrebbe migliorare la diagnosi clinica dei disturbi legati ad ansia e depressione, rendendo potenzialmente più efficaci i trattamenti farmacologici e comportamentali. Durante l’acquisizione dei dati fMRI, i ricercatori hanno esaminato sei circuiti cerebrali, tra cui i circuiti di salienza, attenzione, affetto negativo, affetto positivo, controllo cognitivo e il circuito della modalità predefinita. Per estrarre regioni di interesse dalle immagini di questi sei circuiti sono state utilizzate piattaforme meta-analitiche.

Lo studio ha coinvolto circa 800 pazienti con ansia e depressione, il 95% dei quali non era in trattamento al momento dell’arruolamento. Utilizzando le stesse sequenze di fMRI, i ricercatori hanno misurato i comportamenti e i sintomi di tutti i partecipanti, fornendo una base clinica per convalidare i biotipi.

L’analisi ha rivelato che i pazienti appartenenti a diversi biotipi mostravano profili di sintomi e prestazioni diverse nei test comportamentali cognitivi computerizzati, sia generali che emotivi. Inoltre, poiché una parte significativa dei partecipanti si era iscritta a studi clinici di terapia comportamentale o antidepressivi, i

ricercatori hanno potuto osservare e presentare le differenze nei risultati del trattamento per ciascun biotipo.

In questo studio, i ricercatori hanno introdotto un innovativo metodo per identificare e definire i biotipi di ansia e depressione utilizzando dati fMRI relativi alle funzioni dei circuiti cerebrali, ottenuti sia in condizioni task-free che task-evoked. Questi dati sono stati quantificati per ogni paziente e valutati in base ai comportamenti, ai sintomi transdiagnostici e ai diversi risultati del trattamento.

Per quantificare la funzionalità dei circuiti cerebrali, è stato impiegato un sistema standardizzato basato su un quadro teorico elaborato da diversi studi sull’imaging funzionale del cervello. Questo sistema mette insieme la disfunzione nei circuiti cerebrali su larga scala con le caratteristiche cliniche dell’ansia e della depressione. I risultati hanno evidenziato che i sei biotipi, definiti mediante profili di disfunzione dei circuiti cerebrali sia in condizioni di riposo che di attività, erano distinguibili in base ai sintomi, alle prestazioni nei test cognitivi computerizzati e alla risposta ai trattamenti. Inoltre, i biotipi si sono dimostrati efficaci sia con i farmaci sia nel predire la risposta alla terapia comportamentale. Lo studio ha confrontato la risposta di

ogni biotipo a un intervento comportamentale e a tre diversi antidepressivi.

I ricercatori hanno rilevato che i sei biotipi non corrispondevano alle tradizionali classificazioni di ansia, depressione o altri disturbi correlati, come il disturbo ossessivo-compulsivo, il disturbo d’ansia sociale, il disturbo di panico e il disturbo da stress post-traumatico.

I risultati hanno mostrato che il biotipo caratterizzato da un’iperconnettività ai circuiti in condizioni di riposo, inclusi i circuiti della modalità predefinita, rispondeva meglio alla terapia comportamentale, mentre il biotipo con una ridotta connettività ai circuiti dell’at -

I sei biotipi di ansia e depressione identificati in questo studio tramite un quadro teorico tassonomico erano supportati da differenze nei sintomi, nelle prestazioni dei test cognitivi e nella risposta ai trattamenti.

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tenzione aveva una scarsa risposta alla terapia comportamentale. Il biotipo con un circuito di controllo cognitivo iperattivo rispondeva favorevolmente all’antidepressivo venlafaxina.

In sintesi, i risultati hanno evidenziato che i sei biotipi di ansia e depressione identificati in questo studio tramite un quadro teorico tassonomico erano supportati da differenze nei sintomi, nelle prestazioni dei test cognitivi e nella risposta ai trattamenti. Questi dati suggeriscono che questo innovativo metodo di biotipizzazione per ansia e depressione potrebbe rendere le diagnosi cliniche più accurate e, di conseguenza, migliorare i risultati terapeutici adattando i trattamenti in funzione dei biotipi specifici. (C. P.).

IDENTIFICAZIONE DI SEI BIOTIPI DI ANSIA E DEPRESSIONE TRAMITE

FMRI E CIRCUITI CEREBRALI

Un sistema di classificazione quantitativa basato sulla funzionalità dei circuiti cerebrali per migliorare diagnosi e trattamenti personalizzati

Idati riguardanti l’obesità sono sempre più allarmati e in costante aumento. Dall’ultimo report dell’Organizzazione Mondiale della Sanità in uno studio pubblicato su The Lancet emerge che nel 2022 più di un miliardo di persone era obeso. Una persona su otto, per intenderci. E se questa forma di malnutrizione che comporta notevoli disagi e rischi per la salute è più che raddoppiata tra gli adulti rispetto al 1990, è addirittura quadruplicata tra i bambini e gli adolescenti. Anche quando si fa riferimento al sovrappeso i numeri sono drammatici, perché lo è il 43% della popolazione adulta mondiale. Finora le iniziative e i progetti messi in campo non hanno prodotto risultati significativi ed è per questo motivo che l’Oms ha chiesto a tutti di intensificare gli sforzi, prima che sia davvero troppo tardi. Intanto emergono novità sulle cause dell’obesità, che potrebbe essere legata anche a una questione genetica. È ciò che afferma uno studio condotto dall’Università di Exeter, nel Regno Unito, che ha identificato nel gene SMIM1 una possibile chiave di questa patologia cronica caratterizzata da un eccesso di grasso corporeo. A pubblicare quanto portato alla luce da questa nuova ricerca è stata la rivista scientifica Med che ha fornito ampio

Da un recente meno energia quando

L’OBESITÀ NON

MA ANCHE

spazio alla questione. Gli esperti dell’Università di Exeter hanno scoperto che alcune persone dotate di un raro gruppo sanguigno sono geneticamente predisposte al sovrappeso o all’obesità. Nel dettaglio, si tratta di soggetti con una variante genetica in grado di disattivare il gene SMIM1 che hanno un peso corporeo maggiore in quanto consumano meno energia quando sono a riposo. Questo gene SMIM1 è stato scoperto e identificato solamente dieci anni fa, come spiegato dall’ateneo britannico, nell’ambito della ricerca del gene che codifica uno specifico gruppo sanguigno, noto come Vel. Chi è Vel-negativo, ossia privo di entrambe le copie del gene (si stima un soggetto su 5.000), ha - secondo lo studio - anche maggiori probabilità di essere in sovrappeso. Il risultato è ritenuto molto importante, perché potrebbe un giorno portare a nuovi trattamenti contro l’obesità. Nello specifico il team di scienziati ha scoperto che gli individui portatori di questa variante genetica avevano diversi fattori associati all’obesità, tra cui alti livelli di grassi nel sangue, segni di disfunzione del tessuto adiposo, aumento degli enzimi epatici e bassi livelli di ormone tiroideo. L’obiettivo - si spera a breve - è di riuscire a capire se un farmaco per la disfunzione tiroidea a basso costo e ampiamente disponibile possa risultare efficace nel trattamento dell’obesità nelle persone a cui mancano entrambe le copie di SMIM1.

Ma come sono arrivati a questa conclusione i ricercatori dell’Università britannica che si sono avvalsi della collaborazione dei colleghi dell’Università di Cambridge, del Sanger Institute,

Philipp Scherer, direttore del Touchstone Diabetes Center presso il Southwestern Medical Center dell’Università del Texas, ha spiegato che «le copie difettose del gene SMIM1 causano una diminuzione della funzione della tiroide e una diminuzione del dispendio energetico, il che significa che, data la stessa assunzione di cibo, viene utilizzata meno energia e questo eccesso è immagazzinato come grasso». Jill Storry, professoressa dell’Università di Lund, ha quindi aggiunto: «È stato emozionante scoprire che questo gene, scoperto solo dieci anni fa, ha un ruolo più generale nel metabolismo umano».

dell’Università di Copenaghen e dell’Università di Lund? Anzitutto, studiando le informazioni genetiche di 500.000 soggetti raccolte nella UK Biobank, la più grande Biobanca del Regno Unito. Tra tutte le persone analizzate, 104 si sono rivelate portatrici della variante genetica di SMIM1 in omozigosi con leggerissima supremazia delle donne (46 contro 44 uomini). Compito degli studiosi è stato poi quello di valutare l’impatto della variante genetica sul peso corporeo, rilevando tra i portatori di questa variante un eccesso di peso pari a una media di 4,6 chilogrammi in più nelle donne e di 2,4 negli uomini.

I ricercatori si sono dati un nuovo compito, in base alle informazioni fino ad oggi raccolte. A spiegarlo è stato Mattia Frontini, tra i coordinatori dello studio: «I tassi di obesità sono quasi triplicati negli ultimi 50 anni. Ma in una piccola minoranza di persone l’obesità è causata da varianti genetiche. In questo caso è possibile individuare nuovi trattamenti per fronteggiare il problema, per cui ci auguriamo di procedere presto con la sperimentazione clinica così da scoprire se un farmaco ampiamente disponibile per l’integrazione della tiroide possa essere utile nel trattamento dell’obesità nelle persone prive di SMIM1». La speranza è che si possa aggiungere una nuova freccia all’arco della lotta all’obesità. Una malattia subdola, purtroppo nella maggior parte dei casi sottovalutata e proprio per questo motivo tra le più pericolose. Perché l’obesità aumenta la probabilità di sviluppare altre patologie: dalle malattie cardiovascolari ai tumori. (D. E.).

studio è emerso che le persone con un raro gruppo sanguigno bruciano quando riposano e quindi hanno maggiori probabilità di essere in sovrappeso

DIPENDE SOLO DALL’ALIMENTAZIONE

DA UN DIFETTO GENETICO

ATTIVITÀ FISICA AL MATTINO O DI SERA? LA “PROPOSTA” PUBBLICATA SU OBESITY

Ci sarebbero dei vantaggi nel fare movimento durante la seconda parte della giornata soprattutto per soggetti obesi o in sovrappeso e per la regolazione della glicemia

Quando è meglio allenarsi, all’alba o al tramonto? Questo è un quesito comune tra gli appassionati di fitness che desiderano scegliere il momento ideale per l’attività fisica per massimizzare i benefici. La scienza offre un aiuto prezioso in questa scelta. Una recente ricerca suggerisce che l’allenamento serale potrebbe essere particolarmente vantaggioso. Sembra infatti che fare attività fisica di intensità moderata o vigorosa in serata abbia un impatto più significativo sulla glicemia rispetto ad altri momenti della giornata.

Per le persone sedentarie in sovrappeso o obese, allenarsi la sera può risultare più efficace nel ridurre i livelli giornalieri di zucchero nel sangue. Questo è quanto emerge da uno studio pubblicato sulla rivista “Obesity”. Jonatan R. Ruiz, professore all’Università di Granada e membro del Center for Biomedical Research Network Pathophysiology of Obesity and Nutrition (Ciberobn) in Spagna, ha commentato che il momento della giornata in cui si svolge l’esercizio fisico dovrebbe essere considerato attentamente per migliorare l’efficacia dei programmi di attività fisica prescritti dai medici e dai professionisti dello sport.

È noto che l’attività fisica di intensità moderata o intensa migliora la regolazione del glucosio nel corpo, una funzione cruciale per gli adulti in sovrappeso o obesi, che sono a maggior rischio

di sviluppare resistenza all’insulina. Tuttavia, esistono ancora poche informazioni riguardo al momento ottimale per svolgere l’attività fisica al fine di migliorare il controllo della glicemia quotidiana. Ruiz, insieme al suo collega Antonio Clavero-Jimeno, ha indagato su questo aspetto.

Lo studio ha utilizzato dati provenienti da un trial randomizzato e controllato, condotto in Spagna nelle città di Granada e Pamplona. L’obiettivo era valutare la fattibilità di una dieta con restrizione temporale e la sua efficacia sul tessuto adiposo viscerale, sulla composizione corporea e sui fattori di rischio cardiometabolico negli adulti sovrappeso e obesi. Il campione era composto da 186 adulti con un’età media di 46 anni e un indice di massa corporea (BMI) medio di 32,9.

I partecipanti sono stati monitorati per un periodo di 14 giorni utilizzando un accelerometro triassiale, indossato sul polso non dominante, e un dispositivo di monitoraggio continuo della glicemia. I ricercatori hanno classificato l’attività fisica moderata-vigorosa accumulata giornalmente in diverse categorie: inattivo, mattina (6:00-12:00), pomeriggio (12:00-18:00), sera (18:00-24:00) e mista, se l’attività non rientrava in una specifica finestra temporale.

I risultati hanno indicato che accumulare oltre il 50% dell’attività fisica moderata-vigorosa in serata era associato a una significativa riduzione dei livelli di glucosio nel sangue durante

di Carmen Paradiso

il giorno, la notte e complessivamente, rispetto all’essere inattivi. Questa associazione era più pronunciata nei partecipanti con una regolazione del glucosio alterata, e il modello era simile sia per gli uomini che per le donne.

Renee J. Rogers, scienziata senior all’University of Kansas Medical Center, afferma che questi risultati supportano l’idea di prescrizioni di esercizi personalizzati per diverse condizioni croniche. Non basta più consigliare genericamente ai pazienti di “muoversi di più”; è essenziale specificare che si muovano preferibilmente nel pomeriggio o in serata per ottimizzare la regolazione del glucosio.

Questo studio indica che il momento in cui si svolge l’attività fisica può influenzare significativamente i benefici per la salute, in particolare per quanto riguarda la regolazione della glicemia. Pertanto, gli adulti sovrappeso o obesi dovrebbero considerare di svolgere la loro attività fisica nel tardo pomeriggio o in serata, quando possibile. Questo approccio potrebbe migliorare significativamente i risultati di salute, offrendo una strategia più mirata per la gestione della glicemia e la prevenzione delle complicanze associate all’obesità e al sovrappeso.

È interessante notare come la cronobiologia, lo studio dei ritmi biologici, stia diventando sempre più rilevante nell’ambito della medicina e della salute pubblica. Capire come i vari processi biologici, inclusi quelli legati all’esercizio fi-

risultati hanno indicato che accumulare oltre il 50% dell’attività fisica moderata-vigorosa in serata era associato a una significativa riduzione dei livelli di glucosio nel sangue durante il giorno, la notte e complessivamente, rispetto all’essere inattivi.

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sico, variano nel corso della giornata può fornire indicazioni preziose per migliorare gli interventi clinici e le raccomandazioni di salute pubblica.

Saranno necessari ulteriori studi per confermare questi risultati e per esplorare le possibili implicazioni di altri fattori, come il tipo di esercizio fisico, la durata e l’intensità, nonché l’interazione con i ritmi circadiani individuali. Questi studi potrebbero anche considerare l’impatto di fattori ambientali e comportamentali, come l’esposizione alla luce naturale e i modelli di sonno, sulla regolazione della glicemia e sui benefici dell’attività fisica.

Per i professionisti della salute e del fitness, questi risultati suggeriscono che un approccio più personalizzato e attento ai ritmi circadiani dei pazienti potrebbe migliorare l’efficacia degli interventi. Ad esempio, per i pazienti con diabete o con alto rischio di sviluppare diabete, potrebbe essere utile programmare le sessioni di esercizio nel tardo pomeriggio o in serata, quando possibile, per massimizzare i benefici sul controllo glicemico.

Anche per gli individui che cercano di mantenere uno stile di vita sano, comprendere l’importanza del timing dell’esercizio fisico può fare la differenza. Integrare l’attività fisica nella routine quotidiana in modo strategico potrebbe aiutare a migliorare non solo la regolazione della glicemia, ma anche altri aspetti della salute metabolica e cardiovascolare.

I

BIOLOGI SPECIALIZZATI IN SICUREZZA ALIMENTARE: FORMAZIONE, COMPETENZE E OPPORTUNITÀ

Una panoramica generale per gli iscritti sulla professione diventata ormai indispensabile per garantire la salute e la sicurezza dei prodotti alimentari negli ultimi 20 anni

Con l’entrata in vigore del Pacchetto Igiene REGOLAMENTO (CE) N. 852/2004 DEL PARLAMENTO EUROPEO E DEL CONSIGLIO

del 29 aprile 2004 sull’igiene dei prodotti alimentari, le aziende alimentari hanno l’obbligo di garantire e commercializzare un prodotto salubre ed esente da qualsiasi contaminazione. Tale pacchetto obbliga tutti gli operatori del settore agroalimentare ad avere un piano dettagliato di controllo igienico di tutta la loro attività (locali, macchinari, prodotti, personale in opera, ecc.), il piano la cui stesura richiede conoscenze tecnico-scientifiche che l’addetto alimentarista non sempre possiede. I Regolamenti CE ed il Decreto 193 non impongono il riconoscimento a figure professionali per la stesura del piano, ma in realtà la consulenza di professionisti qualificati come i Biologi è ormai indispensabile. Gli alimentaristi che operano in vari settori quali la Ristorazione, Bar, Caseifici, Alimentari, Supermercati, GDO, Centri

* Tecnico per la Sicurezza Agroalimentare, iscritta OBLA; Laureata in Scienze Biologiche presso l’Università degli Studi della Tuscia - Dipartimento di Scienze Matematiche, Fisiche e Naturali. Consulente esperta in Controllo Sanitario e di Igiene degli Alimenti, Editoria e Divulgazione Scientifica.

Ortofrutticoli, Centri di Stoccaggio di prodotti confezionati, Forni, Norcinerie, Macellerie, Laboratori di produzione di Confetture/Creme di frutta secca e Lavorazione Cereali hanno bisogno di una figura professionale di riferimento per poter garantire prodotti che siano esenti da contaminazioni batteriche secondo il REGOLAMENTO (CE) n. 2073/2005 DELLA COMMISSIONE del 15 novembre 2005 sui criteri microbiologici applicabili ai prodotti alimentari, una figura quindi pronta, preparata e con spiccate qualità di problem solving, un professionista che faccia effettivamente da ponte comunicativo tra autorità competente per il territorio (ASL, NAS) e alimentaristi soprattutto in caso di controlli ispettivi e che sappia collaborare in sinergia con Geometri, Architetti, Avvocati, Commercialisti rispetto alle necessità dell’attività alimentare.

La formazione

La formazione del Biologo esperto in Sicurezza Alimentare inizia con Decreto Legislativo 26 maggio 1997, n. 155 “Attuazione delle direttive 93/43/CEE e 96/3/CE concernenti l’igiene dei prodotti alimentari” con l’abrogazione del Libretto Sanitario per gli Alimentaristi, il Biologo inizia a specializzarsi come Consulente per le Attività Alimentari. Nelle Facoltà italiane sono previsti Corsi di Laurea in Scienze Biologiche (esempio: L-13, con mate-

di Simona Mango *

rie di studio di Biologia Generale, Matematica e Statistica, Fisica Applicata, Chimica Generale e Organica, Biochimica, Immunologia, Fisiologia, Anatomia Umana, Informatica, Biologia molecolare, Farmacologia, Genetica medica, Biochimica clinica, Zoologia, Tirocini Lingua inglese, Chimica degli alimenti, Microbiologia generale, Anatomia comparata e citologia, Botanica e biodiversità vegetale, Ecologia) in seguito sono necessari Tirocini presso attività alimentari, Laboratorio Analisi di Alimenti, Corsi, e Master specifici sulla sicurezza alimentare. In seguito per poter svolgere il lavoro si rende necessario il superamento dell’Esame di Stato per abilitazione alla professione e iscrizione all’Ordine dei Biologi, nel caso della libera professione si effettuerà l’iscrizione all’ente ENPAB (Ente Nazionale Previdenza Assistenza Biologi).

Le competenze

Il Biologo può legittimamente operare, con riferimento alle competenze professionali stabilite dalla L. 396/1967 e dal D.P.R. 328/2001 nel “settore agroalimentare”, perché abilitato a eseguire analisi chimiche e microbiologiche finalizzate al controllo igienico degli alimenti, dei locali e delle attrezzature delle industrie alimentari; può predisporre piani di sicurezza alimentare/HACCP e fare consulenze. L’abi-

Il Biologo può legittimamente operare, con riferimento alle competenze professionali stabilite dalla L. 396/1967 e dal

D.P.R. 328/2001 nel “settore agroalimentare”, perché abilitato a eseguire analisi chimiche e microbiologiche finalizzate al controllo igienico degli alimenti, dei locali e delle attrezzature delle industrie alimentari; può predisporre piani di sicurezza alimentare/HACCP e fare consulenze.

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litazione alla professione è disciplinata dall’iscrizione all’Ordine dei Biologi in applicazione alla Legge 396/67 e al D.P.R. 328/2001.

Il Biologo risulta impegnato in un ampio ventaglio di settori, molti dei quali richiedono professionalità nuove più corrispondenti alle esigenze attuali del mondo del lavoro.

Il Biologo può lavorare come libero professionista, consulente o imprenditore in numerosi settori, come indicato dalla normativa di riferimento: D.P.R. n. 328 del 5/06/2001 (G.U. 190 del 17/08/2001 S.O. n. 212) Articoli di riferimento: Art. 31 e 32 In particolare l’Art. 31 individua l’oggetto della professione del Biologo (iscrizione Ordine dei Biologi nella Sez.B) Formano oggetto dell’attività professionale degli iscritti nella sezione B, ai sensi e per gli effetti di cui all’articolo 1, comma 2. restando immutate le riserve e attribuzioni già stabilite dalla vigente normativa, le attività che implicano l’uso di metodologie standardizzate, quali l’esecuzione con autonomia tecnico professionale di:

a) procedure analitico-strumentali connesse alle indagini biologiche;

b) procedure tecnico: analitiche in ambito biotecnologico, biomolecolare, biomedico anche finalizzate ad attività di ricerca;

c) procedure tecnico-analitiche e di controllo in ambito ambientale e di igiene delle acque,

Riferimenti

- https://www.fnob.it/faq

- L. n.396/67

- D.P.R. 328/2001

- eur-lex.europa.eu

- www.haccpviterbo.it/

dell’aria, del suolo e degli alimenti; d) procedure tecnico-analitiche in ambito chimico-fisico, biochimico, microbiologico, tossicologico, farmacologico e di genetica; e) procedure di controllo di qualità.

3. Sono fatti salvi gli ulteriori requisiti previsti dalla normativa vigente per lo svolgimento delle attività professionali di cui ai commi 1 e 2 da parte dei biologi dipendenti dalle aziende del Servizio sanitario nazionale. Commento: Il Biologo Junior e ovviamente il Biologo iscritto Sez.A possono svolgere l’attività professionale di tecnico nei laboratori di analisi nei settori : – agro-alimentare, ambientale come esplicitato nei commi a) b) e c). – della ricerca comma a) e b) – industria farmacologica comma d) – controllo di qualità comma e). Con la differenza che il Biologo iscritto alla Sez. A può firmare i referti.

Le opportunità professionali

Il Biologo esperto in Sicurezza Alimentare può lavorare nel settore pubblico (ASL competente per il territorio) tramite selezione concorsuale. Può lavorare inoltre come libero professionista oppure come dipendente aziendale esperto a supporto di Audit/Certificazioni fondamentali a livello internazionale quali ad esempio:

- Audit Global Technical Standard for Inflight Caterers and Airport Lounges Presso Lounges valido per tutti gli aeroporti a livello internazionale;

- La certificazione BRC (Brand Reputation Compliance) Food attesta la qualità e la sicurezza dei prodotti alimentari mediante l’applicazione di sistemi misti di gestione qualità/prodotto, di autocontrollo igienico (HACCP) e di buone pratiche di fabbricazione (GMP - Good Manufacturing Practices) Il BRC Global Standards è riconosciuto a livello internazionale.

- Lo standard IFS FOOD è uno standard internazionale basato su un metodo di valutazione condiviso per qualificare e selezionare i fornitori di prodotti alimentari tra le filiere agroalimentari della GDO, con cui si richiede ai fornitori della filiera il rispetto di norme igieniche e buone prassi nei processi produttivi;

- Il British Retail Consortium, ossia il Consorzio della GDO Britannica è uno standard richiesto a tutti i fornitori che vogliono entrare nel mercato inglese;

- Registrazione FDA pratica obbligatoria per

esportare prodotti alimentari negli USA. Si tratta di registrare lo stabilimento di produzione di chi esporta negli Stati Uniti;

- Certificazione Biologico con la normativa europea (Reg UE 2018/848) che garantisce la conformità delle produzioni ottenute con metodo biologico in tutte le fasi della filiera di produzione valido in tutta europa;

- Sopralluoghi presso attività alimentari per stabilire idoneità strutturale e i requisiti minimi rispetto al Pacchetto Igiene;

- Campionamenti Analisi Acqua, CBT, Listeria Monocytogenes, E. Coli sui prodotti alimentari quali ad esempio formaggi, carni e pizze confezionate con relativa etichettatura;

- Gestione Aziendale del Pericolo Microbiologico Legionella pneumophila, Campionamenti e Redazione Documentale da rilasciare presso l’attività (esempio Alberghi, Resort, B & B);

- Manuale HACCP Igienico Sanitari per le attività alimentari con ciclo di produzione personalizzato;

- Corsi di Formazione con rilascio Attestato di Formazione per Alimentaristi specifica per ogni Regione di Italia (controllare il Decreto corrispondente Regionale);

- Controllo di Qualità nella Filiera di Produzione.

La Figura controversa del Biologo Consulente Alimentare

Purtroppo in Italia e nello specifico nella Regione Lazio, i docenti non sono controllati da organi competenti e si rischia così facendo di svalutare la Figura Professionale del Biologo Sicurezza Alimentare e tutto ciò che riguarda il professionista che si occupa della Gestione del Sistema HACCP, in quanto la maggior parte dei professionisti che eroga gli attestati ed effettua i Manuali HACCP e i Campionamenti sui prodotti alimentari non ha una laurea specifica e i requisiti di legge adatti per svolgere questo lavoro nonostante sia esplicitamente richiesto dalla attuale normativa vigente per la Formazione in materia di HACCP (Decreto Regionale per la Formazione degli Alimentaristi). La Figura del Professionista sulla Sicurezza Alimentare ha bisogno di essere valorizzata e regolamentata attraverso normative specifiche di controllo professionale come si sta ben facendo per la Figura altrettanto importante del Biologo Nutrizionista.

FATTURA ELETTRONICA

UN NUOVO FARMACO

PER L’APNEA NOTTURNA

Per migliorare la qualità del sonno arriva in soccorso un medicinale usato per la gestione del diabete di tipo 2

Un farmaco utilizzato per la gestione del diabete di tipo 2 potrebbe rivelarsi un valido alleato nel trattamento dell’apnea ostruttiva del sonno (Osa). Lo sostiene uno studio condotto dagli esperti dell’Università della California, a San Diego, che è stato pubblicato sul New England Journal of Medicine.

Si tratta di una sindrome molto diffusa: secondo stime recenti, circa un miliardo di persone over 35 è soggetto a oltre cinque apnee o ipopnee (riduzione parziale del respiro) ostruttive per ora di sonno e, più nel dettaglio,

425 milioni presentano forme moderate o gravi. Per quanto riguarda l’Italia, la stima delle persone di età superiore ai 35 anni che soffre di apnee notturne si attesta intorno al 20%.

Quando si parla di Osas (Obstructive Sleep Apnea Syndrome), si fa riferimento a un disturbo del sonno caratterizzato da interruzioni temporanee della respirazione mentre si dorme di solito a causa del blocco completo o parziale delle vie aeree superiori.

Ma anche altri fattori sono determinanti per l’insorgenza della patologia. Da sovrappeso e obesità all’abuso abuso di bevande alcoliche

prima di andare a dormire fino all’assunzione di sonniferi. Tornando alla scoperta degli scienziati americani, è emerso che la tirzepatide, un farmaco impiegato per la gestione del diabete di tipo 2, potrebbe essere utilizzato con risultati positivi anche per fronteggiare il problema dell’apnea ostruttiva del sonno. «Questo studio segna una pietra miliare significativa nel trattamento dell’Osa, perché in grado di offrire una nuova promettente opzione terapeutica che affronta sia le complicazioni respiratorie sia quelle metaboliche» ha spiegato Atul Malhotra, autore principale dello studio, professore di medicina presso l’Università della California. Nello studio di fase III sono stati coinvolti 469 partecipanti con diagnosi di obesità clinica e affetti da Osa da moderata a grave, reclutati da nove Paesi diversi, tra cui Stati Uniti, Australia e Germania.

I pazienti sono stati sottoposti a terapia con pressione positiva continua delle vie aeree (CPAP), ossia il trattamento più comune per l’apnea notturna che utilizza una macchina per mantenere le vie aeree aperte durante il sonno, in aggiunta a dieci o 15 mg del farmaco tirzepatide o placebo. L’impatto del tirzepatide è stato valutato per 52 settimane. I ricercatori hanno quindi scoperto che il farmaco in questione ha portato a una significativa diminuzione del numero di interruzioni respiratorie durante il sonno e il miglioramento si è rivelato di gran lunga maggiore rispetto a quello osservato nei partecipanti a cui è stato somministrato un placebo. Inoltre, non si sono registrati effetti collaterali gravi, se non lievi problemi allo stomaco. «Questo nuovo trattamento farmacologico offre un’alternativa più accessibile per gli individui che non possono tollerare o aderire alle terapie esistenti» afferma Malhotra. Il prossimo step? Sperimentazioni cliniche per analizzare gli effetti a lungo termine del tirzepatide. (D. E.).

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Una speranza per il trattamento della depressione arriva dalla ricerca condotta dagli scienziati dell’Università di Otago in collaborazione con la Douglas Pharmaceuticals della Nuova Zelanda e pubblicata sulla prestigiosa rivista scientifica Nature Medicine. Secondo quanto emerso dallo studio, infatti, segnali incoraggianti e promettenti provengono dalla ketamina sotto forma di compresse a rilascio prolungato. Gli esperti hanno deciso di optare per un approccio orale, anche perché la ketamina, se somministrata per via endovenosa o nasale, può causare - tra gli effetti avversi - ipertensione e tachicardia. Lo studio ha visto la partecipazione di 168 adulti per i quali la terapia antidepressiva regolare non ha prodotto alcun tipo di beneficio.

I volontari hanno assunto dosi orali di ketamina o compresse placebo per 12 settimane. E i risultati sono stati molto interessanti. Come spiegato dal professore Paul Glue, che ha guidato il gruppo di ricerca, chi ha assunto la dose più elevata di ketamina (180 mg) ha mostrato un miglioramento significativo dei sintomi depressivi rispetto ai pazienti che sono stati trattati con il placebo. «La ketamina può essere somministrata tramite iniezione o spray nasale, ma questi metodi possono causare una sensazione di disorientamento e aumentare la pressione sanguigna - ha spiegato il docente dell’Università di Otago -. Questo studio dimostra che le compresse di ketamina a rilascio prolungato sono sicure ed efficaci e, nel complesso, la tollerabilità è stata buona, con i partecipanti che hanno segnalato effetti collaterali minimi».

L’obiettivo a stretto giro è trovare partner completare le sperimentazioni cliniche e preparare la commercializzazione delle compresse. «Abbiamo scoperto che ci sono molte persone, qui in Nuova Zelanda e in tutto il mondo, che soffrono di depressione resistente al trattamento e che hanno poche o nessuna possibi -

KETAMINA IN PILLOLE

PER LA DEPRESSIONE

Speranze da uno studio: le compresse riducono gli effetti collaterali rispetto al trattamento per via endovenosa

lità di accedere alla ketamina» continua Glue. Il riferimento è ai costi elevati della sostanza. Le compresse, dunque, potrebbero rappresentare una vera e propria svolta. «Le compresse potrebbero essere assunta a casa: potenzialmente è un’opzione molto più economica e comoda per questi pazienti rispetto alle visite cliniche settimanali per le iniezioni di ketamina o spray nasali». C’è poi un altro aspetto da tenere in considerazione. Come è noto, questo farmaco anestetico negli anni è stato usato anche come droga psichedelica. Nel caso della Nuova Zelanda la ketami -

na è utilizzata legalmente a scopi medici fin dagli anni ‘70 e a partire dagli anni ‘80 è stata classificata come droga illegale per uso ricreativo.

«Assumere il farmaco sotto forma di compresse riduce il rischio di abuso, poiché il processo di produzione rende le compresse difficili da manipolare» ha evidenziato il professor Glue. Secondo le ultime stime dell’Organizzazione Mondiale della Sanità circa 280 milioni di persone nel mondo soffrono di depressione, con le donne che hanno maggiori probabilità di essere colpite da questa patologia rispetto agli uomini. (D. E.).

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ISTAT, CALO MORTALITÀ NEL 2021 IN ITALIA. MA È PIÙ ALTA DEL PERIODO PRE-PANDEMICO

Il biennio del Covid ha inciso, ma sono migliorate le diagnosi e le terapie. Uno sguardo anche alle altre cause di morte

Il report dell’Istat “Cause di morte in Italia anno 2021” evidenzia una diminuzione della mortalità rispetto al 2020, tuttavia, resta più elevata rispetto ai livelli pre-pandemia. Nel corso del 2021, il numero totale dei decessi in Italia è stato di 706.969, registrando quasi 40mila decessi in meno rispetto all’anno precedente, ma con un aumento di circa 110mila decessi rispetto alla media degli anni 2018 e 2019. Questo aumento è principalmente attribuito alla mortalità dovuta al Covid-19. Nonostante una riduzione generale della mortalità per le principali cause, ad eccezione delle cause esterne che mostrano un aumento del 5% rispetto al 2020, la mortalità per il diabete e alcune malattie circolatorie rimane più alta rispetto ai livelli pre-pandemici.

Il tasso di mortalità per tutte le cause nel 2021 è risultato essere del 6% inferiore rispetto al 2020, ma rimane ancora più alto dell’8,6% rispetto alla media del biennio 2018-2019. Le malattie del sistema circolatorio, i tumori, il Covid-19 e le malattie respiratorie rimangono le principali cause di mortalità, con tassi di mortalità più elevati. Tuttavia, si osserva una diminuzione significativa dei tassi di mortalità per Covid-19 (-18%), malattie del sistema respiratorio (-21%), e demenze (-10%), mentre si registra una riduzione meno evidente per le malattie del sistema circolatorio, in partico-

lare per le malattie ischemiche del cuore e le malattie cerebrovascolari.

Al contrario, si osservano aumenti nei tassi di mortalità per cause esterne (+5%), malattie dell’apparato digerente, dell’apparato genito-urinario e le malattie infettive. Nonostante una diminuzione complessiva della mortalità per molte cause nel 2021, alcune cause continuano a registrare tassi più elevati rispetto ai livelli pre-pandemici, come nel caso delle malattie ipertensive e del diabete.

Il numero di decessi nel 2021 è diminuito rispetto al 2020, ma è ancora superiore alla media del periodo 2018-2019, principalmente a causa del Covid-19. Tuttavia, la mortalità per altre principali cause è diminuita nel 2021 rispetto al 2020, riportando il numero di decessi a valori inferiori rispetto alla media del 20182019, ad eccezione del diabete e delle cause esterne che hanno mostrato un aumento.

Le malattie del sistema circolatorio e i tumori rimangono le cause più frequenti di morte nella popolazione italiana, rappresentando oltre il 55% dei decessi totali. Mentre il numero di decessi per malattie del sistema circolatorio è diminuito nel 2021 rispetto al 2020, i tumori sono l’unico gruppo tra le cause più frequenti in diminuzione sia nel 2020 che nel 2021.

Il Covid-19, sebbene in diminuzione rispetto al 2020, rimane la terza causa di mor-

talità più significativa dopo le malattie circolatorie e i tumori. L’andamento del numero di decessi per le principali cause è simile tra i due generi, tuttavia si osserva una diminuzione dei decessi per cause esterne nel 2020 per gli uomini, mentre tale diminuzione non si verifica per le donne, principalmente a causa degli incidenti stradali.

Il tasso di mortalità per le malattie del sistema circolatorio è sceso nel 2021, raggiungendo un valore inferiore rispetto al 2019. Per quanto riguarda i tumori, si osserva un andamento decrescente nel periodo dal 2015 al 2021, senza variazioni significative negli anni pandemici, suggerendo che la pandemia non abbia avuto un effetto immediato sulla mortalità per tumori.

La mortalità per la malattia di Alzheimer e altre demenze, dopo un incremento nel 2020, è diminuita nel 2021, ritornando ai livelli del 2016. Allo stesso modo, la mortalità per malattie del sistema respiratorio è scesa bruscamente nel 2021, raggiungendo livelli inferiori a quelli pre-pandemici, soprattutto a causa della diminuzione della mortalità per polmoniti e malattie respiratorie non specificate.

In sintesi, il report dell’Istat evidenzia una tendenza alla riduzione della mortalità nel 2021 rispetto al picco del 2020, ma rimane ancora più elevata rispetto ai livelli pre-pandemici, con variazioni significative nelle diverse cause di morte.

Il tasso di mortalità per tutte le cause nel 2021 è risultato essere del 6% inferiore rispetto al 2020, ma rimane ancora più alto dell’8,6% rispetto alla media del biennio 20182019. Le malattie del sistema circolatorio, i tumori, il Covid-19 e le malattie respiratorie rimangono le principali cause di mortalità, con tassi di mortalità più elevati.

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Dunque, Nel 2021, la mortalità complessiva è diminuita grazie a una migliore diagnosi del Covid-19 e al calo delle polmoniti non legate al virus. Tuttavia, il tasso di mortalità per cause esterne è aumentato, soprattutto a causa degli incidenti stradali. L’impatto della pandemia sul diabete è stato evidente, con un tasso di mortalità ancora più alto rispetto agli anni precedenti, sebbene leggermente inferiore al 2020.

Tra i più giovani, la mortalità è aumentata durante entrambi gli anni della pandemia, con il Covid-19 che ha contribuito significativamente all’aumento della mortalità tra gli under 50. La mortalità per Covid-19 è diminuita nel 2021, ma rimane una delle principali cause di decesso in questa fascia di età. Anche le cause esterne hanno contribuito all’aumento della mortalità nel 2021, tornando ai livelli pre-pandemici. La differenza di mortalità tra uomini e donne è aumentata durante la pandemia, con il Covid-19 e le malattie respiratorie che hanno colpito in particolare gli uomini.

Negli anziani, la mortalità è diminuita nel 2021 rispetto al picco del 2020, soprattutto grazie al successo della campagna vaccinale contro il Covid-19. Le principali cause di mortalità hanno registrato una diminuzione nel 2021, tornando a valori simili a quelli pre-pandemici. (C. P.)

LONG ACTING, NUOVI FARMACI PER L’HIV

Il progresso scientifico nel campo delle malattie sessualmente trasmissibili ha ottenuto nuovi medicinali a rilascio prolungato

Dal 19 al 21 giugno ha avuto luogo la 16° edizione di ICAR - Italian Conference on AIDS and Antiviral Research, tornata a Roma dopo 6 anni, presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore. Questa costituisce un’iniziativa punto di riferimento per la comunità scientifica in tema di HIV-AIDS, Epatiti, Infezioni Sessualmente Trasmissibili e Virus emergenti. ICAR è organizzato sotto l’egida della SIMIT, Società Italiana di Malattie Infettive e Tropicali, di tutte le maggiori società scientifiche di area infettivologica e virologica e del mondo della Community. I presidenti

di questa edizione sono la Prof.ssa Antonella Cingolani, Ricercatore Malattie infettive, Facoltà di Medicina e chirurgia dell’Università Cattolica, Roma; Prof. Antonio Di Biagio, Professore Associato Malattie Infettive, Università di Genova; Massimo Farinella, Responsabile Salute Circolo Mario Mieli; Prof. ssa Giulia Carla Marchetti, Professore Ordinario di Malattie Infettive Università degli Studi di Milano.

C’è stata in occasione la premiazione del concorso RaccontART, grazie al quale molti giovani hanno rappresentato la prevenzione attraverso le loro opere video/fotografiche e grafiche. Il pro-

getto EduForIST è stato poi presentato: gli educatori di varie associazioni hanno svolto laboratori nelle scuole medie e superiori con alunni tra i 12 e i 16 anni di sei regioni italiane, trattando varie tematiche, tra cui anche la prevenzione dell’HIV e delle Infezioni Sessualmente Trasmesse.

Il lavoro della comunità scientifica è sempre più intenso: il traguardo più recente della ricerca in questo ambito sono i nuovi farmaci a lunga durata (long acting).

Ha spiegato la professoressa Antonella Cingolani: «Oggi la terapia antiretrovirale permette di garantire una sopravvivenza ai pazienti HIV positivi che si avvicina sempre di più a quella della popolazione generale; se la terapia è assunta regolarmente, la viremia si può azzerare fino a rendere il virus non trasmissibile, come sancito dall’equazione U=U, Undetectable=Untrasmittable. Ciò non significa che l’HIV sia sconfitto, anzi, resta un ampio sommerso, come dimostrano le diagnosi tardive che emergono ogni anno, con pazienti talvolta già in AIDS. I nuovi strumenti a disposizione poi ci impongono di pensare a un trattamento personalizzato per ogni paziente e a una terapia che possa durare per decenni».

il Prof. Antonio Di Biagio ha poi commentato: «Con i long acting attualmente a disposizione si stima che solo il 50% delle persone con HIV possa accedere a questi trattamenti. Con i nuovi farmaci, i cui studi sono in fase 2 e 3, che in Italia probabilmente saranno disponibili dal 2025, la stragrande maggioranza dei pazienti potrà fruire di trattamenti a rilascio prolungato, con benefici per l’aderenza terapeutica, per la qualità della vita, per la lotta allo stigma, visto che si tratta di una terapia che impatta pochissimo sulla quotidianità, garantisce efficacia a lungo termine e bassa tossicità».

Nonostante questi grandi progressi, l’HIV risulta sempre minacciosa e per questo è necessario rilanciare campagne di informazione corrette e aggiornate. (E. C.)

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Nutrizione, Biotecnologie

NAPOLI, 3-4 OTTOBRE 2024

Complesso dei SS. Marcellino e Festo

Largo S. Marcellino 10

Il coenzima Q10 è stato scoperto nel 1957 da F. L. Crane et al., successivamente, K. Folkers ne identificò la struttura chimica e gli effetti sulla salute ancora sconosciuti. Dopodiché il coenzima Q10 è stato inserito in integratori alimentari e successivamente nei cosmetici, grazie agli effetti benefici sulla cute. Parliamo di un benzochinone (testa) con catena laterale isoprenica (coda), con struttura simile alle vitamine K ed E. La pelle, è l’organo più esteso del corpo umano (circa 2 m²), ha il ruolo di proteggerlo da attacchi meccanici, fisici, chimici o batterici provenienti dall’ambiente esterno, quindi mantenerla nello stato di integrità e buona salute garantendo una regolare idrata -

IL COENZIMA Q10

E L’INFLUENZA SULLA PELLE

Fondamentale nei processi di fosforilazione ossidativa a livello mitocondriale come antiossidante nella prevenzione della perossidazione lipidica e come scavenger di radicali liberi e superossidi

nismo attraverso l’assunzione di diversi cibi: cereali, soia, noci, vegetali, carne, fegato, pesce, olio di salmone e di tonno, oli vegetali, germe di grano. Localizzato soprattutto nelle membrane plasmatiche, mitocondri, lisosomi e nel Golgi. La sua azione fondamentale si esplica nei processi di fosforilazione ossidativa a livello mitocondriale partecipando, perché interviene nella conversione dei carboidrati e acidi grassi in ATP; come antiossidante nella prevenzione della perossidazione lipidica; come scavenger di radicali liberi e superossidi, che causano danni cellulari e intervengono nei processi di invecchiamento.

La difesa naturale del corpo offerta dalla presenza di Q10 contro lo stress ossidativo e già presente nel nostro corpo, incrementando di questa con un’ulteriore introduzione orale, può aumentarne i benefici (ridurre: l’emicrania, l’ipertensione, il colesterolo).

zione sia durante i mesi estivi, che durante quelli invernali è fondamentale. Per aumentare la capacità della cute di trattenere l’acqua si può usufruire di sostanze idonee che sono in grado di trattenere il contenuto acquoso (sostanze filmanti, protettive). All’idratazione è, importante aggiungere anche sostanze attive che proteggano dalle radiazioni UV e della formazione di radicali liberi. Il coenzima Q10 è una molecola, che può essere sintetizzata dall’orga -

Alcuni studi hanno dimostrato effetti benefici anche con l’utilizzo topico del coenzima Q10 come: la riduzione della formazione di pieghe e rughe della pelle, prevenzione dell’invecchiamento grazie all’effetto esercitato sul mantenimento di collagene, ed elastina; nella protezione dalle radiazioni UV (eritema, iperpigmentazioni, rughe, ecc.). Il Q10 non è un filtro solare chimico, ma no scudo cellulare, infatti è un valido complemento nella produzione di formulazioni destinate alla protezione dagli UV. Può essere presente in tre forme: una ossidata o ubichinone (Q), un intermedio semi-chinonico (QH), e una forma ridotta (QH2), che è quella attiva (ubichinolo). Dalle cellule viene utilizzato come ubichinolo, per la sua azione antiossidante, trasporta l’idrogeno, a livello mitocondriale, nelle catene di ossidoriduzione e protegge le strutture cellulari dai radicali liberi.

FONTI

Diffuso in natura, già presente in prodotti di origine animale e vegetale, può essere assunto con la dieta. Come attivo può essere inserito sia in formulazioni destinate all’integrazione alimentare sia, in prodotti cosmetici, per garantire purezza e sicurezza è fondamentale utilizzate metodiche di adeguate a ottenere un coenzima Q10 isolato e senza impurezze.

Il Q10 nella pelle diminuisce con l’invecchiamento; oppure in presenza di particolari malattie croniche (problemi cardiaci, morbo di Parkinson, distrofia muscolare, diabete, cancro e AIDS), ma anche con alcuni farmaci (statine per il colesterolo). Il coenzima Q10 risulta essere efficace contro i perossidi, che danneggiano il collagene e l’elastina, costituenti principali del derma.

L’approccio migliore per la sintesi è quello biotecnologico, infatti Choi et al. danno informazioni su tecniche biosintetiche per la produzione del coenzima Q10 utilizzando come precursori alcune specie batteriche (es. Agrobacterium, Rhodobacter, Paracoccus) o lieviti (es. Candida, Rhodotorula, Saitoella), la cui capacità di produrre Q10 viene potenziata attraverso tecniche di manipolazione genetica, intervenendo su pathway sintetico del coenzima e aumentarne la produzione. Rispetto a metodiche sintetiche classiche, questo approccio non risulta affatto semplice essendo di per sé difficile intervenire sui processi biochimici dei microrganismi, perché ancora non ci sono ancora informazioni dettagliate riguardo il pathway biosintetico del coenzima Q10.

PROBLEMI

La veicolazione di Q10 potrebbe risolvere problemi legati alla stabilità, essendo insolubile in acqua e assorbito nel tratto gastrointestinale, risulta poi poco biodisponibile; la sua insolubilità in acqua rende difficicile anche la preparazione di formulazioni topiche, spesso ricche di acqua e di componenti idrofili. Risulta anche molto instabile agli UV e alle temperature elevate.

STUDI

Milivojevic et al. nel 2009 in uno studio hanno unito il Q10 con ciclodestrine (di tipo β e γ ), questo complesso ha avuto: aumento la solubilità in acqua, soprattutto a temperatura ambiente e a pH 6.5; migliorato la resistenza la resistenza agli UV; limiti: l’utilizzo di esano per rimuovere il Q10 in eccesso, che non viene incluso nelle ciclodestrine.

Gokce et al. hanno incapsulato coenzima Q10 in liposomi, da studi in vitro su colture di fibroblasti, sia in condizioni normali che di stress ossidativo, si è visto un aumento della proliferazione cellulare per riduzione nella formazione di radicali liberi, dopo che queste colture sono state incubate col complesso liposomi- Q10; limiti: allestimento di preparazioni liposomiali richiede l’impiego di solventi organici (cloroformio).

Un altro stesso studio, sempre di Gokce et al., è stato veicolato il coenzima Q10 in nanoparticelle solide lipidiche SLN, la cui

preparazione prevedeva solo l’impiego di lipidi e non solventi organici; dallo studio in vitro sulle colture di fibroblasti è emerso che il coenzima Q10 veicolato in questo modo, è rilasciato esiguamente, quindi, in quantità non sufficiente per garantire effetto protettivo per le cellule, quindi non è un buon sistema per la veicolazione del coenzima Q10. Attualmente non esistono strategie tecnologiche che possano risolvere problematiche relative a questo attivo. Risulta necessario mettere appunto una metodica formulativa dove vengano presi in considerazione aspetti legati al miglioramento delle proprietà, ai materiali e metodi da utilizzare. Bisogna studiare come migliorare la solubilità in acqua di questo coenzima, e di ridurne la suscettibilità alle radiazioni UV, ma nel contempo garantire attività dello stesso, non prevedere l’uso di solventi organici. Solo così si possono ottenere delle formulazioni cosmetiche sicure e con buona efficacia cosmetica, utilizzando il coenzima Q10 nella forma attiva l’unica benefica per la pelle.

LA PELLE E IL Q10

Il Q10 nella pelle diminuisce con l’invecchiamento; oppure in presenza di particolari malattie croniche (problemi cardiaci, morbo di Parkinson, distrofia muscolare, diabete, cancro e AIDS), ma anche con alcuni farmaci (statine per il colesterolo). Il coenzima Q10 risulta essere efficace contro i perossidi, che danneggiano il collagene e l’elastina, costituenti principali del derma. Contrasta la perdita di elasticità della pelle, rallenta la formazione delle rughe Per uso topico si utilizza: nelle creme antirughe. Per uso sistemico si utilizza per astenia e stanchezza, perché aumenta la respirazione cellulare garantendo maggiore energia; aumento della forza muscolare e della tolleranza all’esercizio fisico; antiossidante per contrastare i radicali liberi.

LIMITI DA SUPERARE

Il coenzima Q 10 è insolubile in acqua che rende difficoltosa la preparazione anche di formulazioni topiche, spesso ricche di acqua e di componenti idrofili. È molto instabile alla luce soprattutto alle radiazioni UV e alle alte temperature.

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ASSOCIAZIONE TRA CALVIZIE, BASSA STATURA E PELLE CHIARA

L’Aga spesso non è una caratteristica isolata, ma è associata ad altri aspetti fenotipici come ci fosse una correlazione di ereditabilità

Bibliografia

Stefanie Heilmann-Heimbach et al.: “Meta-analysis identifies novel risk loci and yields systematic insights into the biology of male-pattern baldness” NATURE COMMUNICATIONS | 8 Mar 2017

La calvizie maschile (AGA) è un tratto comune ed ereditario caratterizzato da una progressiva perdita di capelli androgeno-dipendente. Gli studi di genetica molecolare hanno un grande potenziale nella ricerca della soluzione alla perdita dei capelli e, considerata l’elevata ereditarietà dell’AGA, gli studi genetici su larga scala sono uno strumento importante per chiarirne il meccanismo molecolare.

Negli studi epidemiologici si è notato che spesso l’AGA non è una caratteristica isolata, al contrario è associata ad altre caratteristiche fenotipiche, come se ci fosse una correlazione di ereditabilità. Un recente studio dell’Università di Bonn ha riportato i risultati della più grande metanalisi di studi di associazione sull’intero genoma (GWAS) che com-

prendeva un totale di 22.518 individui di discendenza europea. L’analisi ha identificato 63 loci associati ad AGA di cui 23 non erano mai stati segnalati in precedenza. I dati evidenziano geni che probabilmente contribuiscono alle caratteristiche fisio-

patologiche chiave dell’AGA come quelli che intervengono nella disregolazione della transizione anagen-catagen (FGF5, EBF1, DKK2, adipogenesi), nell’aumento della sensibilità agli androgeni (SRD5A2, segnalazione della melatonina), e nella trasformazione dei capelli terminali pigmentati in vellus non pigmentati (IRF4). Alcuni di questi geni potrebbero rappresentare obiettivi promettenti per lo sviluppo di nuove opzioni terapeutiche. Inoltre, tali dati forniscono prove molecolari che l’AGA condivide una base biologica sostanziale con numerosi altri fenotipi umani. È stato inoltre riportato che sia la degradazione della melatonina che l’adipogenesi interagiscono con gli ormoni sessuali e sono controllati da essi e la diminuzione dei livelli di melatonina è un potenziale indicatore della progressione della pubertà. Questi risultati evidenziano e confermano l’indispensabilità degli ormoni sessuali, e quindi lo sviluppo sessuale, per la manifestazione del fenotipo AGA. Tali dati indicano inoltre un nuovo potenziale legame esistente tra la sintesi intrafollicolare della melatonina e i suoi effetti riconosciuti sull’espressione dei recettori degli estrogeni, confermando la sensibilità dei follicoli piliferi alla stimolazione con estrogeni, per contrastare gli effetti di accorciamento dell’anagen da parte del DHT nello sviluppo di AGA. Per quanto riguarda l’adipogenesi, è stato riportato che la maturazione dei precursori degli adipociti nella pelle avviene in parallelo con l’attivazione delle

Un recente studio dell’Università di Bonn ha riportato i risultati della più grande metanalisi di studi di associazione sull’intero genoma (GWAS) che comprendeva un totale di 22.518 individui di discendenza europea. L’analisi ha identificato 63 loci associati ad AGA di cui 23 non erano mai stati segnalati in precedenza. I dati evidenziano geni che probabilmente contribuiscono alle caratteristiche fisiopatologiche chiave dell’AGA come quelli che intervengono nella disregolazione della transizione anagen-catagen (FGF5, EBF1, DKK2, adipogenesi), nell’aumento della sensibilità agli androgeni (SRD5A2, segnalazione della melatonina), e nella trasformazione dei capelli terminali pigmentati in vellus non pigmentati (IRF4).

cellule staminali del follicolo pilifero e guida l’induzione dell’anagen e la crescita dei capelli. Per quanto riguarda i processi immunologici invece, non sono ancora disponibili dati conclusivi sul loro ruolo eziologico. Tuttavia, i macrofagi residenti sulla pelle contribuiscono all’attivazione ciclica dei follicoli piliferi adulti attraverso l’induzione della segnalazione WNT e FGF5, che sono stati implicati anche nella presente metanalisi, e da tempo si sospetta che gli infiltrati infiammatori perifollicolari partecipino all’attività trasformazione da terminale a vellus in AGA. Pertanto, tali risultati rappresentano la prima prova genetica che le cellule che risiedono nel microambiente immediato del follicolo pilifero influiscono sullo sviluppo dell’AGA.

A livello epidemiologico, l’AGA a esordio precoce è stato associato a numerosi disturbi somatici gravi a esordio tardivo, come le malattie cardiovascolari (CVD), iperplasia e cancro della prostata, Morbo di Parkinson e sclerosi laterale. Un totale di 124 loci di rischio AGA includevano le associazioni sopra menzionate con tratti ormono-dipendenti e un fenotipo chiaro, con una ridotta pigmentazione della pelle del viso, dei capelli e degli occhi. Inoltre, sono state trovate associazioni in quattro loci per AGA con la bassa statura, che potrebbero essere guidate da una progressione accelerata della pubertà e dall’induzione prematura della chiusura epifisaria. Gli alleli a rischio AGA in 17q21.31 e 6q22.32 erano associati anche ad un aumento della densità minerale ossea, che potrebbe essere una conseguenza della sintesi ottimizzata di vitamina D indotta da UVR nei soggetti con AGA.

I geni identificati potrebbero rappresentano obiettivi promettenti per lo sviluppo di nuove opzioni terapeutiche e ci indicano chiaramente che l’AGA non è un tratto isolato, ma condivide una base biologica sostanziale con numerosi altri fenotipi umani. Ciò potrebbe avere importanti implicazioni in termini di valutazione dell’AGA come marcatore prognostico precoce per diversi fenotipi come il cancro alla prostata, l’arresto cardiaco improvviso o i disturbi neurodegenerativi, e per il riutilizzo di farmaci esistenti da utilizzare nella terapia con AGA. Infine, queste nuove conoscenze sulle basi genetiche dell’AGA e sulla sua associazione con altri tratti potrebbero aiutare a chiarire le forze evolutive responsabili della prevalenza relativamente elevata dell’AGA nella popolazione europea.

SOTTO IL SOLE D’ITALIA LITORALI DA SOGNO DA TUTELARE

L’Ispra aggiorna i dati costieri, integrando il database geografico con la componente delle spiagge, per studi e pianificazione territoriale, secondo la Direttiva “Inspire”

L’Italia, con la sua costa lunga oltre 8300 km, è famosa per le spiagge affascinanti, ma sapevate che la superficie totale dei litorali è inferiore a quella del solo comune di Ostia, a Roma, il quale misura 120 km²? Essa include sia gli ampi spazi di Rimini e della Locride, sia i suggestivi “pocket beach” tra le scogliere dell’Asinara e i piccoli spazi che resistono tra i porti e i lungomari delle nostre città rivierasche.

Nonostante l’estensione limitata, abbiamo profondità in media di 35 metri e gli arenili coprono circa il 41% delle coste, ovvero quasi 3400 km. Questi dati emergono dal recente censimento Ispra, che quest’anno ha aggiornato e integrato i dati del 2020.

L’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale ha pubblicato sul proprio “Portale delle Coste” il database geografico degli elementi che compongono i lidi, completando quanto già elaborato negli scorsi anni per la Linea di costa e quella di retrospiaggia. Ogni luogo è accompagnato da una serie d’informazioni utili, oltre alle caratteristiche di geometria, superficie e tratto occupato, seguendo la Direttiva europea “Inspire” acronimo di (INfrastructure for SPatial InfoRmation in Europe) per la non proliferazione dei dati, valido aiuto per gli studi e la pianificazione territoria-

le (https:// sinacloud.isprambiente. it/portal/apps/sites/#/coste/pages/ dati). Si possono rilevare, infatti, la tipologia di substrato, le opere destinate al turismo balneare e indicazioni riguardanti gli accumuli di biomassa, legati alla protezione naturale. La distribuzione della superficie per lunghezza occupata da ciottoli, roccia o sabbia non è uniforme tra le varie regioni. Al Sud e nelle isole maggiori abbiamo oltre due terzi dei lungomari italiani, mentre regioni come la Liguria o l’Emilia-Romagna devono gestire una risorsa relativamente ridotta. La situazione non cambia molto se si considera la superficie. Quelli del Mezzogiorno rappresentano metà delle risorse nazionali e la Calabria da sola vale il 20% del totale. Associare i due valori (costa occupata e superficie) non trova corrispondenza giacché abbiamo mete di vacanza con profondità molto diverse: le località balneari adriatiche sono generalmente le più profonde, con quelle di Veneto ed Emilia-Romagna che raggiungono rispettivamente i 67 e i 72 metri di profondità, quasi il triplo di quanto registrato in Liguria (26 m) e Sardegna (22 m).

Quest’anno sono stati aggiunti nuovi elementi per supportare la gestione sostenibile e contrastare l’erosione e gli effetti dei cambiamenti climatici. Uno di questi riguarda la litologia, con una nuova caratterizzazione definita “tipologia di substrato”. Si è scoperto che circa l’1% dei poligoni esaminati è costituito esclusivamente da accatastamenti, costituiti dalle banquettes di Posidonia spiaggiata (raccolte di

foglie

morte) o da altri materiali vegetali come tronchi, canne che, se non eliminati, possono costituire un elemento di “elasticità” svolgendo un’azione protettiva contro l’azione delle mareggiate.

Per questi rilievi sono state utilizzate, prevalentemente, le immagini satellitari e fotografiche di “Google Earth” nel periodo compreso tra il 2016 ed il 2024. L’obiettivo era determinare, in nove anni, la presenza di concentrazioni. Ne è emerso che in circa metà dei siti si presentano tracce di tali accumulazioni (53%), in una quantità che tende a variare da una stagione all’altra e da un anno all’altro. Nell’ultima analisi disponibile, con immagini di sufficiente nitidezza, è stata condotta un’indagine qualitativa sulla sezione ricoperta. Focalizzandosi unicamente sulla data più recente, si osserva che il 35% presenta segni di ammassi, mentre in un 15% dei casi si notano aree più estese di copertura della superficie (superiore al 20%).

Oltre a prevedere i fenomeni erosivi, il Portale dà un ulteriore vantaggio, associato all’installazione degli impianti eolici offshore. Per garantire che l’elettricità generata dalle pale eoliche raggiunga la terraferma, è necessario posare cavi elettrici molto lunghi. Grazie ai nuovi

Ambiente

Nonostante l’estensione limitata, abbiamo profondità in media di 35 metri e gli arenili coprono circa il 41% delle coste, ovvero quasi 3400 km. Questi dati emergono dal recente censimento Ispra, che quest’anno ha aggiornato e integrato i dati del 2020.

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risultati, i costruttori potranno individuare con precisione i punti di ancoraggio ottimali, riducendo l’impatto ambientale.

Inoltre, con il Progetto PNRR MER (Marine Ecosystem Restoration), il più grande sul mare nell’ambito del Piano nazionale di Ripresa e Resilienza, che ha l’Ispra come soggetto attuatore, si stanno cercando di ricostruire quindici aree con Posidonia Oceanica, viene portata avanti la mappatura di circa 90 monti sottomarini identificati nel Mar Ligure, l’Alto e il Basso Tirreno, il Mar di Sardegna, il Mar Jonio e il Mar Adriatico meridionale. Per far progredire le esplorazioni, si utilizzano robot sottomarini (ROV) capaci di registrare video in Hd e strumenti acustici ad alta risoluzione, con una unità navale che lavori 24 ore su 24 per oltre duecento giornate di attività l’anno tra 2024, 2025 e 2026.

Saranno rimosse pure le cosiddette ghost nets, le «reti fantasma» che sono abbandonate in mare dai pescatori. I dati Ispra mostrano che l’86,5% dei rifiuti marini è da collegare, in qualche maniera, alle attività della pesca e il 94% è rappresentato proprio da quei dispositivi abbandonati.

ACQUE CRISTALLINE E CINQUE VELE IL BLU PIÙ BELLO IN CUI TUFFARSI

Legambiente e Touring Club Italiano hanno premiato 33 comuni per l’attenzione alla tutela dell’ambiente. Un viaggio tra biodiversità e sostenibilità di mari e laghi

«Dal 2000 dedichiamo una guida al mare più bello d’Italia - conclude Giulio Lattanzi, Direttore Generale del Touring Club Italiano - una mappatura geografica che fotografa le eccezionali ricchezze dei mari e dei laghi italiani e segnala le buone pratiche ambientali che contribuiscono a conservarle e a farle conoscere. Alle descrizioni dei luoghi e delle spiagge si accompagnano consigli su gite culturali e attività nella natura, indicazioni su eventi autentici a cui partecipare e sapori di cui fare esperienza. Novità di questa edizione, le strutture diving che propongono attività per persone con disabilità».

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Un percorso tra le meraviglie italiane, dove la natura incontra lo sviluppo sostenibile. È la storia delle località balneari italiane che hanno guadagnato le Cinque Vele di Legambiente e Touring Club Italiano. Si tratta di 21 comuni marini e 12 località lacustri premiati per il loro impegno nella tutela di ambiente e biodiversità. Sul podio c’è Pollica con le spiagge di Acciaroli e Pioppi (Sa), comune inserito nel comprensorio del Cilento Antico, in Campania. Al secondo posto Nardò, in provincia di Lecce, Alto Salento Jonico, seguito da Baunei, in provincia di Nuoro sulla costa orientale sarda. Quarta la località Domus de Maria sul Litorale di Chia, sempre in Sardegna, e quinta Castiglione della Pescaia, nella Maremma Toscana. A livello regionale la Sardegna è di gran lunga quella con più riconoscimenti: accanto a Baunei (Nu) e a Domus de Maria (Sud Sardegna) figurano, infatti, anche Cabras (Or), Santa Teresa di Gallura (Ss), San Teodoro (Ss) Posada (Nu), Bosa (Or). A seguire la Toscana che, oltre a Castiglion della Pescaia (Gr), piazza Capraia Isola (Li), Isola del Giglio (Gr), Capalbio (Gr) e Marina di Grosseto (Gr); quindi la Campania con una pattuglia tutta in provincia di Salerno: alla prima classificata si affiancano San Giovanni a Piro (Sa), Castellabate (Sa) e San Mauro Cilento (Sa). In Puglia con Nardò (Le), abbiamo Vieste (Fg) e Gallipoli (Le) e una bandiera anche per la Liguria, con i tre municipi delle Cinque Terre (Riomaggiore, Vernazza a Monterosso al Mare in

provincia della Spezia) e la Basilicata con Maratea (Pz).

Novità di quest’anno sono anche le 33 comunità amiche delle tartarughe marine segnalate sulla guida con l’omonimo simbolo. Da San Teodoro a Gaeta passando per Silvi, Caorle e Castiglione della Pescaia, da Maratea alle isole Tremiti, solo per citarne alcune, tutte con la firma di un protocollo d’intesa, si sono impegnate a seguire delle buone pratiche per rendere le spiagge accoglienti, anche per quei rettili dalla corazza ossea che depongono le uova, oltre che per i villeggianti.

L’iniziativa fa parte del progetto “Life TURTLENEST”, che ha come obiettivo la protezione dei luoghi di nidificazione della Caretta caretta, avviato grazie al sostegno del programma “Life” dell’Unione Europea. Coordinato da Legambiente, coinvolge 13 partner provenienti da tre nazioni diverse: Italia, Spagna e Francia. Tra le aree protette, sono 34 quelle che hanno aderito. Passando dal mare ai laghi, le province autonome del Trentino-Alto Adige dominano questa sezione, occupando il primo e il secondo posto con Molveno (Tn), situato sul lago omonimo, e Appiano sulla Strada del Vino (Bz), su quello di Monticolo. Gradino più basso del podio per Massa Marittima (Gr), sullo specchio d’acqua dell’Accesa, in Toscana. Seguono Sospirolo (Bl) sul Mis, in Veneto, e Avigliana, sull’omonimo in Piemonte. Per il secondo anno consecutivo, Scanno (Aq), entrato nel 2023, ha ottenuto le Cinque

Vele. Il Trentino-Alto Adige si distingue come la regione con il maggior numero di luoghi riconosciuti per la sostenibilità, seguito a pari merito da Piemonte e Lombardia: «Le località a cinque vele premiate quest’anno - dichiara Stefano Ciafani, Presidente nazionale di Legambiente - confermano ancora una volta il grande lavoro e l’attenzione che molte realtà marine e lacustri stanno portando avanti nel segno della sostenibilità ambientale. Le località di mare dovranno essere lungimiranti, molte già lo sono, e mettere in atto sempre più

Ambiente

strategie di adattamento al cambiamento climatico che tengano conto di queste tendenze, offrendo ai propri ospiti proposte di vacanza capaci di coniugare la proposta

costiera con quella dell’entroterra, integrandola con esperienze nuove e allargando l’areale del turista verso temperature più sopportabili».

La Sicilia, per il primo anno, è fuori dal vertice della classifica per le località marine. Pantelleria (Tp) perde due vele passando da cinque a tre vessilli «a causa di una serie d’interventi turistici discutibili e di un eccesso di consumo di suolo»; Santa Marina Salina (Me) sull’isola di Salina perde una vela, passando da cinque a quattro. (G. P.).

Italia ha vissuto un anno, il 2023, con incendi boschivi devastanti, che hanno consumato vaste aree di foreste e macchia mediterranea. Mentre alcune regioni del Nord e del Centro hanno visto una diminuzione nel numero d’incendi, il Sud e le isole sono state duramente colpite, con la Sicilia e la Calabria in prima linea. Questo fenomeno non solo ha messo a dura prova gli ecosistemi locali, ma ha anche evidenziato l’urgenza di strategie efficaci per la prevenzione e la gestione del fuoco. La superficie complessiva coinvolta è stata di 1.073 km2 (quasi un terzo della Valle d’Aosta). Di questi, circa 157 km2 (un’estensione che si avvicina a quella del Lago di Como) avevano ecosistemi terrestri forestali.

Il 63% si distingueva per le latifoglie sempreverdi come leccete e macchia mediterranea; il 17% per boschi a conifere e il 15% a latifoglie decidue, specialmente misti a querce. I danni sono stati rilevanti sia per l’estensione complessiva delle aree danneggiate (inferiore solo al 2021 negli ultimi sei anni) sia perché hanno visto come protagoniste regolarmente solo alcune province. I numeri sono in aumento rispetto al 2022 soprattutto per quanto è

andato in cenere totalmente (+36%) e, in misura inferiore, per gli ambiti forestali (bruciati +6%).

I numeri sono stati raccolti durante le attività dell’Ispra nell’ambito delle osservazioni e monitoraggi degli impatti di medie e grandi dimensioni sugli ecosistemi. Si vuole in tal modo presentare, ogni anno, un dettaglio chiaro e approfondito che serva d’aiuto alle politiche per il ripristino e la conservazione di quanto abbiamo perso su scala nazionale e locale. Il totale dei roghi è stato fornito dal sistema European Forest Fires Information System del programma europeo Copernicus Emergency, ed elaborato dall’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale con l’ausilio della ormai onnipresente intelligenza artificiale per il riconoscimento dei luoghi bruciati.

Sicilia e Calabria, da sole, hanno sacrificato più dell’83% del totale di territorio forestale nazionale. La nostra maggior isola, con 101 km2 svaniti tra le fiamme, ha contribuito al 64% di ciò che è finito carbonizzato. Soltanto 15 regioni su 20 sono state “assediate” da grandi incendi. Risparmiate, fortunatamente, Friuli Venezia Giulia, Veneto, Emilia-Romagna, Marche e Umbria. Confrontandosi con il 2022, i territori carbonizzati diminuiscono a Nord, Centro-Nord e Centro, mentre risalgono al Sud e in Sicilia e Sardegna.

Ambiente

La provincia che ha maggiormente sofferto è quella di Palermo, 43,5 km2, che rappresenta il 43% della parte boschiva regionale annientata e il 28% a livello italiano: «I soli incendi di luglio - si legge nel rapporto “Ecosistemi terrestri ed incendi boschivi in Italia: anno 2023” - hanno interessato 2 987 ha di habitat forestali. L’evento più esteso, ha riguardato i comuni di Aliminusa, Bagni, Belsito, Cerda, Collesano, Montemaggiore, Scillato e Sclafani, dove il 24 luglio è bruciata una superficie forestale complessiva di 1.104 ha, di cui 1 004 ha appartenenti alla sola categoria forestale delle latifoglie sempreverdi. Si tratta di un incendio che ha colpito anche una Zona Speciale di Conservazione (Rete Natura 2000) “Boschi Granza” (ITA020032) che include anche la Riserva Naturale orientata Bosco di Favara e Bosco Granza. La sola ZSC sopra citata è stata interessata per circa 742 ha di superficie boschiva, in aree con boschi a prevalenza di sughere, roverelle e leccio». Anche nel messinese e nel siracusano sono stati divorati rispettivamente 23 e 10 km2. Risalendo lo stivale, dopo lo stretto, in provincia di Reggio Calabria, si arriva a 20 km2. Sono stati registrati otto eventi con grandi estensioni, che hanno interessato 1.354 ha «di habitat forestali

Questo fenomeno non solo ha messo a dura prova gli ecosistemi locali, ma ha anche evidenziato l’urgenza di strategie efficaci per la prevenzione e la gestione del fuoco. La superficie complessiva coinvolta è stata di 1.073 km2 (quasi un terzo della Valle d’Aosta). Di questi, circa 157 km2 (un’estensione che si avvicina a quella del Lago di Como) avevano ecosistemi terrestri forestali.

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(il 66% di tutta la superficie boschiva bruciata nella provincia nel 2023), con coperture boschive di latifoglie sempreverdi (boscaglie di leccio e macchia mediterranea) per - prosegue il rapporto - una superficie pari a 935 ha. L’incendio che ha generato maggior degrado delle coperture arboreo-arbustive è avvenuto il 18 luglio nel comune di Reggio Calabria. È stata interessata dall’evento una superficie boschiva pari a 478 ha, di cui 375 ha apparteneva ad habitat forestali di latifoglie sempreverdi». Il 43% di quanto finito in fumo si trova all’interno di aree protette, appartenenti, essenzialmente, ai siti Rete Natura 2000.

Sono bastati appena quattro giorni, quelli tra il 24 e il 28 luglio 2023, per veder dissolversi nel vento circa 80 km2 (più o meno 20 km2/giorno), quasi la metà di quanto sia stato cancellato in tutto lo scorso anno. Fra agosto e settembre sono scomparsi mediamente 0,3 km2 di foreste al giorno. Un altro evento ricordato è quello avvenuto alla fine di settembre, quando nuovamente abbiamo detto addio a 20 km2 tra il 17 e il 23 settembre (in media 2,8 km2/giorno).

Dal 1° gennaio al 31 maggio del 2024 sono stati già coinvolti 39 km2, di cui quasi 12 appartenenti a boschi e foreste. Attualmente l’80% delle aree attraversate da incendio sia totali sia forestali si trova in Sicilia e Calabria.

ITALIA IN FIAMME

SUPERFICI BRUCIATE IN AUMENTO

AL SUD E NELLE ISOLE

Gli incendi boschivi hanno colpito duramente soltanto alcune regioni e province con 1073 km2 in fumo, fra cui 157 km2 di ecosistemi forestali

BATTERI PATOGENI PROLIFERANO SULLE MICROPLASTICHE DISPERSE NEL TIRRENO

La scoperta è dei ricercatori del Cnr che avvertono: il progressivo riscaldamento delle acque potrebbe favorire ulteriormente le specie patogene e aumentare la resistenza antimicrobica

Ancora una volta la plastica è al centro di problemi ambientali e di salute che interessano uomo e animali. L’allarme riguarda i rischi legati alla diffusione di comunità batteriche anche patogene che, com’è stato scoperto dai ricercatori dell’Istituto di ricerca sulle acque del Cnr di Verbania, trovano nelle microplastiche disperse in mare un substrato adatto per crescere e proliferare. La notizia arriva dai risultati dei campionamenti pubblicati sulla rivista Marine Pollution Bulletin ed effettuati nel 2019 nel mare aperto di Toscana e Corsica e nei siti costieri di Forte dei Marmi e delle Cinque Terre. I risultati dello studio, svolto in collaborazione con l’Ecole Polytechnique Fédérale di Losanna e la statunitense Texas A&M University, rivelano che le particelle di plastica offrono un substrato aggiuntivo ideale per la diffusione delle comunità che già crescono nella cosiddetta “marine snow” presente in acqua, cioè l’insieme di particelle naturali composto da alghe, piante acquatiche, zooplancton e fitoplancton.

«Nel nostro studio abbiamo prima quantificato la presenza di microplastiche e di particelle organiche di origine naturale, quindi abbiamo analizzato le comunità batteriche presenti su entrambi i substrati e la presenza di resistenze ad antibiotici e metalli pesanti», afferma Gianluca Corno del Cnr-Irsa. «In par-

ticolare – prosegue il ricercatore responsabile dello studio - abbiamo rilevato che la maggior parte delle particelle di microplastica non seleziona “nuovi” batteri - non si generano cioè, dal punto di vista microbiologico, nuovi inquinanti - ma offre un supporto addizionale su cui proliferano comunità batteriche molto simili a quelle presenti sulle particelle naturali. Tali comunità, che rivestono le particelle sotto forma di sottilissimi biofilm, sono molto diverse da quelle che vivono in acqua, e comprendono anche specie patogene per gli esseri umani o per gli animali, come Vibrio, Alteromonas e Pseudolateromonas. Ad oggi, il rischio batteriologico legato a infezioni provocate da batteri patogeni che crescono in acqua di mare è relativamente basso, soprattutto in mari estremamente poveri di nutrienti ed in acque fredde, che limitano la crescita di queste specie batteriche. La situazione però sta rapidamente cambiando».

Con il progressivo riscaldamento delle acque, avvertono gli autori, i rischi legati alla presenza delle specie patogene potrebbero aumentare: «Le acque sempre più calde dei nostri mari daranno a questi batteri un grande vantaggio ecologico, perché li renderanno più competitivi rispetto ai batteri marini non-patogeni, come si è già visto con il forte incremento di infezioni causate da specie patogene, tra cui Vibrio, nelle acque costiere dell’America Set-

di Sara Bovio

tentrionale. Tra essi, infatti, rientrano anche specie patogene per gli esseri umani che, oltre a rappresentare un pericolo per persone e animali, possono compromettere attività come la balneazione e in generale l’uso dell’acqua. Se a questo fenomeno aggiungiamo la già massiva presenza di microplastiche, substrati ideali che aumentano la disponibilità di micro-habitat adatti a tali batteri, la loro proliferazione sarà ulteriormente favorita», aggiunge Corno.

Dai risultati dello studio è emersa anche un’altra questione: le particelle microplastiche e quelle organiche naturali ospitano potenziali batteri patogeni resistenti agli antimicrobici, che possono contribuire alla diffusione della resistenza antimicrobica. Le microplastiche a base di petrolio non rappresentano nuove nicchie ecologiche per i batteri alloctoni; piuttosto, entrano in sinergia con le particelle organiche naturali, facilitando collettivamente la diffusione della resistenza antimicrobica negli ecosistemi marini.

Lo studio non ha evidenziato differenze significative tra i campionamenti condotti in mare aperto e quelli condotti sulle coste: «Questo è dovuto al fatto che il Tirreno, e il Medi-

“Le acque sempre più calde dei nostri mari daranno a questi batteri un grande vantaggio ecologico, perché li renderanno più competitivi rispetto ai batteri marini non-patogeni, come si è già visto con il forte incremento di infezioni causate da specie patogene, tra cui Vibrio, nelle acque costiere dell’America Settentrionale”.

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terraneo in generale, subiscono un impatto antropogenico significativo da tempo, per cui la quantità di plastica e microplastica presente, e la relativa età media delle particelle, è molto alta, riducendo le differenze tra siti di recente contaminazione e quelli invece meno esposti alle stesse. A questo contribuiscono anche le correnti superficiali che, nel Tirreno, tendono a mescolare rapidamente le acque», conclude Corno.

Come si legge nello studio, già nel 2018 il Mar Mediterraneo è stato definito una “trappola di plastica”, data la grande quantità di rifiuti plastici e il relativamente piccolo scambio di acqua tra il mare e l’Oceano Atlantico. Inoltre, la regione mediterranea è un “hotspot” per i cambiamenti climatici. In particolare, l’aumento della temperatura superficiale del mare è già stato collegato in altri studi alla diffusione e al rischio di patogeni batterici mesofili. Parallelamente, purtroppo, i ricercatori prevedono anche che la diffusione di specie patogene coincida con un aumento della resistenza agli antibiotici e che l’adattamento termico selezioni ceppi batterici più tolleranti alla sfida antibiotica.

LO SCIOGLIMENTO DEI GHIACCIAI IN ALASKA

Lo studio di Nature Communications racconta come si sia perso circa un quarto del volume totale della massa originale

Il cambiamento climatico sta facendo sentire la sua azione devastante in tantissime zone del mondo, e una delle aree più problematiche che sta attirando le preoccupazioni della comunità scientifica è l’Alaska. Molto spesso la cosiddetta “Last Frontier” è protagonista privilegiata del filone di studi che si occupa delle conseguenze del global warming, e un motivo preciso c’è.

È infatti bene spiegare come la perdita di ghiaccio in queste aree contribuisce significativamente all’aumento globale del livello del mare, e che tale fenomeno sta da tempo facendo

sentire i suoi effetti sulle comunità costiere locali. Ben presto però, qualora il trend non verrà invertito, esso segnerà profondamente anche l’esistenza delle comunità costiere e degli ecosistemi di tutto il mondo.

La strada verso cui sono stati spinti i “colossi” del nostro Nord li condurrà a una recessione irreversibile, a un punto critico per cui anche il minimo cambiamento nelle condizioni climatiche comporterà un loro rapido e drastico ritiro. Oggetto recente di un importante studio, pubblicato da un team di scienziati della Newcastle University, è stata la Juneau Icefield,

il campo di ghiaccio situato tra Canada e Stati Uniti che si estende per una superficie di 3900 km². L’allarmante risultato che emerge dalla ricerca, guidata dalla glaceologa Bethan Davies, è che il totale di ghiaccio perso nella distesa Juneau tra il 1770 e il 2020 rappresenta quasi un quarto del volume totale della massa ghiacciata di partenza, e dal 2010 al 2020 il tasso di fusione è raddoppiato rispetto al periodo 1979-2010.

In particolare, tra il 1770 e il 1979 la perdita è stata pressoché costante, compresa tra 0,65 e 1,01 km³ l’anno; tra il 1979 e il 2010 sono stati perduti in media 3,08-3,72 km³ ogni anno, mentre solo nel periodo che va dal 2010 al 2020 il tasso di perdita è raddoppiato, raggiungendo i 5,91 km³. L’aumento del tasso di assottigliamento dei ghiacciai è stato poi accompagnato anche da una maggiore frammentazione degli stessi. Il gruppo di ricerca ha mappato l’aumento delle disconnessioni, rilevando come tutte le piattaforme di ghiaccio prese in considerazione si sono ritirate nel 2019 rispetto alla posizione iniziale del 1770, e come ben 108 ghiacciai sono scomparsi del tutto.

Quello che concretamente si verifica a causa dell’assottigliamento di neve e ghiaccio è l’esposizione delle superfici più scure, che assorbono una maggiore quantità di radiazioni per via del minore albedo; ciò potrebbe condurre a una probabile retroazione tra il bilancio di massa e l’altitudine, inibendo la futura ricrescita dei ghiacciai. A favorire il processo di esposizione è inoltre partecipe anche la stessa frammentazione glaciale. Questi due fenomeni, insieme, stanno avviando un ciclo di feedback positivo il cui culmine è la recessione irreversibile di cui si parlava. Il punto di non ritorno, avverte la comunità scientifica, è vicino; ciò che invece sembra lontano è l’impegno delle politiche globali, che continuano a guardare e passare oltre.

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di Michelangelo Ottaviano

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Il Mare del Weddell, regione candidata come area marina protetta su proposta dell’UE e di altri Stati, ospita al suo interno diverse comunità biotiche composte da spugne, coralli e innumerevoli altri organismi adattati all’ambiente freddo, potrebbe ospitare in futuro organismi vegetali e animali la cui vita è strettamente legata al ghiaccio. Il Mare di Weddell è il più grande mare dell’Oceano Meridionale ed è ricchissimo di biodiversità, tanto da essere paragonata a quella delle barriere coralline tropicali.

Attraverso il progetto europeo “Weddell Sea Observatory of Biodiversity and Ecosystem Change” (WOBEC), l’Istituto Alfred Wegener, come coordinatore di undici istituzioni europee e statunitensi, tra le quali il Dipartimento di Biologia dell’Università di Padova, attraverso una strategia che monitorerà i cambiamenti nel mare di Weddell, i mutamenti potenziali di questo ecosistema.

«L’obiettivo è quello di preservare una regione marina ancora incontaminata come rifugio per le specie adattate al freddo dove, nonostante l’attuale riscaldamento della Terra, si spera possano vivere indisturbate alle mutate condizioni ambientali» ha specificato Katharina Teschke, ecologa marina e responsabile del progetto per la costituzione dell’area marina protetta nel Mare di Weddell per l’Istituto Alfred Wegener. La prima riunione si è tenuta il 14 giugno a Bremerhaven, in Germania, nella quale Undici istituti di otto Paesi si sono uniti nel progetto WOBEC, il quale è uno dei 33 progetti dell’importante programma dell’Unione Europea BiodivMon, sotto l’egida di Biodiversa+, il partenariato europeo per la biodiversità. I partner del progetto hanno ricevuto un budget di circa 1,9 milioni di euro di sostegno finanziario. Sebbene Paesi come la Germania, la Norvegia e il Sudafrica conducano ricerche nella regione da decenni, ancora mancano studi sistematici sul suo enorme ecosistema. Secondo Hauke Flores, biologo marino dell’Istituto

WOBEC, ANTARTIDE

SOTTO OSSERVAZIONE

Progetto per l’analisi dei cambiamenti nel mare di Weddell dell’Istituto Alfred Wegener e undici partner

Alfred Wegener e coordinatore del progetto WOBEC, attualmente non siamo abbastanza a conoscenza di molti aspetti: per migliaia di chilometri a est e a ovest dell’area di studio di WOBEC non sono state effettuate osservazioni a lungo termine della biodiversità marina.

Come collaboratrice ci sarà la Commissione per la Conservazione delle Risorse Marine viventi dell’ANTARTIDE (CCAMLR), insieme alle parti interessate delle comunità politiche, economiche e di conservazione della natura. Da molto tempo l’UE e altri membri del CCAMLR tentano di proteggere vaste aree del Mare di Weddell e grazie an-

che all’esperienza dell’Istituto Alfred Wegener è stato sviluppato un concetto di protezione presentato al CCAMLR nel 2016. Il team del Dipartimento di Biologia dell’Università di Padova è sostenuto dal Ministero dell’Università e della Ricerca (MUR) con un contributo di quasi 200 mila euro. I coordinatori sono Chiara Papetti, Isabella Moro, Alessandro Vezzi e i giovani ricercatori Luca Schiavon, Alessia Prestanti e Federica Stranci.

Questi ricercatori in particolare si occupano di studiare la connessione tra popolazioni di pesci antartici nell’Oceano Meridionale. (E. C.)

BRACCIALI ROBOTICI PER ALLEVIARE IL DOLORE E CONTROLLARE LE PROTESI

I nuovi impianti possono essere controllati a distanza: applicando piccole tensioni cambiano forma avvolgendo i nervi periferici senza bisogno di suture o colle chirurgiche

Un team internazionale di ricercatori, capitanato dagli ingegneri dell’Università di Cambridge, ha unito l’elettronica flessibile e i recenti progressi nelle tecniche di robotica morbida per realizzare microbracciali bioelettronici che possono avvolgersi intorno ai nervi periferici senza danneggiarli. I nuovi sistemi a bracciale si potranno utilizzare per la diagnosi e il trattamento di disturbi neurologici, tra cui l’epilessia e il dolore cronico, o per il controllo di arti protesici. Si tratta di dispositivi flessibili e minimamente invasivi, abbastanza piccoli da poter essere arrotolati in un ago e iniettati vicino al nervo bersaglio.

Come spiegano gli autori dello studio che è stato pubblicato sulla rivista Nature Materials, gli elettrodi a bracciale sono interfacce neurali periferiche molto utilizzate nel campo della medicina bioelettronica, ma richiedono a oggi procedure chirurgiche complesse, presentano problemi meccanici e di collegamento, e una volta installati non possono essere riposizionati. Lesioni irreversibili possono accadere in particolare se i nervi sono piccoli o si trovano in sedi anatomiche difficili da raggiungere. «Gli impianti che consentono l’accesso diretto alle fibre nervose, comportano un rischio elevato di lesioni ai nervi», ha dichiarato George Malliaras del Dipartimento di Ingegneria di Cambridge, che ha guidato la ricerca. «I ner-

vi sono piccoli e molto delicati, quindi il contatto con oggetti di grandi dimensioni, come un elettrodo, porta con sé diversi pericoli». «I sistemi a bracciale attualmente disponibili sono troppo ingombranti, rigidi e difficili da impiantare, richiedono una manipolazione significativa e possono provocare un trauma al nervo», concorda Damiano Barone, coautore dello studio. I nuovi bracciali, al contrario, sono più sicuri perché possono essere impiantati senza dover intervenire chirurgicamente: «Uno dei vantaggi offerti dal nostro approccio è di raggiungere nervi difficilmente accessibili con un intervento chirurgico a cielo aperto, come i nervi che controllano il dolore, la vista o l’udito, senza dover impiantare nulla all’interno del cervello» ha sottolineato Barone. «La possibilità di posizionare questi bracciali in modo che avvolgano i nervi – ha proseguito il ricercatore - rende la procedura molto più semplice per i chirurghi e meno rischiosa per i pazienti».

Ma i nuovi bracciali offrono parecchi altri vantaggi. I sistemi integrano al loro interno decine di microelettrodi e un attuatore bilayer a base di polimeri organici conduttori di elettroni e ioni (Omiec ) che può essere controllato da input elettrici programmabili. Quando vengono attivati elettricamente, i bracciali cambiano forma per avvolgere il nervo, consentendo di monitorare o alterare l’attività nervosa.

La novità dell’impianto consiste proprio nella sua adattabilità attraverso l’attivazione elettrica: ciò apre a una serie di possibilità future per trattamenti mirati. I test condotti sui ratti hanno dimostrato che i dispositivi possono essere controllati a distanza e necessitano solo di piccole tensioni per cambiare struttura formando un anello che si chiude attorno ai nervi senza bisogno di suture o colle chirurgiche.

Come spiegato nella ricerca, l’intenzione degli autori è utilizzare impianti nervosi elettrici per stimolare o bloccare i segnali nei nervi bersaglio. I nuovi impianti possono contribuire ad alleviare il dolore bloccando i segnali dolorosi, oppure possono essere utilizzati per ripristinare il movimento negli arti paralizzati inviando segnali elettrici ai nervi. Si possono inoltre utilizzare per monitorare l’attività nervosa durante gli interventi chirurgici quando si opera in aree del corpo che contengono un’alta concentrazione di fibre nervose, come in prossimità del midollo spinale.

Per realizzare il nuovo tipo di cuffia nervosa sono stati utilizzati polimeri conduttori, normalmente utilizzati nella robotica morbida. I bracciali ultrasottili sono stati progettati in

I nuovi sistemi a bracciale si potranno utilizzare per la diagnosi e il trattamento di disturbi neurologici, tra cui l’epilessia e il dolore cronico, o per il controllo di arti protesici. Si tratta di dispositivi flessibili e minimamente invasivi, abbastanza piccoli da poter essere arrotolati in un ago e iniettati vicino al nervo bersaglio.

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due strati separati. L’applicazione di minime quantità di elettricità (bastano poche centinaia di millivolt) fa sì che i sistemi a bracciale vengano azionati gonfiandosi o restringendosi. «Per garantire l’uso sicuro di questi dispositivi all’interno del corpo, siamo riusciti a ridurre la tensione necessaria per l’attivazione a valori molto bassi», ha dichiarato Chaoqun Dong, primo autore dell’articolo. «L’aspetto ancora più rilevante – continua Dong - è che questi bracciali possono cambiare forma ed essere riprogrammati. Ciò significa che i chirurghi possono regolare la tenuta del dispositivo attorno al nervo fino a ottenere i risultati migliori per la registrazione e la stimolazione del nervo».

I test sui ratti hanno dimostrato che i bracciali possono essere posizionati con successo senza intervento chirurgico e che formano un anello che si chiude autonomamente intorno al nervo bersaglio senza danneggiarlo.

«In futuro - termina Malliaras - potremmo essere in grado di avere impianti che si muovono attraverso il corpo o addirittura nel cervello: fa sognare il modo in cui in futuro potremo usare la tecnologia a beneficio dei pazienti». (S. B.)

MICROPLASTICHE IN MARE, VITA PER I BATTERI

I frammenti di plastica offrono un substrato, che contribuisce alla crescita di comunità batteriche anche patogene

Sulla base di uno studio condotto nel 2019 da un team del Cnr di Verbania in collaborazione con i colleghi dell’Ecole Polytechnique Federale di Losanna (Svizzera) e della statunitense Texas A&M University, nelle acque di Toscana e Corsica sia nei siti costieri di Forte dei Marmi e delle Cinque Terre, è emerso che la presenza di microplastiche nel Mar Tirreno favorisce lo spread di batteri, alcuni dei quali pericolosi per gli esseri umani e gli animali. I risultati, pubblicati ora sulla rivista Marine Pollution Bullettin, rivelano che le

particelle di plastica offrono un substrato suppletivo ideale per la crescita delle comunità batteriche, che già proliferano nella cosiddetta marine snow presente in acqua, vale a dire l’insieme di particelle naturali composto da alghe, piante acquatiche, zooplancton, come residui di pesci e altri animali, e fitoplancton.

Gianluca Corno, dell’Istituto di ricerca sulle acque (Cnr-Irsa), ha dichiarato: «Nel nostro studio abbiamo prima quantificato la presenza di microplastiche e di particelle organiche di origine naturale, quindi abbiamo analizzato le comunità batteriche

presenti su entrambi i substrati e la presenza di resistenze ad antibiotici e metalli pesanti. In particolare, abbiamo rilevato che la maggior parte delle particelle di microplastica non seleziona “nuovi” batteri, non si generano cioè, dal punto di vista microbiologico, nuovi inquinanti, ma offre un supporto addizionale su cui proliferano comunità batteriche molto simili a quelle presenti sulle particelle naturali. Tali comunità, che rivestono le particelle sotto forma di sottilissimi biofilm, sono molto diverse da quelle che vivono in acqua, e comprendono anche specie patogene per gli esseri umani o per gli animali, come Vibrio, Alteromonas, Pseudolateromonas. Ad oggi, il rischio batteriologico legato a infezioni provocate da batteri patogeni che crescono in acqua di mare è relativamente basso, soprattutto in mari estremamente poveri di nutrienti ed in acque fredde, che limitano la crescita di queste specie batteriche. La situazione però sta rapidamente cambiando».

Infatti, con il progressivo riscaldamento delle acque, il fenomeno potrebbe ampliarsi. Il ricercatore del Consiglio nazionale delle ricerche, ha aggiunto: «Le acque sempre più calde dei nostri mari daranno a questi batteri un grande vantaggio ecologico, perché li renderanno più competitivi rispetto ai batteri marini non-patogeni, come si è già visto con il forte incremento di infezioni causate da specie patogene, tra cui Vibrio, nelle acque costiere dell’America Settentrionale. Tra essi rientrano anche specie patogene per gli esseri umani che, oltre a rappresentare un pericolo per persone e animali, possono compromettere attività come la balneazione e in generale l’uso dell’acqua. Se a questo fenomeno aggiungiamo la già massiva presenza di microplastiche, substrati ideali che aumentano la disponibilità di micro-habitat a tali batteri, la loro proliferazione sarà ulteriormente favorita».

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di Pasquale Santilio

Una ricerca realizzata dall’Istituto di scienze applicate e sistemi intelligenti del Cnr di Pozzuoli, in collaborazione con l’Istituto nazionale di Astrofisica e l’Università degli Studi di Napoli Federico II, ha rivelato che le cellule biologiche possono essere modificate per comportarsi come microlenti ottiche, cioè piccole strutture che funzionano come lenti tradizionali, ma fatte di materiali biologici. Studiando il loro comportamento ottico, in futuro queste cellule potrebbero essere utilizzate per diagnosi mediche basate sulle loro proprietà di focalizzazione della luce. La scoperta apre nuove prospettive per la ricerca scientifica e potrebbe rivoluzionare il campo della diagnostica medica. Lo studio si concentra sull’uso di cellule di lievito di birra come lenti ottiche biologiche. Queste cellule possiedono proprietà che permettono di modificare rapidamente i loro vacuoli intracellulari, piccole sacche fondamentali per il funzionamento e la salute delle cellule.

I ricercatori, sfruttando queste proprietà, hanno trasformato un vacuolo di una cellula di lievito in una microlente. Le lenti di ingrandimento tradizionali raccolgono i raggi luminosi provenienti da un oggetto e li focalizzano in un punto preciso, permettendo una visione dettagliata e ingrandita. Questo è reso possibile grazie alla capacità delle lenti di deviare i raggi luminosi. Tuttavia, i vacuoli modificati nelle cellule di lievito si comportano in modo diverso: anziché concentrare la luce in un punto (focalizzazione convergente), disperdono la luce (focalizzazione divergente). Questo risultato riveste una certa importanza, perché arricchisce la comprensione sulle modalità di interazione della luce con le strutture biologiche e potrebbe portare allo sviluppo di dispositivi biofotonici innovativi, cioè strumenti che utilizzano la luce (fotoni) per studia -

LE CELLULE BIOLOGICHE

COME LENTI OTTICHE

Lo studio, pubblicato su Advanced Optical Materials, potrebbe davvero rivoluzionare il campo della diagnostica medica

re, diagnosticare o trattare fenomeni biologici e medici. Vittorio Bianco (Cnr- Isasi), ha spiegato: «Studiare come i vacuoli delle cellule rispondono alla luce è utile per capire meglio le cellule nel sangue e in altri fluidi del corpo. Questo potrebbe aiutare a migliorare le diagnosi mediche e rendere più facile individuare malattie o problemi nel corpo in modo veloce e meno invasivo».

Lo studio del comportamento della luce nei vacuoli intracellulari può essere utile per individuare rapidamente varie malattie, come quelle da accumulo lisosomiale, il cancro e

anche infezioni virali, tra cui il Covid-19 causato dal virus Sars-CoV-2.

Daniele Pirone, ricercatore del Cnr-Isasi e primo autore dell’articolo, ha aggiunto: «La piattaforma che stiamo sviluppando aiuterà a identificare queste malattie in modo più efficiente. Inoltre, questa piattaforma sarà utilizzata per testare quanto sono efficaci i farmaci nel rimuovere o ridurre i vacuoli presenti nelle cellule malate». Secondo i ricercatori, lo studio offre molteplici applicazioni pratiche in vari settori, come quello relativo alle tecniche di imaging, che potrebbero essere migliorate. (P. S.).

NANOPRISMI DI ORO PER RIGENERARE I TESSUTI

Il processo di rigenerazione cellulare promosso da piccole quantità di calore a seguito di illuminazione infrarossa

Una delle sfide della medicina rigenerativa è quella posta dalla domanda che chiede se è possibile guarire una ferita con la luce. La risposta è stata fornita da uno studio realizzato dall’Istituto di scienze applicate e sistemi intelligenti “Eduardo Caianiello” del Cnr di Pozzuoli in collaborazione con l’Istituto de Nanociencia y Materiales de Aragon (Saragozza, Spagna). Il team di ricerca Nanobiomolecular group dell’Istituto ha dimostrato la possibilità di promuovere il processo di rigenerazione tessutale mediante attivazione delle cellule sta-

minali in organismi trattati con nanoprismi di oro e illuminati con luce nel vicino infrarosso. I risultati sono stati pubblicati su Advanced Functional Materials.

Quindi, prospettive innovative nel campo della medicina rigenerativa. Claudia Tortiglione, ricercatrice del Cnr-Isasi che ha coordinato il gruppo italiano, composto anche dai ricercatori Angela Tino e Massimo Rippa, ha spiegato: «Uno degli obiettivi della medicina rigenerativa è la possibilità di riattivare le cellule staminali nel tessuto lesionato e promuovere i processi che portano alla rigenerazio-

ne del tessuto piuttosto che al riparo, che raramente riesce a ripristinare la morfologia e la funzionalità del tessuto esistenti prima della lesione. In tutti gli organismi viventi la rigenerazione avviene grazie a fattori genetici e biochimici che agiscono a livello cellulare, ed è anche regolata da stimoli fisici quali calore, campi elettrici, luce, eccetera che rivestono ruoli fondamentali per coordinare grandi numeri di cellule nel processo di guarigione della ferita. L’effetto dell’esposizione alla luce o al calore nel favorire il processo di rigenerazione sono ben noti, e nella nostra quotidianità applichiamo impacchi caldi o cerotti termici per ridurre l’infiammazione, alleviare il dolore e migliorare la circolazione sanguigna».

Mentre il corpo umano riesce a rigenerare, allo stadio adulto, solo parte di alcuni organi, quali pelle, fegato, nel mondo animale esistono organismi invertebrati, come l’idra e la planaria, in cui il potenziale di rigenerazione tessutale è massimo.

Ed è proprio su esemplari di Hydra vulgaris che il team ha concentrato i propri studi, dimostrando come il trattamento con nanoheaters, cioè nanomateriali che producono calore quando fotostimolati, aumenti la velocità di rigenerazione della testa, della capacità riproduttiva e del tasso di proliferazione delle cellule staminali dell’animale. La ricercatrice ha aggiunto: «Lo studio delinea i meccanismi molecolari alla base dell’aumentata efficienza di rigenerazione, identificando i geni chiave dello sviluppo e i geni coinvolti nella risposta allo stress termico che vengono riattivati in anticipo rispetto ai tempi normali grazie all’illuminazione dei nanoprismi. Inoltre, mediante analisi termografica viene stimata la quantità di calore prodotta dai nanoheaters intracellulari, rivelando Hydra come un termometro vivente per testare le prestazioni di questi innovativi materiali». (P. S.).

Grazie al cofinanziamento della Regione Basilicata ed alla partecipazione di Enea, dell’Istituto di Scienze del Patrimonio Culturale del Consiglio nazionale delle ricerche (capofila), dell’Università di Basilicata e il cluster regionale Basilicata Creativa, che riunisce circa 40 imprese lucane operanti nel settore culturale e creativo, è stato avviato il progetto pilota, realizzato nell’ambito di Basilicata Heritage Smart Lab, denominato “Share Art” avente l’obiettivo di misurare il gradimento dei visitatori verso le opere d’arte. La Pinacoteca provinciale di Potenza è stata individuata come sito pilota della sperimentazione, dove il progetto è stato sviluppato da Enea in collaborazione con il Polo della Cultura della Provincia di Potenza e il supporto di Diotima, una delle aziende di Basilicata Creativa.

La Pinacoteca Provinciale di Potenza è stata fondata nel 2000 e sorge nei pressi del Museo Archeologico Provinciale, nell’antico quartiere di Santa Maria. Il visitatore è accolto con due dipinti su tavola di bottega di Antonio Stabile, risalenti alla seconda metà del Cinquecento. Nelle due sale seguenti è esposta la mostra antologica permanente d’arte otto-novecentesca, intitolata a Concetto Valente, nella quale spiccano le opere di Giacomo Di Chirico, Angelo Brando e Michele Tedesco. Di particolare interesse i ritratti di Giuseppe Mona, Vincenzo La Creta e Andrea Petrone. Sono presenti anche opere di autori più recenti come Luigi Guerricchio, Vincenzo Claps ed Italo Squitieri presentate nella sala dedicata al Novecento con quelle di più noti autori italiani come Carlo Levi, Fausto Pirandello e Renato Guttuso.

Carolina Innella, la referente scientifica del progetto, ricercatrice Enea della Sezione Supporto al Coordinamento delle Attività sull’Economia Circolare, ha spiegato: «Lo Smart Lab ha come primo obiettivo di valutare

OPERE D’ARTE, UN QR CODE PER IL GRADIMENTO

In Basilicata ha preso il via il progetto pilota Share Art che misura gradimento e fruibilità delle opere d’arte

l’interesse dei visitatori nei confronti delle opere esposte nella Pinacoteca, attraverso un approccio che analizza un insieme di dati. Questo è possibile utilizzando un semplice QR Code da inquadrare per approfondire la conoscenza dell’opera a cui è associato, rendendo così il visitatore parte attiva dello studio».

Il progetto prevede anche il monitoraggio dell’interazione tra visitatori e luoghi espositivi attraverso l’impiego di sensori che rilevano i valori esterni ed interni di temperatura ed umidità con l’obiettivo di ottimizzare le condizioni di conser-

vazione delle opere e il comfort dei visitatori.

La ricercatrice Carolina Innella, ha così concluso: «La presenza di persone e la loro permanenza all’interno di un ambiente determina una variazione di tali parametri e, allo stesso tempo, il rispetto di condizioni confortevoli per i visitatori è importante per favorire la fruizione degli ambienti espositivi, assicurando una visita il più possibile piacevole e rilassata e incidendo così sul tempo di permanenza». I dati raccolti permetteranno inoltre di avere indicazioni utili su come migliorare l’esposizione delle opere. (P. S.).

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I DUECENTO ANNI DEL MUSEO EGIZIO: I TESORI DEL NILO NEL CUORE DI TORINO

La ricca e curata esposizione si prepara a tagliare il traguardo del bicentenario Nascita, storia e novità di una delle attrazioni principali del capoluogo piemontese

Beni culturali
di Rino Dazzo

Cairo per qualità e quantità dei reperti esposti. Il Museo Egizio di Torino compie 200 anni. Era infatti il 1824 quando, dopo un avventuroso viaggio dalle sponde del Nilo a Torino, circa settemila reperti venduti a re Carlo Felice di Savoia da Bernardino Drovetti, piemontese di nascita, console francese in Egitto, furono sistemati ed esposti al pubblico nella capitale del Regno di Sardegna. E se all’epoca, pur suscitando enorme interesse, i visitatori erano solamente alcune decine di letterati, appassionati di storia e di arte, oppure giovani dell’alta borghesia in tour in Italia, nel 2023 il Museo Egizio di Torino ha abbattuto il muro del milione di visitatori. Un enorme successo, che giunge a coronamento di una crescita progressiva e graduale nel corso degli anni e che colloca il Museo Egizio tra le esposizioni più visitate in Italia, ma anche tra quelle che suscitano il maggior interesse e di cui si parla di più, anche sui social.

Le celebrazioni per il bicentenario avranno il loro culmine il prossimo 20 novembre. Ma come ha avuto origine il Museo Egizio? Prima ancora dell’inaugurazione, a Torino suscitò grande clamore l’arrivo della Mensa Isiaca, una tavoletta bronzea proveniente dall’Egitto acquistata nel 1626 da re Carlo Emanuele I. Oltre un secolo dopo, su input della Casa Reale, il botanico Vitaliano Donati fu incaricato di condurre scavi a Karnak, grazie ai quali furono recuperate tre grandi statue: una del faraone Ramses II, una della dea Sekhmet, un’altra della dea Iside. Tutto il materiale fu inviato al Museo dell’Università di Torino. Visto il boom per il collezionismo egizio dei primi anni dell’800, diretta conseguenza delle campagne napoleoniche, a Torino si interrogarono sulla possibilità di ampliare e arricchire l’esposizione. E l’occasione fu servita su un piatto d’argento quando Drovetti decise di mettere in vendita la sua smisurata collezione.

Circa settemila i reperti portati alla luce tra sarcofaghi, mummie, papiri, statue, monili, amuleti, animali imbalsamati e altro ancora. Drovetti avrebbe voluto venderli alla Francia, ma dopo il no del governo di Parigi si rivolse a re Carlo Felice. Decisivo, ai fini dell’acquisto, il parere positivo di alcuni illuminati consiglieri di corte, tra cui Carlo Vidua, che in una lettera al ministro degli Interni Prospero Balbo mise in rassegna i motivi per cui l’investimento - 400mila lire dell’epoca - sarebbe stato opportuno. Tre i principali: la necessità per il Piemonte di arricchirsi sotto il profilo culturale, la possibilità di attrarre «forestieri istruiti» a Torino, il rischio che i reperti potessero finire in Francia. Il re si convinse della bontà dell’operazione e alla fine del 1823 diede l’assenso all’acquisto. Il viaggio della preziosa collezione dall’Egitto al Piemonte meriterebbe un capitolo a parte. I reperti, portati via nave da Livorno a Genova, furono poi trasferiti a Torino tra notevoli difficoltà logistiche e di trasporto: una statua

Era il 1824 quando, dopo un avventuroso viaggio dalle sponde del Nilo a Torino, circa settemila reperti venduti a re Carlo Felice di Savoia da Bernardino Drovetti, piemontese di nascita, console francese in Egitto, furono sistemati ed esposti al pubblico nella capitale del Regno di Sardegna.

colossale, ad esempio, dopo la rottura di un ponte sulla Bormida fu portata sull’altra sponda dopo aver costruito un ponte di barche. Giunta finalmente a Torino, la collezione venduta da Drovetti fu sistemata, insieme agli altri reperti, presso l’antico Collegio dei Nobili, aperto al pubblico – appunto – nel 1824. Successivamente l’esposizione si sarebbe arricchita con altre migliaia di pezzi, frutto di ulteriori campagne di scavo e acquisizioni.

Oggi il Museo Egizio è diventato una delle attrazioni principali di Torino, quasi una tappa d’obbligo per ogni turista in visita nel capoluogo piemontese. Quelli che lo visiteranno nei prossimi mesi potranno godersi le principali novità: il progressivo ampliamento del museo, una generale opera di riallestimento e soprattutto la realizzazione di un giardino egizio nella corte del palazzo basato su due livelli e coperto da una struttura trasparente in vetro e in acciaio. Novità illustrate in più circostanze dal dinamico direttore Christian Greco, che nel frattempo si prepara a una nuova avventura: sarà presidente del comitato scientifico del Museo archeologico dell’Alto Adige, dove è custodito Ötzi.

Quarantamila e più i reperti ammirabili tra i saloni del Museo, che coprono un perodo che va dal paleolitico all’epoca copta. Autentici capolavori come i 700 papiri completi, le 24 mummie umane, i 17 animali, il sarcofago della regina Nefertari, il Libro dei Morti di Iuefankh. E ancora la statua di Seti II, pesante cinque tonnellate, la Tomba di Kha e Merit, il tempio rupestre di Ellesija salvato dall’inabissamento dopo la formazione del lago Nasser o ancora la Tela di Gebelein. Tesori dal valore storico e artistico inestimabile, davanti a cui impallidì persino uno dei primissimi visitatori del Museo Egizio, Jean Francois Champollion, l’archeologo francese che nel 1822 decifrò per i primo i geroglifici e tradusse la Stele di Rosetta e che due anni dopo si fiondò a Torino per ammirare la nascita del museo.

Museo Egizio di Torino.
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OLIMPIADI PER L’ITALIA. NOVE VELE GONFIE DI SPERANZA

Dai big Tita e Banti agli emergenti Renna e Pianosi: quali sono le attese e le ambizioni degli azzurri della vela a Parigi 2024

di Antonino Palumbo

Dai dominatori del catamarano con foil agli astri emergenti del windsurf e del kite. Dodici atleti, nove specialità: le discipline veliche sono pronte a far sognare gli sportivi italiani anche a Parigi 2024. È la Marina di Marsiglia la location delle competizioni olimpiche, con 10 titoli da assegnare fra l’1 e l’8 agosto.

Punta di diamante della spedizione azzurra è l’equipaggio del Nacra 17 formato dalla 36enne romana Caterina Banti e dal 32enne trentino Ruggero Tita. Campioni olimpici a Tokyo tre anni fa, hanno continuato a macinare successi sul catamarano olimpico. Dopo l’oro iridato del 2018 ad Aarhus, infatti, si sono laureati campioni del mondo anche nelle ultime tre edizioni in Nova Scozia/Halifax, L’Aia e poche settimane fa a La Grande Motte, battendo in quest’ultimo caso i grandi rivali Gimson e Burnet di una ventina di punti. I britannici

furono già secondi in Giappone e saranno l’ostacolo più impegnativo da superare anche a Marsiglia.

Altra carta dal medaglia per l’Italia della vela è Nicolò Renna, 23enne windsurfer trentino di Rovereto, portacolori delle Fiamme Oro. Cresciuto in “casa” al Circolo Surf Torbole, si è imposto all’attenzione internazionale vincendo l’argento nel 2018 alle Olimpiadi giovanili di Buenos Aires, poi ha confermato il suo talento nell’iQ Foil, tavola a vela che dopo Tokyo 2021 ha preso il posto dell’RS:X nel programma delle Olimpiadi. I risultati dell’ultimo biennio sono decisamente promettenti: argento europei nel 2022 sul lago di Garda, titolo europeo lo scorso anno a Patras, bronzo mondiale a L’Aia 2023 (con pass olimpico) e iridato a inizio anno a Lanzarote.

L’ultimo Mondiale non ha sorriso a Marta Maggetti, ma anche la 28enne cagliaritana

può dire la sua a Parigi 2024. Alla Francia è legata da dolci ricordi, primo fra tutti la medaglia d’oro sempre nell’iQFoil ai Campionati mondiali di due anni fa a Brest. L’abbiamo già vista in azione a Tokyo, dove ha concluso quarta nell’RS:X. Un’atleta capace di gareggiare ad alti livelli dal 2017, che se trova il giusto feeling può regalare e regalarsi grandi soddisfazioni.

Debutto olimpico carico di speranze per il 19enne marchigiano Riccardo Pianosi, atleta della Marina Militare, asso della Formula Kite, spettacolare disciplina del kitesurf scelta per le Olimpiadi per il suo alto tasso di spettacolarità, la capacità di competere in una vasta gamma di condizioni di vento e perché si avvicina moltissimo al concetto di regate velistiche. Pianosi è costantemente ai vertici della disciplina: a maggio è tornato sul podio dei Mondiali, grazie all’argento di Hyères (era stato bronzo a Torregrande nel 2021), mentre agli Europei

è stato oro a Portsmouth 2023, bronzo l’anno prima a Lepanto e argento quest’anno a Los Alcarazes. In campo femminile l’Italia sarà invece rappresentata da Maggie Eillen Pescetto, 23 anni, nata in Irlanda a Waterford, che ha conquistato la carta olimpica per l’Italia Team ai Mondiali dello scorso anno e si è garantita il posto per Parigi agli Europei 2024 di Los Alcazares, entrando in Top 10.

Quello formato da Jana Germani e Giorgia Bertuzzi è l’ equipaggio che ha riportato il 49er femminile italiano ad altissimi livelli, richiamando i tempi di Giulia Conti e Francesca Clapcich. Dopo aver conquistato il “pass nazione” per le Olimpiadi, vinto l’argento europeo nel 2023 (e il bronzo nel 2022), Jana Germani e Giorgia Bertuzzi hanno confermato la loro crescita al Mondiale 49er FX di Lanzarote, aggiudicandosi la medaglia di bronzo dietro le olandesi Aanholt-Duetz e le svedesi Bobeck-Netzler, davanti alle due volte olimpioniche brasiliane Grael-Kunze. Bertuzzi è nata nel 2001 a Rovereto, Germani due anni prima a Trieste. Navigano assieme dal 2020 e ora il loro feeling sembra davvero al culmine.

Fra i primi nomi ufficializzati da Federvela per Parigi 2024 c’è stato quello di Chiara Benini Floriani, 22enne delle Fiamme Gialle che lo scorso anno è stata terza nel Test Event dell’Ilca 7 a cinque cerchi disputato nelle acque di Marsiglia. Trentina di Rovereto, cresciuta con la Fraglia Vela Riva ha iniziato a emergere nel 2021 conquistando l’argento sia agli Europei sia ai Mondiali under 21, ripetendosi poi ai Giochi del Mediterraneo di Orano 2022.

Nato a Roma, cresciuto in Scozia, Lorenzo Brando Chiavarini (ILCA6) ha dovuto superare due gravi infortuni prima di iniziare a gareggiare per l’Italia nel 2022. Laureato in Navigazione e Scienze marittime all’Università di Plymouth, ha guadagnato il pass olimpico ai Mondiali olandesi del 2023, con un quinto posto che rappresenta il suo miglior risultato in azzurro. Con la Gran Bretagna, era stato campione europeo Laser standard nel 2019 e argento l’anno dopo.

Completano la spedizione Elena Berta (alla terza Olimpiade) e Bruno Festo nel 470 misto, dove a garantire il pass sono stati Giacomo Ferrari ed Alessandra Dubbini alla Last Chance Regatta il 25 aprile scorso. Berta e Festo si sono classificati sesti agli Europei.

L’ultimo Mondiale non ha sorriso a Marta Maggetti, ma anche la 28enne cagliaritana può dire la sua a Parigi 2024. Marta Maggetti.
Caterina Banti e Ruggero Tita - Fonte: Coni.
Fonte: Coni

Le principali rivali si chiamano Stiliana Nikolova, bulgara, fresca campionessa d’Europa, e Darja Varfolomeev, tedesca, regina mondiale della ginnastica ritmica nel 2023. Ma Sofia Raffaeli ha tutte le carte - o per meglio dire: gli attrezzi - in regola per far sognare gli appassionati italiani. E con lei le “Farfalle”, ovvero la squadra nazionale italiana capitanata da Alessia Maurelli che, dopo l’argento continentale a Budapest, cerca la rivincita sulla Bulgaria senza trascurare le campionesse del mondo di Israele e poi Cina, Spagna e Azerbaigian, solo per citare le rivali più accreditate. Cresce l’attesa per i due eventi da medaglia della ginnastica ritmica ai Giochi di Parigi, in programma dall’8 al 10 agosto 2024 alla Porte de La Chapelle Arena.

La stellina azzurra è Sofia Raffaeli, 20enne marchigiana di Chiaravalle, stabilmente ai vertici della disciplina negli ultimi anni, con medaglie d’oro a podi a livello continentale e mondiale. La vicecampionessa mondiale, allenata da Claudia Mancinelli alla Ginnastica Fabriano, ha confermato la legittimità delle proprie ambizioni olimpiche, brillando nell’ultima prova della Coppa del Mondo, a Milano. Un oro e due argenti, più un secondo posto nell’All around per Raffaeli, capace di imporsi nella finale con il nastro davanti alla grande rivale Darja Varfolomeev e all’ucraina Taisiia Onofriichuk e di conquistare la piazza d’onore alla palla e alle clavette, dietro a una Varfolomeev - campionessa del mondo in carica - decisamente in forma.

Per Raffaeli, anche il primo posto del circuito FIG 2024 alle clavette dopo le tappe di Atene, Sofia, Baku, Tashkent e Milano. A Parigi, Sofia farà leva sul riconosciuto mix di eleganza, potenza e precisione, ma anche sulla sua capacità di mantenere la calma e la concentrazione anche sotto la pressione della grande competizione.

Ambizioni di podio olimpico anche per la squadra azzurra, che su

SOFIA E LE FARFALLE IN VOLO VERSO PARIGI

Dall’8 al 10 agosto gli eventi da medaglia della ginnastica ritmica alle Olimpiadi: l’Italia punta una squadra in crescita

cinque tappe della Coppa del Mondo ne ha concluse quattro sul podio (due argenti, due bronzi), aggiudicandosi inoltre due prove (Atene e Milano) e la classifica assoluta nei cinque cerchi. A Tokyo 2021 l’Italia conquistò la medaglia di bronzo.

Ai Giochi olimpici di Parigi 2024 saranno due gli eventi da medaglia della ginnastica ritmica: l’all-around individuale e l’all-around a squadre. Ognuna delle 24 atlete dell’individuale svolgerà nelle qualificazioni quattro esercizi (cerchi, palle, clavette e nastro), che le dieci migliori classificate ripeteranno poi in finale. Sono 70 inve-

ce le partecipanti alla prova a squadre, cinque componenti per nazionale. In questo caso, nelle qualificazioni si gareggia solo con i cinque cerchi e con tre nastri/due palle. In finale vanno le prime otto di 14 squadre al via. Le classifiche sono date dalla somma dei punteggi di ogni esercizio.

Giovedì 8 agosto sarà dedicato alle qualificazioni individuali, con primo turno dalle 10 e secondo turno dalle 15. Venerdì 9 mattinata di eliminatorie a squadre e poi, nel pomeriggio, l’attesissima finale dell’individuale. Sabato 10 agosto, dalle 14, la finale a squadre. (A. P.)

Sofia Raffaeli.

MASCHERE E CASCHETTI QUANDO L’ACCESSORIO DIVENTA UN’ICONA

Il francese Kylian Mbappé si è aggiunto al club dei calciatori “mascherati”, dopo un infortunio al naso agli Europei. Da Cech a Davids: gli altri casi entrati nella leggenda

Maschere, caschetti e turbanti, ovvero: quando l’infortunio non ferma il campione. Forse. Come l’ex portiere del Chelsea, Petr Cech, l’ex centrocampista Edgar Davids e l’attaccante del Napoli, Victor Osimhen, anche il dorato asso calcistico francese Kylian Mbappé ha fatto ricorso a protezioni d’occasione per garantire un prezioso supporto alla sua Francia al recente Campionato europeo di calcio.

Nella prima partita della rassegna continentale, che vedeva la Francia e il suo fuoriclasse tra gli attesi protagonisti, Mbappé si è infortunato al naso colpendo violentemente la spalla del difensore austriaco Kevin Danso, mentre cercava di testa il pallone. Saltata la successiva sfida con l’Olanda, l’ex enfant prodige di Francia è rientrato con la Polonia, indossando una maschera protettiva. Non senza difficoltà, che il collega polacco Robert Lewandowski gli aveva preannunciato: “Giocare con la maschera? È abbastanza fastidioso, soprattutto in area di rigore. Io ho avuto problemi, non reagivo, non vedevo, avevo il campo visivo limitato”. Oltre alla visione periferica limitata, Mbappè ha avuto un altro problema, sottolineato dal ct francese Didier Deschamps dopo il match Francia-Polonia, disputato a Dortmund in un pomeriggio estivo, con alte temperature: “Quando suda, la maschera gli si attacca al volto e ha bisogno di asciugarsi spesso gli occhi”. Prima di provare la non esaltante esperienza, Mbappé aveva dovuto fare i conti con il regola-

mento che gli aveva impedito di indossare una maschera con il tricolore della Francia, proibita dai criteri imposti dalla Uefa per le attrezzature mediche. Ad ogni modo, Kylian ha dovuto fare di necessità virtù, rimediando con le sue riconosciute doti calcistiche che lo hanno portato ai vertici della disciplina.

Ai tifosi del Napoli, l’infortunio - e soprattutto il rimedio - di Mbappé ha ricordato quanto accaduto al nigeriano Victor Osimhen, la cui “maschera” è diventata ormai una delle icone della straordinaria cavalcata-scudetto della scorsa stagione. L’eroe mascherato che spaventava tutte le difese avversarie. Certo, il centravanti del Napoli avrebbe fatto volentieri a meno di indossarla, non fosse altro per evitare l’infortunio, una frattura scomposta a zigomo e orbita rimediati nel novembre 2021 contro l’Inter. Una maschera, quella originale di Osimhen, andata perduta durante una pausa-nazionali in Nigeria, ma che intanto è stata rappresentata ovunque, dalle uova di Pasqua alle pizze, dalle torte al caffè. Non tutti, chiaramente, ne hanno fatto un simbolo: in genere la si usa il tempo necessario’. E’ successo anche al romanista Tammy Abraham e al laziale Pedro, in Serie A, così come a Son e Kane. Diversi calciatori, però, hanno personalizzato la propria maschera protettiva d’occasione, come l’ex juventino Amauri con la scritta “Ama” e il collega di ruolo Giampaolo Pazzini, che si presentò in campo con un accessorio firmato “Pazzo 10”. La indossò per la prima volta contro il Bolo-

gna, a una settimana dall’involontario pugno in pieno volto rifilatogli dal portiere della Lazio, Muslera. «Quasi quasi non la tolgo più” commentò Pazzini». Qualche anno prima, anche Paolo Maldini era sceso in campo mascherato, in Champions League contro l’Ajax, dopo uno scontro con Christian Vieri in campionato.

Dalle maschere al caschetto, quello iconico di Peter Cech, portiere del Chelsea che nell’ottobre 2006, dopo 16 secondi della partita col Reading, si fratturò il cranio in un’uscita bassa su Hunt e fu operato d’urgenza. Dopo più di tre mesi di stop, tornò in campo con l’accessorio che lo avrebbe accompagnato fino a fine carriera. I tifosi dell’Inter ricordano invece nitidamente il casco protettivo di Chivo, indossato a seguito del trauma cranico rimediato dopo un contrasto con Pellissier, con conseguente operazione. Lo ricordo nitidamente, visto che successo nell’anno del famoso “Triplete”.

Alla Juventus conoscono bene il turbante di Chiellini, rimedio istantaneo per poter rientrare presto nella tenzone e magari dimostrare agli

Giorgio Chiellini.

Alla Juventus conoscono bene il turbante di Chiellini, rimedio istantaneo per poter rientrare presto nella tenzone e magari dimostrare agli avversari che, pure con la testa rotta, si continua sportivamente a combattere.

avversari che, pure con la testa rotta, si continua sportivamente a combattere. Da quelle parti, però, sono entrati nell’immaginario collettivo anche gli occhiali di Edgar Davids, centrocampista olandese che abbinava eccezionali doti atletiche a una tecnica di grande livello. Iniziò a indossare gli occhiali, trasparenti o con lenti oranje, dopo l’operazione per un glaucoma. Anche il milanista Ignazio Abate ha indossato per alcune partite, nel 2017 un paio di occhiali protettivi, dopo alcuni mesi di stop per un ematoma all’occhio che ne aveva messo in dubbio il rientro.

Chi conosce Karim Benzema, avrà notato che negli ultimi anni ha giocato sempre con un nastro kinesiologico alla mano destra, “figlio” della rottura del dito mignolo nel 2019 in uno scontro con Marc Bartra, durante una partita col Betis Siviglia. Benzema preferì non operarsi subito per non saltare alcuna partita né col club né con la Nazionale e visti gli effetti, Champions League vinte e Pallone d’Oro alzato al cielo, la scelta è stata premiata. (A. P.)

Kylian Mbappe con la maschera protettiva agli Europei in Germania.

CALCIO, LA “VERTENZA” DEL MONDIALE PER CLUB

Ricorso dei calciatori: contestata la legittimità di creare nuova competizione senza tener conto delle esigenze degli atleti

C’era una volta la Coppa Intercontinentale, ovvero la sfida fra i campioni d’Europa e quelli del Sudamerica. Poi è arrivato il Mondiale per club, allargato a tutte le confederazioni continentali del pallone. Ora, a brevissimo, ampiamente annunciato dal presidente della Fifa (l’organo di governo mondiale dal calcio) Gianni Infantino, il Mondiale per club è pronto a una nuova rivoluzione: 32 squadre, cadenza quadriennale e al contempo un altro torneo annuale. Una rivoluzione, posticipata causa pandemia, che sta suscitando

polemiche e incontrato più di una resistenza. Hanno fatto discutere le parole di Carlo Ancelotti, allenatore del Real Madrid, per il quale la cifra destinata dalla Fifa al più prestigioso club del mondo non sarebbe stata sufficiente a garantirne la partecipazione. Parole poi corrette dal tecnico emiliano, che sarebbe stato «male interpretato». Lo stesso Real Madrid ha immediatamente comunicato che «in nessun momento è stata messa in discussione la sua partecipazione al nuovo Mondiale per Club che sarà organizzato dalla Fifa nella prossima stagione 2024-25».

Più strutturato, invece, il ricorso dei sindacati dei calciatori, che nella decisione di creare una Coppa del Mondo per Club hanno visto una violazione dei diritti dei calciatori e dei loro sindacati sanciti dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Ue e dal diritto della concorrenza dell’Ue. I calciatori e i loro sindacati, ha sottolineato l’Associazione italiana calciatori, hanno costantemente evidenziato che già l’attuale calendario calcistico è sovraccarico e impraticabile. Perciò, l’Aic ha deciso di unirsi al ricorso legale contro la Fifa presso il tribunale del commercio di Bruxelles, presentato dai sindacato dei calciatori inglesi (Pfa) e francesi (Unfp). Si mette in dubbio la legittimità delle decisioni della Fifa di fissare unilateralmente il calendario delle partite internazionali e, in particolare, la decisione di creare e programmare la Coppa del Mondo per Club Fifa 2025.

«Da anni l’Associazione italiana calciatori, insieme a FifPro, sta portando avanti una battaglia contro l’attività agonistica esasperata. I top player, impegnati con i club nelle competizioni nazionali e internazionali - ha dichiarato il presidente di Aic, Umberto Calcagno - arrivano a disputare fino a 70 partite all’anno percorrendo più di 90mila chilometri per gli spostamenti. È evidente che non si può immaginare di continuare con questi ritmi».

Già a fine maggio, Fifpro e World Leagues avevano sottolineato la saturazione del calendario Fifa, la creazione di «danni economici» alle leghe nazionali e i «significativi rischi di infortuni per i calciatori». Un quadro arricchito dall’accusa nei confronti della Fifa di prendere inoltre decisioni a vantaggio solo dei propri interessi commerciali e dalla richiesta formale di riprogrammare il Mondiale per Club, riaprendo poi le discussioni sul calendario delle gare internazionali. (A. P.)

PICCOLO MANUALE ILLUSTRATO PER CERCATORI DI CONCHIGLIE

Escludendo le spugne, la vongola artica della famiglia delle Veneridae

è stata classificata tra gli esseri più vecchi sulla Terra

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“Piccolo manuale illustrato per cercatori di conchiglie”

Il Saggiatore, 2024 – 15,00 euro

L’animale più longevo del mondo ha poco più di 507 anni d’età, si chiama Hafrún, ha una forma tondeggiante, è di colore nero ed è una vongola.

Escludendo le spugne, la vongola artica della famiglia delle Veneridae è infatti tra gli esseri più vecchi sulla Terra. Le conchiglie sono fossili ma allo stesso tempo riescono ad essere oracoli acquatici. Hanno attraversato epoche ed ere, hanno visto creature preistoriche e scorto il futuro tra i fondali del mare. Gli umani non erano neppure una possibilità evolutiva, ma loro con i loro straordinari gusci erano già lì, una vera e propria testimonianza di eternità.

Nel momento in cui avvicineremo una qualsiasi conchiglia all’orecchio pronti ad ascoltare il rumore del mare, sapremo che c’è qualcos’altro dietro la loro complessa bellezza: un ecosistema da scoprire e proteggere, un magico viaggio nella storia e nel tempo.

Con innata eleganza ed un pizzico di mistero, queste piccole strutture biologiche protettrici di altrettanti minuscoli animali, sono riuscite a ritagliarsi uno spazio vivido nella storia dell’arte e della letteratura.

Alcuni esempi sono pertanto d’obbligo: la tromba del possente Tritone scolpito da Bernini è una buccina, la famosa Venere di Botticelli è invece sorretta dal guscio di una capasanta che è diventata d’altra parte simbolo dei pellegrini in cammino verso Santiago. A dispetto della sua lontananza dalle coste, anche a Siena la regina dei molluschi è un forte emblema. La capasanta è inserita infatti nello stemma della Nobile contrada del Nicchio che prende parte al Palio della città. E come dimenticare il frutto della conchiglia indossata dalla mitica ragazza col turbante dipinta dal pittore olandese Veermer, la cui perla ha restituito nel corso dei secoli tutta la sua profonda bellezza.

La tradizionale abilità di alcune donne nella pesca di una pregiata conchiglia è stata inserita perfino nell’elenco del patrimonio orale e immateriale dell’Unesco. È il caso della raccolta dell’abalone che per molto tempo ha dato lustro al lavoro delle Haenyeo, una comunità di pescatrici giapponesi.

Ma se l’aspetto soave di queste opere d’arte naturali è decantato in lungo e largo è altrettanto vero che alcune di loro, per tradizione popola-

re, portano con sé una connotazione negativa. È quello che succede ai “poveri” Mytilus galloprovincialis, comunemente chiamati cozze che nonostante siano forgiati in un elegante nero, siano ricche di proprietà benefiche e perfino dei super pulitori dell’ecosistema, sono sempre associate a qualcosa di “brutto” o comunque spiacevole.

Adornata dalle utili illustrazioni di Sara Panzera, questa non è una semplice guida naturalistica di molluschi marini ma un viaggio poetico, un invito a riscoprire il nostro rapporto con la natura.

Le conchiglie, simbolo di eternità e trasformazione, sono metafore di un dialogo incessante tra il mondo naturale e quello umano. Ci invitano a vedere oltre la superficie, a cogliere il significato più profondo di ogni piccolo oggetto.

Come fa la specie rara dei Conus cedonulli che al loro interno custodiscono un potente veleno, così le conchiglie sono testimonianza del passato, raccontando la storia del mondo diventano anche custodi di preziosi messaggi per il futuro.

Ogni bellezza nasconde sempre un pericolo, impegniamoci pertanto ad ammirare questi meravigliosi esseri solo da lontano.

Jonathan Haidt

“The anxious generation” Penguin, 2024 - 31,25 euro

Sarebbe bello poter pensare di seguire le raccomandazioni sociali e dare smartphone ed accesso ai social ai figli solo a partire dai 16 anni. L’idea però è alquanto irraggiungibile o comunque sottovalutata. La penseremmo allo stesso modo dopo aver scoperto che questi sistemi hanno “ricablato” il sistema neurologico dei più giovani? (A. L.)

Giorgio Volpi

“La natura lo fa meglio (e prima)” Aboca, 2024 – 22,00 euro

L’unicità dell’uomo parrebbe evidente, quante cose abbiamo e facciamo sono precluse alle altre specie? Mettiamo giù la corona, parecchie delle idee geniali avute nel corso della storia dell’evoluzione umana erano già sulla Terra, molto prima di noi. Tra piante, batteri ed animali, l’autore spiega brillantemente quali sono. (A. L.)

Olivia Ford

“Mrs. Quinn diventa famosa” Corbaccio, 2024 - 18,90 euro

Possono delle ricette, una commistione di ingredienti sapientemente miscelati insieme, riportare a galla ricordi e sensazioni di una vita? È quello che succede a Mrs. Quinn che a settantasette anni decide di iscriversi ad un corso di cucina senza dire niente a nessuno. Una storia di vita che prende ispirazione dai nonni dell’autrice. (A. L.)

CONCORSI PUBBLICI PER BIOLOGI

UNIVERSITÀ POLITECNICA

DELLE MARCHE DI ANCONA

Scadenza, 5 agosto 2024

Procedura di selezione per la copertura di un posto di ricercatore a tempo determinato in tenure track, GSD 06/ MEDS-03 - Microbiologia e microbiologia clinica, per il Dipartimento di scienze biomediche e sanità pubblica. Gazzetta Ufficiale n. 57 del 16-07-2024.

UNIVERSITÀ DI CATANIA

Scadenza, 8 agosto 2024

Procedura di selezione per la chiamata di un professore di seconda fascia, GSD 06/MEDS-03 - Microbiologia e microbiologia clinica, per il Dipartimento di scienze biomediche e biotecnologiche. Gazzetta Ufficiale n. 55 del 09-07-2024.

AZIENDA SOCIO-SANITARIA

TERRITORIALE SANTI PAOLO E CARLO DI MILANO

Scadenza, 18 agosto 2024

Stabilizzazione del personale precario della dirigenza per la copertura di un posto di dirigente biologo, disciplina di biochimica clinica, area di sanità. Gazzetta Ufficiale n. 58 del 19-07-2024.

CONSIGLIO NAZIONALE DELLE

RICERCHE – ASSEGNO POST DOTTORALE ALL’ISTITUTO DI GENETICA MOLECOLARE “LUIGI LUCA CAVALLI SFORZA” DI PAVIA

Scadenza, 2 agosto 2024

Presso l’Istituto di Genetica Molecolare “Luigi Luca Cavalli Sforza” del Cnr di Pavia è indetta una selezione pubblica, per titoli e colloquio, per il conferimento di n. 1 Assegno di Ricerca Tipologia B “Assegni Post Dottorali” per lo svolgimento di attività di

ricerca inerenti l’Area Scientifica “Medicina e Biologia” da svolgersi nell’ambito del programma di ricerca DSB.AD006.371 Invecchiamento “InvAt-INVECCHIAMENTO ATTIVO E IN SALUTE (FOE 2022)” CUP B53C22010140001 per la seguente tematica: “Identificazione del ruolo del cromosoma Y nei pathway molecolari attivati in risposta ai danni al DNA e nell’invecchiamento”. Il bando è stato pubblicato sul sito internet www. cnr.it

CONSIGLIO NAZIONALE DELLE RICERCHE – ASSEGNO PROFESSIONALIZZANTE ALL’ISTITUTO PER L’ENDOCRINOLOGIA E L’ONCOLOGIA SPERIMENTALE “G. SALVATORE” DI NAPOLI

Scadenza, 14 agosto 2024 Presso l’Istituto per l’Endocrinologia e l’Oncologia Sperimentale “G. Salvatore” del Cnr di Napoli è indetta una selezione pubblica, per titoli e colloquio, per il conferimento di n. 1 Assegno di Ricerca di tipologia “Professionalizzante” per lo svolgimento di attività di ricerca inerenti l’Area Scientifica “Scienze Biomediche “ da svolgersi nell’ambito del progetto di ricerca finanziato dall’Unione Europea NEXT GENERATIONEU, Decreto Direttoriale MUR prot. n. 1557 del 10/11/2022- M4/C2/ Spoke 2 Investimento 1.3, soggetto realizzatore del progetto “PE00000015” dal titolo “Age-It” tematica “Consequences and Challenges of ageing”, per la seguente attività: “analisi epigenetiche e immunologiche in soggetti affetti da ARD”. Il bando è stato pubblicato sul sito internet www.cnr.it.

CONSIGLIO NAZIONALE DELLE

RICERCHE – DUE ASSEGNI DI RICERCA

Scadenza, 24 agosto 2024

Presso l’Istituto di Scienze Marine è indetta una selezione pubblica, per titoli e colloquio, per il conferimento di n. 2 assegni di ricerca di Tipologia: A)” Professionalizzante” per lo svolgimento di attività di ricerca inerenti l’Area Scientifica “Scienze del Sistema Terra e Tecnologie per l’Ambiente” da svolgersi nell’ambito dei progetti: “ National Biodiversity Future Center (NBFC) finanziato nell’ambito del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza ammesso al finanziamento con Decreto Direttoriale MUR n.1034 del 17/06/2022, registrato dalla Corte dei conti il 14/07/2022 al n. 1881- Codice progetto: CN_00000033 – codice progetto CNR PRR. AP005.001 - CUP:B83C22002930006”,” per la seguente tematica: “Supporto alle attività di ricerca e di divulgazione scientifica innovativa sul tema della biodiversità marina”. Il bando è stato pubblicato sul sito internet www.cnr.it.

CONSIGLIO NAZIONALE DELLE RICERCHE – ASSEGNO DI RICERCA ALL’ISTITUTO DI BIOCHIMICA E BIOLOGIA CELLULARE DI NAPOLI Scadenza, 24 agosto 2024

É indetta una selezione pubblica, per titoli e colloquio, per il conferimento di n.1 Assegno di ricerca post dottorale per lo svolgimento di attività di ricerca da svolgersi presso l’Istituto di Biochimica e Biologia Cellulare del CNR, nella sede di Napoli che effettua ricerca in “Scienze Biologiche, Biochimiche e Farmacologiche” nell’ambito del Progetto PRIN2022-PNRR, P2022CWSTY – Glycerophospholipid signaling at the interface between osteoclast and T cells, per la seguente tematica: “Glycerophospholipid signaling at the interface between osteoclast and T cells”. Il bando è stato pubblicato sul sito internet www.cnr.it.

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GLI EFFETTI DELLA CRISI CLIMATICA SULLA SALUTE FISICA E MENTALE

Come proteggere la salute umana dagli effetti dei cambiamenti climatici attraverso la mitigazione e l’adattamento

di Daniela Bencardino *

Nel Sesto Rapporto di Valutazione del Panel Intergovernativo sui Cambiamenti Climatici (IPCC) si legge che i rischi legati al clima instabile stanno aumentando velocemente e peggioreranno prima del previsto. Queste stime, insieme al progressivo aumento del riscaldamento globale, rendono ancora più complicato lo sviluppo e l’insediamento di strategie utili per contrastare gli effetti dei cambiamenti climatici, e l’adattamento della vita umana a nuove condizioni ambientali della Terra non è così scontato e non è un processo che può verificarsi rapidamente.

Il rapporto rivela che 3,6 miliardi di persone vivono in aree altamente suscettibili ai cambiamenti climatici e che i Paesi a basso reddito, così come le aree in via di sviluppo, contribuiscono in misura minima alle emissioni globali; eppure, subiscono gli impatti sanitari più gravi. In queste regioni, il tasso di mortalità causato da eventi meteorologici estremi, nell’ultimo decennio, è stato 15 volte superiore rispetto alle altre zone del mondo. Questi numeri ci dicono che il cambiamento climatico sta influenzando la salute fisica e mentale in molteplici modi rappresentando una minaccia anche per quei fattori sociali che, in condizioni normali, contribuiscono a mantenere lo stato di salute. Ne sono un esempio i mezzi di sussistenza e l’accesso alle cure sanitarie o alle strutture di supporto sociale [1].

Quando parliamo di cambiamenti climatici facciamo riferimento a diversi eventi che comprendono l’aumento delle temperature, le variazioni nelle precipitazioni, l’incremento nella frequenza e nell’intensità di alcuni avvenimenti meteo-

* Comunicatrice scientifica e Medical writer

rologici estremi e l’innalzamento del livello del mare. Questi sono una vera e propria minaccia per la nostra salute perché condizionano la disponibilità e la qualità del cibo che mangiamo, dell’acqua che beviamo, dell’aria che respiriamo e le temperature stagionali a cui ci siamo adattati. Le previsioni informano che si tratta di pericoli destinati ad aumentare e la loro gravità dipenderà dalla capacità che i sistemi di sanità pubblica e sicurezza mostreranno nel prepararsi a fronteggiare queste minacce mutevoli, nonché da fattori come il comportamento individuale, l’età, il genere e lo stato economico. Infatti, gli impatti varieranno anche in base a dove si vive, alla vulnerabilità individuale, al grado di esposizione e alla capacità di adattarsi a questi cambiamenti [2].

Effetti dei cambiamenti climatici sulla salute

Il Lancet Countdown è una collaborazione internazionale di ricerca che monitora in maniera indipendente gli impatti dei cambiamenti climatici sulla salute basandosi su determinati indicatori. Dal rapporto elaborato per il 2023 emerge che il mondo ha registrato le temperature globali più elevate degli ultimi 100.000 anni. Gli adulti di età superiore ai 65 anni e i bambini di età inferiore a 1 anno, per i quali il caldo estremo può essere particolarmente pericoloso, sono esposti al doppio delle giornate di ondate di calore rispetto a quanto avrebbero sperimentato nel periodo compreso tra il 1986 e il 2005. Ancora più grave è il dato delle morti causate dal caldo che hanno visto un aumento dell’85% rispetto al periodo 1990-2000 nelle persone di età superiore ai 65 anni.

L’area della Terra interessata da gravi siccità è del 47% e ha messo a rischio la sicurezza idrica, l’igiene e la produzione alimentare. Le temperature elevate e la siccità registrate nel 2021 hanno portato 127 milioni di persone in più rispetto agli

anni precedenti a non avere cibo a sufficienza aumentando il rischio di malnutrizione. Inoltre, sempre più popolazioni sono a rischio di malattie infettive potenzialmente letali, come dengue, malaria, vibriosi e il virus del Nilo occidentale.

L’aggravarsi di questi impatti sulla salute si traduce in perdite economiche che danneggiano i mezzi di sussistenza, limitano la resilienza e vincolano i fondi disponibili per affrontare il cambiamento climatico. Le perdite economiche derivanti da eventi estremi sono aumentate del 23% dal 2010 mentre la perdita di capacità lavorativa dovuta al caldo eccessivo ha colpito maggiormente i Paesi meno sviluppati aggravando le disuguaglianze globali [3,4].

Inquinamento atmosferico

L’inquinamento dell’aria causato dall’ozono provoca diversi problemi di salute, tra cui la riduzione della funzione polmonare, l’aumento degli ingressi ospedalieri e delle visite al pronto soccorso per asma e, purtroppo, l’aumento delle morti premature. La formazione dell’ozono è favorita dall’aumento delle temperature, delle concentrazioni di sostanze chimiche nonché delle emissioni di metano mentre il particolato dipende principalmente da incendi e periodi di stasi atmosferica [5].

Il cambiamento climatico porta anche al prolungarsi della stagione del polline i cui granuli, dispersi da piante e fiori, vengono trasportati dall’aria e possono causare varie reazioni allergiche.

Le piogge intense e le temperature in aumento possono compromettere la qualità dell’aria anche all’interno delle case o degli ambienti di lavoro, favorendo la crescita di muffe che complicano le condizioni respiratorie di persone con asma e allergie [6]. Insorgenza di malattie infettive

La variabilità climatica è uno dei fattori che favorisce l’adattamento di patogeni a nuove aree geografiche alterando le caratteristiche con cui si manifestano le malattie. La trasmissione delle malattie infettive, soprattutto quelle mediate da vettori, è molto sensibile a piccole variazioni del clima, alle alterazioni della natura da parte dell’uomo e alla diversità degli ospiti animali. Ad aggravare il quadro è il costante aumento dei viaggi internazionali e del commercio che facilitano e velocizzano la diffusione dei patogeni supportando l’emergere di nuove epidemie. Tuttavia, gli investimenti che sono stati fatti nella risposta alle epidemie, i miglioramenti strutturali e lo scambio di informazioni messi in campo durante la pandemia da COVID-19 potrebbero contribuire a mitigare la minaccia di infezioni emergenti. Inoltre, gli sforzi per sviluppare vaccini universali (come, ad esempio, quelli che conferiscono immunità contro tutte le varianti del virus dell’influenza o dei coronavirus) potrebbero rappresentare un enorme passo avanti nell’affrontare le infezioni attuali e quelle future. Il lavoro che bisogna fare dovrebbe essere concentrato sui cambiamenti simultanei attra-

© muratart/shutterstock.com

verso modelli in evoluzione di fattori demografici, climatici e tecnologici. Bisogna prestare attenzione ai patogeni in circolazione nelle popolazioni animali selvatiche e domestiche e sfruttare le nuove tecnologie, compresi i progressi nella raccolta di dati e sorveglianza. C’è molta innovazione intorno alla sorveglianza: dalla reinterpretazione delle informazioni ottenute con strumenti classici come la PCR al ricorso ad approcci di sierologia multipla per identificare anomalie che potrebbero suggerire l’emergenza di patogeni. Infine, la ricerca deve allinearsi con una visione globale del rischio di malattia perché in un mondo sempre più connesso, il rischio legato alle malattie infettive è condiviso. La pandemia da COVID-19 ha fatto emergere la necessità di un quadro collaborativo e mondiale per la ricerca e il controllo delle malattie infettive [7].

Insicurezza alimentare

Il cambiamento climatico avrà indubbiamente effetti significativi anche sulla sicurezza alimentare attraverso percorsi diversi, ad esempio potrà aggravare le malattie trasmesse dagli alimenti attraverso la comparsa, la persistenza e la virulenza di alcuni patogeni. Allo stesso modo, la siccità, le temperature elevate e una maggiore frequenza di eventi meteorologici estremi possono mettere a dura prova l’agricoltura. La carenza di acqua non potrà più garantire l’irrigazione dei campi, il caldo potrà compromettere il mantenimento della catena del freddo, la diffusione di parassiti porterà a un maggiore utilizzo di pesticidi e ancora le alluvioni improvvise diffonderanno contaminanti chimici nei corsi d’acqua naturali. Il risultato di tutto ciò sarà un aumento di infezioni alimentari, intossicazioni, resistenza antimicrobica e accumulo a lungo termine di sostanze chimiche e metalli pesanti

nell’organismo umano [8].

L’aumento delle temperature

Il caldo estremo è associato principalmente a malattie cardiovascolari, respiratorie, cerebrovascolari e renali causando un aumentato numero di morti premature, soprattutto in aree urbane con una popolazione in età considerata maggiormente a rischio. Ridurre i rischi per la salute legati alle temperature elevate è possibile grazie alla pianificazione di un adattamento messo in atto dalla sanità pubblica. Ad esempio, assistere le persone più vulnerabili e aumentare la consapevolezza dei rischi che si corrono induce all’adozione di comportamenti protettivi riducendo morbilità e mortalità. Inoltre, mettere a disposizione dei locali pubblici con aria condizionata, controlli sanitari e distribuzione di acqua è un importante intervento di prevenzione e sanità pubblica. Queste e altre misure preventive possono ridurre le esposizioni al caldo e aumentare la capacità di farvi fronte mentre il clima si riscalda. Attraverso progetti a lungo termine, le aree urbane possono essere modificate o progettate con nuove tecnologie o infrastrutture modificate (ad esempio, facciate fresche, tetti verdi, strutture ombreggianti e superfici riflettenti) che garantirebbero anche una maggiore ecosostenibilità [4].

Salute Mentale

Gli effetti dei cambiamenti climatici sulla salute mentale possono essere classificati in diretti e indiretti. I primi si verificano principalmente dopo eventi meteorologici acuti e includono disturbo da stress post-traumatico, ansia, disturbo da abuso di sostanze, depressione e persino istinto suicida. Gli effetti indiretti, invece, comprendono perdite economiche, spostamenti e migrazioni forzate, competizione per la scarsità delle risorse e aggressività. I fattori di rischio per lo sviluppo di questi problemi di salute mentale sono la giovane età, il genere femminile, il basso stato socioeconomico, la perdita o la malattia di una persona cara, eventuali malattie mentali preesistenti e problemi sociali. Tuttavia, anche nei soggetti sani la consapevolezza della crisi climatica in corso scatena stati emotivi preoccupanti così intensi da causare disturbi mentali. Il supporto psicologico non dovrebbe mai mancare all’interno delle comunità per proteggere la salute mentale e a maggior ragione non dovrebbe essere sottovalutato in quelle zone già fortemente colpite da catastrofi climatiche [9].

Necessità di un’azione globale

Per ridurre al minimo questi effetti è necessario arrestare

© Stokkete/shutterstock.com

i danni all’ambiente, ridurre le emissioni di gas serra e incoraggiare comportamenti ecosostenibili tra le popolazioni. L’Unione Europea (UE) è in prima linea e con l’accordo di Parigi firmato da tutti i suoi Stati membri sta già lavorando per diventare la prima economia e società a impatto climatico zero entro il 2050.

Con l’accordo di Parigi i governi si sono impegnati a:

- mantenere l’aumento della temperatura media globale ben al di sotto di 2°C in più rispetto ai livelli preindustriali e di proseguire gli sforzi per limitarlo a 1,5°C; - presentare piani d’azione nazionali per ridurre le rispettive emissioni;

- comunicare ogni cinque anni i piani d’azione fissando obiettivi sempre più ambiziosi;

- comunicare, anche al pubblico, i risultati raggiunti nell’attuazione dei rispettivi obiettivi per garantire trasparenza e controllo;

- fornire finanziamenti per il clima ai Paesi in via di sviluppo per aiutarli a ridurre le emissioni e a diventare più resilienti agli effetti dei cambiamenti climatici [10].

L’UE fa parte della convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC) che rappresenta il principale accordo internazionale sull’azione per il clima con l’obiettivo di ridurre le emissioni di gas serra, principali responsabili del riscaldamento globale, a tutela della biodiversità, dell’integrità degli ecosistemi e della salute umana.

Ogni anno, i Paesi aderenti partecipano a incontri internazionali noto come COP (conferenze delle parti) per discutere dei progressi fatti. A ottobre 2023 il Consiglio ha delineato e approvato le posizioni generali dell’UE per la 28° conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (COP 28) di Dubai (30 novembre-12 dicembre 2023). Da un lato, questa conferenza invita alla prevenzione con le azioni di riduzione delle emissioni di gas serra e il mantenimento del riscaldamento globale entro i limiti fissati dall’Accordo di Parigi, e dall’altro sottolinea la necessità di attuare la strategia del sistema sanitario per contenere queste emissioni. Infatti, secondo l’ultimo rapporto dell’IPCC bisognerebbe tagliare il 43% delle emissioni dei gas serra entro il 2030 e l’84% entro il 2050 rispetto ai livelli del 2019 per raggiungere gli obiettivi previsti dall’accordo di Parigi [11]. Alla luce di ciò, il 10 novembre 2023, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha pubblicato un piano dettagliato per costruire sistemi sanitari resilienti ai cambiamenti climatici e a basse emissioni di carbonio. Questo documento serve a dare concretezza agli impegni presi e a garantire un settore sanitario che funga da esempio nella riduzione delle emissioni [12]. Conclusioni

I cambiamenti climatici stanno mettendo a rischio la salute e la sopravvivenza umana in tutto il mondo. Queste minacce variano notevolmente in base alla distribuzione geografica ma soprattutto alla vulnerabilità delle popolazioni, intrinsecamente correlata alle caratteristiche epidemiologiche e socioeconomiche

spesso sbilanciate. Attualmente le nazioni e le comunità più svantaggiate sono quelle maggiormente colpite. Pertanto, è necessaria una transizione che minimizzi le disuguaglianze globali, eviti gli impatti negativi e garantisca la sicurezza per la salute pubblica accelerando sia le azioni di mitigazione che di adattamento. Una strategia utile è senza dubbio quella di favorire lo scambio globale di conoscenze concentrandosi sulla raccolta e sul monitoraggio degli indicatori di rischio e dei progressi compiuti. Al momento, la sfida più importante è quella di studiare in modo efficace l’adattamento perché molti indicatori si basano su dati forniti dal singolo individuo, quindi sono informazioni soggette a distorsioni. Inoltre, gli sforzi di adattamento condotti da enti e organizzazioni o dalla società civile non vengono ancora registrati in modo standardizzato, ciò limita la capacità di monitorare i progressi a livello globale.

Bibliografia

1. Panel I, Change C, Lee IH, Report TS, Mukherji A, Report S. Urgent Climate Action Can Secure A Liveable Future For All. 2023;1–4.

2. Crimmins, A., J. Balbus, J.L. Gamble, C.B. Beard, J.E. Bell, et al., The Impacts of Climate Change on Human Health in the United States: A Scientific Assessment. Eds. U.S. Global Change Research Program, Washington, DC, 2016, 312 pp. http://dx.doi. org/10.7930/J0R49NQX

3. Romanello M, Napoli C di, Green C, Kennard H, Lampard P, Scamman D, et al. The 2023 report of the Lancet Countdown on health and climate change: the imperative for a health-centred response in a world facing irreversible harms. Lancet. 2023;6736.

4. Ebi KL, Vanos J, Baldwin JW, Bell JE, Hondula DM, Errett NA, et al. Extreme Weather and Climate Change: Population Health and Health System Implications. Annu Rev Public Health. 2020;42:293–315.

5. Bhat TH, Jiawen G, Farzaneh H. Air pollution health risk assessment (Ap-hra), principles and applications. Int J Environ Res Public Health. 2021;18:1–29.

6. Ray C, Ming X. Climate change and human health: A review of allergies, autoimmunity and the microbiome. Int J Environ Res Public Health. 2020;17:1–7.

7. Baker RE, Mahmud AS, Miller IF, Rajeev M, Rasambainarivo F, Rice BL, et al. Infectious disease in an era of global change. Nat Rev Microbiol. 2022;20:193–205.

8. Duchenne-Moutien RA, Neetoo H. Climate change and emerging food safety issues: A review. J Food Prot [Internet]. 2021;84:1884–97. Available from: https://doi. org/10.4315/JFP-21-141

9. Ramadan AMH, Ataallah AG. Are climate change and mental health correlated? Gen Psychiatr. 2021 Nov 9;34(6):e100648.

10. Della C, Al C, Europeo P, Della C, Al C, Europeo P. Accordo di Parigi – convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici. 2020;

11. 2023 Synthesis report on GST elements. Views on the elements for the consideration of outputs component of the first global stocktake Synthesis report by the secretariat Content Background and mandate. 2023;1–65.

12. Istituto Superiore di Sanità. La conferenza delle parti sul clima: a Dubai una doppia opportunità per la salute. Disponibile online: www.epicentro.iss.it/ambiente/cop-282023.

LSTILI DI VITA SOSTENIBILI CON LA LANDSENSES ECOLOGY

Gli spazi verdi e i parchi urbani non solo migliorano gli ecosistemi cittadini, ma forniscono anche valori culturali agli abitanti delle metropoli e stili di vita sostenibili

a letteratura recente sulla Landsenses Ecology evidenzia come gli spazi verdi urbani ed i parchi urbani non solo migliorino gli ecosistemi urbani, ma forniscano anche valori culturali agli abitanti delle città e stili di vita sostenibili. L’uso di indicatori percettivi e la percezione stessa aumenta la soddisfazione dei visitatori (Zheng et al., 2020). La Landsenses Ecology è una disciplina scientifica che studia la pianificazione dell’uso del suolo, la costruzione e la gestione verso lo sviluppo sostenibile, sulla base di principi ecologici e del quadro di analisi degli elementi naturali, dei sensi fisici, delle percezioni psicologiche, delle prospettive socio-economiche, del rischio di processo, e aspetti associati. Questo concetto indica che la Landsenses Ecology o ff re una metodologia efficace per studiare i servizi ecosistemici e lo sviluppo sostenibile e fornisce anche un ponte di collegamento tra questi. Una disciplina che è emersa naturalmente durante processi di ricerca teorica e pratica, ispirata da una varietà di pensieri tradizionali sulla pianificazione e sull’architettura. Inoltre, più un territorio è urbanizzato, più i cittadini preferiscono i paesaggi naturali (Xu et al., 2020). Al centro del dibattito il ruolo che l’educazione ambientale può assumere per attualizzare l’educazione alla sostenibilità nella direzione di un futuro sostenibile, tanto nell’accezione tradizionale, quanto di Elvira Tarsitano *

* Federazione degli Ordini dei Biologi, Università degli Studi di Bari Aldo Moro.

nel nuovo orientamento verso lo sviluppo sostenibile e la cittadinanza globale avendo come quadro di riferimento l’attuazione degli Obiettivi dell’Agenda 2030 ed in particolare del Goal 4, assicurare un’istruzione di qualità, equa ed inclusiva, e promuovere opportunità di apprendimento permanente per tutti (UNDESA 2015; Asvis 2020). Questo approccio di Landsenses Ecology ed il raggiungimento degli obiettivi dell’Agenda 2030 sono molto importanti se si considera che la pandemia ha fatto emergere le fragilità delle nuove generazioni. Recentemente, si assiste a un abbandono o posticipo di progetti esistenziali. In Europa ed in particolare in Italia, più che in altri Paesi, tali progetti vengono rinviati o addirittura abbandonati. Con il rischio che i giovani non si sentano in grado di contribuire pienamente allo sviluppo della società. Tuttavia la pandemia ha rafforzato il loro desiderio di guidare un cambiamento positivo nelle loro comunità e in tutto il mondo. Mettendo le persone davanti ai profitti e dando priorità alla sostenibilità. Le nuove generazioni si sono dimostrate maggiormente resilienti (Unicef 2020; Tirivayi 2020). Le nuove generazioni si confermano consapevoli dell’importanza della relazione uomo-natura e ambiente-salute. Quasi nove giovani su dieci, tra i comportamenti da mantenere dopo la pandemia, mettono al primo posto la necessità di adottare stili di vita sostenibili e resilienti con una partecipazione attiva in difesa del pianeta (Unicef 2020). La risposta a queste necessità arriva anche dall’Agenda 2030 dalla quale emerge infatti l’indivisibile rapporto tra lo sviluppo inclusivo, equo e sostenibile e la realizzazione dei diritti delle persone promosso dall’Agenda, il cui obiettivo è quello di “non lasciare nessuno indietro”, di proteggere la vita guardando alla sostenibilità e di creare un mondo dove le generazioni presenti e future possano sentirsi protagoniste e beneficiarie e dove

i loro diritti siano garantiti a pieno titolo e serve a preparare e innescare i cambiamenti culturali propedeutici alla creazione di una società più giusta, equa e sostenibile (UNDESA 2015; Asvis 2020). Infatti, nonostante le sfide individuali e i motivi di ansia, i giovani millennial (dai 24 ai 39 anni) e la Generazione Z (dagli 11 ai 23 anni), pensano che una società post-pandemica possa essere migliore di quella che l’ha preceduta. Un mondo più sostenibile e resiliente come riportato nel Report della Deloitte Global Millennial Survey 2020.

Storicamente la città (la Polis) nasce ed esprime compiutamente “qualità urbana” quando è espressione delle tante personalità, spesso anche contrastanti, che in esse operano e che devono esprimersi con un fine che è anche “etica” cioè tendente ad armonizzare le diverse esigenze particolari di cittadini di tutte le età ed istituzioni con quelle generali. Le città non si formano per aggregazioni di costruzioni e sommatoria di individui indifferenti alla vita associata, ma soltanto quando gli abitanti avvertono l’esigenza pratica e si pongono l’obiettivo di determinare ed essere quindi parte di un organismo in cui ci si ritrovi a condividere quanto realmente indispensabile alla vita economica, sociale, culturale e spirituale di una popolazione. Solo quando ciò succede si pongono i presupposti di una vita civile e, solo allora, gli edifici, le vie, le

piazze, gli spazi verdi urbani, i parchi trovano modo di assumere forme e funzioni idonee e diventano parti concordanti ed armoniche dell’organismo stesso. Le città proprio perché “organismi” sono parte di un sistema più complesso e proprio in qualità di organismi possono metodologicamente essere viste nei loro meccanismi di crescita, trasformazione e decadenza con una impostazione disciplinare innovativa che può trovare nella visione ecosistemica e nella landsenses ecology linfa e sostegno (Tarsitano, 2003, 2020). Fulcro di questo percorso è la partecipazione degli attori sociali, il coinvolgimento della popolazione e di precise competenze tecniche ed amministrative, il tutto inteso come un forte momento di coesione economica e sociale. I presupposti fondamentali sono l’equità sociale e l’equilibrio ecologico. Le città con i loro spazi e parchi urbani possono costruire un Sense of place proteggendo le caratteristiche ambientali e culturali degli ecosistemi urbani: progettando in armonia con processi naturali non contro di essi; collegare la forma urbana con la bioregione; usare l’istruzione e le arti per informare e drammatizzare il significato del luogo e scoprire e incorporare le loro canzoni. Il Sense of place deve informare e ispirare gli abitanti delle città di ogni età, sesso, orientamento sessuale e religione, compresi i decision makers e i pianificatori. Il modo con cui progettiamo le nostre città

e i nostri stili di vita, i nostri processi sociali e politici e le nostre istituzioni devono corrispondere ai modelli identitari dei luoghi in cui viviamo. Le città possono essere sia ecologicamente che socialmente rigenerative attivando il loro Sense of place (Newman & Jennings, 2008). La Landsenses ecology avvicina e stimola in maniera semplice e intuitiva l’interesse della comunità nei confronti della ecologia urbana e, in particolare, delle scienze della vita e delle tecnologie applicate, promuovendo iniziative di divulgazione, valorizzazione e trasferimento dei risultati dell’attività realizzate; avvicina i cittadini al mondo produttivo; stimola interesse e curiosità dagli adulti alle fasce più giovani perché acquisiscano maggiore consapevolezza sull’importanza della sostenibilità come strumento primario per lo sviluppo sostenibile, il wellbeing e la good life di ogni società (Tarsitano et al. 2020; De Neve& Sachs 2020; De Vries 2018; Zhao et al. 2016). Lanciando le basi per la creazione di una rete delle comunità sostenibili e resilienti. La Commissione

Europea, nel definire la Strategia per l’Europa, ha auspicato il successo di un’economia basata sulla conoscenza in relazione alla diffusione, elaborazione e applicazione di nuovi saperi. Gli investimenti nella ricerca e nello sviluppo, nell’istruzione e nella formazione sono d’importanza cruciale per affrontare le sfide della contemporaneità. In una società sempre più tecnologica e virtuale, come quella attuale, pochi pensano che gli uomini del XXI secolo per raggiungere un maggior benessere fisico e psicologico abbiano bisogno di un rapporto più stretto con la natura. È invece ciò che emerge da studi compiuti negli ultimi 15 anni. In particolare, l’azione terapeutica svolta dalle piante si è rivelata importante nei confronti di persone con patologie specifiche e diversamente abili. L’ortoterapia in una prospettiva di landsense ecology è difatti una “nuova” terapia occupazionale, capace di migliorare lo stato di salute degli individui, sia da un punto di vista prettamente fisico che psicologico. Sono davvero molti i vantaggi fisici e psichici derivanti dalla lavorazione della terra in una prospettiva di landsense ecology con l’ausilio dell’ortoterapia (Tarsitano et al. 2020). Dedicarsi alla cura di un orto, di un giardino, di un terrazzo anche solo per qualche ora ci avvicina alla terra, ci mostra i tempi della natura, ci insegna i ritmi delle stagioni e ci rende più attenti nei confronti della natura. Il mondo scientifico oggi riconosce all’ortoterapia la capacità di avere un effetto positivo sul benessere psicofisico delle persone indipendentemente dalla presenza o meno di uno stato di patologia. Questa, non ci viene in aiuto solo per contrastare lo stress, ma anche per disturbi più gravi, ed è un’attività che può essere svolta davvero da tutti, giovani e anziani, disabili e normodotati (Haller, 2017). I partecipanti a progetti negli spazi verdi urbani, assistiti dal personale qualificato, possono svolgere mansioni come la semina, la raccolta di frutta e fiori, il giardinaggio, la coltivazione di piante e di ortaggi, la cura di una singola pianta da interno, tutte attività che stimolano i sensi: l’olfatto, la

vista, il tatto o l’udito e incrementano capacità e competenze (Tarsitano et al. 2020). Tra le competenze/abilità che vengono migliorate ritroviamo: la motricità fino-motoria e grosso-motoria: l’impegno nella cura delle piante e nel loro mantenimento, sollecita il movimento e il coordinamento; la capacità di apprendimento: ricordare i nomi delle piante, imparare delle nozioni ad esempio, sulla semina o sulla cura di una specifica pianta, incrementano l’apprendimento e la memoria; l’autostima: i soggetti vedono realizzarsi e crescere un qualcosa che loro stessi hanno curato attraverso il proprio ruolo diretto e attivo sulla pianta; la socializzazione: non fa sentire soli, migliora la relazione, l’appartenenza e l’integrazione in un gruppo (Tarsitano et al. 2020). D’altro canto i benefici dello “stare in natura”, vivere gli spazi, percorrerli e curarli, sono ormai tangibili e sono di tipo psichico, sociale, affettivo e fisico (Iori, 2003; Jennifer et al., 2014; Haase et al., 2017; Posca, 2018; Tarsitano et al. 2020). Vivere gli spazi verdi urbani anche attraverso l’educazione ambientale ci sintonizza ad altre forme di convivenza, a relazionarci con la realtà osservata e sentita, costruendo e ricostruendo altre comprensioni, producendo e distribuendo sensazioni, informazioni e conoscenze a partire della nostra quotidianità, dando un senso a tutto ciò che facciamo con un approccio di landsense ecology verso uno sviluppo sostenibile (Zhao et al.2016; Tarsitano et al. 2020).

Bibliografia

- Tarsitano E., Giannoccaro R. A., Posca C., Petruzzi G., Mundo M., Colao M., 2021. A sustainable urban regeneration project to protect biodiversity. Urban Ecosystems, DOI: https://doi.org/10.1007/s11252-020-01084-1;

- Tarsitano E., Sinibaldi P., Colao V., 2021.Green days in the Park: a case study on Landsenses Ecology. International Journal of Sustainable Development & World Ecology, DOI: 10.1080/13504509.2021.1920060;

- Tarsitano E., Giannoccaro R.A., 2021. Volume “L’orto e l’arte. Strategie di ricucitura urbana”, Capitolo 1: Urban green space projects e qualità della vita negli ecosistemi urbani in una prospettiva di landsenses ecology, pg. 1527. Editor Centro di Eccellenza di Ateneo per la Sostenibilità dell’Università degli Studi di Bari; S4M Edizioni, ISBN 979-12-80571-07-6.

- Tarsitano E., Posca C., Giannoccaro R. A., Borghi C., Trentadue C, Romanazzi G., Colao M., 2020. A “Park to Live” between environmental education and social inclusion through a landsense ecology approach. International Journal of Sustainable Development & World Ecology, DOI: 10.1080/13504509.2020.1765042.

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ANTIBIOTICORESISTENZA (AR) E ONE HEALTH

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In uno studio pubblicato nel 2022 e condotto da 140 ricercatori su 471 milioni di record relativi alla casistica umana rilevata in 204 paesi e territori, l’antibioticoresistenza (AR) è risultata la terza causa di mortalità a livello mondiale nel 2019, emergendo come la seconda silente pandemia rispetto alla detonante pandemia di COVID-19.

mente recepito, che sottolinea l’importanza di interdisciplinarità e azioni coordinate da attuare sia a livello globale che a livello locale, fino all’acquisizione di consapevolezza individuale per il coinvolgimento di tutti.

Per contrastare efficacemente l’AR è necessario analizzarla e comprenderla nella sua interezza, oltre che, purtroppo, nella sua gravità. Con interezza si intende il considerare la salute umana, la salute animale e la salute delle piante come indistricabilmente connesse tra loro e connesse alla salute dell’ambiente, adottando l’approccio olistico One Health, universal -

* Biologa, Specialista in Microbiologia e Virologia, Delegata Dipartimentale alla Terza Missione e docente degli insegnamenti di Malattie Infettive e Salubrità delle Produzioni Zootecniche e di Zoonosi a Trasmissione Alimentare dei corsi di laurea del Dipartimento Agricoltura, Ambiente e Alimenti (DiAAA) dell’Università degli Studi del Molise.

L’AR deriva dal pregresso abuso di antibiotici in agricoltura e in produzione zootecnica, ora soggetto a normative sempre più stringenti per impedire che, negli animali allevati, gli antibiotici somministrati o assunti come residui nei vegetali trattati inneschino la pressione selettiva sul microbiota intestinale che, agendo come un bioreattore, induce l’emergere di batteri antibioticoresistenti, capaci di sopravvivere e di replicarsi in presenza di antibiotici senza risentire dell’effetto battericida o batteriostatico, grazie a mutazioni spontanee o ad acquisizione di geni di resistenza trasferiti orizzontalmente da batteri della stessa specie o di specie diversa. Il trasferimento orizzontale di geni di resistenza amplifica il fenomeno sia nell’animale stesso, sia nell’ambiente in cui i microrganismi sono riversati attraverso liquami e fomiti, sia nell’uomo, nel cui intestino i prodotti di origine animale e vegetale possono veicolare batteri antibioticoresistenti che trasferiscono geni di resistenza o, in corso di terapia antibiotica, si espandono numericamente prendendo il sopravvento. Nell’ambiente può proseguire la pressione selettiva operata da antibiotici in parte eliminati in forma non metabolizzata da soggetti animali e umani sottoposti ad antibioticoterapia, oltre che la pressione innescata da antibiotici non correttamente smaltiti o da quelli illecitamente utilizzati in agricoltura. Il trasferimento orizzontale di geni di resistenza, prodromico all’incremento selettivo del numero

di Alessandra Mazzeo *

e dei tipi di microrganismi antibioticoresistenti, attualmente è oggetto di grande attenzione per definire il reale impatto dell’ambiente sull’AR.

Ben definito è, invece, l’impatto degli agenti di zoonosi, responsabili del 60% delle infezioni e infestazioni umane e del 75% di quelle emergenti che, sebbene la denominazione ne indichi la provenienza animale, raggiungono sempre più frequentemente l’uomo attraverso gli alimenti vegetali, a causa dell’ampia contaminazione ambientale.

Grazie alle policy imperniate sull’approccio One Health, nell’Unione Europea il monitoraggio concernente allevamenti, alimenti, mangimi e casistica umana e pubblicato in report congiunti dell’European Food Safety Authority (EFSA) e dell’European Centre for Disease Prevention and Control (ECDC), negli ultimi anni mostra progressi incoraggianti in diversi Stati Membri relativamente alla riduzione della resistenza agli antibiotici negli animali da allevamento e alimenti derivati, monitorati rispetto ai principali agenti di zoonosi riscontrati nella UE. Il monitoraggio della sola AR, dal 2021, compare in un report specifico.

Nell’uomo, l’abuso di antibiotici ha innescato la pres -

© TopMicrobialStock/shutterstock.com

sione selettiva sul microbiota portando all’insorgenza di batteri antibioticoresistenti, alcuni dei quali responsabili di infezioni di comunità e di infezioni correlate all’assistenza (ICA), tra cui batteriemie e meningiti causate da Enterobacterales resistenti ai carbapenemi (CRE), antibiotici di importanza critica, per le quali è attiva la sorveglianza operata dall’Istituto Superiore di Sanità e dal Ministero della Salute. Per scongiurare l’insorgenza di ulteriore acquisizione di antibioticoresistenza - che potrebbe arrivare a vanificare l’effetto degli antibiotici - l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha adottato la classificazione Access, Watch and Reserve (AWaRe) che prevede l’uso degli antibiotici di classe Reserve esclusivamente come “ultima spiaggia”. In tale classificazione assume rilievo anche la provenienza da fonti non umane dei geni di resistenza agli antibiotici.

La sorveglianza delle principali infezioni umane sostenute da batteri antibioticoresistenti è operata globalmente. Alcuni esempi utili per il lifelong learning e l’aggiornamento dei professionisti sono: WHO Global Antimicrobial Resistance and Use Surveillance System (GLASS) e The United Nations Interagency Coordination Group on Antimicrobial Resistance, che operano

a livello mondiale; European Antimicrobial Resistance Surveillance Network (EARS-Net) che opera nell’Unione Europea; Istituto Superiore di Sanità, che opera in Italia attraverso la rete AR-ISS.

Anche il monitoraggio dell’uso degli antibiotici – effettuato nella UE dall’European Surveillance of Antimicrobial Consumption Network (ESAC-Net) – è di estrema importanza per definire i trend rispetto alle aree geografiche, stabilire target di riduzione, valutare il raggiungimento dei target prefissati per ciascuna area e valutare l’efficacia delle azioni intraprese e, eventualmente, migliorarle.

I dati di vendita dei medicinali veterinari contenenti sostanze antibiotiche sono raccolti dall’European Surveillance of Veterinary Antimicrobial Consumption (ESVAC), che riporta il raggiungimento di tutti i target di riduzione fissati per il 2021.

Il Piano Nazionale di Contrasto all’Antibiotico-Resistenza (PNCAR) 2022-2025 adotta l’approccio One Health con i tre pilastri dedicati ai principali interventi di prevenzione e controllo dell’AR in ambito umano, veterinario e ambientale (che prevedono sorveglianza e monitoraggio, prevenzione delle infezioni e uso corretto degli antibiotici), supportati da quattro aree orizzontali: formazione; informazione, comunicazione e trasparenza; ricerca, innovazione e bioetica; cooperazione nazionale e internazionale. Programmi di stewardship antibiotica sono utili a definire l’uso appropriato degli antibiotici, suffragato dal monitoraggio della prescrizione e del consumo di antibiotici operato dall’Agenzia Italiana del Farmaco, da integrare e coordinare con l’implementazione delle pratiche di prevenzione e controllo delle infezioni, oltre che con l’organizzazione di eventi formativi per il personale sanitario e per la popolazione generale attraverso attività Public Engagement. Queste sono ormai considerate di grande valore anche nelle università come attività istituzionali di Terza Missione, ossia informazione su argomenti importanti, che viene somministrata ai cittadini da professionisti e personalità dei vari settori coinvolti – scientifici, sanitari, educativi e altri - in modo che la popolazione possa così prenderne coscienza.

La prevenzione rimane un presidio essenziale: atteggiamenti che osteggiano la profilassi vaccinale diffusi anche attraverso i social media; scarichi illeciti; assenza di manutenzione di opere, impianti e strutture; pratiche di produzione non corrette e comportamenti individuali poco attenti alla prevenzione – soprattutto nella mani -

polazione domestica degli alimenti – concorrono tutti a disseminare patogeni rendendo poi necessario il crescente ricorso all’uso di antibiotici, a cui segue l’amplificazione di AR.

Pur se l’eccezionale contrazione dei tempi di progettazione di nuovi antibiotici - resa possibile dall’Intelligenza Artificiale - potrebbe consentire di progettare e produrre velocemente sempre nuove molecole a cui i batteri non sono ancora resistenti, rimarrebbero comunque da rispettare i tempi “umani” dei trial clinici, durante i quali non sarebbero risparmiate vittime.

L’efficacia di antibiotici e antimicrobici (antivirali, antiparassitari e antifungini), che hanno aperto l’era della salvezza possibile da agenti infettivi e infestivi, va preservata nel lungo periodo con ricerca e policy improntate all’approccio One Health, oltre che - a livello individuale - con informazione, profilassi vaccinale, scrupoloso rispetto delle prescrizioni mediche in corso di antibioticoterapia, rispetto dell’ambiente e prevenzione.

È necessario l’impegno di tutti, come declamato dalla campagna “preveniamo insieme l’antimicrobico resistenza (AMR)” lanciata dal Quadripartito World Health Organization (WHO), Food and Agricolture Organization of the United Nations (FAO), United Nations Environment Programme (UNEP) e World Organisation for Animal Health (WOAH) con l’istituzione della settimana mondiale di consapevolezza dell’antimicrobicoresistenza World AMR Awareness Week (WAAW), che si celebra ogni anno in novembre. Il Quadripartito mette a disposizione materiale informativo, guide sulle modalità di comunicazione, storie dei sopravvissuti, loghi, banner e social media per essere parte attiva nell’engagement dei cittadini in occasione della WAAW e nel tempo.

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