Op. cit., 12, maggio 1968

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Op.cit. rivista quadrimestrale di selezione della critica d'arte contemporanea

Direttore: Renato De Fusco Redazione: 80123 Napoli, Salita Casale di Posillipo 14 - Te!. 300.783 Amministrazione: 80121 Napoli, Via dei Mille 61 - Te!. 231.692 Un fascicolo separato L. 800 - Estero L. l.000

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Edizioni e Il centroÂť


R. De Fusco Tre contributi alla semiologia architettonica E. Garroni

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L'eterogeneitĂ dell'oggetto estetico e i problemi della critica d'arte

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V. Corbi

Questioni di estetica empirica

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A. Perez

Riflessioni di uno scultore sul tema dello spazio

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Libri, riviste e mostre

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Alla redazione di questo numero ha,mo collaborato: Urbano Cardarelli, Marisa Cassola, Cesare de Seta, Mirella Galdenzi, Italo Prozzillo, Maria Luisa Scalvini, Francesco Starace.



Tre contributi alla semiologia architettonica RENATO DE FUSCO

Nel settore della saggistica riguardante l'architettura sono stati pubblicati alla fine del '67 tre libri dedicati parzialmente alla semiologia architettonica: Struttura e architettura di Cesare Brandi da Einaudi; Appunti per una semiologia delle comunicazioni visive di Umberto Eco da Bompiani; Architet­ tura come mass medium e note per una semiologia architet­ tonica del sottoscritto dalla Dedalo libri. Ovviamente non farò l'autorecensione di quest'ultimo, ma una rassegna, se­ condo la formula della rivista, delle altre due opere da una visuale che informò il mio saggio estesa alle mie più recenti acquisizioni. Ho citato in questa sede il terzo libro per met­ termi nella condizione di chi, lavorando sulla stessa tematica, non ricorre alla tecnica della recensione, ma tenta soprat­ tutto un critico confronto dei dati raggiunti. In realtà, ciò vale di più nei confronti del libro di Eco che, più problema­ tico ed esteso, si presta meglio a questa forma di dialogo ri­ spetto all'opera di Brandi, di cui tratterò solo il saggio che dà il titolo al volume, nel quale sono raccolti altri suoi scritti. Cesare Brandi inizia con un excursus sulla storia del ter­ mine struttura spiegandone il molteplice uso attuale in varie discipline, ma le sue argomentazioni hanno inizio prendendo lo spunto da un giudizio di Merleau-Ponty: « La struttura è un semplice sostituto della nozione di essenza... nel pensiero strutturalista si scopre un nuovo modo di vedere l'Essere"·

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Citando questo brano, Brandi afferma: A questo punto e solo a questo punto ci si spiega la lenta illuminazione che ha guidato, come una calamitazione invisibile, le scienze del­ l'uomo a perseguire un concetto che oltrepassasse, ingloban­ doli, sistema e organizzazione, ed evitasse il determinismo, facendo risalire ad un livello che, senza esigere di dissecare la realtà per vedere come è fatta, desse il modo di possederla dall'alto, come concetto e non come fenomeno. Indagare la struttura della realtà si pone come la sola ontologia possibile alla nostra temperie di cultura. A questa premessa d'ordine generale segue un'altra che . apre il discorso sull'arte, nella quale l'A. ripropone il dua­ lismo di « semiosi » ed « astanza ». La ricerca strutturale ri­ volta a quella realtà che appartiene in proprio all'uomo, emer­ ge solo attraverso la coscienza dell'uomo, di cui l'attività semantizzante è parte integrale e fondamentale, ma non l'esau­ risce. L'altro polo è dato dalla presenza stessa, la flagranza che la coscienza realizza della realtà: tale presenza non avrà dunque la struttura ( ontica) della realtà, in quanto che la realtà appercepita ha nella coscienza una struttura a sé come appercepita, struttura che fa. sistema e che non risulta dalla somma delle percezioni. Questa opposizione fra astanza e semiosi, col riconoscimento che costituiscono i due poli fon­ damentali dell'intenzionalità, è stata posta per la prima volta da noi, nelle « Due vie» ( Bari 1966). Notiamo che, forse per una esigenza di concisione, il passaggio dall'essenza ontologica ai due poli dell'intenziona­ lità non risulta così chiaro come sarebbe auspicabile per un assunto che sta alla base dell'intera trattazione; COI!!unque, distinte queste due vie, Brandi ritiene possibile per entrambe l'applicazione del metodo strutturalista e, toccando il tema centrale del saggio, si propone di esaminare il fondamento di un'analisi strutturale dell'architettura dai due punti di sta­ zione dell'astanza e della semiosi. Relativamente al secondo l'A. indica le affinità tra lingua ed architettura: rispondenza dell'architettura a determinati bisogni in modo che essa, .identificando - un uso, lo significa; 6 apparente presenza nel segno architettonico d'un significante


e d'un significato in analogia al segno linguistico; arbitrarietà dell'uno e dell'altro segno; affinità dell'analisi a vari livelli tra l'uno e l'altro sistema etc. Ma queste somiglianze sarebbero solo apparenti. Arrivati a questo punto può sembrare che il parallelismo fra architettura e linguaggio possa permettere di rendere conto dell'architettura nell'ambito della linguistica o almeno della semiologia. Ma un'analisi più approfondita vedrà ri­ durre queste analogie ad una mera coincidenza. Il divario nascerebbe dal fatto che la lingua o qualsiasi altro sistema semiotico è principalmente un sistema di con­ venzione e in questo rivela la sua essenza, mentre l'essenza dell'architettura non si rivelerebbe nella comunicazione. Un altro aspetto inconciliabile tra i due sistemi sarebbe dato dalla doppia articolazione. Questa consiste in una segmenta­ zione di unità dotate di un contenuto semantico e d'una espressione fonica, i monemi ( che non coincidono esattamente con le «parole» dell'accezione comune): tale espressione si articola, a sua volta, in unità distinte, i fonemi, che sono in numero determinato in ciascuna lingua. Secondo l'A. questa doppia articolazione non si verifica nell'architettura e tale carenza, a mio avviso facilmente con­ futabile, sarebbe la prova definitiva della mancata analogia tra architettura e lingua. All'obiezione che, sia pure diversa­ mente dalla lingua, all'architettura possa applicarsi un'ana­ lisi semiologica, Brandi risponde ·tautologicamente di no, perché, non comunicando, l'architettura non ha un'essenza semantica, non risponde cioè al quesito iniziale proposto dall'autore. :E:., a mio avviso, evidente la petizione di principio e la risposta ad un quesito, la cui legittimità ed utilità sono esse stesse da dimostrare. Da quanto precede sembrerebbe che, scartato per l'archi­ tettura il polo della semiosi, l'A. debba ora concentrare ogni sforzo nell'analisi strutturale dell'astanza; invece no, Brandi riconosce un'interferenza fra astanza e semiosi. Non ... al li­ vello creativo, ma a quello interpretativo; e in tal senso l'in­ terpretazione semantica dell'architettura ha avuto un'impor­ tanza enorme nel suo sviluppo. Ma come distinguere i due 7


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momenti, specie nella vicenda artistica contemporanea dove l'interferenza tra riflessione critica e attività creativa è forse la caratteristica più peculiare dell'esperienza moderna? E perché negare all'artista o al designer una possibilità rico­ nosciuta per il critico o l'interprete in nome di un'essenza asemantica, la cui dimostrazione è tutt'altro che esauriente? Sembrerebbe così che Brandi voglia da un lato affermare l'astanza come essenza dell'architettura, senza rinunziare, dall'altro, ai nuovi strumenti interpretativi che la semiologia offre all'odierna critica d'arte, ormai a corto di criteri. Coe­ renza a parte, questo desiderio sarebbe comprensibile se non intervenisse il seguente « chiarimento » sul modo d'in­ tendere l'interpretazione semantica dell'architettura. Ora che abbiamo posto in chiaro le apparenti analogie fra architet­ tura e linguaggio, possiamo riconoscere, nell'interpretazione semantica dell'architettura, un moto di semantizzazione del­ l'astanza. E cioè, non si tratta solo di messaggi secondari che possono essere ricavati da una architettura - se chiesa o fab­ brica, chiesa cattolica od ortodossa - ma proprio del fatto che ogni architettura tende a costituirsi in codice, e che per­ tanto l'architettura porta in sé il germe di una degenerazione semantica. Per rimanere nell'ambito della storia dell'arte occidentale, non c'è dubbio che non solo l'architettura greca, ma quella romana, quella bizantina, islamica, romanica e go­ tica, si declinano in codice: senonché bisogna sottolineare an­ cora una volta che è un codice sui generis, un codice senza messaggio. Ed è la condizione che l'architettura ha in comune con la musica. Sembrerebbe a questo punto che si urtasse in un'aporia, perché un codice senza messaggio contraddice al concetto stesso di codice. Non lo contraddice perché il co­ dice in cui si formalizza l'architettura non deve servire ad un messaggio ma a produrre un'astanza. L'aporia nonostante l'avvertenza rimane, ma non è la sola; ve ne sono altre e contraddizioni assai meno lievi. An­ zitutto quando l'A. afferma che ogni architettura porta in sé il germe (qualcosa cioè non molto diversa dall'essenza) di una « degenerazione » semantica e che le età architettoniche citate si declinano in codice, riconosce la presenza di que-


sto «vizio» come sostanziale. Pertanto giudicare l'architet­ tura come esperienza non comunicativa non riflette un crite­ rio fenomenologico o strutturale, bensì una preconcetta scelta «ideologica». Quando poi questo codice (forse sarebbe stato meglio chiamarlo lessico) non è inteso per quello che signi­ fica, ma come strumento «repressivo» della comunicazione, oltre all'aporia, c'è una petizione di principio e un sofisma: Brandi dà per dimostrato che l'architettura non produce mes­ saggi e che la sua essenza non è semantica, osserva tuttavia l'esistenza di un codice che codice non è, quindi, perché i conti tornino, esso non deve servire a decodificare una co­ municazione, ma a produrre un'astanza! Forse, una volta scelto il corno dell'astanza, l'A. avrebbe fatto meglio ad usare il termine paradigma al posto di codice, che denota altri significati. Infatti, come vedremo nel saggio di Eco e come io stesso ho notato altre volte, il codice è fuori dell'architettura. Esso dipende da una più vasta espe­ rienza culturale, da una ideologia che lo istituzionalizza al fine comunicativo, lo inventa o lo adatta per socializzarsi. L'ar­ chitettura contribuisce solo in parte a questo processo e, in­ tesa alla maniera di Brandi, produce semmai, come s'è detto, dei paradigmi. Ma, a parte queste considerazioni d'ordine teorico, il dis­ senso con la posizione di Brandi sulla semiologia architetto­ nica, trova altre motivazioni. Le possibilità di questa nuova disciplina non si esauri­ scono nell'arricchire l'indagine estetico-critica dell'architet­ tura e dell'arte fornendo nuovi parametri, così come avviene, poniamo, con la teoria della pura visibilità. La semiologia con la sua doppia natura, da un lato specialistica, in quanto indaga i vari sistemi nella linea del senso, e dall'altro plura­ listica, in quanto studia i segni in un più vasto contesto so­ ciale, fornisce degli strumenti d'indagine assai più duttili ed operativi di altre discipline, di cui si discute ancora addirit­ tura il fondamento. Ora, di fronte a fenomeni quali la conurbazione, la di­ struzione dei centri antichi, la quantificazione meccanica del­ l'edilizia contemporanea, che si diffonde con un messaggio 9


ridondante e insignificante al tempo stesso, mentre la critica architettonica ammette indifferentemente tutto, dall'accade­ mia all'utopia, anche a non volere essere « apocalittici », la distinzione fra astanza e semiosi è a dir poco anacronistica. Si può obiettare che Brandi distingue l'architettura come arte della tettonica intesa come mera « adeguazione pratica ad un bisogno». Va bene, ma poiché è quest'ultima che con­ forma il ·nostro ambiente e poiché la semiologia non è l'este­ tica, è proprio su quella che l'A. chiama tettonica che biso­ gna operare. Con ciò non voglio negare un'analisi semiologica dell'architettura in quanto arte, ma indicare il pericolo che le distinzioni suddette possano inficiare una assai più utile e urgente operazione semiologica dell'architettura nell'acce­ zione più vasta. In altri termini, ritengo che l'attualità della semiologia sia tutta nelle sue possibilità operative, che vanno da una rilettura semantica dell'antico fino alla riforma o alla contestazione del nuovo. È probabile che il mio punto di vi­ sta, nel connettere la semiologia ad una produzione architet­ tonica intesa come mass medium, nel tentativo di modificarne dall'interno proprio le carenze comunicative, sia troppo « in­ teressato»; sia una visione troppo attivistica deformata pro­ prio dalle contraddizioni dell'attuale dibattito architettonico e che quindi veda con sospetto di sofisma tutto quanto non rifletta le drammaticità di ciò che l'architettura odierna non significa o significa in una sola direzione alienante. Comun­ que, se ognuno può studiare nella direzione che crede, come è legittimo indagare sulla psicologia dei ricci di mare in amore, è altrettanto lecito, e forse più utile, cercare il modo migliore di mangiarli. Tutt'altro discorso va fatto per il libro di Eco. Esso co­ stituisce un'anticipazione di un altro studio che vedremo in libreria quando uscirà questo numero della nostra rivista e che ingloberà in un contesto filosofico più ampio l'attuale saggio Appunti per una semiologia delle comunicazioni visive. Ma quest'ultimo è già così significativo e stimolante da con­ sentire quella rassegna-dialogo e quel confronto di dati rag­ giunti, di cui parlavo all'inizio. I miei conti tornano perfettamente e anzi sono arricchiti dalla gran parte del libro di Eco; 10


tratterò quindi prevalentemente dei punti in cui essi diver­ gono e, ripeto, senza lo spirito della recensione, ma d'una aperta e problematica operazione di confronto. Il libro di Eco è anzitutto d'una ineccepibile. chiarezza didascalica, attributo che ritengo fondamentale per una di­ sciplina che avrà tanta più importanza quanto i suoi esiti, applicati soprattutto ai mass media, saranno attivamente con­ divisi dalla maggioranza. Esso si articola in tre parti: nozioni di semiologia generale, semiologia dei messaggi visivi, semio­ logia dell'architettura; mi occuperò solo di quest'ultima, te­ nendo ovviamente conto delle altre, indispensabili all'intelli­ genza del quadro d'insieme proposto dall'autore. Criticando la visuale semiotico-comportamentistica di ori­ gine morrisiana, adottata da Koenig - il primo, è doveroso ripeterlo, che in Italia ha associato all'architettura questi problemi - Eco scrive: Forme significanti; èodici elaborati sulla scorta di infe­ renze dagli usi e proposti come modelli strutturali di dati rapporti comunicativi; significati denotativi e connotati che si applicano ai significanti sulla base dei codici: ecco l'universo semiologico in cui può muoversi con rigore una lettura comu­ nicativa dell'architettura, da cui sono esclusi il riferimento a oggetti reali ( denotata o referenti che siano, e comportamenti fisici osservabili) e in cui i soli oggetti concreti con cui si lia a che fare sono gli oggetti architettonici in quanto forme si­ gnificanti. In questo ambito può muoversi la ricognizione delle possibilità comunicative dell'architettura. Sottoscriverei in pieno tale enunciato di partenza se in altri passi l'A. non ne specificasse meglio le definizioni e il senso. Infatti, all'inizio del . capitolo riguardante specifica­ mente la semiologia architettonica si rileva che è proprio in questo settore dove la semiologia incontra le maggiori diffi­ coltà. Perché l'architettura pone delle sfide alla semiologia? Perché gli oggetti dell'architettura apparentemente non co­ municano (o almeno non sono concepiti per comunicare) ma funzionano... Un primo problema che si pone dunque alla semiologia, quando vuole poter fornire chiavi esplicative di tutti i fenomeni culturali è anzitutto se si possono interpre- 11


tare le funzioni anche sotto l'aspetto comunicativo; in secondo luogo se il vedere le funzioni sotto l'aspetto comunicativo non permetta di comprenderle meglio proprio in quanto funzioni, e di scoprirne altri tipi di funzionalità, altrettanto essenziali che la pura considerazione funzionalista impediva di scor­ gere. Questa della funzione, come principale ed inglobante ca­ ratteristica dell'architettura, è una delle prospettive dove maggiore è il mio dissenso con Eco. È ben vero che egli di­ lata la nozione di funzione oltre i limiti tradizionali fino ad includervi le componenti comunicative e simboliche del se­ gno architettonico, tuttavia la significazione architettonica rimane subordinata e comunque sempre in un ambito funzio­ nale. In termini comunicativi il principio della forma che se­ gue la funzione significa che la forma dell'oggetto non· solo deve rendere possibile la funzione, ma deve denotarla in modo così chiaro da renderla desiderabile oltre che agevole, e da indirizzare ai movimenti più adatti onde espletarla. Come non dubitare che in questa visuale il comunicare non costi­ tuisca un arricchimento del funzionare? Altrove il funziona­ lismo è ancora più esplicito. La nostra impostazione semiolo­ gica riconosce così nel segno architettonico la presenza di un significante il cui significato è la funzione che esso rende pos­ sibile. Da questa prospettiva deriva che per denotazione archi­ tettonica Eco intende la funzione in senso stretto d'una fab­ brica o d'un oggetto di design e per connotazione una valenza simbolica, che egli chiama ancora « funzione » simbolica di quella fabbrica o di quell'oggetto. E non è un caso che egli chiami l'una funzione prima e. l'altra funzione seconda, an­ che se avverte che quest'ordine non implica un criterio as­ siologico. È vero che, sia parlando di denotazione sia di con­ notazione, Eco rimanda sempre ad un codice, ma, come ve­ dremo, questo è assai poco specificato, se non addirittura ne­ gato all'architettura come esperienza autonoma. Ora, a me pare che la nozione di funzione, con tutte le dilatazioni possibili, sia il maggiore impedimento per una 12 semiologia dell'architettura. Essa va data per scontata ed ap-


partiene ad un processo, sia pure parallelo ma completa­ mente distinto (o da distinguere utilmente per una politica della cultura) dal processo di significazione. La più squalifi­ cata produzione architettonico-urbanistica odierna risponde ad una funzione, anzi, come ho osservato altrove, riflette una funzione che ha addirittura fagocitato la forma, figuriamoci la comunicazione! O meglio, se comunicazione esiste nella cor­ rente produzione odierna, essa è rivolta a ripetere ossessiva­ mente un unico messaggio, cui non è dato rispondere, quello della massificazione, dell'economia di profitto, della strategia consumistica etc. Cosicché per il semiologo socialmente im­ pegnato parlare di funzioni significa autolimitarsi usando propro i termini dell'avversario. Ma, a parte queste conside­ razioni sociologiche, di cui il libro in esame è peraltro assai ricco, anche da un punto di vista teorico il problema della funzione è estraneo agli interessi della semiologia. Chiamando in causa il principio della pertinenza, che Eco trascura nel suo saggio, l'evidente componente funzionale dell'architettura subisce nell'analisi semiologica una sua limitazione. Come ha osservato Barthes, la pertinenza scelta dalla ricerca semio­ logica concerne per definizione la significazione degli oggetti analizzati: si interrogano certi oggetti unicamente sotto il rapporto del senso c_he essi detengono, senza chiamare in causa - almeno in via preliminare, cioè prima che il sistema sia riconosciuto nella misura più ampia possibile - le altre determinazioni ( psicologiche, sociologiche, fisiche) di tali og• getti. Queste determinanti, ciascuna delle quali appartiene ad un'altra pertinenza, non vanno certo negate, ma vanno trattate anch'esse· in termini semiologici: si deve cioè situare la loro funzione nel sistema del senso. ( Elementi di semiologia, p. 84 ). Pertanto, o la funzione va analizzata per quanto di comunicativo essa implica o va rimandata ad un'altra perti­ nenza. Nel primo caso la funzione dipende dal significato e non viceversa, nel secondo, accantonando la funzione, si ope­ rerà una di quelle scelte -determinanti il corpus dell'analisi semiologica. La nozione di corpus è anch'essa poco svolta nel saggio di Eco e ciò produce qualche insormontabile difficoltà, come vedremo più avanti. Intanto, seguendo la prospettiva 13


semiologico-funzionalista del libro, incontriamo un interes­ sante paragrafo che tratta della comunicazione architetto­ nica in rapporto alla storia.

Nel corso della storia, funzioni prime e seconde sono sog­ gette a perdite, ricuperi, sostituzioni di vario genere; perdite, ricuperi, sostituzioni che sono comuni alla vita delle forme in generale, e che costituiscono la norma nel corso della let­ tura delle opere d'arte propriamente dette, ma che diventano più evidenti ( e paradossali) nel campo delle forme architet­ toniche, là dove l'opinione comune ritiene che si abbia a che fare con oggetti funzionali portatori di indicazioni inequivo­ cabili, e quindi univocamente comunicativi... Una delle tipi­ che oscillazioni, nel tempo e. nello spazio, degli oggetti d'uso, consiste proprio in una serie di sfasamenti continui tra fun­ zione prima e della. funzione seconda. In base a questa osser­ vazione, Eco descrive una casistica esemplificativa della di­ namica che presiederebbe al mutare dei significati nel corso della storia. Nel caso del Partenone si sarebbe perduto col tempo il senso della funzione prima, quella cioè di decodifi­ carlo come edificio sacro, mentre sarebbero rimaste le fun. zioni seconde, ossia le connotazioni simboliche. della sensibi­ lità greca. Nel caso delle piramidi si sarebbe perduta la fun­ zione prima (tomba di re) unitamente, alle funzioni seconde (il simbolismo astrologico-geometrico) e quest'ultime sareb­ bero state sostituite da altre connotazioni (dai fatidici « qua­ ranta secoli» di Napoleone e una somma di connotazioni let­ terarie più o meno autorizzate). C'è ancora il caso dell'oggetto -d'una cultura primitiva e folkloristica prelevato dall'origina­ rio contesto ed inserito nell'arredamento sofisticato etc. E indubbio l'interesse per questa meccanica delle oscil­ lazioni del gusto, come pure per la fenomenologia dei revivals stilistici, che Eco in un altro paragrafo spiega in termini se­ miologici, tuttavia gli esempi citati non risultano molto con­ vincenti. Quali che siano i significati di tali opere, denotativi, connotativi o mutati nel senso, chi non avverte che il Parte­ none e le piramidi non comunicano innanzitutto qualcosa che sta nell'ambito sacrale? Analogamente, quando in un altro 14 .passo Eco osserva che le chiese neogotiche di New York con-


servano per i fedeli lo stesso slancio verticale, simbolo di ele­ vazione mistica, nonostante la ben più incisiva verticalità dei grattacieli contigui, e non vede in questa convenzionale deco­ dificazione del gotico nessun misterioso valore « espressivo •>, spiega in termini meccanici questi complessi processi di si­ gnificazione e di fatto - li demitizza. È forse possibile (ma non lo credo) una semiologia senza miti e che riservi all'im­ maginario uno spazio assai limitato, ma è inevitabile in essa scambiare i significati primari con quelli secondari e il rischio di rimanere comunque nella sfera del funzionale, questa volta in senso stretto. Tutti i precedenti rilievi, o miei fraintendimenti - non ho alcuna difficoltà a riconoscerli come tali - della posizione di Eco sembrano trovare un esito positivo nell'insistenza che egli fa sulla nozione di codice. Anzi Eco mi sembra uno degli autori più legati a questo concetto che ritengo la chiave dell'intero discorso semiologico. Nella prima parte del libro, Nozioni di semiologia generale, egli scrive: Un codice è una

struttura, elaborata sotto forma di modello, che viene postu­ lata. come regola soggiacente a una serie di messaggi concreti e individuali che si adeguano e che risultano comunicativi solo in riferimento ad esso. Ogni codice può essere parago­ nato ad altri codici mediante l'elaborazione di un codice co­ mune, più scheletrico e comprensivo. Un altro merito del libro è l'esplicita connessione della nozione di codice con quella di ideologia. Dovremmo ipotiz­ tare una entità che sta al di qua dell'universo semiologico. Questa entità sarà nominata « ideologia ». Il termine « ideologia » si presta a numerose decodifica­ zioni. C'è una ideologia come falsa coscienza, che maschera i rapporti reali tra le cose; c'è una ideologia come presa di posizione filosofica, politica, estetica eccetera nei confronti della realtà. Noi intendiamo conferire al termine ideologia, in coppia con retorica; una accezione molto più vasta; -intendiamo per ideologia l'universo del sapere del destinatario e del gruppo a cui appartiene, i suoi sistemi di attese psicologiche, i suoi atteggiamenti mf#ntali, la sua esperienza acquisita, i suoi principi morali ( diremmo la sua « cultura », nel senso antro- 15


pologico del termine, se della cultura così intesa non faces­ sero parte anche i sistemi retorici). Quello che un individuo pensa e vuole sfugge all'analisi semiologica: possiamo identificarlo solo quando l'individuo lo comunica. Ma egli può comunicarlo solo quando lo ri­ duce a sistema di convenzioni comunicative, solo quando cioè quello che egli pensa e vuole viene socializzato, reso parteci­ pabile dagli altri suoi simili. Ma per ottenere questo, il sistema di sapere diventa si­ stema di segni: l'ideologia è riconoscibile quando, socializ­ zandosi, diventa codice ... La semiologia ci mostra nell'universo dei segni, sistemato in codici e lessici, l'universo delle ideologie, che si ri-flettono nei modi precostituiti del linguaggio. Questa impostazione generale trova però alcune difficoltà nella sua applicazione all'architettura. Qui, dopo aver de­ scritto dei codici sintattici, che sarebbero quelli propria­ mente tettonici, e dei codici semantici denotanti delle fun­ zioni, Eco osserva che questi non sono dei veri e propri co­ dici, ma piuttosto dei lessici. Ed afferma: (l'architetto) ha un vocabolario, forse una logica, ma gli rimangono una gram­ matica e una sintassi da inventare. E tutto pare dimostrare che non sarà mai l'architettura da sola a fornirgli quelle re­ gole che cerca. Non rimane dunque che una risposta: l'architettura parte forse da codici architettonici esistenti, ma in realtà si appog­ gia su altri codici che non sono quelli dell'architettura, e in riferimento ai quali gli utenti dell'architettura individuano le direzioni comunicative del messaggio architettonico. Ma per­ ché l'autore giunge a questa conclusione che impoverisce l'autonomia comunicativa dell'architettura? Anzitutto dal con­ fronto di quest'ultima con la lingua. Nell'ambito del linguag­ gio verbale i significanti appartengono all'area del linguaggio e i referenti possono appartenere all'area della natura fisica, che sta al di fuori del linguaggio. Ma la lingua non si occupa, lo abbiamo visto, del rapporto tra significati e referenti, bensì del rapporto tra significanti e significati; e anche i significati 16 appartengono all'area della lingua; sono un fatto di cultura


che viene istituito dalla lingua stessa col sistema dei codici e dei lessici. E la lingua che mette in forma la realtà. Invece l'architetto deve articolare significanti architetto­ nici per denotare funzioni; le funzioni sono i significati di quei significanti, ma il sistema delle funzioni non appartiene al linguaggio architettonico, bensì ne sta fuori. Coerentemente quindi, identificando i significati con le funzioni, Eco ritiene che il codice ad esse relativo sia fuori dell'architettura. Vice­ versa, dal mio punto di vista, come ho già detto, è proprio questa identificazione che va evitata, così come, fin dove è possibile, va espulsa la componente funzionalistica dalla per­ tinenza semiologica. Inoltre, se è vero che la lingua mette in forma la realtà, prescindendo dai referenti, ciò varrebbe solo per la lingua e sarebbe negata l'analisi .semiologica di qualunque altro sistema. Al contrario, ritengo che anche l'architettura sia in grado di mettere in forma la realtà e ricordo a tal proposito l'analogia già indicata altrove fra la doppia dicotomia significante-significato e spazio esterno-in­ terno. Quanto al problema se il codice dell'architettura debba considerarsi interno o esterno ad essa, Eco, come s'è visto, opta per la seconda alternativa e rimanda per la sua istitu­ zione al lavoro interdisciplinare, all'attività degli specialisti degli altri settori che collaboran!l all'architettura; sono an­ ch'io del parere che il codice, in quanto tale, sia fuori della architettura, ma, se pur condizionato da tutti gli interessi, le attese, i desideri che si associano a quest'ultima, esso è comunque istituzionalizzato nella sua pertinenza, da un'at­ tività critica, metalinguistica, filologica che traduce sub spe­ cie architectonica quegli interessi, attese e desideri. In altre parole, se il codice è esterno all'architettura, è certamente interno alla cultura architettonica. Un esempio di codice ar­ chitettonico è, a mio avviso, la trattatistica. (Cfr. Il codice dell'architettura, antologia di trattatisti. E.S.I. Napoli 1968). L'idea del codice esterno all'architettura è sostenuta nel libro di Eco dal de�iderio di fondere gli assunti principali della semiologia alla sua teoria dell'opera aperta. E questa fusione è svolta fino al punto da fornire delle indicazioni operative. Infatti, dopo aver descritto la meccanica dei mu-

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tamenti di significati nel corso della storia, egli osserva : nel momento in cui i costruttori di oggetti d'uso sanno che il loro articolare significanti non potrà determinare il flusso dei significati, perché la storia potrà tradirli; nel momento in cui i disegnatori di forme conoscono i cicli di dissociazione tra significante e significato, e i- meccanismi della sostituzione dei significati, il loro problema diventa quello di progettare funzioni prime variabili e funzioni seconde « aperte » La pro­ posta dell'« apertura» viene ribadita nel paragrafo conclu­ sivo del libro: Nel momento stesso in cui ricerca, al di fuori dell'architettura, il codice dell'architettura, l'architetto deve anche saper configurare le sue forme significanti in modo che possano far fronte ad altri codici di lettura. Perché la situazione stoTica su cui egli si appoggia per individuare il codice è più transeunte delle forme significanti che egli ispi­ ra a quel codice. Dunque l'architetto deve ricevere orienta­ menti dal sociologo, dal fisiologo, dal politico, dall'antropo­ logo, ma deve prevedere, nel disporre forme che rispondano alle loro esigenze, anche il fallimento delle loro ipotesi e la scala di errore nella loro indagine. E deve sapere comunque che il suo compito è di anticipare e accogliere, non di pro­ muovere, i movimenti della storia. Francamente mi pare che, « progettando funzioni prime variabili e funzioni seconde aperte », nonché operando nel éontesto interdisciplinare secondo le indicazioni dell'ultimo brano, l'architetto sia da un lato troppo disponibile e dall'al­ tro chiamato ad un compito superiore alle sue forze e quindi velleitario. Questa della interdisciplinarietà è una questione interamente da rivedere. Non possiamo farlo in questa sede, dove voglio solo osservare che, in un certo senso, essa co­ stituisce il punto d'arrivo di molti fallimenti del Movimento Moderno, il limbo del razionalismo architettonico in cui la unione di più forze (specializzate) si risolve assai spesso in debolezza. In conclusione il punto critico del saggio di Eco mi pare quello in cui egli tenta di tenere insieme aspetti e fenomeni per loro natura inconciliabili: le tendenze in atto e l'esigenza ·1s di non subirle, gli esiti del Movimento Moderno e il funziona-


lismo, la necessità d'un codice e l'opera aperta. Si comprende così perché Eco, impegnato a risolvere queste contraddizioni, sottovaluti le nozioni di pertinenza e di corpus, mentre solo grazie a quest'ultime è possibile parlare d'un codice del­ l'architettura. Allo stato attuale del dibattito architettonico, la semiolo­ gia interessa il nostro settore come tentativo a) di ristabilire una comunicazione attraverso le forme architettoniche che, assorbite totalmente dalla funzione, hanno perduto ogni al� tro significato; b) di limitare il campo di pertinenza archi­ tettonica ad un corpus che, inclusivo di ogni intenzione socio­ logica dall'accettazione alla contestazione, riesca però a con­ figurare un ambito entro il quale l'architetto possa agire con­ sapevolmente; c) di istituire una teoria dell'architettura, sen­ za la quale non possiamo farne la storia, seguirne le vicende insegnarla e prevederne gli sviluppi. Giustamente Eco avverte che non si dà codice fuori da una ideologia, ma quale che sia il senso del termine, esso im­ plica automaticamente il problema d'una scelta che molti fenomeni della cultura contemporanea come l'opera aperta, il piano aperto, l'informale, la polisemia, l'ambiguità etc. pos­ sono solo rimandare. Con la crisi ideologica in atto possia­ mo riconoscere solo per il passato il legame fra ideologia e codice e considerarlo come modello per il discorso sulle scel­ te attuali, che per quanto aperto va prima o poi definito. E poiché scelta equivale ad esclusione, la semiologia, forse pro­ prio per ciò che ha di limitativo, o meglio per ciò che riesce chiaramente ad istituzionalizzare, può fornire oggi degli utili strumenti di analisi e di orientamento. La vitalità della semiologia va verificata in una politica della cultura. RENATO DE FUSCO

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L'€terogeneità dell'oggetto estetico e i problemi della critica d'arte,:EMILIO GARRONI

1. Ci proponiamo di trattare schematicamente, in questa relazione, un problema di metodo della critica letteraria e, soprattutto, artistica sulla base della supposizione ( qui giu­ stificata solo ,in forma genericissima) che l'oggetto estetico (nel senso in cui tale nozione vive p. es. in Mukarovsky, L'art comme fait sémiologique, in « Actes du 8° congrès int. de phi­ los. », Prague 1936) sia un oggetto semiotico tipicamente ete­

rogeneo. Con tale diz,ione si intende: 1) che l'oggetto estetico è un oggetto semiotico (cioè, è analizzabile nei suoi elementi co­ stitutivi in relazione a uno o più modelli sistematici, e non si presenta come qualcosa di globale, unitario e inanalizza­ bile); 2) che esso è tipicamente eterogeneo (cioè, è corretta­ mente analizzabile, in quanto estetico e non genericamente se­ miotico, solo in rapporto ad una molteplicità di modelli omo­ genei e, tra loro, eterogenei). Ciò non significa che l'eterogeneità sia una condizione sufficiente. della sua esteticità. Lasciando tale questione in so-

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* Relazione presentata al Convegno dei linguisti e teorici della letteratura cechi e italiani, svoltosi a Roma il 6 e 7 aprile a cura dell'Istituto Gramsci. Lo stesso testo sarà pubblicato in appendice al voi. Semiotica ed estetica. L'eterogeneità del linguaggio e il linguaggio cinematografico, che qui anticipiamo per gentile concessione dell'editore Laterza.


speso, basterà qui supporre, ai nostri fini, che la condizione della eterogeneità sia soltanto necessaria. Ciò è vero per-due ragioni. La prima, è la più forte, è che ogni oggetto semiotico, in quanto realizzato (in quanto messaggio), è necessariamente eterogeneo: per cui si deve affermare, almeno sotto questo profilo, che nessun messaggio o processo semiotico è per se stesso estetico, la sua esteticità rivelandosi soltanto nell'ob­ bligo assunto dall'analista di tener conto della sua eteroge­ neità in sede di analisi. La distinzione quindi non risiede nel­ l'oggetto stesso, che per sé è suscettibile di letture diverse (così p. es. un'opera poetka può essere letta, sotto opportune condizioni e interessi analitici, come un testo scientifico, o essere sottoposta ad un'analisi strettamente linguistica), ma nell'intenzionalità che l'ha posto in essere o in funzione dellà quale conveniamo (per ragioni storicamente e culturalmente fondate, o anche arbitrariamente - basta che se ne dia una opportuna convenienza analitica) di considerarlo, e che im­ pone un tipo di lettura e d'analisi pertinente (nel nostro caso, nella sua eterogeneità e non nella sua omogeneità, vale a dire nella sua riferibilità a un modello possibile). La seconda ragione consiste in ciò: che, anche ammessa tale distinzione (tra oggetto genericamente semiotico e oggetto semiotico in­ tenzionalmente eterogeneo), non siamo comunque autorizzati a concludere che nella classe degli oggetti intenzionalmente eterogenei rientrino soltanto gli oggetti estetici. Questa se­ conda ragione è tuttavia meno importante, poiché pone sem­ mai alcuni non marginali problemi solo quando scendiamo dal livello teorico al livello storiografico e dobbiamo fare i conti con quell'insieme (indeterminatissimo e problematico) di oggetti che chiamiamo, in funzione di storiche motivazioni di gusto, estetici. Ora è evidente che queste difficoltà non hanno alcuna probabilità di essere risolte al di fuori della cultura in atto, dove peraltro potrebbero anche essere accan­ tonate come non pertinenti o non avvertite come tali. In ogni modo, per tali ragioni, non si dice che l'oggetto estetico è eterogeneo, ma soltanto che esso è tipicamente eterogeneo. Ora, il problema di metodo, proprio della critica letteraria e artistica e a cui prima si accennava, può essere formu- 21


lato nel modo seguente: poiché ogni tipo di analisi è un tipo opportuno di riformulazione del messaggio o dei messaggi dati, in che modo l'analisi propria della critica letteraria e ar­ tistica può essere una riformulazione fedele rispetto all'etero­ geneità dell'oggetto estetico (eterogeneo) dato?

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2. Il punto di partenza, al fine di chiarire le nozioni qui introdotte di eterogeneità ed omogeneità, è ovviamente nella concezione saussuriana e hjelmsleviana del linguaggio come eteroclito ed eterogeneo, cioè come qualcosa di materiale (in quanto inanalizzato) e di cui l'indagine linguistica in senso stretto può isolare un saliente aspetto omogeneo (il suo ca­ rattere propriamente linguistico) soltanto a patto di riferire il linguaggio stesso ad un modello particolarmente utile da un certo punto di vista (la « langue» come forma). Perché il modello « langue » e non , per esempio, un modello metrico­ ritmico, intonazionale, e così via? Qual'è questo punto di vi­ sta? È difficile fissare terminologicamente il tipo di funzione specifica che viene posta come centrale allorché si sottopone ad indagine linguistica il fenomeno eterogeneo del linguaggio. In genere, come è noto, ci si è riferiti alla sua funzione « co­ municativa » (periodo « classico» della scuola di Praga, Mar­ tinet, Prieto ecc.). Per altro verso, è però apparso chiaro, anche e proprio in rapporto alla teoria delle funzioni lingui­ stiche, che ogni messaggio, quale che sia la sua funzione do­ minante, è comunicativo (così, l'ultimo Jakobson, nel noto Linguistics and Poetics, sostituisce al termine di « funzione comunicativa» quello di « funzione referenziale »; attribuendo ad ogni funzione un ruolo comunicativo; così, ancora, da noi, il della Volpe ha giustamente insistito sul carattere di comu­ nicazione anche del cosiddetto « discorso poetico »). Sebbene il termine appartenga alla tradizione filosofica ed epistemologica e non a quella linguistico-semiotica, rite­ niamo che sia utile adottare - almeno provvisoriamente la dizione di « funzione conoscitiva •• nel senso di capacità del linguaggio di stabilire elementi semiotici distintivi e individuanti e regole d'uso, un traliccio di distinzioni tale da assi-


curare ( in forma arbitraria, ma sistematica, e quindi in ogni caso efficace e oggettivante) il possesso e il controllo cono­ scitivo della realtà (nel senso più ampio, e perciò non soltanto naturale e culturale, ma anche linguistico: poiché proprio at­ traverso il linguaggio, nella sua funzione conoscitiva, noi siamo e diveniamo consapevoli anche della nostra realtà stret­ tamente linguistica). Così (per riprendere una terminologia largamente in uso), se è vero che, per esempio, un messaggio caratterizzato in modo dominante dalla funzione « emotiva » o « conativa» rientra nell'ambito della comunicazione (il mit­ tente comunica uno stato d'animo o un comando, magari soltanto a se stesso), noi possiamo dire di conoscere propria­ mente ciò che ci viene comunicato a patto di poter trasfor­ mare il messaggio in forma diversa (la si dica, pqi, referen­ ziale, denotativa, o appunto conoscitiva). 3. La riduzione dell'indagine strettamente linguistica nel­ l'ambito della sola riferibilità del linguaggio ad un modello omogeneo, in funzione della capacità del linguaggio stesso di funzionare come strumento di conoscenza, non è propria­ mente in contraddizione con il famoso motto jakobsoniano: « linguistici nihil a me alienum puto » - anche se tale motto richiede qualche ulteriore precisazione. Taluni modelli non strettamente linguistici - come nel caso delle cosiddette « se­ miotiche connotative» (nel senso di Hjelmslev), e quindi an­ che della poesia e della letteratura - sono forse irrealizzabili indipendentemente dal modello linguistico: così, forse, nel caso del verso, della rima, e di altri procedimenti stilistici strettamente letterari. Diciamo: « forse», perché desideriamo lasciare da parte, in questa sede, il grave problema se gli ulteriori modelli (rispetto al modello linguistico) siano analiz­ zabili indipendentemente e realizzabili anche in unione con altri modelli non linguistici (potrebbe essere il caso, forse, del modello metrico-ritmico, in rapporto alla poesia, le arti figurative, la musica). La distinzione che occorre fare, per chiarire quella no­ zione di linguisticità (in « senso stretto» o in « senso am­ pio»), è tra ciò che è« linguistico» (che continueremo a con- -23


siderare, per semplicità di esposizione, come omogeneo) e ciò che è « semiotico ». Ora, proprio dal punto di vista di una più generale sernioticità, deve essere correttamente inteso, a nostro avviso, quel motto: punto di vista introdotto e accet­ tato dallo Jakobson, ma non mai - ci sembra - chiarito nelle sue implicazioni estreme. Le ragioni di tale limite pos­ sono essere chiarite in questo senso: Jakobson, giustamente, rifiuta di condurre un'idagine sul linguaggio (verbale) soltanto in rapporto ad un solo modello e si sforza di analizzarlo in­ vece in rapporto ad una molteplicità di modelli. Tali modelli si pongono tutti (ovviamente) come linguistici, e ad essi si affiancano semplicemente ulteriori sistemi semiotici derivanti da esperienze semiotiche diverse: cosicché ogni campo se- · miotico si pone in qualche modo come concluso in sé, nella sua specifica eterogeneità, e non ci si pone mai la domanda se tali campi semiotici siano per caso riferibili ad opportuni modelli omogenei comuni, così da isolare il modello lin­ guistico in senso stretto dagli ulteriori e diversi modelli se­ miotici. Tuttavia, sia pure al livello dell'eterogeneo non com­ piutamente analizzato, è chiarissima l'esigenza di riferire il linguaggio a modelli eterogenei (secondo il punto di vista da adottare di volta in volta) e di stabilire un ponte tra fenomeni linguistici e fenomeni semiotici: ne fa fede, fin dai tempi della prima scuola di Praga, la teoria delle funzioni ·linguistiche, sviluppata ulteriormente proprio nel senso di una più accentuata eterogeneità (invarianti fonemiche e inva­ rianti emotive), il problema della traduzione (interlinguistica. e intersemiotica), la generalizzazione dei procedimenti me­ tonimici e metaforici dal linguaggio verbale ad ogni tipo di processo semiotico.

Che, in ogni caso, sia da rivedere la descrizione dell'ete­ rogeneità intrinseca del linguaggio verbale, è dimostrato dal fatto che talune delle funzioni descritte sono chiaramente ete­ rogenee tra loro (e alcune di queste non necessariamente lin­ guistiche, come p. es. la « funzione emotiva» o la « funzione fatica», entrambe realizzabili indipendentemente dal modello linguistico, gestualmente o figurativamente o i� altro modo),

24 mentre altre sembrano essere omogenee tra loro rispetto allo


stesso modello-« langue»: è il caso della « funzione referen­ ziale » e della « funzione metalinguistica », per le quali sono del tutto identkhe le determinazioni di varianti e invarianti. 4. Se il linguaggio è alcunché di eterogeneo e di inanaliz­ zato, e i suoi modelli analitici e omogenei esistono soltanto come astrazioni, non è possibile concepire un oggetto semio­ tico che non possa essere, a sua volta, un oggetto eterogeneo, perché altrimenti bisognerebbe supporre che la realizzazione di un modello quale che sia possa risultare semplicemente dall'unione di una selezione da un modello astratto più il supporto di qualcosa di materiale e inanalizzabile. Ma il qual­ cosa di materiale è pure, sicuramente, qualcosa di organiz­ zato (nel senso ovvio per esempio dell'associazione di un fo­ nema e di un suono), e cioè di analizzabile, anche se non da un punto di vista strettamente linguistico; né è sempre indif­ ferente, da questo punto di vista, che il qualcosa di materiale sia un suono, un segno grafico e così via. Secondo che il se­ gno linguistico sia realizzato in questa o quella sostanza, può variare anche la ricezione del messaggio, la sua lettura e in­ terpretazione, anche soltanto in modo minimo. Può variare, ma non deve variare. In che senso, pur essendo il messaggio eterogeneo, alcuni aspetti di esso possono avere o non avere rilevanza? Ciò di­ pende, si diceva, dalla intenzionalità del mittente e/o del ri­ cevente, dalle oggettive condizioni della comunicazione, nonché dalla istituzionalizzazione di tale intenzionalità e di tali condizioni. Che il messaggio sia eterogeneo (come alcunché di inanalizzato), e che quindi lo sia anche l'oggetto semiotico analizzato (cioè, se viene analizzato in tutti i suoi aspetti ete­ rogenei), non significa che un tale oggetto semiotico sia sotto tutti i punti di vista pertinente rispetto al messaggio nella sua funzione comunicativa e culturale specifica. È possibile, senza dubbio, sottoporre un testo scientifico ad un esame anche da un punto di vista metrico, retorico, emotivo, e così via, ma analisi del genere non sarebbero pertinenti rispetto alle in­ tenzioni, alle condizioni oggettive, alle regole istituzionali in rapporto alle quali esso si è realizzato e funziona effettiva-

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mente. Un oggetto semiotico completamente analizzato ri­ spetto al messaggio costituito dal testo scientifico, si pone dunque come un risultato eccedente, ridondante, in cui ciò che è pertinente si mischia a ciò che è superfluo o almeno marginale. La supposizione da fare, in casi come questo e altri ana­ loghi, è che sia intervenuta un'operazione di «messa in pa­ rentesi », per cui ciò che pure è effettivamente presente nel messaggio non viene considerato al livello dell'oggetto se­ miotico. Al limite estremo, quando abbiamo a che fare con messaggi altamente formalizzati, possiamo dire che pertinente è un solo modello con esclusione di tutti gli altri. Ma può darsi il caso, anche, che più di un modello debba essere ri­ tenuto pertinente, o che addirittura debbano essere ritenuti pertinenti tutti i modelli interessati. In questo caso, adeguato al messaggio è un oggetto semiotico eterogeneo, o tipicamente eterogeneo, quale è anche - secondo la definizione già data l'oggetto estetico. E crediamo, in questa sede, di poter fer­ marci a questa giustificazione genericissima (di tipo assioma­ tico), senza ricorrere a giustificazioni più minute e che ri­ chiederebbero un discorso tecnico assolutamente sproporzio­ nato. Si intende, comunque, facilmente che in questa nostra definizione è contenuto e ridefinito ciò che vien detto, in te­ sti di disparatissima estrazione, « organicità», « unità», «asei­ ta•, « globalità•, « totalità», «concretezza », «individualità », « irrepetibHità •, « ineffabilità», «polivalenza», «pregnanza a, «ambiguità»,«contestualità» (eccetera, eccetera) dell'«opera d'arte•· 5. Come può essere riformulato (spiegato, criticato, ap­ profondito, semplificato e così via) un testo scientifico, senza che questo sia tradito nella sua funzione comunicativa speci­ fica, di tipo conoscitivo? Può cambiare la sostanza (il testo può essere riformulato a voce, fornito fino a un certo punto di diagrammi, schemi, figure esplicative), possono cambiare anche i termini adoperati e l'organizzazione concettuale del discorso: ciò che conta, dal punto di vista linguistico, è che le classi di equivalenza (gli invarianti del contenuto) previste 26


dal testo originario non mutino oppure siano trasformate se­ condo un rigoroso rapporto di omologia (per esempio pos­ sono sparire alcune distinzioni o apparire altre distinzioni, se si rispetta sistematicamente la riunione in una di più classi di equivalenza o la divisione in più classi di una classe origi­ naria). Ciò che conta, in altre parole, è che sia rispettata, nel

passaggio da testo a testo, da formulazione a riformulazione, la pertinenza del riferimento linguistico di partenza. Ma anche la critica letteraria e artistica, si è detto, è ri­ formulazione, e non può non esserlo se è discorso su un'opera lettararia o artistica. Ora, se l'eterogeneità dell'oggetto este­ tico è pertinente, in che modo una riformulazione del genere può essere corretta? Non si lascerà sfuggire almeno alcuni di quegli aspetti che pure sono costitutivi dell' opera in esame? In altre parole: la riformulazione, nel caso p. es. del di­ scorso scientifico o comunque referenziale, sta a questo nel rapporto linguaggio-metalinguaggio, dove il metalinguaggio conserva tutti gli aspetti pertinenti del linguaggio-oggetto. In che senso la critica letteraria e artistica può essere conside­ rata un metalinguaggio rispetto al linguaggio delle opere let­ terarie e artistiche, di cui ovviamente non può considerare wtti (o almeno alcuni, tra quelli presuntivamente salienti) gli aspetti pertinenti, non diciamo contemporaneamente (ché essa tornerebbe ad essere, semplicemente, quelle medesime opere letterarie e artistiche), ma almeno partitamente, in ri­ formulazioni successive e correlate tra loro? Perché ciò sia possibile, è necessario ovviamente che si dia una qualche omogeneità tra il discorso critico e il messaggio letterario e artistico su cui esso si esercita. 6. Nel caso dell'opera letteraria, una qualche omogeneità sarà possibile individuare e rispettare proprio nel comune ri­ ferimento al modello linguistico: abbiamo così una riformula­ zione ( critica) per omogeneità. Tuttavia, essa non potrà mai essere compiutamente tale; e quindi certamente non si può escludere in alcun modo che nel passaggio dal messaggio ana­ lizzabile al discorso analitico « si perda qualcosa » : non sol- 27


tanto ovviamente l'individualità del messaggio (meglio: il suo essere organizzato proprio così e così, la sua identità imme­ diata), ma anche qualcosa che è peculiare della sua struttura e pure è in qualche modo analizzabile. Anzi, sicuramente si perde qualcosa: per esempio, nell'analisi di una poesia, la sua struttura fonica, metrico-ritmica, e così via; poiché, se anche è possibile di fatto una critica letteraria in versi e rime, tale sua caratterizzazione risulterà sicuramente estrinseca (non esplicitante, priva di capacità conoscitiva) rispetto alla fun­ zione propria della critica. Eppure, anche ciò che si perde (a meno di non sposare una metodologia idealistica, per cui l'inanalizzato è senz'altro l'ineffabile) deve essere di stretta competenza della critica, cui spetta non solo di esplicitare, mediante una riformulazione per omogeneità, la discorsività implicito. dell'opera di poesia, ma anche di determinare il modello o i modelli non linguistici cui essa è riferibile in modo determinato. Quest'ultima osservazione è talmente evidente da appa­ rire sicuramente banale; ma si tratta, crediamo, di un'evi­ denza destinata ad essere fugata non appena si rifletta più attentamente sul problema della stessa possibilità di una cri­ tica letteraria (possibilità che risiede nelle condizioni di omo­ geneità presupposte da opera poetica e discorso critico). Il che risulterà di un'evidenza assoluta, ma di segno contrario rispetto all'evidenza già segnalata, nel caso (in tal senso piìt tipico) delle arti non verbali (cioè non riferibili ad un mo­ dello linguistico, o riferibili ad esso soltanto in forma indi­ retta ed implicita).Come è possibile, infatti, che un discorso critico (in modo saliente linguistico) riformuli o espliciti le strutture implicite di un'opera o di un messaggio non ver­ bale, tale da supporre comunque un modello principale di riferimento di tipo non linguistico? Come può sussistere un rapporto corretto, del tipo linguaggio-metalinguaggio, poten­ zialità-realizzazione, se i livelli in gioco non sono omogenei e non consentono, almeno a prima vista, una integrazione a li­ velli via via più elevati? In che modo un modello potenziale figurativo (poiché nella forma della potenzialità, in quanto 28 modello, esso si pone nell'opera d'arte figurativa non analiz-


zata) può essere realizzato ad un livello ulteriore da una ma­ nifestazione verbale? Ecco un problema che angustia da tempo, in sede meto­ dologica e pratica, la critica delle arti non verbali; su cui lo stesso della Volpe, interessato a sfuggire alle insidie delle no­ zioni passe-partout di intuizione, immagine, contemplazione, ha volto in modo sempre più accentuato la propria atten­ zione, fino a distinguere nettamente il rapporto poesia-critica (e anche musica-critica, in quanto la musica possiederebbe un sistema quasi-linguistico, suscettibile di una dialettica di livelli analoga a quella poetico-letteraria) e il rapporto cine­ ma-critica o pittura-critica (dove un sistema del genere man­ cherebbe del tutto) (v. in part. È possibile una critica cine­ matografica?, relazione alla Tavola Rotonda sul tema Linguag­ gio e ideologia nel filn:z, III mostra int. del nuovo cinema, 1967, di pross. pubbl.). Se, nel caso della poesia, la sua discorsività implicita può essere esplicitata mediante la cosiddetta «para­ frasi critica », che discorsivizza la poesia mettendone in luce la specifica contestualità «organica» (sempre nella termino­ logia dellavolpiana) attraverso lo «scarto» che essa segnala: una discorsività che non è immediatamente quella della poe­ sia stessa, ma che pure è contenuta potenzialmente nella poe­ sia; ciò non accade propriamente in nessuno degli altri casi (neppure, a nostro avviso, nel caso della musica), per i quali ogni tentativo di parafrasi critica risulterebbe goffo e travi­ sante, come se - in altre parole - la potenzialità figurativa non fosse un analogo specifico della «langue», cioè specifica­ mente un modello figurativo, eterogeneo rispetto al modello linguistico, ma addirittura la «langue » stessa o un suo stato allotropico, in senso strettamente linguistico-verbale. Ma infine, anche se in forma meno appariscente, le stesse difficoltà si pongono - uscendo dai limiti del discorso della­ volpiano - anche per la critica letteraria, almeno nella mi­ sura in cui nel suo oggetto siano implicati modelli non lingui­ stici, esigenti una adeguata esplicitazione analitica. Ebbene, rispetto al suo oggetto, la critica letteraria è omogenea sol­ tanto dal punto di vista strettamente linguistico. Cosicché la prima evidenza già segnalata, invece di semplificare i pro- 29


blemi, individua anche nell'ambito letterario una difficoltà analoga a quella che è propria della critica delle arti non ver­ bali. In breve, si può dire che se l'oggetto estetico eterogeneo

ha una struttura a dominante, la critica si esercita corretta­ mente e senza particolari difficoltà nella misura in cui an­ ch'essa ha una struttura con la medesima dominante (il che accade soltanto nel caso delle opere letterarie, e soltanto quando esse presentano come dominante la loro riferibilità ad un modello linguistico: il che, come è noto, non è sempre vero, quale che sia il nostro giudizio valutativo su tali opere), ma non riesce in ogni caso a cogliere - a patto di non intro­ durre ipotesi opportune - l'oggetto estetico nella sua com­ pleta eterogeneità. Questa implicita classificazione di oggetti estetici non riposa, sia detto a scanso di equivoci, sull'accettazione passiva di una classificazione tradizionale, ma può essere verificata mediante il ricorso al principio di sostituzione-commutazione, chiaramente inapplicabile nel caso delle cosiddette arti non verbali, e applicabile solo in parte nel caso della letteratura. Così, la riformulazione di un insieme di versi, per la identità­ differenza che si istituisce tra riformulazione e formulazione originaria, ci dà nello stesso tempo il suo senso puramente discorsivo (identità) e la sua specifica organizzazione seman­ tica contestuale (differenza); ma non ci restituisce, se non in forma puramente negativa, per esempio, la sua organizzazione metrico-ritmica: il suo essere strutturato in endecasillabi, il modello o H sottomodello di endecasillabo impiegato, oppure il tipo di rima adottata, ecc. Nel caso classico dell'enjambe­ ment, una riformulazione potrà indicare, per via interna, cioè con procedimento strettamente linguistico-discorsivo, tale fe­ nomeno, semplicemente producendo la sua scomparsa: vale. a dire, sarà l'assenza - e non anche la presenza - dell'en­ jambement a segnalare la sua presenza a livello di testo non analizzato.

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7. Perché sia possibile, in particolare, un discorso critico intorno alle arti non verbali, è necessario introdurre una


ulteriore ipotesi, sulla universale trasformabilità dei modelli semiotici generici rispetto al modello linguistico, ed assegnare a quest'ultimo una sorta di primato nel senso che è l'unico modello che assicura la rilevazione ( conoscitiva) degli ele­ menti semiotici riferibili a modelli qualsiasi. Cosicché l'omo­ geneità indispensabile sarebbe recuperata ad un livello ulte­ riore, o più «profondo», rispetto a quello della pur indiscu­ tibile eterogeneità «superficiale» (usiamo consapevolmente, consci di tutti i gravi rischi che l'estrapolazione comporta, la terminologia trasformazionalista): una omogeneità ovvia­ mente irrealizzabile a livello superficiale ma esplicitabile, at­ traverso la mediazione degli strati profondi convenzionali (cioè manifestati effettivamente attraverso operazioni di ri­ scrittura convenzionali), anche al livello del -linguaggio ver­ baile. Ciò non significa che un messaggio figurativo sia tradu­ cibile in messaggio verbale, ma soltanto che è possibile ipo­ tizzare un modello semiotico generalissimo che sia comune e al linguaggio figurativo e al linguaggio verbale. Nel caso almeno apparentemente meno arduo della let­ teratura, si potrebbe citare l'esempio del produrre schemi o modelli linguistico-discorsivi di aspetti non linguistico-discor­ sivi di un testo poetico, attraverso la mediazione di un si­ stema grafico convenzionale di riscrittura: con l'ausilio del quale soltanto sembra possibile parlare non genericamente di strutture metrico-ritmiche. In questo senso, sarebbe da ri­ prendere e sviluppare il metodo abbozzato genialmente da un Wolfflin, che guardava però esclusivamente al modello fi­ gurativo (e per questa limitazione soltanto valgono ancora oggi le critiche di un Panofsky, che per la sua attenzione al modello linguistico-verbale è piuttosto da integrare, che non opporre, al Wolfllin). Entrambi, in ogni caso, si fermarono troppo presto al materiale solo parzialmente analizzato: per cui il compito da portare avanti consisterebbe innanzitutto in una più completa, sebbene assai ardua, determinazione dei modelli omogenei implicati nell'oggetto semiotico etero­ geneo. L'ipotesi, per la verità, è assai forte. Ma per forte che sia (e non ce ne nascondiamo affatto né la difficoltà, né le solle- 31


citazioni profonde), sta il fatto che, in assenza di tale ipotesi, non solo l'opera d'arte non verbale, ma la stessa letteratura, rimarrebbero ineluttabilmente confinate (almeno in parte, nell'ultimo caso) al -livello della produzione e della fruizione, così come rimarrebbe chiuso in se stesso, e del tutto super­ fluo, il discorso critico e analitico sull'opera d'arte. Le conse­ guenze non sarebbero gravi in se stesse, se cioè si dovesse semplicemente squalificare l'attività critica in favore della pura e semplice fruizione quale unico modo possibile di ap­ proccio all'opera d'arte. Ma il problema consiste appunto nel domandarsi se è possibile una squilifica del genere senza dan­ neggiare la stessa fruizione presunta «immediata».

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8. Squalificata la critica d'arte, si potrebbe anche soste­ nere (almeno in prima istanza) che la produzione-fruizione, sequestrata in se stessa, non si contrarrebbe nella ineffabilità o nella pura materialità dell'oggetto, poiché si darebbe ancora una dialettica a doppio livello (del tipo linguaggio-metalin­ guaggio), nella misura in cui una effettiva semiosi non verbale esige una metasemiosi non verbale per omogeneità (per esem­ pio, pittorica o più in generale figurativa). Di fatto, almeno, la storia dell'arte è proceduta fin quasi ai nostri giorni quasi soltanto secondo una dialettica siffatta: ed è possibile indi­ care più di un caso evidente di pittori che, producendo nuovi oggetti, hanno esercitato nello stesso tempo una sorta di cri­ tica figurativa in termini figurativi (come ha sostenuto a suo tempo il Ragghianti nei riguardi dei Carracci). Ma, in gene­ rale, ogni produzione nuova - in quanto si ricollega in qual­ che modo ad una tradizione, anche se per contestarla radical­ mente - è produzione di oggètti semiotici cui è essenziale una componente metasemiotica (si pensi all'esempio ovvio e macroscopico, anche se discutibile nelle implicazioni partico­ lari, della serie Giotto-Masaccio-Michelangelo-Caravaggio ). D'altra parte, è altrettanto facile indicare casi tipici di atti­ vità quasi-critiche verbali di scrittori che operarono in stretta colleganza con i pittori e strumentalizzarono il linguaggio ver­ bale sottoponendolo dall'esterno al tipo di semiosi dominante proprio dei pittori stessi. In questi casi oioè non si dà pro-


priamente discorso critico, ma un discorso indiretto, gene­ rico, spesso puramente retorico (di tipo « situazionale », per così dire), che acquista un suo senso solo in presenza delle opere d'arte. Siamo ancora alla dialettica figurativa e non alla sua trasformazione mediata in dialettica linguistico-ver­ bale. Non è affatto un caso, per esempio, o una circostanza estrinseca, che l'analista o il critico moderno - sia il caso del Wè:iltllin o del Gombrich - sia leggibile in qualche misura anche non tenendo costantemente e direttamente presenti i documenti figurativi da cui pure muove il suo discorso; men­ tre non sia affatto leggibile allo stesso modo il Vasari o addi­ rittura Adolfo Venturi. Tuttavia, a parte il fatto che una critica in senso moderno esiste e ha dato pure i suoi frutti, bisogna dire che un pro­ cesso semiosi-metasemiosi suppone in ogni caso un sistema di unità, almeno distintive, suscettibili di essere colte e siglate nella loro distintività, e quindi « in qualche modo » proiettate mediatamente in linguaggio verbale e discorsivizzate a questo altro livello. Infatti, se un'operazione del genere non fosse in alcun modo possibile, si dovrebbe concludere che esiste un sistema di elementi distintivi (quali che siano) di cui non possiamo dire e sapere nulla al livello della conoscenza teo­ rica, irrealizzabile altrimenti che in linguaggio verbale. Il che significherebbe o che non esiste un siffatto sistema (per cui ci illudiamo di produrre o fruire alcunché, mentre in realtà non produciamo e non fruiamo nulla) oppure che, esi­ stendo, esso non può essere conosciuto, potendo soltanto es­ sere oscuramente avvertito. Ma esiste una coscienza di qual­ che cosa che possa non essere anche conoscenza, se non del qualche cosa, almeno della coscienza del qualche cosa? Ora in mancanza di una coscienza esplicita, cioè di una cono­ scenza articolata linguisticamente, verrebbe meno anche quel termine essenziale per cui una semiosi è t_ale: cioè una meta­ semiosi. Una cosa è non collegare la consapevolezza linguistica esplicita con Ia semiosi non verbale in cui si opera, una cosa è non poter in alcun modo collegarla : nel primo caso diremo che l'assenza di una critica d'arte esplicita fin quasi ai nostri

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giorni (il che è del resto vero fino a un certo punto: e qui ha la sua parte di ragione chi tende a ridurre le distanze tra un Vasari e noi, come G. Previtali, La fortuna dei primitivi, Torino 1964) è piuttosto una presenza implicita, una poten­ zialità ineliminabile anche se non sempre realizzata esplicita­ mente.

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9. Il compito di una moderna critica d'arte consiste essenzialmente nell'escogitare metodi di riscrittura adeguati, in funzione dei modelli implicati nell'oggetto estetico, al fine di permettere la sua mediata riformulazione in linguaggio verbale. Ciò non vuol dire affatto che la conoscenza (e la proie­ zione linguistica ad essa connessa) ci restituisca in altra for­ ma tutto ciò che appartiene in proprio alla coscienza semio­ tica e si manifesta per omogeneità diretta in forma non lin­ guistica. Così, per esempio, lo studio della semiosi magica o mitica, etica, tecnico-artigianale, o appunto pittorica, musi­ cale e così via, non ci dà affatto - insieme alla sua struttura formale e alle relazioni formali con altri piani di esperienza tutta la sua « sostanza del contenuto » (nel senso di Hjelm­ selv). Anzi, è vero il contrario, perché ciò che è attingibile in questi casi è soltanto la forma dei fenomeni considerati; e allora potrà essere del tutto giustificato (di fronte ad un in­ teresse puramente formale e relazionale, tipico dell'etnologia strutturalista alla Lévi-Strauss) il tentativo di ripercorrere secondo l'omogeneità ·(se e per quanto ·è posslbile) la speci­ fica, formale-sostanziale discorsività della semiosi considerata (come nel caso dell'intepretazione mitologica per riformula­ zione omogenea alla Karl Kerényi). Quali possano essere i ri­ sultati di un'operazione del genere, per molti versi assai dub­ bia, una volta che sia caduta in prescrizione l'attualità sostan­ ziale della semiosi non verbale (o solo in parte verbale) che si voglia interpretare mediante una metasemiosi omogenea, non sapremmo dire; ma rimane il fatto che ciò che appartiene alla sua specifica sostanza del contenuto non può essere a rigore studiato altrimenti, e che soltanto il suo assetto formale è suscettibile di conoscenza scientifica. Il che, di nuovo,


non impedisce che possano essere introdotte componenti so­ stanziali dal punto di vista dello studioso o della cultura che esso rappresenta, e che si possa tentare una interpretazione scientifica più completa, ma con tutti i rischi ( « sostanziali ») che il tentativo comporta. Naturalmente, interpretazioni sif­ fatte non sono mai completamente arbitrarie; ma difficilmente esse riescono ad uscire dall'ambito della fondata congettura. Questo è proprio il caso della critica e della storiografi.a artistica e letteraria, cui è dato mediatamente di analizzare la forma degli oggetti estetici e di congetturare soltanto sulla loro sostanza (spessissimo anche sulla « sostanza dell'espres­ sione»). EMILIO GARRONI

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Questioni di estetica . . emp1r1ca VITALIANO CORSI

Ci domanderemo innanzitutto se davvero, come molti ri­ tengono, teorie diverse di interpretazione dei fatti artistici siano sempre necessariamente tra di loro incompatibili, nel senso che la verità di una di esse escluda in ogni caso quella delle altre, o se piuttosto non si debba ammettere che un'ipo­ tesi, per quanto generalizzata o ricondotta a un contesto teo­ rico ampio e rigoroso, non può esaurire la totalità e la com­ plessità del fenomeno artistico e che, per questo, almeno in via di principio, tra differenti proposte di interpretazione si possano stabilire rapporti non solo di reciproca esclusione ma anche di concordanza e di integrazione. Del resto, mentre la varietà degli approcci che un'opera d'arte può tollerare è un fatto emergente sia storicamente che all'interno di una medesima situazione culturale, è abbastanza evidente che la convinzione dell'incompatibilità tra teorie estetiche differenti deriva soprattutto dal concepire l'estetica speculativamente, come filosofia dell'arte, partecipe, in quanto tale, di quella pretesa di compiutezza e di universalità tipica dei sistemi fi­ losofici dei quali l'estetica, al pari dell'etica e della logica, ad esempio, costituirebbe un momento. In tal caso, infatti, trat­ tandosi di teorie il cui campo di riferimento e di applica­ zione non è delimitabile né empiricamente né operativamente (in rapporto, cioè, ai metodi e alle tecniche di indagine), poi36 ché vuole identificarsi, quel campo, con la totalità assoluta


ed incondizionata del fenomeno artistico, la loro reciproca incompatibilità, prima ancora d'essere constatata sul fatto, si dichiara come un caso di contraddizione logica. Ma, se dal cielo delle filosofie speculative si discende sul più modesto terreno della conoscenza empirica, è lecito am­ mettere che ipotesi differenti possono illuminare momenti di­ stinti del fenomeno artistico, ovvero descrivere un medesimo momento in modi differenti, per il fatto di servirsi di concetti e di tecniche diversi. Sarà opportuno, a questo punto, preci­ sare che, per quanto tra i vari tipi di rapporti in cui pos­ sono venire a trovarsi due ipotesi sull'arte debba essere in­ cluso anche quello della complementarità (qualora il feno­ meno artistico sia alternativamente interpretabile in base a due ipotesi opposte), non si vuole qui in alcun modo pro­ porre una generalizzazione metodologica del « principio di complementarità». Infatti, questo principio, almeno nella formulazione datane da V. Tonini, stabilisce che è indispen­ sabile per la descrizione degli eventi fisici l'impiego simul­ taneo di due modelli teorici « complementari » ( corpuscolare e ondulatorio, macroscopico e microscopico, determinista e indeterminista) nel senso che si devono porre dei limiti al­ l'impiego dei concetti di ciascun modello e questi limiti de­ vono essere tratti dal modello complementare: il punto di « convergenza » dei due modelli è dato dalla osservazione di un evento reale 1; il concetto di compatibilità di cui invece ci siamo serviti noi, estremamente più comprensivo e gene­ rico, richiede solo che nella formulazione di due ipotesi sia rispettata la condizione formale di non-contraddittorietà e rinvia per ogni questione di fatto (che riguardi, cioè, la ef­ fettiva compatibilità delle ipotesi che si vogliono considerare) alle normali procedure di controllo delle conoscenze empiriche. Ad esempio, un'adeguata interpretazione semiotica non contrasterà necessariamente con il riconoscimento del mo­ mento percettivo dell'arte, quando il conflitto di competenze tra le due ipotesi possa essere evitato, riferendole a due mo­ menti distinguibili del fenomeno artistico. In tal caso anzi non essendovi alternativa, sarà possibile procedere a una riformulazione unificata delle due ipotesi. E il risultato sarà 37


qualcosa di molto diverso dalla semplice riduzione di un'ipo­ tesi all'altra: che è invece la strada quasi sempre seguita dagli studiosi di estetica; i quali, una volta che abbiano ab­ bracciata una posizione, anche quando sia stata constatata l'impossibilità di spiegare adeguatamente alcuni caratteri ri­ levanti dell'arte entro lo schema inizialmente proposto, cer­ cano, per una sorta di male intesa coerenza, di tener fermo questo, introducendo surrettiziamente significati ed usi sem­ pre più larghi dei termini adoperati. Qualora si parta dalla ipotesi che l'arte sia linguaggio e se ne voglia controllare la validità ricercando nelle opere d'arte ogni genere di procedimento linguistico, l'aspetto re­ siduo, per così dire, quello che un'analisi siffatta non avrà potuto investire, costituisce, appunto, il momento percettivo o, per adoperare un'espressione equivalente, fenomenicità ir­ riducibile dell'arte. Si potrà osservare che, come il linguag­ gio possiede, anch'esso, una sua concretezza sensibile, una sua struttura percettiva (che non è costituita soltanto della materialità dei singoli « veicoli segnici », bensì anche dei rap­ porti di prima e dopo, di destra e sinistra, ad esempio, che tra questi si stabiliscono), così la percezione non può essere intesa come mera e irrelata immediatezza, e riportata al vec­ chio concetto di sensazione atomistica: la percezione ha una sua dimensione, un suo spessore spaziale e temporale, ma soprattutto appare dotata d'una struttura intenzionale, per la quale essa è vissuta non come il luogo di una neutra ogget­ tività, ma come forma o campo variamente organizzato e for­ nito di senso. Ciò vuol dire che non c'è frattura ma conti­ nuità tra il momento percettivo e quello linguistico dell'arte. Del resto a_ rendere più evidente questa continuità c'è il fatto che il contesto nel quale sono inseriti gli elementi propria­ mente linguistici è il risultato di varie operazioni, che vanno dal semplice « prelievo d'oggetto » alle più complesse strut­ turazioni e manipolazioni percettive. Bisogna, infatti, notare che proprio nel caso dell'arte, anche negli esempi offerti da quella cosiddetta « oggettuale », il momento percettivo meno che mai può essere considerato indipendentemente dall'atti38 vità del soggetto; vogliamo dire, cioè, che la configurazione


di un campo percettivo non deve essere immaginata a simi­ glianza delle strutture fisiche. Senza avere ora minimamente la pretesa di avanzare una teoria generale della percezione, possiamo dire che vi sono molte ragioni per sostenere che in un'opera d'arte il momento percettivo non può essere ri­ stretto a mera « presenzialità »; infatti, già la presenza di forme organizzatrici dell'attività sensorio-motoria, in fun­ zione di schemi riassuntivi o anticipatori dell'esperienza ri­ vela la struttura intenzionale della percezione, e la possibilità di un'assunzione simbolica, di rappresentazione di quelle forme nel momento stesso in cui l'artista non le registra passi­ vamente, ma le isola, le innova, le tematizza. Una questione nella quale è facile rendersi conto della profonda continuità con cui in un'opera d'arte si attua il passaggio dal livello percettivo a quello simbolico e propriamente linguistico è quella della « spazialità prospettica » per la quale spesso si propone oggi un'interpretazione esclusivamente simbolica (sulla scorta forse di una unilaterale lettura del Panofsky), trascurando il carattere fenomenico, che per quanto non ri­ conducibile al tradizionale concetto di mimesi, appare tut­ tavia ineliminabile. La prospettiva, quando non sia identifi­ cata per comodità polemica con un particolare « sistema », ma sia indagata nelle sue manifestazioni concrete e più re­ centi, non si presenta infatti altrimenti che come un possibile schema d'organizzazione percettiva, e più generalmente come una strutturazione intenzionale del campo fenomenico. Ma sul carattere fenomenico, appunto, della prospettiva vo­ gliamo citare alcune acute osservazioni di Renato Barilli:

se infatti taluni andamenti e nessi prospettici si riaffacciano così di frequente nel lavoro di molti giovani artisti, ciò av­ viene per consentire alle cose di essere più compiutamente « fenomeni », per agevolarne cioè il loro manifestarsi nella concretezza di una situazione, di un esserci, cioè di una pre­ senza radicalmente diversa da quella « in idea », e quindi impalpabile, non situata, che competerebbe all'essenze di tipo platonico. La più forte e violenta bestemmia che sia stata pronunciata nei nostri tempi è molto probabilmente quella che viene da un filosofo, da Husserl, allorché egli as- 39


serisce che neppure Dio potrebbe riuscire a contemplare e ad abbracciare un cubo tutto in una volta, affrancandosi dal­ l'obbligo di passare attraverso la visione successiva delle sue varie facce 2. Livello linguistico e livello percettivo, anche se sempre distinguibili, non si riproducono nell'opera d'arte, dunque, come polarità antitetiche, ma il primo si presenta quasi come la naturale conclusione della organizzazione intenzionale del campo percettivo da cui emerge. Al di là delle difficoltà del concetto morrissiano di segno iconico, la saldatura tra segno e percezione, tra linguaggio e immagine, in arte, deve essere ricercata nella direzione della loro contestualità organica; la quale, si badi, non è tautologica coincidenza tra segno e per­ cezione e neppure mette capo al monstrum del segno autosi­ gnificante; essa va intesa piuttosto nel senso di un reciproco condizionamento, ché mentre la presenza degli elementi lin­ guistici interviene nella configurazione del campo percettivo, arricchendone la struttura fenomenica (aggiungendo alle rela­ zioni di spazio e di tempo esistenziali, esibite in presenza, per così dire, uno spazio ed un tempo ideali, richiamati, cioè, per via di rappresentazione) dall'altra parte il campo percettivo interferisce nell'insieme degli elementi linguistici e ne condi­ ziona variamente il significato. È possibile, allora, costruire una teoria dell'arte la quale, senza pretendere di attingere le vette di un assoluto sapere, colleghi organicamente quelle ipotesi parziali di cui sia stato accertato un certo grado di validità? Certo oggi un'estetica empirica unificata è solo una possibilità o, se si preferisce, un'esigenza, fornita, però, di una sua portata metodologica e di qualche apprezzabile conseguenza, potendo essa stimolare e orientare la riflessione sull'arte. Inoltre, come abbiamo già prima accennato, quando di due o più ipotesi sia stata ac­ certata la fondatezza e se ne siano chiariti i rispettivi campi di riferimento, non c'è ragione perché non si debba proce­ dere alla formulazione di una nuova e più comprensiva ipotesi. Ammessa, .dunque, la compatibilità di ipotesi differenti, 40 in virtù del riconoscimento della complessità costitutiva del


fenomeno artistico, ci si può domandare ancora se nel preva­ lere dell'uno o dell'altro tipo di approccio all'arte e, partico­ larmente, nel promuoverne la legittimità in sede teoretica si possa scorgere anche una manifestazione di volontà, ovvero il risultato di una scelta culturale e latamente politica. Ed effettivamente si può dire che se oggi prevalgono le ipotesi semiotiche e linguistiche nell'interpretazione dell'arte è anche perché dell'arte ci interessa, più degli altri, appunto il mo­ mento linguistico, e, si potrebbe addirittura aggiungere, per­ ché si vuole un'arte-linguaggio. Con questo non intendiamo affatto parificare tutte le ipotesi sull'arte, attribuendo loro una mera strumentalità pragmatica, o ricondurre il loro va­ lore di verità all'accertamento delle motivazioni sociologiche, o d'altro genere, che vi stanno alla base. Solo che ci parrebbe oltremodo ingenuo supporre che le ragioni per le quali il pensiero e le indagini estetiche si dirigono su un aspetto del­ l'arte piuttosto che su un altro si debbano ricercare esclusi­ vamente in un ambito teoretico e «scientifico». Ma in che modo la tesi da noi sostenuta non ripropone un «relativismo» vicino a quello di C. B. Heyl? Certo vi sono alcuni punti nell'opera dello Heyl sui quali molti oggi, anche in Italia, possono convenire facilmente specialmente su quella che egli chiama la «rilevanza dei criteri» e che esprime una esigenza largamente penetrata nella cultura contemporanea per merito soprattutto delle correnti neopositivistiche 3• Ma se il rendere espliciti i presupposti di ogni ordine che entrano nel discorso sull'arte conferisce a questo rigore e chiarezza, eliminando molti falsi problemi e rilevando la natura pura­ mente verbale di altri, non pare che ciò possa sostituire in­ teramente il concetto di verità, che se può essere legittima­ mente liberato da ogni pretesa di assolutezza, non può es­ sere privato del riferimento ad una realtà esterna al discorso linguistico. Del resto lo stesso Heyl introduce un criterio che va oltre l'analisi linguistica quando afferma che esistono

importanti differenze tra le esperienze estetiche a causa di costituzioni psicologiche differenti nelle qualità innate 4, o che il relativista comprende che le sue convinzioni non possono né dovrebbero avere una validità generale, ma che esse val- 41


gono soltanto per coloro che sono simili a lui in certi modi fondamentali 5• Ma portando coerentemente avanti questa po­ sizione che fa dipendere la varietà delle concezioni estetiche e delle esperienze artistiche dal « temperamento dell'indivi­ duo » si arriverebbe a null'altro che ad una classificazione delle teorie in base ai diversi tipi psicologici; e, in vero, lo stes:.o Heyl definisce spesso la propria posizione come « rela­ tivismo psicologico ». Al contrario le nostre precedenti considerazioni vogliono collocarsi sullo sfondo di un realismo problematico, consape­ vole, cioè, della sua natura ipotetica e delle difficoltà ed apo­ rie che gli sono connesse. Se volessimo tentare di precisare il senso di questa consapevolezza potremmo largamente ri­ farci all'opera di B. Russell; sarà, tuttavia, sufficiente ripor­ tare come indicazione un passo di un suo scritto del 1950, nel quale egli riassume con grande chiarezza le ragioni del suo dissenso dai positivisti logici sulla questione della cono­ scenza empirica. Chiaro e generalmente ammesso è: 1) che l'illazione scientifica, in quanto contrapposta all'illazione de­ duttiva, può portare a una conclusione soltanto probabile; 2) che non può portare neppure a una conclusione probabile, se non presupponendo un postulato o più postulati per i quali non vi sia, né possa esservi, alcuna prova empirica. E una constatazione assai sgradevole per un empirista, ma sem­ bra assolutamente inevitabile 6• Onde la conclusione che u,1 empirismo intransigente è insostenibile. Da un numero finito di osservazioni non si può giu·ngere, per illazione, a un enun­ ciato generale e/te sia appena probabile, a meno di postulare qualche principio generale riguardante le illazioni che non può essere stabilito empiricamente... Quanto a me, suppongo che, in linea generale, la scienza sia nel vero e possa giungere per via d'analisi ai necessari postulati. Ma agli scettici in­ tegrali non sono in grado di contrapporre alcun argomento, se non questo: che non li credo sinceri 1• Se ciò è vero, dob­ biamo aggiungere, per quel che ci riguarda, che il rifiuto delle estetiche speculative e il conseguente tentativo di costruire empiricamente una teoria dell'arte non possono accompa42 gnarsi alla illusione di una rinnovata e inattaccabile certezza


che si sostituisca, con pari dignità o presunzione d'assoluto, a certe decadute verità filosofiche. La conoscenza empirica, fattuale, rivela ad un attento e spregiudicato esame più di un punto di difficile comprensione, e se ciò non ci autorizza a rinnovare i vecchi sogni metafisici, deve almeno valere come invito a evitare quegli atteggiamenti cli incauto ottimi­ smo estranei proprio allo spirito della ricerca scientifica, dalla quale essi tuttavia traggono spesso pretesto. Di fronte alle difficoltà che tanto frequentemente insor­ gono nel campo dell'estetica e della critica d'arte, investendo i presupposti, i metodi e le finalità stesse di queste discipline, si può essere sollecitati a ricercare una soluzione radicale in una loro completa e immediata scientifizzazione, attuata tra­ sferendo di colpo in esse i procedimenti logico-linguistici e i metodi di indagine delle scienze. E infatti quanto più si ac­ cresce la consapevolezza della precarietà e della incertezza che caratterizzano la riflessione sull'arte, tanto più è inevitabile che si guardi al mondo della scienza come al luogo felice della certezza e del rigore. Né, d'altra parte, il riconosci­ mento di una condizione intimamente problematica comune alla intera area del sapere umano può togliere valore alla constatazione che mentre la problematicità della scienza è quella stessa di ogni procedimento di ricerca e si risolve perciò nella riaffermazione della sua natura ipotetica ed euri­ stica, l'estetica si trova di fronte ad alcune aporie che toc­ cano la legittimità della sua esistenza, non solo in sede teo­ retica, di analisi delle sue basi concettuali, ma anche in rap­ porto alla validità, e diremmo quasi alla utilizzabilità, dei suoi risultati particolari. Che si tratti di due forme sostanzialmente diverse di problematicità, non riassumibili sotto un unico e generico concetto di « crisi », conseguente alla rinuncia, pro­ pria della cultura contemporanea, al possesso di « verità » as­ solute e definitive, è dimostrato dal fatto che la consapevo­ lezza della « non-scientificità » delle indagini e del discorso sull'arte, nel senso più elementare cli un notevole margine di arbitrarietà che neppure le astuzie postume della dialettica riescono a smascherare, è paradossalmente testimoniata pro­ prio dalla costante aspirazione a conferire rigore e certezza 43


alla riflessione sull'arte, modellandola sui metodi e le tecni­ che di altre discipline. Ma non crediamo che la metodologia scientifica possa essere considerata come un miracoloso toccasana dei problemi dell'estetica, anche se essa può svolgere una importante fun­ zione di stimolo e di orientamento. Innanzi tutto bisogna os­ servare che un discorso generalizzato sui metodi delle scienze coinvolge di necessità problemi che vanno oltre le singole scienze e l'idea stessa di un metodo scientifico unico - verso la quale anche noi, per quello che valgono le nostre opi­ nioni al riguardo, siamo orientati - appare alquanto con­ troversa. Qualora si restituisca la metodologia alla dimen­ sione problematica che le compete nell'ambito del pensiero contemporaneo, e si dimetta una fiducia eccessiva ed ingenua nelle sue presunte virtù taumaturgiche, sarà possibile valu­ tare più giustamente il contributo che dalla riflessione meto­ dologica, appunto, può venire all'estetica e alla critica d'arte. Per ora, e concludendo queste brevi note, diremo che è opportuno prima di ogni altra cosa, mettere da parte l'idea che debba essere la metodologia ad introdurre nella critica e nell'estetica metodi e tecniche di indagine, quasi che il di­ scorso sull'arte sia stato sinora niente altro che un insensato e inconcludente vaniloquio. Una discussione sui metodi di queste discipline deve ragionevolmente partire dalla ricogni­ zione e dall'esame dei procedimenti effettivamente adoperati, non limitandosi, cioè, a prendere atto della sola trattazione esplicita delle questioni metodologiche, che eventualmente accompagni la critica o l'estetica, ma ricercando criteri e me­ todi operativi nel vivo delle ricerche sull'arte. VITALIANO CORBI

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I V. TONINI, La lunga strada del realismo scientifico, in • Ricerche metodologiche » a. I, n. l. 2 R. BARILLI, Lo spazio nell'arte contemporanea. Relazione al Con­ vegno cli Amalfi, maggio 1967. 3 C. B. HEYL, Nuovi orientamenti di estetica e di critica d'arte. Longanesi, Milano, 1948, p. 220. 4 Ibidem, p. 44. s Ibidem, p. 212. 6 B. RussEll., Logica e conoscenw. Longanesi, Milano, 1961, p. 338. 1 Ibidem, p. 352.


Riflessioni di uno scultore sul tema dello spazio AUGUSTO PEREZ

Se la scultura è volume, o, se si vuole, il negativo di esso, il volume, possiamo definirlo, nella sua essenza ideale, costituito da due fattori inscindibili tra loro, che sono lo spazio e la luce. Il volume, diciamo quindi, è spazio-luce; ossia è una por­ zione di spazio ugualmente permeata di luce in ogni sua parte. Più esplicitamente avremmo potuto dire: una por-• zione di spazio avente una sua corporeità, se non avessimo avuto il dubbio che «corporeità» è un termine assoluta­ mente escluso dal mondo delle idee. Esistono, a questo punto, sculture che già si rimandano direttamente a tale essenza ideale del volume, e pertanto non contaminate da nessun altro elemento perturbatore se non quello della loro stessa fisicità. L'esempio forse più esatto lo potremmo riconoscere in alcune sculture di Brancusi ( « La nascita del mondo») che possono definirsi perciò astratte per eccellenza; astratte, in quanto l'idea spazio-luce, che in questo caso è servita quasi da modello, è astratta. Sculture, peraltro, dalla struttura talmente elementare ( «La nascita del mondo» è praticamente la scultura di un uovo) da far sì che un solo punto di vista basti a coglierle nella loro inte­ rezza spaziale, poiché ciascun punto di vista tende a coinci­ dere (coinciderebbe completamente solo se si trattasse di una sfera) con tutti gli altri infiniti. 45


Ma come un cristiano non venera l'immagine di Giove, ma tuttalpiù la rispetta, lasciamo così la scultura di Bran­ cusi nell'Olimpo dell'arte, per cercare di considerare quel momento meno apollineo, ma più umano, in cui l'idea origi­ naria del volume scende a contaminarsi col mondo degli og­ getti assumendosi il compito di rappresentarli. Sembra inevitabile, a questo punto, a meno che la con­ taminazione non si risolva in assoluta coincidenza con le cose stesse (e allora si dovrà parlare di volume-oggetto senza alcuna possibilità di rimando all'idea di volume spazio-luce, come avviene in Segai, il quale, molto opportunamente, non considera sculture le sue opere) una riduzione dell'idea ori­ ginaria di spazio-luce, poiché, allora, lo spazio tenderebbe a farsi prospettiva di se stesso, e la luce, dì conseguenza, a su­ bire modulazioni pittoriche. È bene precisare subito, stando così le cose, che la pro­ spettiva, ossia la riduzione che l'idea spazio-luce subisce nt!l momento della rappresentazione delle cose (con tutte le sue implicazioni possibili), è esclusivamente_ problema, appunto, di rappresentazione delle cose, e, come tale, tocca soltanto quegli artisti che desumono la figuratività dalla realtà e dalla storia, per quella visione dinamica che proprio lo stesso con­ cetto di prospettiva contiene. Ora, tra l'idea dell'uovo di Brancusi e (per trovare un termine opposto di paragone debbo riferirmi ad un fulgido esempio di 500 anni fa) il Davide bronzeo di Donatello (uscito alla luce in una cultura figurativa, quella rinascimentale, im­ postata tutta sui problemi della prospettiva, ossia della rap­ presentazione), c'è tutta una scala di valori: dal più figura­ tivo al meno figurativo, in cui solo chi si è avvicinato o si avvicinerà di più ad un ideale di totale figurazione, sarà stato o sarà nel cuore del problema. Sappiamo bene che proprio in quelle zone intermedie tra un polo e l'altro la scultura moderna ha dato i frutti di quel paradiso terrestre (le grandi teste di Picasso, alcune fi. gure sdraiate di Moore) a cui aneliamo in quanto ci appar­ tengono, ma dovremo respingere tale forza di calamitazione

46 se vorremo compromettere interamente, prospetticamente,


l'idea dello spazio e della luce con l'idea della realtà da rap­ presentare.

La riduzione, inevitabile, dello spazio in prospettiva e della luce in modulazioni pittoriche, si sa, è stata il punto di forza e, nello stesso tempo, il tallone d'Achille di M. Rosso, che ingenuamente, cercava di proporre un solo punto di vista alla lettura delle sue sculture, dopo aver compromesso defini­ tivamente il concetto, che per noi è l'ipotesi dalla quale siamo partiti, che la scultura è volume, e che il volume è spazio-luce, contaminato e compromesso quanto si vuole, ma che, alla fine di ogni possibile operazione, deve essere volume. Più ./a contaminazione sarà sporca ed.il volume integro, più saremo nell'area di una grande scultura necessariamente figurativa. A Rosso, tuttavia, il merito di avere indicato coscientemente, per la prima volta nell'età moderna, la via della rappresenta­ zione, ossia la via dello spazio-luce compromesso. Un concetto implicito e dedotto da quello di prospettiva è quello del movimento, o finzione di movimento, che Boc­ cioni ha perseguito coerentemente; finzione ottenuta introdu­ cendo (al fine sempre utopistico di inglobare tutti i punti di vista del volume in uno soltanto), ancora una finzione; quella della dimensione temporale. È un passo avanti rispetto a Rosso? Certo, il calcolo si fa più sottile, e la finzione (ma cos'è la prospettiva se non una finzione quanto lo è l'arte stessa, tanto finta quanto vera?) di un volume continuo è esibita nella sua insistente teorizzazione. Tecnicamente il problema di una prospettiva totale nelle tre dimensioni esclude ogni possibilità di soluzione, in quanto l'unità. (un punto di vista cioè) non potrà mai coincidere con l'infinito (infiniti punti di vista). Ed il torto, se così si può dire, di Rosso e di Boccioni, è stato, invece, quello di cre­ dere in una possibile soluzione tecnica di esso. Solo il volu­ me-oggetto si offre infatti ad infiniti punti di vista che po­ tranno essere sì conglobati in uno soltanto con l'introduzione della dimensione temporale, ma questa non verrebbe che a sancire, quasi a riprova di una impossibile soluzione, la sua definitiva incapacità di assurgere da volume-oggetto a idea spazio-luce, la cui contaminazione col mondo delle immagini 47


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dovrà contenere l'idea di se stessa sempre come idea spazio­ luce ossia volume. Per me la più grande rassomiglianza è nell'invenzione. Con questa dichiarazione, Giacometti, a noi più vicino nel tempo, si pone nel cuore del problema. La sua scultura è stata impostata (alla fine di una drammatica crisi che durerà dieci anni, dal 1925 al 1935, dalla quale uscirà convinto che /)astrazione significa realizzare volumi che non erano altro che oggetti, oserei dire, su di una trovata geniale: trovata in quanto la rappresentazione è espressa in un volume salvo per -quanto ridotto al filiforme, ed esaltato da una interna prospettiva di tipo pittorico; geniale, poiché la stessa trovata è immagine di se stessa, desunta, cioè, da uno stretto rap­ porto con l'idea, oggi forse già superata, del mito della soli­ tudine dell'uomo esistenziale. Una trovata che assurge ad idea, o, più limitativamente, al simbolo di essa. Tuttavia le sue sculture, così inquietanti, danno l'impressione di svanire, di dileguarsi pur nel loro preciso spazio; sono legate a que­ sta terra da un filo ancora troppo sottile. Perché? Abbiamo detto più su che non basta essere figurativi per stare nel pro­ blema dello spazio-luce compromesso, ma bisogna avere della figuratività una certa idea, prelevandola dalla storia e dalla realtà in maniera dinamica. Questo prelievo Giacometti l'ha compiuto soltanto dalla realtà, cercando di cogliere e fermare la mutevolezza delle cose se ti guardo in faccia dimentico il profilo, se guardo il profilo dimentico la faccia. Tutto di­ venta discontinuo. Il fatto è sempre quello: non si arriva più a cogliere insieme, intervenendo con uno stato cosciente della memoria in verità si copia la visione che resta ad ogni istante, cioè l'immagine che diventa cosciente, dalla quale, tuttavia, escludeva la storia di cui, peraltro, aveva un con­ cetto dinamico quanto della realtà: Il Laocoonte, che cent'an­ ni fa era il capolavoro dei capolavori, adesso è disprezzato. Lo si è messo in ombra contro una finestra e nessuno lo guarda. La paternità è una menzogna. Niente si stabilizza, ma, non riusciva a chiamarla in causa. La Storia, il Museo non gli appartenevano, e li sentiva come presenze estranee che ,'i'infrapponevano, come una tenda, tra il suo occhio e le


cose. Oggi se vado al Louvre, ciò che mi attira sono le per­

sone che guardano le opere d'arte. Il sublime per me è nei volti (nella realtà) più che nelle opere (nella storia). A tal punto che le ultime volte che sono andato al Louvre, sono fuggito letteralmente. Guardavo con disperazione le persone viventi. Pensavo che nessuno avrebbe potuto cogliere questa i·ita. Era tragico. E ciò è stato il suo grande limite. Credeva di vedere con due occhi (lui, tutto occhi) le cose, ed invece le osservava con uno soltanto, poiché escludeva dal suo campo focale proprio la storia, essa stessa presente nella realtà delle cose. ...Avere senso storico significa essere consapevole non solo che il passato è passato, ma che è anche presente; il senso storico costringe a scrivere non solo con la sensazione fisica, presente nel sangue, di appartenere alla propria gene­ razione, ma anche con la coscienza che tutta la letteratura europea da Omero, in avanti, e all'interno di essa tutta la let­ teratura del proprio paese, ha una esistenza simultanea e si struttura in un ordine simultaneo (T. S. Eliot • Tradizione e talento individuale). La sola possibile indicazione che può desumersi da quan­ to si è detto è questa: se il problema di risolvere sulle tre dimensioni l'ipotetica prospettiva dell'oggetto (dando di esso, ad ogni punto di vista, la visione totale) è tecnicamente in­ solubile, evidentemente la sua soluzione, dal momento che il problema non solo esiste (ed è sempre esistito da quando l'uomo ha voluto rappresentare con la scultura le cose ed è implicito nel concetto stesso di « plasticità ») ma, oggi, è stato posto coscientemente ed in tutta la sua urgenza, do­ · vremo ricercarla non ad un livello tecnico ma ideale. Mi rendo conto che tale indicazione potrebbe sembrare poca cosa, forse; ma solo partendo da essa, chi volesse ac­ cettare per buona l'ipotesi che la scultura sia volume, e non . volesse accettare uno stato di prospettiva zero, e non volesse far coincidere l'idea delle cose con le cose stesse, potrà ap­ prodare ad un'arte di dimensione umana, perché non mitiz­ zata nella demitizzazione dell'oggetto, né demitizzata nella AUGUSTO PEREZ 49 mitizzazione di esso.



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