Op. cit., 07, settembre 1966

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Op.cit. rivista quadrimestrale di selezione della critica d'arte contemporanea

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:Edizioni e Il centro >


W. Hofmann

Gli inizi dell'attività formale

E. Garroni

33a Biennale di Venezia: e jeu ,. e e sérieu:c ,. Note per una semiologia figurativa Libri, riviste e mostre

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· Alla redazione di questo numero hanno collaborato: Urbano Cardarelli. Renato De Fusco, Rosalba La Creta, Niclo Palmieri, Giovanni Pasca Raymondi, Maria Teresa Penta, Italo Prozzillo, Maria Luisa Scalvini, Francesco Starace.



Gli inizi dell'attività formale* WERNER HOFMANN

Se guardiamo con una visione generale a quello che gli artisti del nostro secolo, seguiti dalla maggior parte dei loro interpreti, adducono per giustificare le loro forme e i loro contenuti, incontriamo un deciso propendere per i motivi, le sollecitazioni, le costrizioni extra estetiche, pur di non dare adito al sospetto che la loro opera rientri nello schema dell'art pour l'art. L'artista assume il com­ pito d'indicare introspezioni visionarie, potenze e leggi cosmiche; ritiene di mostrare l'essenza ultima della natura, di impersonare e lo spirito dell'epoca> e stima così inte­ ressanti il suo intimo e i suoi istinti da svelarli senza ri­ tegno. L'attività artistica si circonda di un alone di rive­ lazione e profezia. Donde il suo corso obbligato e il suo condizionamento. Ma questa ostentata pretesa è al tempo stesso una camicia di forza che riduce la libertà d'azione dell'artista. Chi dice solo ciò ch'è costretto a dire, non ne ha alcun merito - quanto più ineluttabile è l'obbligo di comunicazione, tanto minore è il margine per poter sce­ gliere, decidere e articolare la forma. Dubitiamo che l'ar• Queso saggio è la traduzione parziale del capitolo conclusivo del volume Grundlagen. der modernen Kunst, Eine Einfuhrung in ihre symbolischen Formen, pubblicato recentemente a Stoccarda da Alfred Kroner Verlag. Ringraziamo l'Autore e l'&litore per la loro collaborazione.

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tista faccia parte del « di per sé> (Ansich) della natura, che sia capace della visione universale come egli ritiene, ma gli riconosciamo una grande forza d'immaginazione. Perciò si tratta di considerarlo un inventore e di liberarlo dal peso di trasmettere messaggi di cui si carica e coi quali ci confonde la visione. La concezione storicistica, per l'articolazione dei suoi argomenti si serviva di due poli opposti: l'assenza di for­ ma e il formalismo rigoroso. Scegliendo questi due tennini . si pensò di avvalersi di criteri orientativi privi di valore assoluto, escludendo ogni riferimento a punti fissi, tipici, ideali che stanno al di fuori del processo storico. Abbiamo visto che il nostro tempo identifica altre opere d'arte tra­ mite un concetto di formalismo, più rigoroso di quello adottato nel 17° secolo. È stato altresl provato che questi due poli non si lasciano definire esattamente; come il campo che si estende fra loro, e · del quale sono gli estremi, essi hanno frontiere aperte. Storicamente e morfogeneticamen­ te ne risultò l'intuizione del carattere transitorio di ogni forma artistica. La considerazione psico-percettiva ribadisce queste os­ servazioni. « Tutto è forma, la vita è una forma > dice Balzac. Focillon si richiama a questa ampia definizione e vi lega la sua tesi del valore intrinseco della forma: il simbolo significa qualcosa, la forma invece se stessa, il suo contenuto fondamentale è un contenuto formale. Que­ sto concetto richiede una amplificazione. Appena la po­ tenza autonoma della forma incontra uno spettatore, di­ venta pregnante di significato. Cercando ed attribuendo un senso alle cose, l'uomo s'impegna con il mondo fenomenico, affermando (in un atto di scelta) determinati nessi di significato. Questo atto di scelta è necessario in quanto i contenuti formali presentano più o meno nettamente una dimensione pluralistica. Lo stesso Focillon ammette che 6

appena una forma appare, essa può essere interpretata in


diverse maniere. Ciò vale per le forme della natura - le sue traduzioni sono le opere d'arte - ma ciò vale anche per le opere d'arte stesse. Cosa sappiamo leggere, cosa ci è consentito leggere in esse? Quali analogie con esperienze esteriori o interiori ci comunicano? Quanto è alto il grado di evidenza dei loro enunciati? Su questi interrogativi le opinioni divergono. Sem­ plifichiamo la situazion ponendo a confronto due delle · proposte di interpretazione più essenziali. L'interpretazio­ ne organico-psicografica fa agire l'artista dal profondo di una certezza e intima. necessità: ciò che egli formula, è un intero organico, più esattamente, è la corrispondenza senza soluzione di continuità coi suoi sentimenti, un iin­ mediato rivelarsi. Si afferma che all'artista sia dato di trasporre il suo talento compositivo in forme visibili e tangibili senza residui né perdite, senza falsificazione né finzione. Contenuti di percezione e di sentimento vengono considerati convertibili senza resto. Questa concezione as­ serisce l'aperta autenticità della produzione artistica: come l'artista riproduce un paesaggio che ha visto, così illustra le idee astratte che ha e: contemplato> nella sua immagina­ zione. [....] La concezione dell'artista come organo esecutivo del piano della creazione, come visionario il cui sguardo è ca­ pace di mettere a nudo l'interno e tramutarlo in esterno - pretesa che abbiamo spesso incontrata - viene nuova­ mente ripresa dai romantici - e: pochi sono in grado di vedere da soli l'idea nella natura> (Runge) - e: L'anima individuale deve diventare concordante con l'anima uni­ versale> (Novalis) - e più tardi tramandata dallo Scho­ penhauer ai Simbolisti di fine secolo per legittimare la loro poetica. Nel XX secolo la ritroviamo presso gli psi­ cologi gestaltici, presso i teorici congeneri e nelle autogiu­ stificazioni degli artisti. e: Tutte le forme dell'evoluzione dinamica della vita interiore si possono esprimere in ana- 7


loghe forme visibili che si succedono nel campo di per­ cezione di un osservatore> (Kurt Koffka). In tal modo s'intende riunire e fenomeno oggettivo e significato sog­ gettivo > nel principio gestaltico (David Katz). Wolfflin afferma:

e Ogni disposizione psichica ha la

sua appropriata espressione > donde sarebbe lecito con­ cludere che ogni

e espressione> debba avere alla base

una disposizione psichica. Ma chi può asserirlo? Con il Wolfflin nuovamente l'interiore coincide con l'esteriore; è per lui un punto fermo e che la forma non viene sovrap­ posta alla materia come qualcosa di esterno, ma esplica la sua attività dall'interno della materia quale volontà immanente; materia e forma sono inseparabili>. Nella tra­ dizione

(certamente non consapevole) di questi pensieri,

Kandinsky affermerà più tardi la equivalenza di materia e forma, Mondrian che l'arte e la natura, concepite nella loro autonomia, e condurranno in ultima analisi alla com­ prensione della legge integrale della composizione univer­ sale >. Ciò

e chiarirà l'opera

indipendente di entrambe,

cooperante verso un superiore ordine sintetico - esterno più interno>. Visto più da vicino, si tratta sempre di identificare i mezzi di rappresentazione con i loro contenuti, di dimo­ strare la capacità degli uni di imitare gli altri; una volta l'oggetto di tale imitazione è la legge naturale, un'altra il mondo delle sensazioni, un'altra ancora i dati di perce­ zione del mondo delle nostre esperienze. A tutti questi contenuti, il contenuto formale sarebbe congruente. Noi lo contestiamo ed affermiamo che l'attività formale apporta a colui che la compie e, ancor più, a chi la guarda nuovi dati di esperienza: sosteniamo dunque col Fiedler che il processo formativo rappresenta un'espansione dell'espe­ rienza, che la sua singolarità non sta nell'imitare, ma nel fare. 8

Vi sono dichiarazioni di artisti che danno a questo


assunto una

formulazione

ogni tanto sentiva

abbastanza acuta. Degas, che

lo stimolo di scrivere poesie, si lagnava

una volta con Mallarmé: « Il vostro mestiere è infernale. Non posso fare ciò che voglio, eppure sono colmo di idee ...> al che il poeta: «I versi non si fanno con le idee, caro Degas, si fanno con le parole>. E Braque disse una volta: «lavoro sulla materia e non sulle idee>. [...] Persino uno spiritualista come Kandinsky era suffi­ cientemente accorto da considerare il processo autonomo di materializzazione. Nel 1914 infatti scrisse:

«Sappiamo

spesso ciò che vogliamo e non il modo di attuarlo. Questo è veramente valido, unico ed esclusivo, quando la mano in un momento felice non dipendente dalla ragione fa

il .giu­

sto da sé, spesso contro la ragione>. Più semplicemente Focillon scrive:

«L'intention de l'oeuvTe d'aTt n'est pas

l'oeuvTe d'aTt>. Il problema col quale l'artista si misura consiste in sostanza nella formulazione dei mezzi linguistici. Sono questi nient'altro che «desinenze> (Lavater) delle espe­ rienze accumulate dall'artista e senza una scelta cosciente? Oppure sono invenzioni che rivendicano una realtà senza confronti?

La

concezione organo-psicografica,

che

vuole

l'artista in armonia con tutta la realtà estrinseca, sarà in­ cline a dare una risposta affermativa alla prima domanda. Noi siamo di altro avviso perché nutriamo dei dubbi sul­ l'immediata evidenza intellegibile della forma, e crediamo invece che la frase di Balzac: ( «tutto

è forma, la vita è

una forma>), si debba integrare con una parola di Bau­ delaire: «Ce monde-ci, dictionnaire hiéToglyphique>. Tutto ciò che da un punto di vista umano è visibile è polisenso, le forme naturali al pari di quelle estetiche. e Il primo quadro non era altro che una linea> dice Paul Klee riallacciandosi alle spiegazioni mitiche più an­ tiche sull'origine della pittura. Per esse Debutadide, la figlia di un ceramista corinzio, avrebbe trattenuto con una

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il contorno dell'ombra del suo amante che stava

linea

per partire. Secondo Klee, che non aveva certamente in mente

il ricalco della natura, l'accento non sta sulle possi­

bilità mimetiche di questa prima linea, bensì sul « nulla di più>. La linea, non ancora vincolata ad un contenuto oggettivo, è polisensa in quanto è un Novum. Nel modo più chiaro e convincente lo ha affermato Fiedler:

e An­

che nel tracciare solo un profilo maldestro . . . produciamo qualcosa di nuovo, qualcosa di diverso da quanto conte­ neva finora il patrimonio della nostra fantasia visiva. Per­ fino in un gesto effimero, nei più elementari tentativi di rappresentazione figurativa, la mano non fa ciò che l'occhio non avrebbe già fatto. Nasce invece qualcosa di nuovo quando la mano raccoglie

il compito di sviluppare ciò che

fa l'occhio e lo porta ad un punto dove l'occhio stesso è arrivato alla fine del suo fare> (1887). Gerard de Lairesse fu uno dei primi autori a riconoscere che « la prima linea > non possiede un valore mimetico, ma un valore in sé.. Nel suo manuale del 1719 egli, raccomanda il metodo geo­ metrico. Nel primo esercizio i bambini devono tracciare solo diverse linee rette e curve, nel secondo disegnare i contorni di figure geometriche (triangolo, quadrato, cir­ conferenza), e poi passare ad oggetti semplici. Nello e sviluppo progressivo> sta tutto il nocciolo del­ la e composizione del visibile>, l'invenzione di mezzi espres­ sivi bi e tridimensionali. Ora si avrà la prova se l'artista è capace di reggersi sulle proprie gambe. Si tratta di in­ ventare alfabeti e convenzioni, mettere al mondo fatti for­ mali per i quali non esistono precedenti modelli percettivi, per i quali persino e l'idea totale> (Schiller) non offre un riferimento convincente, poiché essi si presentano, chia­ mati o meno,. durante l'atto formativo. Solo l'artista decide in che misura accettare o negare tale appello. Chi si abbandona all'istinto imitativo toglierà 10

alla e prima linea > subito

il suo proprio valore, cioè ten-


terà di oggettivarla e associarla a determinati contenuti di percezione. Il massimo di fedeltà oggettiva porterà a devitalizzare la libertà della forma. Altri artisti non ridur­ ranno i vari significati della forma ma cercheranno di ser­ virsene come di fattori ausiliari; perciò non si limiteranno all'oggettivo senso formale, non punteranno sulla scon­ tata resa obiettiva della percezione della forma da parte dell'osservatore, ma ne sfrutteranno il carattere polisenso. Il pittore Pierre Soulages confessa: e Quando dipingo non seguo nessuna teoria; forme, colori, materiali e la loro sintesi stanno al di là del linguaggio, non si lasciano espri­ mere. Ciò che posso scrivere su di essi non è che un ten­ tativo modesto di comprendere, ciò mi sollecita all'azione ed è una mia necessità. Lavoro sotto la guida d'un im­ pulso interiore, d'una esigenza per determinare forme e colori, per un determinato materiale, e solo quando li ho composti sulla tela, mi informano su ciò che voglio. Du­ rante il lavoro mi si chiarisce spontaneamente ciò a cui miro, solo dipingendo mi vien fatto di sapere ciò che sto cercando>. Karel Appel dice: e Non posso prevedere ciò che avviene, è una sorpresa>. Queste sono le parole di due pittori che hanno scon'." fessato in tutto o in parte la corrispondenza tra mezzi espressivi e contenuti percettivi. Hebert Boecke afferma: e L'artista fa una macchia sulla tela e le conferisce poi una configurazione essenziale. Egli ignora cosa significa questa macchia. Produce una seconda, terza e quarta mac­ chia. Cosa ne verrà fuori gli è ancora per molto tempo oscuro, ma ciò che la configurazione esige lo capisce ben presto. Egli non sa mai quello che può fare, ma solo ciò che gli viene richiesto. Va avanti cosl per tutta la vita, sino alla fine ... >. Se le rifessioni di Fiedler vengono oggi riprese, indi­ rettamente confermate da artisti, e confortate dalla ricerca, ciò dipende dal fatto che la concezione dell'arte come

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fare, come « actus > possiede la sua più evidente alleata nella cosiddetta action painting dei giorni nostri. Da ciò si potrebbe dedurre che la validità di questa concezione sia solo nella recente produzione del XX secolo, e magari nelle avvisaglie del Kandinsky espressionista. Pertanto alle radici dell'atto formativo sarebbero da distinguere due fondamentali ed opposte direzioni. L'una si limiterebbe all'agire, al fabbricare, al fare la realtà, mentre l'altra, le­ gata ad ambizioni più elevate, sarebbe consacrata ad imi­ tare la realtà. Così giudica clù vede nel segno di fedeltà alla natura · un positivo criterio di valutazione. Nulla è più logico secondo questa visuale che attribuire al metodo imitativo i segni naturali e all'altro simboli artificiali. Questo contrasto, frutto dell'estetica imitativa, non esiste. Vi sono soltanto simboli che si fanno riconoscere dall'osservatore più o meno evidentemente. Anche l'im­ pronta della mano preistorica è un segno artificiale, non la realtà stessa, ma una nuova esperienza di essa, una astrazione formale. Per quanto si scelga la via più diretta e si eviti l'invenzione di un segno formale, l'impronta della mano non è la mano stessa, ma solo il suo artifi­ cioso sostituto. Preso alla lettera, il confronto continuo delle cinque dita è la radice di una costruzione formale il cui tardo stadio sarà la linea della bellezza classica. E come Delacroix non riusciva a trovare in natura la « linea sinusoidale > o la « retta >, altrettanto negativamente dob­ biamo rispondere alla domanda: Dove esiste nel mondo dell'esperienza una mano consistente in un'area dominata da un contorno continuo? Per Delacroix e gli impressionisti, l'astratta linea di bellezza sembra l'acme del fatto artistico. Ma dove tro­ viamo in natura le pennellate vibranti, gli uncini e ghi­ rigori coi quali Renoir e Monet articolarono le loro tele? Non esistono, come non esiste la « line of beauty > di 12 Hogarth. Fra il percepito ed il vissuto, che stimolano


l'azione del pittore, e il risultato di questa azione, l'opera d'arte, non v'è alcuna congruenza, esistono soltanto con­ venzioni artificiali, codici. Per spiegare ciò è necessario ritornare al processo percettivo. Prendiamo l'immagine del desiderio (Wunschbild), dell'« occhio innocente>. Anche se fosse realizzabile, se fossimo in grado d'escludere di col­ po tutta l'esperienza conoscitiva, il trasporto sulla tela delle macchie colorate percepite non sarebbe semplice­ mente un duplicato dell'attività dell'occhio, ma una confi­ gurazione che attuerebbe una nuova realtà percettiva con la quale ciò che l'occhio ha visto potrebbe avere al mas­ simo un rapporto stimolante. L'immagine del desiderio di Ruskin viene continua­ mente compromessa dal nostro bisogno di effettuare con­ nessioni logiche. In altri termini:

l'occhio non registra,

ma procede componendo. Non la mano, ma l'occhio per primo compie un atto creativo cosciente. A questo punto l'artista

è ancora molto vicino al non artista, benché que­

st'ultimo ne sia inconsapevole. Viceversa l'artista sa « che l'immagine realizzata di un'esperienza oggettiva è diversa dall'oggetto stesso - è un avvenimento nella nostra co­ scienza>. Perciò, aggiunge

Gabo,

è sbagliato chiamare

astratta quell'opera d'arte che vuole evocare la immagine di una esperienza e invece definire realistica quell'altra che vuole riprodurre l'immagine d'un oggetto. Entrambe si potrebbero chiamare astrazioni, ma ambedue sono realtà. L'occhio non produce le cose stesse, ma « metafore di con­ templazione> che scambia poi erroneamente con il pro­ cesso immediato degli oggetti. Questo

è scritto nel saggio

di Nietzsche Vber Wahrheit und · Lilge im aussermorali­

schen Sinn (Verità e menzogna in senso· extramorale). Altrove Nietzsche nega all'oggetto di trovare la possibilità d'una espressione adeguata nel soggetto: e poiché fra due sfere assolutamente diverse, come tra soggetto e oggetto, non esiste causalità, giustezza ed espressione, ma al mas-

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simo un comportamento estetico, voglio dire una tradu­ zione imprecisa in una lingua del tutto estranea >. Molti artisti contemporanei lo hanno riconosdiuto; diamo la parola a due fra i maggiori. Picasso ammise che il destino dell'artista era di mentire con candore, di compiacersi del cinico diniego di ogni contenuto vero; Klee, facendo il paragone coi processi di crescita orga­ nica, cerca di giustificare la caparbietà dell'artista che rifiuta l'alibi di composizioni esistenti in natura. Picasso dice: e Tutti sappiamo che l'arte non è verità. L'arte è una menzogna che ci insegna a comprendere la verità, al­ meno quella verità che noi, come uomini, possiamo com­ prendere. L'artista deve sapere come può convincere gli altri della veridicità delle sue menzogne. Se egli mostra nella sua opera solo il modo di aver studiato e cercato come rendere appetibili le sue menzogne, non concluderà mai niente>. In questo personale, esplicito e paradossale contesto, Picasso arriva alla constatazione, comune anche alla nostra posizione, che l'arte ha sempre bisogno di sim­ boli. Quindi non v'è alcun contrasto fra l'arte figurativa e l'astratta, fra naturalismo e pittura moderna: L'arte è sempre stata arte e mai natura, dai primitivi, la cui opera si distingue evidentemente dalla natura, fino a quegli artisti i quali, come David, Ingres e persino Bouguereau credevano che la natura dovesse essere dipinta così com'è. Per l'arte non esistono forme concrete o astratte, ma solo forme . le quali sono menzogne più o meno convincenti. Che queste menzogne siano necessarie per il nostro Io mentale è fuori questione, poiché con il loro aiuto ci formiamo un'ideologia estetica della vita (Si confronti il e Comportamento estetico> di Nietzsche). Klee paragona l'artista al tronco che fa da interme­ diario fra le radici e la chioma, ossia l'opera d'arte. 14

e Nessuno pretenderà che l'albero formi la chioma come la radice. Non vi può essere un'esatta corrispondenza ·fra


l'alto e

il basso. È chiaro che le varie funzioni debbono ·

produrre notevoli differenze>. È lecito ricavare

il riassunto e la conferma di questi

pensieri da Schiller:

e All'occhio e all'orecchio l'affastel­

lata materia arriva già epurata dai sensi e allontana da noi l'oggetto col quale abbiamo un immediato contatto attraverso una sensorietà elementare. Ciò che vediamo attraverso l'occhio, è diverso da ciò che proviamo. L'og­ getto dell'occhio e dell'orecchio è una forma che produ­ ciamo noi . . . Appena

(l'uomo) comincia

ad apprezzare

ciò che vede, anch'egli è implicato esteticamente e

il suo

istinto al gioco prende consistenza>. All'atto formativo dell'occhio segue lo stadio successivo della e metafora for­ mativa> (Nietzsche): l'atto figurativo della mano. Nuove esperienze si presentano, esse non sono la conferma di fatti già risaputi, ma la loro trasformazione metaforica, che possiamo definire come l'estensione dell'esperienza. L'atto primario - l'iniziale tratto, la prima macchio­ lina del pennello - non si deve concepire solo come me­ tafora, ma anche come un fatto concreto, che consente la massima libertà di decifrazione proprio perché gli man­ ca ancora la specificazione formale che subirà nelle fasi successive. Solo quando quest'ultime entreranno in scena,

il fare diventa un imitare, ma ciò costituisce un atto se­ condario radicato nella tendenza a razionalizzare le me­ tafore, specie quando dall'arte si esige fedeltà alla natura. Di che cosa l'atto primario può essere una metafora?

il fare ci mostra il materiale da plasmare. il poeta si accontenti di e far passare la tavolozza per il

Anzitutto,

Hebbel critica nell'Estat.e di S. Martino di Stifter che

quadro stesso>. Per cui non rimane altro che contem­ plare le parole della poesia; e con la descrizione della mano che scrive questa contemplazione

il cerchio è chiuso.

e Al posto dell'opera d'arte si ha la riflessione sulla sua realizzazione. L'artista - qui non abbiamo nulla contro

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Stifter, ma pensiamo ad alcuni pittori e astratti > contem­ poranei - pone se stesso e i suoi problemi formativi al posto dei contenuti oggettivi sinora a lui richiesti. Ma questa è solo una delle dimensioni del significato dell'atto primario. Esso non si limita solo a far parlare i mezzi, ma ha già un indirizzo di significato. Tuttavia sarà oppor­ tuno non delimitare rigidamente il campo della signifi_­ cazione, ma piuttosto considerare le forme primarie come metafore della grandezza, dell'infinità e della caotica po­ tenzialità dell'inizio, in cui è immanente un massimo di polisenso. ll senso immanente dell'atto formale primario (ossia la prima linea e la prima macchia di colore) si segue meglio os­ servando un bambino che disegna, piuttosto che un adulto. Il bambino si attiene più a lungo ai fattori persistenti del

primo

abbozzo

formale.

Una

psicopediatra,

Rhoda

Kellog, ha dimostrato pochi anni or sono che il linguaggio figurativo del fanciullo si compone inizialmente solo di circa · venti

basic scribbles, ossia di scarabocchi elementari

che - come nel metodo di Gerard de Lairesse - lenta­ mente si alfabetizzano, cioè si trasformano in diagrammi e schemi, e solo nel corso di questa trasformazione assu­ mono una relazione con i contenuti oggettivi. Si può rile­ vare che questo vocabolario si evolve retto da proprie leggi e solo parzialmente guidato da influssi ambientali. Più tardi il bambino si rende conto degli eventuali rap­ porti esistenti fra il segno schematico e casa > e il corri­ spondente fatto di percezione e casa >. Solo allora il fare cede il posto all'imitare e la autonomia dinamica del fare viene costretta a compromessi con le metafore dell'atto percettivo. In questo processo agiscono parallelamente differen­ ziazioni di forme e di significati.

All'inizio una stessa

cifra deve far le veci di tutte le parti del volto o del 16

corpo umano. Gli schemi non sono ancora isolati secondo


il loro significato, ognuno può significare tutto. Ciò che vale per il bambino vale anche per l'artista sebbene questi si ponga di sua libera iniziativa nel campo delle metafore elementari indifferenziate. Quanto meno diffe­ renziato è il suo vocabolario, tanto maggiore è il mar­ gine delle nostre interpretazioni. Ciò gli procura l'accusa d'essere. incomprensibile e l'etichetta dell'astrazione. In verità però e l'immediatezza dell'inizio> (Hegel) - benché rappresentabile solo indirettamente, cioè con metafore non è alcunché di dissolto o di astratto, ma una con­ cretezza. Dal bambino l'artista si distingue per poter agire con più mobilità e virare di bordo (H. Hartung). L'atti­ vità figurativa infantile manca della libertà di scelta tra il fare e l'imitare. Lo ha espresso assai chiaramente Stifter in una semplice parabola. Nel racconto Der Waldgiinger appare un contadinello che passa la sua giovinezza in un casale solitario vicino al convento di Hohenfurth, cono­ sciuto solo per sentito dire. Suo padre racconta: e Il bimbo costruisce tanti Hohenfurth. Se mette pietruzze in fila, è Hòhenfurth. Se mette dei pezzettini di legno in una figura rettangolare o pentagonale, è sempre Hohen­ furth ...> Fabbrica cioè qualcosa di cui al massimo ha una oscura idea totale (Schiller), ma non una conoscenza visiva. Quando finalmente va in città, termina il suo costruire. I mezzi che gli bastavano per il fare non sono all'altezza per l'imitare che ora avanza le sue pretese. L'atto formativo nato dall'invenzione, una volta minac­ ciato da un modello, non riesce più a conservare la sua autonoma potenza. In presenza del rapporto di somiglianza si spegne l'impulso creativo, il bambino non è capace di agire in regola con la problematica del e comportamento estetico>. Ora, i fattori del processo creativo possono essere de­ terminati e delimitate le direzioni che esso può prendere. 17


Noi distinguiamo tre fattori, due indispensabili - la e Oscura possente idea totale> (Schiller) e il materiale indispensabile alla conformazione voluta - e uno di cui si può fare a meno: i dati dell'esperienza ricavabili dal mondo visibile. Ciò che cerchiamo di separare concettual­ mente accade in modo indistinto e fuori da limiti precisi. L'atto formativo dell'occhio, al pari di quello della mano, può virare, invertire la rotta. Lo dimostrano già le nostre quotidiane esperienze sensoriali. Continuamente dobbiamo affrontare la scelta di leggere diversi contenuti percettivi, o che siano riferiti a qualche oggetto, o che siano liberi da ogni senso oggettivo. Chi non ha mai paragonato un albero a un corpo umano, o dato fisionomia ad una nu­ vola e ad una roccia? Non solo la natura, ma anche il mondo degli oggetti è suscettibile d'una visione interpre­ tativa: • un apparecchio diventa un e robot>, la scocca di un'automobile un viso sghignazzante. Continuamente at­ tribuiamo agli oggetti intorno a noi determinate nostre aspettative, e poiché cerchiamo di assimilare il nuovo, vediamo in esso qualcosa di familiare, lo interpretiamo sulla falsariga di contenuti oggettivi già noti. Ci orien, tiamo associando. Il mondo complesso delle forme nel quale dobbiamo districarci è un enorme quadro enigma­ tico che cede continuamente nuovi nessi figurativi e per­ ciò anche nuovi significativi, ma per contro getta un velo sugli altri. Dobbiamo prendere sempre delle decisioni e scegliere fra molte possibilità d'interpretazione, per una rinunciando alle altre. La nostra vista è circondata da infiniti inganni - la Gestaltpsychologie ci offre una serie di esempi. Ciò che l'uomo e.pratico> sopprime perché la sua visione serva ad orientarlo nel mondo circostante, per l'artista ha un enorme valore stimolante: l'esperienza del­ la forma come grandezza mutevole. Questo è il suo ine18

sauribile dominio dal quale fa scaturire le metafore. In-


soddisfatto

dei

concetti

schedati

dalla

ragione;

egli

si

rivolge all'arte: e Continuamente egli aggroviglia le classi­ ficazioni e le caselle dei concetti per costruire nuove tra­ sposizioni, metafore, metonimie, continuamente mostra il desiderio di configuare il mondo presente dell'uomo sve­ glio, così irregolarmente macchiato, conservato senza ordi­ ne, eccitante ed eternamente nuovo, come lo è il mondo onirico> (Nietzsche). Solo il fatto che il mondo formale delle nostre espe­ rienze sensoriali

è governato

da una legge transitoria,

alla quale sono soggette tanto l'opera d'arte quanto la forma

naturale,

rende

possibile

quella toccante

sutura

che emana dalla superficie d'una tela come rapporto di somiglianza. Colui che toglie la forma dall'oggetto cui ade­ risce, la pone in molteplici rapporti di reciprocità e di vicinanza coi fenomeni che costituiscono l'intero univers

des formes (Focillon). Egli non solo produce forme, ma rapporti di forme; agisce metaforicamente. Se però queste metafore non fossero metafore, l'artista non sarebbe mai in grado di articolare sin dalla prima linea, per la quale non preesiste nella sua esperienza sen­ soriale alcun modello, lentamente una figura - la linea d'una collina, un corpo umano - che stabilisce una con­ venzione con queste esperienze sensoriali. [..... ] A questo punto si deve nuovamente considerare che l'artista si rende conto delle possibilità e dei limiti della sua attività formativa. In ciò,

l'intenzione cede spesso

l'iniziativa alla proprietà dei mezzi compositivi. Nel mate­ riale e nei mezzi formali sono racchiuse ingenti forze che possono momentaneamente avocare a sé il comando del processo formativo. Con la scelta del materiale, l'artista si ·crea un limite, cosi come si vincola alle caratteristiche dei cifrari formali da lui stesso creati. Queste forze con­ dizionanti del resto costituiscono anche una parola nel dialogo col mondo esterno (sebbene cosi facendo la loro

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forza viene sensibilmente menomata, poiché è decisivo, per il modo con il quale il pittore restituisce la sua visione, l'alfabeto di cui dispone. [...] Ora siamo in grado di misurare la mobilità morfo­ genetica dell'artista e di indicare le sue direttrici prin­ cipali. Questi processi non sono irreversibili. L'arte non procede per strade a senso unico, perciò per ogni dire­ zione presa da un artista si deve supporre anche la pos­ sibilità d'una direzione opposta. All'atto primario, intuitivo del fare, seguono due diret­ trici principali: una tende all'imitazione, cioè all'ogget­ tivazione e all'intesa fra valori formali e valori oggettivi, l'altra vuole conservare ai contenuti formali la loro auto­ nomia, ma associare ad essi un grado formale più diffe­ renziato, che eviti tuttavia l'urto con i contenuti del no­ stro mondo di esperienza. Questi due processi di artico­ lazione possono essere interrotti, invertiti, persino ricon­ dotti al loro punto di partenza, l'atto primario. Si può quindi far conto che in una medesima immagine coesi­ stano forme abbozzate e finite, che determinati tratti si possano leggere in modo più oggettivo ed univoco di altri, nei quali ciò che van Gogh ha chiamato l' e onirico >, è invece più fortemente attivo. Ci accostiamo alla realtà complessa dell'atto creativo se lo pensiamo come una via con svariati incroci e dira­ mazioni, cioè con punti nei quali l'artista deve trasfor­ mare la sua potenziale libertà di scelta in decisioni. A ,,olte i mezzi artistici, provenienti dall'atto formativo, eser­ citano una influenza ispiratrice, a volte le possibilità del mondo circostante determinano il fare. Picasso una volta ha detto: e C'è il pittore che del sole fa una macchia gialla, ma c'è anche quello che, con riflessione e mestiere, fa un sole da una macchia gialla >. Il primo svuota la metafora sole del suo contenuto oggettivo, la manipola, per dirla con Nietzsche, non più come moneta ma come me-


tallo. Si potrebbe aggiungere: come metallo divenuto così disponibile per il conio di nuove metafore. L'altro, che dalla macchia gialla fa un sole, segue il consiglio di Leonardo di procedere da forme indistinte a forme definite. Bazaine osserva in merito: e Quanti pit­ tori si abbandonano a questa guida arcana! Seguendo una sensazione violenta, per nulla chiara, prendendo le mosse da alcune macchie indistinte, essi percorrono la lunga via sino all'opera d'arte pienamente attuata, la quale senza dubbio era già precisamente formata nel loro in­ coscio; opera che l'intelletto può verificare, ma non pre­ vedere e risolvere >. In un punto non concordiamo con questa interpretazione. L'immagine non può essere già formata con precisione nell'incoscio, perché questo con­ tiene sì i desideri, le speranze, gli istinti, ma difetta della dimensione decisiva dell'opera d'arte: la forma. Questa si presenta solo durante il fare, e in tal maniera modi­ fica a ritroso le e visioni interiori > dalle quali è alimentata. L'atto formativo avviene in molte oscillazioni pen­ dolari fra i poli dei contenuti oggettivi e quelli formali. Ciò dà all'opera d'arte la sua testa di Giano. Poiché guarda in due direzioni, diventa oggetto di confusione quando l'osservatore gli chiede di essere univoca e di non trarre in errore. Viceversa si accosta alla creazione arti­ stica colui il quale è pronto a collaborare ai giochi poli­ sensi proposti dall'opera; chi, dunque, accetta l'offerta di scegliere tra un atteggiamento oggettivo e uno formale, oppure mira alla loro sintesi. L'attuazione di queste possibilità di scelta dipenderà dalla risonanza dell'opera d'arte e dal nostro modo di avvicinarla. Senza dubbio la sensibilità formale dell'osservatore subisce mutamenti sto­ rici ed è più acuta in un'epoca che cura musei ed espo­ sizioni rispetto ad un'altra che non dedica alcuna atten­ zione alla sfera dell'esperienza estetica dell'opera d'arte, cioè al suo scopo immanente. Se l'osservatore medioe- 21


vale era attratto da un tabernacolo come oggetto mate­ riale o di culto, la nostra sensibilità formale ci consente di trovare in esso ulteriori valori. Qui non si tratta di difendere questa o quella ten­ denza, ma di stabilire i seguenti fatti: 1) Gli inizi dell'attività formale, donde si dipartono più tardi dei rami in senso e oggettivo > ed e astratto >, stanno in un ordine assiomatico: il fare precede l'imitare. 2) L'arte e oggettiva > e quella e astratta > si basano sull'uso di simboli per cui è impossibile trarre una linea di demarcazione netta fra le due correnti, mentre, d'altro canto, hanno luogo dei passaggi. Come nel caso dell'illu­ sionismo dell'arte del 20° secolo. Ciò è possibile soltanto perché i mezzi figurativi sono ambivalenti; i confused modes di Ruskin possono essere letti in riferimento ad alberi, ma anche, sciolti dal contesto oggettivo, come scarabocchi esenti da qualsiasi senso rappresentativo, co­ me il primo acquarello astratto. 4) Poiché e fra due sfere completamente diverse, come tra soggetto ed oggetto ... non c'è causalità, né esattezza, né espressione > bensì un e comportamento estetico > che si esprime in metafore, l'artista è autorizzato a lasciarsi guidare, nella formulazione delle sue metafore, non tanto da criteri extra estetici quanto da quelli congeniali al suo temperamento, che rendano attiva la sua capacità d'inventare. L'atto primario, costituente la forma, evoca delle me­ tafore caratterizzate da un alto grado di polisemia. L'arte simbolica coopera con questo carattere polisenso, lo parafrasa e lo arricchisce. L'altra, il cui fine è la ri­ produzione più fedele dell'oggetto, vorrebbe eliminarlo e conferire all'immagine un'impronta inequivocabile. La sot­ tomissione dei valori formali a quelli oggettivi non può 22

tuttavia essere mai totale. Anche l'arte fedele alla natura non può ignorare una componente che caratterizza le sue


regole del gioco; altrimenti accade che i simboli di que­ st'arte vengono letti in maniera sbagliata;

per esempio

qualcuno prende lo scorcio prospettico d'una cortina di case come realtà, oppure, come quell'imperatore cinese che vedeva l'oscurità di un volto non come metafora dell'om­ bra, ma come colore proprio della pelle. L'arte del nostro secolo ha riscoperto un'antica ve­ rità: l'azione creativa è anzitutto un fare, una produzione di insiemi formali senza riscontro nella realtà, nei quali l'impulso a formare metafore - un e istinto fondamentale dell'uomo>

(Nietzsche) - si enuncia in una misura tale

da creare preoccupazioni in alcuni ambienti. Ogni arte simbolica ha il suo censore, il suo Bernardo di Chiara­ valle. [...] Il terreno guadagnato, il vantaggio di quell'arte che abbiamo definito caratterizzata dal fare e dalla polisemia, bisogna cercarlo altrove. Se si ammette che il valore. formale dell'opera non può mai giustapporsi ad altre espe­ rienze intrinseche od estrinseche, si giunge alla seguente conclusione:

l'arte imitativa tenta çli nascondere questo

principio, se non addirittura estraniarlo dai suoi argo­ menti, mentre lo stesso assunto viene accentuato dall'arte simbolica, che da esso trae legittimità per le sue ampie variazioni metaforiche.

Qui

sta

un

paradosso:

mentre

da un lato essa, tenendo conto delle e illusioni >, rico­ nosce i limiti posti dal linguaggio segnico, dall'altro, apre alle stesse un campo d'azione, in cui arbitrio e libera ricerca acquistano ogni diritto. Se ogni arte non duplica ma amplifica le nostre espe­ rienze, allora l'arte simbolica - nella quale annoveriamo le manifestazioni decisive del nostro secolo - lo fa con più sicurezza e maggiore ricchezza di imprevisti che non l'arte imitatrice della natura. Non vogliamo affermare che essa sveli degli enunciati più validi e profondi, ma cre­ diamo che si avvicini maggiormente alle origini del creato

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- l'atto primario del fare. Ciò significa che essa - con­ trariamente agli apologeti che le attribuiscono e eviden- · zialità e unicità interpretativa - riabilita la polisemia come fattore costituzionale dell'opera d'arte. Da questo risulta un ulteriore aspetto che possiamo ancora classificare come terreno guadagnato. Appena l'ac­ cento passa dall'imitare al fare, i generi delle arti bidi­ mensionali, usati nella rappresentazione della realtà appa­ rente, se da un lato perdono il loro precedente presti­ gio, dall'altro sono liberati dal loro isolamento. Gli ambiti d'espressione confluiscono di nuovo gli uni negli .altri, la pittura s'affratella con la plastica, questa s'introduce nel­ l'architettura, le barriere tra arte alta e bassa, tra quadro e utensile spariscono o· assumono importanza secondaria. Sempre più s'afferma la consapevolezza che, alla base del­ l'atto formale, sta la loro origine comune. Aver messo a nudo questa origine sembra rappresentare una merito non piccolo dell' e arte moderna >. WERNER HOFMANN

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33a Biennale di Venezia: « jeu » e « sérieux ». EMILIO GARRONI

1. Paradossalmente, quest'anno, le perplessità suscitate dalla Biennale veneziana sono state determinate non da (effettivi o presunti) 'scandali', ma esattamente dalla ragione opposta. Cosicché perfino i 'critici' più amorosa­ mente legati ad una loro pacificante nozione di ' arte ' si sono presi finalmente l'esile e contraddittoria soddisfa­ zione di denunciare, come un fatto negativo, l'assenza di qualche vigorosa e stimolante provocazione - al con­ trario, insomma, di ciò che sarebbe accaduto nel '64 con quell'insieme di fenomeni che furono catalogati, forse un po' sbrigativamente, come pop art. Perché si ricorda, in questa sede, tale circostanza da cronaca quotidiana, per sé irrilevante? Perché l'assenza di scandalo, a parte pochissimi episodi sporadici e del re­ sto anch'essi problematici in tale senso (forse soltanto il • citatissimo « Rainbow Environment 3 > di Ay-O, la « Cassa­ Sistina > di Ceroli e - ancor meno eccettuantesi - « Il trapezio o una confessione > del �rasiliano Wesley Duke 25


Lee), ha oggettivamente e non superficialmente caratteriz­ zato l'edizione '66 della Biennale. Colpa della selezione, che avrebbe trascurato i fermenti più significativi e ag­ gressivi dell'arte d'oggi? Forse, ma solo in minima parte. Senza dubbio, per esempio, se il padiglione italiano (che è sempre, nella sua globalità, il punto dolente della mani­ festazione, per quella sua inguaribile ostinazione a confi­ gurarsi come una sorta di Quadriennale in sedicesimo) fosse stato dedicato interamente, o per metà (l'altra metà essendo concepita come dialetticamente contrapposta alla prima), a quei movimenti che vanno ormai sotto il nome larghissimo di e nuova figurazione >, avremmo avuto anche quest'anno una sarta di scandalo, grazie al non conformi­ smo, all'autorità e - se si vuole - alla funzionale ' sgra­ devolezza ' dei loro temi e del loro linguaggio. Invece no. La nuova figurazione, nonostante la presenza accen­ trante di un Vacchi, di un Guerreschi, e perfino di un Cremonini, fu maldestramente bruciata due anni fa; e quest'anno non si è sentito nemmeno il bisogno di asse­ gnare una sala a quel pittore di straordinario talento che è Giannetto Fieschi, che ha avuto un ruolo di primissimo .piano nella pittura italiana dell'ultimo biennio e che già nel '64 - con una sola opera prestigiosa - aveva susci­ tato molto più interesse di tanti altri titolari di sale personali, corsi via come acqua fresca. Tuttavia, ripeto, si sarebbe prodotto soltanto un ' sorta ' di scandalo, cioè non (anche) al livello dello shock, ma esclusivamente al livello della ' polemica figurale ' (del discorso per imma­ gini), realizzata per di più con mezzi che potrebbero essere detti addirittura ' tradizionali '. Per cui, in ogni caso, la fine dello scandalo non può essere motivata con circo­ stanze contingenti, e meno che mai mediante l'operato (per definizione opinabile) delle varie commissioni. Citavo dianzi qualche opera ' scandalizzante ', avanzando già (in 26

vari sensi) non superficiali riserve su tale definizione:


ebbene, se perfino l'appariscente gioco erotico-fantastico di Ay-0 non ha fatto propriamente scandalo, smentendo in pieno i cronisti della prim'ora che prevedevano incauta­ mente una sua rapida eliminazione d'autorità, quasi un'an­ ticipazione dello sconsolante 'affaire Zetterling ', ciò vuol dire che non tanto le opere scandalizzanti (ci si conceda d'ora in poi questa sbrigativa metafora, senza uso di vir­ golette) sono scomparse per una qualche ragione di poli­ tica o di scelta culturale, ma che è venuta meno la capa­ cità stessa di scandalizzare e di scandalizzarsi. Il che non può non influire, naturalmente, sulla stessa oggettiva confi­ gurazione delle opere, che in generale si sono volte piut­ tosto al gioco (alla neutralizzazione dello scandalo), spes­ so 'ludicizzando' perfino temi, mezzi, espedienti che per sé (o meglio: rispetto agli schemi culturali, estetici, con­ suetudinari o 'morali' di ieri) sono ancora oggi, a colpo d'occhio, provocatòri. L'assenza di scandalo, con la connessa progressiva ' ludicizzazione' del prodotto artistico, può voler dire due cose, alternativamente o al tempo stesso: che l' ' arti­ sta', o l'operatore, ha dato fondo ad ogni riserva di pos­ sibilità, esaurendo insieme la stessa metodologia dell'inno­ vazione e dello shocking, o che piuttosto nel pubblico , si è ottusa ogni capacità di essere colpiti dal nuovo, essendosi determinato in esso un totale adattamento ai linguaggi che solo impropriamente potrebbero essere detti ancora d' 'avanguardia'. Due ragioni che potrebbero forse coin­ cidere, come già si accennava, ma che si prestano tuttavia a due diverse interpretazioni. Da una parte, la e fine del­ l'avanguardia > (secondo la dizione data più di quindici anni fa, forse con un eccesso di anticipo, da Cesare Brandi) potrebbe essere interpretata come positiva stabilizzazione dei fermenti avanguardistici, come eliminazione di ogni loro residuo 'romantico' e risoluzione di essi in effettivo . linguaggio intersoggettivo, capace di esprimere la cultura 27


d'oggi anche polemicamente ma senza più fare ricorso alla facile provocazione. D'altra parte, potrebbe indiziare un fenomeno di sclerosi, di ristagno culturale, di carenza di cose da dire e di modi per dirle - da parte degli artisti e di attivo interesse - da parte del pubblico. Tutte queste ipotesi sono probabilmente vere in parte, essendo oggi pos­ sibile individuare sempre una porzione appropriata della realtà per ogni frangia o risvolto di vita culturale. Il che vuol dire nello stesso tempo che non è arrivato il mo­ mento di azzardare ipotesi radicali, e che invece vale an­ cora la pena di analizzare attentamente i fenomeni in atto, accontentandosi di rilevarne le strutture tendenziali (e, na­ turalmi:mte, sempre ipotetiche) più significative. Così, per esempio, l'ipotesi tentante di Giulio Carlo Argan, della fine senza appello della tradizionale produzione artistica di tipo e artigianale> e relativa urgenza o esigenza di un'arte «tecnologico>-« popolare>, è ancora forse un'ipo­ tesi troppo forte, ancora troppo massicciamenté in contrasto con la quasi totalità della effettiva produzione . artistica, che è di tipo - appunto - artigianale.

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2. Qualche anno fa Eugenio Battisti prevedeva per il futuro una progressiva, sempre più radicale, riduzione lu­ dica dell'arte; e chi scrive non era del tutto d'accordo, credendo piuttosto di ravvisare nella cosiddetta crisi po­ stinformale il sintomo dell'esigenza (ben più profonda e storicamente più ampiamente motivata) di un ritorno alla ' serietà ', cioè di una riconquista della dimensione inter­ soggettiva della semanticità e di una - per la verità al­ quanto indeterminata e fluttuante - e mitologia razionale>. Ora, il panorama offerto dalla Biennale, nonché in parti­ colare il premio conferito a Julio Le Pare, sembrerebbe dar ragione in pieno alla previsione di Battisti - e molto al di là dei termini previsti dall'idea del e superamento dell'arte> proposta per esempio da Alexander Dorner e ac-


colta con giovanile entusiasmo da John Dewey. Questo è un fatto, almeno in sede di primo accertamento, del tutto incontestabile: vedremo poi se per caso non avesse un po' di ragione anche chi aveva (ed ha) opinioni alquanto di­ verse su questo punto. Intanto cerchiamo di renderci con­ to delle dimensioni e delle modalità di tale processo di ri­ duzione ludica. Si tratta di un processo, è ben dir subito, che non si restringe alle possibilità offerte dalle tastiere dei fanta­ siosi (e talora piacevolissimi) 'flipper' o 'pianole visive' di Le Pare; ma che viene espresso in generale da t�tti quegli infiniti e diversissimi oggetti che si offrono alla fruizione attiva e alle manipolazioni dello « spettatore in­ tegrato> (Brandi). Sembra insomma essere arrivata, al li­ vello della fruizione comune, l'ora dell' « opera aperta > o dell'« opera in movimento> (Eco), o - dal punto di vista soggettivo - l'« ora del lettore> (Castellet). Vale a dire: l'ora dell'intervento pratico da parte del fruitore, cui viene offerto soltanto un programma di scelte possibili, cui non si chiede tanto di ' leggere ' quanto di comporre (sempre · entro precisi limiti programmatici), cui non si impone più - quindi - un qualche sforzo di comprensione intellet­ tuale e contemplativa, suscettibile solo intellettualmente e contemplativamente (cioè senza risultati oggettivi e mate­ riali sull'opera) di prolungare l'opera stessa, di discuterla,

di modificarla, ma semplicemente si consente di variare di

fatto l'opera, di manipolarla, di usarla - appunto - pra­ ticamente. Che ciò costituisca (presa l'opera immediatamente e per sé stessà) un potenziamento delle possibilità discorsive dell'opera o del messaggio, e tanto più in senso « demo­ cratico> (cioè: fattivamente critico), come pure si è detto a suo tempo e ora pare che si tenda a dire sempre di meno, sarebbe affermazione fortemente opinabile. L'uso pratico di un oggetto programmato (a meno che non si tratti

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di un utensile per la produzione di oggetti: e questo non è il caso nostro) non è mai propriamente fattivo e nemmeno critico. Critico sarà per il suo produttore e programmatore, critico sarà forse per chi lo usa e lo analizza in vista della produzione di ulteriori possibili oggetti analoghi; ma non certo per l'' osservatore attivo', che attivo non è, o il ' manipolatore', il quale si comporterà inevitabilmente di fronte ad esso da puro consumatore di possibilità, così come accade a tutti noi dinanzi a un distribuitore di sigarette o di dolciumi, a una lavatrice superautomatica, a un'automo­ bilina elettrica da Luna Park. (Ma, nel caso dell'automobile vera, non dimenticheremo la significativa ostilità degli auto­ mobilisti, per così dire, ' critici ', insofferenti del puro uso pratico, verso un eccesso di automatismi: una volta attuati i quali, su larga scala, cesserebbe istantaneamente l'esi­ stenza dell'automobile come strumento atto a sollecitare la nostra partecipazione intellettuale e contemplativa, e al per­ sonaggio dell'' automobilista' subentrerebbe definitivamen­ te il personaggio del puro ' consumatore '). Il ludico, quindi, è solo per un verso una caratterizza­ zione dell'oggetto, il quale - anche quando è strutturato intenzionalmente in tal senso - presenta sempre un'altra faccia, più o meno rilevante, in cui si manifesta la sua struttura intellettuale oggettiva, non ludica o non mera­ mente pratica; ma è soprattutto un comportamento, che si rivela in pieno di fronte a opere che lo sollecitano secondo il suo verso, ma può anche sopraffare oggetti ludici solo a metà o non ludici affatto. In questo senso, e con tutte le conseguenze culturali accennate, e sia pure secondo mo­ dalità e livelli qualitativi assai diversi, rientrano in un com­ portamento ludico (almeno in parte; a parte objecti o a parte subjecti) le labirintiche ' escursioni' nell'interno delle (modeste, per la verità) sculture del premiato Martin, le lente ' carezze ' sulle « lignes immaterielles > di Soto, gli abili ' tocchi' sulle strutture mobili di Linck, le libere


' vestizioni' e 'svestizioni' delle figurine sagomate del e Pla­ netarium > di Fahlstrom, i 'soffi' e gli 'aliti ' - magari involontari - sulle tremule metafore floreali di Haese, le lente ' passeggiate ' dinanzi alle grandi pareti di Castellani, gli allucinanti ' rimpiattini' nella saletta di Fontana, nonché in generale tutte le 'contemplazioni consumanti' (se è lecita questa espressione quasi contraddittoria) delle invenzioni optical, neocostruttiviste e simili. 3. Inteso in questo senso largo, il ludico si confonde sostanzialmente con le cosiddette 'poetiche dell'oggetto', in­ tenzionalmente produttrici di 'oggetti' esistenziali che si in­ seriscono nello spazio quotidiano come qualcosa ad esso omo­ geneo, e non invece al modo dell' 'immagine' o, meglio, del 'messaggio segnico' che se ne eccettua, ponendosi come qualcosa che conferisce un senso, una direzione, una struttura (formale o simbolica) allo spazio: una struttura da intendere intellettualmente o da contemplare, e non una e conformazione > (per riprendere ancora una volta, anche se a modo nostro, un felice termine del Brandi) da vivere, da usare o da manipolare. Si intende che ci riferiamo qui al ludico allo stato puro, che forse non esiste in natura o almeno è estremamente raro (e proprio perché, come si diceva, esso è soprattutto un comportamento e solo per un verso una caratterizzazione oggettiva); e che quindi la dizione 'poetica dell'oggetto', che a prima vista potrebbe sembrare incon­ grua, deve essere assunta come una metafora. A rigore, 'poetica dell'oggetto' non significa nulla, se non si aggiun­ gono le ulteriori precisazioni date poco sopra (esistenzialità, quotidianità, praticità dell'oggetto). E, poiché il ludico non esiste allo stato puro o è estremamente raro, bisognerà chiarire che non si possono considerare come rientranti in una poetica dell'oggetto, se non per un solo verso, spesso neppure il più importante, molte opere che a prima vista possono essere considerate tali esaustivamente. A fini di

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chiarezza, e nell'ambito della 33a Biennale, citeremo per esempio le notevoli ' pitture tridimensionali ' di Richard Smith (una specie di versione pacificata del « Merzhaus > schwittersiano) e le stesse già citate opere di Gi.inter Haese, la cui ludicità è soprattutto (anche se non soltanto) nel com­ portamento unilaterale e inadeguato dell'osservatore, che viene spinto a sollecitarle manualmente per analogia con le effettive richieste pratiche di altre opere esposte (e non è certo per una considerazione puramente prudenziale, di­ fensiva e conservativa, che sono apparsi tra le straordinarie metafore di Haese - metafore, appunto, non oggetti - sba­ lorditivi e, quest'anno, un po' comici cartellini con su scrit­ to: « si prega di non toccare > ). Sotto il profilo della poetica dell'oggetto, risulta anche chiaramente l'origine storica puntuale dell'attuale processo di ludicizzazione: essa deve essere colta, quasi in opposi­ zione radicale con la totalità delle altre poetiche d'avanguar­ dia del primo trentennio del secolo, nel dadaismo, cioè nell'unico movimento caratterizzato da una intenzionalità extraestetica o antiestetica (pur con tutte le sue frange 'formali': cinetiche, ottiche, o addirittura puristiche: vedi Duchamp, Man Ray, Arp) e quindi inevitabilmente pratica. L'oggetto da manipolare o da dissacrare (cioè: da manipo­ lare ritualmente al fine di dissacrare la tradizione dell' 'ope­ ra d'arte') nasce lì, come qualcosa di dato, di trovato, di già fatto, o di fatto per stare come un oggetto che non significa e che si offre pertanto agli interventi pratici; gra­ tuiti o ludici dell'osservatore-manipolatore. Nasceva, tutta­ via, colorato da esplicite o implicite componenti moralistiche, anarchiche, spettacolari, letterarie, intellettuali o, come si diceva, dissacranti, e da una coscienza altissima della buffo­ neria coincidente con la disperazione, la nausea, il disprezzo e la rivolta. Soprattutto nasceva 'assurdo'. Ed è proprio 32

l'assurdo, insieme agli altri aspetti ideologici del dadaismo storico, che è quasi del tutto assente dalla attuale poetica


dell'oggetto: dove rivolta e buffoneria hanno ceduto il passo al gioco puro, talvolta addirittura raffinato ed estetizzante, e quindi in qualche modo alla ' serietà '. Tutte le più mira­ bolanti invenzioni di questi ultimi anni le ritroviamo senza dubbio lì, puntualmente e materialmente, in quel clima da­ daistico che si diffuse, approssimativamente tra il '15 e il '25, a New York, a Parigi, a Zurigo, a Berlino, ad Hannover: ma solo le invenzioni, senza più ombra né di assurdo, né - che è quasi la stes�a cosa - di e tragico quotidiano > (come diceva Mondrian). Una controprova interessante di questo tipo di trapas­ so selettivo ci viene offerta dalla sala di Curt Stenvert, un postdadaista viennese (non un neodadaista, all'americana), che si richiama anche esplicitamente a dadà: dove ci tro­ viamo sì di fronte a complicate e ' perfette ' composizioni di oggetti, radicalmente inutilizzabili come ' opere d'arte ' nel senso tradizionale (quindi coerenti, per questo verso, con le indicazioni extraestetiche o antiestetiche del dadaismo), ma tutte, anche, leggibili fin nei minimi particolari in chiave sociologica, politica, moralistica, letteraria - e leggibili spes­ so anche in senso letterale, data l'abbondanza di scritte che ricoprono ' armadi ', ' cassetti ', ' scatole ', ' bacheche ', zeppi di manichini, fiori finti, scheletri, soldatini di piombo, la­ mette Gillette, bombe a mano, e così via. Insomma, non oggetti in senso pratico ma ' simboli ' di un linguaggio com­ posito (verbale e non verbale) e tutto esplicito. Si legge del resto in un manifesto dello Stenvert: e L'arte funzionale del 21° secolo ha il compito di rendere l'uomo conscio delle condizioni biologiche, sociologiche, psicologiche e filosofiche della sua esistenza>. Come dire: dell'oggetto dadaista, in quanto oggetto (il e ready-made > di Duchamp, i ' legni ' di Arp, le ' impronte ' e le ' macchie ' di Picabia, gli ' imbal­ laggi' di Man Ray, i e Merzbilder > di Schwitters), si sono impadronite le attuali poetiche dell'oggetto, sfrondandolo via via dei suoi sottintesi ideologici; e a un postdadaista non 33


resta che fare l'operazione inversa, rispetto a quella del dadaismo storico, estrapolare cioè gli oggetti in simboli ren­ dendone tutto trasparente il sottofondo ideologico. Cosicché l'eredità dadaista sembra essersi spaccata in due: da una parte l'oggetto muto, dall'altra l'oggetto simbolico, o più semplicemente da una parte l'oggetto e dall'altra il discorso. E non è certo Curt Stenvert, per quest'ultimo polo, l'uni­ co o il più significativo rappresentante di questa tendenza ideologica, anche se in lui si manifesta con singolare chia­ rezza un processo storico oggettivo e documentato. L'oggetto, nato originariamente come intenzionale ne­ gazione d'arte (anche se, come ha scritto equivocamente Tri­ stan Tzara una ventina d'anni fa in Le surréalisme et l'après-· guerre, per ricostruire in futuro un'arte nuova), rischia dunque - in questo radicale processo di ludicizzazione di confondersi addirittura con la ' decorazione ' (e non solo nel senso traslato per cui il puro gioco è una sorta di deco­ razione della vita). E la Biennale di quest'anno - se pure ce ne era bisogno - ce lo dimostra ampiamente ancora una volta: la neutralizzazione ideologica dell'oggetto, o la sua ludicizzazione, rende l'oggetto stesso disponibile, ma disponibile appunto come un bersaglio per il tiro con l'arco (ricordiamoci dei famosi 'bersagli' di Kenneth Noland!) che può nello stesso tempo servire al gioco e alla decorazione della camera dei bambini. 4. Non vorremmo però che queste osservazioni fossero interpretate come un attacco a fondo, inutile oltre che in­ giusto, contro l'arte come gioco (anche se le mie, credo motivate, simpatie vanno non tanto alle poetiche del ' grade­ vole ' quanto alle poetiche dello 'sgradevole ' - posto e non concesso che all'opera d'arte ci si possa seriamente avvici­ nare in termini di 'gradevole ' e di ' sgradevole '). Al con­ trario, non si può e non si deve eliminare il piacere del gioco 34

dalla vita, anche nelle sue forme più elementari. Ma non si


tratta qui, propriamente, di piacere o dispiacere. È che lo stesso ludico svolge oggi, o può svolgere in futuro, una fun­ zione culturale tutt'altro che trascurabile: e del resto già si diceva che il gioco oggi, sia pure in modo ambiguo e polivalente, è assai prossimo alla serietà. In primo luogo, infatti, il ludico può rappresentare non soltanto una resa alla società disimpegnata del benessere (e sarebbe una resa non condannabile in linea di principio se la società in cui viviamo fosse davvero, �enza gravi e vincolanti ' eccezioni' di miserie e di ·violenze, una società del benessere - essendo ormai del tutto fuori moda il motto dissennato e patriarcale del e vivere pericolosamen­ te >), ma costituisce anche, al contrario o nello stesso tempo, un sintomo notevole di una crisi delle modalità prevaricatrici in cui quella società troppo spesso si è mani­ festata. Mi capitava di osservare qualche mese fa, su e Il contemporaneo >, qualcosa del genere a proposito del feno­ meno - che ora mi appare straordinariamente analogo della attuale neutralizzazione ludica della retorica pubblici­ taria, che tende appunto a trasformarsi spesso da strumento di 'persuazione occulta' in gioco dichiarato al livello della coscienza (come nel caso ' classico ' del e tigre > di gusto disneyano). Parimenti l'attuale arte ludica non è affatto in grado di creare (né vuole creare) una dimensione di sogno e di evasione, una sorta di e mitologia ludica >, tale da far dimenticare ai borghesi intellettuali la guerra nel Vietnam, l'ambigua impenetrabilità sovietica o la e due giorni di Pechino >; e contribuisce piuttosto, anche se questo non è sempre il suo fine esplicito, alla liquidazione dell'estetismo contemporaneo, dimostrando in modo inoppugnabile che attraverso l'arte (come del resto ogni persona di buon senso già sapeva per conto proprio) non si risolvono i gravi pro­ blemi del mondo d'oggi (ciò che invece non sempre l'avan­ guardia storica dimostrò di aver capito, per esempio nel caso tipico di De Stijl). L'arte ludica sancisce onestamente 35


la fine dell'avanguardia, o meglio di certe illusioni dell'avan­ guardia, e nello stesso tempo dell'accademia avanguardi­ stica in blocco (che è invecchiata di colpo), e può quindi costituire una premessa non irrilevante per una riproposi­ zione integrale del linguaggio artistico: una sorta di dia­ framma negativo che non potrà essere mai più attraver­ sato a ritroso alla ricerca di modalità linguistiche (d'avan­ guardia o no) ormai già completamente storicizzate. Allora se l'assurdo è venuto meno, rifiorisce in varie forme e gra­ di l'ironia: quale si esprime nel già citato Fahlstrèim, nel nostro ' metafisicizzante ' Del Pezzo, nel pur modestissimo (e quasi irritante, come tutte le sciocchezze) Martial Raysse, e soprattutto nel sempre più rilevante Llchtenstein (che a Venezia non soltanto mette in crisi il mondo volgare dei fumetti, ma non risparmia neppure l' 'action painting ', Pi­ casso e l'architettura dorica - nella misura in cui di essi si è impadronita la medesima volgarità della divulgazione come

sempre simbolicamente rappresentati in forma di

macroscopico retino zincografico). Mediante l'ironia,

il gioco

si spinge spesso nella provincia dell'immagine o del discor­ so per immagini, senza disdegnare qualche intonazione am­ monitoria o un mediatissimo sospetto di tragicità, o addi­ rittura un qualche esito ' contemplativo ' - come nel caso di Munari, di Castellani, di Fontana, di Carmi, del e Grup­ po 1 > o di Sergio Camargo (sui quali però si dovrebbe fare un più serio discorso). Ebbene, quel tanto di capacità ' discorsiva ', che trapela tra i giochi e le mute strutture, a prima vista solo manipolabili o fruibili nella forma del gioco o della decorazione, rivela appunto

il raggiungimento di un

punto critico. delicato e determinante; ma anche nei limiti del puro gioco (o della sua più alta approssimazione), di­ ciamo nel caso di un Le Pare, se non si dà propriamente discorso, si dà tuttavia testimonianza massiccia. Il gioco te­ stimonia di se stesso: che è una specie di discorso ridotto 36

ai minimi termini. E

già da questo punto di vista negativo


dovrebbe apparire la notevole differenza tra chi si abban­ dona semplicemente alla constatazione e alla previsione della ludicizzazione, e chi invece tenta - difficile dire se con successo o no - di darne una interpretazione, per così dire, 'semantica' (culturalmente e linguisticamente si­ gnificativa). 5. Ma vi è poi, nel ludico, una possibilità funzionale positiva, oltre che negativa? Credo di sì. Pur presentandosi spesso, è vero, nella forma più sospetta del hobby subli­ mato, esso rientra anche (per altri versi, o nell'ambito di più ampie mediazioni culturali) in una ideologia utopistica, volta a proseguire il discorso degli utopisti-letterati, ope­ ranti in modo non superficiale da circa quattrocento anni (vale a dire, fin dai primissimi segni di una civiltà e di una problematica 'moderna ': v. il nostro Arte, mito, uto­ pia, « Quaderni di Arte-oggi >, Roma 1965), anche nella pro­ vincia della sperimentazione produttiva e della produzione di oggetti: un tipo di ricerca che chi scrive ha chiamato « utopia in atto >, e con intenzione non dispregiativa. Si tratta, senza dubbio, di una proposta artistica e critica tutt'altro che pacifica (e, a questo proposito, l'opposta posizione di Argan, espressa in Progetto e destino, costi­ tuisce uno stimolo importante e preoccupante al fine di un ripensamento o di una revisione radicale); ma è tuttavia una proposta storicamente circostanziata, fitta di impli­ cazioni e di suggestioni, che ricopre secondo modalità e livelli tecnici diversi e con risultati effettivi assai difformi un'area vastissima, inclusi l'industria! design, l'architettura, l'urbanistica e - in generale - l'organizzazione produttiva e sociale. A Venezia il padiglione dell'Olanda (la patria di De Stijl ! ) , tutto dedicato alle ricerche e alle fantasie ar­ chitettonico-urbanistiche di Constant, un pittore notevole che già fece parte del gruppo « Cobra >, è una testimo­ nianza assai significativa in favore di una interpretazione 37


' utopistica ' del fenomeno del ludico. Ed è davvero singolare che la modestia della prefigurazione della e New Babylon > di Consfant abbia messo in ombra più del giusto la sua funzione-chiave ai fini di una comprensione globale del panorama offerto dalla 33a Biennale, e che insomma non si sia capito come la quasi totalità dei fenomeni artistici recenti (anche quelli che non rientrano propriamente in una poetica del gioco) suppongano in qualche misura un'uto­ pia del genere. Citiamo da e De New Babylon > (n. 4) alcuni passi si­ gnificativi, e in primo luogo uno che contiene un illumi­ nante riferimento al dadaismo: e The first appearance of the organised revolutionary group of artists [ ... ] wielded the slogan of anti-art: dada. Nineteenth century idealism was definitely abandoned >. E ancora: e Die individualistiche Kultur ist zu Ende, ihre Instituionen sind erschopft >. e Le programme mini­ mum de l' Internationale Situationniste est l'experience de décors complets, qui devra s'étendre à un urbanisme uni­ taire, et à la recherche de nouveaux comportements en re­ lation avec ces décors >. e Der Rhythmus von Entstehen und Verschwinden der Ambiente-Momente bildet so das Raum-Zeit-Masz New-Babylons >. e Une situation construite est un moyen d'approche de l'urbanisme unitaire, et l'ur­ banisme unitaire est la base indispensable du développement de la construction de situations, comme jeu e comme sérieux d'une société plus libre >. e The era of homo ludens lies ahead of us ,. . The homo ludens of the future society will not

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have to make art for he can be creative in the practice of his · daily life. [... ] New Babylon represents the environment the homo ludens is supposed to live in. [ ...] The environment of the homo ludens has, first of all, to be flexible, changeable, assuring any mov�ment, any change · of piace or change of �ood, and any mode of behaviour. It follows that New Babylon could not be a determined pian >. « [.•. ] la vie a New


Babylon étant nomadique, il n'y aura pas d'habitants residen­ tiels mais seulement des habitants de passage. Les espaces entre les secteurs seront transformés en paysages artificiels >. e The world of plenty is New Babylon, the world in which man no longer toils, but plays; poetry as a way of life for the masses [...]. New Babylon, perhaps, is not so much a picture of the future as a Leitmotiv, the conception of an all-comprehensive culture which is hard to comprehend because unti! now it could not exist [...] ». E finalmente un'apologia lirica (di Simon Vinkenoog): « Another day in New Babylon / The first of ali days. New names, / New meanings, new sounds - every day a/ Com­ pletely fresh world to be discovered [...] >. Queste poche citazioni . (di Constant e di altri) deli­ neano abbastanza bene, mi pare, una generale situazione culturale. In particolare, il lettore avrà avvertito per conto suo il riscontro quasi puntuale tra le nozioni da noi usate nelle pagine precedenti e quelle dei testi utopistici ' neoba­ bilonesi ', delle quali mi sembra interessante mettere in evi­ denza qui soltanto la asserita coincidenza di « jeu > e e sérieux >; né ci sarà bisogno di aggiungere troppi com­ menti espliciti per far risultare la notevole congruenza tra la quasi totalità dei prodotti artistici contemporanei ri­ spetto a una siffatta situazione utopistica (che tuttavia, dice Constant, sembra che ora possa cominciare ad esistere dav­ vero). La sperimentazione assidua di strutture e compor­ tamenti, che va producendo da anni e decenni innumerevoli opere dalla improbabile destinazione attuale, trova final­ mente in un orizzonte utopistico (ripeto: da intendere in senso positivo) una plausibilità funzionale ed esistenziale: non quindi dal punto di vista della loro produzione sal­ tuaria ed eccezionale, come oggetti individuali mimanti la funzione dell' ' opera d'arte ' tradizionale, ma dal punto di vista della loro produzione e del loro uso sistematici e insieme dinamici, cioè suscettibili di continui mutamenti 39


( « der Rhythmus von Entstehen und Verschwinden der Ambiente-Momente >) per una fruizione universale o collet­ tiva ( « poetry as a way of life for the masses >) da parte di una società e libera > e e nomadica >, cioè non più chiusa in cellule familiari ed edilizie fisse. In queste città aperte, in questi paesaggi artificiali (ma, al di fuori del rigorismo olan­ dese, non necessariamente tali), in queste strutture sempre rinnovantisi (che potremmo immaginare, al livello di una nuova concezione del 'privato', nella forma della casa­ albergo), ciò che appare oggi soltanto un gioco, un esperi­ mento strutturale, una invenzione gratuita, costituirebbe invece l'immagine coerente, pratica sì ma anche intellet­ tuale, di un modo di vita e di una concezione del mondo: non più giocattoli isolati, sia pure squisiti giocattoli (e pen­ so appunto a quegli artisti cui si doveva riservare un più serio discorso), ma funzioni reali e simboliche di una so­ cietà. Certo, si tratta di un'utopia. Ma anche le utopie sono a modo loro cose serie (non foss'altro come premessa e sostrato materiale della scienza - e dell' « arte >). E per di più si tratta di un'utopia in atto, che non si limita a sognare un mondo futuro ma già si sforza di prefigurarlo (e insieme di figurarlo) in concreto, producendo oggetti in­ vestiti esplicitamente o segretamente di una loro imperiosa candidatura d'impiego. Mentre l'utopia letteraria (puramen­ te ideologica) si limita a fornire uno schema di interpreta­ zione razionale di fatti ipotizzati, qui sono dati in primo luogo i fatti (come ipotesi materiali) nell'ambito di una interpretazione ideologica globale ad essi omogenea: nel primo caso si ha scissione e contrapposizione tra idea o razionalità utopistica e realtà effettiva, e nel secondo scis­ sione e contrapposizione si convertono in integrazione idea­ le-fattuale - e scissione e contrapposizione si riproducono semmai nella forma della scissione e contrapposizione di 40 due mondi, entrambi a loro modo reali.


Né è detto che questo mondo utopistico ideale-reale debba essere pensato soltanto come un enorme Luna Park o una smisurata Esposizione Universale, con giochi d'acqua, di luci, di colori, forme e suoni in perpetua agitazione. Al contrario, proprio entro questa prospettiva diventa forse plau­ sibile la funzione dell'opera non ludica, che ha anch'essa attualmente una destinazione altrettanto improbabile. Qui non è più in gioco la fondatezza o l'infondatezza della New Babylon (sebbene essa sia uno degli ultimi campioni, sensi­ bilissimo alle mutate condizioni produttive, etiche, culturali, di una lunga serie di città utopistiche, che hanno avuto via via anche applicazioni reali, utopistiche a metà o non uto­ pistiche affatto - fino, diciamo, alle new towns, la cui non remota origine utopistica è pure innegabile); ma è in gioco piuttosto tutta la cultura e l'arte contemporanee. Nell'am­ bito più ristretto delle cosiddette ' arti figurative' (lasciando da parte qui il caso più complesso e più vantaggioso del­ l'architettura e dell'urbanistica), non è forse riscontrabile un analogo fermento utopistico, volto cioè a realizzare spe­ rimentalmente situazioni e modalità future? Un esempio in favore di questa ipotesi. È accaduto che, mentre l'arte sem­ brava ineluttabilmente destinata a morire come prodotto so­ ciale e a rinchiudersi sempre di più nel circolo vizioso del collezionismo privato, anche del piccolo collezionismo, e ad esibirsi quindi dinanzi ad un ristretto pubblico familiare nell'ambito angusto di un appartamento o di una scato­ letta-appartamento; quadri e sculture, nello stesso tempo, tendessero ad aumentare sempre di più, quasi paradossal­ mente, di dimensioni. Ora, è vero sì che il fenomeno ha subìto una spinta notevole da parte degli artisti americani (messicani e statunitensi) cui è dato di servirisi non ecce­ zionalmente di grandi superfici pubbliche (o quasi); ma è vero anche ch_e il fenomeno ha origini più lontane e più profonde, è irriducibile a queste occasioni, e in ogni modo tali occasioni non costituiscono in alcun modo pure moti- 41


vazioni ' culturali ' (nel senso debole della parola), e cioè di tipo contagioso e concorrenziale, ma sono piuttosto spinte notevoli a far diventare esplicite tendenze già esistenti e documentate. In ogni caso il 'quadro' (come determina­ zione dimensionale) è pressocché sparito dalla circolazione, anche laddove non esistono serie ragioni sociologiche e cul­ turali, tali da giustificare la sostituzione della 'grande su­ perficie ' o del ' grande volume ' al quadro tradizionale: e questo fenomeno va pure in qualche modo spiegato. Di fatto la produzione del quadro è quasi esclusivamente affi­ data all'esigenza di un accomodamento calcolato tra libere tendenze dell'arte ed effettiva ricettività del mercato. Come si può spiegare questo singolarissimo fenomeno, apparen­ temente contrario ad ogni buona regola di economia cul­ turale (per cui il prodotto e il mercato dovrebbero sempre interagire tra loro armonicamente, cioè senza sfasature trop­ po sensibili che vanifichino insieme e prodotto e mercato), se non supponendo, anche senza considerare le numerose testimonianze esplicite, che la produzione artistica lavora quasi eroicamente per un mercato possibile o emergente o, infine, per una società utopistica? Per ora, l'unica seria, ma sempre problematica, sanatoria (culturale più che eco­ nomica) di queste paurose irregolarità 'amministrative' è il museo: ma già la stessa nozione tradizionale di museo è completamente superata (eccetto che da noi, naturalmente), e il museo tende piuttosto a proporsi come un modello di vita collettiva integrata, utopistica se si vuole (sia pure, per ora, soltanto sotto lo specifico profilo culturale). Ma il destino risolutivo del museo dovrebbero essere allora la città stessa nella sua interezza, la città utopistica del futuro: quella città moderna, aperta, non accentrata, quella città-servizio e città-paesaggio che per molti anni, decenni o secoli (o forse per sempre) rimarrà soltanto un vagheg­ giamento utopistico e che pure parrebbe essere l'unica, seria 42

risoluzione dei più urgenti problemi della civile convivenza.


Qui, in questo mondo del possibile, per il quale gli artisti lavorano da un pezzo, vediamo già collocarsi e graduarsi idealmente

(secondo scelte e funzioni oggettive diverse)

opere ludiche e non ludiche, decorazioni, variazioni ottiche e cinetiche, riemergenti simbologie e magari anche gli affascinanti ' mostri' della nuova figurazione. O perfino il vecchio 'quadro', recuperato ad una funzione sociale com­ pletamente nuova: una funzione pubblica che non esclude affatto una funzione privata, e non più una funzione emi­ nentemente privata con qualche sporadica, eccezionale eva­ sione nel pubblico. Da questo utopistico punto di vista, chi può distinguere radicalmente ciò che appartiene alla civiltà moderna e ciò che appartiene al passato, l' ' arte artigianale' dall'' arte popolare-tecnologica'? Una distinzione siffatta si giustifica soltanto con l'ipotesi e lo sforzo di adattare le sperimentazioni attuali alla società così com'è (la società del puro consumo, della pubblicità, della propaganda ideo­ logica), non alla società possibile che pure essa germinal­ mente contiene (la società del libero consumo, della scelta e dell'intervento critico dei gruppi e dei singoli). Se una società del genere sarà mai realizzata (e non è detto, pur­ troppo, che le realtà potenziali trovino necessariamente le condizioni favorevoli al loro sviluppo), non si vede più perché debba continuare a sussistere l'attuale opposizione tra 'artigianato' (da intendere met.µoricamente) e 'tecnolo­ gia•, individuandosi nel primo - piuttosto - l'iniziativa e l'intervento individuale in seno a un gruppo. La fine dell'ar­ tigianato non è stata decretata dalla tecnologia moderna, ma dall'esclusivo uso competitivo di questa, proprio di una fase storicamente circostanziata della civiltà industriale; e al con­ trario la stessa tecnologia più avanzata sembra promettere un allentamento della competizione e già sta attuando una riduzione del lavoro per la sopravvivenza, e non esclude affatto una non utopistica riconquista della libertà e un aumento del volume sociale dell'iniziativa e dell'intervento

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del singolo. In ogni caso i rapporti tra singolo (o gruppo) e società, tra intervento critico e programmazione, tra pro­ posta individuale e produzione seriale, tra ' arte ' e ' tecno­ logia ' sono destinati a mutare radicalmente in entrambi i termini delle opposizioni: o almeno è questo, oggi, il pro­ blema politico fondamentale. Sia ben chiaro che tutto ciò non solo non è una previsio­ ne di un fatto che ineluttabilmente, in questa o quella forma, dovrà essere realizzato in virtù di una logica oggettiva e quasi-automatica, ma non è neanche una previsione in ge­ nerale - come non lo è mai l'utopia. È piuttosto una pro­ posta che paradossalmente vale per l'oggi e non per il domani. Per l'oggi, infatti, valgono i programmi generali, le sperimentazioni formali, le ricerche di linguaggio, le vocazioni etiche, e in parte anche - perfino - le più con­ crete proposte politiche e tecniche, sempre soggette in qual­ che misura all' « astuzia della storia >. 11 domani apporterà cambiamenti sensibili, forse radicali, riordinerà sistematica­ mente il tutto secondo nuove esigenze e nuove regole, forse deludendo in blocco le esigenze nostre: e questo spiega e giustifica il candore, le fantasticherie, le inesattezze, gli er­ rori grossolani, i cedimenti inconsapevoli, le retriva nostal­ gia di cui può vestirsi l'ideologia utopistica. Ma il suo valore sintomatico, attuale ed emergente, non viene per ciò meno, e va registrato e interpretrato oggettivamente - anche se per avventura i fatti di dopodomani dovessero scon­ fessarlo. Se non sbaglio, proprio un'analisi generale del ludico (nei limiti in cui esso è analizzabile attraverso l'esposizione veneziana) ci ha condotti a conclusioni non ludiche. Al di fuori degli attuali hobbies quotidiani, dove non c'è che evasione, magari sacrosanta evasione, il ludico si pone piut­ tosto come una elaborazione, teorica e produttiva, di una concezione immanentistica della vita. Per cui esso ha come 44 due facce: una rivolta al presente, dove esso si consuma


e �i fa consumare praticamente, senza apprezzabili residui culturali; e una rivolta al futuro (ma rivolta oggi al futuro), dove esso si carica di serietà e di significati nuovi, propo­ nendosi come oggetto di comprensione intellettuale e con­ templativa, dove insomma si fa 'discorso positivo', suscet­ tibile di essere non soltanto fruito ma anche proseguito in discorsi ulteriori. La prima faccia la lasceremo ai giocolieri intristiti (da non confondere con i 'sublimi' giocolieri delle prime avanguardie), la seconda appartiene irrevocabilmente al nostro patrimonio culturale. 6. Entro questo più largo orizzonte, avrà un senso nuo­ vo parlare delle rappresentanze non ludiche, diversamente orientate sul presente e sul futuro, talvolta incuranti de­ gli ultimissimi slogan, ma comunque notevoli, della 33a Bien­ nale. Citerò qui, soltanto, lo scultore danese Robert Jacobsen, il pittore tedesco Horst Antes, gli spagnoli Amadeo Gabino (scultore) e Juan Genoves (pittore), lo scultore belga Rein­ houd, lo scultore jugoslavo Slavko Tihec, il pittore romeno Ion Tuculescu, i nostri scultori Ghermandi e Trubbiani (quest'ultimo già da qualche anno particolarmente promet­ tente), e probabilmente altri che ora. mi sfuggono. Ma se dovessi addirittura osare di proporre una mia scelta personale, da opporre (o quasi) a quella ufficiale, farei i nomi di Haese e di Richard Smith, di Burri (fuori concorso), di Augusto Perez, di Camargo e di Wesley Duke Lee, e infine di Victor Brauner (spentosi nel marzo di quest'anno). Haese, come si è detto, è stata una autentica rivela­ zione, paragonabile forse a quella di Kemeny nel '64. Richard Smith a prima vista può lasciare freddini, al pari dei suoi stilizzanti colleghi del padiglione britannico, compreso quel1'Anthony Caro di cui si è scritto, a mio parere inspiegabil­ mente, sul Catalogo che i suoi e risultati hanno aperto la strada a un nuovo linguaggio plastico > (David Thompson).

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Ma è che la sua pittura tridimensionale non è d'effetto immediato, e proprio perché tra i tanti pittori-scultori è uno dei pochissimi che riesca a sottrarre all'usura e all'indif­ ferenza dello spazio quotidiano le sue forme colorate (le sue forme-colori), liberissime e rigorosissime a un tempo. Burri poi, di cui si è detto che si è involuto in squisito manierismo, si presenta con una sala assolutamente straor­ dinaria. Sì, è vero, è probabile che Burri abbia riconqui­ stato in pieno bellezza e purezza formale; ma fargliene una colpa equivarrebbe a legare le sue prove precedenti agli aspetti più effimeri e più problematici di una aggressività allo stato puro, che in lui non si è mai data come tale. Che abbia accentuato il momento della 'bellezza', inoltre, può essere una prova di maturità riservata solo agli artisti d'eccezione, e un fatto culturalmente oggi assai importante se la 'bellezza' non scade in decorazione - come non accade senza dubbio in Burri e accade invece in Dorazio o in · Onosato (per portare solo du esempi notevoli e rappresen­ tativi). Per Augusto Perez il discorso sarebbe invece più complesso, e ci accontentiamo di accennarlo appena. Non ci troviamo infatti dinanzi a scelte 'formali' 'pratiche' sem­ plificatrici: al contrario, Perez ha imboccato una strada dif­ ficile, lambiccata, tortuosa, formata - almeno all'apparen­ za - di tanti tracciati divaganti raccolti in un fascio unico, lento e sfrangiato. In Perez, la 'sublime' inutilità dell'opera d'arte sembra realizzarsi nel caso limite di un composito e sconcertante bric-à-brac; ma a guardar meglio, in condizioni ottimali di illuminazione, si scopre che nell'accrocco casuale e macchinoso circola una diversa, non subito avvertita, in­ tenzionalità formale, e che i ' frammenti ' plastici dislocati nello spazio (secondo l'espediente nuovo e interessante, ma non necessario come 'giustificazione' figurativa di una scelta linguistica, delle due immagini affrontate che si riflettono a vicenda, attraverso una cornice vuota, in uno specchio 46

inesistente) valgono non per se stessi, o solo per se stessi,


ma come punti di riferimento di una struttura spaziale che si rivela alla fine estremamente tersa e rigorosa: il contra­ rio del bric-à-brac. Di Camargo già si è detto implicita..: mente in sede di discorso generale, e a Wesley Duke Lee faremo il complimento di considerarlo un nuovo-figurativo, poiché conta di più in lui questa componente che non l'in­ venzione ' scandalizzante ' dell'apparecchiatura elettronica che produce ' rumore bianco ', posta proprio nel centro della camera dipinta a pannelli semitrasparenti. Rimarrebbe da dire qualcosa sulla struttura globale dei singoli padiglioni, se ve ne fossero di unitari, tali da essere identificati con una definizione rapida, sbrigativa ma sollecitante. Ciò che caratterizza la 33a Biennale è piuttosto la molteplicità delle proposte sullo sfondo di una comune, e del resto non nuova, ideologia artistica. Gli unici padi­ glioni in qualche modo unitari, a parte ovviamente quelli ' monografici ', sono forse i padiglioni della Gran Bretagna e degli Stati Uniti. Ma il primo è, come già si è detto, 'stilizzante' e nel complesso (a parte il caso di Richard Smith) senza prospettive future; il secondo (e anche questa volta bisogna eccettuare il caso di un espositore, cioè di Roy Lichtenstein) presenta opere assai modeste, ritarda­ tarie, e ' riduttive ' a tal punto da giungere fino agli in­ sensati rettangoli monocromi di Ellsworth Kelly (un pit­ tore-scultore da mettere utilmente a confronto, nel senso già indicato, con l'inglese Smith). Insomma cose abbastanza vecchie e ormai squallide, con l'aggiunta di una ' nonsen­ sical ' e spesso ampollosa terminologia pseudocritica (v. il catalogo generale e quello del padiglione degli Stati Uniti, con scritti di Geldzahler, Rubin, Rosenblum, Greenberg). Un solo esempio: e Ellsworth Kelly's work is in advance in presentation and construction. The colors are fewer, the forms more simple and repetitive than would seem possible in a rich and rewarding work of art. Yet the effect is com­ pelling and complex. Even in terms of Kelly's own history

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of minimal forms, and shapes, and colors, the new work does exactly enough with astonishingly little >. Ma in che cosa consista questo e esattamente abbastanza > viene in­ spiegabilmente taciuto. O forse è superfluo che lo si dica, dal momento che gli Stati Uniti avrebbero conquistato, come è stato scritto, una funzione di e world leadership >. EMILIO GARRONI

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Note per una semiologia figurativa

La diffusa esigenza d'un metodo per lo studio delle esperienze figurative intese come linguaggi viene qui pro­ posta quale estensione a questi settori della linguistica strutturale. Tale estensione non va considerata come un meccanico parallelo fra due diverse categorie di fenomeni, ma come tentativo di adottare un modello metodologico. Limiteremo il nostro esame ad alcuni settori figurativi: architettura, urbanistica, arti visive, design e determinati aspetti dei mass media, intesi non come espressioni arti­ stiche, ma nella loro dimensione culturale; perché rite­ niamo che la problematica estetica esorbiti da un primo approccio semiologico-figurativo. Per linguistica strutturale, dice Hjelmslev, s'intende un insieme di ricerche basate su. un'ipotesi secondo cui è scientificamente legittimo descrivere il linguaggio come una entità essenzialmente autonoma di dipendenze in­ terne, o, in una parola: una struttura . .. L'analisi di que­ sta entità permette di enucleare costantemente delle parti che si condizionano reciprocamente, di cui ciascuna di­ pende da certe altre e non sarebbe concepibile nè defini­ bile senza di queste. Essa riduce il suo oggetto a una rete di dipendenze, considerando i fatti linguistici uno in ra­ gione dell'altro 1• La semiologia veniva definita da Saussure come una

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scienza che studia la vita dei segni in seno alla vita socia­

le; essa formerebbe una parte della psicologia sociale, e per conseguenza della psicologia generale; noi la chiameremmo semiologia ( dal greco semeion, « segno » ). Essa ci insegne­ rebbe in che cosa consistono i segni, quali leggi li reg­ gono . • • La linguistica non è che una parte di questa scienza generale. Le leggi che scoprirà la semiologia sa­ ranno applicabili alla linguistica e questa si troverà così collegata ad un campo ben definito nell'insieme dei fatti umani 2• Tuttavia, per quanto Saussure consideri la lin­ guistica solo una parte della semiologia, rapporteremo, come s'è detto, i nostri segni figurativi alla linguistica che, come il sistema più evoluto, rimane l'insuperato rife­ rimento per ogni altra ricerca semiologica. Circa l'utilità d'una semiologia figurativa potremmo in­ vocare numerosi motivi, dalla possibilità vera o presunta di un'analisi scientifica delle arti alla più concreta esigenza sociologica di un esame della condizione della cultura arti­ stica .nell'odierna civiltà di massa; ma non vogliamo aprio­ risticamente finalizzare queste note, bensì trovare proprio nel loro svolgimento delle indicazioni atte a risolvere qual­ cuna delle numerose contraddizioni e cadute dell'esperienza artistica ·contemporanea, nonché sperimentare nel vivo un metodo che, per seguire senza impegno una moda, viene più spesso enunciato che applicato. La prima nozione semiologica è quella di segno. Per Saussure esso viene definito come l'unione di un signifi­ cante e di un significato inseparabili come le due facce d'un foglio di carta. Tale definizione vale soprattutto a superare l'accezione corrente per cui il segno e sta per> o e rappresenta > una cosa diversa da se stesso, ossia che vale solo come significante. La natura specifica del segno linguistico è di essere arbitrario, ossia di non presentare 50

analogia tra le sue componenti, il significante e il significato. La parola arbitrario richiede ancora una precisa-


zione. Non si deve dare l'idea che il significante dipenda dalla libera scelta del soggetto parlante ...; vogliamo dire che esso è inimotivato, vale a dire arbitrario in rapporto al significato con il quale esso non ha alcun legame natu­ rale nella realtà 8• Viceversa per i segni figurativi si ha ge­ neralmente un rapporto analogico. Dice Barthes i signifi­ canti sono degli analoga riferendosi al caso delle imma­ gini 4 e altrove nella pittura (figurativa) c'è analogia fra gli elementi del segno (significante e significato) 5• Con specifico riferimento all'arte, Lévi-Strauss afferma che la caratteristica del suo linguaggio risiede nel fatto che esi­ ste sempre una omologia molto profonda fra la struttura del significato e la struttura del significante 6• Molti sistemi semiologici, specie quelli visivi, presen­ tano una caratteristica diversa daJ segno linguistico do­ vuta alla loro funzionaltà. Essi sono costistuiti da oggetti d'uso, smistati dalla società a fini di significazione: il vestito serve per proteggersi, il cibo per nutrisi, quan­ tunque servano anche a significare. Proporremo di chia­ mare questi segni semiologici di origine utilitaria e fun­ zionale, funzioni-segno 7• La nozione di funzione-segno risulta assai utile per tutti quei processi dall'architettura ad alcune correnti fi­ gurative e al design che pur assolvendo ad un ruolo uti­ litario costituiscono anche dei sistemi di significazione (in­ tesa come il processo che lega significanti e significati, connessi alla materia e alla funzione degli oggetti). Grazie alla funzione-segno è possibile recuperare anche per que.­ sti settori prettamente utilitari un valore semantico gene­ ralmente attribuito al solo linguaggio articolato. Infatti come scrive Barthes: la funzione si compenetra di senso; questa semantizzazione è fatale: per il solo fatto che c'è \ società ogni 'USO è convertito in segno di questo uso . . . Questa semantizzazione degli usi è capitale: essa rivela infatti che non c'è nulla di reale che non sia intelligi-

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bile ... 8, Cosicchè il problema, legittimo in sede estetica, sulla semanticità o meno, delle arti non ha molto senso in campo semiologico dove queste vanno considerate come equivalenti del linguaggio, ossia come sistemi di significa­ zione che, pur avendo· una loro peculiarità, hanno come linguaggi una semanticità e un codice che ne assicura il carattere comunicativo e la possibilità di analisi. Se vo­ gliamo capire quello che è l'arte, la religione, il diritto, forse anche la cucina e le regole della buona educazione, bisogna concepire tutto ciò come altrettanti codici formati mediante l'articolazione di segni sul modello della comu­ nicazione linguistica 9• Un'altra caratteristica del segno visivo è data dalla sua maggiore immediatezza rispetto al segno linguistico, do­ vuto alla simultaneità con la quale viene percepito. Come scrive Saussure contrariamente ai significanti visivi (se­ gnali marittimi ecc.) che possono offrire delle complica­ zioni simultanee su più dimensioni, i significanti acustici non si dispongono che secondo la linea del tempo; i loro elementi si presentano l'uno dopo l'altro; essi formano una catena 10• Tale differenza vale, però, per segni visivi elementari come quelli offerti dalle esperienze gestaltiche; appena il segno visivo raggiunge un certo grado di com­ plessità, pur conservando la proprietà d'essere percepito in maniera simultanea e globale, la sua lettura propriamente significativa necessita analogamente alla lingua, di un par­ ticolare verso e di una dimensione temporale che peraltro è una delle caratteristicre predominanti nell'esperienza · dell'arte moderna. Si pensi alla continuità spazio-temporale cubista, neo-plastica, futurista, cinetica e al verso di let­ tura imposto da molti organismi architettonici. Negli in­ finiti, complessi rapporti di sequenze visive che la città offre ai suoi abitanti - scrive Kepes - i significati sono trasmessi secondo l'itinerario sequenziale che noi 52

seguiamo.


I rapporti tra i segni linguistici si realizzano su due piani fondamentali quello del sintagma e quello associa­ tivo o del paradigma. Nel discorso le parole contraggono tra loro, in virtù del loro legame, dei rapporti fondati sul carattere lineare della lingua, che esclude la possibilità di pronunciare due elementi alla volta . . . Queste com­ binazioni che hanno per supporto l'estensione possono es­ sere chiamate sintagmi 11• Il piano associativo è dato dal­ l'insieme delle parole stabilito non nel contesto lineare del discorso, ma in un atto mentale del soggetto. Saussure continua: nel discorso le parole che presentano qualcosa di comune si associano nella memoria, e si formano così dei gruppi all'interno dei quali esistono rapporti molto diversi ... Esse (le parole) non hanno per supporto l'esten­ sione; la loro sede è nel cervello; fanno parte di quel tesoro interiore che costituisce la lingua in ciascun indi­ viduo. Le chiameremo Tapporti associativi. Il rapporto sintagmatico è in p,-aesentia; esso si basa su due o più termini egualmente presenti in una serie effettiva. Al contrario il rapporto associativo unisce dei termini in absentia in una serie mnemonica virtuale. L'attività analitica che si applica al sintagma - dice Barthes - è la scomposizione; in una semiologia figurativa un esempio di insieme sintagmatico potrebbe tro­ varsi nella pittura tonale dove ogni elemento esplica un ruolo coloristico condizionato dall'intonazione generale; op­ pure in composizioni basate sul rapporto fra colori com­ plementari, sull'equilibrio statico o dinamico delle parti; in oggetti plastico-cinetici dove ogni elemento subisce ed è causa, linearmente, del dinamismo generale; infine in architettura i sintagmi possono trovarsi, evidentemente, in ogni elemento costitutivo della struttura architetto­ niva. Tant'è vero che Saussure afferma: un'unità lingui­ stica è paragonabile ad una parte determinata d'un edi-

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ficio, per esempio una colonna; questa si trova da una parte in un certo rapporto con l'architrave che essa so­ stiene; questa disposizione di due unità ugualmente pre­ senti nello spazio fa pensare al rapporto sintagmatico; d'altra parte, se questa colonna è di ordine dorico, essa evoca il confronto mentale con gli altri ordini (ionico, corinzio, ecc.) che sono elementi presenti nello spa­ zio: il rapporto è associativo 12 • L'attività analitica riguar­ dante l'associazione è la classificazione. Relativamente al nostro campo semiologico la più immediata relazione asso­ ciativa è quella che si stabilisce fra ciascuna opera ed un determinato stile, o un determinato insieme tipologico. Il rapporto sintagma-paradigma ha un precedente nel­ l'altro fra langue e parole. La langue, dice Saussure, è un sistema di cui tutti i termini sono solidali e in cui il valore dell'uno non risulta che dalla presenza simulta­ nea degli altri (p. 159). Essa è la parte sociale del lin­ guaggio, esterna all'individuo, che da solo non può nè crearla nè modificarla; non esiste che in virtù d'una sorta di contratto stipulato dai membri della comunità (p. 31). La parola è al contrario un atto individuale di volontà e d'intelligenza, nel quale conviene distinguere: I) le combinazioni attraverso le quali il soggetto par­ lante utilizza il codice della langue al fine d'esprimere il suo pensiero personale; 2) il meccanismo psico-fisico che gli permette di esteriorizzare queste combinazioni (p. 30-31). Il fatto che la lingua sia una istituzione sociale esterna all'individuo comporta che il segno linguistico, se da un lato è arbitrario per l'assenza d'un rapporto naturale-og­ gettivo fra il significante e il significato, dall'altro non lo è del tutto per l'individuo che lo usa, esercitando su di lui la coercizione derivante dalla sua natura pre-indi­ viduale. (Perciò, come si è detto, De Saussure specifica 54 l'arbitrarietà del segno come immotivazione). Ciononostan-


te, le innovazioni linguistiche nascono proprio dalla pra­ tica della parola; è questa in definitiva ad assicurare ·il· dinamismo della lingu a e a rompere la sua rigi.dità anche se le modificazioni non sono immediate, nè sempre perce­ pibili. Tuttavia se questa dialettica vale in campo lingui­ stico, come vedremo, non si verifica in altri settori semio­ logici dove si osserva invece la prevalenza dei fatti di lingu a su quelli di parola. Si pensi ai procedimenti tet­ tonici tanto radicati nelle tradizioni e nelle possibilità tecnologiche che i modelli non sono suscettibili di ese­ cuzioni differenziate ed ai sistemi di produzione di massa dove l'elemento parola è o sembra essere del tutto scom­ parso. Nell'automobile, la •lingua• è costituita da un in­ sieme di forme e di •dettagli•, la cui struttura si stabilisce in modo differenziale confrontando i prototi­ pi ...; la • parola• è molto ridotta, giacché, a parità di standing, la libertà di scelta del modello è estremamen­ te limitata 18• In questi settori semiologici il carattere distintivo è dato dalla loro maggiore arbitrarietà; essi infatti non sono concordati dalla e massa parlante > ma fanno capo, unila­ teralmente, a più ristretti gruppi di decisione. Se nel lingu aggio articolato l'attività combinatoria della parola precede. cronologicamente la lingua, questi sistemi nati da un atto decisionale presentano un fenomeno inverso. La lingua, precedendo la parola, ne limita anche le virtualità combinatorie: l'atto di parola, come scarto nell'ese­ cuzione del modello, è povero se non inesistente. Ciò dovrebbe comportare la maggiore staticità del sistema, se è vero che la lingu a trova il suo ricambio proprio nella parola. Viceversa tali sistemi, definiti da Barthes logotec­ niche, se risultano più coercitivi nei rigu ardi dell'utente, non lo sono altrettanto per i gruppi di decisione, _che, in quanto creatori, sono arbitri di un intervento diretto sul 55


sistema. Il contributo individuale, quindi, non si ritrove­ rebbe unicamente al livello delle variazioni d'uso del­ l'oggetto che - come dice Barthes - solitamente costi­ tuiscono il piano della parola, ma al livello dello stesso sistema. L'utente segue questi linguaggi, preleva in essi dei messaggi (delle •parole•), ma non partecipa alla loro elaborazione; il gruppo di decisione che

è all'origine del

sistema (e dei suoi mutamenti) può essere più o meno ristretto; può essere una tecnocrazia altamente qualifi­ cata . . . può essere anche un gruppo più esteso, più ano­ nimo . . . Se però questo carattere artificiale non altera la natura istituzionale della comunicazione e preserva una

è perché, da un lato, pur essendo subito, •il contratto• significante è certa dialettica tra il sistema e l'uso,

nondimeno osservato dalla massa degli utenti . . . e per­ ché, d'altro lato, le lingue elaborate •per decisione• non sono interamente libere

(•arbitrarie•). Esse subiscono

infatti la determinazione della collettività . . . In una pro­ spettiva più ampia, si può affermare che le elabora­ zioni stesse del gruppo di decisione, cioè le logotecniche, non sono se non i termini di una funzione sempre più generale, che è l'immaginario collettivo dell'epoca H. Nel brano citato si ammette, in altri termini, che le logotecni,..- che, che possiamo considerare i linguaggi dei mass media in cui sono inclusi o tendono ad includersi l'architettura, le arti figu rative e il design, se da un lato impongono una lingua, questa è reciprocamente condizionata dal bas­ so in un equilibrio di domanda ed offerta tipica dell'at­ tuale economia di consumo. Questo non smentirebbe che il fatto di parola si limiti all'azione dell'utente, ma af­ ferma tuttavia il potere di esso, la forza di questo e im­ maginario collettivo , . L'intervento individuale quindi non va tanto inteso al livello di questo utente-massa, le cui 56

variazioni sul prodotto ch'egli ha contribuito a produrre


sono scarsamente significative, quanto sull'influenza che l'utente massa esercita sull'attività dell'autore (designer) o del gruppo di decisione. Ma l'applicazione della nozione di logotecnica ai campi di cui ci occupiamo consente ulteriori considerazioni. Il settore più tipicamente definibile logotecnica è 'quel­ lo del design. Qui siamo in presenza d'un linguaggio, ar­ tificiale, non concordato dalla massa parlante; d'un idioma in cui i fatti di lingua prevalgono sui fatti di parola e dove il margine d'intervento dell'utente è ridotto al mini­ mo nei confronti della grande libertà d'azione avocata a sé dal gruppo decisionale. Tuttavia come abbiamo visto sopra, se accantoniamo la concezione sociologico-morale per cui il gruppo decisionale va inteso come gruppo di potere coercizzante la massa ai propri fini, notiamo che esso è meno libero di quanto sembra, condizionato, a sua volta, dalla esigenza del mercato, della domanda della massa. Condizionanti e condizionati sono reciprocamente ciascuno dei due protagonisti di tale processo. L'analisi di questo fenomeno prevalentemente sociologico potrebbe avere non pochi contributi dal metodo linguistico. La dialettica fra il gruppo-autore e la massa utente può specificarsi anche per motivi intrinseci. La prevalenza dell'uno sull'altro ter­ mine può spiegarsi infatti non solo con la dicotomia lin­ gua-parola, ma con quella di funzione-segno, di sincronia­ diacronia, con la nozione di modello, di materia, in una parola con tutto l'apparato degli strumenti del metodo strutturale. Non possiamo soffermarci, nei nostri limiti, su una siffatta analisi e rimanderemo alla generale nozio­ ne applicativa dello strutturalismo linguistico alla fine del nostro studio. Tuttavia un'ipotetica analisi semiologica del design, campo che abbiamo visto più vicino alla nozione di logotecnica, può derivarsi dal confronto con gli altri settori di nostra pertinenza considerati appunto secondo tale nozione. 57


In che modo l'architettura può studiarsi come logo­ tecnica? Anche qui assistiamo al prevalere della lingua sulla parola e quest'ultima ridursi alla semplice variazione d'uso da parte dell'utente. Ma il suo potere decisionale ci sembra notevolmente più ridotto rispetto al fruitore di un qualsiasi altro oggetto di design, specie di quelli di largo consumo e di basso costo. Per essi la massa può anche decretare l'insuccesso del prodotto, il suo rapido invec­ chiamento, o quanto meno una riduzione di valore sul piano contrattuale; per l'architettura ciò non sembra veri­ ficarsi: l'oggetto-edilizio non consente all'utente qualsiasi forma di critico rifiuto. I casi d'una produzione edilizia non consumata sono rarissimi. Ciò dipende indubbiamen­ te da prevalenti ragioni economico-sociali, ma vi sono anche questioni di significazione. Infatti se nell'oggetto industriale, l'automobile, l'elettrodomestico, il secchio .di plastica, le possibilità nelle variazioni d'uso da parte del fruitore sono ridottissime, egli però può ancora operare una scelta: o quell'oggetto in qualche modo e lo rappre­ senta >, esprime cioè il suo gusto e le sue esigenze e allora lo compera, oppure quell'oggetto è insignificante e allora lo rifiuta e si rivolge alla concorrenza. Viceversa, in cam­ po edilizio la scelta dell'utente non si basa sulla globa­ lità dell'oggetto, ma su caratteristiche particolari di tipo economico, grazie al fatto che la funzione e significativa­ rappresentativa > si risolverà essenzialmente all'interno del­ la sua casa, nel modo di arredare l'appartamento. Ovvia-· mente è una illusione, il suo atto di parola resterà total­ mente condizionato da quanto ha predisposto il gruppo decisionale. Ma la diversa realtà dell'elettrodomestico ri­ spetto all'alloggio d'abitazione non è solo un fatto seman­ tico. La diversa significazione è dovuta alla struttura stes­ sa dei due oggetti e alla struttura dei due sistemi cui appartengono. Più evoluto tecnicamente, più pianificato 58 fino a contenere quella osmosi autore-fruitore (che è stata


definita e immaginario collettivo >), il primo; piu equivoco industrialmente, più ambiguo nel consentire

un fittizio

intervento dell'utente, il secondo. Se nell'un caso ci tro­ viamo di fronte ad una struttura, con tutti i suoi limiti, globale, nell'altro ad una struttura contraddittoria e piena di soluzioni di continuità. Le considerazioni svolte precedentemente per le logo­ tecniche si possono estendere ad un particolare settore della contemporanea esperienza artistica, ci riferiamo a quella tendenza visiva che va dai costruttivisti alla Bauhaus fino ai più recenti gruppi di arte programmata. Questa tendenza, prescindendo ancora da valutazioni d'ordine estetico unitamente a quelle d'ordine sociologico, che come si dirà più oltre, vengono considerate non pertinenti, sembra di fatto assimilabile ai linguaggi artificiali. Anzitutto perché si tratta anche in questo caso d'una lingua elaborata da un gruppo di decisione; in secondo luogo perché anche qui l'atto di parola viene ridotto all'uso. L'inter­ vento dell'utente, . infatti, spesso realizza le possibili com­ binazioni dell'oggetto il quale da solo non può esplicitare tutte le sue possibilità figurative, cinetiche, ecc. Inoltre tali oggetti intenzionano proprio attraverso l'uso una fun­ zione didattica, · chiarificatrice dello scopo cui sono destinati, realizzando così un tangibile modello di funzione­ segno, ritrovabile in altri sistemi di significazione. Infine come le altre logotecniche, che nonostante la loro arbitra­ rietà non interrompono una comunicazione tra gruppo deci­ sionale ed utente, anche nel caso dell'arte programmata si verifica ciò su quel terreno d'incontro che è stato definito e immaginario collettivo>, come dimensione culturale che riflette una condizione storico-sociale. Questa stessa nozione di e immaginario collettivo> ci consente, fuori del problema delle logotecniche, di cogliere il senso di recu­ pero comunicativo operato dalla cosiddetta arte di repor­ tage. Infatti questa,

intenzionalmente, utilizza quei ter-

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mini iconici fino ai più banali, già istituzionalizzati come elementi significativi al livello della massa parlante. In tal modo l'arte di reportage o pop art esemplifica un sistema semiologico di tipo connotativo in quanto si edifica sulla base di una catena semiologica preesistente; . . . è un si­ stema semiologico secondo. Ciò che è segno (cioè totale associativo d'un concetto e d'una immagine) nel primo sistema, nel secondo diventa semplice significante 111• A completamento della nostra esposizione dei termini linguistico-semiologici ci occuperemo ora della nozione di materia che, per le sue connessioni col concetto di segno, ci permette una ulteriore estensione di quest'ultimo. Secondo Barthes si sarebbe indotti a riconoscere nei sistemi semiologici (non linguistici) tre piani (e non due): il piano della materia, quello della lingua e quello dell'uso. Evidentemente ciò permette di render conto dei sistemi senza • esecuzione•, giacché il primo elemento assicura la materialità della lingua; assetto tanto più plau­ sibile in quanto è spiegabile geneticamente: in questi sistemi la «lingua• ha bisogno di •materia,. (e non più di • parola•) proprio perché essi hanno generalmente una origine utilitaria e non significante, contrariamente al linguaggio umano 18• Questa nozione di materia con­ nessa a quella di funzione-segno, ha una notevole impor­ tanza per l'iconologia delle arti figurative in quanto ogni segno diverso dalla parola implica una presenza di ma­ teria il cui ruolo incide sulla sua funzione semantica. Focillon, nella tradizione puro-visibilistica, parla d'una vo­ cazione formale della materia già prima di costituirsi in oggetto figurativo. Inoltre è comune esperienza il rilievo che alcune poetiche figurative ed alcune tendenze archi­ tettoniche hanno attribuito al ruolo della materia nei loro · processi di significazione. Mai come nella nostra epoca s'é assistito all'impiego di una gamma di materiali in fun60 zione visiva tanto vasta; nelle esperienze figurative attuali


la materia si carica d'una intenzione semantica che su­ pera di gran lunga la funzione di supporto del veicolo segnico. Inoltre la materia s'insinua tra le due compo­ nenti del segno semiologico tanto da caratterizzare il significante. Esso è un mediatore: la materia gli è neces­ saria; essa non gli è però sufficiente . . . Questa materia­ lità del significante costringe, ancora una volta, a distin­ guere materia e sostanza: la sostanza può essere imma­ teriale (nel caso della sostanza del contenuto); si può quindi dire soltanto che la sostanza del sign ificante è sempre materiale (suoni, oggetti, immagini). Nella semio­ logia, ove si ha a che fare con sistemi misti che com­ portano materie diverse (suono e immagine, oggetto e scrittura, ecc.), sarebbe opportuno riunire tutti i segni, in quanto si fondono su un'unica e medesima materia, sotto il concetto di segno tipico: il segno verbale, il segno grafico, il segno iconico, il segno gestuale formerebbero ciascuno un segno tipico 17• Riconosciuta la intima con­ nessione di significante e significato e la necessità del supporto materiale che determinerebbe la tipicità del se­ gno, caratteristica fondamentale di ogni settore semiolo­ gico sarebbe in sostanza proprio la materia. Questa, però, perde la sua inerzia nel farsi parte del segno, rendendosi così partecipe d'un rapporto semantico. Un'analisi semiologica, all'interno di ciascun settore dei quali ci occupiamo, di questa tipicità del segno secondo la materia consentirebbe delle specificazioni assai più utili e pertinenti di molti schemi astratti tuttora in uso; si pensi alla ancor vaga nozione di spazio in architettura e in particolare alla dicotomia fra spazio interno ed esterno. Ci sembra infatti legittima l'equivalenza del rapporto tra significante-significato con quello tra struttura muraria, ossia il contenente, e lo spazio interno, ossia il contenuto. La legittimità dell'analogia è data dalla reciprocità ed indissolubilità dei due elementi. Il parallelo diventa più

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calzante se la nostra struttura muraria ed il relativo spazio interno s'interpretano secondo i termini proposti da Rosiello che parla di un piano del significante (or-. ganizzazione formale della sostanza fisica) e d'un pia­ no del significato ( organizzazione formale della sostan­ za psichica) 18•

Come si vede oggetto della semiologia è l'organizza­ zione formale del piano dei segni. L'insistenza sull'attri­ buto formale è ricca di implicazioni che ci consentono di concludere queste note accennando allo spirito della ri­ cerca semiologica, ai caratteri e all'utilità del metodo. L'accento formale dello studio di ciascun settore se­ miologico deriva dal carattere sistematico proprio del mo­ dello linguistico. In un capitolo del Cours, Saussure for­ nisce due nozioni, quella di sistematicità e quella di inte­ riorità della lingua che sono alla base del suo particolare formalismo. Nel capitolo dedicato agli e Elementi interni ed esterni alla lingua> egli scrive: La nostra definizione di lingua presuppone che scartiamo tutto quello che è estra­ neo al suo organismo, al suo sistema, in una parola a tutto quello che si designa col termine di • linguistica ' esterna•· Egli annette grande importanza alle caratteristiche di quest'ultima, consistenti in fenomeni etnologici, storici, politici, ecc. ma raccomanda di tenerla distinta dal­ la linguistica interna. La linguistica esterna può accumu­ lare dettaglio su dettaglio senza sentirsi stretta nella morsa d'un sistema. Per esempio

ciascun autore rag­

i fatti relativi all'espansione d'una lingua al di fuori del suo campo . . . Per la linguistica grupperà come vuole

interna, si procede diversamente: essa non ammette una

è un sistema che non La nozione citata richiama direttamente l'altra di pertinenza, per la quale siamo in grado di definire con maggior vigore il campo della ricerca; delimitazione indispensabile per qualqualsiasi disposizione; la lingua

conosce altro ordine diverso dal proprio 19 •

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siasi disciplina che voglia darsi un fondamento scientifico. Ogni descrizione - scrive Martinet - presuppone una scelta. Ogni oggetto, per quanto semplice possa apparire a prima vista, si può rivelare infinitamente complesso- Ma una descrizione è necessariamente finita e quindi deve limitarsi a mettere in luce solo certi tratti dell'oggetto da descrivere ... Qualunque descrizione sarà accettabile se è coerente, cioè fatta da un punto di vista determinato. Una volta adottato questo punto di vista •bisognerà tener pre­ senti solo certi tratti, che chiameremo pertinenti, e tutti gli altri tratti che non sono pertinenti dovranno essere messi da parte senza esitazioni 20• Nella ricerca semiologica la pertinenza implica che: si interrogano certi oggetti unicamente sotto il rapporto del senso che essi detengono, senza chiamare in causa . . . le altre determinanti (psicologiche, sociologiche, fisiche) di tali oggetti. Queste determinanti, ciascuna delle quali appartiene a un'altra pertinenza, non vanno certo negate, ma vanno trattate anch'esse in termini semiologici: si deve cioè situare il loro posto e la loro funzione nel si­ stema del senso 21• Nel parlare di formalizzazione di ciascun sistema se­ miologico e di non pertinenza di alcune determinanti, va chiarito che non s'intende parlare del vecchio dualismo tra forma e contenuto. A questo proposito, estendendo alla semiologia la proposta di Wellek e Warren, avanzata in sede estetica, chiameremmo e materiali > gli elementi semiologici indifferenti e e struttura > il modo in cui essi sono organizzati in un sistema di significazione. I • ma­ teriali • infatti comprendono elementi che per il passato si consideravano parte del contenuto e altri che si con­ sideravano formali; la • struttura • è un concetto che comprende sia il contenuto, sia la forma, nella misura in cui sono organizzati per fini estetici 22• Dal punto di vista operativo la linguistica strutturale

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propone come utile strumento di analisi il ricorso a un modello. Questo si fonda sull'istituzione di un'analogia fra il modello ed alcuni aspetti del fenomeno da descrivere, e quindi sull'astrazione di tali aspetti (che vengono con­ siderati pertinenti) da altri (che vengono considerati non pertinenti). Questi aspetti pertinenti sono sempre scelti fra quelli che sono comuni a intere categorie di fatti linguisici; qualsiasi aspetto sia inanalizzabile e pro­ prio a un solo atto linguistico è, per ciò stesso, non per­ tinente. La descrizione linguistica strutturale è dunque caratterizzata dalla sua astrazione e dalla sua generalità, e si oppone alla ricerca del concreto e del particolare che gran parte della linguistica tradizionale pone come il proprio scopo 28• In campo semiologico, Barthes ripropone la nozione di modello come simulacro dell'oggetto da analizzare. Lo scopo d'ogni attività strutturalista ... è di ricostruire un • oggetto •, in modo da manifestare in questa ricostru­ zione le regole di funzionamento (le • funzioni ,, ) di que­ sto oggetto. La struttura è dunque in realtà un simulacro dell'oggetto, ma un simulacro orientato, interessato poi­ ché l'oggetto imitato fa apparire qualcosa che restava invisibile, o, se si preferisce, inintelligibile nell'oggetto naturale 2•. Un esempio degli aspetti operativi derivabili dal me­ todo strutturale può ritenersi l'analisi proposta da Kepes per la lettura del paesaggio urbano. La struttura simbolica dell'ambiente urbano viene resa leggibile secondo questa successione di fasi: I. Scomponiamo il campo visibile del­ l'ambiente urbano in elementi: case, strade, piazze, quar­ tieri, settori - secondo la nostra percezione dell'indivi­ dualità dei loro ·caratteri. (Operazione che possiamo iden­ tificare come definizione degli elementi pertinenti) 2. Leg­ giamo i confini - fiumi, mura, stacchi, mutamenti di forma o di espressione che definiscono tali elementi. Iden-


tificano le parti della struttura urbana. (Ulteriore defini­ zione del campo). 3. Leggiamo i rapporti fra le parti in base ai loro legami e ai loro nessi: da un lato le arterie di traffico e le linee ferroviarie e di trasporto che raccol­ gono e distribuiscono il flusso vitale della città; dall'altro le porte, finestre, ponti, gallerie e • visuali • panoramiche. (Analisi di tipo sintagmatico) 4. Leggiamo tutti gli ele­ menti insieme nella loro connessione, come un'unica strut. tura - la forma simbolica, il simbolo intrinseco del •tutto» urbano (Costruzione del modello) 26• Il complesso di considerazioni su esposte trova la sua giustificazione epistemologica nel rapporto che lo strut­ turalismo fissa tra i diversi contesti sistematici. Lo strut­ turalismo - scrive Rosiello - opponendo al causalismo estrinseco rivelatosi inadatto alla spiegazione razionale dei fenomeni, in quanto pone in rapporto fatti emergenti da sistemi eterogenei, sostituisce al concetto di • causa • quello di • condizione • e distingue tra condizioni interne e condizioni esterne all'assetto sistematico. In tal modo un sistema non può causare una trasformazione nell'am­ bito di un altro sistema ma può creare solo delle condi­ zioni esterne atte alla realizzazione di un mutamento o di un uso, avvenuta in base a regole di condizionamento interno ammesse e stabilite della struttura formale del secondo sistema. Cosicchè il metodo strutturale, oltre a garantire l'autonomia di ciascun settore semiologico, pone fra i propri programmi quello di esaminare le interrela­ zioni fra sistemi che mutano o variano in rapporto ai· reciproci condizionamenti. L'autonomia della ricerca specialistica si basa sullo studio delle condizioni interne, l'eteronomia della ricerca interdisciplinare si fonda sulle condizioni esterne purché a livello teorico si sia unificato l'apparato dei concetti e delle categorie metodologiche 28• Pertanto, come in molti altri settori, la duplice esi-

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genza della cultura figurativa d'una ricerca autonoma e d'una apertura interdiscipinare, che rifiuti le suggestioni dell'• unità del sapere• o dell'• interezza rinascimentale•• ritrova nel metodo strutturale la difficile bellezza e la serietà della specializzazione 27• L'operare sulle forme, nel modo sistematico indicato da tale metodo, costituisce at­ tualmente il programma di ricerca più attendibile e in­ dica il nuovo e forse unico senso per intendere oggi l'im­ pegno della cultura. a CUTa di RAYMOND!

RENATO DE FUSCO, NICLO PALMIERI, GIOVANNI PASCA

' cit. in E. BENVENISTE, e StruttuTa > in linguistica in Usi e si-. gnificanti del tennine struttuTa. Bompiani, Milano, 1965, p. 34. 2 F. DE SAussuRE, CouTs de linguistiche généTale, Payot, Parigi,

1965, ' • ' • 1966, ' ' '

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p. 33. F. DE SAussuRE, Op. cit. pag. 101. R. BARTBES, Elementi di semiologia, Einaudi, Torino, 1966, p. 48. R. BARTHES, Saggi critici, Einaudi, Torino, 1966, p. 277. G. CHARBONNIER - C. Ll:VI-STRAUss, Colloqui. Silva, Milano, p. 84. R. BARTHES, Elementi di semiologia cit. p. 39. R. BARTHES, Op. cit. p. 39. C. LÉVI-STRAUSS, Colloqui cit. p. 137. IO F. DE SAUSSURE, Op. cit. p. 130. 11 Ibidem, p. 170. Il Ibidem, p. 171. Il R. BARTRES, Op. cit., pp. 29-30. " Ibidem, pp. 31-32. " R. BARTHES, Miti d'oggi, Lerici, Milano, 1966, p. 208. " R. BARTBES, Elementi cit. p. 33. " Ibidem, p. 44. 11 L. RosIELLO, StruttuTa, mo e funzione della lingua, Vallecchi, Firenze, 1965, p. 67. 19 F. DE SAUSSURE, Op. cit. pp. 40-43. 20 A. MARTINET, Elementi di linguistica geneTale, Laterza, Bari, 1966, p. 36. li R. BARTHES, Op. cit. p. 84. u R. WELLEK e A. WARREN, Teoria della letteTattLTa, Il Mulino, Bologna, 1965, p. 188. " G. C. LEPsCEY, La linguistica stTuttuTale, Einaudi, Torino, 1966, p. 22. '' R. BARTHES, Saggi critici, cit. p. 245. 25 G. KEPES, Note sull'espTessione e la comunicazione nel pae­ saggio uTbano in La metTopoli del futuTo, Marsilio, Padova, 1964, p. 158. " L. RosIELLO, Stilistica. e struttuTalismo _linguistico in e Sigma> n. 9. n E. GARR0NI, introduzione a n CiTcolo linguistico di PTaga, Le Tesi del '29, Silva, Milano, 1966, p. 35.




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