VAIOLO DELLE SCIMMIE NUOVA URGENZA
Crescono i contagi in tutto il mondo e si monitorano i nuovi ceppi virali
L’Italia attende il nuovo piano di emergenza pandemica
“Ça va sans dire”... di Vincenzo D’Anna
OPINIONE
Laboratori di analisi, figli di un dio minore?!? di Vincenzo D’Anna 10
PRIMO PIANO
Vaiolo delle scimmie. È di nuovo emergenza, anche in Europa di Rino Dazzo
Il piano pandemico? È in aggiornamento di Rino Dazzo
Le grandi pandemie, dal tifo al… vaiolo di Rino Dazzo
INTERVISTE
L’acqua in bottiglia di plastica è salubre? Te lo dice il biotappo di Ester Trevisan
Una proteina a difesa del genoma cellulare (e quindi contro i tumori) di Chiara Di Martino
26 Curcumina: nuova speranza nella gestione dell’atrofia muscolare spinale di Carmen Paradiso
Scoperto il microbioma degli alimenti: studio dell’Università di Trento di Carmen Paradiso
Micronutrienti, l’allarme: metà della popolazione mondiale ne è carente di Domenico Esposito
La carenza di viramina B6 può trasformare i tumori benigni in forme maligne di Sara Bovio
Mappatura degli I-motifs. Nuove strutture del Dna per terapie antitumorali e antivirali di Carmen Paradiso
Scoperta la chiave per realizzare farmaci più specifici contro il cancro di Sara Bovio
Per gli uomini scatta l’allarme cancro di Domenico Esposito
Ritorno a scuola. Ecco il vademecum di Domenico Esposito
Fibrina e Covid-19. Scoperto il ruolo dei coaguli nel danno cerebrale e sistemico di Carmen Paradiso
L’invecchiamento e i suoi picchi. Cosa succede al corpo umano di Domenico Esposito
Celiachia: nuova luce sul meccanismo che la scatena di Sara Bovio
Riprogrammazione del fegato con l’mRna di Michelangelo Ottaviano
Bacche di goji: proprietà e benefici di Carla Cimmino
Il 2-deossi-d-ribosio contro la caduta dei capelli di Biancamaria Mancini
Tartufi di Calabria Giovanni Misasi et al
AMBIENTE
“Reti fantasma” un pericolo invisibile per la nostra biodiversità marina di Gianpaolo Palazzo
Temperature record. L’impatto devastante sulle nuove generazioni di Gianpaolo Palazzo
Produzione rifiuti speciali -2,1% nel 2022 per la crisi di Gianpaolo Palazzo
La prima colonia di ape nana in Europa di Michelangelo Ottaviano
Il Pianeta in pericolo per i consumi di Eleonora Caruso
Sostenibilità della vendemmia di Eleonora Caruso
Ambiente e metalli pesanti: il progetto Ragusa di Andrea Del Buono
INNOVAZIONE
Idrogeno verde grazie alla fotocatalisi di Pasquale Santilio
Un filtro ottico misura i tessuti ossei di Pasquale Santilio
Un farmaco per la diagnostica oncologica di Pasquale Santilio
Nuovi sensori per rilevare i gas nocivi di Pasquale Santilio
Via Appia, la regione delle strade è patrimonio mondiale dell’umanità di Rino Dazzo
Paralimpiadi azzurre, fra prime volte, record e lacrime di Antonino Palumbo
Il primo “Hurrà” di San Marino di Antonino Palumbo
Sinner e i suoi “fratelli”. Un’estate di prime volte per il tennis italiano di Antonino Palumbo
Volley, su il sipario. La Sir Perugia vince la supercoppa di Antonino Palumbo
Concorsi pubblici per Biologi
Artrite psoriasica: l’infiammazione cronica di cute e articolazioni di Daniela Bencardino
Scoperta la prima alga in grado di fissare l’azoto di Lucrezia Pinto
Consumo Co2 e produzione di proteine di Simone Pescarolo e Giorgio Gilli
La diagnostica protidologia liquorale nella sclerosi multipla: dalle bande Oligoclonali al k-index di Vincenzo Cosimato
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Si informano gli iscritti che gli uffici della Federazione forniranno informazioni telefoniche di carattere generale dal lunedì al giovedì dalle 9:00 alle ore 13:30 e dalle ore 15:00 alle ore 17:00. Il venerdì dalle ore 9:00 alle ore 13:00
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Anno VII - N. 9 settembre 2024
Edizione mensile di Bio’s
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Direttore responsabile: Vincenzo D’Anna
Giornale dei Biologi
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Questo numero del “Giornale dei Biologi” è stato chiuso in redazione venerdì 27 settembre 2024.
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Gli articoli e le note firmate esprimono solo l’opinione dell’autore e non impegnano la Federazione Nazionale degli Ordini dei Biologi.
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“Ça
va sans dire”...
di Vincenzo D’Anna Presidente della Federazione Nazionale degli Ordini dei Biologi
“Ç a va sans dire”, letteralmente “ciò va senza dire”, è una locuzione idiomatica molto usata dai Francesi nel loro lessico comune. In buona sostanza è un modo per dire che non occorre profferir parola perché è del tutto ovvio che una cosa venga fatta. Ebbene tale frase ben si attaglia - in questo periodo - alle attività, agli eventi e a quanto altro già programmato, finanziato e pubblicizzato sia dalla FNOB (Federazione Nazionale degli Ordini dei Biologi) che dalla FIB, la neonata e già operativa Fondazione Italiana Biologi, il cui scopo principale è quello di riunire, insieme con gli iscritti all’Albo, varie entità, aziende e istituzioni scientifiche e culturali, sotto il proprio emblema, così da formare un nucleo operativo che, con un adeguato conferimento e sostegno finanziario, possa mettere in campo tut -
Lo scopo della Fib è quello di riunire enti e aziende per formare un nucleo operativo che possa mettere in campo attività utili alla crescita della categoria
ta una serie di attività di sostegno alle iniziative di ricerca e di start up promosse dai biologi oppure dagli stessi Enti ed aziende aderenti alla FIB. Per capirci, attualmente la Fondazione ha già patrocinato due grossi eventi, uno dei quali svoltosi lo scorso 16 settembre al Parco dei Principi di Roma, con le “lectio magistralis” di big del calibro di Valter Longo, Rafael de Cabo e Frank Hu in materia di nutrizione e longevità. Il secondo si terrà a Caserta il 23 e 24 novembre e avrà come materia di discussione l’ecotossicologia, l’epigenetica e la nutrizione clinica e
La Fondazione ha già patrocinato due eventi, uno a Roma e uno a Caserta, di alto calibro sceintifico. I prossimi due appuntamenti saranno a Napoli
oncologica. Dal suo canto la Fnob ha fissato altri due eventi con appuntamenti a Napoli (complesso San Marcellino) il 3 e 4 ottobre su varie tematiche di interesse biologico e, sempre nel capoluogo campano, il 23 e 24 ottobre, negli spazi della Mostra d’Oltremare, sulle tecniche e le innovazioni nel campo del laboratorio di analisi cliniche.
In entrambi gli appuntamenti, gratuiti, saranno presenti esperti di fama internazionale che saranno in grado di fornire gli ultimi aggiornamenti nei vari ambiti di competenza professionali da loro trattati. Ancora, sempre
la Fnob, questa volta a Valenzano in provincia di Bari, organizza, nei locali dell’Istituto Agrotecnico del Mediterraneo (Iam), un corso (gratuito) di alta formazione dedicato all’ambiente e alla gestione degli agro ecosistemi. Dieci biologi, completamente spesati di tutto, saranno in presenza a fare esperienza, altri dieci seguiranno via web. Le selezioni per i partecipanti sono in corso. Il 9 e il 10 ottobre, proprio a Bari, si terrà anche l’evento - patrocinato dalla Fnob - sul tema delle risorse idriche. Siccità e zone umide sono argomenti di attualità. Poco più a Sud, nel -
la vicina Lecce, il 19 ottobre toccherà invece al convegno dell’Ordine dei Biologi della Puglia e della Basilicata (patrocinato dalla Fnob) su nutrizione e prevenzione.
Allo Iam di bari, venti biologi potranno prendere parte, in presenza e da remoto,ai corsi di alta formazione dedicati alla gestione degli agrosistemi
Da Sud ci si sposta quindi a Nord. Per la precisione a Trento con l’evento, sempre gratuito, calendarizzato per il 19 novembre, negli spazi del Museo Scientifico di Trento (Muse), imperniato sulle opportunità professionali di impiego dei biologi nei musei scientifici. Da est ci si sposta poi a ovest, per la precisione a Torino, dove il locale Ordine regionale dei Biologi, con patrocinio FNOB, orga -
nizza l’evento del 18 ottobre al Bioparco Zoom, tematiche varie sulla salvaguardia ambientale.
Insomma, quello testé elencato è un vero e proprio ventaglio di eventi che si snoda lungo tutto lo Stivale. Una carrellata di appuntamenti che conferisce opportunità teoriche e pratiche a tutti gli iscritti. Elenco che si allungherà ancora. Si aggiunga a questo i dettagli del programma “Formare Informando” con i crediti gratuiti ECM (a due cifre) erogati grazie ai corsi Fad e al Giornale dei Biologi online che copriranno tutto il fabbisogno triennale degli iscritti (anche gra -
zie al progetto del Diario Formativo di Agenas), e il quadro sarà completo.
Un ventaglio di eventi che si snoda lungo tutto lo Stivale. Una carrellata di appuntamenti che dà opportunità teoriche e pratiche a tutti gli iscritti
Ho inteso fare questa cronistoria per evidenziare, se ancore ce ne fosse bisogno, che seguire, tenersi informati e interessarsi alle vicende dei propri Ordini territoriali e a quelle della Federazione Nazionale dei medesimi, rappresenta un continua opportunità di aggiornamento professionale e di inserimento nel mondo del lavoro, contrariamente a quanto sostengono quelli che restano lontani e considerano l’Ordine solo una tassa da pagare! Comunque la si voglia rappresentare,
il punto dolente, infatti, rimane sempre lo stesso. Ossia quanto lontani i biologi si tengano dall’essere coinvolti nelle attività che pure la categoria si ingegna di poter offrire loro. È una storia vecchia, che ancora si perpetra. Una storia in qualche misura ridotta, ma tuttora esistente, e intorno alla quale si decide la nascita del senso di appartenenza alla comune famiglia dei Biologi. Quella stessa famiglia che pure tutti auspicano diventi forte e rappresentativa, ma che ancora in molti ignorano, relegando loro stessi nell’angolo angusto della auto-referenzialità e del
Il punto dolente rimane sempre lo stesso. Ossia quanto lontani i biologi si tengano dall’essere coinvolti nelle attività che la categoria si ingegna di poter offrirgli
comodo disimpegno. Il tutto dà origine ad una larga sacca di disaffezione, di critica senza costrutto, di pretese incongruenti se non impossibili, che diffondono poi malumore e sfiducia. Lo sappiamo: la strada è ancora in salita e forse, chissà, occorrerà in futuro dedicarsi solo ai volenterosi, a coloro che vogliono approfittare di tutta la gamma dei servizi, tutele, possibilità che vengono offerti a quanti coltivano il sentimento di appartenenza alla categoria. A quelli che si impegnano per migliorarsi. Per tutti gli altri...”ça va sans dire “, e ciascuno addebiti a se stesso l’essere rimasto indietro.
LABORATORI DI ANALISI
FIGLI DI UN DIO MINORE?!?
Laboratori di Analisi. Considerazione del Presidente della FNOB
Da ormai un ventennio il mondo dei laboratori di analisi si è radicalmente trasformato grazie alla meccanizzazione. Il processo analitico, una volta frutto della perizia del professionista (che manualmente confezionava sia i reagenti che l’esecuzione delle metodiche avvalendosi di pochi semplici strumenti), è stato affidato all’estrema precisione ed alla velocità di apparecchi sempre più autosufficienti e sofisticati. Insomma, la fase di determinazione analitica e quella di registrazione e di emissione del referto, sono stati affidati, sostanzialmente, ai computer ed ai servomeccanismi che guidano e controllano, al tempo stesso, quelle procedure, trasformando in fase industriale la parte professionale. N’è conseguito un progressivo risparmio di reagenti e di tempo oltre che di personale. A valle di tutto ciò è emerso anche un maggior margine di guadagno destinato ad incrementarsi quanto più alto è il numero degli esami processati, anche grazie all’economia di scala realizzabili oltre quello che viene chiamato, dagli economisti, il “break event point”. Quest’ultimo è la soglia minima di attività oltre la quale l’impresa di laboratorio ricava il guadagno. Sì proprio così: impresa, perché la trasformazione dei vecchi rapporti convenzionali da persona fisica a persona giuridica, ha trasferito quel rapporto con il SSN dal professionista ad una società lucrativa che è governata dalle leggi della imprenditoria, dal bilanciamento tra costi e ricavi. Il trasferimento del rapporto ad una società ha anche consentito al vecchio titolare del rapporto “ad personam” di poter traferire, oppure vendere, la società e quindi
l’attività professionale che sarebbe cessata con il pensionamento del titolare. Due enormi vantaggi, questi ultimi, che la totalità dei laboratoristi ha sfruttato appieno ricavandone indubbi profitti e vantaggi. La industrializzazione della fase del processo analitico ha anche indotto il governo a ridurre le tariffe di remunerazione, ancorché in maniera inadeguata ed insostenibile per molti versi, soprattutto per quei lavoratori con un minimo volume di prestazioni erogabili e che quindi traggono scarsi vantaggi dall’economia di scala e dalla meccanizzazione, in questi casi ridotta al minimo per stato di scarsa disponibilità economica e, nel tempo, divenuta vetusta. Si tenga conto che nel Sud Italia i processi di razionalizzazione dell’offerta di prestazioni sanitarie, indicati dalla legge di riforma epocale 833/78, sono rimasti quasi lettera morta.
Questo anche in omaggio alle politiche clientelari che nel Mezzogiorno la fanno ancora padrone e che consentirono, ai tempi dei disciolti enti mutualistici, una pletora di autorizzazioni per l’apertura di laboratori di analisi convenzionati con quelle mutue. Un dato eloquente: nella sola Sicilia operano ottocento laboratori di analisi, un numero ben superiore a quelli di tutto il Nord America (Usa e Canada). Così per la Campania, la Puglia, il Lazio e la Calabria. Lo stesso in verità vale per gli ospedali, le case di cura, i centri di fisiochinesiterapia, cardiologia e radiologia in proporzione alla popolazione. Altra storia nel Nord Italia dove le strutture sono poche ma il numero degli esami erogati per ciascun paziente molto più alto. In Sicilia ed in Campania, in-
vece, i laboratori erogano una media di nove prestazioni per residente all’anno, contro le diciannove prestazioni erogate per residente nella sola Lombardia. Quindi appare del tutto inutile tagliare le tariffe per ridurre la spesa per prestazioni analitiche, ed al contempo ridurre il numero dei laboratori. Erroneo, come ha inteso fare il Ministero della Salute per molto tempo legare le erogazioni, e gli sprechi, al numero dei laboratori, peraltro cosa si vuol mai ridurre se la spesa per analisi cliniche vale appena lo 0,56 % del Fondo Sanitario. Quindi il vero problema non è la quantità di quel che si eroga ma la qualità delle prestazioni prodotte.
Mentre per le case di cura esistono fasce di remunerazione, nella specialistica ambulatoriale la tariffa è identica e chi si “arrangia”
e vive di piccoli espedienti, viene premiato. Quindi entriamo nel campo del volume minimo di prestazioni che quei livelli minimi di qualità possono garantire. La soglia di efficienza, da fattore economico, si traduce in requisito minimo di accreditamento delle strutture che garantisce la qualità delle prestazioni rese. Ebbene, sotto certi volumi le risorse finanziarie e la remuneratività della struttura non consentono di realizzare e adeguare, nel tempo, assetti organizzativi, strutturali, strumentali e di personale adeguati a mantenere lo standard di qualità che il committente statale richiede all’erogatore.
Ad esempio, c’è chi lavora su contaglobuli ad uso veterinario (costo 5/6 mila euro) e chi su apparecchi a laser (costo centomila euro) © khunkornStudio/shutterstock.com
© Pickadook/shutterstock.com
ma entrambi ricevono la stessa tariffa di remunerazione. Le Regioni purtroppo hanno diversamente normato i requisiti minimi di accreditamento creando anche altre disparità di costi da sostenere a scapito della qualità. In Sicilia, ad esempio, vige ancora la “circolare Pistorio” che poco o niente impone in materia di requisiti per i laboratori. Ben altro e più oneroso è richiesto in altre Regioni. In questo siffatto sistema è difficile valutare con equità lo stato dell’arte, ed alligna così la mala pianta dell’imbroglio, dell’evasione fiscale e contributiva, con paghe sempre più basse dei contratti di lavoro per i dipendenti.
Un sistema nel quale “arrangiarsi” diventa la parola d’ordine, vivere ai margini della legalità una condizione essenziale, non fosse anche per lo stato di bisogno. Eppure, da questo segmento per sottostà’ a minori oneri a parità di prestazioni, insorge la resistenza a rispettare la legge sulla rimodulazione della rete dell’offerta vigente dal lontano 2006. Praticamente si fa passare per
equità la furbizia di reiterare una condizione di privilegio economico. Sorgono così come funghi sindacati ed associazioni protestatarie perché quello stato di cose illegittime e vantaggiose si perpetri indefinitamente nel tempo. Orbene chi dirige un Ordine Professionale, non può tenere bordone a questi soggetti, non può girarsi dall’altra parte fingendo di non sapere. Ed allora chi invoca, doverosamente, il rispetto della legge e denuncia gli espedienti che alterano oppure eludono la sua applicazione viene tacciato come nemico della categoria. Così per coloro che si oppongono alla cosiddetta “rete di impresa” che è’ già lecita e prevista tra le forme di aggregazioni tra laboratorio. Quel che si tace è che la rete di impresa che si propone è ben altra cosa, ossia una furbata illegittima per eludere la soglio di qualità. Se i componenti della rete che sono sottosoglia continuano ad erogare prestazioni (sia pure di bassa complessità) si viola la legge che impedisce tali erogazioni sottosoglia. Ma c’è di più! Le strutture in rete conferiranno al laboratorio capofila gli esami più complessi e più remunerativi (Genetica, Biologia Molecolare, Immunologia etc…) portando guadagno e lavoro ai capo fila. Un paradosso che favorisce questi “eroici” difensori dei piccoli laboratori dai quali trae vantaggi economici. Certo tutto si può discutere e modificare ma la menzogna è la furbizia vanno denunciate. Modificare la legge è possibile a patto che si dimostra quale sia la qualità che si garantisce per le prestazioni erogate. La Genetica, la Genomica, la Biologia Molecolare, la Medicina Preventiva, sono il presente ed il futuro, esse richiedono un salto di qualità organizzativa. Si affacciano, inoltre all’orizzonte, le gare d’appalto per le prestazioni sanitarie volute dalla già vigente legge sulla concorrenza. Chi resta nelle microscopiche ed autonome dimensioni che avvenire avranno? Che ruolo svolgeranno se non quello dei Paria rispetto ai capo fila della rete di impresa? Se i consorzi non cancellano il codice regionale delle strutture aderenti e fanno salva la proprietà delle strutture, se gli esami vengono conferiti su carta intestata di ciascun centro aderente (come in Campania) non è più certa la sopravvivenza dei laboratori in un ambito aggregato? Oggi, facinorosi e protestati a parte, fare un salto di qualità significa non soccombere, non rimanere figli di un dio minore.
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VAIOLO DELLE SCIMMIE È DI NUOVO EMERGENZA ANCHE IN EUROPA
Il moltiplicarsi dei contagi preoccupa: casi segnalati in tutto il mondo La scoperta di un nuovo ceppo del virus scatena interrogativi
Lo scorso 15 agosto, in seguito al proliferare di contagi nel cuore dell’Africa e alla scoperta di un nuovo clade del virus, è stato proclamato nuovamente dall’Organizzazione Mondiale della Sanità «emergenza di sanità pubblica di rilevanza internazionale», come era stato dal 23 luglio 2022 all’11 maggio 2023. E la diffusione di numerosi casi in Europa, in particolare in Spagna e in Svezia, ha fatto scattare l’allarme anche in Italia. Il vaiolo delle scimmie torna a provocare preoccupazione e c’è chi teme addirittura che in un futuro non troppo lontano il monkeypox, nome inglese della malattia, possa costringere a nuove misure di restrizione simili a quelle adottate per limitare i contagi durante la pandemia di Coronavirus. Una paura, è bene chiarirlo subito, del tutto infondata. Quel che è certo, è che l’aumento di contagi del vaiolo delle scimmie, la sua espansione al di fuori delle zone endemiche ed epidemiche (Repubblica Democratica del Congo e paesi confinanti) e il rilevamento di un nuovo ceppo in rapida diffusione invitano alla prudenza e suggeriscono l’adozione di misure di pronto intervento.
La stessa OMS ha messo a punto un piano di risposta che richiede un investimento iniziale di 15 milioni di dollari, a cui è seguito l’intervento di altri donatori. Anche l’Unione
Europea è in prima linea. Ma come si è deciso di fronteggiare questa nuova emergenza? Dove si sono registrati in massima parte i contagi? Quali sono i sintomi e la pericolosità del vaiolo delle scimmie? Andiamo con ordine e partiamo dal ripercorrere la storia di questo morbo, così chiamato perché l’infezione fu identificata per la prima volta nelle scimmie nel 1958. Nel 1970, invece, il primo caso scoperto nell’uomo. Il virus del vaiolo delle scimmie e quello del vaiolo tradizionale, malattia ufficialmente eradicata nel 1979, appartengono alla stessa famiglia delle Poxviridae. Nel caso del monkeypox, si tratta di un virus endemico nelle regioni della foresta pluviale tropicale dell’Africa centrale, in particolare della Repubblica Democratica del Congo, dove è presente la sua versione più aggressiva, il clade 1, che presenta un tasso di letalità del 13%, decisamente alto. Nei mesi scorsi è stato identificato un altro ceppo, il clade 1b (e il clade 1 è stato dunque ribattezzato 1a), riscontrato pure in Svezia. In altri paesi come la Nigeria e stati confinanti è presente invece il clade 2, a sua volta diviso in ceppo 2a e 2b, meno virulenti e pericolosi. In Italia, in tutto il 2024, sono stati registrati meno di 100 casi e tutti del ceppo 2. La vera emergenza è nel Congo, dove a fine agosto si sono già registrati più di 18mila contagi, e nei paesi confinanti quali Burundi,
Kenya, Ruanda e Uganda, dove si sono riscontrati numerosi casi del ceppo 1b, che possono indicare come il virus – e sarebbe una novità –si stia trasformando, o più semplicemente che solo adesso questa variante è stata compiutamente identificata. Il principale strumento di contrasto, per l’OMS e per gli altri soggetti che stanno intervenendo sul campo, è rappresentato dal vaccino. Quasi un milione di dosi del siero di terza generazione prodotto dalla Bavarian Nordic, costituito da virus vivi attenuati e dunque non in grado di moltiplicarsi, è stato distribuito nell’ultimo mese agli abitanti delle zone endemiche.
Il vaiolo delle scimmie si trasmette in seguito al contatto fisico con animali infetti, per lo più primati e roditori, e al contatto con le mucose o la pelle di una persona già infetta. Molto spesso – ma non esclusivamente – un contatto di natura sessuale. La trasmissione può avvenire anche attraverso il contatto con oggetti contaminati. Non è ancora dimostrato che il vaiolo delle scimmie si trasmetta anche tramite il contatto con goccioline respiratorie diffuse durante la conversazione, o quando si tossisce o si starnutisce, come per il Covid: probabilmen -
Il vaiolo delle scimmie si trasmette in seguito al contatto fisico con animali infetti, per lo più primati e roditori, e al contatto con le mucose o la pelle di una persona già infetta. Molto spesso – ma non esclusivamente –un contatto di natura sessuale. La trasmissione può avvenire anche attraverso il contatto con oggetti contaminati.
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te la diffusione avviene solo in seguito a un contatto faccia a faccia prolungato. I sintomi? Oltre alla classica eruzione cutanea, che si manifesta in genere dopo uno o tre giorni dall’inizio della febbre e consiste in lesioni cutanee che evolvono verso vescicole, pustole e croste, le manifestazioni della malattia includono appunto febbre, mal di testa, stanchezza, astenia, linfonodi ingrossati, dolori muscolari e mal di schiena.
Cosa fare in caso di contagio? Anzitutto, isolarsi rispetto a eventuali conviventi e utilizzare le abituali precauzioni per limitare la diffusione del virus. I sintomi del monkeypox, clade 2, tendono a risolversi spontaneamente in due o quattro settimane, anche se nel 2022 è stato approvato in Italia un farmaco antivirale, il tecovirimat, per il trattamento della malattia: i soggetti a maggiore rischio sono neonati, bambini e persone immunocompromesse. Chi è stato sottoposto a vaccinazione contro il vaiolo tradizionale, che in Italia era obbligatoria per tutti i nuovi nati fino al 1977 ed è stata definitivamente sospesa nel 1981, mantiene una protezione dell’85% rispetto alla fase acuta e alle conseguenze più gravi della malattia.
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Come si è attrezzata l’Italia per fronteggiare un’eventuale epidemia di vaiolo delle scimmie? In occasione dell’ultima dichiarazione di emergenza di salute pubblica internazionale del 2022 il Ministero della Salute attivò un Sistema di sorveglianza con Regioni e Province autonome, pubblicando un bollettino periodico e fornendo le indicazioni per la segnalazione e la gestione dei casi, il tracciamento dei contatti e la strategia vaccinale. In totale, in quella circostanza, furono segnalati 957 casi, di cui 253 collegati a viaggi all’estero, 943 maschi e 14 femmine. L’età mediana dei casi fu di 37 anni (14-71 anni).
Il Sistema di sorveglianza per la nuova emergenza del 2024 non è stato ancora attivato, probabilmente in ragione del numero ancora limitato di casi nella Penisola, tutti relativi – peraltro – al ceppo meno virulento del monkeypox, di tipo 2, che presenta un tasso di mortalità inferiore all’1%. Quello dei piani di emergenza pandemica, in ogni caso, è un argomento caldo al momento e che è diventato oggetto di grande interesse durante l’emergenza Covid, quando fu forzatamente rivisto il Piano nazionale di preparazione e risposta a una pandemia influenzale del 2006. Per fronteggiare la pandemia fu ultimato e approvato in Conferenza Stato-Regioni il nuovo Piano strategico-operativo nazionale di preparazione e risposta a una pandemia influenzale (PanFlu) 2021-2023, che individuava quattro fasi di emergenza: una prima fase di allerta pandemica, una seconda fase pandemica, una terza fase di transizione pandemica e una quarta e ultima fase inter-pandemica.
Al momento è in fase di redazione e approvazione un’ulteriore rivisitazione del piano per il periodo 202428. Secondo indiscrezioni, il nuovo modello non dovrebbe discostarsi troppo da quello precedente. Come ha spiegato il professor Giovanni Rezza, epidemiologo e professore di Igie-
IL PIANO PANDEMICO?
È IN AGGIORNAMENTO
In Italia non è stato ancora messo in piedi un Sistema di sorveglianza monkeypox come per il 2022: la situazione
ne presso l’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano, nonché ex dirigente di ricerca dell’Istituto Superiore di Sanità, «la novità maggiore, anche sulla base di indicazioni internazionali, è quella di allargare lo spettro del piano, aldilà dei virus influenzali, ad altri patogeni a trasmissione respiratoria a maggior potenziale pandemico».
Inevitabile il ricorso a eventuali misure di limitazione, ma con un maggiore bilanciamento rispetto alle esigenze socioeconomiche generali: «Le raccomandazioni, che contengono sia misure personali sia sociali, e vanno dall’igiene delle mani all’uso di mascherine,
a varie forme di distanziamento sociale, inclusi provvedimenti quali isolamento e quarantena, andrebbero protratte – sempre secondo ECDC – non oltre il tempo ritenuto indispensabile per mitigare il corso dell’epidemia, e comunque sottoposte a un’attenta valutazione, anche per le conseguenze socioeconomiche che potrebbero comportare. Un’enfasi particolare merita anche la necessità di mantenere efficiente e resiliente il sistema sanitario». Fondamentale, infine, mantenere alte le scorte dei vaccini insieme all’aumento dell’offerta di posti di terapia intensiva. (R. D.)
LE GRANDI PANDEMIE,
DAL TIFO AL... VAIOLO
La storia dell’umanità è stata segnata da periodiche emergenze mondiali: l’ultima è piuttosto recente, il Covid
«Eadesso che succede, dovremo fare di nuovo i conti con chiusure e lockdown?». In tanti si sono fatti la stessa domanda dopo la proclamazione di «emergenza di sanità pubblica di rilevanza internazionale» del vaiolo delle scimmie da parte dell’OMS. In realtà quella legata al monkeypox non è ancora una pandemia e probabilmente non lo diventerà, vuoi per la portata limitata dei contagi a livello globale, vuoi per la disponibilità di vaccini utili a contrastare la diffusione della malattia, almeno nei suoi effetti più gravi. Ep-
pure un cugino del vaiolo delle scimmie, il vaiolo sic et simpliciter, è stato responsabile in passato di milioni e milioni di morti. Si tratta infatti di una malattia che, al pari di altre, è stata al centro di pestilenze di natura globale. Ma quali sono state le grandi pandemie della storia? La prima riportata da fonti ufficiali e documentate è un’epidemia di febbre tifoide provocata dal batterio del tifo, scoppiata durante la Guerra del Peloponneso nel 430 a.C., che uccise un quarto della popolazione greca nel giro di quattro anni. Qualche secolo dopo i soldati romani di ritorno da una cam -
pagna contro i Parti in Oriente portarono inconsapevolmente all’interno dei confini dell’Impero il vaiolo, che uccise in due ondate più di trenta milioni di persone: i primi cinque tra il 165 e il 180 d.C., periodo che fu soprannominato della Peste Antonina, un’altra trentina tra il 251 e il 266, quando divampò il cosiddetto Morbo di Cipriano, dal nome del vescovo di Cartagine che ne scrisse.
Fu poi la volta di due pandemie di peste bubbonica. La prima, nel VI secolo, costò la vita a qualcosa come cento milioni di persone in tutto l’Occidente (Morbo di Giustiniano), la seconda - documentata per la prima volta nel 1346 - fu portata in Europa dai Tartari e provocò la morte di venti milioni di persone (Peste Nera). Ancora il vaiolo fu responsabile della morte di metà della popolazione nativa messicana al momento del contatto con gli esploratori europei, nel XVI secolo. In tempi recenti, dopo varie epidemie di colera in varie parti del mondo, sono state le pandemie influenzali a provocare lutti e allarmi.
L’influenza spagnola, tra il 1918 e il 1922, ha provocato circa 50 milioni di decessi ed è stata favorita dagli spostamenti di truppe sui fronti europei nelle ultime fasi della Prima Guerra Mondiale. L’influenza asiatica, registrata per la prima volta nel 1957 nella regione dello Yunan, in Cina, ha causato un milione di morti ed è stata seguita nel 1968 da una nuova pandemia influenzale, scoppiata stavolta a Hong Kong, pure responsabile di un milione di morti. Gli Anni 80 sono stati segnati dalla pandemia del virus dell’HIV, meglio nota come AIDS, che si stima abbia causato circa 25 milioni di morti in tutto il pianeta. L’ultima pandemia devastante è ancora impressa nella memoria di tutti: il Covid. Scoppiata nel 2020 e dichiarata conclusa tre anni più tardi, ha colpito oltre 234 milioni di persone nel mondo, provocando la morte di quasi cinque. (R. D.)
Giornata di studio
NUTRIZIONE CLINICA E ONCOLOGIA INTEGRATA
TRA GENETICA, METABOLISMO E AMBIENTE
ESPERIENZE E PROSPETTIVE A CONFRONTO
23-24 novembre 2024
Hotel Belvedere, Caserta
“
L’ACQUA IN BOTTIGLIA DI PLASTICA È SALUBRE?
TE LO DICE IL BIOTAPPO
L’invenzione del biologo catanese Cristian Fioriglio ha ricevuto vari riconoscimenti, tra cui il primo premio dell’edizione siciliana Start Cup 2023 e una menzione per la Start Cup nazionale
di Ester Trevisan
Dottor Fioriglio, crescono la preoccupazione dei consumatori rispetto al tema della sicurezza alimentare e il timore per i rischi a cui quotidianamente possono andare incontro a tavola. Quali sono i suoi suggerimenti per una scelta critica e consapevole dei prodotti da mettere nel carrello della spesa?
Prima di tutto, bisogna prestare la massima attenzione alle descrizioni contenute nelle etichette che, perciò, devono essere di facile lettura per i consumatori, troppo spesso attratti più dalle forme grafiche del packaging. Occorre sensibilizzare il consumatore rispetto alla lettura consapevole delle etichette, aiutandoli con un lessico non tecnico, facilmente interpretabile almeno per le indicazioni indispensabili.
Quali sono gli elementi riportati nell’etichetta a cui il consumatore deve prestare maggiore attenzione?
È fondamentale l’indicazione del luogo di produzione, che spesso è diverso dalla sede di confezionamento che rappresenta l’ultimo step e diventa la bandiera del packaging. Il rischio, per esempio, è di acquistare cereali con un brand italiano ma che magari provengono dall’Iran. Il luogo di produzione è centrale rispetto ai rischi per la salute, come ci ricorda la regolamentazione per gli OGM che in Italia, a differenza di altri Paesi, è molto rigida e restrittiva.
Quali sono i rischi che corre il consumatore se si interrompe la catena del freddo di un alimento che deve essere refrigerato?
Possono essere di diverso tipo se parliamo di prodotti surgelati che si differenziano da quelli congelati in termini organolettici e sensoriali. Il congelato è un prodotto che – pensiamo alla verdura - dalla punta periferica della foglia verso lo stelo, sottoposto a temperature che vanno da meno 15 a meno 18, si congela a strati. Dopo ore, dunque, si ricopre di ghiaccio e il processo di congelamento viene completato. Dal punto di vista qualitativo, il risultato è deficitario, perché i sali minerali e le vitamine contenute nella verdura sono termolabili e, quindi, il gusto del prodotto non è eccellente. Discorso diverso per i prodotti surgelati, che vengono trattati a temperature che vanno dai meno 18 ai meno 21/24 gradi, per i quali il processo prevede che i macrocristalli di ghiaccio vengano distribuiti omogeneamente sull’alimento. In questo modo, sali minerali e vitamine rimangono aggregati come nei prodotti freschi e, quando si dissurgela, le caratteristiche qualitative risultano inalterate. Per garantire la catena del freddo, è necessario che la temperatura si attesti a meno 18. Se il ciclo si interrompe, il rischio è che l’alimento si deteriori e perda le sue caratteristiche nutrizionali e organolettiche.
Come è nata l’idea di realizzare il sistema BioTappo?
Una mattina in auto avevo sete, ho preso la bottiglia dell’acqua che avevo a bordo e mi sono subito accorto che era calda e che la plastica era molliccia. Ne ho bevuto un sorso e ho avvertito un sapore ferroso. Incuriosito, mi sono documentato sui metodi per misurare la durezza delle plastiche e ho scoperto l’esistenza di uno strumento che si chiama durometro e che misura assottigliamento e durezza del campione di plastica. Me ne sono procurato uno e ho iniziato centinaia di misurazioni sulle bottiglie di PET, riscontrando che con le temperature alte questo materiale perde il tenore reticolare, ossia il polimero si deforma e diventa poroso, cioè non blocca più le sostanze additive di fabbricazione e le rilascia nei contenuti. Per arrivare a questa constatazione, ho immerso le bottiglie in PET in una soluzione idroalcolica e ho osservato che, così come ha la capacità di assorbire, questa struttura plastica per uso alimentare ha anche la capacità di rilasciare le NIAS, cioè sostanze non intenzionalmente aggiunte ma che fanno parte della PET e che, dopo aver superato i 70 gradi centigradi, si riversano nell’acqua. L’esposizione sistematica e costante a queste sostanze può provocare cancro alla mammella e tumori legati a fattori ormonali. L’idea di realizzare il sistema BioTappo nasce, dunque, dall’esigenza di garantire che lungo tutta la filiera la temperatura non raggiunga mai quella soglia critica, così da tutelare la food safety dei consumatori.
Da cosa è composto il BioTappo?
È realizzato in materiale acrilico e la superficie è rivestita da un inchiostro irreversibile e cangiante, come quello delle serigrafie. Sottoposto a temperature elevate, vira il proprio colore dal rosa pallido, associato a un’emoticon
Fioriglio.
Cristian Fioriglio è biologo, tecnologo alimentare e tossicologo. Laureato in Scienze Giuridiche. È ispettore della Polizia di Stato e responsabile del Nucleo di Polizia Giudiziaria della Procura Generale di Catania. Sta conseguendo la laurea in Medicina e Chirurgia all’Università di Catania.
sorridente, al lilla che ne certifica l’alterazione. Si tratta di un sistema intuitivo e semplice da interpretare per chiunque e che tutela tutti i soggetti della filiera, dal produttore al trasportatore, dagli addetti alla logistica al commerciante e fino, appunto, al consumatore.
Il BioTappo è già in commercio?
No. Ho ricevuto manifestazioni di interesse da parte di alcuni importanti brand italiani intenzionati ad acquistare il brevetto, ottenuto nell’aprile 2019, e a produrre il BioTappo su scala industriale per metterlo in commercio, ma non è ancora iniziata la trattativa.
Il BioTappo ha costi elevati?
Assolutamente no. Anzi, questo sistema può essere una fonte di enorme risparmio per la collettività. Pensiamo alle acque sanitarie utilizzate per i soggetti sensibili, vendute in farmacia nelle bottiglie di vetro e per le quali la qualità è garantita al 100%. Chiaramente, a queste condizioni, i costi sono molto elevati. Per abbatterli, il sistema BioTappo sarebbe perfetto, consentendo la vendita delle acque sanitarie a prezzi da GDO. Lo stesso discorso vale per le acque impiegate in ambito sportivo.
Il BioTappo rispetta l’ambiente?
Il BioTappo rispetta la biodiversità ed è ecosostenibile. Pensiamo a quando in estate tutte le aziende produttrici di bevande gassate sono costrette a insufflare nelle bottiglie di PET maggiori quantità di anidride carbonica rispetto alle dosi previste dalla ricetta originaria perché l’esposizione alle alte temperature pregiudica qualità e sapore. Con il BioTappo e il suo smart indicator è possibile studiare in origine la quantità da anidride carbonica da insufflare per garantire lo stesso sapore ed evitare sprechi.
UNA PROTEINA A DIFESA DEL GENOMA CELLULARE (E QUINDI CONTRO I TUMORI)
Lo studio del Cnr-Igm di Pavia svela un nuovo ruolo della proteina DDX3X
Parla il responsabile della ricerca Giovanni Maga
Potrebbe contribuire a individuare nuove strategie per combattere i processi di trasformazione tumorale lo studio condotto da un gruppo dell’Istituto di genetica molecolare del Cnr di Pavia, pubblicato su Nucleic Acids Research. Al centro della loro indagine, la proteina DDX3X e il suo ruolo di tutela dell’integrità del genoma cellulare. A parlarci della ricerca è il suo responsabile, Giovanni Maga, ricercatore del Cnr-Igm e direttore del Dipartimento di scienze biomediche dell’Ente. Come è nato questo studio? È il primo del suo genere?
Il mio gruppo di ricerca studia la proteina DDX3X da molti anni come bersaglio antivirale. In una collaborazione con i chimici farmaceutici dell’Università di Siena siamo stati tra i primi al mondo, infatti, a sintetizzare e validare inibitori specifici per DDX3X e a dimostrare che fossero in grado di bloccare la replicazione di molti virus, come HIV-1, West Nile, Dengue, ZIKA e Epatite C, che utilizzano DDX3X a loro vantaggio, di fatto dimostrando la possibilità di sviluppare antivirali ad ampio spettro utilizzandola come bersaglio. Forse anche grazie ai nostri studi, l’interesse della comunità scientifica è aumentato, portando a identificarla anche come una oncoproteina, la cui regolazione è alterata in molti tumori. Noi eravamo interessati a comprendere meglio il ruolo di DDX3X nei tumori e grazie ai finanziamenti AIRC siamo stati in grado di individuare una
nuova attività di questa proteina, ovvero la capacità di degradare molecole di RNA.
Qual era l’obiettivo?
Da tempo studiamo gli effetti dell’accumulo erroneo di RNA nel DNA umano. Si era visto che quando viene sintetizzato del nuovo DNA, sia durante la duplicazione del genoma che nella sua riparazione, a volte erroneamente vengono inseriti ribonucleotidi al posto di deossiribonucleotidi così da creare tratti ibridi RNA-DNA che possono causare mutazioni e alterazioni del genoma. Inoltre, in molte regioni del nostro genoma il DNA è appaiato a filamenti di RNA. Questi “R-loops” come vengono definiti hanno ruoli importanti ma se presenti in eccesso possono dare instabilità genomica. Il nostro studio mirava a caratterizzare i meccanismi con cui le cellule ”ripuliscono” il DNA dall’RNA sia incorporato nel DNA che sotto forma di R-loops.
Che ruolo ha la proteina DDX3X?
DDX3X era nota come RNA elicasi, ovvero un enzima in grado separare due filamenti di RNA. Si conoscevano suoi ruoli in molte vie metaboliche, dalla regolazione degli RNA messaggeri alla modulazione della sintesi delle proteine. Inoltre interviene in processi cellulari quali l’immunità innata e l’infiammazione. I nostri studi ne hanno svelata una ulteriore funzione, identificandola come un elemento essenziale nei meccanismi con cui le cellule regolano i livelli di ibridi RNA-DNA.
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Quali rischi comporta l’instabilità genomica?
Instabilità genomica è un’espressione che si riferisce a tutti quei fenomeni in grado di alterare il corretto metabolismo del nostro DNA. Quindi, difetti nella sua duplicazione, nella sua riparazione o nella sua capacità di fornire le corrette istruzioni per la sintesi delle proteine. Questi difetti causano l’insorgenza di mutazioni che, alterando l‘informazione genetica, portano alla produzione di RNA e proteine aberranti, le cui funzioni vengono così compromesse e possono innescare la trasformazione tumorale.
Qual è l’aspetto particolarmente innovativo di questo studio?
Sicuramente aver dimostrato che DDX3X, grazie alla sua attività di degradazione dell’RNA da noi scoperta, è importante per regolare i livelli di ibridi RNA-DNA, sia nel caso di ribonucleotidi erroneamente incorporati nel DNA, sia nel caso degli R-loops. Inoltre le nostre ricerche hanno dimostrato per la prima volta che DDX3X funziona da cofattore per un altro enzima essenziale per la rimozione degli ibridi RNA-DNA: la RNasiH2. Abbiamo dimostrato che quando le due proteine interagiscono fisicamente, l’attività della RNasiH2 viene potenziata.
Che sviluppi può avere?
L’accumulo di R-loops è caratteristico di molti tumori. Avere caratterizzato una nuova via per la loro rimozione basata su DDX3X offre la possibilità di studiare come questa sia alterata nelle cellule cancerose per sviluppare nuovi approcci terapeutici. In questo senso abbiamo già dimostrato che inibitori di DDX3X sono in grado di bloccare la proliferazione di alcuni tumori in modelli cellulari e animali.
Rispetto ai campioni di tessuto di pazienti che non assumevano il farmaco, quelli ottenuti da pazienti che lo assumevano hanno mostrato una minore diffusione del cancro ai linfonodi e una maggiore infiltrazione di cellule immunitarie nel tumore.
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Quali sono i prossimi step?
Vorremmo capire meglio all’interno della cellula in che momenti e in conseguenza di quali stimoli DDX3X e RNasiH2 interagiscono. Stiamo studiando anche i meccanismi che regolano l’attività di queste proteine in cellule normali e tumorali. Infine, un aspetto rilevante è che l’accumulo di ibridi RNA-DNA è un potente stimolo pro-infiammatorio. Dato il ruolo di DDX3X nei meccanismi dell’immunità innata e dell’infiammazione, vorremmo studiare la relazione tra la regolazione aberrante di DDX3X e l’infiammazione nei tumori, ma anche in altre patologie caratterizzate da infiammazione cronica come le malattie neurodegenerative.
Giovanni Maga.
Allo studio hanno lavorato, insieme a Giovanni Maga, Massimiliano Secchi, Anna Garbelli, Carolina Santonicola, Simone Sabbioneda, Emmanuele Crespan (IGM-CNR ‘Luigi Luca Cavalli-Sforza’), Valentina Riva (Universidade de Lisboa), Graziano Deidda (IRCCS Ospedale San Raffaele ), , Teresa Maria Formica (Istituti Clinici Scientifici Maugeri, IRCCS).
L’innovativo
progetto Tabulae Paralytica degli scienziati dell’EPFL, la Scuola politecnica federale di Losanna, ha permesso di mappare la biologia delle lesioni del midollo spinale con un dettaglio che non ha precedenti. Combinando tecnologie avanzate di mappatura molecolare e intelligenza artificiale, i ricercatori dell’EPFL hanno completato un “atlante” open-source che fornisce una comprensione approfondita della biologia delle lesioni del midollo spinale nei topi e apre la strada a nuove sorprendenti terapie. Come spiegano i ricercatori, a seguito di una lesione del midollo spinale, in ogni cellula si svolgono dei complessi processi molecolari che sono stati scoperti e mappati da Grégoire Courtine e il suo team. Il lavoro è stato pubblicato su Nature ed è importante non solo perché identifica un insieme specifico di neuroni e geni che svolge un ruolo chiave per il recupero delle lesioni, ma anche perché propone una terapia genica di successo derivata dai suoi risultati. Il team svizzero ha, infatti, sfruttato la Tabulae Paralytica per sviluppare una terapia genica di ringiovanimento che è riuscita a riattivare il recupero naturale della deambulazione dopo la paralisi nei topi anziani.
Purtroppo a oggi le lesioni del midollo spinale sono quasi impossibili da guarire: l’estrema complessità di questo sistema biologico ne è la causa principale. Qui si collegano a livello meccanico, chimico ed elettrico diversi tipi di cellule che lavorano in sinergia per produrre e regolare una moltitudine di funzioni neurologiche. Questa complessità cellulare amplifica le sfide per un trattamento efficace della paralisi causata da lesioni al midollo spinale.
Finora, i metodi tradizionali di imaging e mappatura hanno offerto una visione generalizzata dei meccanismi cellulari delle le-
sioni del midollo spianale. Questa mancanza di specificità, secondo gli autori dello studio, non ha permesso di individuare esattamente i ruoli e le reazioni distinte dei singoli tipi di cellule e ha ostacolato lo sviluppo di trattamenti mirati a dinamiche cellulari specifiche.
«Offrendo una visione eccezionalmente dettagliata delle dinamiche cellulari e molecolari delle lesioni del midollo spinale nei topi - spiega Courtine - le Tabulae Paralytica colmano una storica lacuna di conoscenza, aprendo la strada a trattamenti mirati e a una migliore guarigione». Grazie alla nuova comprensione delle intricate dinamiche cellulari della paralisi, gli autori hanno sviluppato, in collaborazione con il collega Bernard Schneider, una terapia genica mirata che sfrutta una scoperta cruciale: i ricercatori hanno compreso che un tipo specifico di cellula di supporto, chiamata astrocita, perde la sua capacità di rispondere alle lesioni negli animali anziani. «Per gran parte degli ultimi cento anni - afferma Mark Anderson, autore dello studio - si è ritenuto che gli astrociti fossero dannosi per la riparazione neurale mentre abbiamo capito che queste cellule hanno un ruolo protettivo essenziale che può essere sfruttato per riparare le lesioni».
«Un altro risultato chiave dello studio è l’identificazione di un sottogruppo specifico di neuroni, noti come neuroni Vsx2, fondamentali per promuovere il recupero perché in gran parte responsabili della riorganizzazione dei circuiti neurali, il che significa che sono la popolazione di neuroni più interessante per la riparazione del-
Come spiegano i ricercatori, a seguito di una lesione del midollo spinale, in ogni cellula si svolgono dei complessi processi molecolari che sono stati scoperti e mappati da Grégoire Courtine e il suo team. Il lavoro è stato pubblicato su Nature ed è importante non solo perché identifica un insieme specifico di neuroni e geni che svolge un ruolo chiave per il recupero delle lesioni, ma anche perché propone una terapia genica di successo derivata dai suoi risultati.
© Sai Thaw Kyar/shutterstock.com
le lesioni del midollo spinale», afferma Jordan Squair, un altro degli autori.
Nello studio i ricercatori hanno impiegato due tecnologie innovative. La prima è stata il sequenziamento di singole cellule, una tecnica che grazie ai recenti progressi ha permesso di ottenere resoconti dettagliati di milioni di cellule del midollo spinale. In secondo luogo, la trascrittomica spaziale, una moderna tecnologia che permette di osservare dove avvengono le attività cellulari e che ha ampliato la mappa dell’intero midollo spinale, preservando il contesto spaziale e le relazioni tra i diversi tipi di cellule. Per analizzare la mole e la complessità dei dati ottenuti è stato necessario sviluppare nuove tecniche di apprendimento automatico. L’approccio computazionale utilizzato dai ricercatori sfrutta l’intelligenza artificiale per tracciare non solo le risposte genetiche immediate delle singole cellule, ma anche per collocare queste risposte nel midollo spinale nello spazio e nel tempo. «Ora abbiamo una mappa dettagliata che non solo ci mostra quali cellule sono coinvolte, ma anche come interagiscono e cambiano nel corso del processo di lesione e recupero», spiega Squair. «Questa comprensione globale è fondamentale per lo sviluppo di trattamenti mirati con precisione a specifiche cellule e necessità per la riparazione di lesioni differenti, aprendo la strada a terapie più efficaci e personalizzate» termina il ricercatore. Sebbene la ricerca sia stata condotta utilizzando modelli di roditori, da essa secondo gli autori deriveranno numerose applicazioni cliniche e rilevanti progressi scientifici. (S. B.).
L’ambizioso progetto dell’EPFL ha permesso di sviluppare una terapia genica di ringiovanimento che ha riattivato nei topi anziani il recupero della deambulazione dopo la paralisi
CURCUMINA: NUOVA SPERANZA
NELLA GESTIONE
DELL’ATROFIA MUSCOLARE SPINALE
Studio italiano rivela il potenziale della curcumina come terapia complementare per migliorare la qualità di vita dei pazienti Sma
L’atrofia muscolare spinale (SMA) è una delle malattie genetiche rare più diffuse e debilitanti, caratterizzata dalla progressiva perdita dei neuroni motori che controllano il movimento, con conseguente deterioramento delle capacità motorie e respiratorie. La SMA colpisce prevalentemente neonati, bambini e giovani adulti, ed è causata da una mutazione genetica che riduce la produzione della proteina di sopravvivenza del motoneurone (SMN). Nonostante i progressi nei trattamenti farmacologici, molti pazienti non rispondono adeguatamente alle terapie esistenti, evidenziando la necessità di nuove strategie terapeutiche. Recenti studi, come quello condotto dall’Università Statale di Milano in collaborazione con l’Università di Pavia e pubblicato sull’International Journal of Molecular Sciences, suggeriscono che la curcumina, un antiossidante naturale estratto dalla curcuma, potrebbe offrire una nuova via per migliorare la qualità della vita dei pazienti affetti da SMA.
La SMA è causata principalmente da una mutazione del gene SMN1, che comporta una ridotta produzione della proteina SMN, essenziale per la sopravvivenza dei motoneuroni. La carenza di questa proteina provoca la degenerazione dei motoneuroni del midollo spinale e del tronco encefalico, portando a debolezza muscolare progressiva, atrofia e compromissione respiratoria. Esistono diversi tipi di SMA, classificati in base alla gravità e all’età di insorgenza, con il tipo 1 (SMA1) che rappresenta la forma più grave.
Negli ultimi anni, sono stati sviluppati nuovi trattamenti farmacologici come nusinersen, risdiplam e la terapia genica con onasemnogene abeparvovec, che mirano ad aumentare i livelli della proteina SMN o a correggere la mutazione genetica sottostante. Tuttavia, non tutti i pazienti rispondono in modo soddisfacente a queste terapie, e molti continuano a sperimentare un significativo deterioramento della funzione muscolare. Inoltre, i trattamenti esistenti possono essere molto costosi e comportare effetti collaterali non trascurabili.
Uno degli aspetti emergenti nella patogenesi della SMA è il ruolo dello stress ossidativo, un processo in cui l’accumulo di specie reattive dell’ossigeno (ROS) danneggia le cellule, compresi i neuroni. Studi recenti hanno evidenziato che le cellule affette da SMA mostrano livelli elevati di stress ossidativo, suggerendo che i motoneuroni danneggiati sono particolarmente vulnerabili agli effetti
La SMA è causata principalmente da una mutazione del gene SMN1, che comporta una ridotta produzione della proteina SMN, essenziale per la sopravvivenza dei motoneuroni. La carenza di questa proteina provoca la degenerazione dei motoneuroni del midollo spinale e del tronco encefalico, portando a debolezza muscolare progressiva, atrofia e compromissione respiratoria. Esistono diversi tipi di SMA, classificati in base alla gravità e all’età di insorgenza, con il tipo 1 (SMA1) che rappresenta la forma più grave.
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negativi dei ROS. Questa osservazione ha aperto la strada all’ipotesi che gli antiossidanti, molecole in grado di neutralizzare i ROS, possano avere un effetto benefico sui pazienti affetti da SMA.
La curcumina è una molecola antiossidante estratta dalla radice della curcuma (Curcuma longa), utilizzata da oltre 4mila anni nella medicina tradizionale cinese e indiana per le sue proprietà antinfiammatorie, antiossidanti e neuroprotettive. Negli ultimi anni, la curcumina ha attirato l’interesse della comunità scientifica per il suo potenziale terapeutico in diverse patologie neurodegenerative, tra cui la SMA.
La ricerca ha studiato gli effetti della curcumina sulle cellule staminali neurali, cellule progenitrici con la capacità di differenziarsi in motoneuroni. I ricercatori hanno osservato che la curcumina può modulare alcune proprietà fisiologiche delle cellule staminali neurali sia sane che affette da SMA, suggerendo un potenziale meccanismo d’azione che potrebbe essere sfruttato per il trattamento della malattia.
Uno degli effetti più interessanti della curcumina osservati nello studio riguarda il suo impatto sulla proteina Nrf2 (fattore nucleare eritroide 2-correlato 2), un regolatore chiave della risposta cellulare allo stress ossidativo. In condizioni normali, Nrf2 è sequestrato nel citoplasma della cellula; tuttavia, in presenza di stress ossidativo o di sostanze come la curcumina, Nrf2 viene attivato e trasloca nel nucleo, dove promuove l’espressione di geni antiossidanti e protettivi, inclusa la proteina.
Raffaella Adami e Daniele Bottai, responsabili dello studio, hanno evidenziato che la curcumina potrebbe costituire una promettente opzione complementare per il trattamento a lungo termine della SMA (Atrofia Muscolare Spinale). Pur riconoscendo l’efficacia dei nuovi farmaci attualmente in uso, sottolineano che la curcumina non può sostituire queste terapie, ma potrebbe comunque contribuire a migliorare la qualità della vita nei pazienti che non ottengono risultati ottimali dai trattamenti standard. Tuttavia, precisano che sono necessarie ulteriori ricerche per comprendere meglio i meccanismi molecolari con cui la curcumina influisce su NRF2 nel modello di SMA studiato. Questo lavoro rappresenta un primo passo significativo verso l’integrazione di approcci nutraceutici alle terapie esistenti, offrendo nuove prospettive di terapia ai pazienti. (C. P.).
SCOPERTO IL MICROBIOMA
DEGLI ALIMENTI: STUDIO DELL’UNIVERSITÀ DI TRENTO
Una ricerca internazionale rivela 11mila specie microbiche su oltre 2500 alimenti, aprendo nuove opportunità per certificazione, conservazione e miglioramento della salute umana
La recente scoperta del microbioma associato agli alimenti rappresenta una svolta nella comprensione di come i microrganismi presenti nei cibi che consumiamo influenzino la nostra salute e possano essere utilizzati per migliorare la conservazione degli alimenti e certificare la loro provenienza. Il team di ricerca internazionale, coordinato dal Dipartimento Cibio dell’Università di Trento, ha analizzato il microbioma di oltre 2.500 alimenti provenienti da 50 Paesi, identificando quasi 11mila tra batteri e funghi, metà dei quali appartenenti a specie finora sconosciute. Lo studio, pubblicato sulla rivista Cell, è la più grande indagine sui microbi negli alimenti mai realizzata, che apre nuove prospettive non solo per la salute umana, ma anche per l’industria alimentare e la sicurezza alimentare.
I microbi, ovvero batteri, funghi e altri microrganismi, sono ovunque nel nostro ambiente, incluso il cibo che mangiamo. Tuttavia, la maggior parte delle ricerche si è storicamente concentrata sui microbi patogeni o su quelli utili, come i probiotici, mentre la stragrande maggioranza delle specie microbiche rimane sconosciuta. Tradizionalmente, i microbi presenti negli alimenti venivano studiati singolarmente in laboratorio, un processo laborioso e limitato, poiché non tutti i microrganismi sono facilmente coltivabili.
Per superare questi limiti, il gruppo di ricerca coordinato dal microbiologo computazionale Nicola Segata ha utilizzato un approccio innovativo: la metagenomica. Questa tecnica consente di sequenziare simultaneamente l’intero materiale genetico presente in un campione alimentare, permettendo di caratterizzare in modo più completo ed efficiente il microbioma degli alimenti.
Il team ha analizzato oltre 2.500 metagenomi alimentari, un numero senza precedenti, riuscendo a identificare 10.899 genomi di microbi associati agli alimenti, classificati in 1.036 specie batteriche e 108 specie fungine. Le specie microbiche scoperte sono state suddivise in base agli alimenti di provenienza, rivelando che alimenti simili tendono a ospitare microbi simili ma non identici. Questa diversità microbica varia in base al tipo di alimento, con una maggiore varietà riscontrata nei latticini.
Uno degli aspetti più sorprendenti emersi dallo studio è la presenza di microbi con funzioni simili in alimenti molto diversi. Questo suggerisce che, nonostante le differenze nei processi produt-
I microbi, ovvero batteri, funghi e altri microrganismi, sono ovunque nel nostro ambiente, incluso il cibo che mangiamo. Tuttavia, la maggior parte delle ricerche si è storicamente concentrata sui microbi patogeni o su quelli utili, come i probiotici, mentre la stragrande maggioranza delle specie microbiche rimane sconosciuta.
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tivi e negli ingredienti, esiste un nucleo funzionale comune di microbi che svolge ruoli essenziali, come la fermentazione e la preservazione.
Inoltre, lo studio ha evidenziato il legame tra il microbioma degli alimenti e quello umano. Confrontando i microbi degli alimenti con quelli del microbioma intestinale umano, i ricercatori hanno scoperto che le specie microbiche associate agli alimenti compongono circa il 3% del microbioma intestinale degli adulti e il 56% di quello dei bambini. Questo suggerisce che una parte significativa dei microbi intestinali dei bambini può essere acquisita direttamente dal cibo, influenzando potenzialmente lo sviluppo del loro microbioma intestinale e, di conseguenza, la loro salute.
Anche se il 3% può sembrare una piccola percentuale nel microbioma degli adulti, il ruolo di questi microbi potrebbe essere estremamente rilevante. Alcuni dei microbi acquisiti attraverso il cibo potrebbero avere funzioni essenziali per la digestione, la modulazione del sistema immunitario o la protezione contro agenti patogeni. La scoperta di queste interazioni potrebbe portare allo sviluppo di nuovi alimenti funzionali progettati per promuovere specifici benefici per la salute umana.
Oltre alle implicazioni per la salute umana, lo studio apre nuove possibilità per l’industria alimentare. I ricercatori hanno dimostrato che gli alimenti provenienti da una specifica azienda agricola o struttura di produzione presentano caratteristiche microbiche uniche. Questo potrebbe essere utilizzato per certificare la provenienza degli alimenti, rendendo possibile tracciare l’origine di un prodotto fino alla specifica zona di produzione. La capacità di identificare la firma microbica di un alimento potrebbe diventare un potente strumento per la certificazione di qualità e autenticità, aiutando a combattere le frodi alimentari e a valorizzare le eccellenze territoriali. Inoltre, comprendere meglio il microbioma degli alimenti potrebbe portare a miglioramenti nei processi di conservazione e nella durata degli alimenti. La creazione di un database così vasto e dettagliato sui microbi degli alimenti rappresenta una risorsa senza precedenti per la ricerca futura. In un mondo in cui la sicurezza alimentare e la tracciabilità dei prodotti diventano sempre più cruciali, queste scoperte potrebbero trasformare il modo in cui produciamo, conserviamo e consumiamo il cibo, portando benefici significativi sia per i consumatori che per l’industria alimentare. (C. P.).
MICRONUTRIENTI, L’ALLARME: METÀ DELLA POPOLAZIONE MONDIALE NE È CARENTE
Dal calcio al ferro, passando per lo iodio e le vitamine C ed E, ogni mancanza causa conseguenze diverse sulla salute: uno studio evidenzia i rischi della malnutrizione
di Domenico Esposito
Metà della popolazione mondiale non assume quantità adeguate di 15 micronutrienti essenziali per la salute, tra cui calcio, ferro e le vitamine C ed E. È quanto si evince da una ricerca condotta da Simone Passarelli, presso la Harvard Chan School di Boston e pubblicata sulla prestigiosa rivista The Lancet Global Health. Questo è stato il primo studio in assoluto a occuparsi di fornire stime globali del consumo inadeguato di 15 micronutrienti cruciali per la salute umana. In passato altre ricerche si erano occupate di stabilire le quantità di micronutrienti disponibili e consumate dalle persone, mentre questo studio entra ancora di più nel dettaglio per definire se questi apporti soddisfano i requisiti
raccomandati per la salute umana, esaminando le carenze specifiche che affrontano le persone lungo il corso della loro vita. I dati utilizzati per l’approfondimento sono stati prelevati dal Global Dietary Database, dalla Banca Mondiale per misurare l’assunzione nutrizionale nelle popolazioni di 185 paesi. Quelle prese in considerazione sono state a loro volta suddivise a seconda della fascia anagrafica d’appartenenza in 17 gruppi. Si va dai zero agli 80 anni con intervalli di cinque anni tra un gruppo e l’altro. Quindici sono state invece le vitamine prese in esame: calcio, iodio, ferro, riboflavina, folato, zinco, magnesio, selenio, tiamina, niacina e le vitamine A, B6, B12, C ed E. Ebbene, lo studio ha riscontrato significative carenze di assunzione per quasi tutti i micronutrienti valutati. Lo iodio è stata la vitamina che si è messa maggiormente in risalto e non positivamente: il 68% della popolazione non lo assume in maniera adeguata. Subito dopo in questa classifica al contrario troviamo
Dobbiamo tener conto del fatto che le carenze di micronutrienti sono una delle forme più comuni di malnutrizione a livello globale e ogni carenza comporta determinate conseguenze sulla salute, dalle complicanze in gravidanza alla cecità, fino a un aumentato rischio di malattie infettive. © maxim ibragimov/shutterstock.com © Pixel-Shot/shutterstock.com
vitamina E (67%), calcio (66%) e ferro (65%). Più della metà delle persone, inoltre, consumava livelli inadeguati di riboflavina, folato e vitamine C e B6. Un poco meglio è andata con la niacina, assunta ad un livello maggiormente vicino alla sufficienza con solo il 22% della popolazione globale che ne assumeva livelli inadeguati, seguita da tiamina (30%) e selenio (37%). Sussistono poi delle differenze di genere: ad esempio le donne più che gli uomini hanno assunzioni insufficienti riguardo a iodio, vitamina B12, ferro e selenio all’interno degli stessi gruppi di età e paesi. Al contrario, più uomini avevano livelli inadeguati di calcio, niacina, tiamina, zinco, magnesio e vitamine A, C e B6 rispetto alle donne. Infine, vanno considerati anche fattori anagrafici e geografici: un altro dato rilevante è quello che riguarda i giovani dai dieci ai 30 anni maggiormente a rischio di carenze di calcio, soprattutto in Asia meridionale e orientale e nell’Africa subsahariana.
Una dieta adeguata dal punto di vista quantitativo e qualitativo non può prescindere dall’apporto dei micronutrienti. Sia questi ultimi sia i macronutrienti, svolgono funzioni estremamente importanti nel nostro organismo, per esempio per il funzionamento del sistema immunitario e di quello riproduttivo. Determinante diventa quindi l’alimentazione: le vitamine sono presenti in concentrazioni generalmente più elevate nei cibi di origine vegetale (frutta, verdura, legumi, cereali), anche se alcuni di questi micronutrienti si ritrovano pure nell’acqua e in altri alimenti di origine animale come la vitamina B12. Consumare molti vegetali e variare quanto più possibile i tipi di alimenti ad alto contenuto in micronutrienti è quanto serve per evitare deficit. Una dieta equilibrata permette inoltre di prevenire diverse forme di malattie, tra le quali il cancro oppure disturbi cardiaci o cardiovascolari. Per la maggior parte delle vitamine è stato stabilito un apporto dietetico raccomandato (Recommended Dietary Allowance, RDA). E per alcune vitamine è stato stabilito un limite superiore considerato sicuro (livello massimo di apporto tollerabile). Un apporto superiore a questo limite aumenta il rischio di effetti nocivi (tossicità). Equilibrio, insomma, è la parola d’ordine. Secondo gli esperti, per affrontare in maniera decisa il problema della carenza di vitamine bisogna migliorare anche dal punto di vista della comunicazione. Solo affrontando di petto la questione, sarà possibile ottenere risultati a stretto giro.
Lavori precedenti avevano dimostrato, in particolare, che la carenza di vitamina B6 provoca aberrazioni cromosomiche in cellule di Drosophila e umane, suggerendo che l’instabilità del genoma potrebbe correlare la mancanza di questa vitamina al cancro. Per indagare i meccanismi alla base di questo legame, i ricercatori dei Dipartimenti di Biologia e Biotecnologie e di Scienze Biochimiche della Sapienza e del Laboratorio di Neurobiologia Cellulare della Fondazione Santa Lucia di Roma, hanno eseguito esperimenti in vivo su esemplari di Drosophila riuscendo a dimostrare che la deficienza della vitamina B6 è in grado di trasformare tumori benigni che esprimono l’oncogene RasV12 (un gene legato alla formazione di neoplasie) in forme che producono metastasi. © sizsus art/shutterstock.com
Il ruolo delle vitamine nel cancro e le eventuali relazioni di causa ed effetto sono oggetto di dibattito scientifico e di numerosi studi. Una nuova ricerca coordinata dalla Sapienza e dalla Fondazione Santa Lucia è riuscita a dimostrare l’esistenza di un legame specifico tra la carenza di vitamina B6 e l’insorgenza di tumori maligni. Lo studio, pubblicato sulla rivista Cell Death & Disease, ha utilizzato come modello sperimentale Drosophila melanogaster, il comune moscerino della frutta, e ha fornito risultati sorprendenti: la carenza di vitamina B6 ha trasformato i tumori da benigni a maligni, provando per la prima volta in vivo la correlazione tra la deficienza di vitamina B6, il danno genomico e lo stress ossidativo nelle cellule tumorali. Come sostengono gli autori nello studio, all’interno del delicato equilibrio cellulare può bastare la scarsità di alcuni micronutrienti, come le vitamine, a causare danni al DNA e aberrazioni cromosomiche con la comparsa di diverse forme tumorali. Lavori precedenti avevano dimostrato, in particolare, che la carenza di vitamina B6 provoca aberrazioni cromosomiche in cellule di Drosophila e umane, suggerendo che l’instabilità del genoma potrebbe correlare la mancanza di questa vitamina al cancro. Per indagare i meccanismi alla base di questo legame, i ricercatori dei Dipartimenti di Biologia e Biotecnologie e di Scienze Biochimiche della Sapienza e del Laboratorio di Neurobiologia Cellulare della Fondazione Santa Lucia di Roma, hanno eseguito esperimenti in vivo su esemplari di Drosophila riuscendo a dimostrare che la deficienza della vitamina B6 è in grado di trasformare tumori benigni che esprimono l’oncogene RasV12 (un gene legato alla formazione di neoplasie) in forme che producono metastasi. Altre verifiche sperimentali hanno mostrato anche che la supplementazione di vitamina B6 ha ridotto lo sviluppo dei tumori.
I ricercatori hanno ottenuto i loro risultati attraverso opportuni incroci genetici che hanno consentito loro di ottenere larve di Drosophila che esprimessero contemporaneamente l’oncogene Ras, che provoca tumori benigni, e una proteina fluorescente verde in modo da poter seguire agevolmente le masse tumorali e le eventuali metastasi generatesi dal tumore primario. Tali larve, trattate con uno specifico inibitore della vitamina B6 per ridurne la concentrazione, sono state poi esaminate per valutare gli effetti di tale deficienza sul fenotipo tumorale.
Le vitamine fanno parte dei micronutrienti, elementi che seppur necessari in quantità inferiore rispetto ai macronutrienti (carboidrati, proteine e lipidi) svolgono funzioni fondamentali nel nostro organismo. Tra i loro compiti hanno quelli di regolare importanti vie metaboliche dell’organismo e mantenere l’integrità strutturale delle cellule. Come riporta l’Istituto Superiore di Sanità, la vitamina B6, nota anche come piridossina, è una vitamina idrosolubile che non può essere accumulata nell’organismo e quindi va introdotta giornalmente con il cibo. Gli alimenti che la contengono sono numerosi e includono carne, pesce, cereali, uova, latte, legumi, patate, frutta secca. Una carenza primaria di questa vitamina è quindi rara nei Paesi sviluppati. Tuttavia, una mancanza di vitamina B6 può svilupparsi come effetto secondario di diverse patologie comuni, tra cui diabete, celiachia e sindrome intestinale; è inoltre una condizione spesso associata alla gravidanza e può avere origine come effetto collaterale di molti farmaci comuni, tra cui alcuni antibiotici. Pertanto i risultati dello studio suggeriscono l’importanza di valutare, in tutti quei contesti in cui la vitamina B6 è ridotta, l’integrità del genoma come biomarcatore predittivo. Divulgare l’impatto che ha la dieta sui tumori, è in ogni caso fondamentale anche per incoraggiare la prevenzione. Gli autori evidenziano che sebbene molti micronutrienti siano potenziali candidati a favorire il cancro a causa delle loro proprietà funzionali e biochimiche, la definizione di una precisa relazione causa-effetto tra dieta e cancro è difficile da ottenere. Ricorrere all’uso di modelli animali può consentire non solo di stabilire più chiaramente l’eventuale esistenza di queste relazioni, ma anche di identificare i meccanismi molecolari sottostanti. Tra i modelli animali utilizzati per le ricerche sul cancro, il comune moscerino della frutta sta emergendo come una risorsa preziosa per studiare la biologia della malattia e le vie metaboliche coinvolte, poiché offre un prezioso kit di strumenti con vari vantaggi, tra cui un’elevata conservazione genetica delle principali vie metaboliche e tumorali e una risposta ai farmaci simile a quella dei mammiferi. Inoltre, i moscerini della frutta sono facili da manipolare geneticamente e hanno una ridondanza genetica limitata. Gli autori ritengono che l’insetto potrà essere utilizzato in modo simile anche in futuro per studiare l’impatto della carenza di altri micronutrienti nei processi di formazione e metastatizzazione dei tumori. (S. B.).
LA CARENZA DI VITAMINA B6 PUÒ TRASFORMARE I TUMORI
BENIGNI IN FORME MALIGNE
La scoperta pubblicato sulla rivista Cell Death & Disease, ha provato la correlazione tra la deficienza di vitamina B6, il danno genomico e lo stress ossidativo nelle cellule tumorali
MAPPATURA DEGLI I-MOTIFS NUOVE STRUTTURE DEL DNA PER TERAPIE ANTITUMORALI E ANTIVIRALI
La scoperta degli i-Motifs apre nuove strade nella ricerca di farmaci innovativi contro tumori e infezioni virali
Negli ultimi anni, la comprensione della struttura del DNA si è notevolmente arricchita grazie alla scoperta di configurazioni alternative alla tradizionale doppia elica, tra cui gli i-motifs. Gli i-motifs sono nodi temporanei costituiti da quattro filamenti di DNA che si formano in specifiche condizioni cellulari, come durante la replicazione o la trascrizione del DNA. Questi nodi si formano tipicamente in regioni del DNA ricche di citosina e si stabilizzano in condizioni acide, che possono verificarsi temporaneamente nelle cellule durante determinati processi biologici. La loro natura transitoria ha reso difficile lo studio approfondito di queste strutture fino al 2018, quando un team di ricerca guidato da Daniel Christ dell’Istituto Garvan di Sydney, Australia, ha sviluppato una molecola capace di riconoscere e legarsi selettivamente a questi nodi, permettendo di evidenziarli e studiarli in modo dettagliato all’interno del genoma umano.
Il recente studio, pubblicato su EMBO Journal e coordinato da Daniel Christ con il contributo dei ricercatori italiani Sara Richter, Irene Zanin ed Emanuela Ruggiero dell’Università di Padova, ha mappato circa 50.000 i-motifs nel DNA umano. Questa mappatura rappresenta un passo fondamentale per studiare il ruolo di queste strutture nelle patologie umane, aprendo la strada a nuove prospettive terapeutiche. Gli i-motifs si formano in momenti specifici dell’attività cellulare e la loro presenza potrebbe influenzare l’accessibilità del DNA alle proteine coinvolte nella trascrizione, suggerendo un possibile ruolo nella regolazione genica e nella progressione di patologie complesse come il cancro o le infezioni virali.
Inoltre, scoperta e la mappatura degli i-motifs nel genoma umano offrono una nuova finestra per comprendere i meccanismi molecolari che regolano l’attività cellulare. Uno degli aspetti più promettenti di questa ricerca è la possibilità di identificare nuovi bersagli per lo sviluppo di farmaci. Nei tumori, dove la regolazione genica è spesso compromessa, gli i-motifs potrebbero contribuire alla deregolazione dei geni oncogeni o soppressori del tumore. Questi nodi potrebbero alterare il modo in cui le proteine regolatrici si legano al DNA, influenzando negativamente il controllo della crescita cellulare e contribuendo alla progressione tumorale. Identificare composti in grado di modulare o stabilizzare questi nodi potrebbe rappresentare una strategia terapeutica innovativa, capace di ripristinare una corretta
Il recente studio, pubblicato su EMBO Journal e coordinato da Daniel Christ con il contributo dei ricercatori italiani Sara Richter, Irene Zanin ed Emanuela Ruggiero dell’Università di Padova, ha mappato circa 50.000 i-motifs nel DNA umano. Questa mappatura rappresenta un passo fondamentale per studiare il ruolo di queste strutture nelle patologie umane, aprendo la strada a nuove prospettive terapeutiche.
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regolazione genica nelle cellule malate. Analogamente, nelle infezioni virali, alcuni virus potrebbero utilizzare gli i-motifs per attivare la propria replicazione. Per esempio, alcune condizioni cellulari indotte dall’infezione potrebbero favorire la formazione di questi nodi, permettendo al virus di manipolare il DNA cellulare per facilitare la propria propagazione. Inibire o modificare questi nodi potrebbe rappresentare un approccio innovativo per prevenire la replicazione virale, offrendo nuove possibilità per trattamenti antivirali mirati che potrebbero evitare i meccanismi tradizionali di resistenza ai farmaci.
Nonostante i significativi progressi ottenuti, lo studio degli i-motifs è ancora nelle fasi iniziali. La loro natura instabile e la loro formazione dipendente da specifiche condizioni cellulari rendono la loro osservazione particolarmente complessa. Emanuela Ruggiero, una delle ricercatrici coinvolte nello studio, sottolinea l’importanza di identificare in modo sistematico tutte le strutture di i-motifs presenti nel genoma umano e comprendere come interagiscono con altre componenti cellulari, come proteine regolatrici e molecole di RNA. Questo richiederà lo sviluppo di tecniche avanzate per osservare gli i-motifs direttamente nelle cellule e studiarne la dinamica in tempo reale, in modo da poter mappare esattamente quando e dove queste strutture si formano, e in che modo influenzano i processi cellulari.
Alcuni studi preliminari suggeriscono che potrebbero svolgere un ruolo chiave nelle interazioni tra DNA e proteine, influenzando la capacità del DNA di essere letto e trascritto correttamente. Comprendere queste dinamiche potrebbe non solo far luce su nuovi aspetti della biologia del DNA, ma anche indicare nuove vie per l’intervento terapeutico, mirate a modulare l’attività genica nei contesti patologici.
Gli i-motifs rappresentano una delle strutture più complesse e meno comprese del DNA umano. Grazie alla possibilità di identificare nodi specifici associati a determinate patologie e allo sviluppo di molecole capaci di interagire selettivamente con essi, si aprono nuove prospettive per la medicina di precisione. Il lavoro del team internazionale guidato da Daniel Christ, arricchito dal contributo dei ricercatori italiani, rappresenta un passo importante verso una comprensione più profonda del DNA e delle sue strutture alternative, evidenziando la loro potenziale importanza per la biologia e la medicina del futuro.
SCOPERTA LA CHIAVE PER REALIZZARE FARMACI PIÙ
SPECIFICI CONTRO IL CANCRO
Le strutture troppo simili di alcuni enzimi causano complicazioni nel trattamento del cancro con gli inibitori oggi disponibili. La scoperta apre a cure più precise ed efficaci
Alcune terapie antitumorali causano gravi effetti collaterali perché non funzionano in modo sufficientemente preciso. Un team di ricercatori dell’Università tedesca di Würzburg ha ora scoperto uno dei motivi che rende difficile utilizzare alcuni inibitori attualmente disponibili per il trattamento del cancro ed è al lavoro per migliorare l’efficacia delle cure. Lo sviluppo del cancro è guidato dall’attività anomala di proteine, dette oncoproteine, che accompagnano la crescita e la proliferazione cellulare, e dalla perdita di funzione di proteine che frenano la crescita cellulare, le cosiddette proteine soppressori del tumore. Le variazioni nell’abbondanza di tali proteine derivano da cambiamenti nei tassi di sintesi o di degradazione. Di conseguenza, le alterazioni dei meccanismi di degradazione delle proteine nelle cellule svolgono un ruolo centrale nello sviluppo e nel mantenimento dei tumori. Il turnover di singole proteine, comprese le oncoproteine e le proteine soppressori del tumore, è controllato dal sistema ubiquitina/ proteasoma. Durante lo sviluppo del tumore si verificano molteplici alterazioni del sistema dell’ubiquitina che determinano la formazione del tumore. L’obiettivo del gruppo di ricerca tedesco che ha pubblicato il suo studio sulla rivista Embo Reports è stato identificare quali sono i cambiamenti critici nel sistema dell’ubi-
quitina che guidano la tumorigenesi e trovare modi per indirizzare tale sistema per la terapia del cancro.
L’attenzione dei ricercatori si è rivolta in particolare agli enzimi USP28 e USP25 che possono legarsi all’ubiquitina, una piccola proteina coinvolta in quasi tutti i processi cellulari del nostro corpo. Questi enzimi svolgono ruoli critici nei processi cellulari, ma le loro strutture simili comportano difficoltà nel trattamento del cancro con gli inibitori attualmente disponibili. Obiettivo del lavoro dei ricercatori di Würzburg è riuscire a migliorare questi inibitori per colpire le cellule cancerose in modo più specifico e ridurre gli effetti collaterali.
L’ubiquitina è presente in pratica ovunque nel nostro corpo, dove controlla la funzione e la degradazione della maggior parte delle proteine e media i segnali che regolano la divisione cellulare. «Sappiamo che gli errori nel sistema dell’ubiquitina possono contribuire allo sviluppo del cancro», afferma la professoressa Caroline Kisker, autore responsabile dello studio. «Tuttavia – prosegue la ricercatrice - non è ancora chiaro il ruolo che la proteina svolge nel dettaglio».
Come si legge nello studio, quando l’ubiquitina si lega ad altre proteine, queste vengono spesso rilasciate per essere degradate. Tuttavia, questo legame può essere invertito da speciali enzimi. L’enzima USP28, ad esempio, è noto
per stabilizzare proteine importanti per la crescita e la divisione cellulare, che possono avere un ruolo importante anche nella crescita del cancro. Per ridurre la stabilità di queste proteine e quindi impedire la crescita del cancro, sono stati sviluppati degli inibitori di USP28. Questi inibitori, che costituiscono la base di molti farmaci antitumorali attualmente in fase di sviluppo, interrompono la divisione cellulare bloccando l’enzima USP28. Il problema è che spesso non agiscono solo contro USP28 ma anche contro USP25, un enzima strettamente correlato che separa l’ubiquitina da altre proteine e considerato una proteina chiave del sistema immunitario. Di conseguenza lo sviluppo degli inibitori dell’USP28 in farmaci utilizzabili in clinica è molto difficile a causa dei prevedibili effetti collaterali, che vanno da problemi gastrointestinali a danni ai nervi e persino a malattie autoimmuni.
I ricercatori dell’Università di Würzburg hanno chiarito perché gli inibitori non colpiscono solo l’USP28, ma anche l’USP25. «Apparentemente - spiega Caroline Kisker - c’è un alto rischio di confusione tra l’USP28 e l’USP25». «Siamo stati in grado - prosegue
L’ubiquitina è presente in pratica ovunque nel nostro corpo, dove controlla la funzione e la degradazione della maggior parte delle proteine e media i segnali che regolano la divisione cellulare. © Juan Gaertner/shutterstock.com
la ricercatrice - di dimostrare che i due enzimi sono molto simili o addirittura identici in molte aree, compreso il punto preciso in cui si legano gli inibitori».
Nell’ambito della ricerca, il team di biochimici ha utilizzato la cristallografia a raggi X per analizzare la struttura di USP28 in combinazione con i tre inibitori “AZ1”, “Vismodegib” e “FT206”, determinando così il sito di legame spaziale. Ulteriori esperimenti biochimici su USP25 hanno dimostrato che i siti in cui gli inibitori si legano a USP28 e USP25 sono identici. «Gli inibitori non sono quindi in grado di distinguere il sito dove si legano. Questo - conclude Kisker -spiega l’effetto non specifico».
Il prossimo obiettivo principale dei ricercatori di Würzburg è utilizzare le nuove scoperte per sviluppare farmaci più specifici e con minori effetti collaterali. «Grazie ai dati di biologia strutturale che abbiamo ottenuto possiamo provare a modificare gli inibitori esistenti in modo che funzionino solo contro USP25 o USP28», dice Kisker. «Vogliamo anche cercare inibitori che si leghino a siti enzimatici meno simili. In questo modo le molecole avranno una maggiore precisione di targeting».
PER GLI UOMINI SCATTA
L’ALLARME CANCRO
Uno studio australiano mette in guardia la popolazione
maschile: previsto un boom di casi e decessi per il 2050
No, proprio non arrivano buone notizie per gli uomini in merito alla sempre più crescente diffusione del cancro. L’allarme è stato lanciato dagli scienziati australiani dell’Università del Queensland, secondo cui, in uno studio pubblicato sulla rivista Cancer, si prevede che il numero di casi di cancro in tutto il mondo aumenterà da 10,3 milioni nel 2022 a 19 milioni nel 2050, con un incremento addirittura dell’84%.
E non solo, purtroppo: anche i decessi subiranno un’impennata. Il rischio, infatti, è di passare da 5,4 milio-
ni a 10,5 milioni: un aumento del 93%, con un incremento più che raddoppiato tra gli uomini di età pari o superiore a 65 anni e per i paesi con indice di sviluppo basso e medio. Per arrivare a queste conclusioni il team di esperti guidato da Habtamu Mellie Bizuayehu ha analizzato a fondo analizzato le informazioni del 2022 del Global Cancer Observatory, indagine che comprende le stime dei tassi di insorgenza e decesso per cancro relative a 185 paesi in tutto il mondo.
Per lo studio in questione sono stati valutati 30 tipi di cancro e i ricercatori hanno scoperto notevoli disparità le-
gate all’età e alla situazione economica dei vari paesi esaminati, disparità che si prevede aumenteranno in maniera considerevole entro il 2050. Nel dettaglio, gli uomini sono più a rischio rispetto alle donne con ogni probabilità a causa di diversi fattori: dalla minore partecipazione alle attività di screening e prevenzione a un maggiore consumo di alcol e fumo.
La ricerca, dunque, evidenzia l’urgente necessità di affrontare queste tendenze con l’obiettivo di garantire equità nella prevenzione e nella cura del cancro tra gli uomini in ogni angolo del pianeta, soprattutto nelle zone considerate più a rischio. In concreto, com’è possibile intervenire per invertire il trend negativo? «Una collaborazione nazionale e internazionale, così come un approccio multisettoriale coordinato, si rivelano essenziali per ottenere risultato importanti e invertire l’aumento previsto dei casi di cancro entro il 2050 - ha spiegato l’autore principale dello studio Habtamu Mellie Bizuayehu, dell’Università australiana del Queensland -. L’implementazione e l’espansione della copertura sanitaria universale e l’espansione delle infrastrutture sanitarie e l’istituzione di scuole di medicina finanziate con fondi pubblici e borse di studio per la formazione del personale medico e sanitario pubblico possono migliorare l’assistenza del cancro».
Bizuayehu rimarca anche la necessità di intervenire in maniera efficace per migliorare e facilitare l’accesso e l’utilizzo delle opzioni di prevenzione, screening, diagnosi e trattamento del cancro in quei paesi con un indice di sviluppo umano più basso. Un mission senza dubbio impegnativa, ma per cui non c’è più tempo da perdere. Le stime dello studio suonano come un campanello d’allarme: nell’arco di soli vent’anni si rischia di raddoppiare il numero dei decessi e continuare ad avere gli occhi bendati sarebbe un autogol clamoroso. Un autogol che non possiamo e dobbiamo permetterci. (D. E.).
Calato il sipario con un velo di inevitabile malinconia sulle lunghe vacanze estive, circa sette milioni di bambini e adolescenti italiani hanno fatto ritorno in classe. Riprendere l’attività scolastica, però, non è una passeggiata come potrebbe sembrare. O meglio, non lo è per tutti. Come evidenziato dall’Istituto Superiore di Sanità, dopo tre mesi lontano dai banchi non è affatto facile abituarsi di nuovo ai ritmi della scuola e si finisce per correre il rischio di pagarne lo scotto. Ecco, dunque, un vademecum che l’Iss ha realizzato in collaborazione con Claudia Mortali, primo ricercatore del Centro nazionale Dipendenze e Doping, e Marco Silano, dirigente di ricerca e Direttore del Dipartimento malattie cardiovascolari, dismetaboliche e dell’invecchiamento dell’Iss.
Una serie di consigli da seguire per evitare che i primi giorni di scuola si rivelino stressanti e faticosi, con ripercussioni sullo stato di salute. Innanzitutto, bisogna regolare il sonno. Dormire bene e il giusto, infatti, aiuta ad affrontare al meglio la giornata successiva, perché il corpo si ricarica delle energie spese durante il periodo di veglia e, fattore ancora più importante, favorisce l’apprendimento e la memorizzazione. Secondo gli esperti, chi ha tra i 6 e i 13 anni deve concedersi un sonno che va dalle nove alle 11 ore, mentre i ragazzi tra i 14 e 17 anni necessitano di dormire tra le otto e le dieci ore. In tal senso, diventa prezioso l’aiuto dei genitori, chiamati a fornire regole chiare ai propri figli in merito alla gestione dei ritmi quotidiani.
Altro suggerimento essenziale riguarda l’alimentazione, che deve essere corretta. A partire dalla colazione, fondamentale. Guai a saltarla, per alcun motivo. Purtroppo, però, questo è un errore che commette il 26,8% degli adolescenti, da quanto si evince dal terzo rapporto tematico
RITORNO A SCUOLA
ECCO
IL VADEMECUM
Sette milioni di studenti sono tornati in classe: dalle ore di sonno a cosa mangiare, i consigli degli esperti
della Sorveglianza HBSC-Italia 2022. La colazione è invece il pasto più importante, perché interrompe il digiuno notturno, che è anche il più lungo, per cui ha un impatto forte sul metabolismo. E in una buona colazione non dovrebbero mai mancare carboidrati integrali come pane integrale o fette biscottate integrali, in quanto alimenti a lungo rilascio energetico e pertanto in grado di fornire un’energia più duratura rispetto ad altri prodotti. Estendendo il discorso anche al pranzo e alla cena, la raccomandazione è di seguire una dieta bilanciata nell’arco delle 24 ore e di non saltare
mai alcun pasto. Quello che ricopre un ruolo centrale dal punto di vista della quantità è il pranzo e non la cena. Agli studenti che fanno l’orario prolungato si consiglia di affidarsi al pranzo delle mense scolastiche, dal momento che è strutturato secondo le raccomandazioni del ministero della Salute e quindi equilibrato nelle dosi e nella composizione. Infine gli spuntini, uno a metà mattina e l’altro a metà pomeriggio. Vanno evitati cibi ultraprocessati ricchi di sale, zuccheri e grassi saturi come merendine e patatine in sacchetto per favorire frutta fresca di stagione. (D. E.).
Recenti ricerche condotte dai Gladstone Institutes e dall’Università della California e San Francisco hanno rivelato il ruolo cruciale di una proteina del sangue, la fibrina, nella formazione di coaguli che causano danni cerebrali a diversi organi durante l’infezione da Covid-19. Questo studio, pubblicato sulla rivista Nature, rappresenta una svolta nella comprensione dei meccanismi patogenetici dell’infezione da SARS-CoV-2, indicando che i coaguli non sono semplicemente una conseguenza della tempesta infiammatoria provocata dal virus, ma un effetto primario dell’infezione stessa. Inoltre, questa scoperta suggerisce che l’alterata coagulazione potrebbe ridurre l’efficacia del sistema immunitario nell’eliminare il virus, complicando ulteriormente il quadro clinico.
La fibrina è una proteina fondamentale per la coagulazione del sangue; normalmente agisce formando una rete che blocca il flusso sanguigno nelle ferite, prevenendo la perdita di sangue e permettendo la guarigione. Tuttavia, nel contesto del Covid-19, la fibrina ha dimostrato di avere un ruolo tossico, contribuendo a un’infiammazione sistemica che può avere gravi conseguenze, inclusa la neurodegenerazione.
Secondo i risultati dello studio, durante l’infezione da SARS-CoV-2, la fibrina diventa ancora più pericolosa perché si lega sia al virus
che alle cellule immunitarie, creando coaguli che scatenano infiammazione, fibrosi e perdita neuronale. Gli esperimenti hanno mostrato che questi coaguli di fibrina portano all’attivazione dannosa della microglia, le cellule immunitarie del cervello che sono implicate nei processi neurodegenerativi. Questo fenomeno potrebbe essere direttamente correlato ai sintomi neurologici del Covid-19 e del Long Covid,
Studio Usa: svolta nella comprensione dei meccanismi patogenetici dell’infezione da SARS-CoV-2: sviluppato anticorpo monoclonale
SCOPERTO IL RUOLO DEI COAGULI
DANNO CEREBRALE E SISTEMICO
come la cosiddetta “nebbia mentale” e le difficoltà di concentrazione. Tradizionalmente, si è pensato che i coaguli di sangue e la coagulopatia osservati nei pazienti Covid-19 fossero semplicemente il risultato di una risposta infiammatoria fuori controllo, nota come tempesta citochinica, in cui il sistema immunitario risponde in modo eccessivo al virus. Tuttavia, i risultati di questo studio suggeriscono che la formazione
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I risultati di questo studio aprono nuove strade per la comprensione delle complicanze del Covid-19. La scoperta che la fibrina contribuisce direttamente alla patogenesi del Covid-19, e non solo come effetto collaterale, cambia radicalmente il modo in cui il virus viene considerato. La possibilità di intervenire su questo meccanismo con un anticorpo specifico offre una nuova speranza per i pazienti, in particolare quelli affetti da Long Covid, che presentano sintomi persistenti e debilitanti.
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dei coaguli è un effetto primario dell’infezione da SARS-CoV-2 e non solo una conseguenza secondaria della risposta infiammatoria. Gli autori hanno dimostrato che, una volta che il virus infetta l’organismo, si innesca un ciclo vizioso in cui la fibrina contribuisce ad aumentare l’infiammazione, che a sua volta amplifica la formazione di coaguli. Questa interazione tra il virus, la fibrina e le cellule immunitarie porta a un aumento significativo del danno tissutale, sia nei polmoni che nel cervello.
Uno degli aspetti più innovativi della ricerca è stata la scoperta del ruolo della fibrina nell’attivazione della microglia tossica. La microglia è una popolazione di cellule immunitarie residenti nel cervello, essenziali per la difesa contro le infezioni e per la riparazione del tessuto neuronale. Tuttavia, la sua attivazione incontrollata può portare a neuroinfiammazione e danno neuronale, contribuendo a malattie neurodegenerative.
In risposta a queste scoperte, il laboratorio di Katerina Akassoglou, direttrice del Center for Neurovascular Brain Immunology presso i Gladstone Institutes, ha sviluppato un anticorpo monoclonale che agisce specificamente contro le proprietà infiammatorie della fibrina senza interferire con la sua funzione coagulativa. Questo anticorpo blocca l’interazione della fibrina con le cellule immunitarie e il virus SARS-CoV-2. L’immunoterapia con questo anticorpo ha portato a una riduzione significativa dell’infiammazione, della fibrosi e della presenza di proteine virali nei polmoni, migliorando i tassi di sopravvivenza. Nel cervello, l’anticorpo ha ridotto l’attivazione dannosa della microglia e ha aumentato la sopravvivenza dei neuroni, suggerendo che potrebbe rappresentare un approccio terapeutico innovativo per prevenire e trattare le complicanze neurologiche del Covid-19.
Attualmente, una versione umanizzata dell’anticorpo è già in fase di sperimentazione clinica di fase 1. Questi studi valuteranno la sicurezza e l’efficacia del trattamento nell’uomo, con l’obiettivo di fornire una nuova arma contro le gravi complicanze del Covid-19. Se i risultati dei test clinici saranno positivi, l’anticorpo potrà diventare parte integrante del trattamento dei pazienti con infezione da SARS-CoV-2, aiutando a ridurre il rischio di danno organico e migliorando significativamente la qualità della vita. (C. P.).
Ricordate la storia di Matusalemme che - secondo leggenda - visse la bellezza di 969 anni diventando così l’uomo più longevo tra coloro che compaiono nella Bibbia? Oggi non arriviamo certo a tanto, ma nel corso del tempo il progresso ha consentito un aumento significativo della vita media di un essere umano e nello stesso tempo di far luce sul processo di invecchiamento. La Scuola di Medicina dell’Università americana di Stanford ha realizzato una ricerca con l’obiettivo di delineare in maniera più nitida come avviene l’invecchiamento, individuando due momenti precisi etichettabili come picchi con drastici mutamenti a livello biomolecolare. In pratica ci sarebbero due scalini-chiave: il primo verso i 44 anni, il secondo verso i 60. Secondo gli esperti, in queste due età si registrano importanti mutamenti a livello biomolecolare, con l’aumento o la diminuzione di migliaia di molecole e microrganismi presenti nel corpo in maniera drastica. Ma come è stata condotta la ricerca? Ad occuparsene è stato lo scienziato Xiaotao Shen, a capo del team. Lo scopo è stato quello di capire meglio le dinamiche biologiche
L’INVECCHIAMENTO E I SUOI PICCHI COSA SUCCEDE AL CORPO UMANO
Da uno studio condotto dalla Scuola di Medicina dell’Università americana di Stanford si evince che non si invecchia in maniera regolare ma in due momenti precisi
dell’invecchiamento. I ricercatori americani e di Singapore hanno prelevato campioni di sangue, feci e batteri da pelle, bocca e naso dalle persone che si sono rese disponibili ai test (tutte residenti in California).
Così facendo è stato possibile monitorare ogni singolo cambiamento in relazione all’età in più di 135mila molecole e microbi diversi: migliaia di questi subiscono notevoli mutamenti nel corso della
Per quanto riguarda l’Italia gli uomini vivono mediamente 81,1 anni, un po’ meno delle donne per le quali la vita media si aggira attorno agli 85,2 anni. Ciò significa che ci sono più possibilità di invecchiare, fenomeno naturale e continuo anche se non lineare come potremmo immaginare. Questo studio, che è stato pubblicato sulla rivista Nature aging, ha analizzato i dati di 108 volontari di età compresa tra i 25 e i 75 anni. «In tutto sono stati raccolti 5.405 campioni biologici e sono state acquisite 135.239 caratteristiche biologiche, per un totale di oltre 246 miliardi di punti dati», è quanto si legge nello studio.
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vita, concentrati soprattutto in determinati momenti. Ciò che ha colpito in particolar modo i ricercatori è che solamente il 6,6% di molecole, ossia una piccolissima parte, ha mostrato dei cambiamenti considerabili lineari nel corso dell’invecchiamento umano. Il primo step determinante, intorno ai 44 anni: le molecole più coinvolte sono quelle legate al metabolismo di alcol, grassi e caffeina oltre a quelle associate a disturbi cardiovascolari. Leggermente diversa la situazione circa 15 anni dopo, quando da attenzionare è il metabolismo di carboidrati e caffeina, la regolazione immunitaria, la funzione dei reni e anche in questo caso le malattie cardiovascolari. Non ci sono spiegazioni all’interno dello studio sui picchi di quest’ultime oltre che delle malattie neurologiche, soltanto una presa di coscienza. Se la seconda età era per certi versi pronosticabile, differente è invece il gradino dei 44 anni, una soglia più sorprendente per i ricercatori anche perché non collegata a possibili effetti indesiderati della menopausa tant’è che riguarda pure gli uomini. Ma che cosa succede di preciso a 44 anni? Lo studio mostra che le cellule muscolari e cutanee impiegano più tempo a recuperare dopo l’esercizio fisico o a rigenerarsi. Ciò può coincidere con la comparsa delle prime rughe, dei capelli grigi e un certo calo di energia. A 60 anni invece è riscontrabile una disfunzione immunitaria riferibile alle attività renali e cardiache oltre che, come già accennato, al metabolismo dei carboidrati. «È intorno a questa età che alcune malattie, come il diabete di tipo 2, compaiono più frequentemente a causa della maggiore difficoltà delle nostre cellule a utilizzare i carboidrati», ha dichiarato a Le Figaro Eric Gilson, professore presso la Facoltà di Medicina di Nizza e fondatore dell’Istituto di ricerca sul cancro e l’invecchiamento della città. «Apartire dai 60 anni che si assiste a un aumento della percentuale di tumori, patologie le cui cause sono complesse ma la cui comparsa è favorita da un calo dell’efficacia del nostro sistema immunitario nel proteggerci». Non tutti, però, hanno dato per buona questa ricerca così come i suoi esiti. Tra i limiti evidenziati un numero non sufficiente di persone testate provenienti tutte, peraltro, dalla stessa area geografica. D’altro canto, gli stessi autori hanno riconosciuto l’esigenza di «ulteriori ricerche per convalidare ed estendere questi risultati, incorporando coorti più ampie per cogliere l’intera complessità dell’invecchiamento». Un lavoro utile, ma incompleto. (D.E.).
CELIACHIA: NUOVA LUCE SUL MECCANISMO CHE LA SCATENA
Utilizzando un organoide dell’epitelio intestinale è stato dimostrato, per la prima volta che le cellule di questo tessuto sono cruciali nell’attivazione del sistema immunitario
di Sara Bovio
Un nuovo studio guidato da medici e ricercatori della canadese McMaster University ha aggiunto un tassello importante nella comprensione della celiachia, disturbo molto complesso che colpisce circa l’1% della popolazione. La ricerca ha avuto come principale obiettivo quello di svelare come e dove inizia la reazione al glutine e trovare quindi un pezzo importante del puzzle per sviluppare nuovi trattamenti.
La celiachia è un’enteropatia infiammatoria permanente, con tratti di auto-immunità e interessamento sistemico, scatenata dall’ingestione di glutine in soggetti geneticamente predisposti. Nel corso degli ultimi 25 anni il tasso di insorgenza del disturbo è circa raddoppiato e ancora non esiste una cura. Si interviene solo sulla dieta evitando il glutine, una proteina contenuta nel grano, nella segale e nell’orzo che può scatenare, in chi è predisposto, una risposta infiammatoria cronica abnorme a livello della mucosa dell’intestino tenue, che determina la scomparsa dei villi intestinali, importanti per l’assorbimento dei nutrienti e l’infiltrazione di linfociti nella stessa mucosa. «L’unico modo per trattare la celiachia oggi è eliminare completamente il glutine dalla dieta. Questo è difficile da fare e gli esperti concordano sul fatto che una dieta priva di glutine è insufficiente», afferma Elena Verdu, autore del lavoro, professore di gastroenterologia e direttore del Farncombe Family Digestive Health Research Institute della McMaster. Inoltre se non è diagnosticata tempestivamente e trattata in modo adeguato, la celiachia può sviluppare importanti complicanze, irreversibili e resistenti al trattamento dietetico. Il team canadese ha portato a termine la sua ricerca in sei anni, lavorando in collaborazione con colleghi provenienti da Stati Uniti, Australia e Argentina. I risultati dello studio sono stati pubblicati sulla rivista Gastroenterology.
Come spiegano gli autori nello studio, il danneggiamento delle cellule epiteliali intestinali (IEC) è un segno distintivo della celiachia. Tuttavia, non era chiaro come questo danno attivasse la risposta immunitaria, e in particolare le cellule T, in modo dipendente dal glutine. In precedenza si pensava che la risposta infiammatoria al glutine avvenisse all’interno della parete intestinale e coinvolgesse esclusivamente le cellule immunitarie, mentre nel nuovo studio i ricercatori hanno dimostrato che il meccanismo è molto più complesso e coinvolge anche l’epitelio intestinale. Lo
Il danneggiamento delle cellule epiteliali intestinali (IEC) è un segno distintivo della celiachia. Tuttavia, non era chiaro come questo danno attivasse la risposta immunitaria, e in particolare le cellule T, in modo dipendente dal glutine. In precedenza si pensava che la risposta infiammatoria al glutine avvenisse all’interno della parete intestinale e coinvolgesse esclusivamente le cellule immunitarie, mentre nel nuovo studio i ricercatori hanno dimostrato che il meccanismo è molto più complesso e coinvolge anche l’epitelio intestinale.
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studio ha previsto l’utilizzo di cellule prelevate da pazienti celiaci e da topi geneticamente modificati e ha cercato di indagare le interazioni tra IEC e cellule T del glutine. Gli autori hanno potuto osservare che anche il rivestimento interno dell’intestino superiore, composto da una varietà di cellule che non fanno tipicamente parte del sistema immunitario, svolge un ruolo attivo nel dirigere la risposta infiammatoria al glutine.
Per l’indagine sono stati utilizzati biomateriali microscopici per creare in laboratorio un modello biologicamente funzionante dell’epitelio intestinale. L’organoide dell’epitelio ha permesso ai ricercatori di isolare gli effetti di specifiche molecole nelle cellule epiteliali delle persone affette da celiachia. Le reazioni sperimentali sono state così generate e osservate in condizioni controllate, un’opzione che non esiste negli ambienti intestinali estremamente complessi degli esseri viventi. «Questo ci ha permesso di circoscrivere la causa e l’effetto specifici e di dimostrare esattamente se e come avviene la reazione», afferma Tohid Didar, autore dell’articolo e professore associato presso la Scuola di Ingegneria Biomedica della McMaster. Gli autori hanno potuto individuare le molecole che fungono da “sentinella” e avvisano le cellule immunitarie della presenza di glutine e hanno potuto concludere definitivamente che l’epitelio svolge un ruolo cruciale nell’attivazione del sistema immunitario nella celiachia.
Il meccanismo scoperto dai ricercatori potrebbe portare anche alla possibilità di sviluppare nuovi farmaci utili a trattare la celiachia. «Individuare con precisione l’innesco della risposta immunitaria - dice Verdu - potrebbe stimolare la ricerca sulla somministrazione di medicinali per inibire questo ruolo appena scoperto dell’epitelio, utilizzando farmaci già in fase di sperimentazione clinica». Gli esperimenti dei ricercatori sono poi proseguiti facendo emergere dallo studio un altro dato significativo: dopo aver rilevato il glutine, l’epitelio invia segnali più forti alle cellule immunitarie se sono presenti anche agenti patogeni come per esempio Pseudomonas aeruginosa. «Questa scoperta ha grande importanza dal punto di vista preventivo perché significa che in futuro potrebbe essere possibile individuare l’agente patogeno in una persona a rischio di sviluppare la malattia e inibire le interazioni con il glutine e l’epitelio intestinale per prevenire la malattia» conclude Sara Rahmani, autrice principale del lavoro e dottoranda nei laboratori di Verdu e Didar.
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RIPROGRAMMAZIONE DEL FEGATO CON L’MRNA
Alcuni ricercatori americani stanno testando una terapia basata sull’mRna per riprogrammare gli organi malati
Qualsiasi operazione preveda un trapianto è ovviamente delicata e non priva di complicazioni successive. Tra i problemi che possono manifestarsi a seguito di un trapianto ci sono ad esempio le infezioni, o quello che viene chiamato “rigetto del trapianto”, cioè la risposta immunitaria del corpo nei confronti del nuovo organo riconosciuto come estraneo, fino ad arrivare perfino a complicanze neurologiche. noltre, non tutti i soggetti che necessitano di un nuovo organo sono in grado di affrontare queste opera -
zioni. La speranza di alcuni ricercatori americani della Pittsburgh University è però quella di cercare di ripristinare le funzioni dell’organo malato senza dover ricorrere a questi interventi. Alejandro Soto-Gutiérrez, professore del dipartimento di Patologia dell’ateneo statunitense, ha guidato il team di scienziati nello sviluppo di terapie basate sul ruolo dell’RNA messaggero, focalizzando l’attenzione dei suoi studi su un organo in particolare: il fegato. Un importante contributo alla ricerca è stato ottenuto grazie alla collaborazione con Ira Fox, chirurgo
della University of Pittsburgh Medical Center (UPCM) specializzato in trapianti. Andando alla ricerca dei fattori di trascrizione, le proteine che regolano la trascrizione dei geni contenuti nel DNA e potenzialmente legati alla rigenerazione degli organi danneggiati, i due scienziati hanno individuato, dal confronto tra i fegati dei pazienti sottoposti a trapianto e quelli dei donatori sani, otto fattori di trascrizione essenziali per lo sviluppo e il funzionamento dell’organo. In particolare, Soto-Gutiérrez e Fox hanno isolato un fattore chiamato HNF4A, che sembra regolare buona parte dell’espressione genica nelle cellule epatiche. Se nei fegati sani i livelli di HNF4A, così come quelli di altre proteine, erano elevati, in quelli cirrotici la proteina risultava quasi inesistente. La reintroduzione di questo fattore di trascrizione nelle cellule epatiche è possibile proprio grazie all’mRNA, che ha appunto il compito di trasportare le istruzioni per la produzione di proteine.
Attualmente Soto-Gutiérrez e il suo team hanno condotto esperimenti solo su topi e organi di persone che avevano ricevuto un trapianto, ma anche sui fegati umani destinati ad essere trapiantati. L’obiettivo ancor più ambizioso dei ricercatori dell’Università di Pittsburgh è tuttavia quello di utilizzare questa molecola per produrre proteine in grado perfino di “riparare” le cellule, nel caso specifico della ricerca le cellule epatiche, anche di altri organi danneggiati. Il team sta infatti lavorando per individuare questi fattori di trascrizione per il trattamento dei polmoni danneggiati da broncopneumopatia cronica ostruttiva e malattie renali croniche. Infine, è bene specificare come i risultati dello studio non sono ancora stati pubblicati su nessuna rivista scientifica, ma soprattutto come lo sviluppo clinico della nuova terapia, nonostante alcuni piccoli successi incoraggianti, richiederà ancora del tempo. (M. O.).
Le abitudini alimentari moderne rappresentano la causa di innumerevoli malattie per l’uomo, e composti antiossidanti come: fenoli, antocianine, carotenoidi e tocoferoli possono essere utilizzati come integratori avendo caratteristiche antiossidanti naturali.
Tra le specie vegetali importanti con elevate concentrazioni di derivati fitochimici c’è la bacca di Goji, infatti radici e foglie contengono ingredienti con una varietà di proprietà bioattive elevate.
2.1. Attività antiossidante
È stato dimostrato che le bacche di goji possiedono pro -
prietà antiossidanti, neutralizzano l’azione ossidativa dei radicali liberi e attivano meccanismi antiossidanti come un aumento dell’espressione del superossido dismutasi (SOD), del glutatione (GSH), della glutatione perossidasi (GPx), della catalasi (CAT) e dell’eritroide derivato 2-like 2 (Nrf2) di diversi enzimi antiossidanti e citoprotettivi. Gli estratti di L. barbarum, hanno mostrato il legame dei radicali anionici perossido e la successiva riduzione della loro attività.
L’effetto protettivo sull’inibizione della perossidazione lipidica da parte degli estratti di bacche di goji probabilmente è dovuto ai polifenoli. L’acido caffeico, ha potenti effetti antiossidanti, ma ha anche effetti antinfiammatori e antitumorali, e studi recenti hanno dimostrato che l’acido caffeico nella sua
PROPRIETÀ E BENEFICI
Estratto da “Goji Berry: Health Promoting Properties” di Prodromos Skenderidis Stefanos Leontopoulos Dimitrios Lampakis
di Carla Cimmino
Diversi studi hanno dimostrato che fattori genetici e ambientali regolano percorsi specifici, coinvolti nella segnalazione ormonale, nella segnalazione nutrizionale e nel rilevamento della segnalazione mitocondriale e ROS, e della sopravvivenza genomica. L’accumulo degli effetti dello stress ossidativo contribuisce al processo di invecchiamento, per questo motivo, molti dei modelli sperimentali di invecchiamento utilizzano l’immissione di D-galattosio nei tessuti per un periodo di 6-8 settimane come tossina per produrre radicali liberi.
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forma libera o coniugato ad altri gruppi, come l’acido chinico e gli zuccheri, ha un effetto protettivo contro il morbo di Alzheimer. Inoltre, l’estratto di etanolo (70% p / v ) di L. chinense protegge le cellule epatiche dai danni cellulari indotti dallo stress ossidativo rimuovendo i ROS intracellulari, il recupero di SOD, l’azione di CAT e glutatione, riducendo l’ossidazione dei lipidi, la distruzione del DNA e i valori carbonilici delle proteine. In uno studio, condotto da Changbo et al. è stato dimostrato che la somministrazione di LBP nei topi può ridurre lo stress ossidativo causato dopo l’esercizio nel nuoto, aumentando gli enzimi antiossidanti SOD, CAT e GPx.
Un altro ingrediente importante che contribuisce all’attività antiossidante della frutta è anche l’AA-2βG, che ha proprietà antiossidanti simili alla vitamina C. Molti studi hanno dimostrato: 1) che esibisce una forte attività di legame contro DPPH e H 2 O 2 e inibisce l’emolisi mediata da H 2 O 2 meglio della vitamina C; 2) che ha effetti simili nel legame dei radicali OH. La capacità antiossidante in vitro ha dimostrato che l’AA-2βG presenta un’attività inferiore rispetto alla vitamina C; studi in vivo hanno dimostrato che l’AA-2βG protegge il fegato dei topi dal danno epatico acuto indotto dal tetracloruro di carbonio meglio della vitamina C.
Uno studio recente ha suggerito che gli estratti acquosi di bacche di goji mostrano attività antimutagena, proteggendo il DNA dai radicali perossilici e idrossilici. Nello stesso studio, è stata osservata anche una sostanziale attività antiossidante degli estratti acquosi di bacche di goji nelle cellule muscolari C 2 C 12, indicata da livelli aumentati di glutatione (GSH) fino al 189,5% e da una diminuzione dei carbonili proteici e della perossidazione lipidica rispettivamente del 29,1% e del 21,8%.
2.2. Attività anti-invecchiamento
L’invecchiamento è l’accumulo di vari cambiamenti deleteri nelle cellule e nei tessuti, soprattutto nelle persone anziane.
Diversi studi hanno dimostrato che fattori genetici e ambientali regolano percorsi specifici, coinvolti nella segnalazione ormonale, nella segnalazione nutrizionale e nel rilevamento della segnalazione mitocondriale e ROS, e della sopravvivenza genomica. L’accumulo degli effetti dello stress ossidativo contribuisce al processo di invecchiamento, per questo motivo, molti dei
modelli sperimentali di invecchiamento utilizzano l’immissione di D-galattosio nei tessuti di topi o ratti per un periodo di 6-8 settimane come tossina per produrre radicali liberi. Secondo Deng et al., l’aggiunta giornaliera di 100 mg di LBP/ kg alla dieta dei topi ha ridotto i prodotti finali della glicazione avanzata (AGE) nel siero, recuperando il puntatore della memoria negli animali da esperimento, aumentando i livelli di superossido dismutasi negli eritrociti e aiutandoli infine a ripristinare l’attività cinetica.
La Drosophila melanogaster, è stata utilizzato come modello alternativo per gli studi sull’invecchiamento. Sulla base di questo, l’aggiunta di 16 mg di LBP/kg mostra un aumento statisticamente significativo della durata media della vita degli insetti maschi.
Inoltre, studi condotti su topi anziani hanno dimostrato che il consumo di 200–500 mg/kg di LBP promuove la riduzione dello stress ossidativo, riduce infatti i marcatori dello stress ossidativo associati al processo di invecchiamento. LBP attiva i percorsi antiossidanti Nrf2/ARE e Nrf2/ HO-1 attivando antiossidanti ed enzimi detossificanti. Uno di questi enzimi è l’eme ossigenasi-1 (HO-1), che è regolato dal fattore associato al fattore nucleare eritroide 2-correlato fattore 2 (Nrf2).
Studi in vivo sul fattore Nrf2 hanno dimostrato, che svolge un ruolo importante nel sistema antiossidante endogeno regolando l’espressione di importanti enzimi antiossidanti, come l’os-
sigenasi-1 (HO-1), SOD e CAT. In particolare, nello stress ossidativo o nell’attivazione esogena (farmacologica), Nrf2 si sposta nel nucleo cellulare e induce l’espressione di enzimi antiossidanti bloccando la risposta antiossidante (ARE). Inoltre l’attivazione di PI3K/AKT/Nrf2 non solo previene lo sviluppo di stress ossidativo ma previene anche anomalie metaboliche del glucosio, come il verificarsi di resistenza all’insulina. L’effetto delle radiazioni ultraviolette (UVB) provoca danni alla pelle inducendo lesioni ossidative e infiammatorie e quindi causa invecchiamento e cancerogenicità della pelle. L’effetto protettivo degli LBP attraverso l’induzione di Nrf2 probabilmente esercita un effetto protettivo contro l’effetto negativo delle radiazioni ultraviolette sulla pelle legandosi ai radicali attivi e riducendo il danno al DNA, con conseguente soppressione del percorso P38 MAP indotto dagli ultravioletti. Sulla base dei precedenti effetti benefici, gli LBP potrebbero potenzialmente essere utilizzati come ingrediente in prodotti destinati a proteggere la pelle dai danni ossidativi derivanti dalle condizioni ambientali.
Tutti gli studi precedenti supportano l’idea che l’LBP abbia effetti anti-invecchiamento positivi, mentre uno studio clinico indica che l’assunzione alimentare di un totale di 500 mg di L. barbarum nell’arco di 10 giorni può ridurre significativamente i livelli di trigliceridi plasmatici e aumentare i livelli di adenosina monofosfato ciclico (cAMP) e SOD.
Poiché gli effetti anti-invecchiamento di L.
Oltre ai polisaccaridi, la presenza di componenti nei frutti, come caroteni, betaina, polifenoli e vitamina C nella forma precursore dell’acido 2- O -βd -glucopiranosil - l -ascorbico, contribuisce alle proprietà antiossidanti e anti-invecchiamento del frutto di bacche di goji.
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barbarum mostrano un’ampia gamma di tessuti bersaglio, si ritiene che possa proteggere complessivamente le cellule da condizioni ossidative, iperglicemiche e iperlipidemiche. Secondo i risultati di un precedente studio clinico condotto su conigli trattati con alloxan, il gruppo LBP ha ridotto i livelli di glucosio nel sangue.
Oltre ai polisaccaridi, la presenza di componenti nei frutti, come caroteni, betaina, polifenoli e vitamina C nella forma precursore dell’acido 2O -β- d -glucopiranosil - l -ascorbico, contribuisce alle proprietà antiossidanti e anti-invecchiamento del frutto di bacche di goji. Pertanto, è stato dimostrato che la betaina ha un effetto protettivo contro l’invecchiamento della pelle da radiazioni ultraviolette mediante ricerche assistite da topi. L’effetto protettivo della betaina è mediato dall’inibizione del trasduttore del segnale della chinasi extracellulare (ERP), della proteina chinasi (MEK) e della metalloproteinasi 9 (MMP-9), con conseguente riduzione delle rughe del collagene e dei danni causati dai raggi UVB.
Infine, la regolazione del funzionamento di un organo di base, come il fegato o i reni, si traduce nella regolazione di altri organi o addirittura dell’intero corpo, secondo la teoria della medicina tradizionale cinese. Sulla base di questa teoria, nella medicina tradizionale cinese, l’uso e il consumo di frutti di L. barbarum sono raccomandati per il trattamento delle malattie legate all’invecchiamento a causa della comparsa di un’ampia gamma di effetti positivi, riducendo tutti i fattori di rischio nelle malattie legate all’invecchiamento.
Conclusioni
Sono molti i risultati di studi e ricerche che evidenziano gli effetti positivi del consumo di bacche di Goji, soprattutto la protezione contro i danni ossidativi, ma è indispensabile approfondire lo screening dei singoli costituenti di queste bacche, che racchiudono innumerevoli proprietà benefiche per la salute. È possibile stabilire una relazione causa-effetto tra l’assunzione di bacche di goji e i suoi effetti sulla salute solo quando la composizione di queste è adeguatamente caratterizzata e standardizzata. Bisogna approfondire gli effetti dell’aggiunta di fitochimici bioattivi benefici dalle bacche di goji, nei sistemi alimentari, con l’utilizzo di tecnologie avanzate, per stabilire il loro ruolo come agenti funzionali nella progettazione di nuovi alimenti fortificati.
IL 2-DEOSSI-D-RIBOSIO
CONTRO LA CADUTA DEI CAPELLI
Una ricerca anglo-pachistina ha identificato nello zucchero 2dDR un potenziale trattamento per l’alopecia androgenetica grazie alla sua capacità di stimolare l’angiogenesi
Èdi questa estate la pubblicazione che ha individuato in uno zucchero, il 2-deossi-D-ribosio (2dDR), una dolce arma capace di stimolare i follicoli piliferi favorendo la ricrescita dei peli in modelli murini. Il 2-deossi-D-ribosio (2dDR) è un D-isomero di un monosaccaride deossipentoso, in cui è presente un atomo di idrogeno con un gruppo idrossilico in posizione C-2. È noto che il 2dDR migliora la tubulogenesi, previene l’apoptosi indotta dall’ipossia e aumenta la produzione di VEGF e IL-8 delle cellule endoteliali in vitro, il che è coerente con gli effetti stimolatori del 2dDR sulla proliferazione e migrazione cellulare ed è utilizzato nella clinica per favorire la rimarginazione tissutale. La scoperta di questo zucchero come promotore della crescita dei capelli è in realtà un effetto secondario riscontrato in 8 anni di ricerche mirati a capire come 2dDR possa accelerare la guarigione delle ferite promuovendo la formazione di nuovi vasi sanguigni. Proprio durante tali esperimenti infatti, si è notato un interessante effetto collaterale: nelle aree prossime alle ferite trattate con 2dDR si assisteva ad un’inattesa accelerazione nella crescita dei peli. Tale effetto collaterale di alto potenziale in ambito tricologico si spiega in quanto la formazione di nuovi vasi sanguigni può ripristinare l’afflusso di sangue in zone poco irrorate e stimolare quindi il ciclo di ricrescita di peli e capelli. In particolare, lo studio di interesse tricologico si è basato sull’osservazione di 3 gruppi: un gruppo di topi in cui si è simulata l’alopecia androgenetica (AGA) iniettando testosterone per via intraperitoneale; un gruppo trattato con diidrotestosterone (DHT) come controllo negativo e un gruppo trattato con minoxidil come controllo positivo.
I gruppi sono stati poi trattati con idrogel di 2dDR. La crescita dei peli nei topi precedentemente rasati è stata misurata secondo il metodo sviluppato da Fu et al. determinando il colore della pelle dei topi dopo depilazione. Man mano che la melanina della crescita pilare si accumula nella pelle del topo, il colore cambia gradualmente da rosa a bianco rosato, poi a bianco, di seguito a bianco grigiastro, grigio e infine grigio scuro. Questo perché l’attività melanogenica dei follicoli piliferi è strettamente correlata al ciclo del pelo. Dopo 7 giorni di fase anagen follicolare completa, la pelle manteneva un colore grigio scuro prima di tornare bianca a causa della morte dei melanociti, che denotava l’inizio della fase catagen e
Bibliografia
• Anjum MA et al.
“Stimulation of hair regrowth in an animal model of androgenic alopecia using 2-deoxy-D-ribose”. Front Pharmacol. 2024 Jun 3;15:1370833. doi: 10.3389/fphar.2024.1370833. PMID: 38887556; PMCID: PMC11180715.
• Fu D et al.
“Dihydrotestosterone-induced hair regrowth inhibition by activating androgen receptor in C57BL6 mice simulates androgenetic alopecia”. Biomed Pharmacother. 2021 May;137:111247. doi: 10.1016/j.biopha.2021.111247. Epub 2021 Jan 29. PMID: 33517191.
poi del telogen. Ciò suggerisce che il colore della pelle è un utile indicatore della ricrescita dei peli dopo la depilazione. Le pelli dorsali telogeniche (fine ciclo vitale del pelo) dei topi sono state infine trattate topicamente con idrogel a base di 2dDR. Le indagini istologiche hanno dimostrato che l’idrogel di 2dDR ha aumentato lo sviluppo dei peli allungando la fase anagen, accorciata naturalmente nell’AGA indotto. Lo studio ha quindi dimostrato l’efficacia dell’idrogel 2dDR nello stimolare la ricrescita di peli in un modello animale in cui è stata simulato il diradamento di tipo AGA, la perdita di capelli maschile indotta dagli androgeni. Parametri come la lunghezza dei peli, il diametro del fusto pilare, la lunghezza dei follicoli piliferi, la densità dei follicoli piliferi, il rapporto Anagen/Telogen, il diametro dei follicoli piliferi, l’area dei bulbi piliferi coperta di melanina e il conteggio dei vasi sanguigni hanno tutti confermato un’efficace ricrescita dei capelli dopo l’applicazione dell’idrogel 2dDR. Applicando agli stessi topi il farmaco minoxidil al 2% si è scoperto che 2dDR è efficace quanto il farmaco approvato dalla statunitense Fda, che tuttavia presenta alcuni effetti collaterali.
In conclusione, questo è il primo studio che dimostra che 2dDR stimola la crescita dei peli in un modello animale di alopecia androgenetica. Nonostante l’amplificazione data alla notizia dobbiamo ancora restare critici in quanto si tratta di un’ipotesi provvisoria. È probabile che 2dDR sovra regoli il VEGF nel modello animale, portando a sua volta alla stimolazione dell’angiogenesi e alla stimolazione della nuova crescita dei peli. Concludiamo che il gel 2dDR ha potenziale per il trattamento dell’alopecia androgenetica e probabilmente di altre condizioni di alopecia in cui è auspicabile la stimolazione della ricrescita dei capelli, come ad esempio dopo la chemioterapia. Tuttavia, per studiare il meccanismo d’azione di 2dDR, saranno necessari ulteriori lavori per indagare se e in che modo l’aggiunta di 2dDR alzi i livelli di VEGF in questo modello, e in che misura la stimolazione del follicolo pilifero può essere bloccata dall’aggiunta di inibitori del VEGF.
Utenti, media e mercato tricologico restano vigili in merito a questa molecola, facile da reperire, poco costosa e stabile, che potrebbe essere somministrata in varie formulazioni, anche in gel per il trattamento topico. Questa potrebbe essere un’importante alternativa non invasiva, economica e più sicura alle terapie farmacologiche disponibili oggi.
* Associazione Scientifica Biologi Senza Frontiere (CS).
** Direttore Scientifico Start up Microbiotech (CS).
*** Primo Dirigente CREA FL Rende (CS).
L’Associazione Scientifica Biologi senza Frontiere (ASBSF) ha come mission il miglioramento della qualità della vita, si occupa pertanto di attività di ricerca, a livello nazionale, al fine della prevenzione e della tutela della salute umana ed ambientale. Il nostro obiettivo è vivere nel rispetto della natura dell’uomo e dell’ambiente, valorizzando l’esistente e stimolando le coscienze ad investire per il benessere delle future generazioni. L’ASBSF sta strutturando una serie d’interventi, studi e risorse per disegnare un percorso verso questa meta. ASBSF, ha strutturato il progetto “Borghi del Benessere” finalizzato al miglioramento della qualità della vita a partire dai borghi calabresi. Il “borgo” è il modello di applicazione della nuova eco ed equo sostenibilità secondo una nuova cultura fondata su una visione di progetti ed iniziative ad alto contenuto d’innovazione. Il progetto si propone di restituire al borgo calabrese prima, italiano ed europeo poi, la sua identità recuperandone storia, tradizioni, cultura, produzione, paesaggio, bellezze architettoniche e urbanistiche e ovviamente la biodiversità.
La necessità della rinascita del borgo parte dalla condivisione del concetto di sviluppo ecosostenibile, dalla consapevolezza del grande patrimonio della nostra civiltà, dall’apprezzamento dei valori intrinseci delle diverse culture del nostro territorio e dalla condivisione del concetto di rispetto e di umanità. È di fondamentale importanza frenare la progressiva estinzione dei prodotti naturali per preservarli e tramandarli al fine di mantenere integra l’identità del luogo e della gente: ogni centro storico custodisce un patrimonio culturale, artistico e ambientale unico che ne connota l’identità. L’Associazione, tramite il suo progetto “Borghi del Benessere”, si propone di recuperare l’identità e migliorare la qualità della vita dei borghi italiani. Tra le tante attività e progetti in essere sul territorio, ASBSF si pone anche l’obiettivo di studiare e ricercare i tartufi di Calabria, un prodotto autoctono di grande valore. Le caratteristiche tipiche dei tartufi di Calabria sono influenzate anche dalla ricchezza della biodiversità della regione e dalla varietà di terreni presenti, che includono colline, montagne e coste. Questo diversificato ecosistema fornisce un ambiente ideale per la crescita dei tartufi, arricchendo così le loro qualità organolettiche e nutrizionali. L’Associazione ha istituito un Osservatorio Nazionale Socio Ambientale, con lo scopo di dedicare specifiche aree e spazi alla ricerca e alla progettazione di tartufaie in Calabria, facendo uso di terreni comunali incolti. Questa iniziativa
mira a valorizzare il territorio e a creare opportunità di lavoro, specialmente tra i giovani biologi.
Le tartufaie saranno studiate e predisposte in ambienti che rispecchiano le condizioni ideali per la crescita dei tartufi, considerando fattori quali tipo di terreno, esposizione al sole e umidità. La progettazione mira alla gestione delle tartufaie in modo da preservarne le caratteristiche uniche e garantirne la sostenibilità nel tempo.
Per preservare le tartufaie, verranno adottate pratiche agricole rispettose dell’ambiente, evitando l’uso eccessivo di fertilizzanti chimici e pesticidi che potrebbero compromettere la qualità del terreno e degli stessi tartufi. A tal fine saranno utilizzati fertilizzanti biologici autoctoni che combinati con concimi naturali porteranno benefici alle tartufaie. Inoltre, sarà implementato un sistema di monitoraggio costante per controllarne lo stato di salute e intervenire tempestivamente in caso di eventuali problemi. Per garantire la reperibilità e la qualità dei tartufi, verranno implementate procedure di raccolta e conservazione ottimali. Saranno utilizzati metodi non invasivi per la raccolta al fine di preservare l’integrità del terreno e favorire la riproduzione naturale delle specie. I tartufi raccolti saranno sottoposti a controlli di qualità rigorosi per assicurarne l’autenticità e la freschezza. Verranno promosse iniziative di formazione e supporto per i giovani imprenditori interessati a intraprendere attività legate alla produzione e commercializzazione del prodotto. Questo non solo favorirà la creazione di nuove opportunità lavorative, ma contribuirà anche a preservare e valorizzare il patrimonio naturale e culturale della Calabria. L’approccio multidisciplinare dell’Associazione consente di integrare conoscenze scientifiche e pratiche per ottimizzare la produzione di tartufi, garantendo al contempo la sostenibilità ambientale e il benessere delle comunità locali. La collaborazione con Enti Governativi e Istituzioni Locali è fondamentale per il successo del progetto, in modo da assicurare una gestione responsabile delle risorse naturali e promuovere lo sviluppo socioeconomico dei territori rurali. Il progetto rappresenta un importante contributo alla valorizzazione del patrimonio naturale e culturale della Calabria, offrendo un modello replicabile per la promozione del benessere e lo sviluppo sostenibile dei borghi italiani. Obiettivo: creare tartufaie sostenibili per i tartufi di Calabria, garantendo la reperibilità controllata e la qualità del prodotto. Ciò fornirà opportunità lavorative per i giovani imprenditori e ricercatori biologi nonché preserverà il patrimonio naturale della Regione.
TARTUFI DI CALABRIA
Creazione di tartufaie sostenibili nei borghi del benessere
“RETI
FANTASMA” UN
PERICOLO
INVISIBILE PER LA NOSTRA BIODIVERSITÀ MARINA
Il progetto “Marine Ecosystem Restoration”, sostenuto dal PNRR punta a ripulire le acque grazie all’Ispra, salvaguardando flora e fauna in venti siti
di Gianpaolo Palazzo
Imari italiani sono minacciati da un nemico silenzioso e spesso inavvertibile: le “reti fantasma”. Abbandonate o perse in acqua, rappresentano una delle forme più insidiose d’inquinamento.
Sono previsti interventi per il ripristino e la protezione dei fondali e degli habitat marini, il rafforzamento del sistema nazionale di osservazione degli ecosistemi costieri e la mappatura delle zone d’interesse conservazionistico con l’acquisizione di una nuova unità navale oceanografica, dotata di apparecchiature altamente tecnologiche, capaci di sondare fino a 4000 m sotto il livello del mare e strumentazione acustica ad altissima risoluzione.
Secondo i dati dell’Ispra, che porterà avanti il meritevole lavoro, l’86,5% dei rifiuti marittimi è legato alle attività di pesca e acquacoltura, e il 94% di questi sono reti abbandonate, alcune delle quali possono estendersi per chilometri. Con quale risvolto della medaglia? Le praterie di Posidonia oceanica subiscono danni a causa dell’ombreggiamento e dell’abrasione meccanica, che uccide e strappa le piante. Molte specie, inoltre, vengono soffocate dall’accumulo eccessivo di sedimenti. Anche la fauna marina è gravemente colpita, poiché continuano a portare avanti ciò per cui sono state pensate e progettate: catturare milioni di pesci, mammiferi, tartarughe, grandi cetacei e persino uccelli in modo non selettivo e indiscriminato, colpendo anche specie minacciate e a rischio. Una volta intrappolati, gli animali non riescono a liberarsi e muoiono per fame, infezioni e lacerazioni. Si stima che catturino circa il 5% del pesce commerciabile a livello mondiale.
Oltre a questo, rappresentano una nuova fonte di alterazione: se in passato erano realizzate con materiali naturali, come canapa o cotone, oggi sono principalmente fatte di fibre sintetiche derivate dalla plastica, che impiegano centinaia di anni per decomporsi. Oltre a tutto, aderendo alle rocce, chiudono ogni rifugio possibile per i pesci, costringendoli a spostarsi e contribuiscono significativamente all’aumento delle microplastiche, che possono essere ingerite dagli organismi marini ed entrare nella catena alimentare, arrivando fino all’uomo.
Per questo motivo, l’Ispra ha avviato attività di monitoraggio per identificare con precisione i luoghi critici e preservare la biodiversità locale. Questa procedura coinvolgerà una squadra di
Il progetto MER (Marine Ecosystem Restoration), finanziato dal Piano Nazione di Ripresa e Resilienza, ha avviato un’importante iniziativa per ripulire da queste attrezzature venti siti lungo i litorali di Liguria, Toscana, Lazio, Campania, Sicilia, Puglia, Marche, Emilia-Romagna e Veneto. L’iniziativa, che prevede rimozione, raccolta, trasporto, smaltimento e riciclo, continuerà fino al 30 giugno 2026. Il Mer vede il Ministero per l’Ambiente e la Sicurezza Energetica come amministrazione titolare del finanziamento di 400 milioni di euro per il 2022-2026.
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“Ghostbusters dei mari”: subacquei altamente specializzati e robot sottomarini filoguidati superando anche i 40 metri di profondità, nel rispetto di un rigoroso piano di sicurezza.
I Rov (Remotely Operated Vehicles) sono veicoli senza equipaggio, pilotati da una postazione remota. Vengono utilizzati per una vasta gamma di attività, tra cui ispezioni, manutenzioni, recuperi e ricerche scientifiche. Sono equipaggiati con telecamere ad alta definizione e vari sensori per raccogliere dati visivi e ambientali, oltre a bracci meccanici che permettono di afferrare, tagliare e manipolare oggetti sott’acqua. Si servono di sonar per la navigazione e la diagnostica per immagini in condizioni di scarsa visibilità e tecnologie come l’USBL (Ultra-Short Baseline) per localizzare il Rov e tracciarne i movimenti con molteplici vantaggi: operare in ambienti pericolosi senza mettere a rischio vite umane, lavorare per lunghi periodi, raccogliendo dati preziosi. Sono adatti ad una vasta gamma di applicazioni, dai lavori leggeri alle operazioni complesse. Rappresentano una risorsa indispensabile per le operazioni, contribuendo significativamente alla sicurezza e all’efficienza delle attività.
Non si tratta, infatti, di una semplice pulizia, ma occorre un intervento preciso e meticoloso, simile al restauro di un dipinto o altre opere d’arte, che valuti attentamente le condizioni di ogni luogo per ridurre al minimo i danni alle comunità animali e vegetali al fine di massimizzare il riutilizzo della plastica recuperata.
È fondamentale, infine, implementare misure preventive per evitare che questi strumenti finiscano in mare. Una delle strategie più efficaci è l’adozione di tecnologie utili al tracciamento per permettere di monitorare continuamente ciò che è in acqua. Questo non solo facilita il rinvenimento in caso di perdita, ma dissuade anche l’abbandono intenzionale. Educare in primis i pescatori sui rischi ambientali e sulle conseguenze economiche può portare a comportamenti più saggi. Inoltre, una campagna d’informazione sui risultati raggiunti, mettendo in luce le condotte disoneste, spronerebbe molti a darsi da fare. Se come disse Jacques Cousteau: «Il mare, una volta che ha gettato il suo incantesimo, ti tiene per sempre nella sua rete di meraviglia» non dobbiamo lasciare che le difficoltà c’impediscano di proteggere il nostro prezioso ecosistema.
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Tra luglio 2023 e giugno 2024 un terzo della popolazione infantile mondiale, pari a 766 milioni di bambini, ha vissuto un’esperienza drammatica: l’esposizione a un clima arroventato. Questo allarmante dato emerge da un’indagine di “Save the Children”, che ha analizzato le temperature superficiali globali attraverso le immagini satellitari. Nella ricerca, «un’ondata di ca-
lore è definita come tre giorni consecutivi con temperature superiori al 99° percentile degli ultimi 30 anni per una specifica località». Le condizioni meteo estreme stanno mettendo a rischio la salute fisica e mentale dei più piccoli, aggravando disuguaglianze e minacciando il loro diritto all’istruzione. L’analisi rivela che 344 milioni di minori hanno avuto a che fare con condizioni termiche fra le più alte registrate, se non altro dal 1980. Il numero è raddoppiato rispetto all’anno precedente, con 170 milioni colpiti solo nel luglio 2024. I bimbi sono più vulnerabili degli adulti agli effetti del caldo, a causa della loro inferiore capacità di regolazione della temperatura corporea, unita al sistema respiratorio e immunitario ancora in sviluppo. L’afa ha portato ad un ampliamento dei ricoveri ospedalieri per condizioni respiratorie come l’asma e ha avuto un impatto negativo sulla salute mentale e sullo sviluppo generale.
Ad aggravare ancora di più il quadro, s’inserisce l’insicurezza alimentare, influenzando anche l’istruzione con chiusure scolastiche per incapacità di poter raffreddare gli ambienti e riduzione delle capacità di apprendimento. Nelle zone di conflitto, la somma tra il clima arroventato e le crisi umanitarie mette ulteriormente in pericolo chi già vive in condizioni precarie. Sameer, 13 anni, della provincia pakistana di Sindh, ha raccontato di aver accusato malesseri a lui e ai suoi compagni di classe, con episodi di svenimenti, febbre e vomito.
Shruti Agarwal, Senior Advisor per i cambiamenti climatici e le economie sostenibili, ha dichiarato: «La portata di questa crisi è sconcertante. Quando quasi un terzo dei bambini del mondo è esposto alle ondate di calore, non si tratta solo di un
I bimbi sono più vulnerabili degli adulti agli effetti del caldo, a causa della loro inferiore capacità di regolazione della temperatura corporea, unita al sistema respiratorio e immunitario ancora in sviluppo. L’afa ha portato ad un ampliamento dei ricoveri ospedalieri per condizioni respiratorie come l’asma e ha avuto un impatto negativo sulla salute mentale e sullo sviluppo generale.
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record, ma di una catastrofe. Non si tratta oramai solo un fenomeno meteorologico: sono un indicatore negativo della salute del nostro Pianeta e rappresentano un rischio grave e sproporzionato per la salute e il benessere dei minori e delle generazioni future. La crisi climatica non è più una minaccia remota. Per i bambini significa crescere in un Pianeta sempre più inabitabile. Loro non sono responsabili della situazione in cui ci troviamo, eppure sono quelli che hanno più da perdere».
“Save the Children” sollecita i Governi a cessare rapidamente l’uso e i sussidi ai combustibili fossili, promuovendo una transizione giusta ed equa per mantenere l’aumento delle temperature globali entro 1,5°C rispetto ai livelli preindustriali. È fondamentale, inoltre, riconoscere i bambini come protagonisti del cambiamento climatico, offrendo loro spazi per esprimersi. I leader devono includere nelle discussioni e nelle azioni i punti di vista dei ragazzini e considerare i loro bisogni e diritti, specialmente quelli dei più indifesi, nelle strategie globali contro il cambiamento climatico, compresi i finanziamenti dai Paesi ricchi a quelli poveri.
In pratica, ciò implica rendere gli edifici scolastici più resistenti alle alte temperature, garantendo un ambiente sicuro per l’apprendimento. L’Ong si batte per creare un cambiamento duraturo con e per i figli di tutti, supportando le comunità nel rafforzare la loro resilienza alla crisi climatica e sollecitando tutti ad affrontarne le cause profonde. Solo attraverso un impegno collettivo e globale possiamo sperare di mitigare gli effetti devastanti del meteo “impazzito” e costruire insieme una nuova consapevolezza ambientale. (G. P.).
TEMPERATURE RECORD
L’IMPATTO DEVASTANTE SULLE NUOVE GENERAZIONI
Le ondate di calore aggravano l’insicurezza alimentare e influenzano l’istruzione con oltre 210 milioni di bambini che hanno perso giorni di scuola fra aprile e maggio 2024
PRODUZIONE RIFIUTI SPECIALI -2,1% NEL 2022 PER LA CRISI
Secondo i dati Ispra, costruzioni e demolizioni pesano per il 50% del totale mentre il recupero di materia costituisce la quota predominante nella gestione, 72,2%
L’economia italiana ha subito, nel 2022, un duro colpo a causa del conflitto in Ucraina e della crisi energetica, portando a una riduzione nella produzione di rifiuti speciali rispetto all’anno precedente. Le attività industriali, commerciali, artigianali, di servizi, trattamento e risanamento ambientale hanno generato complessivamente 161,4 milioni di tonnellate, segnando una diminuzione del 2,1%, pari a oltre 3,4 milioni di t in meno rispetto al 2021.
Secondo l’ultimo rapporto Ispra (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale)
“Rifiuti Speciali”, giunto alla sua ventitreesima edizione, il settore delle costruzioni e demolizioni si conferma in cima alla lista, con quasi 80,8 milioni di t, rappresentando il 50% della produzione totale. I non pericolosi, 93,8% del complessivo, sono diminuiti di 2,7 milioni di t (-1,8%), mentre quelli pericolosi hanno registrato una riduzione di quasi 680 mila t (-6,4%). Complessivamente, i primi ammontano a 151,4 milioni di t, mentre i secondi a quasi 10 milioni di t. Le attività di trattamento e risanamento contribuiscono per il 22,8% (36,8 milioni di t), mentre le manifatturiere nell’insieme rappresentano il 17,5%, circa 28,3 milioni di t. Le altre occupazioni economiche hanno una percentuale del 9,7% (quasi 15,6 milioni di t).
Il Nord Italia si distingue per la maggiore proliferazione, con quasi 92,7 milioni di t, seguito dal Sud a 40,6 milioni di t (25,2%) e dal Centro Italia, 28,1 milioni di t. A livello regionale, la Lombardia ha avuto 35,3 milioni di t (38,1% nel Nord Italia e il 21,9% di quelli a livello nazionale), il Veneto circa 17,1 milioni di t (18,5% della macroarea e 10,6% della produzione totale), l’Emilia-Romagna 14,5 milioni di t (15,7% e 9%) e il Piemonte quasi 13,6 milioni di t (14,6% e 8,4%). Fra le regioni del Centro, i maggiori valori si riscontrano nel Lazio con quasi 11,2 milioni di t (39,8% del Centro Italia, 6,9% della nazionale) e in Toscana (9,7 milioni di t, 34,6% e 6%). Al Sud, la Campania, domina con circa 10,3 milioni di t, il 25,4% riferito alla macroarea geografica (6,4% del nazionale), seguita dalla Puglia con 9,7 milioni di t (23,9% e 6%) e dalla Sicilia (quasi 9 milioni di t, 22,1% e 5,5%).
La gestione è dominata dal recupero di materia, 72,2% del complesso, pari a 127,6 milioni di t. Le operazioni di smaltimento costituiscono il 14,9%, ovvero 26 milioni di t. Altre forme come il coincenerimento, l’incenerimento, la “messa in riserva” e il “deposito preliminare”, hanno un’in-
«Questo studio - dice Beniamino Gioli, ricercatore dell’Istituto di Bioeconomia del Cnr di Firenze (Cnr-Ibe) - ci mostra che la differente capacità di adatta mento ai cambiamen ti climatici non è solo una questione tra Paesi ad alto e basso reddito, ma riguarda anche le differenze sociali all’interno delle ricche regioni e città europee».
Secondo l’ultimo rapporto Ispra (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale) “Rifiuti Speciali”, giunto alla sua ventitreesima edizione, il settore delle costruzioni e demolizioni si conferma in cima alla lista, con quasi 80,8 milioni di t, rappresentando il 50% della produzione totale. I non pericolosi, 93,8% del complessivo, sono diminuiti di 2,7 milioni di t (-1,8%), mentre quelli pericolosi hanno registrato una riduzione di quasi 680 mila t (-6,4%).
Complessivamente, i primi ammontano a 151,4 milioni di t, mentre i secondi a quasi 10 milioni di t.
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cidenza minore. Il Nord Italia guida, con oltre la metà a livello nazionale, il 53,3%, corrispondente a oltre 94 milioni di t. I più diffusi sono il riciclo e il recupero di sostanze inorganiche, che coinvolgono circa 76,4 milioni di t, un incremento del 3,6% rispetto al 2021. I materiali provenienti da costruzioni e demolizioni, 66,8 milioni di t sono generalmente utilizzati per rilevati e sottofondi stradali. La rivalorizzazione di metalli e loro composti è il 12% del totale, includendo ciò che proviene dalle costruzioni (6,5 milioni di t) e dal trattamento meccanico (4,8 milioni di t), con la maggior parte recuperata nelle acciaierie lombarde. Le sostanze organiche, come carta, cartone e legno, costituiscono il 7,3%.
Gli impianti d’incenerimento trattano 1,1 milioni di t, di cui circa 699 mila t (63%) sono non pericolosi e 409 mila t (37%) pericolosi. Inoltre, circa 1,9 milioni di t sono utilizzate come combustibile negli impianti industriali. Lo smaltimento in discarica riguarda pressappoco 8,9 milioni di t. Di questi, quasi 7,9 milioni di t sono non pericolosi e oltre 1 milione di t pericolosi. Rispetto al 2021, si è registrata una diminuzione di circa 1,3 milioni di t (-12,6%) e, guardando al 2020, la riduzione è stata di 975 mila t (-9,9%). Gli impianti del Nord Italia amministrano il 53,4% di quanto destinato alle discariche, quelli del Centro il 24,3% e del Sud il 22,3%. Analizzando le diverse categorie di discariche, 3,3 milioni di t vanno nelle zone per inerti (37% del totale), 4,6 milioni di t lasciate tra le non pericolosi (52%) e oltre 946 mila t per i pericolosi (11%). Nel 2022, il numero di quelle operative era 261, di cui 118 per i primi (45%), 132 per i secondi (51%) e 11 per i più temibili (4%).
Siamo, infine, un importatore netto di rifiuti, con circa 6,9 milioni di t a fronte di un’esportazione poco superiore ai 4,8 milioni di t. Il 98,5% degli importati (circa 6,8 milioni di t) è costituito da non pericolosi, mentre il restante 1,5% (106 mila t) da pericolosi. Ci prendiamo principalmente rottami metallici dalla Germania (1,7 milioni di t) e dalla Francia (399 mila t), recuperati dalle industrie metallurgiche in Lombardia e Friuli-Venezia Giulia. Dalla Svizzera provengono 429 mila t di terre e rocce destinate, principalmente, a progetti di recupero ambientale in Lombardia, confermando come non sia solo un processo volto a eliminare qualcosa, ma un’opportunità per trasformare scarti in risorse, contribuendo a un futuro più sostenibile e pulito per tutti. (G. P.).
LA PRIMA COLONIA
DI APE NANA IN EUROPA
A Malta una colonia di Apis florea ha suscitato l’interesse e la preoccupazione di apicoltori e ambientalisti
Comunemente conosciuta come ape nana, l’Apis florea è una specie originaria dell’Asia sud-orientale. L’area di distribuzione della specie è particolarmente ampia e per via dei cambiamenti climatici si sta allargando, al punto che quest’apide sembra essere arrivata a colonizzare alcune zone della Giordania, del Medio Oriente e dell’Africa nord-orientale. Rispetto alla nostra Apis mellifera è molto più piccola, con dimensioni che vanno dai 7 ai 10 mm (rispetto ai 2 cm che può raggiungere l’ape europea), e ha abitudini diverse. Ad
esempio, gli esemplari di questa specie sono organizzati in colonie più piccole e costruiscono alveari all’aperto anziché all’interno di cavità. Come descritto nell’articolo pubblicato sul Journal of Apicultural Research, il ritrovamento di questa specie a Malta è una notizia per nulla lieta, che ha anzi allarmato scienziati, apicoltori locali e ambientalisti, i quali temono per le popolazioni di api autoctone. Secondo gli esperti, infatti, l’Apis florea sarebbe un competitor per le risorse, nonché una specie veicolo di patogeni a cui le api locali potrebbero essere suscettibili.
La prima colonia europea trovata a Malta, composta da più di duemila api adulte, è stata riconosciuta come appartenente all’ape nana attraverso un test del DNA. Successivamente si è proceduto a rimuovere e abbattere la comunità aliena, ma i ricercatori temono che un gruppo di api potesse aver già lasciato l’alveare per avviare un insediamento.
La colonia è stata rinvenuta vicino al porto franco di Birebbua, il principale centro merci melitense, il che lascia pensare che le api si trovassero su una nave commerciale. Secondo il parere di alcuni entomologi non coinvolti nella ricerca, questa nuova scoperta è un altro esempio di come l’aumento delle temperature, dovuto alla crisi climatica, abbia spinto la diffusione delle specie in territori in precedenza non occupati.
I ricercatori sostengono infatti che gli inverni miti dell’arcipelago delle Isole Calipsee, e più in generale degli altri paesi dell’Europa meridionale, favoriscano la sopravvivenza di questa specie invasiva. Inoltre, in virtù della vicinanza delle altre isole del Mediterraneo e del continente stesso, non viene esclusa la possibilità di assistere nel futuro ad altre incursioni di questo tipo. Gli esperti si sono detti pronti ad un monitoraggio stretto del territorio e a intervenire per eradicare altre eventuali colonie. In questi anni sono state registrate diverse invasioni di specie aliene, le più celebri in Italia sono senza dubbio quelle del granchio blu (Callinectes sapidus) e della vespa orientale (Vespa orientalis), ma di recente, ad esempio, si sta parlando molto anche della nidificazione in Liguria della tartaruga caretta (Caretta caretta).
Questi sono tutti avvenimenti che minacciano la biodiversità autoctona europea, ma che, soprattutto, si stanno verificando in virtù dell’impatto sempre più massiccio dei cambiamenti climatici e dell’azione dell’uomo.
Secondo il rapporto “A just world on a safe planet: a Lancet Planetary Health–Earth Commission report on Earth-system boundaries, translations, and transformations”, pubblicato su The Lancet Planetary Health, i consumi, soprattutto quelli della parte più ricca della società mondiale, rischiano di mettere in pericolo un futuro sostenibile.
Grazie a un team internazionale di 65 scienziati naturali e sociali è stato creato un documento di 62 pagine che cerca di mappare come i 7,9 miliardi di persone del mondo potrebbero rimanere entro limiti planetari sicuri, accedendo ai livelli necessari di cibo, acqua, energia, riparo e trasporti. Hanno quindi individuato “spazio sicuro e giusto”, cioè l’unico spazio rimasto ricco di opportunità, in cui le persone e il pianeta potranno continuare a prosperare. Lo studio è stato guidato dai professori Joyeeta Gupta, Xuemei Bai e Diana Liverman e si basa sul rapporto “Safe and Just Earth System Boundaries”, pubblicato su Nature nel 2023. Il documento valuta i potenziali cambiamenti entro il 2050, quando la popolazione sarà probabilmente di 9,7 miliardi di persone.
Questi studiosi hanno individuato un “livello minimo” di giustizia per gli standard di vita quotidiana di base, definiti come 2.500 calorie di cibo, 100 litri di acqua e 0,7 kilowattora di elettricità, insieme a una superficie abitabile di 15 metri quadrati e un trasporto annuale di 4.500 chilometri.
«Per la prima volta, gli scienziati hanno quantificato la sicurezza e la giustizia utilizzando le stesse unità di misura, al fine di determinare il percorso da seguire per un futuro stabile e resiliente in cui tutti noi possiamo prosperare»- ha sottolineato Johan Rockström, co-chair della Earth Commission, direttore del Potsdam Institute for Climate Impact Research e professore di Earth System Science all’Università di Potsdam- «Le comunità, po-
IL PIANETA IN PERICOLO
PER I CONSUMI
Con un intervento immediato un futuro prospero è ancora possibile
vere e ricche, in tutto il mondo sono già vulnerabili e diventeranno ancora più esposte, ma abbiamo una finestra per agire ora e cambiare rotta».
Le popolazioni povere, infatti, sono colpite maggiormente: le località del mondo in cui le popolazioni sono più vulnerabili ai danni causati dal crollo climatico sono l’India, l’Indonesia e il Brasile.
Lo “spazio sicuro e giusto” si ridurrà nel tempo, e la stabilità del pianeta verrà compromessa, a meno che non vengano effettuate trasformazioni urgenti: servirebbe uno sforzo ben coordinato e intenzionale tra politici, imprese, società civile e comunità che può spinge-
re a cambiare il modo in cui gestiamo l’economia e a trovare nuove politiche e meccanismi di finanziamento che possano affrontare le disuguaglianze, riducendo al contempo la pressione sulla natura; poi è fondamentale una gestione, una condivisione e un utilizzo più efficienti ed efficaci delle risorse a tutti i livelli della società, anche affrontando l’eccesso di consumo di alcune comunità che limita l’accesso alle risorse di base per coloro che ne hanno più bisogno; gli investimenti in tecnologie sostenibili poi sono essenziali per aiutarci a utilizzare meno risorse e a riaprire lo Spazio Sicuro e Giusto per tutti. (E. C.).
SOSTENIBILITÀ DELLA VENDEMMIA
A Grottaferrata la vendemmia sostenibile, volta a preservare e rispettare l’ambiente, prima tappa di un progetto di tutta Italia
Per una vendemmia sostenibile solitamente si produce vino cercando di preservare le risorse naturali per le generazioni future e si ricercano i migliori metodi per ottenere il minor impatto possibile sull’ambiente. Dunque, il concetto di vendemmia sostenibile va oltre la semplice raccolta dell’uva: si tratta di una filosofia di coltivazione che pone al centro l’ecosistema e l’armonia con la natura. La cura della terra, il rispetto per la biodiversità, e l’attenzione alla qualità sono i pilastri di questa filosofia. Questo avviene vicino Roma ad esempio, a Grottaferrata,
com’è stato possibile vedere nel corso del primo bio tour realizzato grazie al progetto Being Organic in EU. Qui, infatti, la coltivazione dell’uva avviene seguendo il metodo biologico, il quale consiste sostanzialmente nell’evitare processi chimici e fitofarmaci. Viene utilizzata soltanto la forza delle braccia degli agricoltori, di alcuni buoni decespugliatori meccanici, e di qualche pianta leguminosa che combatte vegetali infestanti e parassiti in modo naturale. La vendemmia manuale consente di preservare maggiormente l’integrità dell’uva e di selezionare in campo solo i grappoli con determinate
caratteristiche. Negli ultimi anni però la vendemmia non segue il ritmo delle stagioni, poiché i cambiamenti climatici stanno causando cambiamenti nei tempi della vendemmia.
Infatti, anche a Grottaferrata i primi grappoli sono stati raccolti il 7 agosto. Parliamo di una collina esposta a sud-est in direzione della Capitale, con 12 ettari di vigneti che hanno più di cinquanta anni.
La comunità che si occupa della vendetta si chiama Capodarco, è anche un’azienda biologica che pratica agricoltura sociale dal 1978 con l’obiettivo principale del rispetto per l’ambiente. La vendemmia in questi luoghi è svolta con tecnica manuale, ci sono cassette poste sotto i filari. La raccolta dell’uva più asciutta avviene nelle prime ore del mattino, entro le 11.00. Quello che rende ancora più speciale il momento della raccolta è il fatto che contribuiscono al lavoro persone con disabilità mentale e fisica e che sono coinvolti nelle vigne grazie a progetti di inclusione sociale. È stato possibile vedere questo nel corso del primo bio tour realizzato grazie al progetto Being Organic in EU, che mira a contribuire ad un sistema agroalimentare sostenibile a sostegno del “Green Deal Europeo” e delle strategie “Farm to Fork” e “Biodiversità 2030” per favorire un sistema alimentare etico, salutare, resiliente dal punto di vista climatico ed ecologico e a mettere in risalto le caratteristiche virtuose dell’agricoltura biologica europea, sia in termini di qualità del prodotto sia di sostenibilità.
Questa è promossa da FederBio in collaborazione con Naturland (associazione tedesca di agricoltori bio), e co-finanziata dall’Unione europea. Questa tappa dedicata al vino biologico è la prima di un percorso che si snoderà lungo l’Italia, con altri due appuntamenti, per raccontare il “valore aggiunto di queste filiere” che spesso coniugano insieme, oltre al rispetto per la terra, anche valori sociali e la lotta all’illegalità.
La Fondazione DDclinic e Bolgan Studi&Salute, in collaborazione con l’ing. Adriano Marin, Francesco Malandrino, Nadia Tumino e Cettina Farina, hanno condotto una ricerca che si inserisce nell’ambito del Progetto “Ragusa”, con l’obiettivo di analizzare la presenza di metalli nutrizionali e tossici nel suolo delle aree agricole. Questo progetto sperimentale è nato con l’intento di migliorare la qualità dell’humus, creando un ambiente naturale che favorisca lo sviluppo dei microrganismi essenziali per la salute del suolo e delle coltivazioni. Le sostanze umiche, infatti, sono elementi cruciali nella fertilità del terreno e, di conseguenza, nel benessere umano.
I metalli pesanti rappresentano un rischio significativo per l’equilibrio microbico del suolo, con conseguenze negative sulla qualità delle coltivazioni e, nel lungo termine, sulla salute degli animali e dell’uomo. Questi elementi competono con i nutrienti essenziali, riducendo la disponibilità di elementi vitali come calcio, magnesio, potassio e fosforo. Inoltre, possono compromettere la struttura del suolo, aumentando il rischio di erosione.
Le analisi condotte tramite spettrometria a fluorescenza X (XRF-200) hanno dimostrato che i livelli di metalli tossici nel suolo esaminato sono sempre al di sotto dei limiti previsti dalla normativa. Tuttavia, sono state identificate microaree in cui, pur rimanendo nei limiti, la prevalenza di questi metalli è maggiore. Questo potrebbe influire negativamente sulla quantità di micronutrienti presenti nel prodotto finale.
Questa scoperta rende necessario un secondo step di ricerca. Il team di ricerca ha già identificato una microarea che sarà oggetto di un nuovo studio sperimentale, mirato a testare sistemi naturali di rigenerazione del suolo e dell’humus. In questa fase, sarà controllato anche il contenuto di micronutrienti nel prodotto finito, con l’obiettivo di incrementarne il valore nutrizionale.
L’analisi approfondita del suolo non rappresenta solo una pratica tecnica, ma
AMBIENTE E METALLI PESANTI
IL PROGETTO RAGUSA
Ricerca sui Metalli Nutrizionali e Tossici nelle Aree Agricole mediante Spettrometria a Fluorescenza X (XRF-200)
di Andrea Del Buono
una vera e propria rivoluzione per il futuro delle coltivazioni. Gli agricoltori, intervenendo su queste microaree con pratiche di rigenerazione del suolo, potranno ottenere ortaggi probabilmente più ricchi di micronutrienti. Tale trasformazione potrebbe convertire i prodotti agricoli comuni in “super-alimenti” ricchi di composti benefici, come polifenoli, licopene, luteolina e quercetina, noti per i loro effetti positivi sulla salute. In effetti, alcune delle nostre ricerche preliminari hanno già dimostrato l’aumento di queste molecole benefiche, trasformando frutta e verdura in veri e propri nutraceutici, simili a quelli che si trovano in farmacia. Ecco perché il progetto è stato chiamato “Ortho-Pharccia”.
L’adozione di strumenti di controllo come lo XRF-200, facile da usare e ac-
In una fase successiva del progetto, prevediamo di istituire un comitato scientifico dedicato che, a seguito di ulteriori verifiche sperimentali, attribuirà il riconoscimento di “Produttori Virtuosi” agli agricoltori che adotteranno queste pratiche innovative. Questo riconoscimento rappresenterà un importante segno di eccellenza, valorizzando il lavoro nei campi e offrendo opportunità uniche di promozione e mercato per i prodotti coltivati. © luchschenF/shutterstock.com
cessibile, permetterà agli agricoltori di monitorare il suolo, offrendo loro la possibilità di produrre ortaggi di altissimo valore nutrizionale, veri e propri “farmaci naturali”. Questo approccio non solo porterà benefici ai consumatori, ma aprirà anche nuove opportunità di mercato per i prodotti agricoli.
IDROGENO VERDE GRAZIE
ALLA FOTOCATALISI
Le molecole di acqua possono influenzare l’efficienza della fotocatalisi per la produzione di idrogeno verde
Sulla base di uno studio condotto dall’Istituto per i processi chimico-fisici del Consiglio nazionale delle ricerche di Messina (Cnr-Ipcf), dall’Università di Messina e dall’Università di Zurigo, è emerso che le caratteristiche dell’acqua possono influenzare l’efficienza complessiva della fotocatalisi e, quindi, avere un impatto significativo sulla quantità di idrogeno prodotta nell’ambito dei processi di produzione del cosiddetto “idrogeno verde”. Il lavoro è stato pubblicato sulla rivista scientifica della Società americana
di chimica Journal of the American Chemical Society.
La capacità di produrre idrogeno verde in modo completamente eco-sostenibile attraverso i processi di fotocatalisi dipende, infatti, strettamente dalle proprietà del semiconduttore, vale a dire il materiale che viene esposto alla luce solare per attivare la reazione chimica. In questi sistemi, la materia prima, cioè gli atomi di idrogeno che compongono l’idrogeno molecolare, proviene dall’acqua liquida a contatto con il semiconduttore. Quando il semiconduttore è colpito dalla luce solare, genera cariche elettriche che, sotto op-
portune condizioni, separano le molecole di acqua in ossigeno e idrogeno.
Giuseppe Cassone, ricercatore del Consiglio nazionale delle ricerche-Ipcf, ha affermato: «Le ricerche precedenti nel campo della fotocatalisi si sono concentrate esclusivamente sulle proprietà chimico-fisiche del semiconduttore, con l’obiettivo di sviluppare fotocatalizzatori stabili, economici ed efficienti per la produzione di idrogeno. Tradizionalmente, l’acqua è da sempre stata vista come un semplice ambiente passivo in cui avviene la reazione chimica, senza un ruolo attivo nella produzione dell’idrogeno».
Questo studio dimostra, che l’organizzazione delle molecole d’acqua a livello sub-microscopico riveste, invece, un ruolo fondamentale. Attraverso l’utilizzo di tecniche sperimentali e simulazioni avanzate su supercomputer, è stato scoperto che l’efficienza nella produzione di idrogeno non dipende solo dalle caratteristiche del semiconduttore, ma anche in modo significativo dalla disposizione delle molecole d’acqua nei primi strati adiacenti alla sua superficie.
Rosaria Verduci, dell’Università di Messina, ha osservato: «Questo è un risultato innovativo, perché per la prima volta si mette in luce l’importanza cruciale dell’acqua stessa nel processo, aprendo nuove strade per migliorare l’efficienza della produzione di idrogeno verde».
Il lavoro offre una comprensione più profonda dei processi di attivazione fotocatalitica e apre nuove prospettive nella progettazione di materiali catalitici in grado di influenzare la struttura dell’acqua a livello molecolare.
Fabrizio Creazzo, dell’Università di Zurigo, ha così concluso: «Questi progressi sono fondamentali per una produzione di idrogeno verde più efficiente e sostenibile, contribuendo a un futuro energetico più pulito e rispettoso dell’ambiente, in linea con la transizione verso un’economia globale a zero emissioni entro il 2050».
Un gruppo di ricercatori composto da studiosi appartenenti al Politecnico di Milano, al Consiglio nazionale delle ricerche dell’Istituto di fotonica e nanotecnologie (Cnr-Ifn) e dell’Istituto di ricerca genetica e biomedica di Milano (Cnr-Irgb), della start-up Specto Photonics, anch’essa con sede a Milano e di Humanitas, ha sviluppato un innovativo filtro ottico birifrangente in grado di misurare, con precisione sempre migliore, l’elasticità di strutture sub-cellulari come i tessuti ossei.
La spettroscopia Brillouin è una avanzata tecnica ottica, che consente di misurare, su scala microscopica e senza contatto fisico, le proprietà meccaniche della materia organica e inorganica: una tecnica non invasiva, che ha già trovato molteplici utilizzi e numerose applicazioni in ambito biomedico, permettendo ad esempio di misurare in vivo e in 3D l’elasticità delle strutture sub-cellulari, una importante informazione utile quanto necessario allo studio di patologie come l’osteopetrosi.
Ad oggi, nonostante l’importanza, l’impiego della spettroscopia Brillouin è ancora limitato, perché si basa sulla rivelazione di un segnale ottico debolissimo, che purtroppo è sovrastato da disturbi ottici circa 1 miliardo di volte più forti che, dunque, ne ostacolano in modo significativo la rivelazione. Tali disturbi sono inevitabilmente dovuti alla luce utilizzata per eccitare del campione, e sono ancora più forti quando il materiale risulta torbido.
Per superare questo ostacolo, il team di studiosi ha ideato e messo a punto un filtro ottico innovativo, denominato Birefringence-Induced Phase Delay (BIPD), le cui proprietà sono state descritte in un articolo pubblicato su Nature Communications.
Cristian Manzoni, ricercatore del Consiglio nazionale delle ricerche-Ifn tra gli autori del lavoro, ha spiegato: «Questo filtro, estremamente compat-
UN FILTRO OTTICO
MISURA I TESSUTI OSSEI
Un dispositivo per misurare l’elasticità di strutture sub-cellulari è stato presentato su Nature Communications
to, è in grado di sopprimere con un livello di attenuazione senza precedenti i forti disturbi dovuti alla luce di eccitazione. Grazie al filtro, è stato possibile finalmente acquisire immagini ad alta risoluzione delle proprietà elastiche di vari campioni dove i disturbi ottici sono solitamente dominanti, come ad esempio i tessuti ossei».
Giuseppe Antonacci, della Specto Photonics, ha poi proseguito: «L’obiettivo ora è quello di poter fornire uno strumento che permette di misurare proprietà meccaniche in tessuti opachi, fino ad oggi inaccessibili con le tecniche convenzionali». Un primo
test è stato effettuato su un modello sperimentale affetto da osteopetrosi, una rara malattia genetica caratterizzata da una densità ossea maggiore rispetto alla norma: il filtro BIPD ha permesso di osservare finalmente le significative alterazioni delle proprietà meccaniche presenti nel tessuto osseo su scala micrometrica.
Giulio Cerullo, professore del Politecnico di Milano tra gli autori del lavoro, ha concluso: «Si è trattato di un importante passo avanti verso l’uso sempre più diffuso della spettroscopia Brillouin in applicazioni cliniche e diagnostiche». (P. S.).
UN FARMACO PER LA DIAGNOSTICA ONCOLOGICA
L’Aifa ha autorizzato l’officina farmaceutica del Cnr a produrre un farmaco per la diagnosi dei tumori cerebrali
Si chiama IASOglio, nome commerciale della [18F] Fluoretil-L-tirosina, ed è utilizzato nella tomografia a emissione di positroni (PET) per la diagnosi, il follow-up e la scelta terapeutica nei pazienti affetti da tumori cerebrali. L’Agenzia italiana del farmaco (Aifa) ha autorizzato l’officina farmaceutica dell’Istituto di Fisiologia clinica del Consiglio nazionale delle ricerche di Pisa a produrre questo farmaco destinato alla diagnostica oncologica.
La [18F]FET utilizzata nella PET migliora la diagnosi oncologica, consentendo una distinzione più precisa
tra tessuti benigni e maligni. Questa sostanza è assorbita in misura inferiore nelle lesioni benigne del tessuto cerebrale rispetto a quelle tumorali, aumentando così l’accuratezza diagnostica. Il contrasto che crea con i tessuti sani circostanti permette, inoltre, un monitoraggio più dettagliato dell’evoluzione del tumore nel tempo, consentendo ai medici di osservare cambiamenti anche minimi e valutare con maggiore precisione l’efficacia delle terapie personalizzate.
L’autorizzazione è il risultato di una collaborazione tra Cnr e Curium, azienda leader nel settore dei radio -
farmaci. Da molto tempo il laboratorio pisano collabora con questa azienda per la produzione di farmaci speciali per la diagnosi dei tumori e per la ricerca clinica. Il via libera alla produzione in Italia del radiofarmaco, di cui Curium detiene i diritti di commercializzazione, rappresenta un punto di svolta significativo. Fino ad ora, infatti, l’utilizzo della [18F]FET era limitato a pochi centri specializzati di medicina nucleare dotati di ciclotrone o richiedeva l’importazione dall’estero, essendo autorizzato solo in Francia e Polonia. La sua scarsa disponibilità ne ha ostacolato l’uso routinario, privando molti pazienti di un’opzione diagnostica avanzata. L’officina produrrà il farmaco per il territorio nazionale secondo le Good Manufacturing Practices (GMP), disposizioni obbligatorie nella produzione di farmaci.
L’importanza del radiofarmaco IASOglio emerge con chiarezza quando si considerano le statistiche sull’incidenza dei tumori cerebrali nella popolazione. Michela Poli, tecnologo e site manager dell’officina farmaceutica di Cnr-Ifc, ha affermato: «I gliomi, i tumori cerebrali primitivi più comuni, hanno un’incidenza di 4-5 per 100.000 individui all’anno e sono la seconda causa di mortalità per cancro negli adulti sotto i 35 anni e la quarta nei soggetti sotto i 54 anni. Il glioblastoma rappresenta più della metà dei gliomi, con un tasso di sopravvivenza media di circa 15 mesi e un tasso di sopravvivenza a 5 anni di circa il 5%».
Una diagnosi precoce aumenta le probabilità di successo dei trattamenti terapeutici. La ricercatrice ha concluso: «Il potenziale della PET con [18] FET per la diagnosi della forma primitiva, per l’identificazione precoce delle recidive per la scelta delle terapie più adeguate, è già stato dimostrato da molti studi clinici e l’uso clinico è suggerito dalle associazioni mediche specialistiche». (P. S.).
Grazie all’impiego di materiali innovativi, ecco i sensori di nuova generazione, sempre più miniaturizzati, efficienti e a basso costo, in grado di rilevare la presenza, anche a bassissime concentrazioni, di gas nocivi per la salute dell’uomo e l’ambiente. Questa nuova frontiera della ricerca a livello mondiale, che può applicarsi all’analisi del respiro per diagnosi precoci di patologie tumorali, per il monitoraggio ambientale, ma anche per alcol test e sicurezza sul lavoro e in casa, è stata oggetto di una review scientifica da parte di ENEA e selezionata per la copertina della rivista Chemosensors.
Dalla review ENEA, emerge, in particolare, che molti gruppi di ricerca nel mondo stanno lavorando sullo sviluppo di sistemi-sensori sempre più efficienti e performanti, leggeri e portatili, calibrati per il monitoraggio in tempo reale in situ, con l’obiettivo di integrare i più affidabili metodi convenzionali e le costose apparecchiature ingombranti.
Michele Penza, ricercatore ENEA della Divisione Tecnologie e materiali per l’Industria Manifatturiera Sostenibile presso il Centro Ricerche di Brindisi e coautore dello studio insieme alla collega Anna Maria Laera del Laboratorio Componenti e Sistemi Intelligenti per la Manifattura Sostenibile, ha spiegato: «La nostra rassegna scientifica esamina in particolare i materiali funzionali avanzati e le strategie più promettenti per la realizzazione dei sensori chimici per alcoli volatili a basse concentrazioni, che sono composti chimici presenti in moltissimi prodotti di largo consumo come cosmetici, detergenti per la casa, disinfettanti, farmaci, combustibili e bevande. Si tratta di composti infiammabili ed alcuni particolarmente dannosi, perché se ingeriti o inalati in alte concentrazioni per tempi prolungati, possono indurre perdita della vista, infiammazioni nasali e delle mucose,
NUOVI SENSORI PER
RILEVARE I GAS NOCIVI
Sempre più miniaturizzati ed efficienti: sono i sensori di nuova generazione per rilevare la presenza di gas nocivi
disturbi respiratori, irritazione polmonare e malattie neurologiche».
Anna Maria Laera ha proseguito: «Con questo studio vogliamo fornire uno strumento utile per valutare e confrontare i progressi scientifici più rilevanti nel campo dei materiali e dei sensori per il monitoraggio in tempo reale di ambienti interni ed esterni, garantendo la sicurezza chimica e non solo. Attualmente, l’analisi degli alcoli nel respiro è una realtà ben consolidata, come dimostra l’uso dei sensori portatili per alcol etilico da parte delle forze dell’ordine per contrastare la guida in stato di ebrez -
za, ma è già allo studio un’ulteriore applicazione che riguarda la diagnosi di alcune gravi patologie attraverso la misurazione del butanolo».
Michele Penza ha concluso: «Il basso consumo energetico e la capacità di operare a temperatura ambiente sono ulteriori fattori chiave nella progettazione dei dispositivi-sensori di nuova generazione per migliorare la sicurezza e ridurre i costi nell’ottica di estendere ulteriormente il loro utilizzo in aree emergenti come l’internet delle cose, i dispositivi medici di auto-monitoraggio e l’elettronica indossabile». (P. S.).
VIA APPIA, LA REGINA DELLE STRADE È PATRIMONIO MONDIALE DELL’UMANITÀ
L’UNESCO ha riconosciuto la grande importanza della «Regina Viarum» dei Romani L’itinerario dall’Urbe a Brindisi, abbattendo barriere e creando ponti tra mondi e culture
Beni
Per i tempi antichi rappresentava una sorta di «Autostrada del Sole», un’arteria di comunicazione di fondamentale importanza tra Roma e le città del sud. Una mano tesa verso la Grecia e l’Oriente, un’infrastruttura costruita con criteri inimmaginabili per l’epoca e che, soprattutto in alcuni punti, si è mantenuta incredibilmente integra ancora oggi, quasi come ai tempi in cui il censore Appio Claudio Cieco ne completò la realizzazione del primo tratto, nel 321 a.C. La Via Appia, la regina delle strade per gli antichi Romani (che la chiamavano non a caso «Regina Viarum»), è stata iscritta nella Lista del Patrimonio Mondiale, diventando il sessantesimo sito italiano rico -
nosciuto dall’UNESCO. L’incoronazione è arrivata a fine luglio a New Delhi, in India, e rende merito a una via di comunicazione che ha fatto da apripista alle altre grandi strade consolari romane. Una strada che inizialmente metteva in comunicazione diretta l’Urbe con Capua e poi si è spinta fino a Brindisi, attraverso quello che è attualmente il territorio di quattro regioni: Lazio, Campania, Basilicata e Puglia.
Nata per soddisfare esigenze di natura militare, dovendo garantire lo spostamento rapido e tempestivo delle truppe verso i teatri dei principali conflitti di quel periodo, l’Appia è diventata progressivamente la strada dei commerci, degli scambi, della cultura. Fin dall’inizio fu concepita come strada pubblica, percorribile cioè gratuitamente e senza alcun tipo di pedaggio, e ha contribuito in modo determinante a gettare letteralmente ponti tra mondi e culture diverse: Roma, i Sanniti, le altre popolazioni italiche, i coloni della Magna Grecia. La via Appia nel corso dei secoli è stata progressivamente ampliata, migliorata, allargata nella carreggiata e anche nelle infrastrutture collaterali. Basti pensare che sotto Traiano, nel 109 d.C., era talmente trafficata che fu necessario realizzarne un raddoppio, una sorta di variante di valico ante litteram, con tanto di deviazione dal percorso originale a partire da Benevento, per poi correre lungo l’Adriatico. E tutto il tracciato dell’Appia, variante compresa, è stato proclamato sito Patrimonio Mondiale.
Così come, del resto, le opere ingegneristiche necessarie alla realizzazione della via, le infrastrutture di servizio, gli insediamenti, i monumenti funebri, i luoghi di culto, le evidenze monumentali, i porti e gli approdi, le centuriazioni, gli elementi scultorei e le epigrafi in qualche modo connesse alla principale arteria dell’antichità. Le prime dodici miglia, quelle che dal cuore di Roma si dipanano verso sud, sono caratterizzate da una serie di famosi monumenti e costituiscono uno dei tratti dell’itinerario più celebrati nel corso del tempo. Ma tutte le 365 miglia del percorso, circa 540 chilometri (800 considerando pure la variante traianea), costituiscono uno scrigno di tesori e forniscono un esempio significa -
Fin dall’inizio fu concepita come strada pubblica, percorribile cioè gratuitamente e senza alcun tipo di pedaggio, e ha contribuito in modo determinante a gettare letteralmente ponti tra mondi e culture diverse: Roma, i Sanniti, le altre popolazioni italiche, i coloni della Magna Grecia. La via Appia nel corso dei secoli è stata progressivamente ampliata, migliorata, allargata nella carreggiata e anche nelle infrastrutture collaterali.
tivo delle capacità ingegneristiche, edilizie e persino tecnologiche dei Romani. Capaci, dopo il primo tratto completato fino a Capua, di raggiungere Benevento nel 268 a.C. e di attraversare gli Appennini, arrivando fino a Venosa (città natale del celebre poeta Orazio) e poi, nel II secolo a.C., a Brindisi.
La portata innovativa delle tecniche di costruzione viaria dei Romani è racchiusa negli innovativi fondi stradali, perfetti per stabilità e drenaggio, che tanto si differenziavano dagli sterrati utilizzati fino ad allora nel resto del mondo. Il pavimento era costituito da grosse lastre di basalto rivestito, che garantiva un’eccezionale praticabilità con tutte le condizioni meteo. Si calcola ci volessero circa due settimane per completare l’intero percorso da Roma a Brindisi e, come ogni «autostrada» che si rispetti, anche l’Appia aveva i suoi punti di ristoro dove rifocillarsi, cambiare i cavalli e sostare per il riposo diurno e notturno. Tipiche della «Regina Viarum» e delle altre strade consolari romane erano poi i marciapiedi per i viandanti sprovvisti di carro o cavallo e le pietre miliari, che indicavano le distanze principali. Una grande via di comunicazione destinata a servire la popolazione rurale e urbana, favorendo scambi di ogni tipo e abbattendo distanze e barriere. Tenuta costantemente sotto attenta manutenzione fino alla caduta dell’Impero, la via Appia è rimasta la principale infrastruttura di trasporto del sud dell’Italia per secoli, nonostante il declino vissuto nel Medioevo, ed è stata riportata agli antichi splendori dai papi e dai reali di Napoli. La commissione UNESCO ha riconosciuto il soddisfacimento di tre criteri necessari per entrare nella lista: dare una testimonianza unica o comunque eccezionale di una tradizione culturale o di una civiltà viva o scomparsa; essere un esempio eccezionale di un tipo di edificio, insieme architettonico o tecnologico o paesaggistico che illustri una o più fasi significative della storia dell’umanità; essere associato direttamente o tangibilmente a eventi o tradizioni viventi, a idee o credenze, a opere artistiche e letterarie di eccezionale importanza universale.
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PARALIMPIADI AZZURRE FRA PRIME VOLTE RECORD E LACRIME
Undici volti da Parigi 2024, edizione dei Giochi paralimpici che ha visto la spedizione azzurra stabilire nuovi primati
Scegliere è sempre difficile. In ogni ambito. Figurarsi fra i 147 protagonisti di una Paralimpiade da sogno, che ha visto la nostra nazionale tornare in Italia con 24 medaglie d’oro e 71 totali, in ben undici discipline. Gli azzurri ci hanno regalato emozioni a profusione, successi, fair play e piccoli drammi sportivi. Con qualche difficoltà abbiamo però scelto dieci volti, a loro modo indimenticabili, di questi Giochi di Parigi 2024.
Stefano Raimondi (nuoto)
Nello squadrone azzurro di nuoto, terzo nel medagliere della disciplina con 16 ore, 5 argenti e 15 bronzi, il cannibale di medaglie è Stefano Raimondi. Il 26enne veronese di Soave, ha sfiorato l’en-plein, ripetendo l’impresa di Tokyo nei 100 metri rana SB9 e salendo sul gradino più alto del podio anche nei 100 metri stile libero, nei 100 m farfalla S10,
nei 200m misti SM10 e nella staffetta 4x100m stile libero (con record del mondo), oltre a firmare l’argento nei 100 metri dorso S10.
Simone Barlaam (nuoto)
Pluricampione d’Europa e del mondo, il 24enne romano Simone Barlaam ha chiuso Parigi 2024 con tre ori e un argento, abbinando ai successi nei 50m stile libero S9 e nella staffetta 4x100 mista altrettanti record del mondo, cui si somma il primato europeo nei 100m farfalla S9.
Assunta Legnante (atletica)
Napoletana, 46 anni, Assunta Legnante si è ripresa a Parigi il titolo paralimpico nel getto del peso F12. Con un best di 14.54 metri l’azzurra ha chiuso al primo posto la finale allo Stade de France, davanti all’uzbeka Safiya Burkhanova, argento con 14.12, e alla cinese Yuping Zhao, bronzo con 12.21. Legnante aveva già vinto l’argento nel lancio del disco. E ha toccato quota sei medaglie alle Paralimpiadi, nonché tre ori nel peso dopo quelli di Londra 2012 e Rio 2016.
Bebe Vio Grandis (scherma)
Non sempre si può vincere in pedana, ma dalla pedana si può uscire comunque vincitori. Anche se, come nel caso della 27enne veneziana Bebe Vio Grandis, non riesce il tris nel fioretto individuale dopo gli ori di Rio 2016 e Tokyo 2020. L’azzurra si è dovuta “accontentare” del bronzo e lo ha fatto in grande stile. “Sono felicissima per questa medaglia. Non è l’oro che tutti si aspettavano – le sue parole - ma io sono felice. Non è tutto regalato, è bellissimo”.
Matteo Parenzan e Giada Rossi (tennistavolo)
Due volti hanno illuminato la spedizione italiana nel tennistavolo. Uno è il 21enne Matteo Parenzan, campione mondiale ed europeo in carica, che ha conquistato la prima storica medaglia d’oro alle Paralimpiadi per l’Italia del “ping pong”, battendo per 3-0 nella finale del singolare di classe 6 il thailandese Rungroj Thianiyom. L’altra è la 30enne friulana Giada Rossi che, di lì a poco, lo ha emulato nel singolare femminile di tennistavolo WS1-2 sconfiggendo la cinese Jing Liu, vincitrice degli ultimi quattro titoli paralimpici.
Donato Telesca (pesistica)
La prima medaglia olimpica al para power-
38enne specialista dell’arco ricurvo, ha finalmente completato la sua rincorsa all’oro paralimpico. Argento nell’individuale a Londra 2012 e nella gara a squadre miste a Tokyo 2020, bronzo a Rio con Roberto Ayroldi e in solitaria a Parigi, la piemontese ha potuto finalmente baciare la medaglia più preziosa, dopo la gara a squadre vinta assieme a Stefano Travisani.
lifting italiano, in 11 edizioni dei Giochi, l’ha invece regalata Donato Telesca, 25enne lucano. Argento mondiale 2023, categoria -72 kg, Telesca ha sollevato 213 kg alla seconda prova chiudendo alle spalle del maltese Bonnie Bunyau Gustin, nuovo primatista del mondo con 232 kg, e del cinese Peng Hu.
Luca Mazzone (ciclismo)
Autentico gigante dello sport italiano, Luca Mazzone ha portato a 12 le sue medaglie olimpiche: due nel nuoto a Sidney 2000 e ben 10 nel paraciclismo. Il palmares del 52enne di Terlizzi (Bari), portabandiera azzurro nella cerimonia d’apertura, si è arricchito con gli argenti nella cronometro H2 e nella staffetta mista H1-5 e con il bronzo nella prova in linea H1-2.
Rigivan Ganeshamoorthy (atletica, disco)
Il 25enne romano, originario dello Sri Lanka, è uno sportivo tout court, tanto da essersi cimentato anche col basket in carrozzina e con la scherma, vincendo peraltro il titolo italiano nel 2023. Ma è nell’atletica e, soprattutto nei lanci, che eccelle. Nel “disco” F52, a Parigi, ha conquistato la medaglia d’oro migliorando per tre volte il record del mondo. E nella successiva intervista tv ha dato spettacolo. Esordendo con uno spiazzante «Che devo dì?» e poi chiosando con un ironico e dissacrante: «Se questo mondo inizia a piacermi? Ma sì dai. Un po’ troppi disabili forse eh».
Elisabetta Mijno (tiro con l’arco)
Elisabetta Mijno, 38enne specialista dell’arco ricurvo, ha finalmente completato la sua rincorsa all’oro paralimpico. Argento nell’individuale a Londra 2012 e nella gara a squadre miste a Tokyo 2020, bronzo a Rio con Roberto Ayroldi e in solitaria a Parigi, la piemontese ha potuto finalmente baciare la medaglia più preziosa, dopo la gara a squadre vinta assieme a Stefano Travisani.
Ambra Sabatini (atletica, 100m piani)
Oscar della sfortuna alla 22enne livornese Ambra Sabatini. Arrivata alla finale dei 100m piani T63 da campionessa paralimpica e mondiale in carica, Sabatini è caduta negli ultimi metri mentre duellava per l’oro con Martina Caironi (terzo oro alle Paralimpiadi per lei). Travolta anche l’altra azzurra, Monica Contraffatto, poi “riportata” sul podio dalla giuria.
Vent’anni, 7.435 giorni. E 141 partite, per oltre 12mila minuti di calcio.
Tanto ha dovuto attendere la nazionale di calcio di San Marino per tornare alla vittoria, peraltro la seconda in assoluto nella storia della Serenissima. L’avversaria, come il 28 aprile 2004, era il Liechtenstein. Identico il punteggio, 1-0, e lo stadio, quello di Serravalle. Ben diversa, però, la posta in palio: il gol di Nicko Sensoli ha infatti regalato a San Marino il primo successo in un incontro di calcio ufficiale.
È successo lo scorso 5 settembre. Il contesto è la prima giornata della Nations League, nel gruppo 1 della Lega D. Di fronte San Marino, espressione di circa 33,8 mila residenti, e Liechtenstein, meno di 40mila abitanti ma in archivio più di un successo parziale in oltre 40 anni di storia calcistica. Alla finestra, terza squadra del girone, quella Gibilterra che rappresenta una popolazione appena superiore ai 40mila abitanti, tornata a vincere a settembre dopo 22 mesi: 1-0 su Andorra, come nel novembre 2022. Gibilterra che, visti i precedenti con le rivali, potrebbe essere indicata come la favorita del girone, davanti a Liechtenstein e San Marino.
Però. C’è un però. Ultima nel ranking Fifa alla posizione numero 210, 34 gol segnati (uno dei quali dopo soli 8 secondi, nell’1-7 con l’Inghilterra 31 anni fa) e oltre 800 incassati dal debutto pallonaro datato 1990, San Marino si è ritagliata una notte da sogno. L’incantesimo, che neppure le amichevoli con Saint Kitts e Nevis erano riuscite a spezzare (1-3 la prima, 0-0 la seconda), è stato interrotto da una rete del 19enne centrocampista Sensoli, tornato a giocare in patria dopo alcuni trascorsi nella Serie D italiana. In precedenza, c’era stato un gol di Luque Notaro annullato al Var. Dopo, tanta orgogliosa resistenza da parte della rappresenta -
IL PRIMO “HURRÀ”
DI SAN MARINO
La nazionale di calcio del Titano ha spezzato lo storico digiuno in partite ufficiali, battendo per 1-0 il Liechtenstein
tiva del Titano. Segnare un gol decisivo per la vittoria, la prima in partite ufficiali è stato per Sensoli «un’emozione incredibile». Il centrocampista ha approfittato di un maldestro intervento aereo di un difensore al limite dell’area, inserendosi alle spalle del proprio marcatore e superando il portiere con un preciso pallonetto. Grazie al successivo pareggio per 2-2 tra Gibilterra e Liechtensteincon vantaggio iberico al 7’ di recupero e pari teutonico 7 minuti più tardi - ha poi spedito San Marino al primo posto nel gruppo 1. Un primato che gli uomini del ct Roberto Cevoli
proveranno a difendere il prossimo 10 ottobre, nella sfida esterna con Gibilterra. San Marino tornerà poi in campo tre giorni più tardi, per un’amichevole sul campo dell’Andorra. I precedenti non inducono all’ottimismo: tre partite, tre sconfitte, zero gol segnati per la Serenissima. Quindi, a novembre, San Marino le ultime due sfide di Nations League: il 15 a Serravalle con Gibilterra e il 18 a Vaduz con il Liechtenstein. L’importante, intanto, sarà evitare di montarsi la testa. Ma all’ombra del Titano, soprattutto nel calcio, proprio non ci sono abituati.
SINNER E I SUOI “FRATELLI” UN’ESTATE DI PRIME VOLTE
PER IL TENNIS ITALIANO
Il numero 1 al mondo ha vinto gli US Open, Errani e Paolini l’oro alle Olimpiadi dove Musetti aveva rotto dopo un secolo il digiuno azzurro di medaglie
Nel 2020 la Federazione Italiana Tennis e Padel annoverava 325mila tesserati. Tre anni dopo, complici lo spettacolo delle ATP Finals e la Coppa Davis vinta dall’Italia (oltre alla diffusione del padel), il numero è lievitato a 821mila. E alla fine del 2024 l’obiettivo è raggiungere il milione. Una passione dilagante, travolgente, inarrestabile. Alimentata di continuo da traguardi che sembravano fuori portata, fino a pochi anni fa. I due tornei Slam vinti e il primato nella classifica mondiale Atp consolidato da Jannik Sinner, in primis. Ma anche l’oro a Parigi 2024 delle splendide Sara Errani e Jasmine Paolini, il bronzo olimpico di Lorenzo Musetti e il titolo nel doppio misto all’US Open del sodalizio Errani-Vavassori. Il tennis azzurro esplora nuovi orizzonti di gloria, con volti sempre nuovi e con la prospettiva che, no, non sono state soltanto avventure estive. Già, che estate... Il “buon giorno” si è visto dal mattino. Anzi, dall’aurora. Dieci giugno: malgrado la sconfitta in semifinale al Roland Garros, Jannik Sinner primo italiano della storia a raggiungere la vetta del ranking Atp (Association of tennis professionals). Da numero 1, il campione altoatesino ha vinto poi Halle ed è uscito ai quarti di Wimbledon per poi annunciare, il 24 luglio, il forfait per le Olimpiadi causa tonsillite. Gli hater da tastiera, sempre pronti ad attaccare quel campione di stile ed educazione che è Jannik, non si sono fatti pregare
due volte per accusarlo – di nuovo – di scarso attaccamento ai colori dell’Italia. Dimenticando che si tratta dello stesso Sinner che ha trascinato gli azzurri al trionfo nella Coppa Davis 2023. A togliere il sonno al numero 1 del mondo, tuttavia, è stata la vicenda Clostebol, steroide anabolizzante proibito dall’agenzia mondiale antidoping. La dimostrata contaminazione via transdermica dal suo (ex) massaggiatore, che durante Indian Wells stava curando un taglio alla mano con un farmaco da banco contenente Clostebol, ha scagionato Sinner, fra i mugugni di qualche collega. Con ritrovata serenità e condizione atletica crescente, il fenomeno di San Candido ha esaltato tifosi e appassionati di tennis di tutto il mondo andando a vincere anche gli US Open, secondo Slam dell’anno e della carriera dopo gli Australian Open a inizio anno. La finale è stata un capolavoro di classe e freddezza contro l’idolo di casa Taylor Fritz.
Non solo Sinner, però. Perché alle Olimpiadi l’Italia ci è comunque andata. Dipingendo un’edizione memorabile. Proprio Fritz è stato uno degli ostacoli superati dal carrarino Lorenzo Musetti, testa di serie numero 11, nel tabellone del singolare maschile. L’odore della medaglia, Musetti, ha iniziato a sentirlo dopo l’altisonante successo su Alexander Zverev - attuale vice Sinner in classifica Atpnei quarti di finale. In semifinale, però, ha incontrato il Destino, ovvero un Novak Djokovic a caccia dell’unico successo che ancora gli
mancava, in un palmares senza eguali. Musetti ha dato fondo alle sue ultime energie per conquistare il bronzo, a conclusione di un’altalena di emozioni, in tre set, con il canadese Félix Auger-Aliassime.
Il giorno dopo, domenica 4 agosto, Sara Errani e Jasmine Paolini sono scese in campo con le russe Mirra Andreeva e Diana Shnajder, sotto bandiera olimpica. Eliminate nell’ordine neozelandesi, francesi, britanniche e le ceche Muchova e Noskova, “giustiziere” delle teste di serie numero 1 Gauff e Pegula, le due azzurri hanno dovuto faticare non poco per risalire la china in un match complicato dal 2-6 nel primo set. Dopo il pronto riscatto nel secondo parziale, la partita si è decisa al super tie-break. Le due russe sono risalite fino all’8-7, poi sul servizio di Paolini un rovescio in rete di Shnajder e un dritto troppo corto di Andreeva hanno consegnato il meritato oro all’Italia. Meritato per Errani, alla sua quinta Olimpiade. E per Paolini che quest’anno era già arrivata in finale sia al Roland Garros, sia a Wimbledon, fermandosi a un passo dal successo. Assieme, invece, Sara e Jasmine si
Sara Errani e Jasmine Paolini sono scese in campo con le russe Mirra Andreeva e Diana Shnajder. Eliminate nell’ordine neozelandesi, francesi, britanniche e le ceche Muchova e Noskova, “giustiziere” delle teste di serie numero 1 Gauff e Pegula, le due azzurri hanno dovuto faticare non poco per risalire la china in un match complicato.
© Marco Iacobucci Epp/shutterstock.com
erano imposte agli Internazionali d’Italia a Roma. L’unica medaglia ai Giochi olimpici, nel tennis, era rimasta per un secolo il bronzo di Uberto de Morpurgo nel singolare maschile a Parigi 1924.
Celebrata la “sbornia” olimpica, il tennis azzurro ha continuato a brindare anche agli US Open. Grazie a Sinner, ma grazie anche a Sara Errani e Andrea Vavassori, prima coppia italiana nella storia a conquistare un torneo di Slam nel doppio misto, grazie al 7-6, 6-5 in finale sul duo Townsend/Young.
Lo stato di salute del nostro tennis è fotografato dai ranking mondiali. Nel singolare maschile, al 9 settembre l’Italia ha nove tennisti in Top 100, sette in Top 50 e i primi cinque (Sinner, Musetti, Cobolli, Arnaldi e Darderi) di età pari o inferiore ai 23 anni. Fra le donne Paolini è quinta nel ranking Atp, con cinque italiane fra le prime cento. Nel doppio Bolelli e Vavassori sono quarti, Errani e Paolini quinte nelle “Race”, le classifiche che stabiliscono gli otto partecipanti – per ogni specialità - alle Finals di fine stagione. C’è ancora da divertirsi.
VOLLEY, SU IL SIPARIO LA SIR PERUGIA VINCE LA SUPERCOPPA
A Firenze, davanti ai 3.800 spettatori di Palazzo Wanny, gli umbri hanno sconfitto in finale l’Itas Trentino per 3-2, dopo aver eliminato Piacenza
Si è aperta con il successo della Sir Perugia nella Delmonte Supercoppa la stagione della pallavolo maschile. In un Palazzo Wanny sold-out, a Firenze, la squadra di Angelo Lorenzetti ha battuto in finale l’Itas Trentino, dopo aver superato la Gas Sales Bluenergy Piacenza in semifinale. Fra i grandi protagonisti Yuki Ishikawa, subentrato nel primo dei due incontri e rivelatosi “l’uomo in più” degli umbri, festeggiati da circa 450 rumorosi, colorati e sportivi tifosi. L’atmosfera del volley, del resto, sembra quasi irreale. Anche quando la passione è solida e tangibile, l’avversario è un rivale, ma mai un nemico. Non ci sono barriere fisiche fra le tifoserie, né fra spalti e campo. E quando un giocatore s’infortuna, come accaduto al trentino Kamil Rychlicki contro Monza in semifinale, quando viene accompagnato fuori riceve l’applauso di tutto il palasport. Nessuno che urla «Devi morire!», per intendersi. Senza il lussemburghese, in finale, l’Itas Trentino è comunque volata sul 2-1, per poi subire la rimonta della Sir Perugia.
PERUGIA-PIACENZA 3-1 (25-22, 23-25, 25-20, 25-21)
Nella prima semifinale, i “Block Devils” di Perugia hanno sconfitto la Gas Sales Bluenergy Piacenza in quattro set con una prestazione in crescendo. È stato un match equilibrato e combattuto, per larghi tratti punto a punto,
con i ragazzi di Angelo Lorenzetti che hanno fatto la differenza in battuta (6 ace) e soprattutto a muro (10 block vincenti). Quattro giocatori in doppia cifra fra gli umbri: andato Agustin Loser, che ha concluso la partita con 11 punti e due muri, Ben Tara (15 punti e un muro), Semeniuk che ne ha totalizzati 10 e l’inatteso Ishikawa che, entrato dalla panchina, è andato in doccia con 12 punti e il 46 per cento di efficacia in attacco. La Gas Sales Bluenergy Piacenza ha pagato una ricezione non certo nella migliore giornata, troppi errori e poca incisività anche in battuta. Diciotto i punti di Maar e 12 quelli di Romanò, due muri per Kovacevic e Galassi.
TRENTO-MONZA
3-0 (25-20; 25-21; 2523)
La seconda semifinale di sabato 21 settembre ha opposta l’Itas Trentino alla Vero Volley Monza, ovvero i campioni d’Europa ai finalisti scudetto (contro Perugia) dell’ultima Superlega. Come spesso accade, il 3-0 finale non racconta quanto di buono espresso anche da Monza che, nella parte centrale dei primi due parziali e nel finale del terzo (era avanti 21-23) ha messo in seria difficoltà il sestetto di Angelo Soli. L’Itas Trentino ha perso Rychlicki a metà del primo set, sull’1111, ma ha trovato in Gabi Garcia un affidabile cambio, sia in semifinale (11 punti, con il 75 per cento in attacco), sia nella successiva finale con Perugia. Bene anche Sbertoli, alla
prima da capitano, preciso e puntale in regia, Lavia e Michieletto (30 punti in due) risolutivi nei momenti clou della sfida. Tra le fila brianzole top scorer il finlandese Marttila, preciso in diagonale e in doppia cifra con 15 palloni a terra. Buona prestazione anche da parte del tedesco Rohrs con 9 punti e del canadese Szwarc, uomo delle parità ed efficace al servizio nel secondo e terzo parziale.
PERUGIA-TRENTO 3-2 (25-18, 19-25, 1525, 25-17, 15-8)
Quanta Italvolley in questa finale. Da una parte e dall’altra, diversi azzurri giunti ai piedi del podio a Parigi 2024: Daniele Lavia, Alessandro Michieletto, Riccardo Sbertoli e Gabriele Laurenzano nell’Itas Trentino), dall’altra Simone Giannelli e Roberto Russo nella Sir Susa Vim Perugia. A bordo campo, anche il ct dell’Italia, Fefè De Giorgi.
Perugia e Trento hanno fatto sul serio sin dalle prime battute, con un ace per parte. Subito in palla Ishikawa e avanti con Loser, mentre Trento si è affidata al muro: ben cinque decisivi (quattro di Flavio) nei primi 10 punti. Ribaltone Sir a metà primo set, con sette punti di fila e due ace consecutivi di
Fra i grandi protagonisti Yuki Ishikawa, subentrato nel primo dei due incontri e rivelatosi “l’uomo in più” degli umbri, festeggiati da circa 450 rumorosi, colorati e sportivi tifosi.
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Semeniuk (19-14), poi un paio di muri di Ishikawa e altrettante zampate di Ben Tara hanno chiuso il parziale (25-18).
Nel secondo parziale, primo allungo per l’Itas col muro di Michieletto e l’ace di Garcia (10-6). Ishikawa ha tenuto Sir a -3, ma la differenza delle percentuali in ricezione e i muri di Michieletto e Lavia hanno spianato all’Itas il tappeto rosso verso l’uno pari. Un Michieletto in crescendo ha lanciato Trento sul 7-4 nel terzo set, con due attacchi vincenti di fila. Gialloblù in fuga grazie a un ace una parallela da seconda linea di Garcia. Il portoricano dell’Itas è stato decisivo anche di tacco, in una spettacolare azione difensiva perfezionata da Sbertoli e Michieletto. Il 25-15 racconta alla perfezione gli equilibri del parziale.
Perugia però ha doti non comuni. E nel quarto parziale è tornata in bella copia, piegando con continuità gli argini dell’Itas con gli ispirati Ishikawa, Ben Tara, Semeniuk e Loser (25-20). L’inerzia è proseguita al tie-break con Perugia subito avanti 4-0, conservando e poi ampliando il vantaggio malgrado il tentativo di rimonta di Trento. Alla fine, Ishikawa è stato premiato miglior giocatore e Perugia ha sollevato il primo trofeo della nuova stagione. (A. P.).
RIDERE È UNA COSA
SERIA E UN TOCCASANA PER IL CUORE
Un’etologa e un neuroscienziato spiegano quali sono le basi neurali del riso andando all’origine del cervello sociale
di Anna Lavinia
Fausto Caruana, Elisabetta Palagi
Perché ridiamo
Il Mulino, 2024 – 19,00 euro
“Chi ride è fuori” recita il sottotitolo di un fortunato game show dove comici ed attori si sfidano a non ridere. Ma come si potrebbe mai smettere di farlo? È davvero impensabile trattenere un’azione così primitiva, spontanea e anche un po’ animalesca che accompagna la nostra vita. Dalla rasserenante risata di un bambino alla satira più coinvolgente della stand-up comedy, il riso accomuna tutte le culture e tutte le età. Di sicuro nell’infanzia si ride molto di più che nella vita adulta, da piccoli infatti ridiamo almeno un centinaio di volte al giorno. D’altronde la risata abbonda nella bocca di tutti gli esseri umani e non solo. Le specie animali ridono eccome, non solo la iena ridens, anzi le sue vocalizzazioni sono associate nella maggior parte dei casi a stati di agitazione e paura. Sono invece alcuni primati come i bonobo ad avere delle incredibili somiglianze con il riso umano sia nel modo di sorridere (nei movimenti facciali) sia nel suo contesto funzionale. E poi ci sono i leoni marini che mostrano la loro faccia da gioco durante le attività ludiche.
Due cose appaiono chiare fin da subito mentre i due scienziati provano a spiegarlo nei sei capitoli del libro: non sono solo gli umani a ridere e non meno importante, la risata non è esclusivamente connessa allo humor. In effetti, non è sempre tutto riso e fiori! In neurologia il tema della risata è molto serio e ridiamo anche quando non c’è niente da ridere. È il caso di una condizione patologica chiamata sindrome del riso o del pianto – sindrome pseudobulbare –dove la persona, a causa di malattie degenerative o lesioni cerebrali, ha incontrollabili manifestazioni di riso o di pianto dissociate totalmente dalla componente emotiva. L’immagine del sorriso beffardo di Joker richiamato alla mente trae ispirazione proprio da questi soggetti.
Per una serie di motivi, è estremamente complicato studiare scientificamente le basi neurali del riso umano. Come si fa a far ridere a comando una persona sottoposta a un test di laboratorio mentre è sdraiata senza possibilità di muoversi in una macchina con un manipolo di ricercatori davanti? Gli studiosi al comando di questo viaggio neuroetologico sono riusciti ad arginare il problema della ricerca studiando
un altro aspetto fondamentale da un punto di vista nuovo. Sono tutti però concordi nell’affermare che ridere è un atto straordinario, personale ma allo stesso tempo collettivo, si ride per stabilire legami e riconoscersi all’interno di un gruppo sociale. Quanto è facile ridere di qualcuno per consolidare il legame con qualcun altro? C’è inoltre un uso strategico della risata, un contraltare del riso spontaneo ed emozionale.
L’esperienza quotidiana ci insegna infatti che possiamo ridere anche quando non vogliamo, in altre parole il riso non implica necessariamente che si è felici mentre lo si fa. Effettivamente c’è una strana tristezza collegata alla risata quando si tratta di modi di dire, una singolare associazione tra il ridere e il morire. Ridere a crepapelle, morire dal ridere o ancora sbellicarsi dalle risate. Tutte espressioni che richiamano situazioni tragiche mentre si vive un momento di ineffabile felicità. Di qualunque tipo sia, resta sicuramente un’attività gratuita e alla portata di tutti. La risata è un toccasana anche per il cuore, e lo dice la scienza non i comici.
Marta Aidala
La strangera
Guanda, 2024 – 18,00 euro
I rumori del bosco, gli odori della terra e le cime delle montagne saranno gli unici confidenti di Beatrice che ha abbandonato la sua città per diventare la straniera di un rifugio in alta quota. La montagna con i suoi silenzi e le sue asperità conduce il viaggio che la protagonista compie alla ricerca di un nuovo posto nel mondo. (A. L.)
Ilona Jerger
Konrad
Neri Pozza, 2024 – 20,00 euro
Konrad di cognome fa Lorenz e di professione etologo, zoologo e premio Nobel per la medicina e la fisiologia nel 1973. Un romanzo-biografia carico di verità e con un po’ di humor al punto giusto per raccontare una storia che vive tra gli errori ed orrori del Novecento. Per veri appassionati di biologia e non solo. (A. L.)
Lawrence Osborne Santi e bevitori
Adelphi, 2024 – 19,00 euro
Si può curare una patologia nel luogo dove quella “condizione” non dovrebbe nemmeno esistere? Teoricamente sì, ed è proprio quello che si propone di fare, nella sua astuta scelta di disintossicazione, l’autore di questo libro che intraprende un viaggio verso il mondo islamico per un’esperienza illuminante a caccia di alcol. (A. L.)
ESTAR Toscana
Scadenza, 3 ottobre 2024
CONCORSI PUBBLICI PER BIOLOGI
Procedura di stabilizzazione, per titoli ed esami, per la copertura di due posti di dirigente biologo a tempo indeterminato, disciplina di patologia clinica, area della medicina diagnostica e dei servizi, per l’Azienda ospedaliero-universitaria Pisana. Gazzetta Ufficiale n. 71 del 03-09-2024.
UNIVERSITÀ “LA SAPIENZA” DI ROMA
Scadenza, 10 ottobre 2024
Procedura di selezione per la copertura di un posto di ricercatore a tempo determinato in tenure track e pieno, GSD 05/ BIOS-15, per il Dipartimento di biologia e biotecnologie “Charles Darwin”. Gazzetta Ufficiale n. 73 del 10-09-2024.
AZIENDA SOCIO-SANITARIA TERRITORIALE SANTI PAOLO E CARLO DI MILANO
Scadenza, 10 ottobre 2024 È indetto un concorso pubblico, per titoli ed esami, per la copertura a tempo indeterminato e a tempo pieno di tre posti di dirigente biologo, disciplina di patologia clinica. Le domande di partecipazione, dovranno prodotte tramite procedura telematica sul sito https://asst-santipaolocarlo. iscrizioneconcorsi.it. Gazzetta Ufficiale n. 73 del 10-09-2024.
AZIENDA OSPEDALIERO-UNIVERSITARIA “SAN LUIGI GONZAGA” DI ORBASSANO
Scadenza, 13 ottobre 2024
Conferimento dell’incarico quinquennale di direttore della S.C.D.O. Laboratorio analisi cliniche e microbiologiche. Gazzetta Ufficiale n. 74 del 13-09-2024.
FONDAZIONE IRCCS POLICLINICO “SAN MATTEO” DI PAVIA
Scadenza, 13 ottobre 2024
Concorso pubblico, per titoli ed esami, per la copertura di un posto di dirigente biologo a tempo indeterminato e pieno, disciplina di patologia clinica. Gazzetta Ufficiale n. 74 del 13-09-2024.
FONDAZIONE IRCCS POLICLINICO “SAN MATTEO” DI PAVIA
Scadenza, 13 ottobre 2024
Concorso pubblico, per titoli ed esami, per la copertura di un posto di dirigente biologo a tempo indeterminato e pieno, disciplina di microbiologia e virologia, per la SC Microbiologia e virologia. Gazzetta Ufficiale n. 74 del 13-09-2024.
UNIVERSITÀ DI ROMA “TOR VERGATA”
Scadenza, 17 ottobre 2024
Procedura di selezione per la copertura di un posto di ricercatore a tempo determinato in tenure track e pieno, GSD BIOS-05/A - Ecologia, per il Dipartimento di biologia. Gazzetta Ufficiale n. 75 del 1709-2024.
UNIVERSITÀ DI ROMA “TOR VERGATA”
Scadenza, 17 ottobre 2024
Procedura di selezione per la copertura di un posto di ricercatore a tempo determinato in tenure track e pieno, GSD BIOS01/A - Botanica generale, per il Dipartimento di biologia. Gazzetta Ufficiale n. 75 del 17-09-2024.
UNIVERSITÀ DI ROMA “TOR VERGATA”
Scadenza, 17 ottobre 2024
Procedura di selezione per la copertura di un posto di ricercatore a tempo determinato in tenure track e pieno, GSD BIOS10/A - Biologia cellulare e applicata, per il Dipartimento di biologia. Gazzetta Ufficiale n. 75 del 17-09-2024.
CONSIGLIO NAZIONALE DELLE RICERCHE - ISTITUTO DI BIOLOGIA E PATOLOGIA MOLECOLARI DI ROMA
Scadenza, 2 ottobre 2024
È indetta una selezione pubblica per il conferimento di una borsa di ricerca per laureati per ricerche nel campo dell’area scientifica «Neurobiologia» da usufruirsi per la seguente tematica: «Studio di due varianti della tubulina umana TUBB2A associate a malattie neurologiche e neurodegenerative utilizzando Drosophila melanogaster come organismo modello». La borsa di ricerca avrà durata di dodici mesi. Gazzetta Ufficiale n.75 del 17-09-2024.
CONSIGLIO NAZIONALE DELLE
RICERCHE - ISTITUTO DI BIOSCIENZE E BIORISORSE DI BARICO
Scadenza, 13 ottobre 2024
È indetta una selezione pubblica per una borsa di ricerca per laurea magistrale: laurea in scienze agrarie, scienze biologiche, scienze e tecnologie alimentari, biotecnologie agroindustriali; decreto ministeriale 5 maggio 2004: 77/S Scienze e tecnologie agrarie, 69/S laurea in scienze della nutrizione umana, 78/S scienze e tecnologie alimentari, 6/S biologia, 7/S biotecnologie agrarie, 8/S biotecnologie industriali. Tematica «Applicazione di strategie di breeding avanzato in pomodoro per la qualità del frutto e la resistenza a stress abiotici». Gazzetta Ufficiale n. 76 del 20-09-2024.
ARTRITE PSORIASICA L’INFIAMMAZIONE CRONICA
DI CUTE E ARTICOLAZIONI
Fattori genetici, immunologici e ambientali possono ritardare la diagnosi causando danni irreversibili
di Daniela Bencardino *
La psoriasi è una condizione cutanea infiammatoria cronica che colpisce l’1-3% della popolazione mondiale, e fino al 30% dei pazienti è affetto anche da artrite psoriasica. Un’analisi trasversale dei pazienti con artrite psoriasica ha rivelato che gli uomini hanno maggiori probabilità di sviluppare coinvolgimento assiale e danni articolari, mentre le donne hanno maggiori probabilità di andare incontro a limitazioni funzionali e compromissione della qualità della vita [1]. L’artrite psoriasica è caratterizzata da manifestazioni muscoloscheletriche e non, con livelli molto alti di morbilità. Le manifestazioni muscoloscheletriche includono artrite, entesite (infiammazione che colpisce la zona di inserzione del tendine sull’osso), dattilite (gonfiore di uno o più dita di mani e piedi) e spondiloartrite assiale (malattia reumatica infiammatoria dello scheletro assiale), che possono essere il risultato di meccanismi immunitari eterogenei. Le manifestazioni non muscoloscheletriche, invece, includono disturbi cutanei e ungueali, ma anche uveite (infiammazione della membrana posta tra la cornea e la sclera, nota come uvea), malattie infiammatorie intestinali (IBD), sindrome metabolica e malattie cardiovascolari, ansia e depressione. Proprio alla luce di queste diverse manifestazioni cliniche, viene utilizzato il termine “malattia ombrello” per riconoscere il fatto che l’infiammazione osservata nei pazienti è sistemica e non necessariamente confinata alle articolazioni [2].
L’80% dei pazienti con artrite psoriasica presenta psoria-
* Comunicatrice scientifica e Medical writer
si prima di sviluppare sintomi muscoloscheletrici. La forma più comune è la psoriasi a placche, nota anche come psoriasi volgare, ma si possono riscontrare anche altre forme, tra cui la psoriasi pustolosa, la psoriasi guttata, la psoriasi ungueale, la psoriasi eritro-dermica e la psoriasi inversa. Pertanto, la valutazione e l’identificazione di lesioni cutanee o ungueali nei pazienti con manifestazioni muscoloscheletriche sono una priorità assoluta per una diagnosi precoce e accurata [3].
Sebbene la maggior parte degli studi mostri un aumento nella prevalenza di artrite psoriasica negli ultimi anni, la sua diagnosi rimane sottovalutata e quindi i casi sottostimati. Un singolo fattore potrebbe non essere in grado di definire i pazienti a rischio ma l’interazione di più fattori ostacola la diagnosi. Mentre la maggior parte degli studi mostra che la mortalità complessiva non è superiore a quella della popolazione generale, la mortalità specifica per cause legate alle comorbilità cardiovascolari e alle manifestazioni psichiatriche sembra essere più elevata. Un approccio terapeutico mirato a quei fattori di rischio modificabili, come l’obesità, la diagnosi precoce e la gestione delle comorbilità associate potrebbe ridurre il rischio di sviluppare artrite psoriasica e migliorarne gli esiti [4].
Patogenesi
I disordini psoriasici si sviluppano a seguito dell’interazione tra la predisposizione genetica, i fattori ambientali, quelli locali del sito della malattia (articolazioni, cute, colonna vertebrale) e le risposte immunitarie innate e adattative che si combinano. Le cellule del sistema immunitario innato attivate da stimoli ambientali o meccanici portano all’espan-
sione delle cellule di tipo 1 o delle cellule di tipo 17. L’equilibrio delle cellule T effettrici nei siti locali e la predisposizione genetica influenzano il fenotipo della malattia, gli esiti strutturali e la risposta al trattamento. Sono stati proposti quattro fenotipi dell’artrite psoriasica associati a particolari alleli dei geni MHC della classe I e a sottogruppi di cellule T effettrici:
1. la predominanza cutanea, dove i linfociti T CD8 interagiscono con le cellule Th17 che sono derivate dall’interleuchina-23 (IL-23);
2. la predominanza sinoviale, dove le cellule T CD8 interagiscono con le cellule Th1 derivate dall’interleuchina IL-12;
3. la predominanza entesica con malattia asimmetrica assiale, dove le cellule T CD8 coinvolgono sia le cellule Th1 che Th17;
4. l’artrite psoriasica mutilante, una forma grave che potrebbe derivare dall’interazione delle tre varianti genetiche con i pathways cellulari [5].
Attualmente, un’area di ricerca importante riguarda il microbioma e l’immunità mucosale, poiché i pazienti con artrite psoriasica spesso mostrano un’immunità intestinale non efficiente. Un confronto tra il microbiota intestinale dei pazienti con psoriasi e quelli con artrite psoriasica ha rivelato che le alterazioni nell’immunità intestinale possono contribuire all’infiammazione delle articolazioni e delle entesi. Altri studi hanno evidenziato un aumento di specifici precursori degli osteoclasti nei pazienti con artrite psoria-
sica, indicando potenziali differenze biologiche rispetto ai pazienti con sola psoriasi. Ad oggi, però, non ci sono biomarcatori validati per prevedere lo sviluppo dell’artrite nei pazienti con psoriasi [6,7].
Anche i traumi possono essere responsabili dell’insorgenza dell’artrite psoriasica. Infatti, una delle sue caratteristiche distintive è che la patologia si verifica sul sito delle entesi, l’inserzione dei tendini e dei legamenti sulla superficie ossea, che trasmettono forze meccaniche tra muscoli e ossa facilitando la mobilità dello scheletro. Solitamente, l’entesite è cronica e può essere innescata da sollecitazioni meccaniche, pertanto colpisce principalmente gli arti inferiori che sono esposti a forze meccaniche più elevate. I polimorfismi dei geni MHC di classe I e quelli dell’interleuchina IL-23R predispongono all’entesite. La prostaglandina E2 (PGE2) è un importante mediatore precoce, motivo per cui l’entesite risponde ai FANS in una fase precoce della malattia. La PGE2 media la vasodilatazione e potenzia la produzione di IL-17 da parte dei linfociti T, collegandosi così all’asse IL23-IL-17 noto per essere centrale nella patogenesi dell’artrite psoriasica [8].
Le caratteristiche muscolo-scheletriche
Le caratteristiche muscolo-scheletriche dell’artrite psoriasica si dividono in due tipologie principali: quelle periferiche e assiali. Le prime includono l’artrite periferica, la dattilite e l’entesite. Il sottotipo distale colpisce le articolazioni interfalangee delle mani e/o dei piedi, in particolare le parti delle
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dita e dei piedi più vicine alle unghie, con cambiamenti molto frequenti di quest’ultime. Il sottotipo oligoarticolare coinvolge fino a 4 articolazioni e di solito si presenta con una distribuzione asimmetrica. Al contrario, il sottotipo poliarticolare coinvolge più di 5 articolazioni, con distribuzione simmetrica e caratteristiche molto simile a quelle dell’artrite reumatoide.
L’artrite mutilante è un sottotipo particolarmente distruttivo di artrite psoriasica ed è associato a dita telescopiche, distruzione ossea e deformità. Sebbene sia la forma più grave perché associata a disabilità funzionale, è meno comune, si verifica in meno del 5% dei pazienti. Altre forme di malattia periferica includono l’entesite e la dattilite. L’entesite si osserva nel 30-50% dei pazienti e coinvolge più comunemente i siti di inserzione della fascia plantare e del tendine d’Achille, ma può causare dolore anche in altre aree, incluso intorno alla rotula, alla cresta iliaca, agli epicondili e agli inserimenti del muscolo sopraspinoso. La dattilite, caratterizzata da gonfiore diffuso di un intero dito della mano o del piede, spesso definito “dito a salsiccia”, rappresenta un gonfiore relativamente uniforme dei tessuti molli tra le articolazioni metacarpo-falangee e interfalangee ed è osservata nel 40-50% dei pazienti. La dattilite è spesso presente nel sottotipo di poliartrite ed è presente solo nei piedi in due terzi dei pazienti [3,9].
Il tipo assiale coinvolge principalmente la colonna vertebrale e le articolazioni sacroiliache, con l’infiammazione che si verifica tra le vertebre, coinvolgendo anche le articolazioni nelle braccia, nelle gambe, nelle mani e nei piedi possono essere coinvolte. Si verifica nel 25-70% dei pazienti con artrite psoriasica, pertanto oltre ai classici problemi articolari, alcuni pazienti con artrite psoriasica possono sviluppare infiammazione nella colonna vertebrale e nelle
articolazioni sacroiliache. Questo può causare dolore e rigidità nella parte bassa della schiena e nei glutei. A volte questa condizione viene chiamata anche spondilite, e può rendere difficile muoversi e svolgere normali attività quotidiane. Anche se l’artrite psoriasica assiale è di solito meno grave di quella spondilosica anchilosante, ha comunque un impatto significativo sulla qualità della vita ed è associata a un decorso peggiore rispetto ai pazienti senza coinvolgimento assiale. I sintomi della spondilite includono dolore e rigidità nella schiena o nel collo. Lamentare dolore alla schiena per più di tre mesi non è così frequente nella popolazione generale, pertanto un’accurata anamnesi riguardante le caratteristiche infiammatorie (dolore notturno e rigidità mattutina che dura più di 30 minuti) può differenziare l’artrite psoriasica assiale da altre cause. Tuttavia, è da sottolineare che una grande proporzione di pazienti con artrite psoriasica può avere una malattia assiale asintomatica [3,10].
Manifestazioni extra-muscoloscheletriche e cutanee
L’artrite psoriasica rientra nello spettro delle condizioni autoimmuni con una serie di problematiche extra-articolari come l’uveite e la malattia infiammatoria intestinale (IBD). Non solo, gli studi rivelano che le persone affette risentono anche di problemi cardiaci, obesità, diabete e disturbi mentali come depressione e ansia. Ricerche recenti hanno evidenziato un più alto rischio di sviluppare uveite anteriore e IBD sia nei pazienti con spondilite anchilosante che in quelli con artrite psoriasica rispetto alla popolazione generale. Inoltre, la probabilità di sviluppare uveite e IBD è più alta nei pazienti con artrite psoriasica rispetto a quelli con solo psoriasi o alla popolazione generale. L’IBD colpisce circa l’11% dei pazienti con artrite psoriasica assiale, in particolare quelli con coinvolgimento assiale. Ciò sottolinea l’importanza per i clinici di considerare queste comuni problematiche non legate alle articolazioni quando determinano il trattamento più adeguato. Inoltre, i pazienti psoriasici sono più inclini a lesioni delle mucose orali ri-
spetto agli individui sani [11,12].
Tecniche di imaging nella diagnosi
La sola valutazione clinica, a volte, non è sufficiente per una diagnosi accurata, considerata l’entità delle strutture coinvolte, la scarsità dei sintomi e la mancanza di biomarcatori. Distinguere l’artrite psoriasica da altre forme come l’osteoartrite può essere impegnativo, e l’imaging ha un ruolo complementare all’esame clinico. L’ecografia e la risonanza magnetica sono un valido supporto per la rilevazione precoce delle patologie infiammatorie guidando la scelta appropriata della terapia. La radiografia delle mani e dei piedi può mostrare sia erosioni (osteo-distruzione) che formazioni ossee juxta-articolari (osteo-proliferazione) nella stessa articolazione, e questo può distinguere l’artrite psoriasica dall’artrite reumatoide che è osteo-distruttiva per natura. Inoltre, la proliferazione ossea juxta-articolare nell’artrite psoriasica è riportata in molti studi come l’unica caratteristica differenziante tra le due forme di artrite [13].
L’ecografia può aiutare a identificare caratteristiche come la sinovite, l’entesite, la tenosinovite e la peritenonite, che possono supportare la diagnosi di artrite psoriasica. È stato dimostrato che una percentuale significativa di pazienti con psoriasi sviluppa sintomi muscoloscheletrici prima della comparsa dell’infiammazione, come articolazioni gonfie o dattilite, che possono ritardare la diagnosi. Sono state riscontrate discrepanze significative tra la valutazione clinica del reumatologo e la valutazione muscoloscheletrica tramite ecografia. Infatti, l’ecografia potrebbe informare il reumatologo della presenza di infiammazione subclinica che faciliterebbe la diagnosi di artrite psoriasica nelle fasi precoci della malattia. L’ecografia potrebbe inoltre aiutare a differenziare l’artrite psoriasica da altre condizioni reumatiche come la gotta che si manifesta con gonfiore delle dita dei piedi in maniera analoga alla dattilite [14,15].
La risonanza magnetica, infine, può rilevare quelle lesioni infiammatorie frequenti nei pazienti con artrite psoriasica che non sono specifiche della malattia. Tuttavia, alcuni particolari dell’edema midollare osseo possono essere utilizzati nella diagnosi differenziale. Per esempio, nell’artrite reumatoide l’edema si sviluppa vicino agli attacchi capsulari, mentre nell’artrite psoriasica è spesso situato più vicino all’entesi. Anche la tenosinovite potrebbe essere un’altra lesione utile nella diagnosi differenziale. Infatti, l’infiammazione dei tessuti molli intorno alla guaina tendinea è caratteristica dell’artrite psoriasica mentre nell’artrite reumatoide è comunemente osservata nelle mani e nei polsi [16]. In conclusione, per una diagnosi accurata che eviti danni irreversibili alle articolazioni, è necessario un esame completo che includa la valutazione dei sintomi articolari, la storia clinica del paziente, gli esami radiografici e i test di laboratorio attualmente disponibili.
Bibliografia
1. Aslam T, Mahmood F, Sabanathan A, Waxman R, Helliwell PS. A clinical and radiographic comparison of patients with psoriatic arthritis from different ethnic backgrounds. Rheumatol (United Kingdom). 2021;60:340–5.
2. Stober C. Pathogenesis of psoriatic arthritis. Best Pract Res Clin Rheumatol [Internet]. 2021;35:101694. Available from: https://doi.org/10.1016/j.berh.2021.101694
3. Kishimoto M, Deshpande GA, Fukuoka K, Kawakami T, Ikegaya N, Kawashima S, et al. Clinical features of psoriatic arthritis. Best Pract Res Clin Rheumatol [Internet]. 2021;35:101670. Available from: https://doi.org/10.1016/j.berh.2021.101670
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SCOPERTA LA PRIMA ALGA IN GRADO DI FISSARE L’AZOTO
Procarioti ed eucarioti sono le due forme di vita cellulari sulla Terra
Alla base della maggiore complessità che caratterizza la cellula eucariote, vi è una teoria oggi globalmente accettata e pubblicata nel 1967 dalla biologa statunitense Lynn Margulis in un articolo dal titolo “On the origin of mitosing cells” (“Sull’origine delle cellule mitotiche”). La teoria endosimbiontica spiega l’origine di due organelli cellulari, i mitocondri e i cloroplasti, come il risultato di una stretta e duratura interazione tra una cellula ospite ancestrale e un progenitore procariote. Quest’ultimo, risiedendo stabilmente nel citosol della cellula ospite e fornendo energia ed altre funzioni metaboliche in cambio di protezione e disponibilità di nutrienti, sarebbe gradualmente andato incontro ad una serie di trasformazioni che lo avrebbero reso totalmente dipendente dalla cellula ospite.
In un primo momento nel corso dell’evoluzione, un batterio endosimbionte aerobio capace di utilizzare ossigeno per produrre una molecola dall’elevata energia chimica (l’adenosina trifosfato - ATP), si sarebbe stabilito permanentemente nella cellula ospite evolvendo a mitocondrio. La cellula ospite avrebbe così guadagnato il vantaggio di una produzione interna di energia essenziale per sostenere i propri processi metabolici, consentendone l’accrescimento e il raggiungimento di una maggiore complessità. Già dotata di nucleo e un sistema semplificato di membrane interne, l’ospite avrebbe acquisito lo status di cellula eucariote e di progenitore delle cellule animali. Tale processo di endosimbiosi si sarebbe inoltre verificato più volte nel corso del tempo, spiegando quindi la presenza di più mitocondri all’interno delle cellule eucariote.
In un secondo momento, un’altra “endosimbiosi primaria” avrebbe favorito l’acquisizione da parte di una cellula già in possesso di mitocondri, di un batterio endosimbionte fotosintetico che sarebbe andato incontro allo stesso destino trasformandosi in cloroplasto. Da qui, si sarebbe invece originato il progenitore della cellula vegetale. Il gruppo di microalghe d’acqua dolce appartenente al phylum Glaucophyta si distingue per la presenza di organelli chiamati “cianelle”, dalle caratteristiche a metà strada tra i cianobatteri ed i cloroplasti. Questi cloroplasti primordiali presentano infatti una parete esterna batterica e dei micro-compartimenti in cui si fissa il carbonio, e sono un esempio di un processo evolutivo non ancora terminato probabilmente per una precoce diversificazione delle glaucofite dai gruppi delle alghe rosse e delle alghe verdi ed embriofite, da cui si sono evolute le piante superiori.
Il lungo processo evolutivo ha portato le piante negli ambienti terrestri e le alghe in quelli acquatici, ad una quasi totale autonomia in termini di sintesi di composti organici a partire da composti inorganici semplici, come l’anidride carbonica e l’acqua, sfruttando l’energia luminosa proprio grazie alla fotosintesi dei cloroplasti. Nonostante la grande disponibilità di azoto atmosferico, gli autotrofi non hanno però evoluto la capacitá di utilizzarlo se non una volta convertito in forme assimilabili quali ammonio o nitrato, piuttosto scarse in ambienti come il suolo. Per questo motivo, alcune piante come le leguminose instaurano delle simbiosi con batteri azotofissatori che si stabiliscono in aree circoscritte a livello delle radici dove inducono la formazione di particolari organi detti “no -
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duli”. L’attività di questi batteri permette di convertire l’eccesso di azoto atmosferico in biomassa ed è particolarmente rilevante per le potenzialitá in campo agronomico.
Allo stesso modo, le risorse di azoto assimilabile nell’ambiente marino sono piuttosto limitate per cui l’instaurarsi di relazioni endosimbiontiche con batteri in grado di fissare l’azoto diventa essenziale per i produttori primari marini come le alghe. Un modello di endosimbiosi proveniente dall’oceano, è rappresentato dal cianobatterio Candidatus Atelocyanobacterium thalassa (UCYN-A) che risiede stabilmente all’interno dell’alga unicellulare Braarudosphaera bigelowii. Sebbene non ancora dimostrato, sembra che la simbiosi tra l’alga e il batterio si sia verificata in tempi geologicamente recenti durante il medio-tardo Cretaceo, quando la calda superficie degli oceani e l’assenza di ossigeno, insieme alla dominanza di batteri azotofissatori e alghe B. bigelowii avrebbe favorito il loro incontro. Inoltre, la capacità di alcune microalghe di cambiare la propria dieta da autotrofa a mixotrofa (fa -
gocitosi di batteri) a seconda della disponibilità di nutrienti come fosforo e carbonio, spiegherebbe come un batterio libero nell’oceano si sia ritrovato intrappolato all’interno del citosol di un’alga. In questa stretta relazione divenuta poi permanente grazie al reciproco vantaggio dei due organismi, l’endosimbionte fornisce all’alga parte dell’azoto fissato e in una forma direttamente assimilabile mentre l’alga provvede a soddisfare anche il fabbisogno di carbonio del batterio grazie all’attività fotosintetica dei cloroplasti.
Il fatto che UCYN-A presentasse alcune caratteristiche proprie di un organello come dimostra la stretta correlazione tra le dimensioni dei due organismi a fronte delle rispettive necessità metaboliche da soddisfare, sollevava la questione del perché nessun organismo più complesso dei batteri avesse evoluto un organello in grado di fissare l’azoto.
Un recente lavoro pubblicato da Coale et al., dell’Ocean Sciences Department (University of California) ha
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finalmente trovato la risposta dimostrando che l’endosimbionte UCYN-A è effettivamente evoluto ad organello che fissa l’azoto: il nitroplasto.
Mediante l’uso di una tecnica di tomografia a raggi X morbidi (SXT, Soft X-ray Tomography), i ricercatori hanno ottenuto la struttura 3D di B. bigelowii e di tutte le sue componenti interne, rivelando due grandi plastidi posizionati lateralmente e una rete di mitocondri distribuita attorno al nitroplasto probabilmente per fornire sufficiente energia necessaria all’attività diurna di azotofissazione.
Durante il ciclo notturno, gli organelli delle cellule si duplicano mediante fissione binaria e un setto trasversale al centro dell’organello produce una costrizione da cui si originano due organelli. Il monitoraggio del ciclo cellulare dell’alga ha permesso di scoprire che i processi di replicazione del DNA e di fissione dell’endosimbionte avvengono in maniera sincronizzata con gli altri organelli e secondo un preciso ordine che inizia con la replicazione e citochinesi dei mitocondri seguita da quelle di UCYN-A e infine da nucleo e plastidi dell’alga.
L’analisi delle proteine codificate dal genoma dell’alga e da UCYN-A ha inoltre condotto all’identificazione di un’ulteriore caratteristica tipica degli organelli quale la perdita di geni necessari al completamento di pathway metabolici per la sintesi di aminoacidi, nucleotidi e vitamine. Molte delle proteine più abbondanti ritrovate in
UCYN-A e codificate dall’alga supportano il processo di azotofissazione, come la flavodoxina e la ferrodoxina che fungono da cofattori donando elettroni alla nitrogenasi e specifici enzimi con attività antiossidante come il citocromo P450, in grado di contrastare lo stress ossidativo generato dall’attività della nitrogenasi.
La sincronizzazione del ritmo circadiano è essenziale per mantenere la simbiosi e sia nelle alghe che nelle piante superiori, tale processo è regolato dai criptocromi, proteine importante dall’endosimbionte e quindi sotto lo stretto controllo di B. bigelowii.
La riduzione delle dimensioni del genoma, l’importazione delle proteine e la stretta relazione in termini di dimensioni tra alga ed endosimbionte sono prove sufficienti a supporto del fatto che UCYN-A è evoluto oltre l’endosimbiosi, presentando caratteristiche di un organello che fissa l’azoto.
Questo studio dimostra che UCYN-A si trova in uno stadio intermedio di organellogenesi e che l’evoluzione del nitroplasto è tuttora in corso, probabilmente perché rispetto ai mitocondri e ai cloroplasti acquisiti ca. 2 e 1,5 milioni di anni fa rispettivamente, il nitroplasto è comparso solo in tempi relativamente recenti, ca. 100 milioni di anni fa. Nonostante la ristretta cerchia di alghe con cui ha stabilito endosimbiosi (primnesiofite), il sistema alga-batterio è coevoluto e ha portato una novità adattativa che ha permesso a queste microalghe di proliferare in ambienti acquatici poveri di azoto.
Per la ricerca scientifica, B. bigelowii rappresenta non solo un importante sistema modello per lo studio dell’organellogenesi ma anche uno strumento di ingegneria genetica per l’introduzione dell’attivitá di azotofissazione in piante di interesse agronomico.
Bibliografia
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3. F. M. Cornejo-Castillo et al., Cell 187, 1762 (2024)
CONSUMO CO2 E PRODUZIONE DI PROTEINE
Un interessante contributo della biologia alla sostenibilità?
Simone Pescarolo * e Giorgio Gilli **
L’esponenziale crescita della popolazione, in un’ottica mondiale, è un fenomeno che non subisce deflessioni da molti secoli [1]. Molti fattori hanno contribuito a generare tale tendenza demografica, primi fra tutti i progressi in ambito tecnologico e igienico-sanitario. Tuttavia, tale incremento, parrebbe paradossale, ma in molti paesi non è dovuto ad un aumento delle nascite (come accade nei paesi più poveri) bensì ad un allungamento della vita ed un progressivo invecchiamento della popolazione [2]. Tutti questi dati stanno comunque facendo emergere numerosi quesiti su come tale incremento di individui (o in alcuni casi sopravvivenza degli stessi) contribuisca al progressivo acceleramento del consumo delle risorse del pianeta, le quali si rigenerano molto più lentamente rispetto alla crescita della domanda di tali materie prime. Tale affermazione, tuttavia, risulta molto generalista e riassuntiva di valutazioni socioeconomiche che paiono quasi tra loro contraddittorie. Infatti, risulta logicamente corretto affermare che, all’aumento della popolazione, aumenti la richiesta di beni primari quali cibo, medicinali, materiali; va però considerato l’effettiva distribuzione geografica del consumo di tali risorse, il quale dipende direttamente
* Biologia applicata all’ambiente, Laboratorio di Microbiologia ed Ecotossicologia, Ecobioqual, Environment Park, Torino.
** Dipartimento di Scienze della Sanità Pubblica e Pediatriche, Scuola di Medicina, Università di Torino.
dal potere economico, dei paesi in primis, e infine della popolazione. Infatti, non sempre l’incremento della popolazione è direttamente accompagnato ad un aumento pro capite della ricchezza: l’ONU specifica come spesso “l’insostenibilità” sia direttamente collegata alla ricchezza di un paese, piuttosto che alla sua concentrazione demografica [3]. Tale affermazione risulta fortificata dai dati statici più recenti, che dimostrano come ci sia più diseguaglianza all’interno dei paesi, piuttosto che tra i paesi stessi. A seguito di ciò, il World inequality report, ricorda che “Le disuguaglianze di reddito e ricchezza globali sono strettamente collegate alle disuguaglianze ecologiche e alle disuguaglianze nei contributi al cambiamento climatico”: infatti la metà della popolazione più povera contribuisce solo per il 12% alle emissioni di CO2, mentre il 10% della popolazione più ricca ne genera il 50% [4].
Oltre all’inquinamento atmosferico anche il consumo di cibo risente, e risentirà, notevolmente della crescita demografica globale: secondo le ultime stime delle Nazioni Unite infatti, entro il 2050, sarà necessario incrementare del 70% la produzione di cibo, per far fronte ad un numero di individui pari a circa 9,7 miliardi [5]. Tale sfida presenterà non poche, e alquanto ardue, sfide da affrontare. L’attuale sistema di produzione e distribuzione dipende dalla richiesta e dalle esigenze dei singoli paesi, le quali, a loro volta, vengono influenzate da diversi fattori, quali cultura, ambiente e disponibilità economiche. Il consumo di carne, ad esempio, è sempre stato un indicatore del benessere economico di una popolazione, essa infatti rappresenta una fonte di nutrienti fondamentali per la dieta,
ma che risulta molto più costosa rispetto ad altre derrate alimentari come legumi e verdure. La Cina è un esempio lampante di un rapido sviluppo economico direttamente affiancato all’aumento di consumo di proteine animali: negli anni Sessanta, in media, un cittadino consumava circa 5 Kg di carne all’anno, 20 Kg negli anni Ottanta e 60 oggi. Il Kenya, al contrario, è rimasto stabile, sia per quanto riguarda il PIL che il consumo di carne. Resta comunque notevole come il consumo di animali, nel mondo, sia passato da 45 milioni di tonnellate di carne nella prima metà del ‘900 ai 300 milioni dei giorni nostri [6].
Questo incremento di domanda porta con sé una sfida rilevante, sia dal punto di vista della sostenibilità ambientale, che dal punto di vista etico. Nel primo caso è necessario ridurre le emissioni di gas serra e il consumo di risorse necessarie alla crescita del bestiame; nel secondo caso ottimizzare le condizioni di vita degli animali.
Fonti alternative di proteine
In entrambi i casi la ricerca di fonti alternative di proteine, comparabili dal punto di vista alimentare a quelle animali, è un settore emergente in forte espansione. Molte caratteristiche sono richieste a questi nuovi prodotti affinché possano candidarsi come valide alternative alle fonti animali, ma due sono le principali: presenza di am -
minoacidi essenziali e condizioni di produzione ecosostenibili. Tra i molti candidati le alternative maggiormente sottoposte ad analisi sono i vegetali (in particolare i legumi), i funghi e gli insetti [8 - 10]. Tra i più promettenti rientrerebbero proprio quest’ultimi dato che le proteine degli insetti sono caratterizzate da un alto contenuto di treonina e lisina (ma bassi livelli di metionina o triptofano). La quantità degli amminoacidi è maggiore negli insetti rispetto che nelle piante e negli animali. Va considerato che, le proteine derivanti dagli insetti, sono più digeribili rispetto a quelle vegetali, ma meno rispetto alle proteine animali. Inoltre, per quanto riguarda il grillo domestico, l’EFSA ha evidenziato che il consumo di queste macromolecole può potenzialmente generare sintomi allergici, mentre l’insetto stesso potrebbe essere veicolo di allergeni presenti nel nutrimento somministratogli durante l’allevamento, quando qual ora questo dovesse essere consumato intero [7]. I vegetali, d’altra parte, permettono un sequestro della CO2 atmosferica, ma richiedono ingenti risorse in termini di acqua, suolo e tempi al fine di condurne la coltivazione.
Una possibile soluzione basata sulle biotecnologie
Un interessante soluzione starebbe emergendo dal mondo delle biotecnologie, che sta sviluppando una serie
di processi innovativi per lo sfruttamento di particolari batteri ad alto contenuto proteico ed in grado di fissare la CO2 all’interno del proprio metabolismo. Questa tipologia di batteri viene chiamata idrogeno ossidanti (hydrogen oxidizing bacteria, HOB), data la loro capacità di fissare l’idrogeno molecolare come fonte energia ed elettroni, l’ammoniaca come fonte di azoto, l’ossigeno come accettore di elettroni e l’anidride carbonica come fonte di carbonio [11]. I batteri idrogeno ossidanti stanno riscuotendo notevole interesse nel mondo della ricerca attuale grazie alle loro peculiari caratteristiche che ne consentono uno sfruttamento compatibile con le moderne necessità produttive fondate sul concetto di economia circolare. Essi sono in grado di svilupparsi attuando sia un processo metabolico eterotrofo che autotrofo [12]. Nel primo caso utilizzano fonti di carbonio organiche, quali ad esempio metano e metanolo, mentre nel secondo sfruttano la CO2. A dimostrazione della loro capacità di adattamento, questa tipologia di batteri viene considerata ubiquitaria in ambiente e diverse specie sono state individuate in diverse matrici quali fonti d’acqua, oceani, suoli e, addirittura, nei deserti antartici. In questo senso sono stati individuati diversi generi in grado di ossidare l’idrogeno molecolare per ottenere l’energia necessaria a condurre le proprie attività metaboliche: Azospirillum, Cupriavidus, Derxia,
Hydrogenophaga, Rhizobium, and Xanthobacter [13].
Dalla CO2 a un prodotto ad alto valore aggiunto Il metabolismo di questi microrganismi è estremamente complesso e dipendente da differenti tipologie di vie biochimiche che vengono influenzate principalmente dall’ambiente esterno e dalle condizioni di crescita. Tra queste, i pathways più rappresentativi, son il Ciclo di Krebs e il Ciclo di Calvin. Di quest’ultimo fa parte l’enzima RuBisCO, responsabile per la cattura e conversione della CO2 in gliceraldeide 3 fosfato, principale precursore dell’Acetyl CoA necessario per la produzione di alcuni amminoacidi attraverso alcuni intermedi del Ciclo di Krebs (ossalacetato e α -ketoglutarato). Altri enzimi fondamentali sono le idrogenasi, catalizzatori coinvolti nell’ossidazione dell’idrogeno molecolare e la riduzione del NADP+ [14].
La fonte di H2 è fondamentale affinché questi batteri conducano il metabolismo di tipo autotrofo, a discapito di quello eterotrofo, per questo motivo, molti studi, coltivano questi microrganismi in un ambiente naturalmente ricco di questa molecola, anche se, in molti casi, viene proposta la possibilità di sfruttare l’elettrolisi dell’acqua (attraverso energia prodotta tramite pannelli fotovoltaici) come fonte di idrogeno, rendendo il processo a più alta resa ma comunque ecosostenibile [15]. I vantaggi nell’utilizzo di questi batteri sono la cattura e conversione della CO2 in un prodotto ad elevato valore aggiunto senza l’utilizzo di fonti organiche come nutrimento e senza la necessità della radiazione luminosa, invece necessaria ai microrganismi fotosintetici. È stato anche dimostrato, tramite studi e valutazioni economiche dei vari processi produttivi, come questa fonte di proteine sia dal 53100% meno impattante a livello ambientale rispetto a polipeptidi ricavati da altre fonti (animali, vegetali, fungine ecc.) [16]. Inoltre, l’estrazione di questi composti sarebbe più semplice che non da microrganismi dotati di parete
cellulosica quali sono la maggior parte degli organismi fotosintetici. Il contenuto in proteine accumulato dagli idrogeno ossidanti può raggiungere il 75%, che è molto superiore al contenuto proteico del 50%, 50%, 40%, 45%, e il 15% rispettivamente di alghe, lieviti, funghi, soia e chicchi di grano [7].
Uno dei batteri appartenente a questo gruppo, e il cui genoma è stato completamente sequenziato, è il Cupriavidus necator. L’interesse per quest’ultimo scaturisce dal fatto che i profili amminoacidici suggeriscono come C. necator possa potenzialmente essere utilizzato come integratore proteico [17]. Infatti, secondo alcuni studi, il profilo amminoacidico è uguale, se non addirittura migliore, a quello riscontrabile in proteine animali e vegetali. Inoltre, rispetto ad altri microrganismi, il contenuto di lisina è maggiore: tra 7 e 9 g per 100 g di proteine, a differenza dei 5g su 100 g di proteina per Aspergillus niger, 4 g per 100 g di proteine in Penicillium notatum ecc [18]. La validità di tale biomassa è confermata dal fatto che, attualmente, la biomassa di C. necator viene già commercializzata sotto forma di mangime per pesci, come integratore per l’alimentazione del bestiame e degli animali domestici da aziende specializzate [19].
In conclusione, questa tipologia di microrganismi apre a una nuova serie di possibilità fortemente coerenti con il concetto di economia circolare. L’opportunità di “catturare” l’anidride carbonica per convertirla in un prodotto ad alto valore aggiunto quale gli integratori proteici, potrebbe essere, ad esempio, una grande opportunità per molte aziende agricole che, ad oggi, producono notevoli quantitativi di CO2 attraverso l’allevamento del bestiame e la produzione di biogas/biometano attraverso processi fermentativi. Queste realtà potrebbero trovarsi in difficoltà vista l’imminente stretta su questo tipo di emissioni, tanto che, già oggi, in Danimarca, sono previste tassazioni sulle emissioni di questa molecola come conseguenza dell’allevamento degli animali. Inoltre, questa tipologia di processo potrebbe concorrere in maniera interessante con le nuove aziende che producono carne coltivata: infatti, se l’obiettivo è sostituire la produzione di carne da allevamenti con quella coltivata, questo potrebbe trascinare numerose realtà in forte crisi nell’ottica di dover stravolgere il proprio layout produttivo. Coltivare batteri, al contrario, potrebbe garantire comunque di ottenere un prodotto sostitutivo della carne, riducendo, di conseguenza, la richiesta di quest’ultima e abbattendo, pertanto, la necessità di allevare il bestiame, e permetterebbe, allo stesso tempo, di ridurre le emissioni di CO2; tutto ciò attraverso un layout produttivo ecosostenibile e non economicamente impegnativo come quello necessario alla conversione alla produzione di carne coltivata.
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LA DIAGNOSTICA PROTIDOLOGIA LIQUORALE
NELLA SCLEROSI MULTIPLA: DALLE BANDE
OLIGOCLONALI AL K-INDEX
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di Vincenzo Cosimato *
La Sclerosi Multipla (SM) è una patologia cronica del Sistema Nervoso Centrale (SNC), correlata a stili di vita ed a condizioni ambientali che, con le sue complicanze, rappresenta un problema sanitario e sociale. La SM esordisce prevalentemente in età adulta tra i 20 e i 40 anni d’età, con una prevalenza nel sesso femminile (rapporto donna: uomo pari a 2-3:1). In questa fascia di età la SM rappresenta la più comune causa di disabilità neurologica, dopo i traumi. Recentemente è stata posta grande attenzione all’esordio in età infantile (<18 anni) che allo stato sembra coinvolgere da 3 al 5% di tutti i casi di SM.
Grandi avanzamenti si sono raggiunti nella conoscenza dei meccanismi biologici responsabili dell’attacco disimmune contro la mielina, della degenerazione assonale che colpisce i neuroni e delle potenzialità rigenerative del SNC; l’eziologia, invece, allo stato non pare chiarita ipotizzando una multifattorialità intesa come l’insieme di componenti predisponenti genetiche associate a fattori ambientali (tossici e infettivi) (TAB.1).
Il decorso della SM è recidivante-remittente (SMRR) all’esordio nell’85% dei casi, con episodi di disfunzione neurologica seguiti da un recupero completo o incompleto. Il 15% delle persone presenta fin dall’esordio un decorso della malat-
tia gradualmente progressivo, noto come SM primariamente progressiva (PPMS). Un singolo episodio isolato senza precedenti attacchi clinici in una persona che non soddisfa i criteri diagnostici per la SM è noto come sindrome clinicamente isolata (CIS). Nel corso del tempo, le persone con SMRR possono sviluppare una disabilità gradualmente progressiva chiamata SM secondariamente progressiva (SPMS). Ciò di solito si verifica almeno 10-15 anni dopo l’esordio della malattia. Queste descrizioni del decorso clinico della malattia sono ancora utilizzate nella pratica (Fig 1). Tuttavia, una maggiore comprensione della SM e della sua patologia ha portato a nuove definizioni incentrate sull’attività della malattia (basate sui risultati clinici
Fig. 1 Andamento Clinico della Sclerosi Mutipla (Clin Med (Lond). 2020 Jul; 20(4): 380–383.doi: 10.7861/clinmed.2020-0292Clinical presentation and diagnosis of multiple sclerosis).
* Dirigente Biologo-ASL Salerno
UO Laboratorio di Patologia Clinica e Biologia Molecolare
PO Maria SS. Addolorata Eboli (Salerno)
o della risonanza magnetica (MRI)) e sulla progressione della malattia.
La Diagnostica di Laboratorio offre oggi diversi strumenti Diagnostici che invadono diversi settori come la Virologia, Protidologia, Autoimmunità ed Immunologia che nel loro insieme offrono un contesto approfondito dei Pazienti con sospetto caso di SM. Sicuramente lo studio protidologico del Liquido Cefalorachidiano (LCR) attraverso la valutazione delle Bande Oligoclonali (BO) rappresenta oggi il Gold standard nell’Iter Diagnostico della SM.
I criteri diagnostici di McDonalds pubblicati nel 2017, infatti, raccomandano, la ricerca delle BO nel LCR e nel siero per comparazione, nei casi in cui:
- i segni clinici e le indagini strumentali (RM) non diano evidenze sufficienti per effettuare una diagnosi di SM;
- nelle forme primariamente progressive (SMPP) caratterizzate da sintomi atipici;
- nei casi di CIS;
- nelle popolazioni in cui la sclerosi multipla non risulta essere molto frequente, ovvero nei bambini, negli anziani e in etnie non caucasiche.
Il liquor, viene prodotto principalmente (’80%) dai plessi corioidei dei ventricoli laterali cerebrali in parte attraverso un processo di ultrafiltrazione del plasma sanguigno in parte attraverso meccanismi attivi con dispendio di energia per il passaggio di
metaboliti dal plasma al liquor. Il restante 20% è di derivazione parenchimale o leptomeningeale. L’aumento di proteine all’interno del Liquor può essere imputabile ad un aumento della permeabilità della Barriera ematoencefalica o ad una sintesi intratecale, cioè un aumento di proteine liquorali per aumentata produzione di esse a livello del Sistema Nervoso Centrale. La dimostrazione di una sintesi intratecale immunoglobulinica può essere dimostrata in modo:
- QUANTITITATIVO: IgG INDEX e K-INDEX
-QUALITIATIVO: STUDIO BANDE OLIGOCLONALI
Nella FAD affronteremo gli aspetti Laboratoristici inerenti alla capacità di determinare la produzione intretecale delle IgG e della loro performance analitica. Una particolare attenzione la volgeremo allo studio delle Bande Oligoclonali ed al recente impiego dello studio delle catene leggere kappa (κ) in una moderna attuazione di algoritmi diagnostici integrati volti a rafforzare il dato di Laboratorio nella diagnostica della Sclerosi Multipla. Una piccolo focus sarà fatto sui nuovi biomarcatori sierici di progressione di disabilità e di risposta terapeutica, come i Neurofilamenti, che attualmente rappresentano oggetto di forte interesse della comunità scientifica per il loro promettente ruolo nel monitoraggio dell’attività subclinica della malattia e dell’efficacia del trattamento.
Complesso dei SS. Marcellino e Festo
Largo S. Marcellino 10
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