Op. cit., 09, maggio 1967

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Il pensiero estetico di Adorno - 4 arti - sti scelti da �Barilli- - E. Viyas Filqsofia della cultura, estetica e critica.:--alcu ni pr�plemi ::-�Lil?ri, riviste e mostre �


Op.cit. rivista quadrimestrale di selezione della critica d'arte contemporanea

Direttore: Renato De Fusco Redazione: Napoli, Salita Casale di Posillipo 14 - Tel. 300.783 Amministrazione: Napoli, Via dei Mille 61 - Tel. 231.692 Un fascicolo separato L. 800 - Estero L. 1.000

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Edizioni e Il cen�o >


R. Guarini R. Barilli E. Vivas

n pensiero

estetico di Adorno

Quattro artisti scelti Filosofia della cultura, estetica e critica: alcuni problemi Libri, riviste e mostre

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Alla redazione di questo numero hanno collaborato: Marcello Angrisani, Maria Gabriella Benevento, Agostino Bevilacqua, Urbano Cardarelli, Renato De Fusco, Cesare de Seta, Gino Palomba, Italo Prozzillo, Maria Luisa Scalvini, Francesco Starace.



Il pensiero estetico di Adorno Se hai un intelletto e un cuore, mostra solo uno dei due. Te li maledicono se li mostri insieme.

HOLDERLIN

In ciò che Adorno dice della musica di Mahler (essa sembra a tratti ;ealizzare ciò che per una vita intera ha sperato lo sguardo puntato dalla terra al cielo . . . pro­ mette qualcosa di diverso, promette di fendere un velo ... aizza all'ira chi è complice del mondo così com'è ricor­ dando ciò che costoro devono scacciare da se stessi ... fa sua la causa contro il corso del mondo, lo imita per accusarlo, e i momenti in cui vi fa breccia sono anche quelli della protesta ... non rabbercia mai la frattura fra soggetto e oggetto e piuttosto che fingere una conci­ liazione raggiunta preferisce frantumarsi ...) 1, si afferma una concezione dell'arte che si propone di coglierne in pari tempo l'essenza e la genesi storica. Decisivo, in essa, è il rifiuto di considerare l'estetica una branca separata del sapere. L'arte è si un prodotto della divisione del la­ voro estesa al linguaggio, ma proprio per questo ogrù dottrina che pretenda di identificarne il senso occultando la frattura che l'ha generata, si lascia sfuggire il meglio: il movimento stesso della cosa, che si vorrebbe in fondo arrestare mediante una mera definizione di genere. Par­ lare sul serio dell'arte vuol dire parlare dell'uomo. Non si dà un'estetica che non sia anche un'antropologia. Di fronte all'alta esigenza che il pensiero di Adorno

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si sforza di preservare in tempi ostili ad una riflessione che ignori gli artificiali steccati fra i quali prospera il sa­ pere amministrativo, i diversi e ricorrenti tentat_ivi di fon­ dare un'estetica scientifica si rivelano per quel che sono: trionfa in essi la pretesa di estendere all'arte lo stesso trat­ tamento che il dominio, di cui quella invoca da sempre il superamento dialettico, infligge alla natura e alla natura nell'uomo. Allo sforzo di soggiogare il mondo naturale, che è il fine in cui tutte le moderne ideologie si rico­ noscono affini e solidali, corrisponde puntuahnente il ten­ tativo di applicare anche all'arte, figlia di quella violenza e promessa pervicace della conciliazione, la camicia di for­ za di quella ratio scientifica che già servì a ridurre la na­ tura a semplice oggetto di sfruttamento.fSi vorrebbe co­ gliere il senso dell'arte mediante concetti costituentisi, per progressiva astrazione, come semplice unità delle caratte­ ristiche degli oggetti da essi abbracciati 2 (l'insieme noto delle singole opere d'arte), laddove l'arte, rinviando al suo contrario, non si lascia penetrare da un pensiero che, piegandosi docilmente al metodo e ai divieti delle scien­ ze giurate su oggetti separati, ignora quella forza della contraddizione che sola potrebbe permettergli di risolvere l'oggetto nel suo movimento antitetico. Quest'esigenza è assai più radicale di quella postulata dallo strutturalismo, anche dove quest'ultimo pone fra i suoi programmi quello di esaminare le interrelazioni fra sistemi che mutano o variano in rapporto ai reciproci condizionamenti, purché a livello teorico si sia unificato l'apparato dei concetti e delle categorie metodologiche 8•

Alla ricerca interdisciplinare, ammessa dal metodo strut­

turale, ma in cui sembra prolungarsi la falsa continuità del pensiero concettuale-classificatorio, Adorno contrappone il

· pensiero dialettico, aperto a quelle e intuizioni > che non 6

sono né così irrazionali né così rapsodiche come ritengono Io scientismo e insieme anche Bergson, ma in cui esplode


al contrario quel tanto di sapere migliore che è sfug­ gito all'apparecchiatura della scienza organizzata, e in cui affiora un sapere inconscio, non del tutto soggetto ai meccanismi di controllo; atti conoscitivi che, non aven­ do parte alcuna al lavoro manipolativo della conoscenza pilotata dall'Io, si ricordano in maniera passivo-spontanea di quegli elementi che irritano il pensiero ordinatore; co­ noscenze balenanti all'improvviso, sature di ricordo e di sguardo precorritore, che strappano l'individuo all'uni­ formità del mero sussumere riattualizzando nella sua co­ scienza conclusioni e giudizi passati, e soprattutto rela­ zioni la cui riunione mette in luce quell'elemento dell'og­ getto che è più del posto spettantegli nella sistematica •. Inutile obiettare che qui manca una riduzione del metodo a un principio certo e indubitabile: tutto il pen­ siero di Adorno è proprio una protesta ininterrotta contro il pregiudizio sistematico, contro quella costrizione a porre alla base di tutte le determinazioni del pensiero un che di fissato e di ultimo. L'elemento costrittivo del pen­ siero sistematico non è infatti che l'espressione della costrizione reale alla quale si piega il pensiero che nel suo accecamento la ritiene sua. La scepsi adorniana verso la scelta di un assolutamente Primo come scelta di un punto di partenza indubitabile è dunque essenzial­ mente una rivolta contro i divieti e le coercizioni di un metodo che riprende nella sfera del pensiero le coerci­ zioni della società antagonistica. Adorno fa invece sua la dottrina hegeliana della e mediatezza di ogni immediatezza > e coerentemente si oppone sia all' ideale corrente della scienza, sia alla pretesa (Husserl) di restaurare la prima philosophia in virtù della riflessione sullo spirito purificato da ogni traccia del mero ente. La filosofia che cede a questa tentazione precipita in un abisso senza fondo 5• L'intuizione stessa non è un principio primo, una fonte assoluta della conoscenza separata dal pensiero 7


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discorsivo da un abisso ontologico, bensì una macchia oscura nel processo della conoscenza, dal quale tuttavia non può essere asportata, un atto che infrange la compatta concatenazione del procedimento deduttivo, uno strappo discontinuo in cui, sedimentato e sotto forma di ricordo di secondo grado, penetra tutto ciò che è all'opera nella conoscenza razionale per rivolgersi per un attimo contro l'apparato di cui il pensiero non sa valicare da solo l'om­ bra 6• Se l'arte, come dice Schelling, comincia dove il sa­ pere ci pianta in asso 7, nessuna sistematica che muova dai metodi delle discipline vigenti, anche se aperta alla ricerca interdisciplinare, può ambire a coglierne il senso. Anche l'esame delle interrelazioni fra territori più o meno contigui mercé l'unificazione delle categorie allestite dalle varie branche autorizzate del sapere, può solo contribui­ re, come una specie di taylorismo dello spirito, a miglio­ rare i metodi produttivi delle scienze approvate, a razio­ nalizzare l'accumulazione delle conoscenze, a evitare lo spreco di energie intellettuali 8 in un ambito in cui il pensiero continua a farsi governare rimettendosi completa­ mente al controllo da parte dell'organizzazione e lascian­ dosi prescrivere soltanto quei compiti di ricerca che si lascino assolvere con i mezzi dell'apparato disponibile. Ecco perché a un sapere che accetti fino in fondo la tra­ sformazione della filosofia in scienza (sia come e scienza delle scienze > , sia come e scienza fra le scienze >) il pro­ blema della natura dell'arte appare improponibile: il pen­ siero scientificizzato, innalzando a suo unico criterio l'or­ dine logico-classificatorio, vede nell'arte un e dato > recal­ citrante e indigesto che aspetta invano di avere un posto nella trama compatta e severamente organizzata del si­ stema delle scienze collegate (e, qualora un posto non si trovi viene gettato via ...) 9• Ciò prova davvero che dove è l'arte, la scienza deve


ancora arrivare 10 • Per avv1cmarsi al suo oggetto, il pen­ siero estetico dovrà perciò superare quell'ideale della scien­ za che, dopo aver aiutato la filosofia a liberarsi dai ceppi teologici, è divenuto anch'esso un ceppo che proibisce al pensiero di pensare li; né per far ciò potrà rinunciare a quel poco di immaginazione che gli resta a disposizione nell'epoca della sua massima depurazione e del suo divor­ zio pressoché completo dall'esperienza sensibile. Se l'arte presuppone, com'è ovvio, la separazione di immagine e segno

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lo scindersi del linguaggio in linguaggio scientifico

(segno) e linguaggio poetico (immagine), il pensiero potrà penetrarla solo sforzandosi di perpetuare il ricordo e l'esi­ genza di quell'unità originaria. Ciò è superiore alle forze del pensiero scientificizzato, che sa solo ridurre il suo oggetto a una pura e semplice funzione dello schema del quale

sovranamente lo riveste 13; non però del pensiero che non nasconde a se stesso la mutilazione che lo affligge, la ferita che lo ha generato; non del pensiero memore del contrario di cui è figlio non meno che dell'esito a cui tende (l'unità originaria di immagine e segno); non del

l

pensiero dialettico nel cui movimento si esprime il mo-

L

vimento stesso della vita che invoca la conciliazione. Nei suoi momenti migliori, lo strutturalismo si è cer-

to avvicinato molto alla comprensione di questa esigenza.

Quando Lévi-Strauss, discutendo con Sartre, respinge per esempio la pretesa di attribuire alla ragione dialettica una realtà sui generis (di erigerla, cioè, ipostatizzandola, a organo separato ed autonomo di un sapere privilegiato, indipendente dalla ragione analitica, sia come sua an­ tagonista, sia come ad essa complementare), egli enuncia infatti un rifiuto analogo a quello espresso da Adorno quando contesta il pregiudizio, tipico dell'intuizionismo ir­ razionalista come dello stesso positivismo scientista, per cui tra il conoscere intuitivo e il pensiero discorsivo si aprirebbe un abisso incohnabile. Per Lévi-Strauss, infatti,

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l'opposizione tra le due ragioni è relativa, non assoluta; corrisponde a una tensione, in seno al pensiero umano, che di fatto forse sussisterà indefinitamente, ma che in linea di diritto non è fondata. Per noi, la ragione dialettica è sempre costituente: è la passerella di continuo prolunga­ ta e migliorata che la ragione analitica lancia sopra un baratro di cui non scorge l'altra sponda pur sapendo che esiste, anche se essa dovesse costantemente allontanarsi. Il termine ragione dialettica cela dunque il continuo sforzo che la ragione analitica deve fare per riformarsi, se pre­ tende di rendere conto del linguaggio, della società e del pensiero; e la distinzione fra le due ragioni, a nostro modo di vedere, è fondata soltanto sul temporaneo scarto che separa la ragione analitica dall'intelligenza della vita. Sartre chiama la ragione analitica la ragione pigra; noi chiamiamo dialettica la stessa ragione, ma coraggiosa: cur­ va nello sforzo che esercita per superarsi 14• È dubbio, tuttavia, che lo strutturalismo, come scuola organizzata e tendenza filosofica mirante all'esercizio di un'egemonia culturale e ideologica, abbia sempre tenuto onore al programma enunciato in questo eccezionale e chia­ rificatore intervento del suo teorico più prestigioso. Quan­ ti dei molti studiosi che praticano oggi il metodo struttu­ rale, nell'accingersi a ridurre ad unità due o più diversi gruppi di fenomeni riconducendoli tutti alla struttura co­ mune che li comprende e li spiega, sogliono ad esempio rispettare le due condizioni che, secondo Lévi-Strauss, ren­ dono attuabile e legittima la riduzione stessa? La prima di esse consiste nel non impoverire i fenomeni sottoposti a riduzione, nell'avere la certezza che si sia preliminar­ mente raccolto intorno a ciascuno tutto quel che contri­ buisce alla sua ricchezza e originalità distintiva. La se­ conda (di gran lunga più importante, poiché non s'esauri­ sce come l'altra nella norma in fondo ovvia della probità scientifica), consiste invece nell'essere preparati a vedere


ogni riduzione sconvolgere da cima a fondo l'idea precon- cetta che ci si poteva fare del livello, qualunque esso sia, che si cerca di raggiungere 15• Le ulteriori precisa­ zioni di Lévi-Strauss sono infine fondamentali, poiché mai come in esse lo strutturalismo si è esposto alla e critica immanente > dell'avversario, lasciandosi condurre, con le. sue stesse forze, là dove forse esso stesso non vorrebbe a nessun costo pervenire: L'idea di un'umanità generale, a cui la riduzione etno­ grafica conduce, non avrà più nessun rapporto con quella che ce ne facevamo prima. E il giorno in cui si riuscirà a capire la vita come una funzione della materia inerte, sarà per scoprire che quest'ultima possiede proprietà ben diverse da quelle che le attribuivamo anteriormente. Non si possono quindi classificare i livelli di riduzione in superiori e inferiori, perché bisogna anzi aspettarsi che, per effetto della riduzione, il livello considerato superiore comunichi retroattivamente qualcosa della sua ricchezza al livello inferiore a cui lo si sarà ricondotto 16• Rare volte l'µnpostazione strutturalistica si è offerta con pari lealtà alla critica di chi vuole estorcerle il suo momento di verità. Se, come dice Hegel nella Scienza della Logica, e una veritiera confutazione deve penetrare nelle forze dell'avversario e prender posizione nell'ambito della sua capacità, poiché attaccarlo al difuori di lui stesso e aver ragione là dove egli non è, non apporta alcun vantaggio>, bisognerà approfittare dei varchi che lo strutturalismo la­ scia aperti nella sua compagine teorica. Sotto il velo di un linguaggio circospetto e solo in apparenza meramente riferitivo, Lévi-Strauss allude, nell'ultimo passo citato, a qualcosa che a nostro avviso è intimamente estraneo alla vocazione centrale dello strutturalismo. Detto in termini più elementari, vi si sostiene che la materia, la natura e insomma l'inferiore, risulteranno alla fine assai meno poveri e inerti di quanto non ci appaiono attraverso le ma-

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glie della rete ordita finora dalla ragione analitica. Le limitate verità di quest'ultima ci sembreranno allora poco più che pregiudizi. L'uomo, per liberarsene, dovrà lasciar cadere la corazza antropocentrica; e proprio scoprendo come in lui stesso, nella sua carne misconosciuta e alienata, si prolunghi quella natura che nei suoi gradi supposti inferiori gli era sembrata inerte, adempirà la promessa sto­ rica della sua rigenerazione. Per quanto possa sembrare incredibile, i rigori strutturalistici, almeno nell'autore de La pensée sauvage, celano a volte qualcosa che somiglia molto a un elemento vitalistico. Ma si tratta di un impulso che lo strutturalismo evita di approfondire, o che addirittura esso tende ad eludere, con una cautela che è il sintomo di una tenace resistenza interna. Proprio di fronte al problema dei rapporti fra i diversi gradi della vita, vengono infatti alla luce tutte le sue insufficienze. La più grave delle quali, a nostro av­ viso, è da individuarsi nella disinvoltura con cui esso sor­ vola sul ruolo e sugli effetti della repressione nella storia della cultura. Lo strutturalismo, in altri termini, dopo aver riabilitato la natura sostenendo l'impossibilità di una classi­ ficazione graduata dei e livelli> si limita poi a postulare fra natura e cultura, fra livelli supposti e inferiori > e li­ velli supposti « superiori>, un rapporto di mera continuità e analogia, eliminando spensieratamente quel momento del conflitto e dell'attrito che fa dell'inferiore non solo qual­ cosa che si prolunga nella cultura e che le fornisce la necessaria energia, ma anche un elemento col quale la cultura istituisce un rapporto di opposizione, e che essa, al vertice del proprio accecamento, vorrebbe addirittura negare. Proprio da questa tendenza dello strutturalismo de­ riva peraltro la sua inadeguatezza di fronte ai fenomeni storici, ai quali esso aspira ad applicare i metodi delle scienze naturali, perpetuando in tal modo il mito durkhei12 miano di un'antropologia che sarebbe diventata tanto più


rigorosa e scientifica quanto pm avesse preso a proprio modello i metodi di quelle discipline. Di questa vocazione, al tempo stesso formalistica e naturalistica, dello struttu­ ralismo, si potrebbero citare innumerevoli esempi. Qui ci limiteremo a riferirne uno dei più estremi e paradossali: la proposta, suggerita da Lévi-Strauss nel suo saggio su Linguaggio e società, poi raccolto nel volume Anthropologie structurale, di estendere a tutti i fenomeni culturali quel metodo di indagine statistico-classificatorio che il Kroeber applicò con qualche successo allo studio dell'evoluzione dello stile femminile nel costume. Kroeber, dunque, esaminò la moda, cioè un fenomeno sociale che Lévi-Strauss definisce giustamente come inti­ mamente connesso all'attività inconscia dello spirito. Per­ ché uno stile ci piace? E perché ad un certo punto cessa di essere di moda? Kroeber, com'è noto, mostrò come que­ sta evoluzione, in apparenza arbitraria, obbedisca a leggi. Naturalmente, si tratta di leggi che non sono accessibili all'osservazione empirica, e nemmeno a un'apprensione_ in­ tuitiva. Esse si manifestano, però, quando si misurino un certo numero di relazioni fra i diversi elementi del costu­ me. Tali relazioni sarebbero infine esprimibili nella forma di funzioni matematiche, i cui valori, calcolati a un dato momento, offrirebbero una base alla previsione. La moda - osserva a questo punto Lévi-Strauss -, cioè l'aspetto, a quanto si potrebbe credere, più arbitrario e contingente delle condotte sociali, è quindi passibile di uno studio scientifico. Ora, il metodo prospettato da Kroeber non sol­ tanto assomiglia a quello della linguistica strutturale, ma lo si potrà utilmente accostare a talune ricerche delle scienze naturali, soprattutto a quelle del Tessier sulla crescita dei crostacei. Questo autore ha mostrato come sia possibile for­ mulare leggi di crescita, a condizione di fondarsi sulle di­ mensioni relative che compongono le membra (per esempio, le pinze) piuttosto che sulle loro forme. La determinazione

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di tali relazioni porta a stabilire parametri con l'aiuto dei quali possono essere formulate le leggi di crescita. La zoologia scientifica non ba dunque come oggetto la descri­ zione delle forme animali, così come sono percepite intui­ tivamente; si tratta soprattutto di definire relazioni astrat­ te ma costanti, in cui appaia l'aspetto intelligibile del fe­ nomeno studiato 17 • / Lévi-Strauss, com'è noto, ha applicato un metodo ana­ / logo allo studio dell'organizzazione sociale, e soprattutto ' alle regole del matrimonio e dei sistemi di parentela. La validità e l'efficacia,· entro certi limiti, di questo tipo di analisi, dev'essere ammessa senz'altro. Ciò che invece va contestato è la pretesa che l'individuazione di relazioni astratte e di regolarità ricorrenti in un dato fenomeno di crescita e di sviluppo, possa esaurire la comprensione del fenomeno stesso. Anche ammesso che al livello dei feno­ meni culturali si manifestino certe regolarità strutturali (come accade, appunto, per la rotazione delle forme della moda femminile, e come entro certi limiti può persino ac­ cadere che avvenga per la rotazione delle forme e degli stili nell'arte), la definizione di queste relazioni non ci dice ancora nulla sul e perché > di quei ricorsi e cangiamenti, cioè sul dinamismo e sul divenire della cultura. Nell'arte arcaica, ad esempio, abbiamo l'alternarsi e il susseguirsi di naturalismo mimetico e di geometrismo ornamentale; in quella moderna, di classicismo e romanticismo, che si pro­ lunga nelle sequenze impressionismo-cubismo, astrattismo geometrico-informale, espressionismo-neoplasticismo, etc. Siamo forse soltanto di fronte a un divenire endogeno delle forme che si limita ad esporre nella diacronia leggi e relazio­ ni che l'intelletto può cogliere nella loro essenza atempora­ le? Proprio questa è la pretesa dello strutturalismo, per il ale il mondo storico ridiventa il mondo platonico delle ap­ renze, l'imperfetto duplicato della sfera delle eterne ideel4

trutture. Ma le oscillazioni del gusto, la rotazione delle for-


me e degli· stili, non si limitano a esporre delle regolarità intelligibili:

esse tracciano piuttosto un movimento . che

riuscirebbe insensato e pleonastico, assurdamente ripetitivo e coatto, se non esprimesse, come ritiene il pensiero dia­ lettico, l'insistenza pervicace di un impulso che tende ad affermarsi nella storia contro le resistenze che la storia stessa, con raddoppiata violenza, di volta in volta non cessa di opporgli. Un aspetto di coazione non è certo estraneo alla vita dello spirito: ma le sue ripetizioni e regressioni, lungi dal rispecchiare la sua immutabile costituzione, sono soltanto la sua risposta coatta all'inestinguibile pressione di quell'elemento che vorrebbe liquidare. La storia non è affatto la semplice ripetizione della natura, ma l'elettrocar­ diogramma degli impulsi della natura conculcata per entro lo sviluppo repressivo della cultura.

2 L'arte· è un momento della dialettica dell'illuminismo. Essa nasce, infatti, dalla sconfitta della magia e del mito, che l'illuminismo, perseguendo il programma di togliere agli uomini la paura e renderli padroni, si poponeva di rovesciare con la scienza. Ma l'illuminismo, alleandosi al dominio, si capovolge poi nel suo contrario: in strumento, appunto, del potere sulla natura e sugli uomini, in un e sapere > che è soprattutto e potere >. Essenza di questo sapere è la tecnica, la quale non tende a concetti ed im­ magini,

alla felicità della

allo sfruttamento del lavoro,

conoscenza,

al

ma

al metodo,

capitale privato o statale.

Tutte le sue scoperte sono a loro volta strumenti. Ciò che gli uomini v.ogliono apprendere dalla natura è come utiliz­ zarla ai fi�i del dominio della natura e degli uomini. Per Bacone, come per Lutero, la sterile felicità di conoscere è lasciva, al pari della natura animale. Non in discorsi

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plausibili ... ma nell'operosità e nel lavoro, e nella sco­ perta di particolari sconosciuti per un migliore equipag­ giamento e aiuto nella vita risiede, secondo Bacone, il vero scopo e ufficio della scienza. Ciò che dunque im­ porta non è quella soddisfazione che gli uomini chiama­ no verità, ma l'operation, il procedimento efficace 18• È chiaro che Adorno intende, per illuminismo, l'orien­ tamento pratico-strumentale impresso alla conoscenza e al pensiero nel passaggio dalla preistoria alla storia. In questo senso, l'impiego allargato della nozione di Aufkla­ rung, proposta alla cultura moderna da lui e da Max Horkheimer, appare perfettamente legittimo. L'illuminismo, in quanto pensiero essenzialmente orientato allo sfrutta­ mento della natura e del lavoro umano, era certamente già all'opera molto prima che il padre della filosofia speri­ mentale ne raccogliesse ed enunciasse i motivi nel Novum Organum. Illuministici, addirittura, erano già i miti cosmo­ logici che subentrarono alle più antiche concezioni magiche e animistiche. I miti che cadono sotto i colpi dell'illumi­ nismo sono sempre già il prodotto dell'illuminismo stesso. Le cosmologie presocratiche fissano il momento del tra­ passo. L'umido, l'indistinto, l'aria, il fuoco, che appaiono in essere come materia prima della natura, sono residui appena razionalizzati della conoscenza mitica .. . Da ul­ timo, con le idee di 'Platone, anche le divinità patriarcali dell'Olimpo, già separatesi dagli elementi come essenze dei medesimi, sono investite del logos filosofico ... Ma nel­ l'eredità platonica ed aristotelica della metafisica, l'illumi­ nismo riconobbe le antiche forze e perseguitò come super­ stizione la pretesa di verità degli universali. Persino nel­ l'impulso che oggi porta le scienze a rinunciare al signifi­ cato, a sostituire il concetto con la formula, la causa con la regola e la probabilità, continua ad affermarsi la ten­ denza che, già nel passaggio dall'animismo alle religioni so16 lari e patriarcali, pose il cielo e la sua gerarchia al posto


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degli spiriti e dei dèmoni locali, e che in una fase ulteriore rimpiazzò gli stessi dèi molteplici con le categorie eia� siche della filosofia occidentale: sostanza e qualità, atti­ vità e passione, essere ed esistenza 19 • Così, in un processo senza fine tendente a far cadere ogni concezione teoretica determinata sotto l'accusa di­ struttiva di essere solo

una fede, l'illuminismo, senza

avvedersene, deve ogni volta misurarsi con se stesso, con­ testando ad ogni tappa della sua marcia le sue razio­ nalizzazioni anteriori, bollando come e metafisica > i pro­ dotti stessi dell'Aufkliirung, finché anche i concetti di verità, di spirito e perfino di illuminismo, vengono rele­ gati tra la magia animistica. Se la filosofia, tollerata nei suoi luoghi deputati

(le università e i cenacoli umani­

stici) come innocua speculazione e chiacchiera spensierata, continua a trastullarsi con le antiche categorie, la scienza ha ormai imparato da tempo a fame a meno, e il con­ cetto di causa è stato l'ultimo concetto filosofico con cui la critica scientifica ha fatto i conti. L'illuminismo divora se stesso, è un permanente crepuscolo degli idoli, in cui il logos si afferma sempre più esclusivamente come mero spirito ordinatore, mentre la natura, parallelamente, tra­ passa in pura oggettività . . . sostrato del dominio . . . og­ getto di pura suddivisione 20• Ma come l'opera svolta a suo tempo dai miti era già essa stessa illuministica, così l'illuminismo, ad · ogni passo, s'impiglia più profondamente nella mitologia. La categoria centrale del mito classico era quella del destino, del fato imperativo ed inviolabile, per cui nulla sarebbe potuto accadere agli uomini di sostanzialmente diverso da ciò che in anticipo era già scritto nel libro del destino. Nel cono di luce cruda proiettato da quella concezione, la vita si riduceva pertanto a una ripetizione e a una conferma del decreto mitico. Il positivismo scientista, con la sua adora­ zione del principio d'identità, afferma lo stesso concetto.

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L'uno e l'altro pretendono che il e diverso> non dev'es­ sere, che l'Altro deve dissolversi e scomparire nell'unifor­ mità compatta dell'Identico. Il principio d'immanenza, la spiegazione di ogni accadere come ripetizione, che l'illu­ minismo sostiene contro la fantasia mitica, è quello stesso del mito. L'arida saggezza per cui non c'è nulla di nuovo sotto il sole e gli uomini sono condannati all'autoconser­ vazione per adattamento, non fa che riprodurre la fanta­ stica che respinge: la ratifica del destino, che ripristina continuamente, per contrappasso, ciò che già era. Non solo con la natura, sì anche con gli uomini, l'astrazione, lo strumento dell'illuminismo, opera come il destino di cui elimina il concetto: come liquidazione. Gli uomini in quan­ to soggetti vengono liquidati dalla ratio ordinatrice e si­ stematica con lo stesso gesto autoritario della sentenza mi­ tica. Nel corso progressivo della demitizzazione, essa iden­ tifica il vivente col non-vivente, e con ciò l'uomo si illude di liberarsi dalla paura che il vivente incompreso ha sempre suscitato in lui, inducendolo a vedere in esso la manifestazione portentosa di una forza occulta e proibita. Ma la pura immanenza positivistica, ultimo prodotto del­ l'illuminismo, è anch'essa un divieto e una proibizione: non è che un tabù per così dire universale: non ha da esserci più nulla fuori poiché la semplice idea di un fuori è la fonte genuina dell'angoscia. Così l'illuminismo resta un prodotto di quella paura .che avrebbe voluto dis­ solvere, ed anzi si rivela, essenzialmente, come l'angoscia mitica radicalizzata. Nell'odierna intolleranza del pensiero scientificizzato per ciò che non si lascia imprigionare nelle sue maglie, vibra ancora l'eco del grido di terrore con cui il primitivo esperiva l'insolito, la paura suscitata dalla strapotenza reale della natura nelle deboli anime dei selvaggi 21• Certo, anche la magia, come la scienza che la sop18 pianta, era rivolta a scopi, ma essa li perseguiva mediante


la mimesi, non in un crescente distacco dall'oggetto. Nella fase magica, cioè, gli uomini non pagavano ancora l'accrescimento del loro potere con l'estraniazione da ciò su cui essi lo esercitavano; donde il carattere e l'ef­ ficacia simbolica del loro linguaggio, i cui elementi non erano considerati solo come un segno della cosa, ma erano uniti ad essa dalla somiglianza e dal nome. Questa funzione passò quindi ai miti, che, come i riti magici, intendono ancora la natura che si ripete, anima del simbolico. Gli dèi mitici, infatti, avevano ancora qualcosa del mana: in­ carnavano la natura come potere universale. Ma al sim­ bolismo mitico subentra infine l'universalità delle idee sviluppata dalla logica discorsiva; alle vecchie e confuse rappresentazioni dell'eredità magica, l'unità concettuale; e ciò, storicamente, avviene insieme alla fine del noma­ dismo ed al costituirsi di un nuovo ordinamento sulla base della proprietà stabile. Così dominio e lavoro si separano, il distacco del soggetto dall'oggetto ripete nella sfera del pensiero il distacco dalla cosa a cui il padrone perviene mediante il servitore, e il dominio nella sfera del con­ cetto si eleva sulla base del dominio reale 22• È in questa vicenda dialettica di mito e scienza, lavoro e dominio, che Adorno cerca di cogliere anche la genesi e il senso dell'arte. Questa gli sembra infatti ereditare dalla magia quell'impulso della conoscenza a cogliere effettiva­ mente l'oggetto che fu bandito, insieme con la magia mi­ metica, dal pensiero calcolante e sistematico orientato al controllo e al dominio. Col proseguire di questo pensiero, · mentre i miti si riducono a mere creazioni fantastiche, la divisione del lavoro si estende al linguaggio. Come segno, la parola passa alla scienza; come suono, come immagine, come parola vera e propria, viene ripartita fra le varie arti. Ma le conseguenze sono paradossali, poiché sia la scienza che l'arte, serbando il ricordo dell'unità ori­ ginaria, conservano alla radice anche l'impulso che si vor- 19


rebbe bandire da ciascuna di esse per assegnarlo in dote esclusiva all'altra. Vera scienza e vera arte sono quelle che non si lasciano mai del tutto governare dal principio della loro separazione. Se poi si consegnano a quel criterio fino in fondo, deperiscono entrambe, ciascuna nella falsa immagine dell'altra: come segno, il linguaggio deve limi­ tarsi ad essere calcolo: per conoscere la natura, deve abdicare alla pretesa di somigliarle; come immagine, deve limitarsi ad essere copia: per essere interamente natura, abdicare alla pretesa di conoscerla. L'antitesi corrente di arte e scienza, che le separa fra loro come settori culturali per renderle entrambe, come tali, amministrabili, le fa trapassare alla fine, in virtù delle loro stesse tendenze, l'una nell'altra. La scienza . . . diventa estetismo, sistema di segni assoluti, priva di ogni intenzione che la trascen­ da: diventa quel • gioco • in cui i matematici hanno fie­ ramente affermato da tempo risolversi la loro attività. Ma l'arte della riproduzione integrale si è votata, fin nelle sue tecniche, alla scienza positivistica. Essa diventa, infatti, mondo ancora una volta, duplicazione ideologica, docile riproduzione. Col progredire dell'illuminismo, solo le opere d'arte genuine hanno potuto sottrarsi alla semplice imi­ tazione di ciò che è già 23• Sia Platone che la Bibbia bandiscono l'imitazione, il principio della magia, e con esso l'arte che lo eredita. Que­ sta, per l'autore della Repubblica, è da condannarsi perché e inutile > (e, paradossalmente, per quel maleficio che è inerente all'Aufkliirung, il positivismo muoverà la stessa accusa alla dottrina delle idee). Tutto l'odio della civiltà illuminata si rivolge. all'immagine della preistoria superata e alla sua immaginaria felicità. La civiltà sancisce che non si deve influire sulla natura assimilandosi ad essa, ma ••. dominarla col lavoro 24• In termini freudiani, è il 20

trionfo del e principio di realtà>. Herbert Marcuse, allievo di Adorno e, come questi, oltre che nutrito di pensiero


hegelo-marxista, conoscitore e critico profondo delle dot­ trine freudiane, intenderà a un dipresso la stessa cosa col suo e principio di prestazione> 25• Il decreto-divieto della civiltà non può essere adempiuto, in ogni caso, se non attraverso la formazione dell'Io, dell'identità del soggetto che può dominare la natura soltanto ponendo fra sé e quella una distanza. Essenziale, in questo processo, è poi il fatto che la natura dalla quale l'Io si distacca non è solo quella esterna al soggetto, sì anche quella che si prolun­ ga all'interno dell'individuo e che sopravvive in esso come insieme caotico e informe di impulsi inconsci. Chi vuol con­ trollare la natura deve prima imparare a controllare se stesso, la violenza fatta a quella implica una violenza fatta a se stessi, il dominio del mondo esterno presuppone l'auto­ dominio, e tutto questo è opera dell'Io, pilota del pensiero utilitario ed organo dell'autoconservazione. Ma che cosa l'opera d'arte ha ancora in comune con la magia? Il fatto di istituire un cerchio proprio e in sé concluso, che si sottrae al contesto della realtà profana, e in cui vigono leggi particolari. Come il primo atto del mago nella cerimonia era quello di definire e isolare, da tutto il mondo circostante, il luogo in cui dovevano agire le forze sacre, così, in ogni opera d'arte, il suo ambito si stacca nettamente dalla realtà. Proprio la rinuncia al­ l'azione esterna, con cui l'arte si separa dalla simpatia magica, ritiene tanto più profondamente l'eredità della magia. Essa mette la pura immagine a contrasto con la realtà fisica, di cui l'immagine riprende e custodisce gli elementi. Il contesto della realtà profana da cui si stacca l'opera d'arte è evidentemente quello stesso in cui domina l'Io pratico. Per un istante il soggetto torna pertanto ad abolire, nell'operare artistico, la distanza che esso ha posto fra il soggetto e la natura. t . inffoe nel senso dell'opera d'arte, nell'apparenza estetica, essere ciò a cui dava luogo, nell'incantesimo del primitivo, l'evento nuovo e tremendo:

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l'apparizione del tutto nel particolare. Nell'opera d'arte si compie ancora una volta lo sdoppiamento per cui la cosa appariva come alcunché di spirituale, come estrinse­ cazione del mana. Ciò costituisce la sua • aura •· Come espressione della totalità, l'arte pretende alla dignità del­ l'assoluto 20: dove Adorno enuncia una fiducia nell'arte a cui il mondo borghese, da Platone ai moderni teorici dello stato totalitario, fu disposto solo di rado, riprendendola dalla dottrina di Schelling secondo la quale la separazione di immagine e segno viene • interamente abolita da ogni singola rappresentazione artistica • 27• Il e diverso > che l'arte promette è dunque la natura

la civiltà illuminata si estrania dominandola, ma la promessa riesce infine vana poiché il paradosso del­ l'arte è appunto che in essa la voce insaziabile della na­ da cui

tura inconciliata venga neutralizzata a puro oggetto di contemplazione. Come questa neutralizzazione del e canto > della natura nel e canto >

dell'arte si attui ancora una

volta attraverso . il processo storico di separazione del do­ minio dal lavoro, Adorno lo mostra infine nella sua ma­ gistrale interpretazione del dodicesimo . canto dell'Odissea, che narra, com'è noto, del passaggio di Ulisse davanti alle Sirene. L'importanza capitale di questo passo, vera chiave per la comprensione del pensiero estetico ador­ niano, esige una citazione integrale: La tentazione che esse (le Sirene) rappresentano, è quella di perdersi nel passato. Ma l'eroe a cui la tenta­ zione si rivolge, è diventato adulto nella sofferenza. Nella varietà dei piccoli mortali in cui ha dovuto conservarsi, si è consolidata in lui l'unità della vita individuale, l'iden­ tità della persona. Come acqua, terra ed aria, si scin­ dono davanti a 1� i regni del tempo. L'onda di ciò che fu rifluisce dalla roccia del presente, e il futuro cam­ peggia nuvoloso all'orizzonte. Ciò che Odisseo ha lasciato 22

dietro di sé, entra nel mondo delle ombre: il Sé è ancora


così v1cmo al mito primordiale, da cui è uscito con im­ menso sforzo, che il suo stesso passato, il passato diret­ tamente vissuto, si trasforma in passato mitico. A questo egli cerca di rimediare con un solido ordinamento del tempo. Lo schema tripartito deve liberare l'attimo pre­ sente dalla potenza _del passato, ricacciando quest'ultimo dietro il confine assoluto dell'irrecuperabile, e metten­ dolo, come sapere utilizzabile, a disposizione dell'oTa. L'im­ pulso di salvare il passato come vivente, anziché utiliz­ zarlo cpme materia del progresso, si placava solo nell'arte, a cui appartiene anche la storia come rappresentazione della vita passata. Finché l'arte rinuncia a valere come conoscenza, escludendosi così dalla prassi, è tollerata dalla prassi sociale come il piacere. Ma il canto delle Si­ rene non è ancora depotenziato e ridotto a pura arte. Rievocando direttamente un passato recentissimo, esse minacciano, con l'irresistibile promessa di piacere con cui si annunzia e viene ascoltato il loro canto, l'ordine pa­ triarcale che restituisce a ciascuno la sua vita solo contro il corrispettivo della sua intera durata temporale. Chi cede ai loro artifizi è perduto, mentre solo una costante presenza di spirito strappa l'esistenza alla natura. Se le Sirene sanno di tutto ciò che accade, esse chiedono in cambio il futuro, e la promessa del lieto ritorno è l'inganno con cui il passato cattura il nostalgico. La tentazione delle Sirene resta invincibile, e nessuno può sottrarvisi, ascoltando il loro canto. L'umanità ha dovuto sottoporsi a un trattamento spaventoso, perché nascesse .e si conso­ lidasse il Sé, il carattere identico, pratico, virile dell'uomo, e qualcosa di tutto ciò si ripete in ogni infanzia. Lo sforzo di tenere insieme l'io appartiene all'io in tutti i suoi stadi, e la tentazione di perderlo è sempre stata congiunta alla cieca decisione di conservarlo. L'angoscia di perdere il Sé, e di annullare, col Sé, il confine tra se stessi e il resto della vita, la paura della morte e della distruzione,

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è strettamente congiunta ad una promessa di felicità da cui la civiltà è stata minacciata ad ogni istante. La sua vita fu quella dell'obbedienza e del lavoro, su cui la sod­ disfazione brilla eternamente come pura apparenza, come bellezza impotente. Il pensiero di Odisseo, ugualmente osti­ le alla propria morte e alla propria felicità, sa di tutto questo. Egli conosce due sole possibilità di scampo. Una è quella che prescrive ai compagni. Egli tappa le loro orecchie con la cera e ordina loro di remare a tutta forza. :t ciò a cui la società ha provveduto da sempre. Freschi e concentrati, i lavoratori devono guardare in avanti, e lasciar stare tutto ciò che è lato. L'impulso che li indurrebbe a deviare va sublimato - con rabbiosa amarezza - in ulteriore sforzo. Essi diventano pratici. L'altra possibilità è quella che sceglie Odisseo, il signore terriero, che fa lavorare gli altri per sé. Egli ode, ma impotente, legato all'albero della nave, e più la tentazione diventa forte, e più strettamente si fa legare, così come, più tardi, anche i borghesi si negheranno più tenacemen­ te la felicità quanto più, crescendo la loro potenza, l'avran­ no a portata di mano: Ciò che ha udito resta per lui senza seguito: egli non può che accennare col capo di slegarlo, ma è ormai troppo tardi: i compagni, che non odono nulla, sanno solo del pericolo del canto, non della sua bellezza, e lo lasciano legato all'albero, per salvarlo e per salvare sé con lui. Essi riproducono, con la propria, la vita dell'oppressore, che non può più uscire dal suo ruolo sociale. Gli stessi vincoli con cui si è legato irre­ vocabilmente alla prassi, tengono le Sirene lontano dalla prassi: la loro tentazione è neutralizzata a puro oggetto di contemplazione, ad arte. L'incatenato assiste ad un concerto, immobile come i futuri ascoltatori, e il suo grido appassionato, la sua richiesta di liberazione, muore già 24

in un applauso. Così il godimento artistico e il lavoro manuale si separano all'uscita dalla preistoria. L'epos


contiene già la teoria giusta. Il patrimonio culturale sta in esatto rapporto col lavoro comandato e l'uno e l'altro hanno il loro fondamento nell'obbligo ineluttabile del dominio sociale sulla natura 2 s. 3 La tesi per cui l'arte sarebbe innanzitutto l'espressione della nostalgia dell' uomo illuminato per il perduto rapporto mimetico con la natura, coincide puntualmente con alcune note acquisizioni della sociologia dell'arte. La vecchia e opposta tesi esposta da Gottfried Semper in Der Stil in den technischen und architektonischen Kilnsten, secondo la quale l'arte non è che un derivato del me­ stiere e la quintessenza di quelle forme decorative che risultano dalla natura del materiale, dai processi della la­ vorazione e dall'uso a cui è destinato l'oggetto, sembra infatti essere stata superata definitivamente dalle ricerche di Alois Riegl, per il quale all'origine di ogni arte, anche se ornamentale, sta l'imitazione della natura, mentre le stesse forme geometricamente stilizzate non sarebbero, nella storia dell'arte, un fenomeno iniziale, ma relativamente tardo, frutto di una sensibilità artistica già molto raffina• ta 29• La tesi meccanico-materialistica del Semper è stata poi respinta dallo stesso Hauser, per il quale l'arte, inizial­ mente, è soprattutto uno strumento della devozione alla natura. Anche l'idea che nell'arte sopravviva un principio ereditato dalla magia trova un riscontro preciso nell'analisi di Hauser, dove il naturalismo paleolitico - che già pos­ siede, apparentemente senza sforzo, quell'unità dell'intui­ zione sensibile a cui l'arte moderna giunge soltanto dopo una lotta secolare - è descritto essenzialmente come lo strumento di una prassi magica, per cui le immagini di quella pittura sono insieme rappresentazione e cosa rap­ presentata, desiderio e appagamento. Nell'immagine da lui

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dipinta il cacciatore paleolitico credeva di possedere la cosa stessa, credeva, riproducendo, di acquisire un potere sull'oggetto. Egli credeva che l'animale vero subisse l'uc­ cisione eseguita sull'animale dipinto. La rappresentazione figurata non era, secondo la sua idea, che l'anticipazione dell'effetto desiderato; l'avvenimento reale doveva seguire il modello magico; o, piuttosto, esservi già contenuto, per­ ché le due cose erano separate soltanto dal mezzo, ritenuto inessenziale, dello spazio e del tempo. Per l'uomo paleo­ litico, cioè, il m�ndo delle finzioni e delle immagini, la sfera dell'arte e della pura imitazione, non significavano anc�ra un campo specifico, distinto e separato dalla realtà empirica; egli non confrontava ancora i due mondi, ma vedeva nell'uno la immediata prosecuzione dell'altro. In ogni caso, le due antichissime idee che sono i primi pre­ supposti dell'arte, l'idea della somiglianza e dell'imitazio­ ne, e quella della produzione dal nulla, ossia della potenza creativa 80, sono in pari tempo i presupposti della magia in quanto pratica al servizio della vista perseguente i suoi scopi, come chiarisce Adorno, mediante la mimesi anziché in quel crescente distacco dall'oggetto con. cui l'uomo il­ luminato paga il suo accresciuto potere sulla natura. Resterebbe da chiedersi se sia propriamente legittimo chiamare già e arte > tipi di linguaggio ancora perfetta­ mente integrati in una prassi magica, com'è appunto il caso dell'arte paleolitica. Poiché si è detto che l'arte nasce dalla scissione del linguaggio in immagine e segno, l'ossequio a un astratto rigore nomenclativo dovrebbe vietarci di farlo. Ma allora dovremmo ugualmente, in linea di principio, astenercene in tutti quei casi in cui degli esiti estetici ri­ sultino raggiunti nel quadro di un'attività essenzialmente orientata ad altro e dalla quale, a meno di non credere a un· superficiale estetismo, non si lasciano distaccare. Per 26

fare un esempio banale, il problema si riproporrebbe in termini pressoché identici per quasi tutta l'arte medievale,


i cui valori estetici, essendo organicamente integrati con tutti gli altri elementi dell'opera in una concezione cosmo­ logica unitaria e in uno stile di vita che modellava fin nei più. minuscoli dettagli la stessa esistenza quotidiana degli uomini, esigono ben altro, per essere realmente penetrati, che una e degustazione> separata e specialistica. In realtà, già il semplice porre il problema equivale a ricadere in pieno nel nefasto pregiudizio 'dell'art pour l'art. E infatti, al livello delle poetiche operative, l'art pour l'art è l'esatto equivalente della pretesa, a livello teorico, di definire e isolare il territorio proprio dell'arte selezionando le sup­ poste proprietà comuni di una collezione data di oggetti estetici. I circoli viziosi e tautologici a cui mettono capo simili tentativi sono fin troppo noti. In base a quale criterio selezioneremo gli oggetti dai quali pretendiamo di ricavare, per semplice via di astrazione, le proprietà che li rendono tali? Il pensiero estetico che s'irretisce in questi procedi­ menti analitici ignora che la parola e arte>, in realtà, non è di quelle che rinviano a una mera determinazione del­ l'intelletto astratto, a un insieme finito o infinito di ele. menti raggruppabili in base a una o più caratteristiche co­ muni: è un concetto essenzialmente dialettico, una di quel­ le idee in cui si deposita (come nelle idee di e libertà>, e giustizia >, e umanità >), l'intera esperienza storica del progressivo attuarsi di una concreta esigenza. Per questo si può affermare, senza cadere in contraddizione, sia che l'arte eredita il principio della magia, sia che la magia contiene già il principio dell'arte: il che sembra coincidere, in parte, con quanto afferma anche Lévi-Strauss, là dove egli sostiene che l'arte si inserisce à metà strada fra la conoscenza scientifica e il pensiero mitico o magico 31• Bisognerà evitare, tuttavia, di adoperare la definizione . di Lévi-Strauss come una formula che tende a lasciarsi sfuggire il movimento interno dell'oggetto. E, soprattutto, oc­ corre resistere alla tentazione, tipica dello strutturalismo, 27


di postulare un'equivalenza meccanica dei diversi livelli studiati mercé la possibilità, più volte espressa dallo stesso Lévi-Strauss, di riferirli tutti alle modalità produttive di un eterno e immutabile « spirito inconscio > della specie, specchio a sua volta di una struttura ontologica. L'arte starà pure a mezza strada fra la scienza e il mito, ma non tutti i fili eh� attraversano un livello giungono agli altri due, o almeno non vi giungono, per così dire, illesi. La scienza, ad esempio, se da un lato eredita dalla magia il principio pratico-strumentale, e insieme a questo il prin­ cipio conoscitivo, non ne accoglie il principio mimetico, cioè la tendenza a conoscere l'oggetto in un massimo di aderenza al suo movimento naturale (non a caso, proprio laddove la scienza continua a utilizzare categorie e concetti che conservano ancora alcunché dell'immagine, parole semi­ magiche come «forza> ed «energia>, l'epistemologia posi­ tivista l'accusa di continuare ad operare sulla base di taciti presupposti metafisici, e le rivolge quindi l'invito a sostitui­ re quei concetti-immagini con concetti-schemi puramente operativi). D'altra parte, lo stesso principio conoscitivo che si sviluppa nella scienza, separandosi dal principio mime­ tico e attuandosi appunto come conoscenza operativa, lascia inappagata un'esigenza che sarà accolta dall'arte anche e proprio come impulso ad una conoscenza « migliore >, a un sapere basato non sul distacco, ma sull'aderenza all'oggetto, e quindi tanto più «vero> del sapere scientifico anche se, rispetto a questo, assolutamente inefficace ai fini utilitari dello sfruttamento dell'oggetto. Tutto l'itinerario che porta dal mito all'arte e alla scienza è insomma percorso da una tensione che la teoria della riducibilità dei livelli, con le sue implicazioni ontologiche, sembra impotente a cogliere. L'esser curva nello sforzo di superarsi non è solo, come sembra credere Lévi-Strauss, una proprietà della ragione dialettica, ma anche della vita che quella si sforza di com28 prendere.


Alla luce di queste considerazioni, il contributo cen­ trale dell'antropologia strutturale - cioè l'accento posto con straordinario vigore sul carattere di organica e armo­ niosa compattezza di quelle civiltà che ci ostiniamo a chia­ mar primitive - può rivelarsi realmente fecondo. L'imma­ gine di quelle civiltà dovrà essere ripresa non già come un oggetto offerto semplicemente alla nostra soddisfazione in­ tellettuale ed estetica, bensì come la figura retrodatata di una finalità che è anche nostra, come il simbolo allusivo di quell'unità strutturale che anche noi, uomini storici, ci ripromettiamo di riguadagnare, come il modello su scala ridotta di un equilibrio a cui tendiamo, forse indefinita­ mente, noi stessi. Ciò può sembrare mitico. Eppure è fuor di dubbio che tutto il nostro interesse per il mondo co­ siddetto primitivo, interesse che sembra inestirpabile dalla cultura e che diventa sempre più intenso col progredire della nostra civiltà, corrisponde a ben altro che a una sem­ plice curiosità dell'intelletto o del gusto. In esso si esprime una nostalgia, ed ogni nostalgia è sempre una tensione, un movimento-verso, dove il passato funge improvvisamente da cifra del futuro e bussola del presente. Qui è anche la ra­ gione profonda del fascino che irradiano ancor oggi quei do­ cumenti delle civiltà primitive in cui i singoli aspetti del linguaggio - uso, funzione, segno, immagine - appaiono ancora uniti, come sa mo�trare così bene Lévi-Strauss, nella compagine salda di un'attività totalizzante. Egli esamina, ad esempio, una semplice clava tlingit di legno di cedro, adoperata dai pescatori d'Alaska per tramortire il pesce, e osserva che l'artista, scolpendola a forma di mostro ma­ rino, ha voluto che il corpo dello strumento si confon­ desse col corpo dell'animale, il manico con la coda, e che le proporzioni anatomiche attribuite a una creatura fa­ volosa, fossero tali che l'oggetto potesse essere l'animale crudele, uccisore. di vittime impotenti, e contemporanea­ mente un'arma ben calibrata, agevole da maneggiare ed

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efficace nei risultati. Sembra che tutto, dunque, sia strut­ turale in questo strumento che è pure una splendida opera d'arte: il simbolismo mitico come la funzione pratica. Più esattamente, la sua funzione e il suo simbolo sembrano ripiegarsi l'uno sull'altro e formare un sistema chiuso... 32• Ciò equivale a ricordare che l'arte, o la qualità estetica, presso quelle culture che si collocano storicamente prima della divisione del lavoro sulla base della proprietà stabile, è un elemento che penetra in tutti gli aspetti dell'esistenza umana. Il canto rituale del melanesiano che vara la sua nuova imbarcazione

(ma lo stesso può dirsi di qualsiasi

cerimonia analoga, dai riti d'iniziazione alle danze matri­ moniali), è al tempo stesso un atto propiziatorio e quindi pratico, un rito sociale e quindi una funzione della vita collettiva, l'espressione di una concezione simbolica ten­ dente ad assegnare un posto riconoscibile e significativo a tutti gli elementi del mondo umano e naturale, e, infine, un oggetto estetico le cui proprietà formali si saldano orga­ nicamente a tutti quegli altri aspetti, ricevendone un sup­ plemento di forza. Di qui il paradosso dell'arte che diventa · il fine di se stessa: in essa, pur quando si distacca come attività separata nell'àmbito della società contrassegnata dalla divisione del lavoro, continua ad agire l'impulso a ripristinare quell'unità strutturale che emana ancora tutto

il

suo splendore dal più umile reperto etnologico. Questi accenni ad un possibile confronto fra taluni

aspetti del pensiero estetico adorniano e le considerazioni, tutt'altro che occasionali, sviluppate da Lévi-Strauss sulla natura dell'arte, sono evidentemente sommari e insufficienti. Eppure, non foss'altro · per il fatto che questi due studiosi, di così diverso orientamento ma entrambi di squisita for­ mazione filosofica, abbiano ugualmente individuato nei rap­ porti che l'arte intrattiene da un lato col mito, dall'altro con la scienza o con l'illuminismo, il punto focale su cui 30

deve converger� l'indagine, delineando in tal modo un pas-


saggio sull'abisso che la cultura borghese ha scavato fin dal suo nascere fra l'intelletto e la sensibilità, uno studio accurato dei punti di contatto e di opposizione fra le teorie dell'uno e dell'altro potrebbe

riuscire estremamente

fecondo. A integrare in via del tutto provvisoria queste lacunose osservazioni, qui aggiungeremo soltanto che, a nostro avviso, ciò che sembra sfuggire a Lévi-Strauss e ciò che tuttavia sembra sfuggire al critico strutturalista, è l'impossibilità oggettiva, nelle condizioni della civiltà mo­ derna, e quindi nell'àmbito di una cultura che continua a svilupparsi sulla base della scissione di segno e immagine, comunicazione ed espressione, arte e scienza, di opere se­ gnate da quella compattezza strutturale che egli ammira giustamente in tutti i documenti dell'arte arcaica. Della clava tlingit di cui parla nel brano che abbiamo citato, Lévi-Strauss, per precisarne il carattere di struttura chiusa, aggiunge che in essa, come in ogni prodotto dell'arte primitiva, l'evento non ha alcuna possibilità di introdursi 33 , dove per evento egli intende l'accidentalità e la contin­ genza che irrompe dall'esterno nella struttura dell'opera. Ai documenti dell'arte arcaica egli contrappone quindi, a titolo di esempio, il famoso ritratto di Elisabetta d'Austria del Clouet, di fronte al quale egli osserva che si realizza un genere di emozione estetica radicalmente diverso da quello suscitato dalla clava tlingit, dipendente appunto non già dalla chiusura del sistema, ma dall'unione tra l'ordine della struttura, rappresentato dalla riproduzione filo per filo di una gorgerina di pizzo in uno scrupoloso trompe-

l'oeil, e l'ordine dell'evento, rappresentato a sua volta dal contrasto fra il biancore della gorgerina e i colori delle altre parti del vestito, il riflesso del collo madreperlaceo che essa cinge e quello del cielo di un dato giorno e di un dato momento. Lévi-Strauss non si chiede, tuttavia, quali sono le condizioni socio-culturali di· fondo che hanno con­ sentito, nel primo caso, la realizzazione di un'opera chiusa

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e che, nel secondo, hanno al contrario invocato quella che egli clùama l'introduzione dell'evento nella struttura. A nostro avviso, ciò accade, sostanzialmente, perché la cul­ tura nel cui seno furono creati oggetti come la clava tlingit, non essendosi ancora radicalmente estraniata dalla natura­ evento, non aveva poi bisogno di reintrodurla in una strut­ tura che rispecclùava appunto un equilibrio fondato tuttora sull'aderenza al mondo naturale. D'altra parte, dal sem­ plice dato di fatto che in tutta l'arte moderna non v'è una sola grande opera che non realizzi appunto, come il quadro del Clouet, l'introduzione dell'evento, e il cui fascino non nasca proprio da una simile effrazione della struttura (il che accade persino in quegli artisti che si sogliono per convenzione considerare e classici > : il caso di Mozart è flagrante), sembriamo portati a concludere che nel raggio_ della cultura moderna, sempre a causa della frattura di cui essa reca il marclùo, la totalità della vita possa, per così dire, e riapparire >, al .livello del fare artistico, proprio e soltanto infrangendo la compattezza della struttura, in cui si rispecclùano la coercizione e il dominio, con l'introdu­ zione dell'evento, della contingenza, dell'accidentalità, in cui si esprime al contrario il libero impulso del soggetto. Lo strutturalismo, tuttavia, evita abitualmente di pervenire a tanto. Vedremo c�munque fra breve che il concetto di effrazione della forma, di irruzione dell'Altro nella strut­ tura, è una categoria centrale nel pensiero estetico di Ador­ no. La differenza fra le due teorie pare pertanto risiedere principalmente in questo: mentre per Lévi-Strauss l'arte arcaica e l'arte moderna (l'una basata sull'assenza dell'e­ vento e sul predominio totale della struttura; l'altra, invece, sull'integrazione dell'evento e, addirittura, sull'accento po­ sto con energia sull'aspetto eventico) sembrano costituire i due estremi di un movimento pendolare dell'arte tuttora in atto, sicché in esse si affermerebbero, allo stato più o 32 .meno puro, due principi ancor vivi ed attivi nell'operare



SERGIO VACCHI - Studio preparatorio per la morte

di Federico Il


artistico moderno, per Adorno, invece, la possibilità di un'arte degna di questo nome che sacrifichi del tutto l'e­ vento alla struttura, è attualmente del tutto preclusa. L'ar­ te che non accoglie l'evento, per Adorno, è ideologia e menzogna, poiché nelle condizioni della cultura moderna l'espulsione della contingenza equivale a simulare un adem­ pimento che l'arte non può anticipare rispetto alla società in cui si afferma. Certo, oggi abbiamo sotto gli occhi molti esempi di una produzione pseudo-estetica che a prima vista parreb­ bero realizzare proprio lo splendido sogno della clava tlingit, il sogno, cioè, dell'unificazione di segno, immagine e funzione. Sono i prodotti dell'industria! design, e in ge­ nere tutti i prodotti tecnologici, nella cui compattezza si di­ rebbe che davvero la contingenza e l'evento, in quanto por­ tatori degli impulsi del soggetto, siano stati felicemente sa­ crificati alla struttura. Ma in realtà, quel che in essi si realizza è cosa ben diversa e mistificatrice: vi si attua, essenzialmente, non già la reciproca integrazione del sim­ bolo e della funzione attraverso un processo in cui abbia qualche parte un'effettiva energia formatrice, e, soprattutto, in cui l'espulsione dell'evento e la scomparsa del soggetto­ artefice nel prodotto corrisponda a una reale ed organica assimilazione di quest'ultimo alla totalità socio-culturale in cui egli opera, bensì la celebrazione tendenziosa della funzione stessa come tale in quanto Valore assoluto (e conseguentemente, del sistema, che è appunto un sistema prammatico e funzionalista), mediante l'impiego di quelle qualità sensibili (levigatezza, trasparenza, lucidità, linea­ rità, etc.), che ormai, per convenzione, al più elementare livello della comunicazione automatica e riflessuale, ven­ gono percepite non già come immagini, ma come meri segni . dell'universo neotecnico. Il soggetto che scompare in essi non si affida dunque a una presunta comunità reale che lo integri in se stessa accogliendone tutte le potenzialità, ma

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si consegna mani e piedi a un ordine che si limita a im­ piegarne ai propri fini le capacità atomizzate. Proprio per-· ciò quegli oggetti, come del resto tutti i prodotti in cui il sistema si prolunga e si autoriconosce, oltre che svolgere onestamente la loro semplice funzione pratica, ne assol­ vono un'altra essenzialmente ideologica. In virtù del fatto che il sistema di cui essi esaltano i valori di pretesa ra­ zionalità e funzionalità resta un sistema basato sulla vio­ lenza, il loro canto si rovescia subito in menzogna. Frau­ dolento è il loro tentativo di fingere, nel bel mezzo della società scissa e alienata, la pacificazione universale ed il consenso reale che la loro vana perfezione pretende di ri­ specchiare, mentre in effetti si limita ad espellere qualsiasi impulso ostile al sistema. Non l'unificazione reale della so­ cietà si riflette in essi, ma semplicemente la strapotenza indisturbata del cosmo tecnologico, della falsa universalità che parla attraverso essi e di cui essi svolgono l'apologia ininterrotta 84•

ID:

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Il riferimento al contrasto fra la teoria adorniana e la vecchia tesi meccanico-materialistica del Semper è illumi­ nante per più di un aspetto. Qui ci limiteremo a richia­ marci nuovamente ad esso per mostrarne la rilevanza ai fini dell'esatto intendimento di una categoria estetica fra le più problematiche e controverse: il concetto di stile. Il Semper, come si è visto, postulando la priorità sto­ rica del geometrismo ornamentale e stilizzatore sul natu­ ralismo mimetico, giunge implicitamente ad affermare il primato estetico della stilizzazione sul principio imitativo. Per lo Hauser, invece, l'arte acquista un carattere simbo­ lico-geometrico solo dopo il passaggio all'età neolitica, che vuol dire anche transizione da un'economia di consumo a un'economia di sussistenza, dalla magia empirica a.I culto


ritualizzato, dal monismo magico al dualismo animistico, dall'individualismo primitivo dell'orda cacciatrice al con­ servatorismo autocratico del dominio basato sulla stabile proprietà agricola. Il formalismo geometrico ha insomma basi economiche radicalmente diverse e storicamente po­ steriori a quelle del naturalismo neolitico 8�. È evidente che dall'accertato primato del principio mimetico rispetto al momento della stilizzazione nel movimento storico del­ l'arte derivano conseguenze di grande rilievo. Ora tali con­ seguenze coincidono in sostanza con la splendida critica del concetto di stile che Adorno tratteggia nel suo saggio sul­ l'industria culturale. Egli parte da un esame di quella caricatura del vero stile che è lo stile dei prodotti dell'industria culturale. I superficiali lamenti sull'estinzione dell'energia stilistica nel­ la civiltà di massa gli sembrano affatto infondati. E infatti, l'odierna traduzione stereotipa di tutto, compreso ciò che non è stato ancora pensato, nello schema della riprodu­ cibilità meccanica, supera in rigore e validità ogni vero stile. Nessun Palestrina avrebbe saputo espellere la dis­ sonanza impreparata e irrisolta col purismo con cui un arrangiatore di musica jazz elimina ogni cadenza che non rientra perfettamente nel gergo. Nessun costruttore di chiese del Medioevo avrebbe passato in rassegna i soggetti delle vetrate e delle sculture con la diffidenza con cui la gerarchia degli studi cinematografici esamina un soggetto di Balzac prima che questo ottenga l'imprimatur di ciò che può andare. Il catalogo esplicito e implicito, essoterico ed esoterico, del proibito e del tollerato, non si limita a cir­ coscrivere un settore libero, ma lo domina e controlla da cima a fondo. Anche i minimi particolari vengono mo­ dellati alla sua stregua. L'industria culturale, attraverso i suoi divieti, fissa positivamente - come la sua antitesi, l'arte avanzata - un suo linguaggio, con una sintassi e un lessico propri. La necessità permanente di nuovi effetti,

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che restano tuttavia legati al vecchio schema, non fa che accrescere, come regola suppletiva, l'autorità del traman­ dato, a cui ogni singolo effetto vorrebbe sottrarsi. Tutto ciò che appare è sottoposto a un marchio così profondo che, alla fine, non appare più nulla che non rechi in anti­ cipo il segno del gergo e non si dimostri, a prima vista, approvato e riconosciuto. Siamo perciò di fronte a una stilizzazione la cui forza vincolante si riferisce a sfuma­ ture così sottili da raggiungere quasi la raffinatezza di mezzi di un'opera d'avanguardia, con cui peraltro questa ultima, al contrario di quella, serve alla verità 36 • A oltre vent'anni dall'epoca in cui fu_ scritto, il saggio di Adorno conserva anche in questa parte tutta la sua effi­ cacia. Gli ulteriori progressi compiuti negli ultimi decenni dalla capacità stilizzatrice dell'industria culturale (la quale è dunque ben altro che il e caos > denunciato dai tardi e impotenti avvocati di un umanesimo arcaico ed ignaro), hanno largamente confermato le tesi anticipatrici di Ador­ no. La e purezza> stilistica dei prodotti più recenti del­ l'industria culturale appare più irrefutabile di quella già esibita dai meno perfetti esemplari degli anni trenta. In­ negabile, ad esempio, è la superiore omogeneità formale dei e kolossal> di David Lean (Il ponte sul fiume Kwai, Law­ rence d'Arabia, Il dottor Zivago) o dei films di James Bond rispetto ai loro equivalenti d'una volta, anche quando re­ cavano la· firma di un manipolatore esperto ed efficiente come Cecil B. De Mille. Il grado di fusione dei suoi di­ sparati elementi che il e musical> di Broadway sa oggi rea­ lizzare, e in cui vengono assorbiti, accanto ai tradizionali ingredienti di origine popolare, persino alcuni fermenti del­ la musica d'avanguardia e del balletto moderno (la coppia Robbins-Bernstein rivela in ciò una sapienza ineffabile), è quasi sorprendente rispetto alle goffaggini ed alle im­ 36

purità che il e genere > conosceva ancora ai tempi di Ziegfeld e di Cole Porter, quando in esso gli elementi dilettan-


tistici ed eccentrici dell'amusement popolare non erano stati del tutto addomesticati o liquidati. L'abilità, infine, con cui un narratore di e serie B > dei giorni nostri (sia esso il Truman Capote di A sangue freddo o il Bevilacqua di Una specie di amore) riesce ad imprimere un calco formale uni­ forme ai materiali preselezionati, onde ottenerne quel che si dice « un congegno narrativo > che funzioni, supera di mille cubiti i conati stentorei e impacciati della famigerata narrativa ungherese dell'entre-deux-guerres o delle nostre coeve De Cespedes. Ma quel che conta ai fini del nostro discorso, è che questa caricatura dello stile dice qualcosa sullo stile au­ tentico del passato. Il concetto di stile autentico si sma­ schera, nell'industria culturale, come equivalente estetico del dominio. L'idea dello stile come pura coerenza for­ male è una proiezione retrospettiva dei romantici. Nel­ unità dello stile, non solo nel Medioevo cristiano, ma anche nel Rinascimento, si esprime la struttura di volta in volta diversa della violenza sociale, e non l'oscura esperienza dei dominati, in cui era racchiuso l'universale. I grandi artisti non furono mai quelli che incarnarono lo stile nel modo più puro e perfetto, ma quelli che accolsero nella propria opera Io stile come rigore verso l'espressione caotica della soffe­ renza, come verità negativa. Nello stile delle opere l'espres­ sione àcquistava la forza senza cui l'esistenza si perde ina­ scoltata. Anche le opere che passano per classiche contengono tendenze oggettive che sono in contrasto col loro stile. Fino a Schonberg e Picasso, i grandi artisti hanno con­ servato la diffidenza verso Io stile, e - in tutto ciò che è decisivo - si sono tenuti meno allo stile che alla logica dell'oggetto. Ciò che dadaisti e surrealisti affermavano polemicamente, la falsità dello stile come tale, trionfa oggi nel gergo canoro del crooner, nella grazia colta a puntino della star e, infine, nel magistrale colpo fotografico sulla capanna miserabile del ·bracciante. In ogni opera d'arte, lo

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stile è una promessa. In quanto ciò che è espresso entra, attraverso lo stile, nel linguaggio musicale, pittorico, ver­ bale, dovrebbe riconciliarsi con l'idea della vera univer­ salità. Questa promessa dell'opera d'arte di fondare la verità attraverso l'inserzione della figura nelle forme so­ cialmente tramandate, è necessaria e ipocrita a un tempo. Essa pone come assolute le forme reali dell'esistente, pre­ tendendo di anticipare l'adempimento nei suoi derivati este­ tici. In questo senso, la pretesa dell'arte è anche sempre ideologia. D'altra parte, è solo nel confronto con la tra­ dizione che l'arte può trovare un'espressione per la sof­ ferenza. Il momento, nell'opera d'arte, per cui essa tra­ scende la realtà, è in effetti inseparabile dallo stile; ma non consiste nell'armonia realizzata, nella problematica unità di forma e contenuto, interno e esterno, individuo e società, ma nei tratti in cui affiora la discrepanza, nel necessario fallimento della tensione appassionata verso la identità. Anziché esporsi a questo fallimento, in cui lo stile della · grande opera d'arte si è negato da sempre, l'opera mediocre si è sempre tenuta alla somiglianza con altre, al surrogato dell'identità. L'industria culturale, infine, asso­ lutizza l'imitazione. Ridotta a puro stile, ne tradisce il se­ greto: l'obbedienza alla gerarchia sociale 87• Lo stile divinizzato dalle estetiche reazionarie (e qui le vecchie tesi del Semper sul primato della stilizzazione sembrano esprimere quella inesauribile tendenza alla re. staurazione neoclassica che attraversa, riaffiorando ad in­ tervalli regolari, tutto il cammino dell'arte moderna, in una oscillazione pendolare di cui lo strutturalismo cerca invano di cogliere il significato riducendolo alla mera esposizione nel tempo di una specie di diagramma eterno dello spirito, e cosi svuotandolo del tutto di contenuto storico) 88, finge dunque mendacemente una conciliazione rabberciando quel­ la frattura fra soggetto e oggetto che la vera opera d'arte 38 non occulta mai.. Lo stile puro e perfetto è essenzialmente


ideologico, laddove l'arte è e vera > conoscen·za. Alle opere che si affidano esclusivamente al principio della coerenza stilistica accade ciò che Hegel rimproverava al pensiero scientifico: sono statiche, non avanzano affatto, e si ri­ solvono in tautologie. Nelle produzioni dell'intelletto a­ stratto, il fondamento è aggiustato in conformità del fe­ nomeno e le sue determinazioni riposano su questo, sicché è certo che il fenomeno vien fuori dritto dritto e col vento in poppa dal suo fondamento o ragion d'essere. Ma con ciò la conoscenza non è avanzata punto: essa si aggira in una differenza di forma, differenza che questa differenza di procedere rovescia e toglie 39 • Analogamente, lo stile per­ fetto delle opere mediocri, non dovendo più affermarsi sulla resistenza del materiale recalcitrante, il quale viene al con­ trario aprioristicamente sussunto nello schema formale, ri­ sulta senza valore, in quanto incapace di determinare fra i due poli una qualsiasi tensione: tutti i particolari del qua­ dro, della partitura o della pagina verranno fuori dritti dritti e e col vento in poppa > dallo schema o calco che sovranamente viene loro imposto dall'esterno. Essenziale all'arte è invece la rottura, l'irruzione dell'Altro che giun­ ge dall'esterno e che induce a manomettere la forma. E in ciò l'arte ha più a che fare con la logica dialettica che con quella discorsiva. Come già per Hegel nella critica del principio d'identità, anche per l'arte la verità è l'Altro, il non immanente che pur sprigiona daII'immanenza. Solo che quest'Altro non può essere rappresentato come supe­ riorità, nobiltà, trasfigurazione, altrimenti diverrebbe di poco conto, decorativa giustificazione del corso del mon­ do. E se l'Altro non dev'essere oggetto di traffico vile, esso va ricercato in incognito, presso ciò che si è perduto: dove l'Altro è, naturalmente, la Natura, mentre il suo medium può essere rappresentato, paradossalmente, dallo stesso materiale della tradizione, al quale l'arte spregiudicata continua a rifarsi come a qualcosa che le ricorda le 39


vittime del progresso nel campo che le è proprio; cioè da quegli elementi di linguaggio che sono stati espulsi dal processo della razionalizzazione del dominio sul materia­ le •o. Il concetto di rottura e di irruzione è essenziale per comprendere ciò che Adorno intende per espressione arti­ stica. L'arte, per Adorno, è sempre scandalosa, ma non necessariamente in virtù dell'evidenza delle innovazioni o della radicalità del materiale. Poiché il progressivo domi­ nio del materiale e la razionalizzazione del linguaggio sono gli equivalenti estetici del dominio e della razionalizza­ zione sociale, tutti gli elementi di linguaggio che in questo processo sono lasciati cadere, esprimono direttamente quel­ la contingenza che il progresso espelle e respinge con odio per la sua stessa impotenza a coinvolgerla e a trascinarla nella propria marcia. Quegli elementi, dunque, sono il ri­ flesso della vita calpestata, del residuo umano perduto e sepolto al suono delle trombe del progresso, della libertà sconfitta che continua a far sentire il suo lamento. Ma da ciò deriva che il futuro può anche essere anticipato con mezzi passati, poiché immensa è la forza effrattiva di quei tragici avanzi del progresso. Di qui il paradosso di opere scandalosamente moderne e in cui pure è essenziale l'im­ piego di elementi arcaici ed antiquati, come, per fare due esempi ormai noti, le sinfonie di Mahler o l'architettura di Gaudl. Quel che importa, in ogni caso, è che il momento mimetico non si estingua nella tautologia della forma re­ pressiva, e perché ciò non accada è essenziale che almeno un elemento del linguaggio sia sottolineato intenzionalmen­ te in modo da trasformarlo in un fattore di disturbo del­ l'equilibrio della composizione. Ciò accade in maniera esem­ plare nel sinfonismo mahleriano grazie, soprattutto, alle nuove modalità d'impiego del suono (che impone alla to­ nalità un'espressione di cui essa non è più di per sé ca40 pace, sicché la forzatura stessa diviene espressione), e al-


l'intenzionale insistenza con cui Mahler gioca con lo scam­ bio del genere maggiore e minore, che appunto conferisce a quella musica un comportamento mimetico. Questa ac­ centuazione

di uno o più elementi del linguaggio è ciò che

abitualmente provoca l'accusa di manierismo. Ma il manie­ rismo, ad Adorno, sembra tendenzialmente inseparabile dall'espressione artistica, poiché è proprio attraverso di esso che l'espressione si afferma in opposizione dialettica al principio razionale-costruttivo. Manierismo, quindi, sta qui a significare l'accettazione della protesta dell'espressio­ ne contro la maledizione che è stata scagliata su di lei. Quanto più il sistema della razionalità artistica si pietri­ fica, tanto meno esso concede all'espressione la dimora che le spetta. Perché questa si affermi, occorre perciò dar ri­ lievo veemente a singoli elementi del linguaggio, intensi­ ficandoli fino a farne un'idea soverchiante, plasmarli in veri e propri veicoli d'espressione per equiparare la ri­ gidità del sistema circostante. E ancora: il manierismo è la cicatrice lasciata dall'espressione in un linguaggio che già non è più in grado di realizzare un'espressione... ha la precisa funzione di sabotare un linguaggio ormai ba­ nalizzato 41• Il culto dello e stile> e del e livello> {cioè del grado di razionalizzazione raggiunto dal linguaggio) è ciò con cui la cultura, in quanto ideologia che spaccia per rag­ giunta la conciliazione, tenta

di ridurre l'arte al silenzio,

laddove solo grazie alla rottura della forma può farsi stra­ da la voce dell'Altro, del e diverso>, del e perduto>, che l'arte ha il compito di evocare. Quest'Altro, alla cultura, non può apparire altrimenti che come Inferiore: donde

il

perenne scandalo dell'arte, che è sempre stata vista, dalla

efficiency borghese, come uno sterile indugio presso ciò che è destinato ad essere allegramente travolto. L'arte, come la compassione, appare sospetta al carattere pratico del borghese, che preferisce a entrambe la e virtù>, intesa

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appunto come fredda capacità di fronteggiare il destino e di irrigidirsi, senza cedimenti, per adeguarsi virihnente alla rigidità del progresso. lnconsapevohnente, il principio della stilizzazione, il livellamento del linguaggio, è il ten­ tativo suicida dell'arte di adeguarsi a sua volta allo spi­ rito dell'efficienza. Ma l'arte prospera, al contrario, nel clima della frantumazione, in cui si sensibilizza l'elemen­ to scisso, particolaristico, privato e dunque impotente. La moderna frattura fra arte superiore ed inferiore (in cui fin dall'epoca della rivoluzione industriale si è riflesso este­ ticamente il processo sociale di reificazione e insieme di dissoluzione dei residuati materiali), denuncia appunto la impossibilità oggettiva di quel livellamento che si vuol realizzare nell'opera. L'arte, che aspira pur sempre alla sintesi, non può dunque affermarsi indipendentemente da un principio di rivolta contro le «forme superiori >, così come non può irretirsi nel mito a cui soggiace l'arte con­ servatrice, che nella sfera inferiore vede un fattore primi­ genio, o la natura stessa, da riprendersi nella sua illesa perfezione astorica insieme alle forme tradizionali in cui s'incarnerebbe. Se da un lato la forma, la misura, il gusto, insomma l'autonomia della forma a cui aspira l'arte su­ periore, sono marcate a fuoco dalla colpa di coloro che ne escludono gli altri, dall'altro la sfera inferiore non in­ carna alcunché di primigenio, ma è solo la negativa di una cultura fallita. Ciò vuol dire, naturahnente, che la via del ritorno è preclusa. Attenersi alla tradizione come tale non è meno funesto del tentativo di adeguarsi al «livello>. Il massimo a cui l'arte può pervenire, dopo aver rinunciato alla spietatezza dello stile intatto, equivalente estetico della violenza sociale, è di attirare disperatamente verso di sé ciò che la cultura non accetta, accogliendolo così, misero, ferito, mutilato, come la cultura glielo trasmette. L'opera d'arte, incatenata alla cultura, vorrebbe spezzare la ca42

tena, mostrar pietà verso quei sordidi resti, allargando


fraternamente le braccia, rimescolando i rozzi elementi tratti dalla sfera inferiore come se fossero il lievito di quella superiore, rimobilitando l'energia, la forza seman­ tica, la drasticità ed evidenza di quei poveri detriti del progresso, sicché la sfera inferiore irrompa in quella su­ periore con violenza giacobina, e la tronfia politezza del­ l'idea « media » sia demolita dalla smodata violenza di quei disparati elementi. Occorre scavare la felicità proibita pro­ proprio nella materia degradata, in un movimento di pietà per tutto ciò che si è perduto, ricorrendo persino a quella potenza della volgarità intesa come fattore sociale che può sospingere l'arte al di là dello spirito in quanto ideo­ logia. Per quanto possa esserne incapace, l'impulso segreto dell'arte vuole eliminare la sovrastruttura, accusandosi di questa inanità piuttosto che irridere (magari coi modi iro­ nici e parodistici del neoclassicismo) il mondo delle imma­ gini perdute ed evocato. Nulla proibisce che, una volta distrutta la cultura artistica acquisita, degradatasi a ideo­ logia, sia possibile stratificare con i frammenti e i re­ sidui mnestici una seconda totalità, in cui la forza orga­ nizzativa fa ritornare oggettivamente la cultura contro cui l'arte si ribella senza però distruggerla. L'opera d'arte, insomma, deve oggi ricercare la possibilità di ricostituire una totalità viva dalle macerie del linguaggio reificàto 42, onde aiutare gli uomini a rendersi consci di sé ili quanto natura inibita e della propria operosità in quanto ingan­ nevole storia naturale. Vano è parlare di arte laddove la natura che è nell'uomo non diventa memore di sé, spo­ gliandosi della superstizione relativa all'assoluta diversità di uomo e animale 43• 5 Infine, il concetto di irruzione va integrato con quello di totalità, con il quale il e clima della frantumazione > contrasta solo apparentemente. L'evento, l'impulso isolato,

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non ha valore né significato. Solo saldandosi nella totalità estetica i momenti parziali sono in grado di esercitare la critica nei confronti della totalità incrinata della società. Altrimenti, quelli che si emancipano dalla legge formale non sono più impulsi produttivi che si ribellano alle con­ venzioni, ma, proprio nella misura in cui viene loro sacri­ ficata l'unità estetica, diventano essi stessi elementi che congiurano contro la libertà, mostrandosi di nuovo condi­ scendenti verso l'unità reificata del mondo. La degradazione che i momenti parziali del linguaggio artistico subiscono cadendo in balia dell'alienazione reifi­ cata è descritta da Adorno nel saggio Il carattere di fetic­ cio in musica, dove tutto quel che si dice circa l'abbassa­ mento e l'ottundimento a clichés che i momenti parziali del linguaggio musicale conoscono nei trattamenti correnti, vale analogicamente per tutte le altre arti. Fascino senso­ rio, oggettività, elemento profano, tutti fattori opponentisi in origine produttivamente all'alienazione reificata, fermenti antimitologici di ogni arte oltre che nella musica, impulsi critici verso la vuota oggettività delle forme consolidate, promossi come elementi indipendenti e isolati, perdono quella forza, quella drasticità semantica che acquistavano in rapporto all'unità estetica, in opposizione alle forme con­ venzionali criticamente riprese nell'opera, e insomma so­ spendono la critica per assumere una funzione smor­ zatrice. La grande musica dei secoli XVIII e XIX offre esempi innumerevoli di come siffatti elementi possano entrare nel­ l'arte senza che questa si risolva né in essi, né nelle forme alle quali essi si oppongono. Il fascino sensorio, la stimola­ zione dei sensi, vi entrò ad esempio come porta d'ingresso della dimensione armonica e poi coloristica; la soggetti­ vità, l'individualità sfrenata, come veicolo dell'espressione e dell'umanizzazione della musica stessa; la profanità, la 44 frivolezza, la e superficialità >, come critica della muta og-


gettività delle forme nel senso della haydniana decisione per il « galante » invece che per il « dotto ». In questo modo, la sintesi artistica, oltre che conservare l'unità del­ l'apparenza evitandole di frantumarsi in momenti « gu­ stosi » in senso culinario, manteneva anche, in questa unità e nella relazione dei particolari col tutto che viene prendendo forma, l'immagine di una condizione sociale che era la sola nella quale tutti quei fortunati momenti potevano essere qualcosa di più che semplice apparenza. Ma nella tarda società industriale, i tradizionali fermenti an­ timitologici dell'arte, che già furono veicoli dell'opposizione allo schema autoritario, si riducono a testimoniare l'auto­ rità del successo commerciale. Il piacere dell'attimo e quello della facciata variopinta diventano un pretesto per sgravare il pubblico dal pensiero del tutto. Non che quei momenti isolati siano cattivi di per se stessi: è nell'isola­ mento che essi lo diventano. Da impulsi produttivi si de­ gradano a semplici oggetti della manipolazione del gusto, spogliandosi di quel tratto di insubordinazione che loro ineriva in origine e vincolandosi alla connivenza con tutto ciò che l'attimo isolato è in grado di offrire a un indi­ viduo che è a sua volta isolato e da tempo non è più nemmeno un individuo 44• È il trionfo del principio dell' e effetto >, che si afferma in maniera manifesta, tanto per fare un esempio ac­ cessibile, nell'accentuazione irrelata dell'asp etto materico in pittura e di quello timbrico in musica, perseguita in en­ trambi i casi in funzione di quella stimolazione e gustosa > che Adorno argutamente definisce di tipo culinario. In mu­ sica, particolarmente, questo trasferimento dell'interesse all'allettamento timbrico e al trucco singolo, senza rap­ porti con l'insieme e· con la stessa • melodia », non è certo una rivolta contro la funzione disciplinatrice, e ciò essen­ zialmente perché gli allettamenti appercepiti restano senza resistenza entro lo schema rigido. Ma c'è ancora da ag-

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giungere che le reazioni agli stimoli isolati sono ambiva­ lenti, e ciò che può essere sensorialmente gradevole si rovescia in sensazione di nausea non appena ci si accor­ ge che esso serve solo a truffare il consumatore. La truffa consiste nel fatto che viene offerta sempre la stessa cosa. Anche il più ottuso entusiasta di musica leggera non po­ trà sempre evitare la sensazione familiare al fanciullo ghiotto che esce da una pasticceria. Gli stimoli tendono al loro contrario 45• Ma tutto ciò non riguarda soltanto l'arte commerciale. L'infatuazione per il materiale è ormai da tempo un tratto tipico della stessa arte d'avanguardia, ed essa rivela, in pari tempo, il rilassamento della tensione interiore e quello del­ la forza formatrice. Comune sia ai prodotti dell'industria culturale, sia a quelli dell'arte avanzata, è inoltre la stes­ sa tendenza, di cui si è già parlato, a una crescente razio­ nalizzazione del linguaggio. Ad esempio, per quel che con­ cerne la musica, negli eredi della scuola schi:inberghiana, il materiale compositivo è stato mondato dalle scorie e dai residui del passato, ma resta sempre da chiedersi se questa purificazione da ogni possibile scoria, più che gio­ vare alla musica in sé, non minacci di mettersi al servi­ zio di una mentalità tecnocratica. La razionalizzazione, in altri termini, giova al fatale depotenziamento di un lin­ guaggio che, da ostile al sistema com'era in origine, pro­ prio grazie ad essa si trasforma in suo complice involon. tario. In questo senso l'obsolescenza delle forme artistiche non è mai un semplice effetto dell'uso, ma sempre, al tem­ po stesso, della loro neutralizzazione. Attraverso l'uso si compie la rimozione dell'impulso. È ciò che Adorno af­ ferma quando osserva, delle sonorità usate ancor oggi dai tardi epigoni della scuola di Vienna, che esse sono rima­ ste le stesse; ma il fatto dell'angoscia, che aveva dato vita ai suoi primi istanti (della musica dodecafonica), è stato 46 rimosso. Quell'invecchiamento dell'arte moderna che si ma-


nifesta, al livello delle forme, nel livellamento del materiale e nell'infatuazione per esso, si esprime poi al livello socio­ logico nella nota tolleranza di cui essa è diventata oggetto. L'arte d'avanguardia è ormai ammessa come affare privato di un gruppo di specialisti: pare che sia necessaria alla cultura, non si sa bene perché, e viene lasciata agli esperti. L'infatuazione per il materiale tradisce un fraintendi-. mento radicale del valore di quegli elementi del linguaggio a cui ci si vuole affidare come a momenti isolati. Essi pos­ sono essere, sì, veicoli d'espressione, ma solo in senso mediato. I loro valori particolari sono infatti legati in parte alla relazione con gli elementi tradizionali, in parte alla loro posizione nell'insieme della struttura compositiva che essi contribuivano a modificare. Per amore della loro novità intrinseca, però, le qualità espressive vennero dap­ prima attribuite ai fenomeni isolati, e da ciò deriva una fede superstiziosa in presunti elementi originari che in verità sono prodotti della storia e sono storici nella loro stessa costituzione. La mentalità artistica radicale non si è mai liberata del tutto da questa superstizione, trasfor­ mandosi facilmente in artigianato... Alla base di tutto sta la finzione che il materiale possa parlare da solo, una specie di simbolismo materializzato. Certo che • parla • il materiale: ma solo nei punti focali in cui vien posto nel­ l'opera d'arte. Schonberg è stato grande fin dal primo giorno per questa capacità, e non solo per aver inventato qualche sonorità singola. Invece la sopravvalutazione del materiale, che si mantiene pervicacemente in vita, induce a credere che l'allestimento di materie prime musicali sia né più né meno che musica. Nella razionalizzazione si cela un. pessimo fattore irrazionale, la fiducia cioè che una materia astratta possa avere un significato in se stessa: ed è invece il soggetto che si misconosce in essa, mentre esso solo potrebbe cavarne un senso. Il soggetto 47


è accecato dalla speranza che quelle materie possano sot­ trarlo alla cerchia magica della propria soggettività 46 • Alla fiducia nella facondia intrinseca del materiale se ne unisce un'altra: quella di trovare qualcosa che, simile a zone neutre, a nevi vergini, permettesse una pura im­ mediatezza, libera dalla pressione del soggetto e dalla rei­ ficazione delle sue vestigia in espressione convenzionale. Tale fiducia esprime, da ultimo, quell'allergia oggi molto diffusa per ogni forma di espressione. È tuttavia sbagliato equiparare " espressione » con « romanticismo », come si tende a fare con un'asserzione che dà a quella ripulsa l'apparenza dell'avanguardia modernista. Esorcizzata l'arte dall'espressione in quanto tale, non restano che arazzi di forme in movimento, visto che si è logorato, nell'espres­ sione, il momento trasfiguratore, l'elemento ideologico... Bisognerebbe ridare all'espressione la densità dell'espe­ rienza, come già si era tentato nella fase espressionista, mentre non serve a nulla seguire il culto dell'inumanità invece della parvenza rituale dell'umano. E qui giungia­ mo a sfiorare un motivo antropologico fondamentale. Dal­ l'odierna ostilità per l'espressione, Adorno trae la conclu­ sione che l'angoscia possa aver acquistato un tale predo­ minio nella vita reale da rendere insopportabile la sua immagine... L'angoscia e il dolore sono cresciuti fino al­ l'estremo, e l'anima del singolo non riesce più a soggio­ garli. L'idiosincrasia per l'espressione - che è tutt'uno col dolore - nasconde questo desiderio di allontanamento, e non l'aspetto positivo di una condizione, ritenuta supe­ riore, di pudore e autodominio. L'attuale paralisi delle for­ .ze artistiche rispecchia pertanto la paralisi di qualunque iniziativa libera in un mondo amministrato che nulla tol­ lera al difuori di sé a meno di integrarlo come fenomeno di opposizione autorizzata 47• Lo stesso individuo, anche e soprattutto in quanto soggetto-artefice, diventa oggetto pas48 sivo di questa integrazione che ribadisce la sua dipendenza.


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PIERO GILARDI - Rotolo e Greto di torrente •


La differenziazione casuale di dettagli e sfumature irrile­ vanti nell'ambito della produzione artistica razionalizzata finisce per liquidare definitivamente quell'individualità che il mercato deve fingere di promuovere nel momento stesso in cui la neutralizza, occultando l'uguaglianza a cui mette capo la manipolazione del gusto con l'esibizione di tratti differenziali esteriori fra un autore e l'altro, cui si accom­ pagna il culto feticistico della falsa individualità 48 • In que­ sta stretta l'arte vuole infine tentare di salvarsi con quella goffa mimesi di procedimenti scientifici che sembra oggi sedurla; ma il tentativo equivale a un suicidio, poiché se ci si scorda che l'arte, oggi come ieri, occupa una zona sepa­ rata da quella dei nessi d'interazione pratica, sì che non può essere partecipe di questo aspetto della tecnica, al­ lora essa diventa un'altra cosa ancora, né arte né tecnica, qualcosa di peggiore, esteticamente vuoto e impotente in realtà: un prodotto dilettantesco e tecnicistico pieno di pretese. Il disperato miraggio dell'arte di potersi salvare in un mondo così disincantato adeguandosi in tutto alla scienza, diventa una grave calamità: è un gesto che in psicologia viene chiamato • identificazione con l'aggres­ sore... • '9• Si torna così alla dialettica di mito e scienza, lavoro e dominio, dove la scienza diventa mito e l'arte, opponendosi al mito scientista, si rovescia in conoscenza migliore della scienza; opponendosi alla falsa unità della totalità incrinata del mondo, accoglie in se stessa il compito storico di delineare la verità e la salvezza; ma dove essa può anche, nel proprio isolamento che l'acceca, subordinarsi a un principio che le è ostile da sempre nella infelice mi­ mesi non già della vita, ma delle procedure e delle tec­ niche di quella scienza che si è sviluppata non per la co­ noscenza della vita, ma per il suo semplice e uso >. Ciò non può non irritare una cultura avvezza a distinzioni ri­ gide, al pensiero lubrificato che agogna gli incasellamenti

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e le partizioni coatte per meglio amministrare lo spirito scisso e diviso in settori. Che ha a che fare l'arte con l'Aufklèirnng? Ma l'interrogativo, che mira a separarla dal processo dell'illuminismo, quasi fosse una riserva na­ turale di immutabile umanità e confortevole immediatezza, tende perciò stesso a perpetuare la separazione barbaro­ borghese di intelletto e sensibilità �0• a cura di RuGGIERO GuARINI

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1 TH. W. ADORNO, Wagner, Mahler: due studi, Einaudi, Torino, 1966, pp. 140-143. ' TH. W. ADORNO, Kierkegaard - La costruzione dell'estetico, Lon­ ganesi, Milano, 1962, pp. 21-22. ' L. RosIELLo, Stilistica e strutturalismo linguistico, in e Sigma :t, n. 9. ' TH. W. ADoRNo, Sulla metacritica della gnoseologia, Sugar, Milano, 1964, pp. 53-55. • ibidem, pp. 11-13. • ibidem, pp. 53-55. 1 Cfr. V. ScHELLING, Primo abbozzo di un sistema di filosofia della natura, cit. in M. HoRKHEIMER, TH. ADORNO, Dialettica dell'illuminismo, Einaudi, Torino, 1966, p. 27. • M. HoRKHEIMER, TH. W. ADoRNo, Dialettica dell'illuminismo, cit., p. 259. ' TH. W. ADORNO, Sulla metacritica della gnoseologia, cit., p. 52. •• V. SCHELLING, op. cit. 11 TH. W. ADORNO, Sulla metacritica della gnoseologia, cit., p. 51. 11 M. HoRKHEIMER, TH. W. ADoRNo, .Dialettica. dell'illuminismo, cit., p. 26. " TH. W. ADORNO, Su.Ila metacritica della gnoseologia., cit., p. 52. 14 C. LÉVI-STRAUSS, li pensiero selvaggio, Il Saggiatore, Milano, 1964, p. 268. "ibidem, p. 269. " ibidem, pp. 269-27 0. 11 C. LÉVI-STRAuss, Antropologia strutturale, Il Saggiatore, Mi­ lano, 1966, pp. 74-75. 11 M. HollKHEIKER, TB. W. ADoRNO, Dialettica dell'iltuminismo, cit., pp. 11-13. " ibidem, pp. 13-16. 20 ibidem, pp. 13-20. 21 ibidem, pp. 20-24. n ibidem, pp. 17-25. " ibidem. p. 26. " ibidem, p. 22. 25 Cfr. H. MARCUSE, Eros e civiltà, Einaudi, Torino, 196 . 4 20 M. HollKHEIMER, TB. W. ADoRNo, Dialettica dell'illuminism o, cit., ;f· 27. Cfr. V. SCBELLING, op. cit. :u M. HORKHETMEB, TH. W. ADoRNo, .Dialettica dell'illuminismo, cit., p. 40-43.


" Cfr. AL01s Rn:GL, Problemi di stile, Milano, 1963. ,. A. HAusER, Storia sociale dell'arte, Einaudi, Torino, 1964, vol. I, pp. 25-29. 11 LÉVI -STRAUSS, Il pensiero selvaggio, cit., p. 35. n ibidem, p. 39. " ibidem, p. 39. ,. Sul carattere di duplicato ideologico dei prodotti tecnologici nella tarda società industriale, cfr. in particolare il capitolo e Ideologia> nelle Lezioni di sociologia a cura di M. HORKHEIMER e TH. W. ADORNO, Einaudi, Torino, 1966, pp. 205-226. " A. HAusER, op. cit., vol. I, pp. 31-45. 16 M. HoRKHEIMER, TH. W. ADORNO, Dialettica dell'illuminismo, pp. 137-142. 17 ibidem, pp. 137-142. n Una vistosa conferma di questa tendenza dello strutturalismo a destorificare il dinamismo culturale si ha in R. BARTHES, Saggi cri­ tici, Einaudi, Torino, 1966, p. 202, dove si propone di estendere i metodi usati da Kroeber per lo studio della rotazione delle forme della moda allo studio della rotazione delle forme letterarie e ar­ tistiche. 19 HEGEL, La scienza della logica, Il, Bari, 1925, p. 97. '° TH. W. ADORNO, Wagner, Mahler: due studi, cit., pp. 141-152. " ibidem, pp. 150-158. " ibidem, pp. 144-173. " ibidem, p. 144. " TH. W. ADORNO, Dissonanze, Feltrinelli, Milano, 1969, pp. 11-14. ,s ibidem, pp. 37-38. " ibidem, pp. 157-170. 47 ibidem, pp. 170-185. " ibidem, p. 22. " ibidem, pp. 170-185. '° ibidem, p. 174.

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Quattro artisti scelti da Barilli

La richiesta avanzatami dalla redazione di « Op cit > di far « precipitare > l'attuale fase artistica in non più di quattro nomi corrisponde ovviamente al proverbiale letto di Procuste, a una violenta forzatura da imporre a una real­ tà complessa e sfumata. Potrò tuttavia assoggettarmici, a patto di premettere subito che i nomi che farò non intendono rispondere a un criterio di merito assoluto, di valore già rag­ giunto e consacrato, ma indicare piuttosto, in misura certo esemplare, altrettante direzioni di ricerca. Direzioni di­ stinte fra loro, non proprio convergenti, che d'altronde non appariranno neppure, all'estremo opposto, sparpagliate e disperse verso tutti i punti dell'orizzonte, giacché si mostrerà un progetto di fondo comune a tutte, ravvisabile questo nel proposito di esplorare i vari lati e aspetti e problemi della presenza, dell'istanza dell'oggetto nella cultura e nella sen­ sibilità di oggi. Una scelta di fondo, dunque, a favore di un'area, di un campo di ricerche oggettuali, salvo poi a tentare di diramare le diverse linee di forza secondo le quali un simile progetto si articola. Quanto poi alle giustificazioni profonde da dare a tale scelta pregiudiziale, e all'opportunità di sottrarla al sospetto di essere appena un atto di acquie­ scenza alla moda, basterà dire che mi sembra .di scorgere, in 52

tutta la fase attuale, lo sviluppo di un progetto profondo,


di una specie di logica sotterranea rivolta, a partire dai nostri anni '40 e '50, a saggiare l'enorme incombere della materialità, sulla nostra cultura e sulla nostra esistenza. A un primo tempo di materia informe, allo stato di groviglio e di tessuto, ecco succederne un secondo di materia lavo­ rata e formata, spartita in individui ed elementi discreti, ma sempre « altra > e resistente rispetto ai puri strumenti umani, anche se questi ora possono nutrire l'illusione di immerger­ visi per lungo tratto, e quindi di dominarla e regolarla. L'oggetto, dunque, variamente accostato e manipolato; e appunto la casistica di questo variare nei gradi di approccio e di manipolazione ci offrirà quasi da sé una breve mappa delle possibili vie di ricerca. Si inizia con un· approccio di grado zero, di ossessiva precisione e lucidità, mosso dal pro­ posito di rifare le cose tali e quali, secondo la piena illuso­ rietà del trompe-l'oeil. Ed ecco allora che, in tal senso, si distingue oggi su tutti il torinese Piero Gilardi, il più corag­ gioso e coerente nel battere questa strada. I nuovi materiali sintetici offerti dallo straordinario sviluppo della chimica gli consentono di costituire una sorta di e doppio>, di si­ mulacro fedele di ogni aspetto e avvenimento di natura: prati, sassi, vegetali. La forma, la pelle, la veste cromatica delle cose, tutto rifatto con sorprendente mimesi, ma con la consapevolezza che anche l'imitazione più oltranzistica non potrà in realtà ritrovare le cose in se stesse, ma anzi porterà a constatare l'immancabile aprirsi di un divario, ove potrà installarsi l'atto conoscitivo e affettivo dell'uomo: la natura tanto fedelmente riprodotta da Gilardi viene in effetti ad acquistare un peso di stupefazione, di meraviglia, a volte perfino di orrore, quale ovviamente ricercheremmo invano nella natura dispersiva e amorfa che fa spreco di sé in ogni ora del giorno. Con Valerio Adami, la distanza dalle cose aumenta già di molti gradi: piuttosto che gettarsi a rifarle in trompe-l'oeil, egli sembra accettare la mediazione dei normali moduli rap-

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presentativi atti a riportarle su una superficie piana: il disegno, la sagomatura essenziale, perfino. la prospettiva. L'abbraccio si fa così più largo e avvolgente; non più la verifica del puro esistere, hic et nunc, della singola cosa esi­ stenziale, o del suo accumularsi in fitta colonia con altri in­ dividui contigui; ma una situazione globale, ricca di varie connessioni sintattiche. E tuttavia, anche qui, una pur evi­ dente e operante strumentalità umana è attenta a non ce­ lebrare troppo orgogliosamente i suoi fasti, e anzi non tarda a castigarsi da sé: quella prospettiva, quel disegno, non sono più gli istituti privilegiati dell'esercizio di un'arte e bella >, le prerogative di un contemplare e di un conoscere di tipo superiore. Adami al contrario mostra di prelevarle non già da una tradizione consacrata, bensì dai luoghi ove esse si esercitano nel modo più banale e standardizzato: dalle foto dei giornali e dei rotocalchi, ove l'organizzazione spaziale e prospettica non è nulla più che un dato oggettivo e mate­ riale. E tuttavia, nel ripercorrere quelle piste ottiche obbli­ gatorie, quei canali visivi precostituiti, l'artista inserisce a un tratto qualche scarto, compie qualche e errore >, qualche interferenza; ed è l'inizio di un riscatto di tutta la visione sul piano del valore e dell'autenticità. Vacchi, in tal senso, opera più scopertamente: giacché, ad elementi di cronoca quotidiana, affianca a un tratto ele­ menti tratti da un repertorio storico, da un e museo imma­ ginario>, da un atlante di forme sacre e ieratiche. Ne viene un contrasto violento, dal forte attrito, non senza però che prenda inizio un processo di omogeneizzazione tra i due mo­ menti disparati posti a contatto: le immagini storiche e antiche si volgarizzano come se fossero raggiunte anch'esse

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attraverso la mediazione dei rotocalchi; e d'altra parte gli elementi quotidiani, per la stessa vicinanza dei loro illustri confratelli, si caricano anch'essi di valori emblematici, si elevano a proporzioni mitiche. Col giovane Nespolo, infine, sembra di essere in un


ambito di pura artificialità, ove, accantonato ogni proposito mimetico, l'intelligenza gioca una partita a nudo, dandosi a violente operazioni e manipolazioni:

smembramenti di

immagini, ritagli di parti e loro dislocazioni, combinazioni libere e ingegnose. Più nessuna traccia di un ordine natu­ rale, ma, appunto, l'istituzione compiaciuta e ostentatà di un ambito di puro artificio. Eppure, anche qui, l'intelligenza non è mai sola con se stessa e con le sue forme, col suo patrimonio di schemi ordinatori: occorre pur sempre che la sua macchina estrosa sia messa in moto dallo stimolo di un nucleo opaco, di un centro di resistenza, di un dato e di una nozione materiale: si tratti di una nozione comune e ancora naturale come quella dell'albero e della casa, o di una nozione fabbricata,

ma

ormai anch'essa indurita e

opacizzata, come quella di un segno pubblicitario, di una marca, di un'etichetta commerciale. La sfera dell'oggettua­ lità si allarga, pronta a comprendere in sé tutti i manufatti umani; ma questi discendono presto allo stato di materia pe­ sante e vincolante. RENATO BARILLI

5!


Filosofia della cultura, esteti ca e critica: alcuni problemi ELISEO VIVAS

1

Non esiste alcuna teoria della critica che sia assoluta­ mente corretta, di fronte alla quale tutte le altre sono er­ rate; non è, perciò, possibile fare un genere di commenti pratici assolutamente giusto intorno ad un lavoro di let­ teratura immaginativa o - come la definirò in questo ar­ ticolo quando sia appropriato - di poesia. Le ragioni di que­ sto fatto sono molte. Una, forse la più ovvia, è che le parole hanno. un coefficiente di elasticità quasi illimitato. Nessuna scuola o accademia, nessuno zar letterario, del tipo che così frequentemente prende il comando nella nostra libera nazione, nessun e duro > nel senso del termine in uso a Cicero (Illinois) 1, nemmeno il Compagno Aleksander Boro­ sovich Chakovsky, editore della Literaturna.ya Gazetka e 56

principale cane da guardia e e purificatore > del realismo socialista, potrebbero con suècesso congelare l'accezione di


un termine. Finché la parola e critica > rimarrà così ostina­ tamente polisemica come lo è oggi, essa può essere legitti­ mamente usata per un nwnero indeterminatamente vasto di tipi diversi e persino mutualmente escludentisi di com­ mento, che sono provocati da un poema. Un'altra ragione per cui non ci può essere una teoria del­ la critica assolutamente corretta è che, per il grado in cui un poema è complesso, esso rivela - nel senso etimologico di questo termine - o presenta un'organizzazione di diversi valori e significati e nessuno di questi, se il poema è un'or­ ganizzazione genuina e non una costruzione meccanica, può o dovrebbe esercitare una supremazia di controllo sul resto. Per­ tanto un poeta, per quanto ben organizzato sia il suo poema, non può sperare di controllare la risposta del lettore in una maniera rigidamente non ambigua. Il suo poema provoca, se ben fatto, un tipo o gruppo di risposte in una classe di let­ tori - l'esigua classe che sa come leggere una poesia; ma non può provocare un'identica risposta da tutti i suoi lettori. Un'altra ragione è che il poema è un oggetto che richiede interpretazione, ma, data la diversità degli interessi, alcuni inconsci, con cui i lettori si accostano ad un poema qual­ siasi, non è possibile aspettarsi un'esatta congruenza fra le varie interpretazioni. Una persona non può leggere un poe­ ma senza impegnarvi la propria mente o, per dirla differen­ temente, sono le menti che leggono. Ora, una mente è, o contiene, una serie più o meno ben integrata di valori e si­ gnificati con i loro corrispondenti interessi; e questi, presi tutti insieme, controllano quali valori e significati si ritro­ vano nel poema. Poiché non vi sono due menti simili, non ci si può aspet­ tare che due letture dello stesso poema siano simili. Per queste e, senza dubbio, per altre ragioni, un lettore risponderà agli aspetti socio-politici della sostanza formata del poema, mentre un altro a quelli religiosi, un terzo a quelli morali e ancora un quarto a quegli aspetti della presenta-

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zione che, in mancanza di un termine migliore, devo chia­ mare « estetici>. Poiché un poema può contenere, come una organizzazione complessa, tutti questi tipi di valori e signi­ ficati, la relazione tra un dato lettore e un dato poema è, e non può non essere, una transazione, una trans-azione o azio­ ne a due vie, in cui ciascuno dei due termini del complesso re­ lazionale, lettore in relazione a poema, determina la specificità dell'altro: il lettore risponde al poema e quindi il poema determina la risposta, ma è il lettore che determina quello che il poema è p�r lui. Sarebbe auspicabile il caso in cui il poema' condizioni il lettore. Troppi lettori non sono capaci di imparare a leggere un poema e_ fanno poco più che leggerlo materialmente. Ma sia ciò auspicabile o meno, sarebbe del tutto impossibile per un poema condizionare la mente di un lettore. Per quanto sottomessa, per quanto oggettiva sia, la mente di un lettore è, o è composta, di valori e significati e dei loro corrispon­ denti interessi, e questi sono i mezzi usati per interpretare la sostanza informata del poema. Queste sono alcune delle importanti ragioni che ci fanno dire che i poemi sono intrinsecamente, radicalmente, indistrut­ tibilmente ambigui. Ciò vale non solo per la poesia, ma per tutte le opere d'arte; in verità io penso che ciò valga per tutte le presentazioni o rivelazioni, per tutti i cosiddetti « fatti > che si presentano ad una mente. Ma il riconoscimento del­ l'ambiguità di un poema preclude l'assunto - caro alla men­ te dogmatica - che c'è una sola teoria della critica assoluta­ mente giusta e, di conseguenza, una sola serie di commenti pratici, che possono essere fatti sui di una opera d'arte, as­ solutamente giusta.

2 Le precedenti considerazioni possono essere condensate in 58

una formula appropriata: gli strumenti sono, entro certi li-


miti, neutri. I limiti non possono essere definiti analiticamen­ te; essi debbono essere ricavati empiricamente, perché dipen­ dono, fino ad un certo punto, dai materiali con cui lo stru­ mento

è fatto, dalla sua costruzione . e dall'abilità impiegata è progettato. Ma almeno il fine

in essa, dai fini per cui esso non

è pienamente sotto il controllo dell'artefice. Esso dipen­

de in parte dalle ingegnosità di colui che lo usa. Diciamo per esempio, che la funzione di un martello sia quella di piantare chiodi. Questo

è lo scopo per cui fu fatto in ori­

gine e questa funzione determina i suoi materiali, acciaio e legno, la forma della testa e del manico e il modo in cui l'uno si adatta all'altra. Ma un martello può essere usato per molti altri scopi, oltre che per piantare chiodi. Altrettanto si può dire per un poema. Dire che il poema

è uno strumento

non è togliere forza ad esso, poiché è una cosa fatta dall'uomo e adempie molte funzioni. Ma in quanto strumento, un poe­ ma

è funzionalmente neutro, entro limiti indeterminati. Io credo che, tra i molti fini cui un poema può servire,

possiamo sceglierne uno come fine primario. E alla domanda di che cosa s'intenda per sua funzione

è facile è una delle questioni

primaria e di come esso serva quella funzione non rispondere. Invero sosterrei che questa

centrali e forse una delle più difficili dell'estetica. Ma un poema abbia o meno una funzione che possa essere chia­ mata primaria, esso ha comunque altre funzioni e solo forze esterne possono negarle o possono impedire al poema di as­ solverle. Un cane da guardia letterario sovietico, un inqui­ sitore, un qualunque gruppo di censura ben organizzato o uno zar letterario, del tipo che così frequentemente fiorisce nella nostra relativamente libera società, possono interdire que­ sta o quella funzione. Ma, eliminate le pressioni esterne, que­ ste funzioni represse divengono subito operanti e cercano di soddisfare quelle necessità che prima non osavano manife­ starsi. Se questo

è il caso, come possiamo far fronte alla critica

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di chi fa notare che questo punto di vista è una malcelata forma di relativismo, secondo la quale un poema è quello che ognuno decide che sia e che la critica è, quindi, tutto quello che ciascuno può aver voglia di dire a proposito di un brano scritto che egli prende per poema? Per aver ragione di questa critica con un minimo di speranza di successo, dobbiamo affrontare una serie di pro­ blemi che sono stati poco trattati dai filosofi americani ·e che io chiamerò, per mancanza di un termine universalmente accettato, e filosofia della cultura >. Il compito di questa attività è di analizzare i vari modi d'esperienza umana e di arrivare a definizioni sulla base delle quali si possa intra­ prendere una critica generale della cultura e delle attività che la compongono. Ovviamente a questo compito si dovrebbe dedicare un intero libro. Tutto quello che io posso tentare qui è un abbozzo frettoloso dei pochi ed incompleti risultati ai quali io sono già arrivato. Ma devo far precedere al resoconto di questi risultati un'osservazione metodologica. Quello che è necessario, in effetti, è un'analisi comprensiva dei modi di esperienza, quali noi vediamo che costituiscono le diverse culture che ci sono familiari, culture di ogni grado di com­ plessità e di vitalità. Ma tale analisi deve essere sostanziale e deve essere condotta da esperti, da storici che siano esperti di scienze sociali o, viceversa, da esperti di scienze sociali che siano storici. Però l'analisi può essere intrapresa sola­ mente con l'aiuto di definizioni o modelli concettuali - cre­ do che sia oggi di moda chiamarli così - dei modi di espe­ rienza che si è scoperto costituiscono la cultura. È a questo punto cruciale dello studio che il filosofo, come tale, sostiene un ruolo importante. È .suo compito, tenendo d'occhio le ri. cerche sostanziali, creare delle classificazioni e delle defini­ zioni concettuali che si riferiscono non alle effettive espe60 rienze, come le si trova nelle culture, ma ai modi o alle


specie di esperienza concepita, ognuno dei quali sia autono­ mo e libero dalla contaminazione di altri modi di esperienza. Ovviamente i modi di esperienza che, interrelazionati, formano la cultura, non si trovano mai così schematizzati e· così isolati l'uno dall'altro da offrirsi all'osservazione allo stato puro. Che una cultura sia estremamente semplice o complessa, relativamente statica o dinamica, drasticamente fratturata da processi di specializzazione di funzioni o di burocratizzazione o di alienazione, o sia invece relativa­ mente ben integrata, i modi di esperienza realmente osser­ vabili che la costituiscono si animano scambievolmente, si interpretano, si influenzano o determinano mutuamente e sono, infatti, più o meno le componenti dei differenti modi che il filosofo della cultura distingue e definisce concettual­ mente. In realtà non esiste qualcosa che sia una pura esperienza, non c'è mai stata e non ci sarà mai, sebbene alcune espe­ rienze si avvicinino asintoticamente a questa condizione. Ma noi dobbiamo sforzarci di definire che cosa sia un'espe­ rienza morale, religiosa, conoscitiva o estetica, se vogliamo essere in grado di riconoscere degli esempi reali, quando li incontriamo. Senza una qualche nozione che ci metta in grado di isolare nel pensiero ciò che caratterizza in un senso o nell'altro un'esperienza più o meno complessa, noi non potremo mai sperare di comprendere i vari modi e le loro _ effettive relazioni, nelle diverse effettive culture. Partiamo dall'assunto che abbiamo fatto il lavoro ri­ chiesto. Ciò che io ho fatto in questa direzione può essere ritrovato nelle poche pagine del primo saggio del mio ultimo libro, The Artistic Transaction. In quelle pagine sostengo che la cultura è fatta di quattro distinti modi di espe­ rienza e mi sforzo di distinguere, in maniera sommaria, ognuna di esse. Dato che è il modo estetico che qui ci in­ teressa, posso riassumere quello che ritengo sia il suo tratto distintivo. L'esperienza estetica è l'esperienza di una pro-

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fonda attenzione intransitiva su di un oggetto che; a causa della sua organizzazione, attira e trattiene l'attenzione su di sé. Poiché ciascuno dei modi distintivi di esperienza è il prodotto .di un'operazione di riordino intellettuale, si ritro­ verà che nessuna risposta umana, in realtà, può essere net­ tamente classificata, con un perfetto incastro, in uno di . questi modi. I nostri schemi di classificazione delle attività culturali non sono mai completamente adeguati o esatta­ mente congruenti con la confusa realtà dell'esistenza uma­ na. Non si può mai mettere abbastanza in evidenza il fatto che l'esperienza nella cultura (e la frase è natural­ mente pleonastica) è impura oppure mista e fluida. I modi di esperienza, di cui parla il filosofo della cultura e che egli trova indispensabili per una presa di possesso intel­ lettuale, e le critiche di esperienza, così come la s'incontra, sono degli strumenti concettuali. In realtà, l'attività cono­ scitiva, per esempio, che è definita in parte come essen­ zialmente transitiva, cerca, come suo godimento, una vi­ sione dell'oggetto conosciuto che non possa essere distinta dalla contemplazione estetica. Questo, almeno, è quello che alcuni filosofi sembrano aver cercato: vengono immediata­ mente alla mente Platone e Spinoza. Questi filosofi cerca­ rono e apparentemente raggiunsero il godimento che deriva dalla contemplazione dell'oggetto per se stesso; questo godimento è disprezzato dagli strumentalisti e dai posi­ tivisti, il cui concetto di conoscenza è quello di una ricerca senza fine e senza tregua, in cui ogni risultato raggiunto è semplicemente uno stadio per la prossima ricerca e in cui non c' è posto per una visione intran­ sitiva. Ma questi uomini devono smentire quello che di­ cono su ciò che accade, quando cercano di conoscere un oggetto. Perché, almeno qualche volta, essi devono indu­ giare per pochi secondi nella contemplazione degli oggetti 62 che si sforzano di conoscere in loro stessi.


È possibile (posso parlare di questo argomenti solo per sentito dire) che il. godimento dell'esperienza mistica sia una visione accecante che deve essere classificata co­ me estetica nella mia classificazione di modi di espe­ rienza. Né può esservi una qualsiasi ragione per obiet­ tare alla fluidità dell'esperienza ed alle sue manifesta­ zioni proteiformi. O piuttosto, una ragione c'è: l'esigenza aprioristica che l'analisi concettuale eseguita dal filosofo della cultura debba scoprire modi reali di esperienza che siano identici ognuno a se stesso, e separati, ciascuno dagli altri, come ciottoli sparsi in una pianura. Tale maniera mec­ canica o, se posso permettermi l'espressione, litica di guar­ dare all'attività umana raggiunge una pseudo chiarezza, perché ignora il dinamismo, la fluidità, l'instabilità, l'inco­ stante rapidità - e, se io fossi un marxista, direi il carat­ tere dialettico - degli uomini di cultura. I modi di atti­ vità che noi esaminiamo sono distinguibili l'uno dall'altro. Ma dobbiamo essere preparati ad accettare il fatto - se la ricerca scopre che ce n'è uno - che essi rassomigliano alle nuvole di Amleto e non ai ciottoli ripuliti dall'aria e dall'acqua in una morena terminale. Invero uno dei van-. taggi distintivi dell'analisi dei modi di esperienza è che essa ci dà un comprensione moderatrice delle fluidità della reale esperienza e, da una tale comprensione, deriva il ren­ dersi conto del fatto che i nostri schemi categorici sono dei rifugi insicuri nella tempesta della storia. C'è da notare che non ho detto, in quanto precede, che l'organizzazione dell'oggetto estetico è un'organizzazione puramente formale. Una tale affermazione legherebbe l'ar­ tefice ad un formalismo assolutamente inammissibile, almeno in poesia. L'oggetto estetico è un organizzazione di so­ stanza formata; e la sostanza deriva dalla materia dell'espe­ rienza: dai valori e significati che il poeta ha incontrato nella sua esperienza precreativa. Neppure Clive Beli po­ trebbe trascurare il fatto che l'oggetto estetico è un'oggetto 63


che racchiude un significato. La sua formula mette in evi­ denza la forma, ma la sua forma era significante, e parlare della significanza della forma è parlare della forma che è in qualche modo sostanziata. Mentre forma e sostanza pos­ sono essere distinte l'una dall'altra, esse non possono es­ sere concepite come separate l'una dall'altra. Questo è un concetto molto, molto vecchio: o almeno dovrebbe esserlo. Ma è invece un punto spesso trascurato o male interpre­ tato da quelli che respingono la dottrina estetica che viene qui accettata. Una difficoltà che ha un aspetto, sia linguistico che sostanziale, impedisce la nostra comprensione della natura delle definizioni concettuali cercate dalla filosofia della cul­ tura e la comprensione del modo in cui esse possono es­ sere usate. Questi due aspetti devono essere trattati si­ multaneamente sebbene quello linguistico abbia logicamen­ te la precedenza. Noi dobbiamo, in primo luogo, distin­ guere le attività che formano la cultura; ma la distinzione non può essere ottenuta in assenza di una classificazione. Fatte le distinzioni e classificatele, noi le applichiamo alle esperienze reali ed agli oggetti che provocano queste espe­ rienze reali. Nè dobbiamo intendere per e oggetto> qualcosa di solido o identico a se stesso, qualcosa di discreto e differenziato come una pietra. Nell'applicazione delle definizioni con­ cettuali su cui stiamo lavorando, troviamo che un dato og­ getto, O,, funziona come stimolo per un tipo di risposta, che abbiamo classificato estetica, con successo maggiore o minore di un altro oggetto, O, - ma sempre rispetto ad un dato soggetto o classe di soggetti. Non è molto impor­ tante che cosa noi classifichiamo, l'attività· o l'oggetto che la provoca. Si potrebbero inventare dei termini nuovi per queste esperienze e per i loro oggetti, oppure rifarsi a termini in uso comune, dopo aver specificato con cura 64

come essi debbano essere usati. Ambedue le scelte com-



UGO NESPOLO -

Questo è il gatto con gli stivali


portano difficoltà intrinseche. Quello che è importante è, in primo luogo, che noi fissiamo

il significato del termine

che abbiamo scelto e, in secondo luogo, che noi teniamo d'occhio il modo in cui un'esperienza, che abbiamo chia­ mato, per esempio e conoscitiva >, può trasformarsi in una che abbiamo chiamata e estetica >. Il cambiamento avviene perché, mentre ci applichiamo all'oggetto nel modo cono­ scitivo, esso attira la nostra attenzione, la trattiene su di sè e ci costringe a guardarlo in maniera intransitiva. Que­ sto vale per tutti i modi che possiamo distinguere, e non semplicemente per quello estetico. Non è il fallimento della nostra logica o la confusione delle nostre menti, ma la sot­ tomissione alla fluidità dei fatti, che assumono l'uno o l'altro carattere dominante, che ci porta a riconoscere la loro natura proteiforme. Prendiamo un gruppo di esseri umani che vivono in un modo più o meno organizzato. Essi vivono così perché hanno in comune un corpo di valori e significati e anco­ rato > ad istituzioni, che danno al gruppo una certa coe­ sione e che lo mettono in grado di trasmettere questi valori e significati comuni da w:ia generazione all'altra. Chia­ miamo

il tutto e una cultura >. Si troverà che, per quanto

i valori, i significati e le istituzioni e ancoranti > siano di­ versi da una cultura all'altra, possiamo distinguere nelle culture, prese separatamente, quattro modi distintivi di esperienza, uno dei quali è stato da me chiamato e estetico >. Un empirico genuino porge l'orecchio ai rumori reali del processo che egli cerca di comprendere, guarda con attenzione quello che sta accadendo. Ciò che scopre, in contrasto con quello che gli piacerebbe di scoprire, è che

il processo sotto osservazione non corrisponde mai alle sue definizioni. Questo avviene, ahimé, perché i modi dell'espe­ rienza umana, come in realtà si trovano nella cultura, non sono congelati, nè sistemati da un filosofo, ma indicibil­ mente confusi e fluidi, . mentre le definizioni e le teorie

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devono avere un minimo di ordine e di rigidezza se vogliono adempire le loro . funzioni. In una discriminazione com­ prensiva dei modi di attività che formano la cultura, noi possiamo esaminare un oggetto e decidere in maniera più o meno soddisfacente se esso funzioni in un modo o nel- · l'altro. Si tratta, naturalmente, di una questione di domi­ nanza. In ogni caso, la decisione è basata su concezioni o definizioni delle classi di oggetti che sono state trovate nella cultura. E le decisioni sono naturalmente relative alle definizioni, esattamente come le definizioni sono concet­ tualizzazioni che si riferiscono ai modi e ai loro oggetti. Lasciatemi soffermare su di un punto che, per espe­ rienza precedente, so che viene facilmente frainteso. Men­ tre nessùn poema funziona esclusivamente come poesia e mentre non si può trovare nessun poema che sia poesia pura e nient'altro, fare commenti su di un oggetto consi­ derato come estetico non è lo stesso che fare commenti sullo stesso oggetto considerato come qualcos'altro, come oggetto sociologico, o psicologico o storico o · di un qual­ siasi altro tipo. Vivendo, come facciamo, in una società in cui i burocrati non hanno ancora ottenuto il controllo completo delle nostre vite, nessuno può per ora impedire ad un'altra persona di fare ogni tipo di commento che desidera su di un oggetto che lo interessa. Una persona che è intellettualmente responsabile cerca di sapere chiaramen­ te che cosa sta facendo, non vuole essere in errore circa la natura della sua attività. Sulla base delle precedenti considerazioni, siamo in grado di trarre delle importanti conclusioni: gran parte di ciò che noi accettiamo come critica letteraria non è critica di letteratura, non è critica di poesia; gran parte di essa consiste in commenti sui poemi, considerati non come og­ getti estetici, ma come documenti sociali, politici, storici, morali o teologici; in breve come tutto, meno che come 66

poemi. Alcuni dei commenti che vengono considerati come


critica letteraria non sono stupidi o privi di interesse: essi sono spesso i prodotti di menti intelligenti e molto spesso costituiscono interessanti letture. Infatti preferisco leggere il sociologizzare di certi soi-disant critici letterari alle trivialità del solito branco di sociologi metodolatri.

Ma

ci sono due

obiezioni serie da fare ad un critico che non considera una poesia seriamente come una poesia. La prima è che i suoi commenti sono basati sulla mancanza di una chiara com­ prensione dell'intenzione e della natura dei· suoi propri interessi. Se la chiarezza è una virtù dell'intelletto e la confusione un vizio, i suoi commenti hanno un vizio d'ori­ gine. Questa mancanza porta ad un'altra a mio parere mol­ to più seria : viene trascurato il ruolo che la poesia so­ stiene, in quanto poesia, nella vita umana. Questo ruolo è indispensabile perché non c'è nulla che lo sostituisce. La mia illustrazione favorita di questa specie di con­ fusione è l'asserzione fatta, a proposito di D. H. Lawrence, da quel furioso energumeno che è il critico nifadofago 2 F.

R. Leavis. Io la preferisco perché è una confusione di

cui si è compiaciuto un uomo di grande reputazione, del tutto meritata, basata su un contributo alla letteratura in­ glese nella nostra generazione, che è tanto importante quan­ to invadente. Leavis ha sostenuto che Lawrence fu un gran­ de storico sociale. Nel fare questa affermazione, Leavis ha in mente Lawrence il romanziere. Ma si può mai seria­ mente sostenere che un romanziere nei suoi romanzi possa essere uno storico sociale? È vero che, sia il romanziere che lo storico raccontano una storia ed è anche vero che, nel raccontare la sua storia,

lo storico, non meno del ro­

manziere, deve usare l'immaginazione creativa. Ma qui fi­ nisce l'analogia, perché la storia dello storico è, o dovrebbe essere, controllata con sicurezza dai fatti. occupa di fatti provati;

la

Lo storico si

sua storia riguarda eventi che

egli sostiene essere accaduti. Non mi consta che Lawrence, il cui disprezzo per i

67


fatti provati è noto a chiunque conosca qualcosa di lui, abbia manifestato segni della preoccupazione dello storico, nello scrivere Figli e amanti. Preso come storia, Figli e amanti è un ammasso di bugie crudeli; come romanzo, le bugie sono irrilevanti. È da notare che ho scelto Figli e amanti perché, fra i romanzi di Lawrence è quello più vicino ad una autobiografia. Gli altri suoi romanzi contengono, senza dubbio, molto mate­ riale autobiografico e accurate osservazioni del mondo in cui visse, che potrebbero essere usate dallo storico sociale nel suo lavoro. Ma, prima che questo materiale possa es­ sere usato, dovrebbe essere sottoposto ad un accurato esa­ me, cosa questa che Lawrence il poeta non era interessato a fare. Infatti, egli lasciò prova certa del suo disprezzo per questo tipo di preoccupazioni. La sua tesi, mi si dirà, sarebbe indubbiamente tenuta in gran conto in un dibattito a livello liceale. Certamente Mr. Leavis deve essere prefettamente conscio delle diffe­ renze da lei sottolineate, o intende seriamente affermare che egli possa ignorare cose che lei stesso si aspetterebbe fossero ben conosciute da uno studente dei primi corsi di una fabbrica educativa americana? Io replico che non so se Mr. Leavis conosca la differenza tra storia e poesia, ma so - perché l'ho letto attentamente e spesso a mio bene­ ficio - che egli non sembra aver mai considerato con un minimo di serietà che cosa sia un romanzo. Simile in que­ sto a ·molti critici, egli lavora con strumenti concettuali che producono scritti eloquenti e brillanti, ma che non sod­ disfano gli elementari requisiti logici. Tuttavia, conosca o meno la differenza tra storia e poesia, Mr. Leavis ha scrit­ to - e dal suo tono desumo che era serio - che Lawrence era uno storico sociale; io trovo questa osservazione tipica del genere di irresponsabilità intellettuale che si incontra in molti soi-disant critici e letterari >. 68

Il problema della relazione fra la storia e la poesia è,


naturalmente, molto più complesso di quanto i nue1 super­ ficiali commenti lo farebbero sembrare: Ma la semplifica­ zione è sufficiente per i miei scopi. Infatti, ciò che voglio render chiaro è che l'affermazione che il romanzo è storia sociale è intellettualmente irresponsabile. Ma, mi repliche­ rete, non erano nel giusto i critici, fin da Aristotele, quando hanno detto che la poesia porta la verità? Se essi sono nel giusto, ci deve essere una qualche specie di relazione epistemiologica tra la poesia e la conoscenza, che richiede di essere indagata. La mia risposta a questa replica è, pri­ ma di tutto, che per quel che riguarda la poetica di Aristo­ tele, l'affermazione è valida e che, se uno accetta oggi quella specie di poetica, tutto ciò che posso dire è che, ov­ viamente, quella è la specie di poetica che gli piace. In secondo luogo, rispondo che la relazione tra conoscenza e poesia è un soggetto sul quale io ho scritto estesamente e non è tale da portersene sbarazzare in modo soddisfacente in un paragrafo o due. Tutto quello che posso dire qui è che, quando certi critici sostengono che la poesia porta la verità, è estremamente difficile, se non del tutto impossibile, capire quello che essi vogliono dire con e verità >. Certa­ mente non la usano in una maniera che io potrei accet­ tare - a meno che essi non asseriscano, come uno studente dei primi corsi universitari, che i romanzi possono o non possono essere e fedeli alla verità della vita >. E la ragione di queste irresponsabilità è ancora una volta il fatto che essi non hanno considerato con un minimo di serietà i pro­ blemi nei quali il loro credo li trascina. È da notare che non mi preoccupano le responsa­ bilità intellettuali dei critici per loro stessi. Quello che mi interessa è il danno che essi fanno, perché non si muni­ scono di solide nozioni di lavoro sul ruolo che l'arte esercita nell'economia umana. Il mio interesse e la mia preoc­ cupazione derivano dal fatto che sono convinto che l'arte sostiene un ruolo indispensabile

di cui

non vi è un sostituto.

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Ammettiamo pure, alcuni fra i miei lettori possono opporre, che i romanzi differiscano dagli oggetti conoscitivi. Ma, essi continueranno, lei obietta anche ai critici che con­ siderano la poesia come oggetto sociologico o psicologico. E nello stesso tempo lei ammette anche che questi com­ menti sono spesso intelligenti ed interessanti. Se lo sono, che cosa importa come essi vengono classificati? La sua cri­ tica, incalzano i miei avversari, è ispirata da una passione per la tassomania che è tanto intensa quanto insignificante. A questa obiezione io replicherò in due modi. Il primo è che si tratta di molto di più di una confusione di classi­ ficazione, sebbene essa venga fuori dalla mancanza delle necessarie distinzioni di base. E il fatto più importante in questa confusione è questo: una persona che consideri un poema come qualcosa di diverso da ciò che è, è sempre esposto ad una obiezione e spesso anche ad una seconda. La prima è stata già accennata nelle pagine precedenti e lasciatemela ripetere qui, perché ne vale la pena. Questa persona perde proprio ciò che il poema ha da offrirgli come poesia. E ciò che il poema offre è indispensabile al­ l'esistenza umana e non è possibile sostituirlo con nient'altro. È innegabilmente vero che ciò che il poema offre è qualcosa che pochi uomini coscientemente apprezzano. Ma è ugual­ mente vero che, lo apprezzino o meno, di questo qualcosa essi hanno ugualmente bisogno. La seconda parte della mia replica è la seguente: i commenti del critico letterario o pseudoletterario che usa la poesia come un'occasione per un discorso conoscitivo, per quanto intelligenti ed interessanti possano essere, sono raramente controllati dalle restrizioni metodologiche che lo specialista si impone.

In

altre parole, il critico letterario

o pseudo-letterario che, diciamo, sociologizza a proposito di un poema è troppo spesso un dilettante a ruota libera. Per quanto interessanti o intelligenti possono essere i suoi 70

commenti, rispetto a quelli di uno specialista, essi tendono


a non essere controllati dai fatti e, pertanto, in questa misura, ad essere irresponsabili. Mettendo la questione in termini ancora differenti, se quello che voglio è storia e sono uno studioso serio e responsabile, vado dallo spe­ cialista. Non ho bisogno che la mia conoscenza venga in­ zuccherata dal poeta e diluita dalla critica. Prendo la mia conoscenza netta, senza cesellature, così come può presen­ tarsi davanti al banco di un giudice. Naturalmente posso non essere serio a proposito della conoscenza, ma in questo caso non ho niente da guadagnare e molto da perdere, se inganno me stesso circa la mia attitudine. Perché questo tipo di autoinganno è probabilmente la causa principale della irresponsabilità intellettuale che io voglio stigmatiz­ zare. L'essenza della irresponsabilità intellettuale, non lo si dirà mai abbastanza, è il trascurare quei controlli, quelle verifiche, quelle restrizioni, quelle strettoie metodologiche (e qualsiasi altra cosa la parola e metodo > significhi oltre un e procedimento >) che, prese tutte insieme, costituiscono la maniera, le condizioni dell'accettazione o del rifiuto dei risultati di una ricerca. 4 I punti di vista ai quali si è qui sommariamente ac­ cennato, devono essere sottoposti ad una critica accurata. La dottrina asserisce la significanza della poesia, eppure insiste sul fatto che, quando la poesia funziona come una poesia, essa non è referenziale, non è un oggetto sociolo­ gico o conoscitivo o· di qualsiasi altro tipo. Quale specie di significato possiede quindi una poesia? Si ammetterà che esiste un senso in cui la musica e l'arte non oggettiva possono essere definite come e puramente formali >. Ma a parte i versi privi di senso, tale affermazione sarebbe totalmente inammissibile nei confronti della letteratura.

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Asserire che un romanzo, quale per esempio il Diario di un curato di campagna, è un romanzo religioso è fare un'affermazione significativa. Essa non va molto lontano, ma asserisce, salvo correzione, che questo romanzo è qual­ cosa di più di un oggetto privo di significato o puramente formale, che la materia in esso trattata può essere, in una certa maniera, caratterizzata. La caratterizzazione ha, na­ turalmente, bisogno di essere notevolmente estesa. Ma se ammettiamo che, nei suoi limiti, la caratterizzazione è inec­ cepibile, dobbiamo andare più lontano. Dobbiamo cioè am­ mettere che la sua estensione è altrettanto legittima, in linea di principio, quanto lo era in origine la stessa carat­ terizzazione succinta. Dico in linea di principio, perché non vorrei mettere il Diario nelle mani di un ateo di villaggio, anche se si dà il caso che il villaggio sia proprio la New York City e l'ateo uno scrittore di uno degli organi del Liberal Establishment, ambedue i quali, scrittore e gior­ nale, rimarranno anonimi. Una volta che un critico ben qua­ lificato volge la sua mente al Diario, i suoi commenti pos­ sono essere corretti e modificati. Ma ciò che non pos­ siamo fare è interdirli prima che il critico inizi. Apparentemente, quindi, devo affrontare un duro di­ lemma: o ammetto che i commenti critici di natura con­ tenutistica sono legittimi, o, per favorire le mie osserva­ zioni sulla pseudo-critica, sono costretto a riconoscere che, sulla scorta della mia comprensione della natura della poe­ sia, l'unica critica legittima è quella di un genere stret­ tamente formalistico, nel senso più limitato del termine. Per superare l'ostacolo creato da questo dilemma, tutto quello che dobbiamo fare è una distinzione. Quando più sopra sostenevo che molta critica di letteratura non è cri­ tica letteraria, aveva in mente il lavoro di certi critici - e sembra che essi costituiscano oggi la maggioranza che ignorano la distinzione importante, basilare, decisiva 72 tra la sostanza formata dalla poesia e la materia dell'espe-


rienza - morale, politica, religiosa, conoscitiva e di ogni altro genere - che il poeta trasforma nella sostanza for­ mata della poesia con il suo atto creativo. Lasciatemi notare prima di tutto, per quanto riguarda questa distinzione, che i critici e gli estetologi che discorrono intorno alla materia trattata dall'arte - o, semplicistica­ mente, intorno al significato di un poema - ignorano pro­ babihnente la distinzione. Lasciatemi notare, poi, che seb­ bene la distinzione sia ignorata dalla maggioranza dei cri­ tici militanti, essa non è una novità introdotta dallo scrit­ tore al fine di evitare le indesiderabili conseguenze di una critica rigoristica. Classificata in un modo o nell'altro, essa

è una distinzione di base per le teorie di scrittori- diversi quali Bradley, Croce, Collingwood (il che equivale a dire che Croce

è figlio di una madre inglese) Alexander, Dewey

e molti altri. Invero, classificata in un modo o nell'altro, essa

è una distinzione di base per una coerente estetica

organica. Aggiungerei ancora che si può facihnente dimo­ strare che un'estetica non organica

è radicahnente inade­

guata al fenomeno dell'arte e dell'esperienza estetica. Lasciatemi notare, infine, che la mancata distinzione tra materia per la poesia e sostanza nella poesia

è la causa

della erronea trattazione della sostanza formata che viene considerata come se fosse la materia usata per la ste­ sura del poema. Questo insuccesso porta il critico ad ana­ lizzare la sostanza formata in termini di criteri derivati dalla disciplina che ha giurisdizione sulla materia. Se la distinzione

è valida, i criteri da applicare alla sostanza for­

mata sono quelli dell'arte, comunque essa sia definita. Poi­ ché la materia di cui il poema è costituito e la sostanza formata che

è il poema sono due cose radicalmente dif­

ferenti, non possiamo esigere dall'una quello che esigiamo dall'altra. In verità, rigorosamente parlando, secondo il pun­ to di vista qui accennato, un poema non

è

la trattazione di

una materia. Considerato come una composizione poetica

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di un certo livello, possiamo dire del Diario che la sua so­ stanza formata ·è religiosa. Per estrapolazione, cercando di indovinare, possiamo arrivare fino alla materia da cui la sua sostanza formata è stata tratta e, ancora più indietro,

fino al poeta. Ma quello che troviamo nel Diario è sostanza

formata, il che equivale a dire materia trasfigurata, il che a sua volta significa che non è più materia .. Ora possiamo discorrere finché vogliamo circa la so­ stanza del poema, ma ci sono domande che non possiamo rivolgergli, perché farle equivarrebbe ad ignorare la distin­ zione tra materia e sostanza e a trattare la sostanza for­ mata come se fosse materia. · A questo punto una breve esemplificazione può essere più utile, per la comprensione di quanto ho detto, di ogni discorso astratto. Uno dei libri più interessanti che ho letto su Dostojevski è quello di Berdyaev. Scritto da un filosofo di valore, che aveva una profonda simpatia per il roman­ ziere - o meglio per quelli che egli ritiene fossero i punti di vista del romanziere - questo è un libro da cui ogni serio lettore di Dostojevski può trarre vantaggio. Ma Ber­ dyaev interpreta Dostojevski come se fosse altrettanto cri­ stologo di quanto non lo fosse egli stesso. Su questo punto ha ragione e torto nello stesso tempo. Ha ragione, perché Dostojevski l'uomo, l'uomo di carne ed ossa, come avrebbe detto Unamuno, era veramente un profondo cristiano - o fece del suo meglio per esserlo -. Ha torto, perché il poe­ ta Dostojevski era, se mi è permessa l'espressione, altret­ tanto demonologo quanto cristologo, come ben sa chiunque abbia letto qualcuno dei suoi maggiori romanzi. Se Ber­ dyaev avesse tenuto conto della distinzione tra materia per e sostanza in, non avrebbe asserito così prontamente che la fede dell'uomo e la sua sostanza formata erano iden­ tici. Se ne avesse tenuto conto, questo primo passo lo avreb­ be portato �d un secondo: avrebbe visto che, se i bolsce74

vichi avevano delle buone ragioni per sopprimere Dostojev-


ski dopo la rivoluzione d'ottobre (pare che non abbiano ancora permesso la pubblicazione dell'Indemoniato) un cen­ sore religioso avrebbe un'altrettanto buona ragione per es­ sere, se vogliamo mettere la cosa in maniera cauta, imba­ razzato da un uomo come Dostojevski, che ne sapeva tanto a proposito del Diavolo, e lo rese pubblico, in maniera anche attraente. Quando consideriamo come, in un romanzo riuscito, la sostanza è formata e la forma sostanziata, dobbiamo rico­ noscere che, durante il nostro rapimento e la nostra presa di possesso soggettiva, esso è un oggetto autonomo e fine a se stesso. Ma solo nel momento del rapimento e della comprensione intransitiva di esso. Tornando al Diario, quando chiudiamo il libro e riesaminiamo nella nostra memoria ancora fresca la maniera piena di attrazione e di interesse con

cui il poeta ha organizzato il dramma di un conta­

dino mistico, ci rendiamo conto come, mentre eravamo te­ nuti prigionieri da quella potente forza che è l'arte di Bernanos, non avremmo potuto chiedere alle esperienze del prete di campagna se esse erano ortodosse o eretiche, genuinamente religiose o meno. Esse erano quel che erano, e

noi eravamo già abbastanza impegnati a seguire la storia.

Se ci fossimo fermati a fare le domande che ho proposto, avremmo potuto farlo solo uscendo dall'universo dell'arte per entrare in quello della teologia. L'arte rivela, nel senso primitivo di questa parola, in quanto toglie

il velo, presenta

o dischiude, infatti, i valori e significati che sono stati precedentemente riconosciuti, senza un'adeguata identifica­ zione, e che lo saranno anche in seguito, come materia dell'esperienza. Ma al momento della rivelazione, se la transazione ha successo, noi non facciamo commenti. Noi contempliamo.

Il

commento,

l'assimilazione

dei

signi­

ficati e valori, il loro apprezzamento o la loro valutazione critica, cioè transitiva, verranno più tardi. Al momento della presentazione, un lavoro d'arte riuscito ci tiene, se

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nù è permesso cambiare immagine, come il serpente tie­ ne l'uccello tutto tremante e tahnente attratto dagli occhi affascinanti che non sa di essere in preda al panico. Il poema ci afferra in questa maniera. Noi gli cediamo per ragioni che non sono state completamente spiegate. Esso ci tiene come il rettile tiene la preda, completamente in suo potere. ELISEO VIVAS

1 Patria di Al Capone - e Enforcer >, nel linguaggio delle gangs americane è l'uomo che esegue le sentenze delle gangs, l'uomo che uccide quelli che la gang vuole togliere di mezzo (N.dA.). ' Questo termine è stato creato dall'Autore proprio per riferirsi a Leavis che attaccava, secondo lui brutalmente, anche se giustamente C.P. Snow.

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