Op. cit., 11, gennaio 1968

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Op.cit. rivista quadrimestrale di selezione della critica d'arte contemporanea

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Edizioni e Il centro •


G. Morpurgo-Tagliabue L'arte è linguaggio? Urbanistica e arti visive, oggi Valori ed obiettivi della pianificazione Libri, riviste e mostre

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Alla redazione di questo numero hanno collaborato: Attilio Belli, Ago­ stino Bevilacqua, Urbano Cardarelli, Renato De Fusco, Luciana De Rosa, Cesare de Seta, Giovanni Pasca Raymondi, Maria Teresa Penta, Maria Luisa Scalvini, Francesco Starace.



L'arte

linguaggio? GUIDO MORPURGO-TAGLIABUE

I Nell'attuale fioritura di studi linguistici può nascere il dubbio se un quesito come questo sia il risultato di una nuova impostazione o non piuttosto un antico problema. In apparenza esso infatti non è nuovo. Era attuale già al prin­ cipio del secolo: circolava sotto forma di modi di dire cor­ renti. Non da oggi si parla di « linguaggio dell'arte», di « lettura dell'opera d'arte», di « grammatica figurativa», e così via. Oggi però lo si formula in modo più radicale. Se l'arte è linguaggio, siamo autorizzati a applicarle le categorie della linguistica, che negli ultimi anni si sono notevolmente raffinate; e ciò è possibile solo se la linguistica si dilata e si trasforma in semiologia: solo allora le strutture della lingua si applicano a tutte le arti. Non sempre chi adotta questo procedimento lo fa in modo trasparente. Per lo più il semiologo ha la convinzione di fare qualche cosa di originale, senza che gli venga alcun dubbio sui postulati dai quali muove. Non c'è dubbio co­ munque che questo è il suo postulato 1• Spiegheremo in seguito perché esso non ci convince, pur rendendoci conto degli inconvenienti a cui è facile andare incontro nel ri­ fiutarlo. Possiamo prospettarci tre maniere di respingere l'equa• zione arte-linguaggio: le chiameremo per comodità: metodica, sistematica problematica.

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Per il primo caso ricordiamo le controversie sulla defi­ nizione di linguaggio, per es. tra S. Langer (in Feeling and Fonn) e Ch. Morris (in Signs, l,anguage and Behaviour). Alla fine il lettore vede le differenze di opinioni, ma non le loro conseguenze. Per il secondo caso ricordiamo quanto è facile, respin­ gendo una tesi nuova, ricadere in una precedente. È ciò che sembra sia accaduto al pur sagace M. Dufrenne in un suo saggio recente 2, dove egli conclude che l'arte non è langue ma parole, non « comunicazione » ma espressione, non « l'art est un langage » ma « le langage est art »: un ritorno alla soluzione celebre di B. Croce nel 1902. Per il terzo caso, facciamo una riflessione. Non abbiamo altro mezzo di conoscere il codice di un'opera d'arte, se non di accettare il codice secondo cui i critici lo fanno parlare. Prendiamo il caso di un'arte semiologicamente ab­ bastanza semplice, l'architettura, e ammettiamo che la sua semantica risulti dall'interrelazione tra le sue forme, le sue tecniche, e le sue funzioni: tesi oggi abbastanza accettata 3• È chiaro che queste interrelazioni saranno diverse (e tra loro anche incompatibili) secondo che il critico si ispiri a Semper o a Schmarsov, a Worringer o a Riegl, a Gropius o a Mondrian, etc. Un discorso sul linguaggio dell'arte rischia di convertirsi in un discorso sul linguaggio della critica d'arte, e di risultare molto problematico. Cercheremo quindi di sollecitare, se non di dare, una nuova impostazione, molto modesta. Ai più competenti di noi il migliorarla, o il rifiutarla, o l'ignorarla. Il modo di formulare il problema in forma di test: l'arte è linguaggio?, è certamente pericoloso, carico di equi­ voci come tutti i dilemmi, ma ha pure un aspetto buono: permette una chiarificazione preHminare. Il linguaggio è una trasmissione di cognizioni, uno strumento informativo: e in questo senso, sì, l'arte si accomuna al linguaggio. Si taglia corto in tal modo alle interpretazioni dell'arte in chiave emotiva, suggestiva, conativa.

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Accettiamo dunque la domanda per quel che serve a sbarazzarci di un'altra domanda. Nessuno dubita che l'esperienza estetica comporti una componente emozionale; qua-


lunque discorso ne comporta, anche una proposizione mate­ matica, o anche un'esperienza non linguistica, uno spetta­ colo naturale. Inversamente, un seguito di esclamazioni e di interrogazioni (p. es. l'attacco leopa.rdiano del Pensiero dominante) non cessa di essere un enunciato infomativo, un atto di cognizione; Io stesso si dica di un'esperienza pratica, di un comportamento (anche un'azione ci informa). Se quindi l'arte è cognitiva, e come tale comunicativa, perché non diremo che è comunicazione linguistica, che appartiene all'ordine del linguaggio? Perché tale risposta implica un pericolo: di confondere l'informazione artistica in generale con l'informazione verbale in p articolare, e di conformare i discorsi delle diverse arti a un discorso specifico esemplare, quello letterario. Partiamo dalla lettura di un'opera d'arte, che è all'ori­ gine del carattere di s c r i t t u r a che le si vuole attribuire. Possiamo l e g g e r e un libro, uno spartito, un quadro, un edificio... : Nel primo caso incontriamo grafemi, fonemi, morfemi, monemi, stilemi, noemi, patemi, pragmata. Nel secondo caso, per analogia potremo parlare di gra­ femi, fonemi, morfemi, monemi, stilemi, patémi. Nel terzo caso, di grafemi, stilemi, noemi, pragmata. Nel quarto caso, di monemi e stilemi (se c'è dell'altro, è assai problematico). Ci perdonino i glottologi questa nomenolatura di comodo. Quello che ci sembra indubbio è che il grado di articolazione semantica delle diverse arti è assai ineguale. La tendenza del semiologo invece è di portare tutte le arti al modello più articolato. Il semanticizzare in modi incauti tutte le arti (tutte dotate, certo, di natura semantica) conduce cioè a linguicizzarle, e quindi a letteraturizzarle (e parliamo di opere d'arte; trascuriamo qui che il semiologo estende la sua operazione anche agli oggetti naturali). Per il semiologo tutto si riduce a segni, e i simboli linguistici si riducono a una delle tante classi di segni. Ciò non gli impedisce di modellare tutti gli altri segni sul campione di quei simboli. 7


La semiologia è una fresca branca dell'epistemologia, sviluppatasi assai rapidamente in clima di lotta contro la disoccupazione, e taluni suoi aspetti, dovuti alle circostanze, meritano qualche interesse. È accaduto che, non consen­ tendo la nuova disciplina alcun impiego specifico, i suoi f1.mzionari ne hanno inventato uno generico, come accade in ogni burocrazia. In sede amministrativa infatti niente vieta che tutti gli atti passati per una serie precedente di uffici vengano sottoposti a un nuovo controllo, che veri­ fichi se le pratiche hanno pagato una tangente necessaria a finanziare il controllo stesso. Il nuovo visto si appli­ cherà inizialmente non a un nuovo oggetto, ma a un vecchio oggetto sotto un nuovo profilo. Per es. le tasse sui passi carrabili, sulle porte, sulle finestre, sui balconi sulle occupazioni di aree pubbliche, e altre, produrranno una tassa aggiunta sui vuoti e sui pieni, sulle rientranze e le sporgenze. In seguito, il nuovo istituto potrà estendersi molto più in là dei precedenti, e ciò stesso ne confermerà la legittimità e l'autonomia: dagli edifici potrà estendersi alla mobilia, e anche agli uomini e alle donne e agli animali domestici, fomiti di concavità e di protuberanze. Analoga­ mente l'area della semiologia è molto più estesa di quella della linguistica; per cui, pure applicandone il criterio fon­ damentale (il rapporto segno-significato), il nuovo ufficic. potrà aspirare a subordinare il vecchio come una sua se­ zione. In cambio estenderà i procedimenti adottati anch .. a settori su cui i funzionari del vecchio ufficio non avevano mai sognato di aver competenza. Quale linguista avrebbe ambito di applicare la morfologia e la sintassi ai vestiti? Se poi alcuni linguisti non si sentiranno lusingati, sarà facile intimidirli: basterà citare il passo del Cours de lin­ guistique générale (1965, p. 33) in cui Saussure accennava all'inserimento della linguistica in una più ampia semio­ logia (in realtà egli voleva dire semplicemente che il comu­ nicare per segni verbali è un caso nell'insieme degli altri modi di comunicare, per gesti, iconi, segnali, etc.).

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Per restirgerci all'essenziale, il modo in cui il semiologo prevarica è molto semplice. Egli impiega uno pseudo-sillo­ gismo: l'esperienza è cognizione - la cognizione è comuni­ cazione - la comunicazione è processo segnico - il linguag­ gio è comunicazione - il processo segnico è linguaggio o un'analogo del linguaggio. Di conseguenza ogni Sachverhal�


verrà emarginato come una pratica semiologica, e questa sarà un duplicato delle pratiche linguistiche. Ma le cose non stanno così. Sotto il Dicastero dei Processi Intenzionali stanno la Direzione generale dei fatti e quella dei segni. E per il motivo che i fatti significano non è lecito trasformare i fatti in segni di significati dei fatti. Se così fosse, la parola « cane» o il segno iconico del cane, rappresentativi del denotatum cane, risulterebbero pari al cane in carne e ossa, il quale diventerebbe il segno rappresentativo della caninità (affettuosa, o aggressiva, o impicciona...). tè. evidente che solo per una manovra teme­ raria degli uffici di cui alle stanze 372 e 373 dello scanti­ nato B del Dicastero (sede provvisoria) ai danni degli uffici di cui alle stanze 25, 26, 27, 28, del corridoio Est del I piano, si può confondere la r a p p r e s e n t a z i o n e ideativa con la p r e s e n t a z i o n e originaria, e dire, come un recente giovane semiologo, che la percezione di un'automobile viene avvertita dal pedone « come segno comunicante la situa­ zione automobile che procede a gran velocità», cioè la pla­ tonica « automobilità » 5• L'auto non rappresenta il peri­ colo, è il pericolo. Naturalmente il bambino o il giovane cane (il gatto non ci riesce), e così il guidatore che fa i sorpassi, devono imparare a percepirlo, ma non a deci­ frarlo, a decodificarlo 6. L'espansione semiologica si fonda su un elementare equi­ Non c'è dubbio che conoscere è distinguere, individuare, e che l'individuazione conoscitiva coincide in ogni campo con una individuazione segnica (parola, figura ... ), condizione di ogni processo comunicativo. Su questo punto erano d'accordo Croce, Saussure, Cassirer... L'errore è di dedurne la conse­ guenza che ogni distinzione individuata, ogni forma cono­ sci tiva, è un segno comunicativo. Se i termini devono avere un'utilità si deve delimitare e non generalizzare il loro uso. L'impiego del termine segno ,•a riservato ai segni r e f e r e n z i a l i . Il processo per cui un segno rimanda a un significato (secondo un rapporto di indizio, di sintomo, di indice, di simbolo) non va confuso col processo intenzionale per cui un'apprensione mira a un significato, e un aspetto è l'aspetto di una cosa. Altrimenti 9 \OCO.


sarà lecito dire che tutto nel mondo è segno, ossia che niente è segno, ma tutto è burla (fenomeno ludico, gioco, etc.: per i clowns). Si può cercare di spiegare come nasca questo equivoco. Il rapporto segnico è un rapporto di rappresentanza, un essere per. Questo « stare per» può essere quello di un s i m b o l o , o di un i n d i c e , o di un s i n t o m o , o di un i n d i z i o : tutti rapporti di sostituzione, ma che vanno dal sostituire una cosa a un'altra al sostituire una misura a una cosa (secondo un parametro), al sostituire un effetto a una causa, al sostituire una parte a un tutto 7• In tutti questi casi si ha la conoscenza indiretta di un oggetto finale: perciò parliamo di segni. Ma anche la conoscenza presen­ tativa originaria, l'esperienza diretta, è un rapporto di parte a tutto, per Abschattungen. Anche di un'auto mi si presenta solo una parziale sagoma, uno scorcio: dirò per questo che esso è il segno di un'auto, come lo è, in sua assenza, l'impronta dei pneumatici o l'odore della benzina? Eppure si tratta sempre di un rapporto parte-tutto. Vuol dire che sopra un certo livello di presenziali-fa il rapporto intuitivo parte-tutto non ha carattere metonimico, da presentativo non diviene rappresentativo, da diretto indiretto, da imme­ diato mediato, e che non si può parlare di segno. C'è diffe­ renza tra il provar timore vedendo un cavallo imbizzar­ rito, e il citare il proverbio: « uomo a cavallo, fossa aper­ ta ». Nel primo caso siamo di fronte a un processo i n t e n z i o n a l e , ma non i n f o r m a t i v o . Due processi dotati di natura analoga, ma come il genere e la specie, e che non si possono scambiare. Scambiarli è appunto fare un'operazione metaforica: si sostituisce un processo i n t e n zi o n a I e , in cui il significato oltrepassa i dati sensibili, con un processo s e g n i c o , in cui una x sta per una y. Questo dice che nell'esperienza ordinaria non ogni volta in cui si parla di s i g n i f i e a t o si deve parlare di s e g n i , e che semantica e semiologia non si coprono. Nell'esperienza ordinaria. Ma nell'esperienza estetica?

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II A questo punto conviene tener conto del princ1p10 della divisione delle arti, che sia nel passato che di recente ha fatto oggetto di frequenti indagini. Il più spontaneo dei criteri di distinzione a prima vista sembra questo: tra un gruppo di arti r a p p r e s e n t a t i v e e un grnppo di arti p r e s e n t a t i v e 8• I campioni più sicuri dell'uno e del­ l'altro gruppo si possono considerare la 1 e t t e r a t ura e l' a r c h i t e t t u r a . L'una tutta rappresentativa, ideativa, simbolica, l'altra tutta presentativa, percettiva. Ma una breve riflessione mostra il carattere incompleto di queste attribuzioni. La letteratura è linguaggio, e il linguaggio è uno stru­ mento simbolico di comunicazione: è per eccellenza un pro­ cesso di trasmissione mediato, sostitutivo e transitivo, un essere per. Il mezzo linguistico sta per le immagini e i con­ cetti che suscita, e si consuma e si esaurisce in questi. Tale è il discorso ordinario. Ma il discorso artistico? Sempre, fin dall'antichità, si è distinto nettamente tra linguaggio letterario e linguaggio comune; ma solo in età recente si è individuata la proprietà essenziale del linguaggio letterario: di essere i n t r a n s i t i v o . Non si dissolve nel suo risultato, ma permane incarnandolo. Il significato poetico non si può liberare dalle sue parole 9• Questo dice che nel momento in cui r a p p r e s e n t a n o un significato le parole poetiche p r e s e n t a n o se stesse. Il procedimento cono­ scitivo letterario è insieme rappresentativo e presentativo. Ra p p r e s e n t a significati e p r e s e n t a forme fonetiche. effetti acustici, respiri ritmici. Non sembra dubbio che il primo fattore prevale sul secondo, ma anche quest'ultimo non può mancare, è indispensabile alla completa evidenza del primo. Per quanto assai meno esplicito, un fenomeno analogo si verifica, ma a rovescio, nel caso dell'esperienza architetto­ nica. Il carattere primario di una architettura è certamente p r e s e n .t a t i v o . Le colonne, i pilastri, i timpani, le lesene, non sono segni, sono cose. Significano se stessi, colonne, pi-


lastri, timpani, lesene: come un tronco significa un tronco, un ramo un ramo. Parlare di valori puramente formali, in architettura, come hanno fatto gli adepti della Sichtbarkeit può essere, ed è stato, un modo di evidenziare utilmente certi aspetti della fruizione estetica che non devono venir trascurati; ma sarebbe erroneo e ingenuo dedurne una con­ cezione puramente formale e asemantica della architettura. Non meno erroneo però sarebbe concluderne a una conce­ zione opposta, a una semanticità funzionalistica dell'archi­ tettura, secondo la quale colonne, lesene, trabeazioni, archi. porte, finestre, vuoti e pieni, avrebbero s i g n i f i c a t i les­ sicali, quelli delle loro f u n z i o n i . Un edificio sarebbe un discorso di significati funzionali, catalogabili secondo un co­ dice. Questo funzionalismo elementare, in un modo o in un'altro, è la condizione indispensabile di una concezione semiologica dell'architettura: ma per costituire una semio­ logia, deve superare se stesso: non basta che le forme e s p o n g a n o (per usare una tern1inologia kantiana) le fun­ zioni, bisogna che le e s i b i s c a n o 10• E questo è conte­ stabile.

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Tutta la storia dell'architettura mette in dubbio questa concezione. La quale trova scarsi riscontri storici (non bi­ sogna confondere funzionalismo con tecnologia). Pratica­ mente la si incontra in modo palese solo nel gusto deco­ rativo Liberty 11. Trova piuttosto applicazione in certe forme di industrial design 12. Certamente una scala liberty, o an­ che rococò, è un invito a salire, ma difficilmente si può dire Io steso di una scala rinascimentale. Ciò vale per porte e finestre, etc. Nessuno nega che le strutture architettoniche siano mezzi per una funzione, ma è dubbio, che debbano essere segni esibitori di una funzione. Una finestra è segno della funzione « comunicaizone esterno-interno», o « illumina zione », non più e non meno che una mela o una susina sono segno della funzione « involucro e veicolo del seme ». Si dirà che la mela e la susina sono segni di usi sensitori eduli e tattili. In realtà lo sono come il cardo è segno di uso spinoso pungente, o come l'automobile è segno di peri­ colo. Il passaggio da una sensazione a un'altra non implica la funzione di segno, se non vi è dissociazione e associa-


zione argomentativa: nel qual caso il cardo è segno di pun­ tura, come le ciliege di indigestione, e il cavallo di fossa aperta. Nella presentazione percettiva la nozione di segno è superflua, se non si vuole, nel caso dell'architettura, cadere in una semiologia gratuita a base di Einfuhlung antropo­ morfica: la bifora segno di snellezza, gli archi a tutto sesto segni di un passo calmo e uguale, etc. (Schmarsov). Dire che la finestra è segno delle f u n z i o n i della finestra, o anche pili genericamente che la finestra è il segno della proprietà della finestra, equivale a dire che la finestra sta per la finestra, come la mela sta per la mela. Cioè una mela è una mela. Il termine « segno » e il rapporto che esso indica sono superflui e abusivi. A rose is a rose, is a rose, is a rose.

In sede presentativa è quindi superfluo anche il ricorso al procedimento della c o n n o t a z i o n e . Non vediamo una colonna curvilinea dotata di eleganza, come non ve­ diamo una guancia paffuta dotata di salute, o un gesto misurato dotato di educazione. O non ci proponiamo un problema di analisi e di verificazione: e in questo caso diciamo semplicemente che quelle cose sono eleganti, sane, educate. O ce ne proponiamo la verificabilità, e diciamo che quelle cose non connotano ma d e n o t a n o eleganza, salute, educazione. Ma in tal caso facciamo delle sined­ dochi: attribuiamo alla parte la dote del tutto.

E tuttavia è vero che la cognizione dell'edificio architettonico ( cioè artistico: l'architettura è più che edilizia) risulta non soltanto p r e s e n t a t i v a , ma anche r a p p r e s e n t a ti v a. Un edificio artisticamente valido è anche il segno di un significato, il portatore di una referenza. Gli si applicano benissimo le categorie della semantica richardsiana, come quelle della semiologia morrisiana. L'arco di Tito non espone soltanto il significato di un trionfo, secondo regole conven­ zionali, ma d e n o t a un trionfo storico, sugli Ebrei. Non ha solo una referenza, ma un preciso referente. E così un palazzo del Rossellino o del Lau-rana, o una villa del Palladio. Non è per una curiosità estrinseca e banale che il visitatore ricorre al manuale-guida o al cicerone per conoscere l'origine e la destinazione storiche di un edificio. Quel riferimento indiretto è veramente costitutivo dell'esperienza artistica. In

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questo senso un'opera architettonica comunica semiologica­ mente, e la sua lettw-a esige un codice culturale. Ciò che distingue un oggetto naturale da un oggetto artistico è proprio che il primo è conosciuto presentati­ vamente, il secondo anche rappresentativamente: come tale ha un d e n o t a t o (mentre il primo si può dire soltant J, con un trucco, che denota se stesso, che ha se stesso per referenté). E ciò perché il primo è intrinsecamente un og­ getto culturale, il secondo no. Si può precisare il referente della piramide di Cheope, e anche il referente ignoto (riem­ pibile con ipotesi) di un dolmen. Ma quale è il referente del monte Cervino? Il monte Cervino si può soltanto i n t e n z i o n a r e, dicendo che un suo profilo, la veduta Nord­ Ovest dalla capanna Homli, implica l'intiero Cervino con tutti suoi profili, i suoi spigoli, le sue vie; ma questo non fa di una veduta del Cervino un segno del Cervino, non denota il Cervino (come invece fa un suo semplice schizzo). La denotazione del Cervino è un'altra: dagli spigoli, dalle vie, alla storia del Cervino, alle sue ascensioni, e alle sue vittime. Diviene denotativo in quanto cessa di essere un oggetto naturale e diviene un oggetto storico. Ma anche in questo caso la denotatività non gli è intrinseca come linguisticamente al significante il significato. Lo schizzo del Cervino potrebbe essere un « sema », non la veduta del Cervino.

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Questo dice che l'esperienza estetica non va esiliata nella dimensione del possibile, del verosimile (non dobbiamo farci più aristotelici di Aristotele o più kantiani di Kant), ma che vive in una dialettica col reale, spesso a torto trascurata. Ed è proprio la sua rappresentatività, la mimesi e I'eik6n, ossia la sua idealità, che lo postula. In un'arte come l'architettura ciò risulta singolarmente palese, ma può essere esteso alle altre arti. Non c'è dubbio circa la natura ideale della inten­ zionalità paradigmatica in cui culmina l'opera letteraria 13: eppure anche del Canzoniere, o del Midsummer Night Dream, o della Kreutzersonate, noi apprezziamo il referente. Ciò non vuol dire che tra il s i g n i f i c a t o e il d e n o t a t o , tra la referenza e il referente, nell'informazione este­ tica vi sia lo stesso rapporto preparatorio e sostitutivo eh� troviamo nell'impiego dei segni o segnali ordinari. Nell'arte


quanto più il significato è legato al segno in modo intransi­ tivo, tanto più è aderente al suo denotato extraestetico: il contrario di quel che avviene nella informazione ordinaria, ove la denotazione è notizia senza immagine 14• Di qui il fatto che persino un oggetto artistico eminentemente presentativo come quello architettonico, trova nella rappresentatività il suo compimento, che Io distingue da una esperienza pre­ sentativa naturale. La Cappella Medicea o il Louvre non solo p r e s e n t a n o , cioè intenzionano un edificio-cappella o un edificio-palazo, ma r a p p r e s e n t a n o , cioè riferi­ scono un significato «cappella-principesca» e un significato «reggia », e anche molto di più. Denotano simbolicamente, convenzionalmente due destinazioni storiche, fuori dalle quali potrà darsi, come voleva Kant, che vi sia un giudizio estetico (bello-brutto), ma non un'esperienza d'arte. Possiamo concludere che come le arti letterarie trovano nel loro aspetto linguistico-presentativo la componente este­ tica che le distingue dal discorso ordinario, così le arti archi­ tettoniche trovano nel loro aspetto iconico-rappresentativo il fattore che le distingue dalla percezione originaria. In breve, l'informazione estetica ha sempre un doppio aspetto, immediato e mediato, diretto e indiretto, intenzionale-seman­ tico e semantico-semiologico, percettivo e linguistico, che ne costituisce il privilegio.

III Il privilegio di cui si è detto, va considerato come neces­ sario, non sufficiente. Costituisce la l e t t e r a r i e t à o la a r c h i t e t t o n i e i t à (limitandoci ai due generi scelti come estremi), non il criterio del successo o del insuccesso arti­ stico delle singole opere entro quei generi, cioè il loro prin­ cipio estetico. Quest'ultimo lo possiamo individuare empiri­ sticamente in sede assiologica e precisare fenomenologica­ mente in sede logica, e ne abbiamo trattato altrove 15; ma qui lo possiamo trascurare. Più avanti vedremo come taluni teorici ritengano invece di ricavarlo dalla stessa conformazione linguistica, e esamineremo questa tesi (§ 5); qui la composi- 15


zione della esperienza estetica ci interessa soltanto in quanto essa è esperienza cognitiva, per quel che serve a rispondere alla domanda che ci siamo proposta: l'arte è linguaggio?, non alla domanda: il linguaggio definisce l'arte? Ora, sappiamo sommariamente, come e perché l'arte è anche linguaggio. Siamo ricorsi alla distinzione elementare delle arti in arti r a p p r e s e n t a t i v e e p r e s e n t a t i v e , e certa­ mente le prime sono linguistiche: parlano per simboli o per iconi, e ubbidiscono a criteri lessicali e sintattici. Anche nel caso della letteratura però il momento linguistico non è sempre il momento primario. Lo è solo un primo rapporto linguistico: quello s i g n i f i c a n t e - s i g n i f i c a t o , nel­ l'accezione della mimèsi: solo questo rapporto (arbitrario) è strettamente verbale. Ma esiste anche un secondo rapporto linguistico: tra s i g n i f i c a t o e s i g n i f i c a t o (trascu­ riamo qui quello meramente tra segno e segno, che deve aderirgli): è quello che costituisce le antitesi, le corrispon­ denze, le proporzioni, le sostituzioni (metafore, sinonimie, sineddochi, etc.). In tali casi un termine funge da segno del­ l'altro: ma come? Come indici, indizi, sintomi. In una meta­ fora, « la primavera della vita», la primavera, con la sua fioritura, è il segno, l'indizio o l'indice, della gioventù, dell'im­ pollinazione, della pubertà. Cioè il rapporto s e m i o s i c o (segno-significato) si risolve in un rapporto s e m i o l o g i c o (significato-significato), e questo in un rapporto logico; quello c'è in quanto c'è questo (e non viceversa: un rapporto logico antitetico si può avere senza antitesi verbale, e così un rap­ porto di parte a tutto senza metonimia, etc.). Qui non siamo più nel campo della mymesis, ma dell' eik6s, della verosimi­ glianza; abbiamo chiamato questo rapporto di significato a significato s e m i o l o g i c o ; quello di segno a significato s e m i o s i c o : tra i due non c'è necessario legame; può es­ serci nella poesia, non nella prosa. La narrativa, in genere, è tutta intessuta di riferimenti semiologici, che non hanno equivalente semiosico. Tutto è segno, anzi segno al quadrato, ma non segno linguistico, bensì segno semantico. Un gesto rinvia a un comportamento, il quale a sua volta indica una 16 disposizione. Certi gesti di Odette, di Albertine, del barone


Caylus, sono segni (campioni) di comportamenti usuali dei personaggi; comportamenti che a loro volta sono segni (ma­ nifestazioni) del loro status (démi-monde, invertiti, etc.). Tra semiologia e semiosi nessun necessario rapporto. Se mai tra semiosi e semiologia: ma non vedo che, in ultima analisi, esso sia diverso da quello individuato fin dagli antichi Stoici: il rapporto della logica verbale. Il fatto che tanto la mymesis che l'eik6s siano equazioni segno-significato, per sé non vuol dir nulla. La prima è regolata dal principio dell' a r b i t r a r i e t à d e I s i m b o I o , la seconda dal principio del!' o m o g e n e i t à d e I I ' i n d i z i o . Solo quella è un vero rapporto di segno a significato, questa è, in effetti, di significato a significato. In quest'ultima il rapporto paradigmatico è quello della logica induttiva: nella fattispecie dell'indagine polizie­ sca (vedi l'esempio di Proust). Né c'è da stupire. Se tanto ci si preoccupa oggigiorno delle salvaguardie giudiziarie, è perché tutta quanta l'esperienza può cadere sotto una logica inquisitoriale. Che è appunto la logica del romanzo. Flaubert come Stendhal, Dostoiewskj come Zola, come Butor, fanno inchieste, esaminano indizi, arrivano a conclusioni. Che cosa dire poi dei critici? La letteratura narrativa non andrebbe quindi sottoposta al controllo del Dicastero della Linguistica né della Semiologia, ma della Pubblica Sicurezza (cosa non del tutto assurda, poiché ridurre le manifestazioni artistiche a fatti semiologici, è ridurli a mass media; l'unica arte meto­ dicamente semiologica è il cinematografo). Se questa riserva è valida per la letteratura, tanto più lo sarà per le arti presentative. Tenuto conto che un sistema linguistico è un sistema referenziale, uno strumento di informazione mediata, ora sap­ piamo che non dobbiamo cedere alla tentazione di cercarne a tutti i costi un equivalente presentativo e di voler indivi­ duare un sistema semiologico architettonico o musicale arti­ colato per fattori lessicali, maniere morfologiche, disposi­ zioni sintattiche, al pari del linguaggio verbale: tentazione a cui il semiologo per il suo stesso impegno non può resistere. Egli riconoscerà che l'informazione visiva o musicale non si riduce ai modi propri del linguaggio, ma la interpreterà

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egualmente sulla falsariga del linguaggio (persuadendo il glot­ tologo che deve sentirsene lusingato). Foggerà categorie para­ linguistiche, cioè modellerà l'imediato sul mediato. Ma se non è illegittimo in certi casi modellare fattori visivi sulla falsa­ riga di valori linguistici (fonemi-figure, monemi-segni, sin­ tagmi-semi) 16, come nel caso di una segnaletica conven­ zionale (o anche di un codice ideografico, nel quale possiamo far rientrare certe comunicazioni iconiche), lo è però nel caso di una percezione presentativa. È vero che gli elementi stereotipi di un'architettura inte­ ragiscono secondo rapporti di parte-tutto, conforme a regole prefissate da una tecnica e da uno stile, e che così fanno pure gli elementi del linguaggio (in base al postulato della distintività); ma in un caso siamo di fronte a una gramma­ tica e a una sintassi, nell'altro a una geometria o a una tectonica o a una meccanica, e solo per un vizio metaforico si confonde un processo costruttivo con un processo simbo­ lico 16*. Il paragone potrebbe farsi soltanto su ciò che in un caso e nell'altro - letterario e plastico - è p r e s e n t a t i v o , non r a p p r e s e n t a t i v o . Ma allora né in un caso né nell'altro si può parlare di segni. Anche i segni linguistici in quanto fattori poetico-retorici di intransitività, abbiamo veduto, infatti, presi per se stessi sono meramente presen­ tativi; non «stanno per... », non sono segni. Certo, c'è un codice convenzionale delle planimetrie a pianta greca o latina, delle crociere, delle cappelle, ecc.: ma questi elementi sono segni soltanto in senso iconologico, non architettonico. Certo, si può codificare e decodificare il giuoco degli abachi, delle colonne, dell'architrave, delle trabeazioni, dei timpani, etc., anche in modo non simbolico, come il giuoco delle bielle, dei pistoni, delle valvole di un motore. E poi? Tutto si può leggere, anche gli orli della schiuma del mare. Ma non è linguaggio (né sistema semiologico) tutto ciò che si legge, ma solo ciò che vuole esser letto, che ha la lettura come sua destinazione (già abbiamo dovuto far presente questo principio nel distinguere tra rappresentazione seman­ tica e presentazione naturale). È questo che va individuato 18 in un'arte presentativa, architettura o musica: ciò che è per


destinazione semantico: la sua vocazione comunicativa. E in questo senso, e solo i n questo senso, abbiamo detto che qualunque genere d'arte è sempre anche linguaggio. Ben altra cosa dal dire che è linguaggio. In genere, si estende anche al fattore presentativo il carattere di segno, mediante questa argomentazione. lo non vedo una cattedrale - si dichiara - ma un e d i f i c i o a f o r m a d i c a t t e d r a I e , cioè un edificio che faccio entrare nello schema della cattedrale: non prenderei per chiesa un edificio triangolare, o per interno di teatro d'opera un'ambiente quadrato, etc. Ma nessuno nega che l'opera­ zione percettiva abbia il carattere di una interpretazione, e che il meinen ed erfiillen fenomenico ,possa ritenersi paral­ lelo al classificare linguistico. Però ciò non mi farà dire che quell'oggetto, individuato come esemplare di una classe, funge da segno di quel significato di classe. L'apertura significa una finestra perché rientra nello schema della « finestra », ma non la leggo come il s e g n o ideografico della finestra, non mi rimanda a una idea platonica, alla finestralità, né sostituisce comportamentisticamente qual­ che altra cosa in vista di una disposizione ad affacciarmi, o a vedere qualcun'altra affacciarsi, o a buttare giù qual­ cuno nella strada 11. Va da sé inoltre che un singolo noema non è disgiunto da un articolato sistema noematico: s� non ho l'idea dell'opera in musica e dell'opera-ballo e della società che le coltiva, non posso nemmeno cogliere il signi­ ficato di quella costruzione che è un teatro d'opera. Ma, a parte il giuoco semiologico del decifrare tecnico, indiziario, etc. (quella buca significa il luogo del suggeritore, etc.), il sistema noematico non vuol dire sistema segnico. Altri­ menti si compie un semplice paralogismo: si scambiano i patterns intenzionali che costituiscono una esperienza con i loro cataloghi, con la loro intellettualizzazione erudita e critica: la civiltà dei patterns con la cultura dei patterns. Solo in questo caso abbiamo un sistema di segni, di stru­ menti comunicativi. La risposta al problema è tutta qui: il significare presentativo originario è al di qua dell'opera­ zione strumentale in cui consiste l'atto semiologico. Ra p p r e s e n t a t i v o, semiologico, è invece l'altro aspetto, per cui un'opera d'arte non significa soltanto, ma denota, Il processo allora non è più di i n t e n z i o n a I i t à ma di

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in t e n z i o n e . L'oggetto allora , sl, comunica qualche cosa a chi vuole interpretarlo secondo un codice da lui scelto.

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Anche il Cervino denota le avventure di Wymper e di Carrel, a chi se ne interessa e riferisce quella sagoma alle cronache dell'alpinismo. Tanto più ciò vale per un'opera d'arte, che è stata creata sempre in una circostanza e ne dipende, e che va pensata in funzione di una destinazione reale, storica: l'Arco di Tito per un trionfo dell'imperatore Tito, Esther e Athalie per Madame de Maintenon in certe circostanze politico-religiose. Questa è la denotazione del­ l'opera d'arte, il suo significato denotativo. Qui siamo di fronte a un vero rapporto referenziale, a una cognizione indiretta, a una informazione in codice. Il monumento, sia plastico o letterario, funziona ora come documento: è segno, indizio, di una realtà di diverso ordine, che serve a evocare e di cui funge da rappresentante. Per essere decifrato richiede un codice, non però un codice linguistico ma culturale; riguarda, potremo dire, non la léxis ma il 16gos in quanto didnoia. Perciò fin qui abbiamo escluso dal nostro discorso sul significato p r e s e n t a t i v o dell'architettura i contenuti iconologici inerenti a certe forme costruttive: le propor­ zioni allegoriche, le decorazioni simboliche, le convenzioni tipiche degli edifici sacri antichi, le forme stilistiche usate in senso referenziale, o addirittura erudito (così gli ordini e moduli vitruviani riesumati da L. B. Alberti o da Miche­ langelo per richiamare un ideale umanistico). Episodi si­ mili dicono soltanto che l'architettura può essere frequen­ temente anche un ibrido, una combinazione architettonico­ letteraria. Anche prescindendo dalla ideologia dei costrut­ tori, va tenuto presente inoltre che l'accumulo di tradizione raccoltosi su certi moduli, li condiziona, per audaci che ne siano le modificazioni e geniali gli usi. La piccola chiesa di S. Pietro in Montorio compromise quattro secoli di archi­ tettura. A sua volta, l'uso allusivo, critico, ironico o addirit­ tura parodistico che oggi certa architettura fa di stilemi tradizionali, è un prolungamento rovesciato dello stesso fenomeno; significa che l'architettura odierna si è ancor più letteraturizzata. Deve indurci questo a studiare l'archi­ tettura come una letteratura? Non proponiamo con ciò un programma di purismo for­ malistico. Si vuole solo rendere evidente che il carattere s e m i o t i c o-c o s t r u t t i v o (vero o presunto) dell'archi­ tettura, del quale si discute, non va confuso con quello


s e m i o I o g i c o - c u I t u r a I e , che nessuno contesta. I fattori di quest'ultimo, sì. possono considerarsi talvolta metafore, sineddochi, metonimie. Quali sono infatti i significati ai quali l'opera d'arte si riferisce come segno? Sono soltanto significati totali, defini­ tivi: risultati e non procedimenti, definizioni e non discorsi. Possiamo leggere nel Partenone un significato di disinvoltura e grandiosità armoniosa, l'equivalente plastico della paideia greca, in chiave winckelmaniana, o addirittura l'idea plato­ nica del Bene, che è misura, simmetria, ordine finale (e dietro questo significato il denotatum di una felice stagione politico-culturale, e l'incontro di personalità incomparabili, Pericle, Fidia, Aspasia... ), ma non abbiamo bisogno per questo di cogliere l'applicazione di proporzioni auree o di altre sim­ metrie in ogni particolare e tra i diversi elementi della costruzione 18, ossia di leggerlo in linguaggio geometrico. Se ci sono, e probabilmente ci sono, quei rapporti sintattici non costituiscono segni che significano (se non per una rifles­ sione tecnico-erudita). Capisco che il lettore è impaziente: i significati d"insieme ai quali abbiamo accennato sopra non sono intrinseci, sono culturali, nascono per memoria, per associazione. Ma il signi­ ficato globale e non letterario, il significato tout court di un edificio, il suo significato costitutivo: « arco di trionfo » « cattedrale», « palazzo», « teatro», « circo», è un signifi­ cato p r e s e n t a t i v o o r a p p r e s e n t a t i v o ? La risposta è semplice. Una cattedrale significa una catte­ drale, p r e s e n t a t i v a m e n t e , come una montagna si­ gnifica una montagna, un fiume un fiume. Diremo invece che r a p p r e s e n t a solo in quanto denota qualche· cosa altro da sé. Che nel conoscere si metta in moto anche un codice linguistico, non dimostra il contrario. Ogni esperienza ordi­ naria è sinngebend immediatamente e indipendentemente dall'operazione del nominare, dell'atto distintivo e classifica­ torio linguistico. 11 riconoscimento dell'essenza, la iscrizione nel tipo, comportano il rapporto di individuazione-intenzionalità, non

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necessariamente quello segno-significato. Questo è soltanto parallelo a quello, perché l'operazione linguistica è parallela a quella percettiva (e interagente con essa). È necessario esperire per nominare, non è necessario nominare per esperire, anche se il nominare intensifica e precisa l'esperire.

L'esperire estetico di un'architettura implica dunque tanto un significare presentativo quanto un denotare rappre­ sentativo. Il primo può inquadrarsi nelle analisi del visibi­ lismo formalista come del tecnicismo positivista: significati dell'opera d'arte sono i piani, i volumi, le linee, le dimen­ sioni, i materiali, le funzioni, etc. Ma appunto in quanto sono significati, non riferimenti. Se vi è un secondo signi­ ficare, rappresentativo, se vi è un significare segnico, ciò accade in quanto è un d e n o t a r e , in modo positivo, sto­ rico, contenutistico e non tecnico, culturale e non formale. In fondo si tratta di cose ovvie.

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Nessuno proibisce naturalmente agli architetti di par­ lare di morfologia delle forme, di sintassi planimetrica, e via dicendo. Volendo, anche i matematici potrebbero par­ lare, e con maggior diritto, di morfologia dei triangoli, d; sintassi delle aree, etc.; ma non Io fanno. Più serio è il caso dei pittori. La pittura ha tutte le carte in regola per dirsi un linguaggio, anche se iconico e ideografico e non simbolico. Offre una prima articolazione: gruppi e figure che corri­ spondono ai sintagmi e ai monemi del linguaggio verbale. Ogni pittore possiede un glossario di figure, spesso docu­ mentato in schizzi, che costituisce il codice, ossia lo stru­ mento selettivo e sostitutivo del suo comporre, e ciò all'in­ fuori dell'informatività iconologica dei suoi quadri (temi, motivi, simboli, allegorie...), che qui è fuori questione. Si tratta di un idioletto stilistico dell'autore, non sciolto da una tradizione: Cimabue usava un glossario bizantino, Raf­ faello attingeva talora a un repertorio peruginesco, talora a uno archeologico, classicistico, etc. Questo lessico è sem­ pre scomponibile in una seconda articolazione: i fonemi, i morfemi del disegno venivano studiati, un tempo, analiz­ zando pezzi anatomici e panneggi. Di qui il sorgere di codici didattici, di grammatiche stilistiche, che, uscite dall'ombra della battega, si sono fissate e diffuse come regole


accademiche, anche se talora con aspetti singolari, come quella dello Hogarth (il cui linguaggio pittorico poi non ' corrispondeva molto ai suoi canoni di lingua). Giustamente il termine « comporre», « composizione », si usava a pro­ sito della pittura come della letteratura. In un caso e nel­ l'altro si tratta di segni che significano, che rappresentano, che riferiscono. Si può ben dire che quelle tecniche grafiche, quelle scelte cromatiche, quegli espedienti prospettici, quei mo­ delli anatomici e fisiognomici della pittura figurativa, costi­ tuivano una lingua. Ma anche nel caso della odierna pit­ tura non figurativa si può parlare, se non di una lingua, di un linguaggio. Qui tutti gli elementi sono di seconda arti­ colazione, asemantici: sono come lettere, sillabe, temi, desi­ nenze pittoriche, con certe costanti combinatorie che allu­ dono a una possibile grammatica e sintassi idiolettica. Ma proprio questa possibilità della pittura di liberarsi del momento semantico pur rimanendo pittura propone il pro­ blema: l'arte pittorica è presentativa o rappresentativa? È noto che l'estetica fenomenologica, soprattutto con N. Hartmann, ha insistito sui diversi strati, asemantici e semantici, di cui la fruizione pittorica si compone 19. La strada era stata aperta già dalla Sichtbarkeit, con le sue categorie puramente visive. Ciononostante, bisogna conclu­ dere che anche la pittura non figurativa (astratta, concreta, materica, gestuale, ecc.) è sempre scrittura. Non è soltanto la presenza indispensabile di codici interpretativi (o di istruzioni sul « saper vedere») che fa il carattere semiotico della pittura (per cui le tele di Kandinsky o di Mondrian andavano lette secondo i loro programmi; e i buchi e i tagli di Fontana vanno letti secondo il codice dei suoi critici, presentatori e commentatori: senza critici niente Fontana, senza Fontana niente critici). Va aggiunto qual­ cosa d'altro. La pittura è linguaggio, ossia rappresentazione anche senza codice. Una tela verniciata di rosso esposta al padiglione USA non equivale a un pannello di faesite rossa sui bordi di una Metropolitana: è la r a p p r e s e n t a z i o n e di un rosso, il segno di un rosso. Tracciare una pennellata nera su una superficie bianca o coprire di un colore unito tutta una tela è sempre un segnare. Una mac­ chia di vernice su un vestito è una macchia, su una tela è il segno di una macchia. In tutti i casi sarà possibile esco­ gitare un codice interpretativo, non importa quanto vacuo; ma anche qualora se ne prescinda, la virgola nera, la tinta unita, la macchia, sono un rappresentare, un riferire a, un:> 23


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stare per. Una rosa è una rosa, ma una virgola dipinta non è una virgola: è il segno di una virgola. La pittura è l'unica arte che non possa liberarsi, nep­ pure al limite, della s e g n i c i t à . t:. più segnica, se non più linguistica, della stessa letteratura (e la si può conside­ rare perciò la più inutile e la più umana delle arti: vi sono animali che parlano, che cantano, che suonano, che costrui­ scono case, edifici, colonie, dighe, ma non che dipingono). Se anche qui si incontra il binomio p r e s e n t a t i v o• r a p p r e s e n t a n t i v o , diremo che qui esso è intrinseco a uno dei due membri, al momento rappresentativo, fonda• mentale, come nelle arti letterarie. Ma con più rigore. In ultima analisi, il puro suono di una desinenza, di una allit­ terazione, di una cadenza, di una rima, è un puro suono: ma una pura pennellata non è una pura pennellata, è la pennellata (il segno) della forma-colore pennellata. Un;1 sillaba è un suono, una pennellata non è un colore. Ciò ammesso, il discorso che abbiamo fatto per la letteratura vale per la pittura. Anche qui il grafema, come là il fonema, è valido insieme per la sua funzione rappre­ sentativa, segnica, e per la sua presenzialità sensibile: si pensi ai pittori più pittori, a Giotto o a Mantegna, a Tiziano o a Klee. Un difetto di quest'ultima compromette il risultato artistico non meno che il difetto della prima. D'altra parte la presenzialità pittorica, abbiamo veduto, è sempre in ultima analisi una presenzialità rappresentativa, cioè, per paradosso, non presente. Il liberarsi dal contenuto semantico non è bastato ai pittori moderni per liberarsi dalla rappresentatività del segno pittorico, dalla sua natura eidopoietica. Tanto se ne sono accorti i pittori recenti, che li vediamo abbandonare sempre più la tela dipinta per passare a una pittura fatta di materie eterogenee, strati e amalgame di sostanze, depositi corposi, e trapassare nella tecnica della creta, della maiolica, dello sbalzo, per offrire una presenzialità sensibile più autonoma, per liberarsi dalla odiata semioticità intrinseca al dipinto. t:. un ritorno e un contrappasso. Essi usano per lo più, volutamente, materie vili; i pittori antichi ricorrevano a sostanze preziose, a colori vividi e duri come smalti, talora in rilievo, a pietre incastonate, a fogli d'oro puro. Un altro espediente che conferma quanto abbiamo detto è il ricorso dei pittori al procedimento inverso: di esacer­ bare l'effetto presentativo e di singolarizzare quello seman­ tico, raddoppiando la convenzione segnica e sovrapponendo al codice un codice. Trascuriamo alcuni esempi antichi, che


potrebbero venir contestati. Ricordiamo che lo stile bizan­ tino di Cimabue non rimandava alla tecnica del musaico, né quello archeologico di Raffaello alla tecnica dell'encau­ sto. Gli stilemi di Rouault invece rimandano alla tecnica del vetro piombato. E talune delle più celebri pitture di Picasso vanno lette e decodificate secondo un codice preco­ stituito, quello delle miniature mozarabiche, che Picasso traspone in misure da affresco 20• In questi casi anche il momento presentativo deve essere fruito rappresentativa­ mente: ossia deve essere letto. Qui gli stilemi occultano precedenti stilemi, che devono essere decifrati: costitui­ scono stilografie. Che gli ideogrammi dell'artista mozara­ bico per significare il Giudizio Universale, vengano ripresi da Picasso per significare il finimondo di Guernica, è legit­ timo, e nel caso in questione costituisce una scelta coerente e felice. Ma che Picasso abbia tenuto accurata­ mente nascosto quel codice, dice appunto che esso doveva agire da codice, come in un criptogramma. Nel caso di Rouault gli effetti di un'arte devono rendere gli effetti di un'altra arte; gli stilemi dell'una rimandano agli stilemi dell'altra; gli uni si dispongono in sostituzione degli altri, e solo attraverso quel riferimento il discorso pittorico acquista significato e dignità: diremo con gli antichi che diventa safès e semnotéron. Il codice a cui ricorre è quello degli xenikd: la tecnica delle vetrate è straniera a quella della pittura a olio, abbastanza per otte­ nere effetti di xénes, di aponton, di straniamento poetico. Anche nel caso di Guernica, alcuni grafemi non hanno pregnanza se non attraverso altri grafemi: ma questi ultimi sono occultati. Il riferimento non è a una lingua straniera, ma a una lingua ignota. Il quadro vuole provocare lo stato di sospensione dell'indeterminato, dell'indecifrato, mercè un ricorso a grafemi che sono apofthégmata, einigména; è la tecnica del parà prosdokian. Si tratta di mezzi e di risultati che sono abituali nella retorica letteraria 21; ma che appunto appartengono all'arte linguistica. In questi casi, e solo in questi casi possiamo parlare di una lettura pittorica. L'ut poiesis pictura non è d'oggi 22, è antico; la scoperta della critica figurativa moderna era stata di rifiutarlo: oggi vi si ritorna. A quest'ordine appartiene anche tutta la componente ironica o parodistica che entra in sempre maggior misura nella mimesi artistica contemporanea, specie in arti rap­ presentative come è la pittura (inizio: Seurat?). Si tratta di un uso del processo segnico moltiplicato (il logico potrà


parlare di denotazioni e connotazioni plurime) come piace in letteratura. II fenomeno della « lettura » esteso alla dimensione stilistica, presentativa, è dunque un portato della più recente retoriciz­ zazione delle arti, nell'ambito di un manierismo raffinata­ mente intellettualistico. L'intellettualismo cacciato dai con­ tenuti è rientrato nelle fonne. Teniamo conto però che, se gli esiti � squisiti o grossolani che siano - di una simile lettura al quadrato (cioè di stilemi da interpretare sistema­ ticamente come un codice) vengono spesso esaltati in sede programmatica, di rado sono effettivi. Di rado in questi casi il pubblico legge effettivamente quegli stilemi: e ancor meno l'artista sa che cosa con essi ha scritto. Arbitro rimane il critico. Un aspetto di queste aspirazioni a una « scrittura stile­ matica », cioè a un risultato stilistico che possa funzionare da segno (arte al quadrato), è costituito dalla tecnica del1'« ambiguità». L'ambiguità è esistita sempre come una categoria retorica dell'ordine della sorpresa, dell'inaspettato, della paraprosdocia, consistente per lo più in aforismi e in arguzie. Oggi è qualcosa dello stesso ordine, ma otte­ nuto in modo più complesso. Abituato alla dialettica dei diversi significati che la stratificazione storica deposita nella fruizione dell'opere d'arte, con un effetto che oramai è entrato nel nostro gusto (si pensi a una interpretazione, oggi, di Virgilio; si pensi alla molteplice lettura che fac­ ciamo di architetture apparentemente semplici come quelle del Palladio), l'artista contemporaneo non può più dire una cosa sola. E non ne ha molte da dire. Di rado ha la capa. cità di inventare intellettualisticamente una stratificazione di significati (come facevano in modo ingenuo i simbolisti medioevali, ispirati da una singolare e forte senso storico; o come, in modo ironico, di recente, Th. Mann, e in maniera singolare, Joyce). Si accontenta allora di significati imme­ diati volutamente vaghi e perciò polivalenti, e di rimandi denotativi incerti, occultati, per lo più pseudo-biografici (il meno autentico Montale della Bufera: vedi gli « Orec­ chini ,, ). L'effetto vuole essere quello di un'erosione arcaica che consenta diverse letture. Il senso di i m p r e v i s t o degli antichi si è perfezionato in i m p r e v e d i b i l i t à . Talvolta questa ambiguità rivela la sua origine di categoria retorica dall'effetto non diverso da quello più o meno buffo-


nesco della paraprosadocia antica: come in certi risultali

dell'école du regard o in certa tecnica d'avanguardia, dove

il periodo letterario vuole essere un incastro sintattico di proposizioni reali, di proposizioni mnemoniche, di propo­ sizioni onii·iche, etc. (ben diverso dal procedimento di Faulk­ ner, che non era un esercizio). Anche certe compresenze di più livelli di significato e rinvii dall'uno all'altro che abbiamo citato nella pittura, ottenuti con la tecnica del pastiche (Rouault) e dell'apoftegma (Picasso), possono esse­ re ritenuti tanto effetti arcani quanto parodie. Se ammettiamo (un pò sommariamente e convenzionalmente: ma non stiamo ora a sottilizzare) che il senso propriamente estetico, dal punto di vista linguistico, è quello dei signi­ ficati p r e s e n t a t i v i , immediati, e che i riferimenti indi­ retti, d e n o t a t i v i , sono d'ordinario, da quel punto di vis ta, i più extraestetici (ciò che non vuol dire - Io si è veduto - che il momento extraestetico sia estrinseco all'ope­ ra d'arte), dobbiamo riconoscere che, almeno per certi ge­ neri d'arte, la I e t t u r a culturale-denotativa è secondaria. L'aspetto inconfondibile della comunicatività estetica avviene a livello presentativo. Abbiamo detto infatti che anche nel caso dell'arte più vicina al linguaggio, dell'arte tutta comu­ nicazione linguistica, l'arte letteraria, il carattere artistico coincide con l'aspetto i n t r a n s i t i v o del linguaggio: sta nell'ottenere effetti presentativi (il che non significa neces­ sariamente visivi, pittorici) con mezzi (parole) rappresen­ tativi. Egualmente un'altra arte così facilmente riducibile a lessico, a morfologia, a sintassi, sul modello linguistico, come la musica, non la si può considerare un effettivo linguaggio, proprio perché la sua articolazione non è rappresentativa ma presentativa: non suscita concetti o immagini musicali, ma presenta idee, immagini musicali le quali non vengono comunicate dal processo sonoro, sono il ·processo sonoro.

Si pensi che di l i n g u a g g i o musicale si potrebbe parlare se si accettassero certe tesi di musicologhi, come il Cooke (The Language of Musica, 1966), il quale ha costruito un vocabolario di fonemi e di morfemi musicali sulla base del loro rapporto biunivoco con i sentimenti. In questo sistema ogni intervallo musicale funge da segno di un 27


significato emozionale: la terza minore significa tragedia, la terza maggiore gioia, la quarta eccedente Sehnsucht, etc. Ma anche in questo caso gli effetti acustici, non sarebbero segni: non significano semiologicamente sentimenti del­ l'animo, come i diversi sapori non s i g n i f i c a n o modi di soddisfazione o di insoddisfazione, di benessere o di malessere. Vero è che la musica, per la sua alleanza con la parola, si trova in una situazione particolare e com­ plessa. È il caso di Bach, riconosciuto come l'esponente della musica più astratta, pura, presentativa (L'arte della fuga, Il clavicembalo ben temperato) e di quella più raffi• gurativa e più simbolica (La Passione secondo S. Giovanni, Ya Passione secondo S. Matteo) 23, Del pari che gli elementi di un'architettura - già l'ab­ biamo veduto - non sono i segni delle sue funzioni costrut­ tive né dei suoi usi, così i suoni non sono i segni delle frequenze di vibrazioni né dei loro effetti psicofisici. " La musica è simile a un linguaggio, ma non è un linguaggio », scriveva giustamente W. Adorno 24. IV La distinzione che abbiamo proposto, e dalla quale di­ scendono tutte le considerazioni svolte fin qui, oltre a presen­ tarsi con un'evidenza che la farà dire lapalissiana, si presta anche a una prova: rende ragione di altre distinzioni già note e accettate nel mondo degli esperti, e in parte le con­ ferma in parte le spiega. Abbiamo constato che ogni comunicare artistico ha un doppio aspetto: pre-linguistico e linguistico (intransitivo e transitivo, presentativo e rappresentativo); tanto è vero che in un genere d'arte come la letteratura, tutta e solo lin­ guaggio, questi due momenti, linguaggio e non-linguaggio, si trovano internamente al linguaggio. Ora tutti conoscono l'applicazione che lo Jakobson ha fatto di una classica distin­ zione, quella del Saussure, valida per il linguaggio normale, adattandola al linguaggio letterario. Saussure distingueva il principio sintagmatico e il principio paradigmatico, il prin­ cipio della combinazione e il principio della selezione. In breve, il comunicare -linguistico opera per sintesi sulla base 28 di un lessico, secondo le possibilità selettive e sostitutive di


questo: è chiaro che entrambe le operazioni, la scelta del lessico e le sintesi combinatorie sono operazioni simboliche, rappresentative. Così nel linguaggio comune. Ma Jakobson ha posto in rilievo un altro fatto: che nel caso dell'informazione letteraria il processo combinatorio dei sintagmi non avviene soltanto nel quadro di un sistema di selezioni possibili, ossia di un codice, ma ubbidisce esso stesso a un criterio di equivalenze e di sostituibilità, ossia crea un codice. I fattori lessicali, morfologici, sintattici, non si uniscono più libera­ mente entro le possibilità combinatorie offerte per selezione e sostituzione da un codice linguistico, come avviene nella prosa ordinaria, ma si combinano in modo da attuare nelle loro stesse sintesi certe equivalenze e sostituzioni, ossia da produrre un codice retorico: è ciò che avviene nella prosa periodata e nella poesia. Secondo la sua formula « la fun­ zione poetica proietta i principi di equivalenza dell'asse della selezione sull'asse della combinazione» 25• È evidente che in questo caso le equivalenze, i couplings, le omologie che ne risultano, non sono strutture simboliche r a p p r e s e n t a t i v e (come quelle della sintassi ordinaria, costruita se­ condo l'analisi logica), ma p r e s e n t a t i v e . La struttura paradigmatica di un'ottava o di un cobla provenzale (per stare ai sistemi tradizionali in cui si muove lo Jakobson) non è rappresentativa, simbolica, ma presentativa, percettiva, co­ me ogni espediente di intransitività. Una rima non rappre­ senta niente, presenta. Viene così verificato con le categorie dello strutturalismo il paradosso accennato sopra: che anche il genere d'arte più linguistico comunica in modo linguistico e non linguistico. La stessa verifica riesce anche più ovvia per le altre arti: in ognuna possiamo distinguere un momento combinatorio e un momento sostitutivo, l'uno sostanzialmente semantico e l'al­ tro no, l'uno narrativo e l'altro decorativo: quello rappresen­ tativo e questo presentativo, quello fatto di sintesi, di sin­ tagmi, e questo di simmetrie, di equivalenze, di omologie. Quello logos e questo peridos. Perciò la musica è meno narrativa della letteratura, e

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l'architettura meno narrativa della musica. Le corrispon­ denze, le equivalenze, le consonanze (asse delle .sostituzioni) sono ben più importanti e evidenti in una composizione musicale che in una narrazione letteraria. E in una costru­ zione architettonica anche più dominanti. Un'architettura è spesso riducibile a un unico ritmo, secondo un modulo. In certi stili sembra prossima a risolversi completamente in una regola di selezione e sostituzione. Qui il fattore paradigmatico, stilistico, è così prevalente da nascondere spesso l'avventura combinatoria, la vis narrativa, l'inventi­ vità plastica dell'edificio. Ma che cosa narra un edificio? (o che cosa narra una musica?). Esponiamo il problema partendo da un'altra domanda apparentemente zotica. Perché un portico ha 18 arcate e non 19, o non 21? Se rispondiamo: perché così è richiesto dalle simmetrie della fabbrica, è chiaro che abbiamo risolto l'ordine sintagmatico in quello paradigmatico: non abbiamo più nessuna ragione combinatoria, la combinazione, la sin­ tesi, si è esaurita al livello della cellula architettonica, po­ niamo l'arco: tutto il resto avviene per pura selezione e sostituzione. Scelto un modulo tutto il rimanente è mul­ tiplo o sottomultiplo di quel modulo: al limite, dato quel modulo, tutto l'edificio si costruisce da sé magicamente (il mito di Orfeo: ubbidendo a un ritmo le pietre si dispone­ vano da sole). A questo punto ritorna la domanda: ma perché solo 19 archi? In teoria un edificio potrebbe anche complicarsi e crescere all'infinito e essere sempre equivalente (lo stesso organismo di partenza, anzi la stessa cellula originaria con un sempre maggiore gnomone). Né la misura della cellula di base né la regola del suo modulo (un numero razionale, o irrazionale, o un numero aureo) determinano il limite di fatto dell'edificio: questo non può essere prodotto da una ragione paradigmatica, sostitutiva. Abbiamo scelto per pa­ radosso un edificio (o un esercizio musicale) totalmente paradigmatico. La sua componente inventiva, narrativa, acci­ dentale, indeducibile, a posteriori, in questo caso si riduce unicamente alla sua misura completa. Ma questa implica scopo: e finalità equivale a funzione. Diremo allora che la misura dell'edificio deriva dalla sua funzione? Non dimen­ tichiamo che la misura (la misura completa, il teleon plato­ nico 26, nel nostro paradosso costituisce il residuo ultimo della inventività, della combinazione, della narratività. Al!ora è vero che l'edificio è il simbolo rappresentativo della


sua funzione? che n a r r a il suo significato funzionale? È vero. Ma stiamo attenti: il suo. Non un significato fun. zionale: non un fine possibile, ma quel fine reale, quella destinazione. L'edificio cioè non è segno che significa, ma che denota. E ciò che denota - come sempre accade per ogni denotazione - è estrinseco all'edificio come sistema strutturale, architettonico, come « fabrica formaliter spec­ tata »: perciò l'edificio non presenta, ma rappresenta quella finalità. L'arco di Tito presenta un trionfo, ma non p r e. s e n t a il trionfo di Tito, lo r a p p r e s e n t a : lo denota convenzionalmente, semiologicamente nel suo insieme, e linguisticamente nei suoi bassorilievi. E che cosa narra una musica? Poiché la musica è un'arte temporale come la lettera­ tura, qui si è disposti - diversamente che per l'architet­ tura, arte spaziale - a una risposta positiva. Invece anche per la musica la conclusione non cambia. Anche qui il fat­ tore sintagmatico si risolve in gran parte in quello paradig­ matico. La vocazione della musica non è narrativa. Tanto è vero che in origine nell'opera musicale la denotazione dei fatti, l'evento drammatico, era resa in prosa, era priva di versificazione e di accompagnamento; e il distacco si con­ servò in seguito nella differenza tra il recitativo e le arie. Nei duetti d'opera, o nelle parti a più voci contrappuntate, il significato delle parole divenne addirittura impercetti­ bile per il loro sovrapporsi; la denotazione era come se non fosse: contava esclusivamente l'effe!!':\ strutturale delle omologie musicali. Si dirà che quel raccontare era estrin­ seco, e che la musica non rinunciava a niente di proprio. Ma nella musica strumentale le cose non sono sostanzial­ mente cambiate: il momento sintagmatico, la successione narrativa, non si sottrae all'impero delle omologie del con­ trappunto, tonale o seriale, se non per permetterne più ricche variazioni: solo per questo un tema si estingue e una frase si rompe, un'attesa è frustrata e un imprevisto entra nel discorso. Il vecchio parallelismo tra musica e architettura è quindi ancora valido. La musica è simultanea come l'architettura è successiva: per alternanze, ritorni, omologie, corrispondenze, simmetrie. Certamente una musica s i g n i f i c a : come una archi­ tettura significa, come un albero significa. Non d i c e qualche cosa, la provoca, Per d i r e , deve denotare qualche cosa di là da sé (anche un albero può simboleggiare una grande famiglia): e lo fa alleandosi alla parola poetica (canto), o alla parola critica (programma) o alle conven- 31 ·


zioni (certe arie, indipendentemente dall'effetto presenta­ tivo che provocano, denotano simbolicamente sveglia, copri­ fuoco, nozze, funerali...: così come certi vini indicano arro­ sti, altri pesce, altri dessert, e certi abiti pranzo, altri ballo.). Risulta dunque che le nostre due categorie di partenza, il p r e s e n t a t i v o e il r a p p r e s e n t a t i v o , corrispon­ dono alle due fondamentali categorie linguistiche: il che non vuol dire che si risolvano in linguaggio. È il linguaggio in quanto linguaggio artistico (non certo in quanto linguaggio comune) che si è rivelato linguaggio e non-linguaggio (o se vogliamo, fatto semiosico e non-semiosico), e che si riduce alla dicotomia anteriore. Diremo perciò che l'edificio ha, sì, un momento lingui­ stico. La narrazione architettonica è invenzione combina­ toria, e come tale è linguistica, referenziale; ma nel suo tutto, nell'insieme, diversamente da una narrazione letteraria. Solo l'insieme narra e significa: e significa denotativamente: denota una funzione reale, una destinazione storica: questa destinazione, di questo edificio, del Rossellino o di Lacor­ busier. Non ha invece un'articolazione significante, come il linguaggio verbale. Risulta anzi che un'esibizione di carattere semiologico delle parti architettoniche è a detrimento del valore tanto organico che semantico dell'insieme (si pensi al Liberty), e viceversa (si pensi all'espressionismo). Lo stesso si può dire della musica, ove un eccessivo rilievo del lin­ guaggio semiologico, referenziale, simbolico o descrittivo, coincide con la perdita del senso organico del tutto n (anche se la perdita semantica è mascherata spesso dall'accompa­ gnamento vocale letterario, o da riferimenti estrinseci, a pro­ gramma ). È facile comprenderne ora il perché.

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Anche le differenze tra le varie arti si devono ricon­ durre a una diversa incidenza interna dei due momenti, presentativo e rappresentativo, l'uno significativo, l'altro denotativo. Se nell'opera letteraria prevale il momento della significazione simbolica ma intransitiva del possibile uni­ versale (tanto autorevolmente assiomatizzato da Aristotele), non vi è dubbio che nell'opera architettonica prevale invece


il momento della denotazione del reale particolare. E ciò si riflette sulle strutture stilistiche, cioè in ultima analisi sugli imperativi di gusto dominanti in architettura. L'esa­ sperazione retorica del discorso « non consueto », « non-en­ tropico », « imprevisto», della paraprosdocia, qui è meno frequente che in altre arti, appunto perché il senso della destinazione sociale dell'edificio qui consente minori spinte al gratuito; esso si riflette dal contenuto denotativo sulle forme significanti e provoca una naturale vocazione dell'ar­ chitettura, quale che sia il suo stile, a un'effetto classico za. Agli occhi di un letterato avanguardista l'architettura è la più banale delle arti; in realtà è la più dialettica.

V La distinzione che ci si è imposta, dell'opera d'arte: come non-linguaggio e linguaggio, cioè come processo intenzionale (semantico-fenomenologico) e discorso linguistico (semantico­ semiologico), la si ritrova, consapevole o meno, anche alla base dei tentativi che i più recenti studiosi della scuola strut­ turale hanno compiuto, di definire con le loro categorie il linguaggio artistico nei confronti del linguaggio comune. Abbiamo veduto infatti come quelle categorie possano ri­ dursi alle nostre. Nemmeno il linguista può sottrarsi all'esigenza di preci­ sare un criterio poesia-non poesia, che egli vuole specificare in ·modi tecnici. La differenza dal passato è che, se ieri i crociani miravano a individuare ciò che ha e s i t o p o e t i c o o n o n - p o e t i c o , gli odierni strutturalisti mirano a definire ciò che ha o non ha v o c a z i o n e I e t t e r a r i a . L'esigenza è la stessa. Niente di più opportuno dun­ que che esaminare il loro criterio. Non siamo tenuti a accettarlo. Anche criticandolo e modificandolo, se vi ritro­ veremo dentro la distinzione definita sopra, ciò confermerà quanto essa inerisce all'esperienza estetica e come può essere utile all'indagine stilistica. Partiamo dunque dalla soluzione proposta dai maestri della linguistica st·rutturalista e ripetuta senza varianti dai recenti seguaci. Si tratta in realtà di due risposte, usate per lo più in modo confuso e mescolato, che noi cercheremo di

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chiarire, riportandole a quelli che ci sembrano i loro signi­ ficati e le loro misure legittime. Una risposta (A) è prevalentemente linguistico-stilistica, l'altra (B) stilistico-retorica. Ciò dice che esse si embricano l'una sull'altra. A) Abbiamo riconosciuto che quel che distingue un di­ scorso genericamente letterario (e lo stesso si può dire per le altre arti) è la sua i n t r a n s i t i v i t à ; la quale riguarda l'aspetto presentativo, immediato, non-referenziale e quindi a rigore non-linguistico, del linguaggio (quale che esso sia). Principio presentativo e principio paradigmatico, abbiamo veduto infatti, coincidono. È proprio su questo che si basa lo Jakobson quando vuole ricavare dalla linguistica criteri di stilistica, e da questi un principio estetico. Il principio, in tal caso, è il principio già citato della selezione. Artistico risulta ciò che è sapientemente strutturato in fattori simme­ trici (il par' allela degli antichi), per rispondenze proporzio­ nali (il katà analogian), per proposizioni embricate nel pe­ riodo (léxis katestramméne) e ubbidienti a omologie timbri­ che, ritmiche, sintattiche, semantiche (parisosis, paramoiosis, paranomasia, onomoteléuton, etc.) 29• Un tale discorso non si dissolve nella pronuncia. Costituisce la inalterabilità della letteratura. Abbiamo riferito la tesi strutturalista introducendovi alcune precisazioni, che nei testi orginali mancano, ma che risultano dal riflesso gettatovi sopra dal nostro di­ scorso: 1) Questa struttura è, di massima, p r e s e n t a t i v a . 2) Essa opera esteticamente nel senso della intransi­

tività.

3) Ha un risultato letterario-retorico (e infatti coincide con i dettami dell'antica retorica) più che artistico (poetico).

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B) La definizione veduta si accavalla su un'altra. Il di­ scorso estetico è un discorso «inconsueto», non owio (mè tapeinè léxis, mè idiotic6n), tale da vincere gli automatismi del discorso ordinario (Chklowsky); da«offendere la norma» (L. Spietzer), da costituire uno scarto 29*.


Un tale principio riguarda il linguaggio vero e proprio, strumento referenziale, r a p p r e s e n t a t i v o , a differenza del principio precedente, dal quale quindi va tenuto distinto, anche se vi si connette. Esso è stato per lo più mescolato o addirittura confuso col primo (A viene usato per ottenere B), ma in realtà l'uno non implica l'altro. Una struttura a base di omologie non comporta necessariamente lo straniamento, l'imprevisto, la -sorpresa, né a sua volta un discorso incon­ sueto necessita d i ricorrenze strutturali. Tanto è vero che il principio dell'inconsueto » è assai antico. Era il principio aristotelico della Poetica (léxeos dè aretè safe kaì mè tapeinèn e,nai, Poetica 1458 a, 18): e in quella sede non aveva niente a che fare con le ricorrenze strutturali comuni alla ritmica, alla sintassi, alla stilistica della prosa oratoria (le omologie poetiche erano soltanto prosodiche): In questo secondo caso infatti il principio del discorso inconsueto, mè idiotik6n, non entropico, regredisce dalla applicazione sintagmatica alla dimensione paradigmatica; e così il criterio B si riassorbe in A. Infatti Aristotele lo faceva valido anche per la Retorica (14 o 4 b. 3-4). Ma ap­ punto, perché lo usava in due sensi. Nella Poetica era in funzione di B: il linguaggio poetico ci fa uscire dal comune, porta il di-scorso nella zona dello spoudaion, rompe la nor­ ma quotidiana, distingue il discorso artistico dal discorso ordinario, e così contribuisce all'incanto della poesia. II mè idiotik6n qui è esclusivamente del lessico, e quindi di un fattore, sì, paradigmatico, selettivo e sostitutivo, ma che non proietta la sua funzione sul momento sintagmatico: è al servizio della libertà di questo, gli ubbidisce. Nella Re­ torica invece esso era in funzione di A: il linguaggio reto­ rico vuole riuscire incisivo e mnemonico, e ottiene questo proprio con la cadenza inconsueta dei periodi chiusi, rit­ mici, equilibrati, simmetrici, e con le figure stilistiche, fon­ date pure sull'omologia. Aristotele distingueva i due usi di quel principio in modi forse non sempre perfettamente chiaro, ma certa­ mente abbastanza chiaro. Gli strutturalisti non li distin­ guono affatto, e li usano in modo del tutto confuso. La distinzione di Saussure tra principio sintagmatico e prin­ cipio paradigmatico permettevE- loro di tenerli metodica­ mente, separati, ma non lo hanno fatto. Il principio del

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discorso inconsueto, del linguaggio nuovo, non frusto, viene formulato come criterio B, sintagmatico; ma poi viene applicato come A, paradigmatico. Viene formulato come rappresentativo e viene usato come presentativo. In questo modo le due regole stabilite dagli strutturalisti per definire il discorso letterario, A e B, rientrano l'una nell'altra, ed è chiaro perché: le due formule si adattano a due specifica­ zioni, o comunque a due orientamenti diversi del discorso letterario, antichi quanto la nostra civiltà, l'oratorio e il poetico, dei quali quegli studiosi non hanno veduto la diffe­ renza, e che non hanno tenuto distinti: perciò mescolano le due tesi. Il risultato di questa confusione è molto semplice: essa li porta a scambiare la funzione poetica con quella retorica, e a ricorrere ai mezzi della vocazione letteraria per spiegare o ottenere l'esito poetico. Quel modo letterario (ma il discorso è estensibile alle altre arti) che con inflessione negativa chiamiamo « retorico », consiste proprio in uno scambio dei due criteri, e quindi dei due momenti da noi distinti della comunicazione estetica. Accade che mezzi p r e s e n t a t i v i , intransitivi (simmetrici), vengono usati in funzione transitiva (informativa e persuasiva); e mezzi r a p p r e s e n t a t i v i , transitivi, strumenti di novità, di rottura (ambiguità, paraprosdocie), in funzione intransitiva (strutturale, edonistico-stilistica). Sono gli aspetti, oggi, di molta critica e di molta letteratura, di cui per abitudine non avvertiamo più le contraddizioni. Se invece si tengono ben distinti quei due principi che gli strutturalisti hanno ricavato dal Saussure (e nozioni come queste, il tenerle ben distinte è un tenerle - ma doverosa­ mente - troppo distinte), ne risulta questa tavola sinottica:

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A) L'omologia, la strutturalità del discorso, corrisponde alla sua dimensione sostitutiva, p a r a d i g m a t i c a , e que­ sta al suo momento p re s e n t a t i v o e alla sua funzione i n t ra n s i t i v a . Coincide con l'ideale della « consonantia », dell'« unum multum », della « perfectio »; con la nozione set­ tecentesca della absolute beauty, della pulchritudo vaga, con la sua « insignificanza ». B) Il « non comune», l'imprevisto, il non-entropico, cor­ risponde alla dimensione combinativa, s i n t a g m a t i e a , al momento ra p p re s e n t a t i v o . Coincide con la funzio-


n e del manthdnein, con l'ideale della novelty, con la nozione settecentesca della relative beauty, della pulchritudo adhe­ rens, con il «caratteristico» e l'« interessante». (l !.lesta tavola risulta eccessivamente semplice, perché ricalc.1 di proposito le distinzioni degli strutturalisti, il cui dis�orso concerne solo un'arte, l'arte letteraria; perciò è semj\ !ice e lineare. L'arte letteraria tuttavia presenta (insieme con la pittura tradizionale) un aspetto che non offrono I! altre arti: il coincidere del fattore sintagmatico con quelhl rappresentativo e il suo prevalere in misura tale che non 1:i trova in altre arti (musica, architettura). Si potrebbe p'!rciò sospettare che, applicata a queste, la tavola non regga. La dom.lnda stessa da cui eravamo partiti (« l'arte è linguaggio?») presupponeva che si potesse parlare non mio di un génerico m.c.d. tra le arti, ma di categorie cri­ •.iche e di fattori estetici validi in modo equivalente per l·Jtte. L'omogeneità era nel postulato. Contemporaneamente lt differenza tr.;i le arti comporta un'applicazione di quelle categorie, ma differenziate, e non c'è dubbio che ogni volta che il discorso le prende in esame in modo uniforme, risulta sfocato. È un'antinomia inevitabile. Un modo di salvare la tavola potrebbe e.,sere, dopo averne stabilito le correspon­ denze omogenee, di mostrarne l'applicazione differente, entrando in una �·ottile interpretazione dei c a r a t t e r; d i v e r s i che il fattore sintagmatico e quello paradigma­ tico, il momento rappresentativo e quello presentativo, as­ sumono nelle diverst\ arti e nei diversi generi, il che non si può fare qui in dettaglio (per quel che era possibile, incidentalmente è già stato fatto). Realizzabile è invece l'operazione inversa: indicare in modo anche più preciso quale è il s i g n i f i c a t o c o m u n e che dobbiamo dare a ciascuna delle catego--'e precedenti nelle diverse appli­ cazioni. Ricordiamo che la noz10ne d� r a p p r e s e n t a t i v i t à . propria del momento inventivo, sintagmatico, in ogni arte, va intesa come riferimento linguistico (o almeno semio­ logico) a un denotato. Precisiamo ora che al de ;i o t a r e va conferita l'estensione del termine semantico bedeuten, che indica appunto il riferimento oggettivo, reale o irreale (storico o naturalistico, ma anche logico o mitico) 30• Nes­ suno si meraviglierà poi se nell'arte il rapporto assiologico originario Sinn-Bedeutimg valido per la scienza, si trovi

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rovesciato, e la primalità della Bedeutung decada a favore del Sinn. Sono sensi o significati, Sinne li, quelli che intenzionano un oggetto p r e s en t a t i v a m e n t e . Sono denotati, re­ ferenti, Bedeutungen, quelli che lo rappresentano semiolo­ logicamente. La intenzionalità presentativa del percepire estetico possiede proprio le proprietà che il Frege attri­ buiva ai sensi o significati: di essere parziali, prospettici, soggettivi, di mirare a un referente unico, ma sotto diversi profili. La verità del Bedeuten, il suo riferimento oggettivo, è una nozione limite, che non sempre può esaurirsi nei suoi dati intuitivi: ma può, sempre venir r a p p r e s e n t a t a simbolicamente, con una stipulazione nominale, che se ha grande importanza nelle scienze, non ne ha quasi nessuna nell'arte (che la parola «Iliade» definisca nomi­ nalmente l'intera Iliade non ha nessun valore, scriveva già Aristotele) 32• Non è certo in questo modo che si può par­ lare di denotazione artistica. In un'opera d'arte tutto ha senso in quanto tutto è un intenzionare progressivo, intui­ tivo, pittura o musica o letteratura che sia: una sua apprensione simultanea è impensabile e una concezione simbolica trascurabile. L'oggettività denotativa dell'opera d'arte è un'altra: consiste nel riferirsi la totalità progres­ siva del discorso artistico a un sistema fuori del discorso, consiste nell'inserirsi l'unità dell'opera d'arte in un più ampio sistema oggettivo. Mentre i s e n s i o s i g n i f i c a t i dell'opera d'arte non superano la dimensione este­ tica, la sua d e n o t azi o n e invece la riferisce a una realtà extra-estetica: ciò che non ha analogia nelle scienze pure, ove il denotato non esce dalla regione scientifica; accade, se mai, nella filosofia. Usualmente infatti si parla di due ordini di significati dell'opera d'arte: significati este­ tici: stilistici, fantastici, espressivi, emotivi, teatrali, e signi­ ficati extra-estetici: storici, mitici, sociali, patologici... L'arco di Tito denota semiologicamente gli eventi storici del suo trionfo; la Danae del Tiziano denota una situazione sociale di Venezia, che il quadro simbolizza iconicamente.

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Se quindi la precedente tavola poteva lasciare aperta la domanda: come funziona il momento sintagmatico, com­ binatorio, narrativo, nelle diverse arti? possiamo ora preci­ sarlo (ma già lo avevamo dichiarato a diverse riprese nel corso della trattazione). Significa in modo intenzionale, presentativo; denota in modo linguistico-semiologico, rappresen-


tativo. E certo solo un esame accurato e informato, con­ dotto per ogni arte da parte di studiosi più competenti e sensibili di noi, potrebbe confermarlo. L'esperienza di molta critica infatti sembra dire spesso tutt'altro; ma proprio così, riteniamo, lo conferma. Se infatti noi attribuiamo il s i g n i­ f i c a t o (o i significati) dell'opera d'arte, come molta critica fa, a una sua esibizione articolatamente semiologica, ne otter­ remo una interpretazione retorica, formalistica (l'opera d'arte che dice se stessa). Se noi riportiamo il d e n o t a t o del­ l'opera d'arte alla sua intenzionalità presentativa, ne otter­ remo una interpretazione contenutistica (la poeticità del re­ ferente). Due distorsioni critiche assai diffuse. Dei due pericoli oggi è senza dubbio più attuale il primo: è insito in ciò che sembra l'aspetto più proprio, e quindi più originale e efficiente, dell'arte moderna. Non saprei indicarlo meglio che citando alcune righe di un giovane assai riflessivo. Esse contengono una constata­ zione, non una valutazione. Egli constata la presenza nella cultura di una omogeneizzazione e dilatazione e appiatti­ mento del senso dell'arte (il quale si stempera in artisti­ cità diffusa: l'Art as experience, di Dewey) e, ciò nonostante, un contemporaneo moltiplicarsi di specifiche chiusure di­ sciplinari. Non si accorge che queste ultime da lui elencate con esattezza, seguono tutte lo stesso criterio, e quindi non contraddicono all'omogeneizzazione precedente. Il loro cri­ terio è certo una conquista del senso critico moderno; eppure coincide anche con quel processo che abbiamo espo­ sto come il pericolo n. 1. Ecco la citazione: « Il quadro tende a presentarsi secondo la sua specifica tecnica di rappresentazione dimensionale; la musica punta sulla costruzione sonora antidescrittiva; il cinema cerca nel montaggio il suo specifico filmico; la letteratura si propone come fondazione di strutture linguistiche; l'archi­ tettura come rappresentazione delle proprie funzioni. In qualche modo i contenuti principali delle attività artistiche diventano le tecniche artistiche stesse, il loro uso razionale • (V. GREGOTTI, op. cit., p. 123). Fermiamoci qui: una illustrazione ulteriore della tavola non gioverebbe in questo contesto. Aggiungiamo soltanto che i suoi principi possono ser-

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virci di criterio nella divisione delle arti. Alcune arti, come le arti letterarie, realizzano sopratutto il secondo principio, in B, e sono più indicate delle altre a una funzione di rot­ tura; certe altre, come l'architettura, espongono sopratutto il principio in A, e alla stregua delle prime possono non essere nemmeno considerate arti: non è loro missione « rompere la norma », produrre « ambiguità ». L'estroso Gaudì non è il campione degli architetti. Un'opera archi­ tettonica può rompere gli stilemi consueti e innovare nel modo più audace: se non vi è infuso talento paradigmatico, non è arte. � un edificio senza alcun fattore di innovazione, ma così perfetto nell'integrazione delle sue parti da assur­ gere a modello, occuperà poco posto in un volume di storia della critica figurativa, ma sarà pure un capolavoro archi­ tettonico. La risposta che abbiamo dato in queste pagine alla do­ manda iniziale: L'arte è linguaggio?, non rientra in quel ge­ nere che potremmo chiamare l'« Analitica del compromesso». Il compromesso ottiene di regola un effetto convincente proprio perché offre una risposta equivoca sotto apparenza unitaria: come il dire che l'arte è espressione (e non comuni­ cazione), parola (e non lingua), linguaggio emotivo (e non assertivo): in tutti questi casi una specie esclude un'altra specie, con intransigenza, ma poi la riammette come genere. La cronaca di tante polemiche ce lo documenta. Abbiamo cercato invece di portare un pò di distinzione in quella che ci sembra l'illusoria chiarezza di molta stilistica contemporanea. Un compito non sempre simpatico. Stabilite alcune categorie, abbiamo cercato di vederne anche la dialet­ tica. Ma senza soverchie ambizioni. È stato necessario distin­ guere e precisare che l'omologia e l'inconsueto sono due prin­ cipi diversi e separati, di diversa origine (paradigmatica e sintagmatica), operanti in dimensioni differenti (presentativa · e rappresentativa, intenzionale e semiologica). Ma dubitiamo che tutti questi principi siano sufficienti a ottenere una dedu­ zione del carattere più proprio, che è quello assiologico, di ciò che è artistico 33 • Il loro limite è quello del campo al quale appartengono, quello della « relazione », e in parti40 colare della relazionalità linguistica, che costruisce un ter-


reno prezioso di ricerca per i fenomeni che ci interessano, ma non esclusivo né conclusivo. Le nostre riserve in propo­ sito, il lettore le avrà riconosciute dall'andamento dell'analisi e da qualche citazione. Comunque, nell'ambito di ricerca circo­ scritto a questa regione e conforme alla domanda rivoltaci dall'inchiesta in atto, pensiamo di aver chiarito in che senso l'arte è un linguaggio e non è un linguaggio. Una risposta, abbiamo detto, che non è un compromesso: se mai è il rifiuto del compromesso. Concludendo: posto che si voglia prospettare, come oggi si fa il problema estetico nella forma di un problema di semiosi, ci sembra che non si possa prescindere dalle considerazioni svolte fin qui. Le riepiloghiamo in forma di tesi. I. L'opera d'arte, in maniera diversa, è sempre fonda­ menlalmente cognitiva. Il. Ogni esperienza cognitiva, la più elementare, è com­ posta di significati che vanno al di là del dato sensibile e che gli sono connessi solo grazie a un codice interpreta­ tivo: così diciamo che un fungo è velenoso, l'acqua è li­ quida, il marmo solido, etc. Ma ciò non definisce un rap­ porto semiologico. Ove tutto è semiosi, niente è semiosi. Non possiamo partire da questo principio. Dobbiamo par­ tire dal criterio tecnico di un discorso privilegiato. III. L'esperienza artistica ossia due aspetti, o momenti: p r e s e n t a t ì v o (tetico) r a p p r e s e n t a t i v o (mimetico) Una concezione semiologica dell'arte sarà accettabile solo in quanto rispetta questa distinzione: la quale deriva dalla definizione stessa del segno. Segno è la r a p p r e s e n · t a n z a di qualsivoglia cosa (oggetto, evento, comporta­ mento, funzione...). Essere segno di y equivale a stare per y, in modo da non elidere la y. Nel caso particolare del rapporto « segno-funzione di », che si vuole estendere a interi campi artistici (come l'archi­ tettura), tale nozione andrà ridimensionata, distinguendo dove si tratta di A) evidenza di funzione (presentazione) B) esibizione di funzione (rappresentazione). Soltanto nel caso B) sì potrà parlare di rapporto se- 41


gnico. Nel caso contrario, A), parlare di segno è improprio e ridondante. IV. Ogni genere d'arte contiene il doppio momento suddetto, conforme a una varia fenomenologia. Prevale il momento rappresentativo in arti come la letteratura e la pittura; prevale il presentativo in architettura o musica. La trattatistica sulle arti; varia e secolare, ha sempre dato rilievo a questo binomio anche senza proporselo e senza precisarlo in categorie. V. Nell'ambito del « rappresentativo » bisogna tener di­ stinti due rapporti segnici: quello semiosico (rapporto lin­ guistico) e quello semiologico (rapporto semantico). L'equi­ voco nasce dalla definizione stessa saussuriana del segno: « significante- significato »: poiché ogni cosa può essere si­ gnificante, anche un significato. Solo il primo è un effettivo rapporto segnico (significante-significato), il secondo è un rapporto logico (significato-significato) o strutturale (forma­ forma). Il primo subisce il secondo, non viceversa. Ci ricon­ ducono a due nozioni antichissime, la mymesis e l'eik6s, certamente approfondite, ma non al punto da eliminare la differenza. Che talvolta il linguaggio adoperi come signifi­ canti (parole) rapporti tra significati (traslati) o tra forme (omologie), non significa che tutti i rapporti tra significati si riducono a linguaggio o viceversa. L'unica arte che equi­ pari segni e significati è il cinematografo l4. VI. La distinzione Ili può essere fatta corrispondere a due forme di semanticità: significativa e denotativa. VII. Essa permette di reinterpretare un'altra distin­ zione, quella linguistica (Saussure) e stilistica (Jakobson, etc.), tra processo sostitutivo (paradigmatico) e processo connettivo (sintagmatico). VIII. Consente inoltre di distinguere e spiegare due de­ finizioni (da assumere comunque con riserva), che vengono ordinariamente confuse dagli strutturalisti, sul criterio del­ l'artisticità, o specifico artistico: 1) l'arte come discorso non-comune, anti-entropico, 2) l'arte come discorso strut­ turale, omologo (couplings). � illusorio che esse debbano necessariamente coincidere. IX. Può fungere da criterio discriminante (non esclu­ sivo) nell'esame delle proprietà e capacità delle diverse arti.

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A questo punto il glottologo potrebbe fare un'obiezione, e asserire che la risposta da noi data equivale al ricorso a una ambivalenza propria dello stesso linguaggio, nei suoi due


momenti di veicolo segnico e di simbolo significante, e che quindi non si esce dal linguaggio. In realtà l'obiezione nasce da un effetto prospettico, di chi si ponga dal punto di vista dell'arte letteraria. Non sono le distinzioni date che rientrano nella nozione di linguaggio, ma la nozione di linguaggio che costituisce uno dei due poli di quella partizione. II linguista tende a scivolare sul fondamento di questa partizione, che anch'egli ritrova nell'oggetto del proprio studio, per il timore di irirgidirla e di perderne il carattere linguistico (che infatti noi lasciamo perdere: ci basta conservarne il m.c.d. se­ mantico). A qualcun'altro tutta la questione potrà sembrare invece una questione di nomenclatura, come molte questioni buro­ cratiche: un problema di intestazione di ufficio. Ma è qual­ cosa di più: è una questione di competenza, che ha una notevole portata amministrativa. Non è indifferente affidare al Direttore della Glottologia, e tanto meno al capo-sezione del dipartimento semiologico, l'intiero Dicastero della Comu­ nicazione. I risultati veduti sopra nel campo artistico (l'uso fatto dei criteri linguistici dell'omologia e dell'inconsueto, o, in altri termini, dell'entropia e della non-entropia: il che apre un altro argomento, assai interessante, da rimandare a una diversa occasione), ci sembrano dimostrare che la cosa non è senza pericoli. Poiché tutti i lunghi discorsi si possono rinchiudere in una noce, ossia in una norma, diremo che questo è il tenore della nostra: evitare che la prospettiva sezionale di una o di un'altra disciplina, cancelli la complessità conoscitiva del­ l'esperienza estetica, e salvarne la dialettica. GUIDO MORPURGO-TAGLIABUE

t v. R. BARTHES, Eléments de sémiologie, Paris, 1964, II, l, 4. Cfr. anche Strutturalismo e critica, in « Catalogo del Saggiatore• 1958-65, p. LIV. 2 M. DUFRENNE, L'art. est-il un langage?, « Revue d'Esthétique •, 1966, n. 1. 3 Cfr. C. NoRBERG-SCHULZ, Jntentions in Architecture, 1965, trad. it. Milano 1967, Capitoli II-V. Cfr. anche V. GREGOITI, Il territorio dell'archi-

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lettura, Milano, 1966, il quale tuttavia non manca di riserve sulla fon­ datezza di un'interpretazione semiologica dell'architettura. 4 Rimandiamo a: Significato e valore, « Il Pensiero•, 1961, n. 3; Asserzioni e valutazioni, « Giornale critico della filosofia italiana•, 1962, n. 4. s U. Eco, Appunti per una semiologia delle comunicazioni visive, Milano, 1967, p. 158. 6 Per un automobilista che inizia un sorpasso, un autocarro lon­ tano in senso contrario può essere lento o veloce, e la distinzione è essenziale: ma non c'è nessun segno che glie lo dice. Egli vede che un veicolo avanza rapidamente, o invece che è una sagoma ingom­ brante e pesante, oppure non lo vede; ma non smembra la perce­ zione del veicolo in parti o momenti e ne trae indizi e conclusioni: questa è sì una lettura segnica, ma riflessiva, non percettiva. Quando l'automobilista la fa, il veicolo è già passato, o gli si è schiacciato contro .La sua è solo una apprensione intenzionale, non una infor­ mazione segnica. 7 Cfr. Significato e valore; Asserzioni e valutazioni, citati. 8 Lo si ritrova, con altra nomenclatura, nei sistemi di E. HARTMANN, di K. LANGll, di M. DESSOIR; cfr. il n. manuale L'Esthétique contempo­ l"aine, ed. Marzorati, Milano, 1960, c. XIII, § 101. 9 I modi più o meno trasparenti, tale nozione è adombrata da molti autori moderni: R. FRY, CLIVE BaL, P. VALERY, I. A. RICHARDS, Cn. M0RRIS, S. LANGER, E. VIVAS, 0. H. Pi\RKER, M. OUFRENNB, J. P. SARTRE... Per un esame analitico del problema, ci scusiamo di rimandare ancora a un nostro saggio: Estetica e semantica. I, Il linguaggio e i modi comunicativi dell'arte, « Rivista di Estetica •, 1961, n. 3; Il, Fenomeno­ logia del linguaggio artistico, ibid. 1962, n. 1. 10 Cfr. p. es. U. Eco, op. cit., p. 167-168. 11 v. L'Esthétique contemporaine, cit. §. 92: v. pure R. DE Fusco, L'idea di architettura, Milano, 1964, p. 47. 12 op. cit., § 94, 95. 13 V. L'esperienza estetica, « Rivista di Estetica•, 1967, n. I. 14 V. in proposito Estetica e semantica, cit. Il. 1s L'esperienza estetica, cit. Vedasi anche Estetica e assiologia: I, Gusto e Giudizio, « Rivista di Estetica• 1962, n. 3: Il, Fenomenologia del giudizio critico, ibid., 1963, n. I. 16 v. L. PRIEro, Messages et Signaux, Paris, 1966. 16 * Perciò P. FR,\NCASTEL tiene separate le due nozioni di struttura e di comunicazione, v. « Nota sull'impiego del termine struttura in storia dell'arte•, in Usi e significati del termine struttura, Milano, 1965, pp. 32-33. 11 Secondo la definizione di C11. MORRIS, Signs, language and belta­ viour, 1966, tr. it. Milano, 1949. 18 1:. l'antica tesi di Vitruvio (v. C. J. Moc, / numeri di Vitruvio, Milano), tesi ripresa e controllata originalmente al principio del secolo dallo HAMBlDGE, The Parthenon and other Greek temples, tlteir dynamic symmetry. Sull'argomento v. C. BAIRATI, La simmetria dinamica, Mi­ lano 1952. 19 Cfr. L'Esthétique contemporaine, cit., c. XIV, 115, pp. 448-452. 20 v. D. GrnsEFFI, in « Critica d'Arte», nn. 73, 76. 21 V. Linquistica e Stilistica di Aristotele, Ediz. dell'Ateneo, Roma, § 28, § 31, 1967. 22 1:. di ogni concezione manieristica. Ricordiamo: P0MPONIUS GAU­ RICUS, De sculptura, 1504; FRANC!SCUS JUNICUS, De pictura veterum, 1637; 44 Du FRESNOY, De arte graphyca, 1672. Per qualche riferimento, necessa-


riamente telegrafico, a questo problema, sul quale manca una lette­ ratura v. la comunicazione Rhetorik und Gegenrhetorik im 18. Jahrhun­ dert: Diderot, in « Stil und Ueberlieferung in der Kunst des Abendlan­ des», Bonn, Sept. 1964. 23 v. A. ScHWEITZER, J. S. Bach: le musicien pòete, Paris 1905; J. Cn/\ILLEr, les Passions de J. S. Bach, Paris. v. E. Fue1Nr, Semanticità e formalismo, Rivisla di Estetica, 1964, n. 1. 24 W. AooRNo, Musik, Sprache und ihr Verhaltnis im gegenwertigen Komponieren, con trad. it. in Archivio di Filosofia, Filosofia e Simbo­ lismo, Roma, 1956, j. 163. 25 R. JAKOBSON, Closing statements: linguistics and poetics, in T. A. SEBEOK, Style and Language, New York, 1960, p. 358. 26 Philebus, 60 b. 21 Cfr. W. ArxlRNo, op. cit., p. 168: « (fu) come se il progresso della somiglianza musicale col linguaggio fosse stato pagato con l'autenti­ cità della musica stessa. L'indebolimento della forza costruttiva e della coscienza della totalità di fronte al particolare vivificato venne accom­ pagnato, nel romanticismo, dallo sviluppo dell'espressione e della somiglianza col linguaggio•· L'Adorno ha ben presente anche i van taggi dell'assimilarsi della musica alla parola per il rinnovamento delle strutture musicali, specie nel XIX s. 28 Sull'argomento, il n. studio: La nozione di classicità e il funzio­ nalismo moderno, « Rivista di Estetica •. 196, n. 1. 29 Per un parallelo tra le tesi della stilistica strutturalista e quelle della retorica antica, vedasi il volume Linguistica e Stilistica di Aristo­ tele, Ediz. dell'Ateneo, Roma, 1967, § 32: pagine già apparse, in parte, sulla rivista « Lingua e stile», 1967, n. 1. 29* È la tesi ripresa recentemente in modo sistematico da J. CoHEN, Structure du langage poétique, Paris, 1966, p. 13 sgg. JO È la nozione introdotta da G. FREGE, nel saggio Sinn und Be­ deutung, e in Grundgesetzeder Arithmetik, Einleitung, § 2 (trad. it. in G. FREGE, Aritmetica e logica, Torino, 948). 31 Non adottiamo la contrapposizione di alcuni traduttori, li usiamo come sinonimi. Pensiamo utile far coincidere linguisticamente la con­ trapposizione di FREGE con quella di CH. MoRRis. l2 Anal. Post. 92 b, 20-25. 33 Dobbiamo rimandare per questo argomento, al discorso svolto in Estelica e assiologia, I e Il, citati. e in Esperienza estetica, cit. 34 Rimandiamo a un nostro articolo: Fattore visivo e faltore audi­ tivo nell'arte filmica, in « Film Critica» 1968, n. 1.

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Urbanistica e arti visive, oggi

Lo studio dei rapporti fra l'urbanistica e le arti v1S1ve non è stato trattato, nel movimento moderno, se non in ma­ niera del tutto secondaria ed accidentale: l'integrazione delle arti plastiche si arrestò, nella maggior parte dei casi, alla ben nota « synthèse des arts majeures », architettura, pit. tura, scultura. Questa è stata, in sostanza, la posizione cul­ turale di Bloc e, in genere, della poetica funzionalista, che non raggiunse mai una concezione dello spazio fruibile che superasse, nella dimensione scalare, l'ampiezza del quar­ tiere. La visione di Le Corbusier rappresenta più la eccezione che la regola; nella descrizione del piano per la città di tre milioni di abitanti - tema del tutto insolito nella cultura coeva - egli fra l'altro scrisse: il viaggiatore che in aere!:>

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arriva da Costantinopoli, forse da Pechino, vede all'improv­ viso apparire, fra il disegno turbolento dei fiumi e dei bo­ schi, questa impronta chiara degli uomini. Non si tratta, egli aggiunse, quasi per difendere questa inconsueta visione dal­ l'attacco dei contemporanei, di pericoloso futurismo, bensì di quello spettacolo organizzato dall'Architettura con le risorse della plastica che è il gioco delle forme sotto la luce 1• Anche se l'idea si presenta piuttosto ardita, è pur sempre l'architet­ tura a guidare la sintesi compositiva, a dettare legge al pro­ gramma figurativo integrato. La sintesi delle arti, nel suo più autentico significato, maturatosi soprattutto nel ventennio fra le due guerre mon-


diali, rappresentò una legittima istanza della cultura vi­ suale: la restaurazione di una figuratività integrale dello spa­ zio, ma non trascese mai il livello del disegno architettonico. E l'ultimo dibattito su di un tema che ormai volgeva all'esau­ rimento si tenne nel 1947, al VI Congresso CIAM di Bridge­ water. Oggi, a venti anni di distanza, l'integrazione fra arti visive ed architettura si presenta sotto una luce diversa. Con la progressiva dilatazione del concetto stesso di archi­ tettura, che si è esteso fino ad abbracciare quello che un tempo era considerato urbanistica, il rapporto tra le arti visive si è ampliato fino ad includere anche quest'ultima. Se l'architettura di oggi è l'urbanistica di ieri - mentre l'urba­ nistica stessa tende ad una nuova dimensione territoriale i problemi che allora venivano discussi come rapporti tra architettura ed arti visive, tendono oggi anzitutto a diventare rapporti tra urbanistica ed arti visive. Ciò, ad esempio, è particolarmente evidente negli studi di Edmund Bacon, il quale, nel delineare una sintesi storica del disegno architettonico nella scala urbana 2, insiste sulla totalità dell'esperienza visiva nell'ambiente della città. Bacon dà un esempio di trasposizione all'urbanistica - al town­ design - della sintesi delle arti maggiori, senza in realtà rinnovare il discorso, anzi servendosi di numerose citazioni di arte visiva - la maggior parte estratte dall'opera di Paul Klee - che ha se non altro il merito di evidenziare un fatto che ricorre oggi con sempre maggiore frequenza: l'interesse, cioè, degli artisti della visione per lo spazio, fisico e culturale, dell'urbanistica. Un senso di totalità, scriveva infatti Klee, è entrato gradualmente a far parte della concezione che l'ar­ tista ha dell'oggetto naturale... sia esso collocato nello spazio domestico della casa o nel paesaggio... e la prima conseguenza di questo è l'insorgere di una concezione dell'oggetto mag­ giormente legata all'intorno ambientale ... 3• Sotto un'etichetta soltanto in apparenza rinnovata, l'inte­ grazione dell'urbanistica alle arti visive è stata discussa anche in un recente Convegno, che si proponeva appunto di analiz­ zare i rapporti fra le concezioni spaziali dell'urbanistica e del cinematografo in quanto arte visiva 4; ma dal confronto 47


delle relative esperienze sono risultate soprattutto due circo­ stanze: da un lato la natura completamente diversa delle rispettive fenomenologie 5, dall'altro la possibilità, per l'urba­ nistica, di utilizzare l'esperienza cinematografica ad un livello tecnico-rappresentativo. Ad avvalorare il risorgere dell'inte­ resse degli studiosi di arte visiva per lo spazio dell'urbani­ stica, si potrebbe citare anche la mostra dedicata a Foligno, la scorsa estate, al tema: « Lo spazio dell'immagine». Dei motivi che generano l'aprirsi delle arti visive verso una spazialità integrativa delle più limitate visioni tradizio­ nali, Dorfles riesce a riassumere così i tratti essenziali: anche se il singolo, autonomo, personalissimo segno estetico continuerà a sussistere in futuro, è sempre più evidente che il « quadro da cavalletto», la « statura soprammobile» an­ dranno degradando il loro valore a favore di quelle opere che potremmo definire modulatrici di spazio, sia che esse costituiscano quasi dei « contenitori spaziali», sia che deter­ minino attorno a sé lo strutturarsi di uno specifico spazio ambientale 6• Queste parole evocano il progressivo conden­ sarsi, intorno all'opera d'arte visiva tradizionale, di una molte­ plice vibrazione di spazio, in virtù della quale il quadro o la scultura diventano camera, si dilatano in un ambiente che, al limite, è urbanistico: si tratta dunque, soggiunge de Marchis, di uno spazio non rappresentato ma agibile, in cui lo spettatore è « abitante» 1• Spazio in cui si vive, dunque spazio urbano clze va considerato nell'ambito infinitamente più vasto della società e della città 8• Il dilatarsi della esperienza visuale nella dimensione ur­ bana è qui particolarmente evidente; Udo Kultermann ha inoltre precisato: si parla di un superamento dei limiti fra arte e vita, fra opera e osservatore, fenomeno che si è mani­ festato prima nel campo dell'architettura, con la identifica­ zione della forma «formata» con la forma « fruita». Bastano le nuove esperienze dell'urbanistica, oggi certamente la più importante categoria dell'arte, a non lasciare alcun dubbio sulla validità e necessità delle forme aperte 9, accessibili, cioè, alla diretta esperienza dell'osservatore come una scultura 48 «praticabile». Accanto al costante richiamo che qui si ri-


volge dalle arti visive all'urbanistica, a quest'ultima viene anche attribuita una funzione di guida, di disciplina indiriz­ zata a pilotare lo sviluppo delle esperienze visuali; addirittura l'urbanistica è spesso vista, ed indicata, come una panacea universale, risolutrice di tutti i problemi, di tutti i conflitti tanto della forma quanto della società. Probabilmente quest'idea è direttamente correlata alla posizione demiurgica assunta dall'urbanista negli ultimi de­ cenni e solo in parte, oggi, attenuata; in ogni caso, per veri­ ficare la validità dell'assunto precedente, occorre vedere se gli urbanisti contemporanei, quelli impegnati in un'azione sopratutto pratica, siano altrettanto sensibilizzati al « corso ,. delle arti della visione, quanto i responsabili di quest'ultimo settore mostrano di esserlo all'urbanistica. Resta, in altri termini, da provare se, ed in qual modo, le arti visive sap­ piano otfrire in cambio qualcosa che possa direttamente utilizzarsi nella dimensione più operativa dell'urbanistica 10. Intanto, qualche testimonianza sembra confermare l'osser­ vazione secondo la quale le arti visive hanno prelevato dalla ... 5torica stratificazione e dalla realtà esistenziale urbana pre­ sente, tutto, o quasi, il loro materiale iconografico 11• Ciò è vero non soltanto nel caso specifico del cinema, ma si veri­ fica anche nello stadio primario della utilizzazione materiale degli elementi del paesaggio, tradotti nei simboli delle carte geografiche, che troviamo, ad esempio, nella produzione di l'eter Briining. Questo pittore, osserva Rolf Dienst, segue l'iconografia di una realtà trasferita dal piano dell'ambiente urbanistico a quello delle arti plastiche. Egli utilizza... fiumi, laghi, boschi, città e strade per disegnare paesaggi astratti che conservano tuttavia sempre un riferimento concreto e che trovano in se stessi il loro significato proprio, pur continuando a dare certe oggettive indicazioni circa l'ambiente 12• Ma accanto al filone che utilizza i sotto-prodotti dell'urbanistica come ma­ teria prima per la composizione visuale, ve ne è un altro, che dimostra come l'area di contatto fra i due campi, del­ l'urbanistica e delle arti visive, vada oggi spostandosi verso un quid che è in certo senso « a monte ,. del precipitato feno- 49


menico, cioè della conformazione vera e propria della città o del dipinto. Quel che interessa è anche lo studio dei procedi­ menti creativi nell'uno e nell'altro campo, l'esame della pos­ sibilità di evidenziare similitudini nel metodo di formazione della immagine visiva - del quadro come della città - senza necessariamente giungere alla assimilazione strutturale dei rispettivi esiti foonali. Ciò posto, anzicché procedere per esemplificazioni ca­ suali, pensiamo sia più utile alla comprensione dei reali termini del problema trattato fare riferimento sistematico agli schemi con cui la critica ha distinto le varie tendenze dell'arte contemporanea, per esaminarli in modo da offrire un quadro abbastanza chiaro, anche se necessariamente in­ completo, di come vada attualmente evolvendo la tematica del rapporto urbanistica-arti visive. Cominciamo pertanto dalla corrente che, almeno cronologicamente, si situa in posi­ zione prioritaria rispetto alle altre, cioè dalla corrente infor­ male o gestuale. Di quest'ultima sono anzitutto da riferire i rapporti con l'urbanistica del piano « aperto »; tempo fa scriveva Bruno Zevi: il pensiero avanzato propugna « il piano aperto » contro quello bloccato e statico tradizionale. Ma un

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piano o è concluso oppure non lo è, sicché l'ipotesi del piano aperto sostituisce al progetto un metodo di pianificazione continua, non mai cristallizata in un disegno...; siamo nel1'« action planning », nella urbanistica del gesto 13• L'allusione al metodo creativo dell'action painting o pittura gestuale, è evidente; ma si tratta ancora di un riferimento di tipo meta­ forico, dal momento che la metodologia urbanistica del piano aperto si riferisce soprattutto ad un nuovo, più elastico, tipo di gestione urbana. In realtà, la poetica dell'informale non ha mai costituito una matrice metodologica chiaramente e coscientemente assunta dagli urbanisti. E confessiamo di non conoscere come ciò, in· pratica, avrebbe potuto avvenire. Un altro aspetto dei rapporti dell'urbanistica con la pittura informale riguarda in particolare l'urbanistica delle regioni metropolitane, nei suoi termini descrittivo-conoscitivi piuttosto che programmatici. Giulio Carlo Argan è più volte intervenuto a sottolineare nessi logici e formali fra i due


ordini di fenomeni. Per quanto si riferisce alla struttura metropolitana ed alle qualità «informali» che lo studioso d'arte le attribuisce, osserviamo che tale interpretazione oscil­ la dallo spazio visivo, reale, della città - con i suoi scorci prospettici, le sue sequenze visuali - alla forma planimetrica della metropoli - una ragnatela sfrangiata e tentacolare che altro non è se non una astrazione rappresentativa della estensione territoriale. A proposito dei dipinti di Pollock e di Tobey, Argan osserva che nessuno meglio di loro ha saputo cogliere l'immagine dello spazio urbano reale, rilevare la mappa dello spazio-città e registrare il ritmo del tempo urbano che ciascuno di noi si porta dentro 1•. Ma poi, nello stesso saggio, sostiene che la sovrapposizione diagrammatica dei percorsi planimetrici individuali nella metropoli, ossia l'intreccio degli infiniti tracciati del movimento che ciascun abitante compie nella giornata, sia ancora paragonabile ad un quadro di Pollock. La similitudine, notevolmente suggestiva, sembra li­ mitarsi a ritrovare una semplice rassomiglianza fra una planimetria ed un quadro, cioè fra due tipi di elaborato che non possono rassomigliarsi perché hanno origine e scopi differenti. Con intenzioni totalmente diverse Achille Ardigò, dal campo degli urbanisti, definiva l'area metropolitana un tipo di habitat altamente dinamico e relativamente infor­ male 15 , dove l'aggettivo « informale » non indurrebbe nessuno a stabilire analogie con l'omonima corrente della pittura. Ma l'accostamento della vita tumultuosa delle grandi città con­ temporanee all'esperienza artistica informale è stato anche da altri sostenuto. Ciò è particolarmente riferibile alla situa­ zione americana; come osserva Katharine Kuh, tanto nella vita quanto nella città americana esiste una molteplicità sconcertante, una sovrapposizione di suoni, di colori, di luci e di movimento che indubbiamente influisce sui nostri artisti. Fra questi, è Jackson Pollock che meglio di chiunque altro esprime tale indirizzo in quadri che non hanno rapporto di­ retto con la città, ma che rispecchiano le confuse emozioni suscitate dalla sua complessa natura 16• Da semplice suggerimento psicologico, la città può diven- 51


tare un vero e proprio oggetto da ritrarre, fonte di ispira­ zione nella composizione visuale. I.a città, precisa Alberto Boatto, ha preso il posto che era occupato dal cosmo nelle rappresentazioni figurative; città nel suo significato di luogo opposto alla natura, dominio dell'industria e degli oggetti, ma anche come creazione del valore e dell'intelligenza degli uomini; città come cultura e storia 11• A tale tendenza si può ricollegare anche l'opera di Allan Kaprow, il teorico e l'ini­ ziatore degli happenings; egli - osserva Restany - alla proiezione architettonica del collage... dette il nome di « envi­ ronment », ... insiemi di ambiente... ispirati direttamente dalla decorazione quotidiana della vita urbana... 18 cioè da qualche cosa che è molto vicina al townscape. Però anche qui, malgrado la incontestabile esattezza delle notazioni, esperienza urbanistica ed esperienza plastico-figu­ rativa restano, ai nostri fini, disgiunte in quanto separate dal diaframma che distingue - e pertanto divide - l'oggetto dal soggetto della rappresentazione. Siamo ormai lontani dal­ l'identificare processi di creazione artistica e processi di pianificazione. Al massimo un « oggetto » può rappresentare simbolicamente ciò che accade nella città dell'uomo e costi­ tuire lo stimolo ad un totale esperire nella realtà 19, come lo « spazio cinetico sonoro organizzato » presentato dal Gruppo Centro Proposte di Firenze, alla V biennale di Parigi. Al labirinto statico, costruito, allusivo ad una fase paleotecnica del pensiero umano, si è contrapposto il labirinto mobile, espressione della attuale condizione dell'uomo all'interno della città, depurato da memorie formalizzanti e da resistenze simboliche, nel quale l'ostacolo si riproduce continuamente ed è superato dal fruitore che con l'azione «sceglie» il pro­ prio percorso, la propria personale « via d'uscita », rinun­ ziando ad ogni accondiscendenza contemplativa. È evidente che quando la condizione urbana diventa quella predomi­ nante, le sue immagini ricadranno con maggior frequenza tanto nell'immaginario colto quanto in quello popolare, esat­ tamente come le scene agricole nelle figurazioni medioevali. Ma il labirinto del Gruppo Centro Proposte si colloca 52 già nel campo delle ricerche. cine-visuali dell'arte program-


mata, la corrente che, oltre l'informale, è stata frequente­ mente chiamata in causa per avvalorare alcuni sviluppi del­ l'urbanistica - o, meglio, della pianificazione - contempo­ ranea verso il piano o « programma » aperto. Dalla parte degli studiosi delle arti plastiche e visive, Menna si pone la questione se nell'arte programmata non si inserisca anche

l'urbanistica aperta, che pianifica in funzione di uno sviluppo libero e continuo della città 20• Ancora una similitudine che llccenna al metodo: ma questa volta ci sembra piuttosto di cogliere una allusione al modo con cui si forma lo spazio urbano, che può essere considerato un modo simile a quello con cui si forma l'opera cine-visuale. Vi è però anche un altro aspetto del rapporto urbanistica-arte programmata, che vale la pena di rilevare. Le ragioni da cui muovono le varie ricerche operative che vanno sotto il nome di arte programmata, cinetica, vi­ suale sono legate ai metodi scientifici e tecnici che tendono ad introdurre il gusto per il rigore matematico in un campo a lungo dominato dalla instabilità, dalla insicurezza, dalla angoscia esistenziale. Tendenza che trova conferma nel me­ todo scientifico della pianificazione, cui sembra alludere Um­ berto Eco quando affermava, in occasione della mostra alle­ stita presso il negozio Olivetti a Milano nel 1962, che parlare di arte programmata significa programmare, con la lineare purezza di un programma matematico, « campi di accadi­ menti» nei quali possano verificarsi dei processi casuali... 21• Esattamente come la ricerca operativa può, in pianificazione territoriale, delimitare dei « campi di ottimizzazione » di una cl.eterminata funzione, all'interno dei quali, poi, l'urbanistica interviene a comporre gli spazi secondo processi formativi che lasciano anche adito alla fantasia, o, se si vuole, al caso 22. Tuttavia non manca chi sostiene, di fronte a tanti paral­ lelismi, la natura completamente diversa delle esperienze del­ l'urbanistica e delle arti visive. In occasione del citato Con­ vegno di Rimini, Lara Vinca Masini afferma infatti che l'arte.. . non può dare lo spazio architettonico o urbanistico: è un sug­ gerimento di spazio che può venirci da queste componenti, che può presupporre, non investire lo spazio dell'urbanistica 53


e dell'architettura 23• Anzi invita a diffidare di tali pericolose assimilazioni e rileva, più avanti, che il rischio esiste anche per l'urbanista, il quale da parte sua «disegna » astratta· mente la forma della città come se fose un quadro, con tutte le evidenti limitazioni che ne conseguono nei riguardi della dimensione reale dell'ambiente urbano. Anche se non unanime e punteggiata di voci discordi, da parte degli studiosi dell'urbanistica e delle arti visive esiste dunque la tendenza, fondata su allusioni piuttosto che su prove dimostrative, ad assimilare i metodi della pianifica­ zione aperta con quelli dell'arte programmata. La similitu­ dine appare fondata soprattutto, anticipando una conside­ razione che svilupperemo più avanti, sugli aspetti tecnici . delle due attività messe a confronto. Lo stesso Zevi, altrove, deduce che gli architetti e gli urbanisti culturalmente co­ scienti devono seguire con attenzione il processo evolutivo della nuova «arte programmata » 24, indicando quasi in que­ st'ultima un modello operativo per l'urbanistica. L'accettazione del mondo tecnologico, sottintesa nell'arte programmata, diventa opposizione esplicita nella corrente cosidetta «ludica» dell'arte contemporanea, che ha a sua volta non pochi punti di contatto con l'utopia urbanistica. Come osservava tempo fa Emilio Garroni su questa stessa rivista 25, le ricerche e le fantasie architettonico-urbanistiche di Constant... sono una testimonianza assai significativa in favore di una interpretazione «utopistica» del fenomeno lu­ dico... La città del futuro prospettata da questo urbanista­ scultore non è che uno dei tanti modelli di utopia e certa­ mente non l'ultimo; ma il suo significato è troppo intima­ mente connesso con la cultura contemporanea perché possa sfuggircene l'importanza quale«test rivelatore» di.alcune ben precise istanze dell'urbanistica e delle arti visive. L'ambiente dell'« homo ludens» deve prima di tutto essere flessibile, intercambiabile, deve assicurare il movimento... ed ogni tra­ sformazione nel comportamento. Ne consegue che la New Babylon non può avere un piano determinato 26• Riaffiora dunque l'esigenza del piano aperto, che abbiamo visto colle54 garsi all'arte programmata; ma Constant, il quale ha al suo


attivo una lunga esperienza nell'avanguardia come compo­ nente della lnternationale Situationiste, svolge una teoria su l'Urbanisme unitaire dopo aver aderito ad un movimento pour un Bauhaus lmaginiste... La proposta di Constant per una disciplinata azione col­ lettiva mirante ad un mutamento totale dello scenario entro cui si svolge la vita ( abitare, lavorare, comunicare, ricrear­ si) 27 si presenta come il trasferimento all'intero ambiente visibile dei concetti di un movimento delle arti visuali, quasi il risvolto urbanistico di un « manifesto ». E la cosa non stupisce, se si pensa che anche il movi­ mento neoplastico e quello futurista non negarono interesse allo spazio visivo della città, prospettando anche nuovi tipi di organizzazione urbana. Ma, nella maturazione ulteriore del pensiero di Constant, affiorano nuovi elementi che ne arric­ chiscono la problematica: il progetto per « New Babylon » esprime una città per l'uomo « ludens », ove l'uomo non la­ vora per mangiare, ma mangia per « giocare »; una città per uomini veramente liberi, che possono dedicarsi al libero sviluppo della loro creatività 28• Tuttavia, afferma Conrads nel­ l'illustrare il programma del movimento pubblicato nel '60, New Babylon non è un vero progetto urbanistico, né un'opera d'arte in senso tradizionale o un esempio di struttura archi­ tettonica...; « New Babylon » è solo la proposta di un « Um­ welt » immaginario che vada a sostituire l'ormai insoddisfa­ cente « Umwelt » della vita contemporanea 29• Il filone del­ l'utopia urbanistica, nei suoi agganci al comportamento ed alla organizzazione sociale affiora con particolare evidenza; basta confrontare con queste dichiarazioni le tesi di Yona Friedman per la ristrutturazione di Parigi o quelle di qual­ siasi altro «visionario» dell'urbanistica contemporanea 30 per rilevare la notevole affinità dell'approccio, confermata dal rifiuto dell'ordine e della corrispondenza forma-funzione. Constant, scrisse Bruno Zevi, rifiuta ogni ricetta compositiva, inneggia alla città antifunzionale. La denominazione «Nuova Babilonia » non è scherzosa; l'informale ha insegnato il gusto _ dell'indeterminatezza, del gioco, del caso 11• Al lato opposto della città antifunzionale sono le propo- S!


ste del gruppo inglese Archigram e degli austriaci Hollein e Piechler. I loro progetti per tipi di città a venire hanno tutti in comune, da un lato la « emblematica della tecnica», cioè l'ostentazione di forme inconsuete o addirittura mostruose derivate dalla più recente ricerca tecnologica; dall'altro la estensione alla città di proprietà tipiche di organismi vege­ tali o animali, per esempio il movimento o la vita sotterranea. Per illustrare queste teorie i componenti del gruppo Archi­ gram si servono di un supporto visivo che impiega tecniche disegnative di tipo fantascientifico, spesso schematiche ed ingenue. Pertanto il loro rapporto con la cultura dei fumetti è senz'altro proponibile, oltre che dichiarato. Un gusto che ritroviamo poi nella prospettata intercambiabilità degli spazi interni dei « contenitori» 32 urbani e nella corrispondente a.ssenza di gerarchie formali. Archigram è stato definito, in­ fatti, il grande incontro dell'architettura e dell'urbanistica con certe forme di cultura di massa 33• La componente macchi­ nistica, mutuata dai movimenti d'avanguardia degli anni venti, traspare in dichiarazioni di questo tipo : noi siamo alla ricerca di un'idea, di un nuovo linguaggio, di qualche cosa da alli­ neare con le capsule spaziali, le calcolatrici elettroniche, gli entusiasmi dell'età elettronica ... 34, in cui la stessa genericità della ricerca si esprime - con indubbia suggestione - me­ diante una tecnica molto vicina a quella pubblicitaria. Eppure non è dal linguaggio che può iniziare una trasfor­ mazione dell'Umwelt, tanto per riprendere l'espressione del movimento olandese; riteniamo invece che il linguaggio stesso si modificherà spontaneamente nella misura in cui la società avrà assimilato la cultura che sta dietro le cap­ sule spaziali o gli entusiasmi dell'età elettronica. Pertanto ci sembra che finora si tenda ad agganciare urbanistica ed arti visive con argomentazioni che troppo spesso si risolvono in petizioni di principio, che - in altri termini danno per scontato quello che dovrebbero dimostrare. Tipico in questo senso è il caso di Claes Oldemburg: i suoi disegni monumento, osserva Pierre Restany, tradu­ cono... la progressione del suo pensiero verso un « pop urba56 nisme » 35, dove si ha l'impressione che l'uso di certi attributi


sia piuttosto velleitario. Non crediamo che esista un'urbani­ stica pop, perché non vi sono motivi di carattere specifico atti a designarla e quanto meno a distinguerla da una urba­ nistica diversa. Al limite si può dire che tutta la città, tutto il territorio sono ricchissimi di incrostazioni tipicamente pop, che si articolano nella ben nota alternanza di tessuto cd emergenze, di antico e nuovo, di naturale e di artificiale. Con l'inserimento e la reificazione di un « oggetto » nuovo in un tessuto preesistente si realizza una prassi, diremmo, ordi­ naria nell'urbanistica; prassi che, nel campo delle arti visive, ha dato luogo alla corrente pop. Ma non è da questa esteriore coincidenza di espedienti tecnici che ci si può attendere l'auspicato scambio culturale fra urbanistica ed arti visive. Del resto ciò è confermato dal fatto che gli urbanisti, a parte qualche tentativo che nasconde il malcelato desiderio di rin­ novare il linguaggio adoperando termini di sapore sempre più aggiornato, sono molto più cauti in questo entusiasmo. A tal proposito, osserva Manfredo Tafuri: l'esorcizzazione totale della mobilità urbana ed il suo irretimento in strutture guida che polemizzano, con il loro voluto arcaismo, nei con- . fronti del loro stesso inserirsi come isole, come oggetti estra­ nei nella dinamica della città, caratterizza - a suo avviso alcuni recenti progetti di Louis Kahn, dove, se si vuole, il riferimento a modi compositivi tipici della pop-art può anche essere ritrovato... 36, mentre, continua altrove lo stesso Tafuri, di fronte al progetto di Lubicz-Nicz e Donald P. Reay, vien fatto di chiedersi che significato possa attribuirsi a quella sorta di commistione .fra un surrealismo urbano di sapore avveniristico e la tensione espressionista senza dubbio viva nel contesto della proposta figurativa 37• Alcuni studiosi, seriamente coscienti della circolarità delle esperienze culturali, non sono dunque alieni dal riconoscere una storicità latente nei campi delle arti figurative come in quello dell'urbanistica, che induce a ritrovare nessi e rife­ rimenti al livello del design. Solo che questi stessi cauti assertori della comunicabilità delle esperienze plastiche al­ l'urbanistica, riconoscono - come è giusto - che il campo di quest'ultima è alquanto più ampio; l'area del planning 57


spazia ora dalla sociologia alla economia, dal diritto alla matematica. Anzi nella cultura americana tende addirittura a fratturarsi, - come osservava Giorgio Gaetani in un recente articolo 38 - nel planning vero e proprio, che diventa sempre più scientifico 39, e nel design urbano, che si avvicina, nello studio dei valori percettivi, ai settori tradizionali delle arti figurative. Sulla opportunità della tendenza delineata, ai fini di una più efficiente strutturazione della disciplina, non ci sembra qui il caso di discutere; vorremmo soltanto riportare un esempio di come, in forma del tutto generale, sia in realtà sempre possibile legare in un effettivo rapporto metodolo­ gico - e senza parzializzazioni - lo studio dell'urbanistica tout-court, con l'analisi di una composizione plastico-figu­ rativa. In uno studio sulla sintesi della forma, Christopher Alexander osserva che gli sforzi per comprendere esattamente quali interferenze presenti e richieda una città moderna e per riprodurle poi in termini fisici e plastici, come sovrapposi­ zioni, ... non sono affatto concimi 40• Egli va quindi alla ricerca di un modello che possa servire da falsariga nello studio della struttura funzionale della città, ed in tale ricerca si vede, ad un certo punto, costretto a ricorrere a certe immagini per rendere più comprensibili le conseguenze fisiche dell'interfe1·enza tra i diversi elementi che interagiscono nella forma­ zione della struttura urbana. Ebbene, l'immagine che egli suggerisce di analizzare è un quadro di Simon Nicholson. Il fascino di questa figura - prosegue Alexander - sta nel fatto che, sebbene siano bastati pochi semplici triangoli a costruirla, questi elementi si combinano in diversi modi, dando luogo alla più ampia unità del dipinto. Dopo aver fatto un inventario delle unità formali che si possono enu­ cleare dal quadro, associando di volta in volta tra loro i triangoli che lo compongono, Alexander osserva che ciascun triangolo entra in quattro o cinque tipi di unità completa­ mente diversi, nessuno dei quali compreso negli altri e tut­ tavia interferenti per suo tramite. La figura risultante, e rap58 presentativa del sistema di interferenze, è il semi-lattice o reti-


colo; tramite questa immagine, ricavata dall'analisi del quadro di Nicholson, Alexander riesce ad esprimere con plastica evi­ denza la propria concezione della struttura urbana: sono pro­ prio le immagini come queste che debbono costituire i veicoli della nostra nuova concezione della città vivente. A parte le ovvie considerazioni circa lo stadio ancora pro­ blematico della ricerca formale di Alexander 41, l'esempio ripor­ tato, che introduce il concetto della struttura urbana come rete di interrelazioni, a sostanziale modifica dell'idea dendro­ morfa della città apprestata dalla cultura del funzionalismo, è importante come primo convincente tentativo di adoperare una esperienza figurativa quale elemento guida per la esposi­ zione logica di quanto rappresenta, secondo l'autore, il fonda­ mento della esperienza urbana, la base concettuale dell'intera disciplina urbanistica. Il senso della molteplicità, dell'interdipendenza comples­ sa e spesso di natura sovra-razionale, che caratterizza la di­ mensione dell'urbanistica attuale, si ritrova anche - e forse in misura ancor più persuasiva - in una corrente delle arti visive che abbiamo voluto esaminare per ultima in questa rassegna, proprio a causa della sua inequivocabile conver­ genza con l'urbanistica, non tanto nei metodi dichiarati, quanto nelle aspirazioni latenti: il new-dada e l'opera del suo principale esponente Robert Rauschenberg. Abbiamo già rilevato infatti, a proposito dell'arte pro­ grammata, che i riferimenti all'urbanistica di un metodo che preveda una più o meno esatta « predeterminazione proget­ tuale» 42, sono piuttosto scoperti e, diremmo, alquanto facili; abbiamo anche visto come negli schemi cine-visuali rientra, con buona approssimazione, la dualità pianificazione scienti­ fica-composizione architettonica, secondo l'acuto avverti­ mento di Eco, ribadito da Dorfles: non si creda che il pro­ gramma uccida il caso; ossia che la progettazione non lasci nessuna possibilità al verificarsi di situazioni aleatorie ... 43• Ma bisogna anche ricordare che l'arte cinevisuale, come scri­ veva Menna, propone... come fondamento di un nuovo rap­ porto tra individuo ed ambiente, una sorta di riduzione feno­ menologica ai puri dati della percezione 44• La dichiarazione, 59


se applicata all'urbanistica, ci sembra tanto più limitativa, quanto più si desideri - ed in questo desiderio confermiamo il nostro punto di vista sul problema - puntare, piuttosto che sulla non mai scomparsa « nuova oggettività» della tema­ tica ghestaltico-percettiva del Bauhaus, sulla ricarica in senso simbolico degli elementi che compongono la scena urbana, sul loro recupero non tanto quali componenti di un feno­ meno visuale, quanto piuttosto quali elementi significanti di un quid che ne trascende la pura forma visiva. Questo è, a nostro avviso, fra i problemi centrali del­ l'urbanistica contemporanea, quello che con maggior pro­ fitto può trovare un riscontro nelle arti visive. Il passo deci­ sivo verso una effettiva comunicabilità delle esperienze del­ l'urbanistica e delle arti visive ci sembra possibile, piuttosto che sul piano tecnico, su quello simbolico. Ed in tal senso il suggerimento più stimolante sembra derivare dalla corrente new-dada. I quadri di Rauschenberg possono essere interpre­ tati come il sanguigno distillato dei simboli umani della metropoli moderna, come il residuo essenziale dei significati che pervadono le forme della realtà urbana, come il sublimato di una carica significante collettiva. Egli, si può dire, utilizza la città per riempire di elementi brucianti di significato la propria produzione; le « combinazioni» di Rauschenberg sono la raccolta in codice di valori noti, condivisi ed accettati dalla collettività, di valori quindi altamente comunicativi. Dopo il 1955, scrive di Rauschenberg Allan Solomon, le im­ magini diventano più impersonali e generalizzate... e riflet­ tono in maniera completa l'ambiente urbano. La « combina­ zione » denominata «Rebus» sembra rappresentare una svol­ ta decisiva sotto questo aspetto: ... con le sue pitture sgoc­ ciolanti, i suoi graffiti, i manifesti, i suoi quadri ci ricordano più le mura di una città che non la casetta della nonna... Gli oggetti che Rauschenberg raccoglie per la. sua « tavo­ lozza ,. sono il risultato di una serie di incontri; in questo senso, essi rappresentano una eco di alcuni particolari della sua vita, ma non una completa autobiografia 45• Al di fuori del più limitato intento autobiografico, vi sono dun·que nell'opera di Rauschenberg - ed in quella di altri artisti new60


dada - aspetti referenziali e linguistici di tipo collettivo; i suoi oggetti hanno un alto potenziale associativo... , più li guardiamo, più ci troviamo davanti la complessità del signi­ ficato..., il loro valore reale consiste nella molteplicità e le immagini di Rauschenberg sono state scelte per mantenere la tensione psicologica propria, vorremmo suggerire noi, della città moderna, secondo alcune più recenti prospezioni di psicologia dell'ambiente urbano 46• Tuttavia, anche se la corrente new-dada dà una indica­ zione del rapporto urbanistica-arti visive che giudichiamo senz'altro positiva, è da notare che nella produzione esami­ nata è sempre l'urbanistica a dare e la pittura a prendere, sotto forma di materiale iconico pregnante di significato. Per cui resta ancora aperta la questione dell'apporto che le arti visive dovrebbero offrire per risolvere la crisi del disegno della città, la crisi del modo di « rappresentare» la città e i suoi simboli, che sono i simboli della nostra civiltà. I motivi della crisi del disegno urbanistico consistono, secondo Qua­ roni, nel fatto che l'urbanistica non ha saputo interessare l'arte, sua sposa legittima, di molte esigenze e di molte pre­ tese, anzi ha tentato di consolarsi con la tristezza di squallide amanti; l'urbanista ha di fatto rinunziato a risolvere i suoi problemi, rifugiandosi nella pianificazione, tanto più interes­ sante quanto più vasta... e quindi distante dalle responsabilità del « disegno » 47• Mentre è nel disegno che si manifesta la più autentica vocazione dell'urbanista, e per questo motivo abbiamo ritenuto ancora utile - anche se la sintesi delle arti maggiori così come fu posta è questione da tempo superata indagare sui rapporti fra urbanistica ed arti visive, legate nella comune radice del disegno. Alla chiarezza di questa convinzione, non corrisponde una altrettanto chiara prospettiva per una proficua integrazione dei due «campi». Abbiamo soltanto rilevato talune circostanze in cui attualmente si r;solve la problematica del disegno urbanistico nei suoi più o meno ipotetici agganci alle poetiche della visione. Accanto alla tendenza ghestaltica, per il recupero dell'esperienza urba­ nistica al mondo delle arti visive, non si è notata una analoga tendenza da parte dell'urbanistica, che viceversa, salvo ecce- 61


zioni, n<m si mostra sensibile alla tematica figurativa. I tenta­ tivi in tal senso sono viziati da fin troppo evidenti petizioni di principio: quando si suggerisce all'urbanistica l'uso di tecniche e procedimenti propri delle arti della visione, non soltanto si dà per scontata una affinità che invece è ancora tutta da dimostrare, ma ci si attiene, per lo più, a rassomi­ glianze esteriori. Né le arti visive hanno mai fornito all'urba­ nistica modelli strumentali per la sua fase specificamente operativa. Di fatto dunque, le due esperienze sembrano non essere ancora riuscite a comunicare al livello delle strutture significanti. In questo senso, pur non pretendendo di trarre alcuna conclusione sull'argomento, che non sia piuttosto una apertura problematica, possiamo affermare che è molto più probabile che la comunicazione si verifichi proprio in quei settori e per quelle poetiche che sono stati fino ad ora oggetto di richiami meno frequenti. � probabile, cioè, che siano molto più suscettibili di dare un effettivo contributo all'urbanistica le esperienze della pittura surrealista o dell'arte neo-dada ....:.... con la loro ricca presenza di valori semantici - che non le esperienze ghestaltiche - dotate di procedimenti tecnici comunemente considerati simili a quelli dell'urbanistica che dello sp_azio urbano tendono ad assimilare la grafia mt non il senso, la lettera, insomma, ma non il significato.

a cura di

URBANO CARDARELLI e FRANCESCO STARACE

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1 LE CoRBUSIER, Urbanisme, Paris 1966 (I ed. 1925), p. 168. 2 E. N. BACON, Design of citics, London 1967. J Ibidem, p. 280. 4 XVI Convegno Internazionale Artisti, Critici e Studiosi d'Arte, sul tema: Lo spazio visivo della cillà; urbanistica e cinematografo, Rimini­ Urbino, settembre 1967. s Cfr. la relazione conclusiva di G. C. ARG.\N nella seduta tenuta ad Urbino a chiusura del Convegno. 6 Catalogo della mostra: Lo spazio dell'immagine, Foligno, Pal. Trinci, estate 1967. 1 Ibidem, cfr. il saggio di G. DE MARCHIS. 8 Ibidem, cfr. il saggio introduttivo di G. MARCHIORI. 9 Ibidem, cfr. il saggio di U. KULTERMANN. 10 R. DE Fusco, Urbanistica e cinema, lontani parenti, comunica­ zione al XVI Convegno Internazionale Artisti, Critici e Studiosi d'Arte; Rimini-Urbino, settembre 1967.


11 Ibidem.

12 R. G. DrnNsT, Lettre d'Allemagne, in « Aujourd'hui• ottobre 1967 (Allemagne), p. 194. 13 B. ZEVI, Architettura e società, in « De Homine•, n. 5-6, giugno 1963, p. 119. 14 G. C. ARGAN, Lo spazio visivo della città, Venezia, Fondazione Cini, settembre 1966. 1s A. AoRIGò, L'ambivalenza della citti:J e delle aree metropolitane: sviluppo metropolitano e sistema di valori, Assisi, Pro Civitate Chri­ stiana, ottobre 1966. 16 K. KuH, I pittori americani e la citti:J, Catalogo della mostra « I pittori americani e la ciltà •• Venezia 1956. 11 A. BOATTO, La presenza dell'oggetto, in « Il Verri », n. 12, 1963, p. 107. 18 P. REsTANY, Une tentative américaine de synthèse de l'informa­ tion artistique, in • Domus » n. 405, agosto 1963, p. 37. 19 M. DEZZI BARDESCHI, Spazio cinetico-sonoro organizzato, a cura del Gruppo Centro Proposte, Firenze; V Biennale, Paris 1967. 20 F. MENNA, La poetica (urbanistica) di Lynch e la psicologia della visione, in « L'Architetlura • n. 119, settembre 1965. 21 U. Eco, Catalogo della Mostra di Arte Programmata, Milano Oli­ velli, 1962. 22 Circa la distinzione fra la ricerca matematica delle localizzaziooi ollimali e della quantificazione delle funzioni (momento dei fini e degli obbiettivi di spazio) e la progettazione architettonico-urbanistica, si veda: S. LoMBARDINI, La programmazione, idee, esperienze, problemi, To­ rino 1967, dove l'argomento è trallato con una chiarezza che non esclude tultavia un eccesso di schematicità. 23 L. VINCA MASINI, comunicazione al XVI Convegno Internazionale Artisti, Critici e Studiosi d'Arte, Rimini-Urbino, setlembre 1967. 24 B. ZEVI, Sull'arte programmata (editoriale in breve) in • L'Ar­ chitellura » n. 97, novembre 1963, p. 508. 25 E. GARRONI, 23• Biennale di Venezia: « jeu• e • sérieux•, in • Op. Cit. • n. 7, settembre 1966, pp. 37-38. 26 Ibidem, p. 38. 21 R. W. D. OXENAAR, Constant, in • Catalogo XXIII Biennale•. Ve­ nezia 1966, p. 193. 28 Ibidem. 29 CoNSTANT, Neu Baby/on, 1960, in Programme und Manifeste zur Architektur des 20. Jahrhunderts, a cura di U. Conrads, Berlino/Frank­ furt M./Wien 1964, p. 170. 30 Cfr. M. RAGON, Les cités de l'avenir, Encyclopédie Planète, Paris 1966, Les visionnaires de l'architecture, Laffont Paris 1964, e L'avenir des vii/es, Laffont Paris, 1964. 31 B. ZEv1, Una città smontabile per i nomadi del 2000 in • L'Espres­ so • del IO gennaio 1965. 32 Cfr. Alcune voci dell'urbanistica contemporanea, in • Op. Cit.• n. 6 maggio 1966, in particolare la voce • contenitore». 33 Cfr. « Architectural Design• novembre 1965, numero speciale de­ dicato ad Archigram. 34 L. M. BosCHINI, Utopia come ipotesi di lavoro, in « Casabella• n. 305, maggio 1966, p. 17. JS P. RESTANY, Claes O/denburg 1965 e i disegni di monumenti gi­ ganti per New York, in « Domus• n. 433, dicembre 1965: 36 M. TAFURI, La nuova dimensione urbana e la funzione della uto­ pia, in «L'Architettura• n. 124, febbraio 1966, p. 682.

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37 M. TAFURI, Razionalismo critico e nuovo utopismo, in « Casabel la • n 293, novembre 1964, p. 22. 38 G. GAETANI, Note sul rapporto planning-design in America, in « Zodiac • n. 17, settembre 1967, p. 199. 39 Cfr. 11 metodo scientifico nella pianificazione, a cura di A. BELLI e G. PASCA RAYMONDI, in « Op. Cit. » n. 10, settembre 1967. 40 C. ALEXANDER, Note sulla sintesi della forma, Milano 1967. 41 Cfr. Il design scientifico di Alexander, a cura di L. DE RosA, in • Op. Cit. » n. 8, gennaio 1967. 42 G. DoRFLES, P,·eambolo all'arte programmata, in « Il Verri• n. 22, ottobre 1966, p. 3. 43 Ibidem, p. 5. 44 F. MENNA, Situazione delle esperienze cinetiche e visuali in Italia, in « Il Verri• n. 22, ottobre 1966, p. 105. 45 A. R. SoLOMON, Rober t Rauschenberg, introduzione al catalogo della Mostra, The Jewish Museum, New York 1963. 46 Cfr. fra l'altro A. R.APOPORT e R. E. KANTOR, Complexity and am­ big11ity in environmental design, in « Journal of the A.I.P. • luglio 1967, pp. 210 e segg. 47 L. QuARONI, Il disegno per la città: cultura, espressione, comuni­ cazione, Fondazione Cini, Venezia 1966.


Valori ed obiettivi nella pianificazione*

Le note che seguono intendono direttamente ricollegarsi alla rassegna pubblicata sul numero precedente della rivista e dedicata al metodo scientifico nella pianificazione. Esse mi­ rano a sviluppare ulteriormente il discorso in quella sede ini­ ziato e che ha come obiettivo quello di sottolineare e docu­ mentare la necessità e la possibilità oggettiva cli superare l'empirismo e l'approssimazione che nel nostro paese hanno a lungo regnato nel settore di studi riguardanti i problemi del territorio. Centro del discorso è una concezione della pianifica­ zione territoriale fondata sulla consapevolezza che si tratti di una disciplina empirica e con forti motivazioni di tipo pratico; ma con ciò intendendo una disciplina tesa... alla conoscenza e spiegazione di fenomeni direttamente osservabili, e quindi con un rigoroso nocciolo di teoria scientifica, onde ricavarne linee di azione pratica al fine di produrre modifiche nelle pre­ viste tendenze sociali 1• Discende da tale concezione l'afferma­ zione che in sostanza le stesse insufficienze operative, larga­ mente sperimentate dalla pianificazione territoriale alle varie scale, derivino in buona parte dalle insufficienze teoriche, dalla inadeguatezza dello sviluppo di una teoria scientifica dei fenomeni territoriali. Con ciò si intende pienamente aderire alla tesi di Britton Harris che almeno per il momento non * Questa rassegna è parte di uno studio condotto presso l'Istituto di Composizione della Facoltà di architettura di Napoli e finanziato dal C.N .R.

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vi può essere alcuna teoria della pianificazione urbana che sia interamente separata da una teoria delle città, e quindi nessuna teoria del tutto generale della pianificazione in quanto tale 2• Tale adesione non ignora che esistono al proposito po­ sizioni diverse, alcune delle quali estremamente stimolanti. E basti citare quella di Davidoff e Reiner che, in polemica con Harris, pur ammettendo che, a lungo andare, pianificazione, e cioè insieme di procedure, e contenuto, cioè nocciolo teo­ rico, specifico, non potranno essere trattati separatamente, affermano che, per il presente, vi è una grande necessità di una estesa attenzione al metodo della pianificazione 3• In realtà, per quanto ci riguarda, la contraddizione delle due posizioni è solo apparente e dipende fondamentalmente dalle diverse angolazioni con cui gli autori guardano al pro­ blema. Da un lato Harris con il suo sforzo di riformulare, su basi epistemologicamente corrette, il problema delle relazioni tra teoria e pratica; dall'altra Davidoff e Reiner nel loro ten­ tativo di analizzare e chiarire su basi razionali e scientifiche l'intero procedimento della pianificazione, in tutte le sue fasi e in tutte le sue articolazioni, ci permette di introdurre un di­ scorso di estrema importanza per l'attuale situazione degli studi italiani nel settore, e d'altro canto di sviluppare alcuni temi fondamentali solo accennati nella rassegna precedente. Definita la pianificazione, come abbiamo già detto, un insieme di procedure, essi propongono : noi definiamo la pia­ nificazione come un processo per determinare una appro­ priata azione futura attraverso una sequenza di scelte. Usiamo determinare in due sensi: scoprire e assicurare. Dal momento che appropriata implica un criterio per formulare giudizi in merito a situazioni preferenziali, ne deriva che la pianifica­ zione ingloba una nozione di fini. L'azione realizza fini speci­ fici, e così ci troviamo di fronte al problema di mettere in re­ lazione fini generali e mezzi particolari. Notiamo inoltre nella definizione che l'azione è il risultato finale degli sforzi di pia­ nificazione, e perciò una teoria della pianificazione deve essere rivolta ai problemi della realizzazione 4• Si tratta di una definizione rigorosa che sottolinea tutti gli elementi fondamentali del processo di pianificazione e che 66


ormai trova riscontro nelle definizioni generalmente accettate <1.nche in Italia. Basti pensare alla definizione fornita da B. Secchi: per pianificazione urbanistica, dunque, intenderò, come del resto per ogni altra forma di pianificazione, una procedura in cui, fissati determinati obiettivi e determinate preventivamente le risorse disponibili, si tenda a conseguire, secondo i suggerimenti di tutti gli indirizzi scientifici interes­ sati e delle tecniche di calcolo disponibili, quella distribu­ zione delle risorse tra i vari impieghi che consenta di far av­ vicinare maggiormente, nel tempo, il sistema considerato à tali obiettivi s. Ma l'interesse della formulazione di Davidoff e Reiner sta principalmente nella loro volontà di sottolineare l'esi­ stenza di una sequenza di scelte nel processo della pianifica­ zione, tanto da proporre nel titolo del loro articolo una teo­ ria della pianificazione come teoria della scelta. Scelte che essi individuano essenzialmente a tre livelli: primo, la sele­ zione dei fini e parametri; secondo, la identificazione di un insieme di alternative coerenti con questi criteri generali, e la selezione di un'alternativa preferenziale; e, terza, la direzione dell'azione verso fini determinati. Ciascuna di queste scelte, essi sottolineano, richiede la formulazione di un giudizio; il giudizio permea la pianificazione. In definitiva ed in sintesi l'insieme di queste scelte, formulazione di valore, identifica­ zione dei mezzi e realizzazione costituisce il processo del planning 6• Appare immediatamente chiaro l'interesse che ha per noi questa formulazione. Basti tenere presente che, come si è ac­ cennato nella rassegna precedente, una delle obiezioni prin­ cipali che viene mossa in Italia e alla possibilità di fondare una scienza dei fenomeni territoriali e alla possibilità di definire una metodologia scientifica dell'operazione di pianifica­ zione riposa sull'incidenza che appunto avrebbero i giudizi di valore del ricercatore, vanificando in tal modo ogni pretesa di « oggettività ». Obiezione alla quale avevamo solo accen­ nato una risposta che è ora il caso di sviluppare ulterior­ mente, anche se non abbiamo ovviamente la pretesa di ri­ solvere un problema di simile complessità, ma solo quella di 67


ricondurlo nel contesto reale nel quale l'ha definito l'episte­ mologia moderna. Il problema delle metodologie delle discipline storico­ sociali ha avuto ampio sviluppo nelle riflessioni epistemolo­ giche dell'ottocento. E ciò sia nell'ambito di una corrente di pensiero come quella costituita dal positivismo e dalle scienze sviluppatesi sotto sua diretta influenza (psicologia sperimen­ tale, sociologia), tesa con Stuart Mill ad affermare l'esigenza di unificare la logica della ricerca di tutte le discipline, com­ prese quelle sociali, e con Durkheim a riconoscere nei feno­ meni sociali quel carattere di oggettività che è proprio dei fe­ nomeni del mondo fisico 7; sia nell'ambito di una ricerca come quella dello storicismo tedesco, da Dilthey a Meinecke, ri­ volta all'individuazione delle distinzioni tra scienze naturali e storico-sociali in funzione delle differenze strutturali fra i re­ lativi campi d'indagine. Ma è necessario giungere al 1904 perché Max Weber ponga in modo nuovo il problema dell'oggettività delle scienze storico-sociali, tanto da preludere di fatto alle moderne con­ cezioni di filosofia della scienza. Momento fondamentale della sua concezione è la demistificazione di quella teoria metafisica dei valori propria di tanta parte della cultura dell'ottocento ed in particolare dello storicismo tedesco, che si fondava sul presupposto di una loro validità assoluta a priori, come aspetto della loro esistenza metastorica. I valori in Weber non godono più del riconoscimento di una presunta « naturalità» o « universalità », non sono più nella loro molteplicità aspetti di una unità sistematica, perdono ogni qualificazione di me­ tastoricità e di trascendenza: essi risultano esclusivamente funzione di quella determinata cultura cui il soggetto che opera appartiene, e, in quanto sempre particolari di una cul­ tura determinata, sono oggettivamente ricondotti al livello dell'esperienza storica. Come tali, essi rappresentano l'ele­ mento culturalmente condizionante le discipline storico-so­ ciali, nella misura in cui vengono assunti come ineliminabili parametri per la scelta dei dati empirici e per la costruzione della prospettiva di inquadramento dei fenomeni all'esame; ma sempre in quanto relativi allo specifico punto di vista


dal quale si pone il ricercatore nella fase iniziale che stabilisce la direzione dell'indagine. La presenza dei valori nel processo delle discipline storico-sociali è quindi inevitabile; il punto cruciale è proprio questo: come scrive Weber, non c'è nes­ suna analisi scientifica: puramente «oggettiva» della vita cul­ turale o ... dei fenomeni sociali indipendentemente da punti di vista specifici e «unilaterali•, secondo cui essi, espressa­ mente o tacitamente, consapevolmente o inconsapevolmente, sono scelti come oggetti di ricerca, analizzati e organizzati nell'espressione 8• Tale concezione dei valori e del loro ruolo nel processo conoscitivo, se introduce un momento di rottura con la tra­ dizione metafisica dello storicismo tedesco, costituisce d'altra parte nel pensiero di Weber un aspetto della sua polemica contro quelle posizioni del positivismo ottocentesco che ten­ devano alla riduzione della sociologia alla scienza naturale: polemica che trova la sua fondazione logica appunto nello sforzo di individuare i caratteri specifici e distintivi della conoscenza e della metodologia delle discipline storico-sociali. In tal senso può dirsi che in Weber è ancora presente l'in­ fluenza della concezione propria di Dilthey e in vario modo di tutto lo storicismo tedesco di una dicotomia fra scienze della natura e scienze dello spirito. Ma bisogna aver ben chiaro da un lato che la polemica di Weber è rivolta contro una riduzione della sociologia alla scienza naturale, intesa quest'ultima nell'accezione positivistica dell'epistemologia propria del suo tempo. E che d'altro canto, nel tentativo di fondare una autonomia delle scienze storico-sociali, egli giunge all'individuazione di una serie di temi e di nodi pro­ blematici che anticipano attuali sviluppi di filosofia della scienza, ponendo di fatto le basi per quella riunificazione tra scienze naturali e storico-sociali operata dalla moderna epi­ stemologia. D'altronde, se nella sua polemica antipositivistica appare ancora influenzato dagli sviluppi teorici dello stori­ cismo tedesco, Weber, con il ricondurre i valori sul piano del­ l'esperienza, pone oggettivamente le basi per la dissoluzione di quella stessa dicotomia tra scienze della natura e scienze dello spirito, propria, come abbiamo già detto, di quella cor- 69


rente di pensiero. Dicotomia metafisicizzante nella misura in cui ponendo appunto un mondo astratto di valori come norma intrinseca della coscienza e dell'esperienza umana, rivendica a .queste ultime un'assoluta originarietà rispetto ai processi del mondo fisico; presuppone quindi una concezione duali­ stica di spirito e natura, nel solco della tradizione del plato­ nismo; giunge alla conclusione che mentre le scienze naturali non possono andare al di là di una spiegazione degli eventi, solo alle scienze umane è concesso di giungere alla loro es­ senza. Non esistono quindi secondo Weber, se non in termini ambiguamente metafisici, verità assolute e il processo cono­ scitivo delle discipline storico-sociali si costituisce come tale solo in quanto esprime necessariamente la scelta di uno spe­ cifico punto di vista. È evidente come tale concezione, rom­ pendo con la tradizione positivistica di una conoscenza scien­ tifica « oggettiva », anticipi di fatto, come si è già detto, mo­ derne concezioni espistemologiche. Una volta riportati, in­ fatti, i valori sul piano dell'esperienza, la rilevazione di un certo scarto fra l'approccio scientifico delle discipline umane e quello delle discipline naturali 11011 è più il portato di una forma di dualismo filosofico, ma costituisce una pura consta­ tazione di fatto. I valori, come inevitabile patrimonio del singolo studioso, sono comunque presenti nella ricerca. Sus­ siste tuttavia una certa differenza, al limite puramente quan­ titativa... per cui lo storico e il sociologo, essendo chiamati più direltamente in causa rispetto all'oggetto della propria ricerca, si trovano ad influire in modo maggiore, con le loro assunzioni, nella determinazione della prospettiva euristica e dell'inquadramento dei fenomeni presi in esame, i quali non si presentano come fatti autosignificanti, ma sono resi signi­ ficativi dal ricercatore stesso 9• E l'influenza del ricercatore sui fenomeni osservati è 5tata dimostrata sino in fondo nelle scienze naturali: basti pensare al principio di indeterminazione di Heisenberg. Se­ condo tale principio, che è a base della fisica moderna e che è stato fecondamente esteso in molti altri campi, è impossi­ bile conoscere esattamente, attraverso la determinazione spe-


rimentale, tutte le caratteristiche che individuano un ente os­ servato. E ciò a causa del fatto che qualsiasi mezzo di os­ servazione includendo in essi l'osservatore stesso, influisce su almeno una delle caratteristiche di tale ente. Gli scienziati fisici hanno ora riconosciuto che l'osserva­ tore e i suoi strumenti influenzano le osservazioni e che con­ clusioni probabilistiche piuttosto che universali ne derivano. Se ciò è vero nel regno fisico, deve essere tanto più vero in quello sociale. E quindi, essendo i valori uno degli elementi principali con i quali Io scienziato sociale influenza la sua ri­ cerca, egli dovrebbe - da buon scienziato - specificare i suoi valori e cercare di porre in rilievo la loro possibile in­ fluenza sulle osservazioni. Così, ogni ricercatore dovrebbe specificare l'obiettivo che egli sta perseguendo nel selezionare ogni dato problema per la ricerca. Questa specificazione, che Myrdal ed io abbiamo altrove chiamato « esplicitare le premesse di valore che sono dietro la selezione dei problemi di ricerca», è determinata dalla richiesta di oggettività nella scienza 10. È a questo punto che sembra sorgere una grave contrad­ dizione: tra l'inevitabile condizionamento da un lato che i va­ lori esercitano sulla ricerca, e l'esigenza di «oggettività» della ricerca stessa, intesa nel senso che i risultati di questa .i.bbiano validità generale, indipendentemente quindi dal sin­ golo ricercatore, e siano comunicabili e verificabili. Contrad­ dizione che è però solo apparente, le radici della cui solu­ zione sono già presenti nella stessa concezione di Weber, e che si fonda principalmente su alcune categorie di giudizio proprie del positivismo ottocentesco. In primo luogo, se è vero che alla base di ogni ricerca esiste la scelta di un particolare punto di vista, la correttezza scientifica esige, come abbiamo visto, la chiara esplicitazione delle premesse e, di conseguenza, la rigorosa coerenza con esse nello svolgimento della ricerca stessa. Al ricercatore, in­ fatti, allo scienziato, compete di scegliere tra « diversi punti di vista», poiché non c'è prospettiva di ricerca che possa ve­ nirgli imposta come scientificamente vincolante dall'esterno. È d'altro canto però ovvio che una volta compiuta la scelta, 71


dopo che si è formulato il giudizio di valore che ha suggerito proprio quella scelta, l'onestà professionale dello studioso unpone di seguire coerentemente quella strada; in questo senso i giudizi di valore, che pure stanno alla base di ogni ricerca scientifica in quanto ne condizionano sul nascere l'at­ tuazione, vanno banditi dalla ricerca stessa 11• È in tal senso che va intesa la prima delle due condizioni che Weber pone come fondamentali per una fondazione « og­ gettiva» delle discipline storico-sociali: quella dell'avalutati­ vità. Per essa è necessario che queste discipline espellano dal proprio ambito ogni giudizio di valore, rinunciando ad affermare valori o valutazioni e differenziandosi con ciò ra­ dicalmente dalla politica o più in generale da qualunque presa di posizione di tipo valutativo. Una scienza empirica, come scrive Weber, non può mai insegnare ad alcuno ciò che egli deve, ma soltanto ciò che egli può e, in determinate circostanze, ciò che egli vuole 12• Si può dire che il concetto della avalutatività sia divenuto uno dei parametri fondamentali di quel metodo che più di ogni altro ha contribuito alla fondazione scientifica della lin­ guistica moderna e ha influenzato lo sviluppo delle discipline storico-sociali: il metodo strutturale. Esso ha garantito, per le discipline che l'hanno accolto, la possibilità di uscire dal soggettivismo e di raggiungere quel livello di oggettività del proprio metalinguaggio che ha permesso l'integrazione a tale livello con le esperienze di quelle scienze... in cui il principio della avalutatività della ricerca ha permesso un maggior grado ài formalizzazione del proprio linguaggio, cioè una maggiore garanzia di non intervento sulla realtà che costituisce l'og­ getto d'analisi 13• Seconda condizione posta dal Weber per l'« oggettività» delle scienze storico-sociali, e quindi come abbiamo visto per la loro avalutatività, consiste nella necessità che esse assol­ vano una reale funzione esplicativa dei fenomeni, fondata sulla spiegazione causale e garantita dalla verifica empirica. li concetto di avalutatività risulta in tal modo posto in modo rigoroso all'interno di un problema generale di epistemolo­ gia che, in quanto tale, riguarda funzioni, metodi ed obiettivi


di tutte le scienze e non solo di quelle sociali. E non è il caso a questo punto di ampliare ulteriormente il discorso nella specificazione del significato nuovo che nelle formulazioni di tipo probabilistico il principio di causalità ha assunto, ri­ spetto al modello deterministico del positivismo classico. Per dare un prima conclusione a questa parte del nostro discorso, il cui sviluppo era stato iniziato già nella rassegna precedente, abbiamo visto come talune tra le principali obie­ zioni alla possibilità di fondare scientificamente la cono­ scenza dei fenomeni del territorio ed una metodologia di in­ tervento si articolino essenzialmente intorno a due problemi. Da un lato la complessità dei fenomeni territoriali che eluderebbe ogni tentativo di analisi oggettiva e impedirebbe l'applicazione di categorie scientifiche quali il principio di causa-effetto. Dall'altro, l'incidenza che il sistema di valori del ricerca­ tore da un lato e della società nel suo complesso dall'altro avrebbero nella determinazione di studi di tal tipo, influen­ zandoli profondamente fino a far loro perdere ogni carat­ tere di oggettività. Entrambe tali considerazioni, come ab­ biamo cercato di dimostrare, si fondano su un equivoco: quello di concepire la scienza come rispecchiamento neutrale di una realtà data ad essa esterna. La risposta a tali obiezioni è fornita da tutta la moderna epistemologia. La scienza non pretende di cogliere l'oggettività dei fatti: essa si pone come convenzionale ipotesi operativa. Non formula solo leggi ineccepibili, che definiscono cioè rapporti costanti senza ec­ cezioni tra eventi; ma leggi probabilistiche, che definiscono cioè la frequenza con cui tali rapporti sussistono. Non defi­ nisce relazioni causali in senso deterministico tra fenomeni; ma le probabilità, come scrive Geymonat, che i risultati di certe misure cadano in determinati intervalli 14• Non aspira ad una oggettività inesistente, quindi, ma ad elaborare schenù teorici solo all'interno dei quali enti e rapporti acquistano si­ gnificato, e che solo nella verifica empirica si confermano come capaci di spiegare determinati fenomeni: avendo ben chiaro che tale spiegazione sarà inevitabilmente soggetta a nuove formulazioni in funzione dell'osservazione di nuovi fenomeni, 73


dell'uso di nuovi strumenti di osservazione e quindi della defi­ nizione di nuove teorie operativamente più comprensive. Ed avendo ben chiaro infine che l'incidenza dei valori è inevita­ bile. Essi costituiscono anzi gli unici criteri che permettono di formulare ipotesi di ricerca e quindi la selezione signifi­ cativa dei dati empirici. In tal senso una teoria scientifica è sempre coscientemente intenzionata: solo la connotazione di valore, come scrive Myrdal, pennette di porre le domande senza le quali non si hanno risposte 15• Non si tratta perciò di affermare un'equivoca e mistificata neutralità della scienza, ma di riconoscere consapevolmente il ruolo che le premesse di valore esercitano in quanto alla base di ogni ricerca ne condizionano l'attuazione. Fermo restando che compito delle scienze è quello di tendere ad una reale funzione esplicativa dei fenomeni garantita dalla verifica empirica. Il che significa che l'unica garanzia è nello sviluppo stesso di un metodo cor­ rettamente scientifico, solo attraverso il quale è possibile sot­ toporre ad un controllo rigoroso anche la intuizione iniziale del fenomeno da indagare, nella quale sono inevitabilmente presenti, come abbiamo detto, assunzioni di valore e quindi ideologiche. Si intende con ciò che l'indagine scientifica pro­ prio in quanto tale è, come scrive Schumpeter, sottoposta ad un controllo obiettivo nel senso che è sempre possibile sta­ bilire se una data affermazione (con riguardo ad un dato stato di conoscenza) sia verificabile, confutabile o meno. Il che permette la esclusione di quel particolare tipo di delu­ sione che chiamiamo ideologia poiché la prova di cui si parla è indifferente a qualsiasi ideologia 16• Abbiamo visto finora come i giudizi di valore siano ine­ liminabili in un procedimento di tipo scientifico. Essi sono indispensabili per stabilire gli obiettivi in base ai quali svol­ gere l'analisi e la spiegazione di qualsiasi tipo di fenomeno e quindi anche di quelli territoriali. 1;, sono alla base delle va­ rie fasi dell'attività di pianificazione, come abbiamo visto nella formulazione di Davidoff e Reiner, nella misura in cui si accetti che il pianificatore deve agire responsabilmente, non arbitrariamente, e quindi deve essere certo di quando e dove le scelte vengono fatte 17• E in particolare sono alla base della 74


prima fase dell'attività di pianificazione: quella della sele­ zione di fini e parametri, nella misura in cui si comprenda che i fini non sono dati, irrevocabili, ma sono soggetti ad

analisi 18• Tale doppia accezione di fine o obiettivo, parametro per la conoscenza e direzione in funzione della quale stabilire ed utilizzare gli strumenti del piano, è presente in tutta l'at­ tuale ricerca sui fenomeni territoriali, così come spesso pre­ sente è la necessità di formulazioni che saldino in un'unica prospettiva entrambi gli aspetti. E basti citare in tal senso Lynch, il quale si preoccupa di sviluppare uno studio della relazione finalità-forma, cercando di analizzare come gli al­ ternativi ordinamenti fisici facilitano o inibiscono i vari obiettivi individuali e sociali: e ciò al fine di fondare una teoria della forma urbana, con la convinzione che il primo compito è quello di decidere che cosa essa è e di trovare i modi di classificarla e di descriverla, che risultino utili sia per l'analisi della sua incidenza sugli obiettivi sia per la manipola­ zione pratica della forma 19• Particolare rilievo riveste tale problema in Guttenberg, il quale afferma: troppo frequen­ temente, si ha l'impressione che i concetti di pianificazione includono due tipi di asserzione di origine necessariamente indipendente, cioè asserzioni teoretiche sulla natura della città, e asserzioni pratiche o obiettivi. Scopo della ricerca di Guttenberg è quello di mostrare quale intima relazione possa esistere tra questi due tipi di asserzione. E così egli nella sua teoria utilizza un obiettivo, quello di superare la distanza tra popolazione ed attrezzature, al fine di produrre una defini­ zione di struttura urbana. Seguendo questo metodo, egli af­ ferma, viene prodotto un continuum di concetti di pianifica­ zione, alcuni dei quali pratici ed altri teoretici ma tutti in relazione tra loro 20• Rilievo particolare riveste il problema del chiarimento degli obiettivi all'interno della stessa attività di valutazione dei modelli territoriali storicamente formulati. E ha ben presente questa esigenza Reiner, nella sua analisi del ruolo delle comunità ideali nella pianificazione urbana. Lo scopo principale di una comunità ideale, scrive Reiner, è... quello di fornire un modello che consenta di verificare la 75


possibilità di applicazione delle diverse propos1z10ni... La de­ finizione di una comunità ideale comporta che siano identi­ ficati in modo chiaro e completo gli obiettivi su cui si dovrà basare l'intera struttura. Ed altrove afferma: per quanto ri­ guarda la dicotomia tra dati di fatto e giudizi di valore, po­ che proposte o schemi sono totalmente privi di elementi o implicazioni di valore; anche le osservazioni e le proposte più empiriche sono inserite in una struttura prospettica che contiene principi di valore. Tenendo presenti questi elementi, la prima importante suddivisione da considerare distingue gli obiettivi dagli strumenti; le proposizioni formulate nelle co­ munità ideali sono generalmente mezzi per raggiungere fini, non sono fini in sé stesse. La scoperta di tali finalità costi­ tuisce... una parte dei compiti del critico; l'analisi dei mezzi necessari per raggiungerli rappresenta il resto 21• È necessario sottolineare, per quanto riguarda in parti­ colare l'attività di pianificazione, che la necessità di una chia­ rificazione del problema degli obiettivi nel settore della pia­ nificazione urbana è stata fortemente sollecitata dallo svi­ luppo di sempre più raffinate tecniche di analisi e calcolo in particolare nel settore degli studi economici. E proprio nella misura di cui gli strumenti analitici delle scienze sociali sono stati portati a relativa raffinatezza in economia, si è cercato in qualche modo di generalizzarli 22• Importanti in tal senso sono stati i contributi di tecniche quali la programma­ zione lineare, la quale viene applicata in particolare a pro­ blemi del tipo della gestione ottima di un organismo com­ plesso, nell'ambito del quale sia possibile distinguere varie attività diverse. L'interrogativo è: a quale livello occorre spingere queste varie attività per conseguire un dato obiet­ tivo? Per porre il problema in modo preciso, occorre dun­ que, come appare evidente, disporre di una descrizione del­ l'organismo e di una indicazione precisa dell'obiettivo. Ele­ mento quest'ultimo di capitale importanza dato che, in ge­ nerale, coloro che redigono piani esprimono i loro desiderata nella forma di mezzi che dovrebbero essere realizzati, e non di fini che dovrebbero essere conseguiti; essi hanno l'abitu16 dine di tradurre direttamente ... i loro obiettivi in termini di


provvedimenti da adottare, e non è che a questo stadio che essi pongono il problema. In realtà i loro desiderata devono essere espressi, al contrario, in termini di fini, il che con­ sente di considerare dei mezzi alternativi e di scegliere quello che realizza l'ottimo 23• Restano ora da sottolineare alcuni problemi rispetto ai quali la introduzione sistematica dell'analisi degli obiettivi e del rapporto mezzi-obiettivi appare indispensabile, al fine di razionalizzare il processo di pianificazione. Un primo ordine di problemi di tal tipo è costituito da quelle polemiche in cui le divergenze appaiono definite da differenti valutazioni delle conseguenze di alcune azioni ( di­ vergenze queste che, in linea di principio, possono essere eli­ minate dal progresso dell'analisi positiva) più che da fon­ damentali differenze nelle premesse di valore 24• Secchi porta ad esempio di esperienza europea in questo campo il disaccordo circa la possibilità e l'utilità di affidare ad un meccanismo di mercato il compito di distribuire le diverse porzioni di un territorio urbano tra le varie utilizza­ zioni. Esistono due posizioni a tal proposito: entrambe fon­ damentalmente accettano o sostengono di accettare la neces­ sità che le modifiche degli assetti territoriali vengano preor­ dinate in vista del massimo benessere collettivo; entrambe considerano o asseriscono di considerare inique le rendite urbane in quanto non collegate ad alcuna azione imprendi­ toriale del proprietario. Ma il disaccordo verte sul fatto che l'eliminazione del meccanismo di mercato sia necessaria e sufficiente al fine suddetto. È evidente che tale problema può essere risolto solo sulla scorta... di un modello analitico che indichi come i diversi operatori compiono le proprie scelte ubicative... e che indichi ancora gli effetti sulle scelte ubicative stesse di modifiche nei valori di alcune variabili strumentali e cioè di alcune « politiche » attuabili da parte dell'operatore pubblico 25• Ed è evidente inoltre come, in man­ canza di ciò, nessuna delle due posizioni possa legittima­ mente sostenere sul piano scientifico la propria scelta. De­ riva da tutto questo che una delle tesi principali, sulla quale si è impegnata la cultura urbanistica italiana in questo dopo-


guerra, e in particolare la cultura di sinistra, quella appunto di una diversa regolamentazione del mercato delle aree, è rimasta sostanzialmente priva delle motivazioni scientifiche indispensabili ad una sua corretta formulazione. Il che conva­ lida il giudizio di De Carlo circa la situazione di inefficienza

in cui si pone la nostra cultura quando... si lascia obnubilare da un indiscriminato ricorrere a giudizi di valore, col risul­ tato di farsi sempre sfuggire il concreto dell'esperienza (e di sottrarsi ai suoi specifici compiti, perdendo la sola possi­ bilità di sostenere nel modo piìt proprio i valori che con­ clama) 26• Bisogna tener conto inoltre che l'eliminazione delle ren­ dite urbane e la loro attribuzione alla collettività possono ot­ tenersi anche per vie diverse da quella dell'eliminazione del mercato delle aree, ad esempio con norme che potranno an­ che essere di tipo fiscale 27• E che quindi vien meno anche la possibilità di sostenere tale tesi come unico mezzo per con­ seguire l'obiettivo suddetto. Il che significa che, al di fuori di una più rigorosa formulazione scientifica, tale tesi è so­ stenibile solo sulla base di un preciso giudizio di valore, di una specifica scelta ideologica, all'interno della quale essa si collochi come strumento per il conseguimento di obiettivi che non possono più essere taciuti ma vanno esplicitamente formulati. Con quale vantaggio per la chiarezza del dibat­ tito politico e ideologico tutti possono vedere. Un secondo ordine di problemi è costituito dal rapporto tra tecnici e politici nel processo di pianificazione, e dal corretto ruolo che entrambi vi debbono svolgere. Si tratta di un tema di estrema importanza, in particolare nella si­ tuazione italiana, come tutta la pratica della pianificazione nel nostro paese insegna. L'operazione di pianificazione in­ fatti non implica solo obiettivi di tipo tecnico, ma necessita di obiettivi di tipo più generale che solo i politici possono fornire. Nella misura infatti in cui il pianificatore è consape­ vole del processo di pianificazione come qualcosa più ampia del suo specifico contributo, allora il problema si complica perché egli deve dunque richiedere obiettivi più alti che non 78 ha alcuna autorità per porre, obiettivi che forniranno i pro-


positi dei suoi piani di uso del suolo e di circolazione 28• Es­ sendo infatti compito del pianificatore scegliere tra alterna­ tive diverse, egli deve essere precisamente consapevole del fatto che tale scelta può essere legittimamente motivata solo dai valori dei clienti, intesi questi ultimi nell'accezione più vasta. Essendo infatti gli obiettivi asserzioni di valore, e queste ultime non essendo obiettivamente verificabili,.. il pianificatore non può, da se stesso, ragionevolmente accet­ tare o respi11gere obiettivi per il pubblico. Infatti, né la com­ petenza tecnica del pianificatore né la sua saggezza lo quali­ ficano ad attribuire o ad imporre valori ai suoi... clienti. Si tratta, come si vede, di un concetto fondamentale: un con­ cetto che respinge la teoria che i pianificatori o altri tecnici siano dotati della facoltà di indovinare la volontà dei clienti o una volontà pubblica 29• Questo ordine di considerazioni assume un particolare rilievo proprio nella pianificazione urbana e regionale, dove sembra particolarmente esistere confusione tra i fini generali della società ... e quei fini più specifici che producono in par­ ticolare gli scopi di un piano determinato. È un importante obiettivo della teoria della pianificazione districare questi due fili strettamente intrecciati e identificare la responsabilità di ciascuno di essi ;o_ Questa affermazione ci introduce direttamente nel me­ rito di un ulteriore gruppo di problemi di enorme impor­ tanza; essi derivano strettamente dai seguenti elementi. Prima di tutto, abbiamo già visto come l'attuale concezione della pianificazione nei termini di un processo per la deter­ minazione dei fini e l'individuazione dei mezzi attraverso i quali i fini possono essere raggiunti, fa balzare in primo piano il problema della differenza tra quelle attività in cui gli obiettivi sono dati, e il planning in cui la determinazione dei fini assume importanza pari a quella del progetto attra­ verso il quale ci si propone di raggiungerli. E ciò a diffe­ renza del passato, in cui in genere i pianificatori hanno la­ vorato con obiettivi che erano più una parte del loro credo che il risultato della loro ricerca razionale 31• Anche se infatti gli obiettivi sono stati in prima linea nel pensiero della pia- 79


nificazione fino dalla prirna letteratura sull'utopia, solo in tempi relativamente recenti l'identificazione dei fini è stata fatta diventare parte integrante del lavoro tecnico della pia­ nificazione 32• In secondo luogo, la consapevolezza di tale pro­ blema ha reso immediatamente evidente la carenza di ela­ borazione riguardo l'individuazione di obiettivi specifici al­ l'interno delle varie forme di pianificazione, chiaramente re­ lazionati alle tecniche disponibili per il loro raggiungimento; e in particolare per quanto riguarda la pianificazione fisica, a base dell'elaborazione di Lynch è stata proprio la coscienza di tale carenza. Un esame sistematico delle interrelazioni fra le forme urbane e gli obiettivi umani sembrerebbe costi­ tuire il cuore teoretico del lavoro di pianificazione delle città, scrive Lynch. Ma tale considerazione farebbe comparire un sorriso ironico sul volto di ognuno che abbia familiarità con l'attuale stato della teoria dell'ambiente fisico 33 • Un importante contributo a questo discorso è portato da Young, attraverso l'introduzione di una differenza concet­ tuale tra la nozione di fini e quella di obiettivi. Tale differenza si fonda su due elementi. Prima di tutto, in generale, i fini sono universali e durevoli, mentre gli obiettivi cambiano col variare delle circostan'le. In secondo luogo, un fine è un ideale e dovrebbe essere espresso in termini astratti, è un valore che deve essere perseguito, non uno scopo da raggiungere... Un obiettivo d'altro canto è suscettibile sia di essere raggiunto che misurato. Si verifica immediatamente l'utilità di tale di­ stinzione nella individuazione compiuta da Young delle fasi in cui la pianificazione si articola: determina'lione dei fini; individua'lione di misure o standards; applicazione degli stan­ dards ai fini per trasformare i fini in obiettivi; progettazione dei mez'li attraverso i quali gli obiettivi possono essere rea­ li'lzati. Un esempio potrà ulteriormente chiarire tale concetto. Si immagini che in una determinata situazione si assuma come fine il pieno impiego della popolazione. Tale fine, in se stesso, non ha significato quantitativo; si tratta allora di individuare uno standard che permetta di esprimerlo: ad esempio che i disoccupati non costituiscano più del quattro 80 per cento della popolazione. E. in tal modo possibile stabilire


il numero dei nuovi posti di lavoro che debbono essere creati. Ciò diviene un obiettivo del piano. Possono allora essere avanzate varie proposte relative all'uso del suolo, alle politi­ che fiscali, agli aumenti di capitale, e ad altri elementi pro­ gettati per creare il desiderato numero di posti di lavoro". Per effettuare tutti questi passi il pianificatore, farà pesare tutte le tecniche e la conoscenza da lui accumulate 34. Dovrebbe risultare chiaro dal discorso sinora svolto come sia a livello della determinazione dei fini che vada individuata in particolare la responsabilità del politico. Anche se, ovvia­ mente, ciò non significa che il pianificatore debba essere la serva del gruppo, e che egli non abbia anche il compito ( qua­ lora le finalità del gruppo dovessero differire dai suoi va­ lori) di spingere gli appartenenti al gruppo a modificare il loro sistema di finalità e di presentare loro delle nuove al­ ternative 35• Ma evidentemente ciò introduce il problema del rapporto fra attività tecnica e politica, problema che va al di là delle nostre attuali intenzioni. È invece a livello della individuazione degli standards e quindi della formulazione di obiettivi specifici che va vista la peculiare responsabilità del tecnico: responsabilità che in ogni caso non può venire elusa, come abbiamo già cercato di dimostrare. Responsabilità che il tecnico ha il dovere di as­ solvere sotto vari aspetti. Prima di tutto attraverso la sua specifica conoscenza dei fenomeni in oggetto. AI fine infatti di garantire che una determinata scelta sia ragionevole quanto o più di ogni altra alternativa, il pianificatore deve far pe­ sare su ogni decisione la maggior quantità di informazioni rilevanti concernenti le ramificazioni di tutte le alternative. In secondo luogo, attraverso l'uso delle particolari tecniche di­ sciplinari che gli sono proprie. Se ad esempio, infatti, un de­ terminato valore X può essere preferito in prima istanza, la successiva conoscenza dei costi per conseguire X potrebbe condurre ad elevare la considerazione di un altro valore 36• Ed infine, attraverso la sua capacità di elaborare un sistema di obiettivi interno alla sua particolare competenza discipli­ nare, posti in termini pertinenti e operativi; obiettivi, cioè, che siano coerenti, possibili, operativi e attinenti al compito

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intrapreso, e che sia possibile riesaminare periodicamente ... nella loro adeguatezza agli obiettivi più generali e alla situa­ zione mutevole, come pure per quanto riguarda la loro coe­ renza 37 • E non è il caso ovviamente di ricordare come gli studi di Lynch costituiscano appunto un tentativo specifico di elaborare una teoria della pianificazione fisica basata sulla analisi del rapporto tra finalità e forma urbana. Per concludere, ci interessa sottolineare il ruolo che nella problematica urbanistica italiana questa messa a fuoco del problema degli obiettivi nella pianificazione può e deve svol­ gere. E ci sembra tra l'altro che essa rivesta un particolare in­ teresse proprio perché solo recentemente nel nostro paese i piani utilizzano sistematicamente la ricerca dei fini e degli obiettivi ed il conseguente orientamento verso di essi. Tale carenza è sentita in modo precipuo nella pianificazione terri­ toriale fisica, in cui l'intera attività è stata considerata a lungo come una congerie di norme empiriche atte a definire grandezze fisiche da realizzare nei diversi settori in cui ve­ niva scomposta la città. Tale atteggiamento, oltre agli scom­ pensi metodologici su cui si basava, contrabbandava di fatto una tendenza di fondo tecnocratica, poiché la non esplicita­ zione dei fini e degli obiettivi a livello politico e tecnico por­ tava come conseguenza l'impossibilità della valutazione di so­ luzioni alternative e quindi in buona sostanza del controllo democratico sulla proposta tecnica. Come rara testimonianza del contributo degli studi teo­ rici italiani in questa direzione, è possibile citare Lombar­ dini, il quale distingue tre momenti nella pianificazione urba­ nistica: a) il momento delle finalità; b) il momento degli obiettivi di spazio; c) il momento urbanistico in senso stretto 38• Si può dire in totale che nella situazione italiana degli ul­ timi anni, alla fase in cui la pianificazione territoriale fisica veniva considerata una dilatazione dell'approccio tradizionale ai problemi del disegno delle città e veniva basata essenzial­ mente nel migliore dei casi sulla estrapolazione neutrale delle tendenze di sviluppo è subentrata una fase in cui essa è an-


data sempre più subordinando le sue decisioni e scelte di­ sciplinari a quelle individuate dalla pianificazione economica. Infatti la consapevolezza di come, nella realtà, i processi fos­ sero guidati prevalentemente dalle esigenze economiche e la accettazione da parte degli economisti, sempre desiderosi di sottoporre le scelte territoriali all'interno della convenienza economica 39, di tale sudditanza psicologica, hanno portato di fatto gli studi territoriali al ruolo di « momento successivo », di « traduzione » dei fini e degli obiettivi economici. Da que­ sta subordinazione è derivata in effetti la scelerotizzazione crescente che le ricerche nel campo della pianificazione terri­ toriale fisica hanno subito. È venuta così meno infatti sia la spinta alla conoscenza puntuale dei problemi territoriali, sia la coscienza che l'organizzazione del territorio non andava posta come fine gerarchicamente di secondo ordine rispetto a quelli economici e sociali, ma al contrario che essa, in­ sieme a questi, definiva il contesto dei fini generali di piano. La carenza di approfondimento dei fini e degli obiettivi all'interno della pianificazione urbanistica è largamente do­ cumentata, tra l'altro, dalle vicende della normativa urbani­ stica italiana, in cui da un lato la legge del '42, come osserva Lombardini, non chiarisce affatto né contenuto né fini dei piani urbanistici regionali e presenta gravi lacune anche... nella definizione dei piani comprensoriali 40, e dall'altro il re­ cente Programma Quinquennale di Sviluppo risulta carente proprio negli aspetti relativi agli obiettivi territoriali. Una rara, felice e poco nota eccezione a tale evasione nei confronti della assoluta necessità di esplicitare nella metodo­ logia della pianificazione territoriale fisica obiettivi « interni » al campo è rappresentata dalla attività del Centro di studi e piani economici diretto da Franco Archibugi. Questo Centro infatti, proprio sulla base della consapevolezza della carenza di approfondimenti in tale direzione, ha posto come scopo preliminare e fondamentale della propria ricerca una esplici­ tazione degli obiettivi territoriali. Tale posizione nasce fon­ damentalmente dalla convinzione della necessità di conside­ rare l'utilizzazione del territorio non solo una variabile di­ pendente dalle scelte economiche di localizzazione ma an- 83


che... wi obiettivo del piano. Tale obiettivo, per quanto possa contenere ragioni anche economiche, viene formulato tutta­ via in termini di obiettivo generale, ad un livello superiore, come obiettivo « sociale ». Il miglior uso del territorio... co­ stituisce un obiettivo del· piano, da esaminarsi autonoma­ mente e preventivamente, sia.pure in prima approssimazione in attesa di verifica complessiva di tutte le ipotesi di lavoro formulate. Questo obiettivo, mediante un esame più appro­ fondito, viene scomposto in un duplice ordine di elementi: e cioè quello costituito dalle determinazioni delle condizioni più o meno permanenti, naturali e fisiche, qualificanti l'uso del territorio, e quello costituito dalla determinazione di schemi insediativi ottimali a livello preferibilmente regionale, comprensivi degli standards urbanistici. Ed è proprio nella direzione di una puntuale applicazione e verifica di questi concetti in esperienze di pianificazione territoriale a varie scale che l'attuale attività del Centro di studi e piani econo­ mici si è andata sviluppando. Ci sembra giusto quindi a questo punto concludere il nostro discorso con l'affermazione di Archibugi che la pianificazione fisica territoriale... non può essere formulata solo « a posteriori » della determinazione degli obiettivi economici e della formulazione del piano eco­ nomico, ma che anzi molti elementi di fondo di essa... de­ vono essere... studiati, considerati e formulati « a priori » della pianificazione economica, nella fase di determinazione degli obiettivi politici e sociali della stessa; e quindi costi­ tuire uno tra gli elementi costitutivi delle sue finalità 41• a cura di

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ATTILIO BELLI

e

GIOVANNI PASCA RAYMOND!

1 B. SECCHI, Le basi teoriche dell'analisi territoriale, in « Analisi delle strutture territoriali», Franco Angeli, Milano 1965, p. 23. 2 B. HARRis, Pian or Projection-An examination of the use of models in planning, in « Journal of the A.l.P. ", Nov. 1960, voi. XX.VI. 3 P. DAVIDOFF e T. A. REINER, A choice theory of p/anning, in « Jour­ nal of the A.I.P. •, May 1962, voi. XXVIII. 4 P. DAVIDOFF e T. A. REINER, Ibidem. s B. SF.CCHI, Tipologia edilizia ed assetti territoriali, in « L'utopia della realtà», Leonardo da Vinci, Bari 1965, p. 58. 6 P. DAVIDOFF e T. A. RmNER, Op. cit.


7 E. K. SCHEUK, Metodi, in « Sociologia•, a cura di R. Konig, Fel­ trinelli, Milano 1964, p. 207. 8 M. WEBER, li metodo delle scienze storico-sociali, Einaudi, Torino 1958, p. 84. 9 G. STATERA, Problemi metodologici delle scienze sociali, in v Ri­ cerche metodologiche », anno secondo, numeri 3-4. 10 A. M. RosE, Theory and Method in the Socia! Sciences, University of Minnesota, Minneapolis 1954, pp. 163-4. Il G. STATERA, Op. cii. 12 M. WEBER, Op. cii., p. 61. 13 L. RosrELLO, Struttura, uso e funzioni della lingua, Vallecchi, Firenze 1965, p. 26. 14 L. GEYMONAT, Causalità, in « Enciclopedia della scienza e della tecnica », Mondadori, Milano 1963, voi. II, p. 796. 15 G. MYRDAL, /I valore nella teoria sociale, Einaudi, Torino 1966, p. 6. 16 J. A. SCHUMPETER, Scienza e ideologia, in « Economisti moderni•• a cura di F. Caffé, Garzanti, Milano 1962, p. 263. 17 P. DAVIOOFF e T. A. REINER, A reply lo Dakin, in « Journal of the A.I.P. •. voi. XXIX, February 1963. 18 P. DAVIOOFF e T. A. REINER, A choice thoory of planning, cit. 19 K. LYNCH e L. RoowIN, Una teoria della forma urbana, in « Qua­ derni di documentazione», Cluva, Venezia 1965, n. 1, p. 24. 20 A. Z. GuTTENBERG, Urban Structure and Urban Growth, in « Jour­ nal of the A.I.P. », voi. XXVI, May 1960. 21 T. A. REINER, Utopia e urbanistica, Marsilio, Padova 1967, pp. 159, 18 e 17. 22 P. DAVIOOFF e T. A. REINER, A reply to Dakin, cit. 2l P. MAILurr, Una nuova tecnica economica: la programmazione lineare, in « Economisti moderni » cit., pp. 239, 240 e 241. 24 M. FRIEDMAN, Essays in Positive Economics, cit. in: B. SECCHI, Le basi teoriche dell'analisi territoriale, cit., p. 27. 25 B. SECCHI, Le basi teoriche dell'analisi territoriale, cit., pp. 27 e 28. 26 G. DE CARLO, Introduzione a « La metropoli del futuro•, a cura di L. Rodwin, Marsilio, Vicenza 1964, p. XVI. 27 B. SECCHI, Le basi teoriche dell'analisi territoriale, cit., p. 28. 28 R. C. YouNG, Goals and goal-setting, in « Journal of the A.I.P.•, voi. XXXII, March 1966. 29 P. DAVIOOFF e T. A. REJNER, A choice theory of planning, cit. JO J. D,ooN, An Evaluation of the « Choice • Theory o/ Planning, in « Journal of the A.I.P.•, voi. XXIX, February 1963. 31 R. C. YouNG, Goals and gual-setting, cit. 32 F. S. CHAPIN JR. Foundation of urban planning, in « Urban !ife and form ., a cura di W. Z. Hirsch, Holt Rinehart and Winston, New York 1963, p. 225. 33 K. LYNCH e L. RoowIN, Una teoria della forma urbana, cit., p. 21. 34 R. C. YoUNG, Goals and goal-setting, cit. 35 K. LYNCH e L. RoowrN, Una teoria della forma urbana, cit., p. 38. 36 P. DAVIOOFF e T. A. REINER, A Choice theory of planning, cit. 37 K. LYNCH e L. Roow1N, Una teoria della forma urbana, cit., pp. 43 e 37. 38 S. LoMBARDINI, La programmazione; idee, esperienze, problemi, Einaudi, Torino 1967, p. 222. 39 F. ARCHIBUGI Verso la definizione di obiettivi urbanistici nella pianificazione ecor:omica, in « La città regione in Italia•• a cura di F. Archibugi, Boringhieri, Torino 1966, pp. 14-28. 40 S. LoMBARDINI, Op. cii., p. Ili. 85 41 F. ARCHIBUGI, Op. cii., p. 29.



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