Op. cit., 17, Napoli, gennaio 1970

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Op.cit. rivista quadrimestrale di selezione della critica d'arte contemporanea

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Edizioni • Il centro •


M.

TAFURI,

AmbiguitĂ del Guarini Il centro della cittĂ (definizioni) Lettura storico-semiologica di Palmanova Libri, riviste e mostre

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Alla redazione di questo numero hanno collaborato: Pasquale Bel.fiore, Renato Bossa, Michele Capobianco, Urbano Cardarelli, Franco Sbandi, Maria Luisa Scalvini.



Ambiguità del Guarini MANFREDO TAFURI

Due recenti avvenimenti culturali hanno contribuito a porre alla ribalta il problema della posizione cli Guarino Gua­ rini nell'ambito dell'architettura europea del XVII secolo: il convegno guariniano tenuto a Torino nell'ottobre del 1968 e la nuova edizione critica del Trattato di Architettura Civile, a cura di Nino Carbone1i e Bianca Tavassi la Greca, edito per i tipi del Polifilo 1• Cosa giustifica e cosa nasconde tale concentrazione di interessi? Che il -teatino modenese sia una delle figure deter­ minanti del Barocco internazionale, è un dato scontato per la critica moderna. Ciò che invece solleva ancora molte pole­ miche - puntualmente registrate nel convegno torinese - è la valutazione del suo apporto originale in seno ad una si­ tuazione altamente critica per l'architettura classicista, come quella della seconda metà del '600: la compresenza di inte­ ressi scientifici, teorici, tecnologici ed artistici, ha infatti pro­ vocato molte illazioni sul carattere « moderno ,. dell'archi­ tettura guariniana. Guarini vive senz'altro in un momento in cui le scienze sperimentali, le scosse impresse a11'intero « mondo del press'a poco » e alle fedi aristoteliche o metafisiche dall'uni­ verso galileiano della precisione, gli sviluppi tecnologici con­ nessi all'espansione capitalista nei paesi dominati dall'etica protestante, non possono che accentuare la crisi interna del­ l'architettura barocca. L'arte, ora, non coincide più con la scienza, dato che quest'ultima, staccandosi a sua volta dalla magia, ha precisato i propri fini e i propri metodi specifici. 5


Ma non basta. L'arte e l'architettura vedono anche compro­ messo il loro ruolo di modelli per il comportamento civile. Scienza sperimentale e avanzata tecnologica, mentre si in­ dirizzano a preparare gli strumenti per l'affermazione del capitalismo moderno, distmggono, nel proporre un universo etico compiutamente laico, ogni valore simbolico, celebrativo o trascendente, ponendo all'arte, che su quei valori si fonda, problemi sempre più irrisolubili. Si può ben leggere il Barocco come l'ultima resistenza dell'arte europea - in nome della salvaguardia dei moventi psicologici ed emotivi - di fronte al tacito assalto del pen­ siero scientifico. Borromini e Guarini sono certo in prima fila nello -scoprire che, come la scienza sperimentale ha come proprio campo specifico l'indagine obbiettiva della realtà e�tema e delle sue strutture, l'architettura può avere come proprio oggetto di studio le reazioni della sensibilità umana alle provocazioni della forma e dello spazio. Ma il Guarini va più in là. In tutta la sua produzione architettonica - dalle chiese torinesi di S. Lorenzo e della Sindone, al palazzo Carignano, alle chiese di Messina, Li­ sbona, Nizza, Parigi e Praga, che in diversi modi sono deter­ minanti per gli sviluppi della cultura architettonica sette­ centesca - il Guarini tende a far divenire sperimentale (come la scienza) la stessa architettura. L'oggetto dell'esperimento è lo spazio; il soggetto cui l'esperimento si indirizza è la psicologia dell'osservatore; lo strumento dell'esperimento è un complesso processo di frazionamento e ricomposizione dei nuclei spaziali in veri e propri teoremi formali che lo spetta­ tore è chiamato a risolvere in una tesa e attenta attività in· tellettuale. Dovendo dimostrare la «verità» della propria dialettica formale, Guarini ricorre ad un magistero tecnolo­ gico estremamente elaborato. Le volte tagliate del S. Lorenzo, o gli archetti ripetuti e sovrapposti che formano il « cannoc­ chiale » della SS. Sindone, vogliono persuadere che il miracolo della luce e la tensione mistica e simbolica, non sono in con­ traddizione con l'oggettività e lo sperimentalismo della nuova scienza. Uno dei lati più interessanti del trattato guariniano, 6 che l'introduzione del Carboneri e l'apparato filologico della


Tavassi La Greca e di Mauro Nasti mettono bene in evidenza nel volume del Polifilo, è nello sforzo compiuto per comporre l'oggettività della geometria e della tecnica costruttiva, con l'invenzione architettonica. Non a caso il Nasti, curatore delle note relative alle questioni più propriamente matema­ tiche, osserva acutamente che nel Guarini vive il problema costante dell'accordo fra due diversi criteri di verità: quello che scaturisce dalla « sensate esperienze» e quello proprio alle « matematiche dimostrazioni». È ancora il Nasti che, nel commentare la rigorosa ortodossia euclidea del Guarini, mette a confronto tale assunzione della geometria come mo­ dello di conoscenza certa e univoca, con la « logica» seicen­ tesca più antitetica a tale ortodossia: quella di Port Royal. « Le Grand Arnauld » contro Malebranche, dunque. E ben sappiamo quanto l'occasiona1ismo del seguace di Ca1rtesio sia affine alle tesi filosofiche guariniane. Fino a che punto, però, tale disputa si riflette nella sperimentazione architettonica del Guarini? Il Nasti parla, a proposito del dissenso fra logica eucli­ dea e logica di Port Royal, di « confronto globale di due culture, che eccede di molto l'ambito meramente teologico­ filosofico». Da un lato - egli continua 2 - « al culto del ' ri­ gore ' euclideo si univa necessariamente l'esigenza di un'inda­ gine formale sulla struttura discorsiva del linguaggio mate­ matico: si era quindi ancora sul piano classico della sillo­ gistica di tradizione peripatetica, cioè della logica formale vista come scientia di rapporti oggettivamente esistenti fra certi enti. Si sovrapponevano in .tal modo alcuni classici pro­ blemi fondamentali di logica formale (ad esempio quello della definizione reale o nominale). Al polo opposto, la critica antieuclidea era legata ad una nuova concezione della logica, vista orrriai come tecnica del discorso corretto e neppure più al livello di precettistica (lo­ gica docens), bensì come effettivo strumento metodico di ri­ cerca, insomma come logica utens cui, nel quadro di una metodologia generale del conoscere, venivano ad aggiungersi procedimenti e motivi di carattere gnoseologico e psicologico che eccedono l'ambito della sillogistica classica di tradizione 7


peripatetico-scolastica e che caratterizzano invece la logica di Port Royal ». Antiaristotelismo e antieucleidismo, in Pierre de la Ra­ mée, in Arnauld e in P. Nicole, sono conseguenze dell'accet­ tazione della matematica come definitions de nom, proprio come in Pascal. La lògica accoglie quindi per loro motivi gnoseologici e psicologistici: per Malebranche e Guelinx, al contrario, la matematica è scienza di definizioni reali, e la logica é « scienza di certi oggetti realmente esistenti », lad­ dove la gnoseologia è « esercizio di poteri attenzionali e... svol­ gimento dell'idea dell'infinito, che ha la sua forma positiva in Dio e nell'estensione» 3• Anche accettando tale impostazione non ci .sentiamo però di concludere perentoriamente - come fa il Nasti - sul­ l'assoluta appartenenza del Guarini come architetto (non di­ scutiamo per ora sul Guarini filosofo e matematico) alla corrente speculativa del Guelinx, del Malebranche, del Sac­ cheri. Si veda come, nell'Architettura civile, il Guarini presenta la sua casistica di forme geometriche. Nel capitolo settimo del trattato IV, egli introduce la « superficie sferoide, o co­ noide iperbolica o parabolica », avvertendo che « questi corpi, benché espressi in termini insueti, sono però usati dagli archi­ tetti, e massime le sferoidi, che sono corpi ovati e tengono il secondo luogo appresso la sfera [mentre] i conoidi fatti col modello d'una iperbola o parabola girata in tondo sopra ii suo asse... rade volte vengono in uso, e sono o poco o niente conosciuti dagli architetti, con tutto ciò perché sono simili ad un mezzo ovo, o vogliamo dire sferoidi [così che] quello che si dirà di esse si potrà anche facilmente applicare a questi corpi men conosciuti » 4• :È. lo stesso problema che Guarini pone nel Modo di mi- , surar le fabbriche. Rivolgendosi a Giovanni Andrea Ferrari conte di Bagnuolo, egli auspica che il suo interlocutore « ...havrà à caro di vedere in queste... carte doppo tanti se-­ coli da Archimede sin bora trascorsi, trovate à molte sodezze, e superficij più precise misure, e soggettati anche quei corpi 8 al compasso, che ribelli sonosi vantati sin bora del titolo


d'immensurabili e irrationali, e protervi, sdegnando ogni Geometria non hanno permesso che gli s'accosti, se non ap­ presso a poco... » s_ I corpi che vanno « vinti e assoggettati » hanno eviden­ temente per Gua1;ni un duplice significato. Da un lato essi traggono la loro garanzia di razionalità dall'immanenza della matematica nella mens divina; dall'altro pongono all'esplora­ zione umana il tema della sintesi fra razionale e irrazionale, fra conoscibile e inconoscibile, fra evidenza logica e simbo­ lismo ermetico, fra astrazione e organicità. Le ambigue erme - vere e proprie rappresentazioni cal­ cificate della nascita della materia dal caos primigenio, del­ l'Ordine da un Informe dotato di vita - che Guarini pone ai lati dell'ingresso alla SS. Sindone, dimostrano la volontà di trovare una connessione fra la matematica come certezza (si veda l'insistenza sul rigore costruttivo delle curve e delle superfici complesse nelle tavole 31-39 dell'Architettura civile), e la matematica come porta che si dischiuda da un lato verso la magia, dall'altro verso le inquiete dimensioni di un na­ turalismo vitalistico e simbolico. Non solo. Per questa via il Guarini scopre che la sua casistica di forme, oggettivamente e impersonalmente co­ struite, possono tradursi in immagini solo con la mediazione di un'ars combinatoria che ha a sua volta due faccie. Da un lato essa tende a divenire operazione alchimistica, dall'altro tecnica del condizionamento psicologico. Se, infatti, la geometria è una « forma simbolica » in quanto rivela - come già la cabala cristiana, per il Ficino, per il Fludd o per lo Jamnitzer 6 - la struttura profonda dell'universo, si potrà ben vedere nella programmata dialet­ tica dei corpi geometrici delle architetture guariniane un vero e proprio intento alchimistico: dallo scontro dei corpi puri scaturisce l'intima energia della materia. Ma quella geo­ metria, una volta divenuta immagine architettonica, va al di là di sé stessa. Conoscendo la forma attraverso un lucido e complesso itinerario intellettuale, lo spettatore sarà condotto a ripiegarsi su sé stesso, a controllare la successione delle proprie operazioni di lettura. 9


La logica architettonica parte dalla matematica, ma solo per trascenderla. In tal senso la matematica stessa si riduce a tecnica del discorso corretto; la logica architettonica è li­ bera dalla logica aristotelica solo per affondare nella Reto­ rica come strumento di controllo delle comunicazioni visive 7• A questo punto diviene chiara l'ipotesi che proponiamo come interlocutoria. Il Guarini architetto sembra superare il Guarini matematico e filosofo, ponendo il tema della sintesi fra le due vie dell'ortodossia aristotelica ed euclidea, e della logica di Port Royal. Le « matematiche dimostrazioni» possono essere viste come la via che conduce ad un mondo inesplorabile me­ diante i soli strumenti logici. L'esperienza è scienza del sog­ getto e solo mediatamente dell'oggetto: per troppi versi il Guarini appare legato alle correnti « eretiche » del naturali­ smo cinquecentesco (Bruno compreso), perché sfugga quando nei suoi scritti teorici sia stranamente assente ogni accenno alle tradizioni ermetiche 1. Esperienza e scienza, dunque, o, meglio ancora, Retorica aristotelicae nuovo sperimentalismo. Ma i due binari su cui corre la ricerca guariniana non possono più approdare ad una sintesi definitiva. La retorica, che si manifesta nella dia­ lettica degli spazi, negli artifici tecnici, nel geometrismo come « matematica del miracolo », non è più adatta a celebrare una ricerca - come quella scientifica - sempre pronta a rivolu­ zionare sé stessa. Né gli antichi valori trascendenti, con tutto il loro bagaglio simbolico e misterico, trovano più con­ ferme alla luce del nuovo universo, laico e concreto, di­ schiuso dalla scienza. Il valore maggiore del Guarini è quindi proprio là dove egli -dimostra, senza volerlo, che fra arte e scienza la sintesi cercata con strumenti tradizionali è ormai impossibile. In tal senso l'architettura guariniana può es­ sere vista come un'architettura della contraddizione. È molto importante, a tale proposito, seguire alcune tesi contenute nel saggio della Tavassi La Greca, posto in appen­ dice alla nuova edizione dell'Architettura Civile. Seguendo una traccia impostata dall'Argan e dal Del Noce, l'autrice 10 esamina le indubbie relazioni esistenti fra la posizione del


Guarini architetto e filosofo e l'occasionalismo filosofico del Malebranche 9• I Piacila Philosophica del Guarini, sicura­ mente noti al Malebranche (essi costituiscono infatti il nu­ cleo delle lezioni tenute dal modenese a Parigi), vogliono di­ mostrare che l'atto di fede non è altro che un ossequio alla razionalità. Sia per Guarini che per Malebranche la fede è conoscenza come è conoscenza l'indagine matematica. Espe­ rienza, ragione, principi scientifici, sono immanenti in Dio. L'arte può quindi perfezionare l'opera della natura, non può trasformarla creativamente. È a questo punto che si rivela il perché del rifiuto gua­ riniano ad un intervento architettonico strutturalmente con­ nesso alla dialettica urbana o ai processi di trasformazione del territorio. Se, infatti, l'architettura deve solo commentare la « mi­ racolosa» razionalità della Natura, se, al massimo, può estrarre da essa i materiali geometrici adeguati ad un'alchi­ mistica intersezione di corpi geometrici, se, ancora, l'accordo fra l'artificio, il miracolo e la tecnica umana non trova altre ragioni che il disegno divino, allora la stessa tecnica diviene un atto di fede: e come tale sarà obbligata ad inchinarsi di fronte alla tradizione o all'autorità della storia. È proprio per questo che il Guarini si costringe ad igno­ rare - come parallelamente fa il Borromi11!i. - la dimensione dell'intervento urbano. O meglio, isolando accuratamente i suoi oggetti architettonici nella loro interna articolazione for­ male, ripiegandoli su loro stessi in una spietata verifica della loro coerenza e della loro organicità, egli imposta una dram­ matica dialettica fra quegli oggetti e l'ambiente urbano, come a voler sottolineare - contro la poetica berniniana, t! in al­ ternativa, più tardi, all'insegnamento di Carlo Fontana e del­ l'ambiente dell'Accademia di S. Luca - l'estraneità della tecnica stessa alla « costruzione » dell'ambiente umano 10• Piuttosto che costruire, l'architettura deve autogiustifi­ carsi: a ciò servono i complessi riferimenti alla Cabala cri­ stiana, all'ars magna del Lullo, agli emblemi tradizionali, alle artificiose tecniche di comunicazione di un Fludd. Anche la tradizione ermetica cui il Guarini si richiama è opposta a 11


quella cui si riferisce un John Dee, capace (come Keplero, del resto), di fondare una propria ricerca di utilizzazione ci­ vile della speculazione magico-scientifica 11• Non possiamo quindi concordare con l'interpretazione della Tavassi La Greca, là dove questa legge nella ricerca guariniana una raggiunta sintesi di scienza ed esperienza. « Non è necessa·rio - scrive l'autrice 12 - stabilire un pre­ dominio dell'esperienza sulla ragione e della ragione sul­ l'esperienza, dal momento che pensiero e realtà sembrano situarsi in posizione dialettica: la cosa pensata non è la cosa reale; ma una scienza adeguata di essa non può averla che Dio. Quel che all'uomo può sembrare contraddizione, non lo è in quanto presente in Dio, perfezione assoluta. È possi­ bile, nell'ambito di questo sistema, una coesistenza, una in­ tegrazione delle due visioni del mondo, dei due mezzi di co­ noscere la verità: la razionalità matematica non nega, anzi comporta il ricorso all'esperienza; su tale dualismo si im­ posta la base del conoscere umano per Malebranche, come per il Guarini ». Un dualismo, certo. Ma basta leggerlo nella realtà di opere come la Consolata a Torino, il S. Gaetano a Vicenza o la SS. Sindone, per accorgersi che l'astrazione matematica entra in conflitto con un universo simbolico e - cosa che più conta - con le sollecitazioni critiche e sperimentali che dominano la dialettica spaziale di quegli organismi. Sarebbe molto difficile dimostrare che Guarini intenda comporre compiutamente quel dissidio. L'ars combinatoria guariniana separa i « materiali » su cui interviene, non dà per scontata la sintesi. L'organicità della forma è ancora un obbiettivo finale: ma è perseguita come per scommessa, tra­ mite un'avventura intellettuale ricca di incognite. Dialettica interna agli organismi e agli spazi, contrapposizione di orga­ nismi e apparati decorativi o narrativi, astrazione geometrica contestata dai più complessi - e spesso esoterici - contenuti simbolici: sono tutte tensioni interne alla natura delle archi­ tetture guariniane, lasciate, spesso, allo stato puro. (In tal senso le più compiute interpretazioni dell'eretico spazio bi12 nario della Consolata sono, nel '700, gli organismi di Cristoph


Dientzenhofer a Smirice e dell'Aleijadinho per Ja chiesa di S. Francesco ad Ouro Preto: la sintesi è ora permessa dall'in­ nesto di un gusto «popolare » dell'immagine sulla scientista composizione guariniana). Ma, contemporaneamente, tale criticismo si crea un li­ mite al di là del quale non accetta di inoltrarsi. Il contrasto fra il Guarini e il Caramuel - malgrado sia ormai accertato che dal Vescovo di Vigevano il Guarini abbia tratto molti spunti e molte notizie, specie sugli edifici medievali spagnoli, utilizzate nell'Architettura civile - è al proposito sintoma­ tica. L'Architectura obliqua del Caramuel è infatti un singo­ lare tentativo di dimostrare per assurdo che un geometrismo rigoroso non può che compromettere gli assiomi sintattici del Classicismo: non a caso per architectura recta il conte di Lobkowicz intende - in senso ciceroniano - quella me­ diata da norme a priori. Le assurde colonne deformate in el­ lissoidi, nei portici ellittici esemplificati dal Caramuel in pole­ mica con il Bernini, o le analoghe deformazioni degli ordini negli scaloni (accettate sotto condizioni dalla Juvarra e da sporadici e tardi epigoni, ma già sperimentate, a Roma, dal Del Grande nello scalone di Palazzo Doria e, prima ancora, dal Della Porta), sono assai più «coerenti», nel loro esaspe­ rato razionalismo, delle mediazioni guariniane 13• Per Caramuel l'estrema razionalità delle leggi geometri­ che dimostra l'irrazionalità del sistema classicista. Per Gua­ rini (forse contrario al Caramuel anche sul piano religioso: non vanno dimenticati i tentativi da questi fatti nella com­ posizione di cattolicesimo e dottrine eretiche), l'irrazionale va prima trasformato in metafora magica, poi artificialmente integrato nella struttura razionale dell'immagine. Anche nell'architettura, quindi, la sintesi del Guarini è di tipo occasionalista. Guarini scopre come verità sostan­ ziale la realtà delle contraddizioni: la esprime - o meglio la rappresenta - nell'organizzazione delle immagini, ma si cura di prestare ad essa una soluzione pacificante con il ricorso al simbolismo o a quella fonte di divine certezze che è la ma­ tematica. Ciò che storicamente appare di primaria impor­ tanza è che, malgrado la qualità dei suoi sforzi, non è più la 13


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volontà soggettiva dell'artista, ora, che si può rilevare capace d1 comporre dissidi giunti all'apicè della loro tensione. Il « progetto» culturale guariniano è la restituzione della totalità dell'Essere - nel doppio processo che va da Dio agli uomini e viceversa - nella complessità di un atto di fede compiuto con l'architettura. Nel labirinto in cui egli affonda alla ricerca di certezze rese più solide dalla loro stessa pro­ blematicità, è obbligato a scoprire l'imminenza di una crisi senza più appelli. Su tale base vanno ridimensionate tutte le ipotesi circa la modernità del razionalismo guariniano (e vittoniano) 14• « Il Guarini - scrive correttamente la Tavassi La Greca 15 - con­ clude [nel capitolo De Arte dei Placita Philosophica] che l'idea è causa formale estrinseca: non perché si realizzi nella materia, ma perché riconduce la materia dall'imitazione di sé (idea) a qualcosa di estrinseco. Difatti è l'idea alla cui somiglianza deve essere prodotto l'effetto: quindi è forma estrinseca; forma, in quanto per essa viene prodotto in quel modo, estrinseca, poiché l'idea stessa non passa dalla mente dell'artista all'opera, ma l'artista operando la imita. Non può e�sere causa effettiva poiché non ha influsso reale sull'opera d"arte. Non può essere forma vera perché non si mostra. Per la qual cosa sarà soltanto causa estrinseca ed impropria; e piuttosto condizione direttiva che vera e proprio causa». Ma a cosa serve tutto questo involuto inseguire labili légittimazioni metafisiche dell'opera umana? Di fronte a tale disperata ricerca di sicurezze trascendenti, ha veramente un senso riferire le moderate affermazioni di indipendenza del Guarini rispetto ai modelli dell'antichità, alla distruzione ba­ coniana degli Idola o allo sperimentalismo galileiano? 16• Può persino passare in secondo piano, a tale proposito, che i Placita guariniani siano assai più glosse tomistiche che ana­ lisi aderenti alle nuove premesse del pensiero scientifico. Ciò che conta è che nel verificare, con coraggio spesso, la somma delle conoscenze acquisite o, in architettura, le convenzioni ormai istituzionali, il Guarini sia assai più preoccupato di ricongiungere direttamente la speculazione filosofica e I'attività di progettazione aLla Verità che vive in Dio, senza me-


diazioni° troppo ingombranti, che di sottoporre a critica ra­ dicale l'universo deLle certezze comunemente accettate. In questo senso, quindi, la scienza è per Guarini un un ostacolo - necessario e persino invocato - da superare assoggettandolo, piuttosto che un nuovo metodo di cono­ scenza e di trasformazione del mondo. Guarini non è disposto ad avventurarsi nel pericoloso « vuoto» delle nuove scienze. Egli ha bisogno piuttosto di non tagliare i ponti con le antiche fedi; per questo vuole ricondurre quelle scienze nell'ambito delle tradizionali si­ curezze. Se la sua architettura mostra assai più lo scacco che la riuscita della sua ricerca di sintesi è perché, storica­ mente, la composizione delle contraddizioni non è più possi­ bile: almeno per chi - come il Guarini - decide di imboc­ care la strada della presa di coscienza di una realtà alta­ mente conflittuale. È quindi per noi inaccettabile la tesi del Carboneri, il quale afferma che il Guarini « ripercorre il cammino di Leo­ nardo, in un tentativo di sintesi di ratio scientifica e di fan­ tnsia artistica » 17• Se è vero che da Leonardo, come da tutta l'elaborazione manierista, il Guarini trae molte indicazioni per la sua ri­ cerca di aggregazioni spaziali multiple, è anche vero che a lui sfugge il significato più profondo del « naturalismo inte­ grale » leonardesco. L'occasionalismo del Guarini è l'antitesi più diretta del laico e spregiudicato sperimentalismo di Leonardo: in questo Guarini e Malebranche non sono certo in disaccordo. Così, come il Malebranche riduce la pericolosità del ra­ zionalismo cartesiano riunificando in Dio res cogitans e res extensa, il Guarini riduce la pericolosità della crescente im­ por,tanza dei processi tecnologici, piegandoli ad esaltare le qualità trascendenti dello spazio e della luce. In tal senso la posizione antigalileiana espressa nei trat­ tati filosofici del Guarini non è solo conseguente alla loro osservanza per le ambigue scelte della Chiesa sui temi della scienza. Quell'antigalileismo rivela qualcosa di più: è indice di un evidente rifiuto della spregiudicatezza sperimentale e 15


del rischio, tipici del nuovo pensiero scientifico. L'appello della Retorica serve a proteggere l'architettura da scelte che possono mettere in crisi la lunga tradizione del Classicismo. Non è a caso che solo quando si avrà il coraggio di spezzare la catena di quella tradizione, l'architettura sarà in grado di dare risposte adeguate ai problemi a lei posti dal travol­ gente sviluppo del nuovo universo laico e borghese. MANFREDO TAFURI

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I GUARINO GUARINI, Architettura civile, Classici italiani di scienza, tecniche ed arti, Trattati di architettura, voi. 8°, ed. Il Polifilo, Milano, 1968. Introduzione di NINO CARl)ONERI, note e appendice di BIANCA TA­ VASSI LA GRECA, note sulle questioni matematiche di M. NASTI. 2 M. NASTI, nota 1 al cap. V, osservazione prima, della Architettura civile, cit., p. 32. L'osservazione guariniana si riferisce alle definizioni matematiche degli angoli e delle rette. 3 Ibidem, p. 33. • G. GUARINI, op. cit., tr. IV, cap. VII, ip. 378. « � un'autentica ger­ minazione di nuove forme e strutture - annota il Nasti (ibidem, nota 1) - geneticamente connesse l'una con l'altra, quella che il Gua­ rini propone, qui come altrove, agli architetti del suo tempo: germina­ zione rivoluzionaria ma allo stesso tempo garantita e resa pienamente legittima dalla sua stessa razionalità, cioè dalla matrice stessa del suo pl'Ocedimento genetico, che è quello della matematica, anzi della rigo­ rosa tradizione euclidea; di una matematica che può anche, in senso malebranchiano, identificarsi in Deum, con la logica stessa». s G. GuARINI, Modo di misurare le fabbriche, Torino, 1674, lettera dedicatoria al Generale delle Finanze di Sua Altezza. 6 Di estrema importanza, per l'esplorazione sistematica dell'intera speculazione gnostica ed ermetica, da cui artisti come Borromini e Guarini sembrano aver attinto largamente, sono gli studi di FRANCES A. YATES, Giordano Bruno and the Hermetic Tradition, London, 1964 (trad. it., Laterza, Bari, 1969), e The Art of Memory, London and Chi­ cago, 1966. Di particolare interesse le conclusioni dell'autrice, che de­ molisce - analogamente a quanto tentiamo di fare per il mito guari­ niano - gran parte delle interpretazioni arbitrarie del pensiero del Bruno, assai più immerso nella tradizione magica rinascimentale di quanto non si proiettasse nelle avventure della scienza sperimentale. 7 � provabile la relazione che lega il metodo figurativo guariniano alla Poetica aristotelica, ed in particolare ai commenti cinquecenteschi di essa. « Logica della peripezia » e retorica come metodo di conoscenza sono i principi che teorici cinquecenteschi come il Castelvetro, il Vet­ tori o il Robortello, diffondono in tutti i settori dell'ars poetica. Cfr.: G. DE1.LA VOLPE, Poetica del Cinquecento, Laterza, Bari, 1954; G. MOR­ PURGO TAGLIABUE, Aristotelismo e Barocco, in Retorica e Barocco, Atti del III Congresso Internazionale di studi umanistici, Roma, 1955. Un corretto confronto fra gli sviluppi della retorica e le ricerche architet­ toniche delle avanguardie del '600 è nel secondo volume di L. BENEVOLO, Storia dell'architettura del Rinascimento, Laterza, Bari, 1968. Sul neo.. manierismo guariniano cfr.: WERNER HAGER, Guarini. Zur Kenm.eichnung


seiner Architektur, in Miscellanea Bibliothecae Herlzianae, ecc., A. Schrol! verlag, Milnchen, 1961, ,pp. 418-428; P. PORTOGHESI, Guarini a Vicenza. La chiesa di S. Maria in Aracoeli in « Critica d'arte• 1957 n. 20, pp. 108 e sgg. e n. 21, pp. 214 e sgg.; R. WITTKOWER, A;t anci Architecture in [taly 1600 lo 1700, Harmondsworth, 1965; R. PoMJ.ma, Eighteenth-Century Architeclure in Piedmont. The Open Structures of Juvarra, Alfieri and Villone, New York-London, 1967, pp. 7-12; M. TA­ FURI, Retorica e sperimentalismo. G. Guarini e la tradizione manierista,

nel volume degli atti (in pubblicazione) del Convegno torinese. s Su tali argomenti sono particolarmente interessanti - malgrado la loro arbitrarietà - le interpretazioni del Battisti e di Marcello Fa­ giolo, della Sindone e del S. Lorenzo torinesi. II Fagiolo, in ,partico­ lare, ha letto lo schema ·planimetrico della Sindone confrontandolo con Io schema cosmologico dell'eclisse di sole rappresentato dal Guarini nel suo trattato di astronomia, per avanzare l'ipotesi di una rappre­ sentazione della Passione del Cristo e della sua Resurrezione nell'im­ pianto iconologico dell'organismo guariniano. Cfr. E. BATTISTI, Schemata cosmologici, musicali e geometrici del Guarini, e M. FAGIOLO, Geosofio. del Guarini. Spunti iconologici per la SS. Sindone, in pubblicazione negli Atti del Convegno torinese. 9 Cfr. G. C. ARGA.-:, L'architettura barocca in Italia, Garzanti, Milano, 1957, p. 63; ID., L'Europa della capitali, Skira, Ginevra, 1964, p. 123; Io., Storia dell'arte italiana, Sansoni, Firenze, 1968, III voi., pp. 371-374; A. Da NOCE, Il problema dell'ateismo, Bologna, 1964, p. 194. Un'ipotesi che si può ragionevolmente avanzare riguarda la precedenza delle tesi del Guarini rispetto a quelle del Malebranche, che può averle apprese nel corso del soggiorno parigino dell'architetto. II saggio della Tavassi La Greca non fa cenno di questa possibilità, confermando sostanzial­ mente le ipotesi precedenti. 10 Su questo tema si è soffermata ANDREINA GRISERI, in Le meta­ morfosi del Barocco, Einaudi, Torino, 1967, ma cfr. anche: M. TAFURl, Retorica e sperimentalismo, cit. 11 Cfr. JOHN DEE, prefazione a H. BIWNGSLEY, The Elements... of Euclid, London, 1570. Sul Dee cfr. Fa. A. YATES, Giordano Bruno, cit., pp. 168 e sgg. :È importante osservare che con il Dee la tradizione er­ metica inizia a perdere il suo carattere astratto e ad entrare nel nuovo universo del pensiero scientifico (parallelamente le ricerche del Thorpe e degli Smythson compiono, nell'architettura di età elisabettiana e gia­ cobita, un'analoga operazione di de-simbolizzazione). II legame fra il pensiero del Dee e le tesi del Wren sull'utilizzazione civile della scienza non va sottovalutato, anche per precisare la distanza che separa lo spe­ rimentalismo del Wren da quello del Guarini, molto spesso arbitraria. mente avvicinati fra loro. 12 B. TAVASSI LA GRECA, Appendice all'Architettura civile, cit., p. 444. 13 Sul Caramuel esistono due studi, della De Bernardi Ferrero e dell'Oechslin, ma l'enorme interesse della sua figura e dei suoi trattati scientifici (Matematica, Roma, 1663; Mathesis Audax, Lovanio 1642), teologici (Theologia Fundamentalis, Francoforte, 1651), musicali (Ut, Re, Mi, Fa... Ars nova musica, Vienna, 16421, Roma 16622), architettonici, richiede ancora analisi particolareggiate e circostanziate. Cfr. DARIA DB BERNARDI FERRERo, Il Conte Ivan Caramuel di Lobkowitz vescovo di Vi­ gevano, architetto e teorico dell'architettura, in «Palladio», 1965, XIV, n. 1-4, pp. 91 e sgg.; WERNER OECHSLIN, Guarini e Caramuel, negli atti del Convegno cit. 14 Si veda, ad esempio, il passo dei Piacila Philosophica (al cap. De Arte, p. 214, riportato in nota e 1;assunto nel testo dell'Appendice cit., pp. 448-452), in cui il Guarini riprende, in fondo senza molte va-

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riazioni, il tema, caro alla letteratura teorica del Manierismo, delle relazioni fra Idea divina e Idea umana. 1s Op. cit., p. 451. 16 Ibidem, pp. 444-445. 11 N. CARB0NERI, l1ttrodu1.ione all'Architettura civile, cit., p. XL. 1=: un peccato che la precisa introduzione del Carboneri, così avvertita e pun­ tuale nei suoi riscontri filologici e così completa nei riferimenti biblio­ grafici, indulga, nel finale, alla deprecabile moda dcli'« attualizzazione» dei fenomeni storici presi in considerazione. Scrivere, ad esempio, che « ri11essi guariniani illuminano il verticalismo dell'Antonelli, le tensioni lineari di Anatole De Baudot, l'espressionistica sovrapposizione di vo­ lumi di Wenzel August Hablik », significa appiattire la prospettiva sto­ rica ed impedirsi di comprenderne la dialettica, oltre che la disconti­ nuità. (A parte lo scorretto confronto fra il criticismo sperimentale di architetti come Guarini o Antonelli, e le mediocri astrazioni grafiche di uno Hablik, ingenuamente sopravvalutate - insieme alla produzione di figure come Fiensterlin o Krayl - da chi ha interesse a coprire, piut­ tosto che a scoprire, la realtà storica dell'architettura attuale). Ciò non per sminuire la -pregevole fatica di uno studioso come il Carboneri, ma par sottolineare i danni provocati dai sempre più diffusi atteggiamenti critici che, alla ricerca dell'« operatività», si fanno pro­ dutt01i di ambigue mitologie.

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Il centro della città (definizioni)

La rassegna che segue è parte di una più vasta ricerca avente per tema la struttura di quell'area dell'organismo ur­ bano che, in prima approssimazione, possiamo chiamare il « nucleo » della città. Tale ricerca investe gli aspetti storici, i rilevamenti, la dinamica, la fenomenologia degli interventi e tende a costituke una selezione della ricca letteratura in­ ternazionale riguardante il tema suddetto. In questa sede ci limiteremo ad un ragguaglio relativo alle sole definizioni di questa parte dell'organismo urbano, le quali, se talvolta assumono differenze puramente nominali, assai spesso denotano idee e concetti notevolmente dissimili. Questo divario terminologico va dalla differenza propria del­ ] 'uso delle diverse lingue che rimandano a specifiche tradi­ zioni nazionali - si pensi al termine « city » - ai neologismi urbanistico-funzionali - valga per tutti il CBD (centrai bu­ siness district) americano - fino a quei termini sostanzial­ mente programmatici e progettuali, quali l'italiano « centro direzionale » che addirittura si pone in alternativa al centro della città. In questo arco vastissimo di definizioni cercheremo di specificarne per ognuna significato e relazioni, origine se­ mantica e condizione storica, gli assunti teorici e le indica­ zi.oni operative. La nostra rassegna riguarda alcuni paesi dell'Europa Occidentale e gli Stati Uniti d'America. Nelle città dell'Europa occidentale la nozione di centro appare oggi singolarmente complessa, portando il peso di una storia e di una cultura, la cui esperienza va cancellandosi solo lentamente. 19


In Francia, il vocabolarismo comune e quello della ri­ cerca specialistica è particolarmente povero per quanto at­ tiene al centro della città. Oltre a questo termine, volonta­ riamente vago e globale, non vi è ammesso alcun altro equi­ valente. Non esiste in francese, infatti, alcun sinonimo delle due nozioni di Inner city o di core 1• La sola nozione di ori­ gine straniera che ha finito per avere un certo successo è quella di city, non senza prestare il fianco talvolta a confu­ sione 2 ( ••• ). Questa nozione ha in primo luogo un contenuto storico ( ...). È la città per eccellenza, almeno fino al XIX secolo. Poi essa viene usata in seguito per la circolazione, salvo ad arricchirsi successivamente soprattutto di un contenuto funzionale. Ed è allora che tale nozione risponde alla doppia definizione di city e di CBD 3• Essa, infine, ha anche un si­ gnificato sociale e culturale 4•

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La funzione del centro, per una città della dimensione di Parigi 5, è triplice, come emerge dagli studi condotti dal­ l'Istituto di Geografia della stessa metropoli: vi si decide, vi si offrono dei servizi, vi si contratta. Si evidenziano, così, tre ruoli ben distinti 6: quello decisionale, quello commerciale e quello di raccolta dei servizi. Il ruolo di « capitale economica » comporta una funzione amministrativa per l'intera provincia ed una funzione di rappresentanza sulla piazza di Parigi degli affari provinciali ed esterni alla prov•incia stessa. Il ruolo di « metropoli » ri­ siede nella prestazione di servizi rari; rarità che è legata al carattere eccezionale della domanda (senri.zi specializzati nel settore tecnico e giuridico), al prezzo del servizio riservato ad una clientela assidua ma ristretta ( commercio e servizi di lusso), infine rarità legata alla concentrazione economica riservante alle società, sia pubbliche che private. l'offerta e la domanda di operazioni speciali, come banche ed assicura­ zioni. Il ruolo di « forum », infine, con l'organizzazione delle relazioni intercorrenti tra venditori e compratori di beni e servizi. Durante tutto l'arco dell'intera giornata lavorativa, l'esercizio di questa triplice funzione raccoglie nei quartieri cen-


trali dirigenti ed impiegati. In prima approssimazione, quindi, la definizione del centro degli affari di Parigi è da indivi­ duarsi nella concentrazione della popolazione fluttuante e di contro nella scarsa presenza di popolazione residente che, dal 50% del 1876, è passata al 15% dell'intera popolazione nel 1962. Il declino del ruolo residenziale, poi, avvicina il centro degli affari di Parigi a quello delle altre principali metropoli europee, e sotto certi aspetti a quello dei centra[ business districts americani 7• In Germania molti studiosi, sotto l'influenza della .teoria dei « luoghi centrali » del Christaller 8 hanno indicato appli­ cazioni in proposito su vaste aree del paese, per analizzare lo schema delle funzioni centrali all'interno delle città. Hartenstein e Staack, nel 1965, eseguirono per conto del­ l'lnstitut fur Angewandte Sozialwissenschaft di Bad Godes­ berg una inchiesta in sei città tedesche di circa 500.000 abi­ tanti sulle rispettive aree centrali, per quanto attinente al­ l'uso del terreno ed alla superficie di pavimento (floor space) occupato dalle varie attività « centrali ». Sulla scorta degli studi americani di Murphy e Vance 9, ma con i dovuti ac­ corgimenti per l'adattamento del metodo alla situazione te­ desca 10, essi riuscirono a delimitare il cuore (hard core) delle diverse città, stabilendo come un blocco edificato po­ tesse essere considerato incluso nel «core» soltanto se più del 50% della sua superficie totale di pavimento fosse usato per attività « centrali» (department stores, negozi di merce scelta, banche, amministrazioni comunali, società di assicu­ razione). Nel confronto dei risultati ottenuti per le varie città, essi trovarono come soltanto l'l % dell'area urbanizzata com- · peteva al cuore vero e proprio. Di questo, poco più del 50% era effettivamente costruito e circa 1/3 era destinato a su­ perficie di traffico. Gli uffici coprivano in media l'aliquota più elevata di superficie di pavimento (floor space) (40,3%) davanti alle residenze ed ai negozi al dettaglio. Ad aree cen­ trali più vaste, comunque, non corrispose un aumento parallelo della superficie destinata ad usi commerciali, il che pro- 21


babilmente dipendeva dalla circostanza che le città più grandi avevano già decentrato tali loro funzioni, ad un. tasso supe­ riore a quello registrato in quelle più piccole 11• Dal punto di vista delle definizioni, però, questo studio ricalca fedelmente i criteri proposti da Murphy e Vance per nove città americane di taglia leggermente inferiore (250.000 abitanti) ed in definitiva non può rappresentare un contri­ buto europeo al tema proposto. Più attinenti, invece, figurano i risultati di uno studio di carattere sociologico condotto a Karlsruhe 12 nel 1965, dove i cittadini ivi immigrati ed i giovani della città tendevano ad iclentificare il termine di town centre con quello di CBD (Cen­ tral business District), i residenti più anziani od i nativi, vi­ ceversa, con un complesso valutato come centro essenzial­ mente culturale. In Svizzera, una definizione basata sulle funzioni caratte­ ristiche del centro venne per Zurigo da H. Carol del Dipar­ timento di Geografia della York University di Toronto. Il centro venne definito, in un primo approccio, come la localizzazione di tutti i tipi di funzioni « centrali » che rie­ scono a soddisfare la domanda dell'intera città, piuttosto che di una sola parte di essa. La concentrazione nel « cuore » di funzioni centrali a tendenza essenzialmente centripeta risultò dipendente dalla maggiore accessibilità dell'area in questione, dalla possibilità di più stretti contatti tra le diverse ditte presenti e tra loro interdipendenti e con le sedi di affari au­ siliari come banche, uffici postali, servizi vari, e dalla dispo­ nibilità per tali localizzazioni centrali di godere di una più vasta scelta di personale potenziale 13• In Inghilterra, ufficialmente, il town-centre, con la sua concentrazione di popolazione diurna e di traffico, con la sua varietà di usi del terreno, la intensità di fabbricazione, con il suo interesse storico e civico, gli elevati valori del ter­ reno, viene definito come la parte più vitale di ogni città dal

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Majesty's Stationery Office 14• L'Oxford English Dictionary definisce core della città, a sua volta, la parte centrale più intima, il cuore di ogni cosa. Il gruppo inglese dei CIAM la


definì come l'elemento che fa di una comunità una comunità e non soltanto un aggregato di individui 1s. Il caso di Londra è ovviamente più complesso. Essa ha una city distinta in due parti, corrispondenti all'incirca alle due antiche città di Londra e Westminster. La prima, defi­ nita lo Square Mile (il miglio quadrato) a carattere spiccata­ mente finanziario, e la seconda, il West End, sede degli uf­ fici del governo, dei grandi magazzini e dei locali di diverti­ mento 16 • La cristallizzazione di questo sdoppiamento porta la data del 1900, comune a tutte le maggiori metropoli mon­ diali. I quartieri residenziali di lusso perdono tale carattere a vantaggio dell'espansione del primitivo cuore della città, come testimoniano i Grands Boulevards di Parigi e la Mid­ town di New York 11. In Olanda, secondo il Kok, dello Stad en Landschap di Rotterdam 18 possono distinguersi tre zone al centro delle principali città: il core, con la maggiore densità e concentra­ zione di attività, una zona complementare adiacente, dove gli indici di centralizzazione 19 sono all'ordine dei 2/5 del valore massimo; ed una zona di transizione verso i distretti resi­ denziali, con un indice pari ad 1/5 del valore massimo. Il core o town centre è rimasto per queste città una zona commerciale di massa per i residenti del centro, ma si è andato sempre più trasformandosi in una area specializ­ zata per la vendita di articoli rari per l'intera conurbazione; cioè le merci giornaliere sono andate gradualmente scom­ parendo, mentre sono sempre più reperibili i prodotti di lusso e le specialità tipiche del settore « merce scelta». La zona di transizione, per contrasto, è in via di progressivo deterioramento, e le ditte commerciali in essa presenti in una prima fase stanno ora trasferendosi nel « core» o de­ cisamente verso la periferia, nelle nuove strutture commer­ ciali del tipo shopping centres. L'urban core di Amsterdam, a detta di M. Van Hulten 20 non può definirsi un'area ma piuttosto un tessuto di strade, apparendo ben differenziato dal resto della inner city. Esso, lungi dal trasferirsi, sta invece consolidandosi ed espanden­ dosi in direzione sud-ovest; la diminuzione di popolazione 23


residente si è in esso presentata molto prima che nel resto del centro, anche se più della metà è da ascriversi alla ridu­ zione dell'indice di affollamento piuttosto che ad uno spopo­ lamento vero e proprio. Sua caratteristica saliente è però la maggiore « mobi­ lità» della ridotta popolazione residente, e ciò almeno a con­ fronto con quella dell'intera inner city. Degno di particolare attenzione è in esso il relativo basso numero di presenze in­ fantili (0-14 anni), la scarsa ampiezza in media dei nuclei fa­ miliari e l'elevato numero, di contro, di uomini e donne soli, i primi impiegati o liberi professionisti, le seconde comun­ que economicamente indipendenti 21• È ancora da notare che, in questa sezione della città, si­ tuata nella parte più interessante (the canal zone) dal punto di vista storico ed architettonico, la velocità di demolizione (6.927 mq.) e quella di ricostruzione (5.292 mq.) tra il 1957 ed il 1962 fu così elevata che si è giunti alla conclusione che, continuando questo ritmo, un renewal totale (incluso il re­ stauro) può prevedersi entro i prossimi cinquanta anni 12• In Svezia, nel 1960, l'area centrale di Staccolma rappre­ sentava la più massiccia zona di lavoro all'interno di una città, ed il cuore vero e proprio ospitava ben 100.000 attivi durante le ore del giorno, dei quali 7.000 vi avevano anche stabile dimora. Dall'epoca del concorso internazionale per la sistema­ zione di Lower Norrmalm ( 1933-34) fino ai giorni nostri, l'esodo della popolazione residente è continuato a ritmo sem­ pre più intenso, e proprio per porvi rimedio venne varato il 1962 Ars Cityplan (zoning plan) tendente a definire le desti­ nazioni d'uso future della parte centrale della città (Inner­ staden) 23 24• Il centro effettivo, all'interno di lnrzerstaden è un'area alquanto ristretta, con una cubatura rinnovata di appena 226.000 mc., con 38.700 mq. di superficie di pavimento destinata ad uffici, 13.000 mq. a negozi, oltre a parcheggi per circa 700 auto 25• Esso rappresenta quel nucleo (Hotorget) che intorno al 1900 cominciò ad ospitare le attività direzionali e commerciali traboccanti dalla vicina isola della città vec24 chia (Gamla-Stan), quella cioè che viene considerata attual-


mente come il centro « antico » di Stoccolma e conosciuta anche con l'appellativo di « città tra i ponti » (Staden mellan broarna) ancora oggi ospitante il palazzo reale e la maggior parte degli uffici governativi 26• Non che Hotorget non avesse un carattere antico, ma le esigenze della ristrutturazione hanno forzato la mano agli urbanisti, soverchiando in importanza proprio quel carattere ottocentesco che le era proprio, ed il rinnovato centro ha preso consistenza, non senza qualche polemica. Oggi Hotor­ get, alla stregua dei centri delle città americane sottoposte a renewal, può definirsi come la concentrazione di tutte quelJe attività direttive e commerciali, ricettive e di diverti­ mento degli esempi citati. In Italia, come negli altri paesi finora trattati, non può dirsi chiaramente esplicitata la definizione di centro della città, almeno in un contesto che non sia sufficientemente vago. E. N. Rogers, nel 1954, senza peraltro riferirsi specifi­ camente alla situazione nazionale, scriveva: Il cuore non può essere né il centro degli affari delle operazioni capitalistiche, né la fabbrica assunta a simbolo d'una società proletaria. Il cuore della dttà deve essere un luogo atto ai più distesi ra1r porti umani: la conversazione, la discussione, lo shopping, il piropeo, il flaner, e quell'impagabile « dolce far niente» che, nel suo significato migliore, è l'espressione più naturale della contemplazione u. La distinzione ancora tra « centro storico» e « centro an­ tico», accolta ufficialmente per il piano regolatore di Roma, è stata più voite sottolineata da Pane: La parola « antico » esclude sia il moderno che il nuovo, e quindi compete al pri­ mitivo nucleo urbano, mentre « storica» è tutta la città, non escluse le sue parti moderne ( ... ). Insomma l'antico è storico, ma non tutto ciò che è storico è antico 28• Questa distinzione non significava, però, che il « centro antico» abbia cessato di esistere, come rileva lo stesso au­ tore, perché, assai spesso, esso ha continuato a vivere, anche se in condizioni diverse. Il termine « centro direzionale », apparso di recente nel dizionario urbanistico italiano, è invece ben altra cosa che 25


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centro della città» inteso nel senso di cui sopra e co­ munque definito al di là dei confini nazionali. Il « centro direzionale » viene mostrato piuttosto come la « chiave di volta» della nuova città 29, almeno secondo il parere di alcuni urbanisti italiani, dal momento che v'è chi si mostra dub­ bioso al riguardo, ipotizzando che esso possa rimanere sem­ plicemente un altro esempio suburbano pianificato (planned suburban center) 30• In ogni caso, a parer nostro, il seme dell'ambiguità sem­ bra gettato. Per la prima volta, scrive Aymonino 31, noi rom­ pianw con la tradizione internazionale (... ). Questa tradizione è irreale e non funzionale (... ). Noi, (col centro direzionale) stiamo inventando - sebbene ancora incertamente - un or­ ganismo di nuovo tipo. Il centro direzionale è la prima proposta per collocare una parte delle attività direzionali non tanto al di fuori del centro storico (antico), quanto al di fuori delle trasformazioni che un determinato tessuto edilizio esistente deve subire per accogliere nuove attività per le quali non era stato proget­ tc.to né costruito. Se tale collocazione deve avere una certa estensione (non può, infatti, coincidere con uno o più isolati) al fine di man­ tenere la concentrazione di tutta quella parte di attività che non può essere assorbita dalle trasformazioni avvenute, è evi­ dente che ha bisogno di un'area più o meno libera: comun­ que da trasformare completamente. In questo senso, le atti­ vità direzionali si collocano in un «centro» nuovo, definito per l'appunto « direzionale» 32• E che il termine sia « strettamente nazionale» (nella sua confusione, ma anche nelle implicazioni più complesse che si possono attribuire grazie all'indeterminatezza d'origine) viene chiaramente evidenziato da Aymonino, che si è occu­ pato diffusamente dell'argomento 33• Nella introduzione al suo scritto apparso sul « Journal of the American Institute of Planners» (agosto 1965) 34 Cor­ vin R. Mocine premette come sia evidente che i nuovi centri direzionali italiani possano risolvere taluni problemi, ma ne 26 facciano crescere molti altri ( ... ). Alla luce della nostra espe«


rienza è sorprendente verificare come gli urbanisti italiani de­ liberatamente cerchino di incoraggiare il decentramento del­ l'attività economica, col progettare nuovi centri di affari (bu­ siness centers) periferici nella maggior parte delle più grandi città italiane ( ... ). Questo modello potrebbe facilmente dege­ nerare nel tipico indifferenziato srpawl (dispersione) delle larghe aree metropolitane degli Stati Uniti d'America, ed in effetti, l'attuale sviluppo visibile intorno alle maggiori città i1aliane è di tipo similare ( ... ). Come pure è in dubbio se il centro antico ed i nuovi centri programmati possano coesistere come vitali centri eco­ nomici di una singola regione metropolitana. Ma tale giudizio o dubbio non sembra provenire sol­ tanto d'oltre oceano. Il Ganser, infatti, dell'Istituto di Geo­ grafia del Collegio universitario per la Tecnologia di Monaco di Baviera, è giunto alla conclusione che la « core area » debba rimanere il centro (della città), il luogo delle attività, dell'esperienza e della speculazione (adventure), dove il modo urbano di vivere possa mostrarsi. Si può presumere che né la capacità economica né la vitalità di una comunità saranno sufficienti a creare un centro assolutamente nuovo 35• Anche in Italia, il parere di Canella 36, peraltro piena­ mente condivisibile, non sembra collocarsi in una prospettiva favorevole a questa « invenzione »: A tutt'oggi, scrive lo stesso, con « Centro direzionale » si esprime spesso soltanto un aspetto formale della città, caratterizzato da un contrap­ punto volumetrico eccezionale, piuttosto che da un insieme di scelte politico-economiche strettamente connesse a un'area geograficamente definita. A parte tali dubbi o giudizi nel merito, risulta evidente come il « centro direzionale » sia essenzialmente un progetto mentre il « centro della città » sia quello effettivamente esi­ stente come tale ed attualmente funzionante, anche con tutte le insite carenze facilmente iiscontrabili. Negli Stati Uniti d'America la letteratura e le relative de­ finizioni del nostro argomento sono assai ampie e complesse. La teoria delle zone concentri.che avanzata da Burgess nel 1920 pone al centro dello schema delle principali città ame- 27


ricane il Centrai Business District, come punto focale della vita commerciale, sociale e civica e dell'organizzazione dei trasporti della città. La Sector Theory di Homer Hoyt (1937) evidenzia come gli usi residenziali del terreno vadano di­ sponendosi per «settori» radiantisi dal centro della città, lungo le linee più veloci delle infrastrutture di trasporto. Harris ed Ullman (1959), nel loro Multiple nuclei concept hanno finito per combinare insieme le teorie delle «zone concentriche» e dei «settori», ed aggiungono certi altri «in­ gredienti » nell'esemplificare lo schema delle destinazioni d'uso delle città americane. Essi ricordano che frequentemente lo schema di siffatte destinazioni d'uso risulta cristallizzato intorno a diversi nu­ clei distinti piuttosto che intorno ad un unico centro, così come postulato nelle teorie delle «zone concentriche» e dei «settori» 37• In seguito, Ullman ha evidenziato per primo che vi è oggi una tendenza diffusa a credere che il «central bu­ siness district» possa perdere la sua unicità e diventare, cioè, uno dei molti « centri» della città. Esso può ancora rima­

nere il più importante, ma con una importanza relativa mi­ nore che in passato 38• Nel configurare un modello di un'area metropolitana De­ briner, in un discorso più vasto che risente delle definizioni statistiche ufficiali statunitensi, pone al centro dell'area la central city 39 densamente costruita, con il sui CBD in po­ sizione dominante ed i Major Retail centers 40 a corona. Fuori i confini della centrai city si estendono i «suburbia», costi­ tuiti da città minori (towns) e villaggi (villages) con una den­ sità abitativa merio alta della centrai city, fino a giungere alla terza area concentrica rappresentante la frangia urban_o­ rurale 41. Tralasciando le altre teorie dello sviluppo urbano in varie epoche formulate, sembra opportuno qui mettere in ri­ salto come il P.roudfoot 42, nella sua descrizione della strut­ tura del commercio al dettaglio delle città americane, pose già nel 1937 l'accenno sull'importanza che per essa rivestiva il Centra[ Business District. Nell'«Economie Geography» del luglio '54 appunto il 28


CBD viene definito come il cuore della città (city) americana, ed a giudizio del Bendtsen 43 come la zana omogenea (cohe­ rent area) nel centro della città dove più del 50% dell'area (floor area) di ciascun blocco viene utilizzato a scopi commer­ ciali. Qui si trova la più grande concentrazione di uffici e negozi al dettaglio riflessa nei valori più elevati del terreno e negli edifici più alti. Qui, ancora, è il fuoco centrale del traffico pedonale ed automobilistico 44• Nel volume « Parking » della ENO Foundation for High­ way Tratfic Contro/ viene suggerito come l'area del CBD possa essere definita nel modo che segue: I confini possono essere individuati reperendo quei luoghi centrali della città nei quali i posti-parcheggio lungo i marciapiedi, nelle ore di punta, cessano di essere completamente occupati, e dove co­ minciano ad apparire talune residenze, per cui l'area a piano terra non è più a lungo completamente occupata da attrez­ zature commerciali 45 • Il CBD è il fuoco della regione urbana ed il centro delle principali attività, secondo la Wilbur Smith and Associate 46• E di tale parere si mostrano Meyer, Kain e Wohl, riferendo in una loro opere delle definizioni degli esperti 47• Rannells, nel suo studio su Philadelphia (1956) 48, pun­ tualizza come nel CBD di ogni città si trovi la più estesa concentrazione di edifici reperibili all'interno dei confini am­ ministrativi, la più massiccia presenza di attrezzature per il commercio al dettaglio, la più evidente e pesante congestione di traffico di tutti i tipi, e la principale fonte di reddito (tax­ rnvenue) per l'amministrazione comunale. Esso (il CBD) con­ tiene la più estesa porzione dei più antichi fabbricati della città oltre che dei più nuovi; le ditte (business fìrms) in esso presenti sono allo stesso tempo le più stabili e conservatrici e le più intraprendenti innovatrici. E qui si trovano i più apparenti vantaggi di libera scelta per quelle ditte che de­ vono localizzarsi a diretto contatto di altre di tipo differente (closely located establishments). Non solo il «centrai districh contiene la più ampia concentrazione e mescolanza di diffe­ renti tipi di ditte (establishments); esso è soprattutto carat­ terizzato da una concentrazione di attività generalmente non 29


reperibili altrove; specialmente quelle inerenti ad utfi.ci cen­ trali, bancari, commerciali, teatri etc., serventi l'intera area metropolitana. Né dalle definzioni fin qui riportate si discosta quella formulata dal Bureau of the Census dell'U.S. Department of Commerce, per il quale il CBD è una zona di elevatissimo valore del terreno; un'area caratterizzata da una elevata con­ centrazione di affari commerciali, uffici, teatri, alberghi ed attività di servizio alle prime connesse (service business); ed un'area di considerevole -flusso di traffico 49• Malgrado la coincidenza più o meno diffusa tra le varie definizioni del CBD non può concludersi come tale termine abbia negli Stati Uniti un significato « standard », cioè comu­ nemente accettato. La sua puntualizzazione deriva da un am­ pio, indifferenziato concetto di « downtown », includente ogni elemento di quelli sopra descritti, concetto che può aver spinto Bartholomew a puntualizzare nel lontano 1932 come il CBD sia qualcosa di un'area non ben definita, con confini· non ben precisati. Un più attento sforzo di chiarificazione al riguardo, però, almeno nelle intenzioni, può dirsi dovuto al Gruen, coll'introduzione nell'elenco di un nuovo termine in­ dicante il centro delle città statunitensi. Nella sua opera « The Heart of our Cities » egli parla del « metropolitan core ». Espressioni ora in uso, egli scrive 50, si riferiscono alla « DOWNTOWN » o « CBD ». La parola « downtown » (città bassa) ha origini confuse. !:. originaria di New York, dove essa si riferiva soltanto all'area della vecchia città intorno a Wall Street, in contrapposizione alla « MIDTOWN » ed alla « UPTOWN ». Ora, la « downtown » di New York era già sorta prima della rivoluzione del 1776; essa· occupava all'incirca quel ter­ reno che l'olandese Pieter Minuit pagò agli Indiani 24 dollari, mentre attualmente vale più di 25 miliardi. Col pasare degli anni sorsero appunto la « midtown » e la « uptown ». Co­ munque, il riferimento del Gruen alla primitiva definizione dell'area centrale di questa città sembra poco calzante in quanto colà la « midtown », almeno a partire dal 1900, è 30 stata prescelta come sede dei grandi magazzini i quali, ab-


bandonando la « downtown » vera e propria, cioè il distretto finanziario intorno a Wall Street, si sono progressivamente spostati al di sopra della 34ma strada, e dai negozi di merce scelta che hanno straripato al di là della 42ma, non che dai centri decisionali di nuove industrie s1_

La « midtown » di New York, quindi, è sorta in effetti dallo sdoppiamento della primitiva « downtown» e rappre­ senta due miglia quadrate sul totale di 8,6 della parte di Manhattan a sud del Centrai Park, potendosi al giorno d' oggi considerare come la seconda « downtown » della città, a ca­ rattere strettamente commerciale e sub-decisionale, in con­ trapposizione al carattere strettamente finanziario ad alto livello della primitiva. L'espressione CBD, ancora, continua il Gruen, è non sol­ tu.nto illogica, ma chiaramente sviante. Essa implica che il cuore di una città debba servire soltanto agli affari e, seb­ bene ciò è sfortunatamente vero per le aree centrali di alcune città americane, non è certamente desiderabile. Cosa noi in­ fondiamo, allora, col termine « metropolitan core » è l'area più altamente urbanizzata, la quale idealmente contenga un completo rango degli usi più intensamente produttivi e delle funzioni urbane più significative non solo nel campo degli af­ fari e della civica amministrazione ma anche nelle attività culturali, ricreative, sociali, spirituali, con quartieri residen­ ziali ad alta qualità e densità. Il termine « metropolitan core», quindi, parrebbe essere, con la sua stessa definizione, di contenuto piuttosto ideale, m·a la differenza tra « downtown » e « city core» o « city centre» - per il Gruen - resta. Infatti, nella sua relazione al 2° Congresso dell'lnternational Association Town-planning and Distribution, tenutosi a Stoccolma nel maggio 1969 ed avente per tema: Has downtown still a future? (Ha la down­ town ancora un futuro?, il Gruen si mostra turbato 52 dalla circostanza che l'espressione americana di « downtown » sia stata adottata in quel congresso al posto dei termini più si­ gnificativi di « city core» o « city centre » (senza però più menzionare il« metropolitan core»). Il termine« downtown», egli scrive, implica automaticamente il tipico centro di una 31


c:.ttà americana che 11011 rappresenta più un cuore urbano integrato e multifunzionale, ma piuttosto un luogo per uffici privati e burocratici governativi oltre che un ambiente per talune strutture commerciali di massa. Avendo dinnanzi l'im­ magine delle dozzine di tipiche « american downtowns » con i loro ingorghi di traffico nelle ore di punta e con il loro vuoto squallore allorquando uffici e negozi sono chiusi, con l'assoluta mancanza di ogni significato sociale, civico, arti­ stico e spirituale, io risponderei che la « downtown » non ha futuro. Ma, veri « city centres » o « city cores », aventi piena opportunità per il rifiorire di tutte le funzioni urbane, incluse - e ciò è essenziale - quelle residenziali, che rico­ prano l'intera scala economica, hanno non solo un enorme. passato, ma, se si pianifica con sensibilità, anche un deciso promettente futuro. A dir il vero, dai brani su riportati, non sembra di scor­ gere le significative differenze prospettate dal Gruen, ed a conforto si cita in prosieguo quanto ebbe ad affermare l'Alexander 53 alla 20th Annual Regional Plan Conference di New York del novembre '65, precisando che quando egli usava il termine «downtown » per indicare il centro della città si riferiva essenzialmente al piccolo e densamente sviluppato «core of the CBD ». E la sua definizione attribuiva all'area in discussione la concentrazione degli edifici per il commercio al dettaglio e per uffici, nei quali abbondano servizi di ogni tipo, non escluse però le attività culturali, e laddove è più caratteristica ogni forma di iterazione sociale. Ma le varie definizioni come «cuore», «vital core» e si­ mili appaiono, per lo stesso autore, piuttosto dei clichés, e l'esperienza lo ha indotto, a suo dire, ad assumere più perti­ nente quella di «action area (area di azione) in contrapposi­ zione alle «stable areas» (aree stabili) presenti nelle città, prendendo a prestito tale definizione dall'Intemational Fe­ deration for Housing and Planning s.1. In effetti, dopo un approfondito scandaglio, si può con­ cludere come i termini di « downtown », di « CBD » ed altri talvolta vengono adoperati nella letteratura americana senza 32 sostanziale differenza, e talaltra con · sfumature troppo dif-


ficili in generale da individuare. In ogni caso, il termine di cc metropolitan core » introdotto dal Gruen non compare in alcuno degli studi che i vari esperti di diverse discipline hanno condotto per le città americane dalle taglie più sva­ riate. Ciò che invece finisce con l'emergere dall'analisi dei differenti studi citati è che il termine « CBD » in USA con­ terrebbe, in effetti, oltre alla specifica attribuzione di centro degli affari, a n c h e quelle attribuzioni come « cuore » e ,, cervello » più consone alla individuazione del « centro della città ». A sostegno di questa asserzione si registra la positiva po­ sizione di Durben e Marble 55 e la constatazione di K. Boven­ berg il quale, esaminando gli scritti contenuti nell'« AIP Journal » del febbraio '61 56, giunge alla conclusione che in essi il termine di « city center » è sempre sostituito da quello dì CBD, H quale, in sintesi, sarebbe stato adoperato proprio iP. un senso meno restrittivo e perciò includente tutte le altre attribuzioni eccedenti quelle affaristiche. Del resto, lo stesso Durden, nella III lecture della 107th Session del Salzburg Seminar in American studies (gennaio '67) espresse il suo personale parere al riguardo: Il « core » della città ha molti nomi. I più diffusi sono « downtown »,

CBD », « cuore della città», « cuore della regione», « CBD » e « Downtown » sono i termini più comuni. Non appena i ,, business » diventano meno importanti, « Central Employ­ ment District » e « Centrai area » sono i nuovi termini usati. Il che significa che,· se voi entrate in una « urban region » e trovate un luogo individuabile dalle seguenti caratteristiche, allora probabilmente voi stessi siete nel « core »: 1) La pi.ù larga concentrazione di attività commerciali al dettaglio; 2) Presenza di edifici per uffici di sedi centrali ( « head­ quarters otfices »); 3) Fuoco dei sistemi di trasporto collettivo ( « mass tran­ sit » a scala regionale); 4) Il più elevato valore del terreno per « square foot »; 5) La più elevata concentrazione di densità lavorativa nei 33 differenti blocchi; «


6) Il più grande accentramento di attrezzature per par­ cheggio a più piani; 7) La più ampia serie di differenti attrezzature commer­ ciali, includenti commercio al dettaglio, finanza, SERVIl/, RI­ CREAZIONE, ed attrezzature pubbliche non commerciali. (Nota: « In effetti io ho definito il CBD »). In conclusione, è sorprendente notare, con Horwood e Boyce, che, fatta eccezione per la definizione emessa dal Bu­ reau of the Census, molta poca attenzione sia stata data in USA al fattore terminologico�. Tale circostanza, in misura non meno trascurabile, si verifica anche allorquando ci si addentri nella possibilità di individuare e defirùre talune zone all'interno dello stesso CBD. Non v'è dubbio, infatti, come sia possibile distin­ guere in esso almeno un'area di più precipua caratterizza­ zione dir"ezionale, definita dai più come « CBD-core ». L'estre­ ma concentrazione ivi reperibile di attività di tipo «cen­ trale» è stata ritrovata nella maggior parte delle città ame­ ricane, ed un definitivo contributo al riguardo è fornito dalle risultanze delle inchieste Origine-Destinazione colà effettuate. Città come Philadelphia e St. Louis mostrano, ad esem­ pio, in quest'area specifica, valori di viaggi per persona (per­ son trips) o per veicoli (vehicle trips) su ogni mezzo e per unità di area (unit ground area) sei volte superiori a quelli riscontrati nel resto del CBD, il che sta appunto a signifi­ care la presenza massiccia di popolazione diurna (daytime po­ pulation) nel core 58• Più determinante, e potremo dire senza contrasti, ap­ pare la definizione relativa alla «scala pedonale» del core, al quale viene attribuita una dimensione orizzontale rara­ mente eccedente il miglio (km. 1,6093) e comunque non di­ rettamente proporzionale alla popolazione della città o del­ l'area urbanizzata relativa 59• Nella citata pubblicazione della ENO Foundation il « core» viene definito come il gruppo di blocchi contigui, nel quale la domanda per parcheggio, blocco per blocco, su­ pera l'offerta. Indipendentemente dall'ampiezza della città il 34 «core» del CBD copre circa il 25% dell'area dell'intero


centro. Esso contiene il 20% dei posti-parcheggio, ma è la « destinazione» di più di 2/3 degli «shoppers» della città 60, Le definizioni, invece, divergono per quanto attiene al­ inclusione di certe attività nel «core», come quelle com­ merciali 61 , amministrative ed automobilistiche. Horwood e Boyce, infatti, in polemica con Murphy e Vance, sono del parere che occorra misurare il volume delle vendite delle varie ditte prima di inserirle nel «core» stesso, mentre vi­ ceversa siano da considerarsi endemiche le attività di tipo amministrativo, e decisamente estranee quelle relative alle grosse strutture di parcheggio ed alle agenzie di vendita e servizio di autoveicoli, le quali ultime finiscono per rompere l'omogeneità _delle destinazioni d'uso e provocano conflitti sempre più pesanti tra mezzi e pedoni. Le suddette diffe­ renze hanno spinto gli autori citati addirittura ad attribuire a Murphy e Vance la « sinonimia» tra CBD e CBD-core (hard core), mentre, di rimbalzo, Murphy evidenzia come il « core » ed il « frame » insieme, così come descritti da Horwood e Boyce, includono considerevolmente più della «downtown-area» di quanto sembri ragionevole includere nel CBD 62• Vance, in seguito, ha finito col riconoscere una ulte­ riore classificazione delle destinazioni d'uso all'interno del CBD. In definitiva, egli scriveva nel 1962 63, sembra come i' CBD sia diventato il «mass seller» per la parte interna di una metropoli, lo « specialty seller » per la « geographical city», e l'« office-area» per l'intera regione, individuando al­ l'intero del CBD la tendenza alla separazione tra l'area per il commercio e quella per gli uffici, congiunte da una zona di parcheggi al servizio di entrambe 64• Il «frame» (cornice) nel CBD è stata di contro la re­ gione meno studiata, e gli stessi Murphy e Vance la hanno trattato nei termini più generali possibili; in ogni caso essi hanno evitato di considerarla come una zona vera e propria o come una parte distinta di esso. Park e Burgess, nel loro classico studio « The City», de­ finiscono detta a1·ea circondante il fuoco centrale come una «zona di transizione» 65• Gli edifici in essa sorgenti, essi · 35


dicono, spesso sono datati di epoca anteriore al tram a ca­ valli, e si trovano a distanza pedonalmente percorribile dal centro della città. Harris ed Ullman, dal canto loro, non trattarono il « frame » come un'area separata dal « CBD-core », ma piut­ tosto come l'insieme di diversi distinti « distretti » 66• Horwood e Boyce, sostenitori per primi del « CBD core­ frame concept », evidenziano come sebbene taluni hanno ri­ conosciuto alle attività del « frame » caratteristiche simili alle attività reperibili nel « core », quelle presenti nel « fra­ me » sono state generalmente considerate soltanto come « no­ di» separati ( ad es. Industrie manifatturiere leggere, com­ mercio all'ingrosso, trasporti, etc.) piuttosto che come costi­ tuenti una parte distinta della struttura del CBD 67• Una delle definizioni più esplicite, in ogni caso, appare quella individuante questa parte del centro come l'area ca­ ratterizzata specialmente da usi non commerciali (non-retail land use), al di fuori del CBD-core 68, ma all'interno del CBD stesso. La sua struttura è evidenziata come l'insieme di subfoci caratterizzati principalmente da commercio all'ingros­ so con depositi, parcheggi in sede propria, agenzie di ven­ dita e stazioni di servizio per auoveicoli, edifici di abitazioni multifamiliari, terminals dei sistemi di trasporto collettivo, in­ dustrie manufatturiere leggere e taluni usi istituzionali ( ... ). Sebbene ognuno dei due (core e frame) abbia distinti attri­ buti se esaminati all'interno del concetto di « core-frame », occorre ricordare come essi rappresentino in realtà una uni­ tà (CBD), e ciò a causa dei molti collegamenti e delle fun­ zioni complementari che essi svolgono per un mutuo funzio­ namento 69• Data la diversità delle posizioni assunte dai diversi stu­ diosi nelle varie epoche e quella delle definizioni emerse fin qui riportate, non sembra agevole distinguere dei limiti netti tra le varie zone della città e fra le varie parti costituenti il « centro·» della stessa. Non sempre, nell'Europa occidentale, il centro attuale delle città coincide col primitivo centro « antico »; e quando ·36 ciò accade, la necessità per la salvaguardia degli obiettivi


storici ed urbanistici di grande valore corale complica di gran lunga lo sviluppo razionale degli stessi. L'invenzione «italiana» del «centro direzionale» si colloca appunto nel contesto di tale difficile situazione. Questi centri, comunque, nell'un caso o nell'altro, non sono ancora paragonabili, almeno sul piano delle definizioni, ai CBD degli Stati Uniti d'America. I quali ultimi, a nostro avviso, sembrano piuttosto far parte delle rispettive down­ towns, anzicché esserne sinonimi. In quanto alla loro suddivisione interna, non sembra possibile fornire allo stato un gudizio preciso. Già quella operata in CBD core e frame, cui si è fatto cenno, evidenzia di per sé come per taluni il «core» sia in effetti la parte più «intensa» del CBD (hard core) e come il resto del CBD non possa assimilarsi al concetto di «core-frame» espresso da altri, con la sua tendenza ad invadere la « inner city», al di là degli ipotetici confini del CBD vero e proprio. Né la distinzione riportata sembra configurarsi come runica possibile, dal momento che Mallows e Beinart, ad esempio, tendono a complicarla con l'introduzione tra l'hard core ed il frame di una particolare « periphery», corrispon­ dente ad un'area di espansione e di transizione contigua al primo 70• In questo contesto, la classica « city» inglese verrebbe a coincidere grosso modo con il CBD-core e frame americano, sebbene v'è chi, invece, la ritiene più ampia del centro stes­ so così inteso, ma comunque non identificabile totalmente con _la « central area », comune alle due letterature, la quale ultima, oltre a comprendere il cuore «antico» della città, risulterebbe anche composta da una frangia interna (inner fringe) e dalla cosiddetta zona crepuscolo (twilight zone) della città 71• Gli esperti di varie discipline riunitisi nel settembre '66 ad Amsterdam convennero come il termine di «urban core » a sua volta potesse considerarsi più ampio di quello di CBD, definito dal Census USA. Nella stessa sede venne inoltre definito l'«urban core» come un termine funzionale, mentre «inner city» come un termine di significato squisita- 37


mente geografico. Quest'ultimo viene usato approssimativa­ mente come un equivalente del termine statistico «centrai ai ea », generalmente comprendente la porzione più antica dell'area costruita (built-up-area) di una città 72• :e. ovvio, a questo punto, come non sia del tutto proficuo sostare a lungo nel campo delle pure «definizioni», in quanto una tale posizione rimarrebbe di significato e contenuto piut­ tosto astratto e senza riferimenti a situazioni operative. Lo sforzo, però, per una comune definizione di «centro » an­ drebbe sostenuto da tutti gli studiosi della città. Esso do­ vrebbe tendere a risultati più vasti e globali, non ultimo quello della comparazione di più centri, tradizionalmente, geograficamente e culturalmente dissimili. Sebbene ogni «centro » abbia avuto ed avrà sempre ca­ ratteristiche peculiari dipendenti dalla stessa struttura eco­ nomica delle rispettive città o regioni di appartenenza, la standardizzazione della sua definizione, in uno con un co­ mune criterio di delimitazione dello stesso, potrà sempre più in avvenire aiutare all'approfondimento ed alla comprensione della sua intima caratterizzazione, e fornire tutti quelli ele­ menti che più stanno a cuore agli amministratori ed ai pianificatori delle città. Scopo, o speranza, r:::sta quello di poter prevedere la futura consistenza del «centro », la sua probabile ristruttu­ razione, la sua continua trasformazione, in una parola la possibilità della sua sopravvivenza. FRANCO SBANDI

1 MARcEL RONCAYOLO, Reflexion de methode, in Urban Core and Inner City, E. J. Brill-Leiden, 1967 (Proceedings of the international study week, Amsterdam, 11-17 scptember, 1966), pp. S0J.504.

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2 La city per gli inglesi è il centro della città, o almeno una parte di esso; per gli americani city è la città di una certa consistenza, in contrapposizione a town, piccola città di provincia. 2 CBD è l'abbreviazione usata dagli americani per il Centrai Busi­ ness District, cioè letteralmente « distretto centrale degli affari ». 4 MARCEL RONCAYOLO, Op. cit., p. 505. s Il centro urbano, per città come Londra, Stoccolma, Milano, Am­ sterdam e Parigi, generalmente occupa una superficie compresa tra lo 0,13 e lo 0,51 % dell'intera superiìcie della relativa conurbazione. La densità di popolazione intorno al 1960 variava tra i 112 ab/ha di Amster,


dam ed i 351 ab/ha di Parigi, come leggesi, in Paris et huit métropoles mondiales, voi. 2 dei Cahiers de l'Institut d'aménagement et d'urbani­ sme de la région parisienne, Paris, 1965, pp. H-18. 6 Cfr. PIERRE R.rouET, Le quartier de l'Opéra et l'évolution du centre d'affaires de Paris, in Urban core and /nner city, op. cit., p. 144. 7 �er i Centrai business districts in generale cfr. MARY VANCE, City Planrung and Landscape Architeclure Library, University of Illinois January 1963, Exchange Bibliography, n. 23. s Cfr. CI-IRISTALLER W., Die zentralen Orte in suddeutschland, Jena, 1953 ed altri. 9 Cfr. R. E. MURPHY e J. E. VANCE, Delimiting lhe CBD, in « Eco­ nomie Geography », voi. 30, n. 3, JuJy 1954, ed in collaborazione con J. B. EPSTEIN, Internal Structure o/ the CBD in « Economie Geography », voi. 31, n. 1, January 1955. 10 Gli indici usati da questi studiosi differiscono da quelli adottati da Murphy e Vance in quanto includono nel centro anche certi « usi ,. come quelli amministrativi e governativi, esclusi viceversa dagli stu­ diosi americani. 11 Cfr. W0LGFANG H,\RTENSTEIN e GUNNAR STMCK, Land use in the urban core, in Urban core and inner city, op. cit., pp. 35--52. 12 Cfr. HANS-JOACHIM KLEIN, The delimitation o/ the town-centre in the image of its citizens, in Urban Core and lnner City, op. cit., pp. 281'>-306. 13 Cfr. HANS CAR0L, The Hierarclzy o/ Centrai Functions within the City in The IGU Symposium in Urban Geography, C.W.K. Gleerup Pu­ blishers, Lund, 1962, pp. 555--576. 14 Cfr. L0NDON: HER M,UESTY'S STATI0NERY OFFICE, Town centres, a� proach lo renewal, Planning Bulletin n. I, 1962, p. 2. 1s Cfr. CIAM, Il cuore della città, Hoepli, Milano 1954, p. 160. 16 Cfr. C!AM, op. cit.. 1). 97. 17 Cfr. PETER HALL, Le città mondiali, II Saggiatore, Milano 1966, p. 34. 18 Cfr. BERTIL LAPALU, The Factors behind decline in city centres of European towns, in Has downtown stili a future? Proceedings of 2nd international congress of International association Town Planning and distribution, Stockholm 1969. 19 Per indici di centralizzazione vengono generalmente indicati ta­ luni parametri che individuano la centralità o meno di particolari atti­ vità od usi del terreno. I criteri per la loro determinazione appaiono allo stato alquanto variabili e dipendono dalle assunzioni dovute ai vari studiosi nelle diverse situazioni prospettate. I più comunemente ac­ cettati sono lo Shop rent index di W. Olsson, il Trade inde., di Sund ed Isachsen, il Tota[ Height Jndex, il Centra/ Business Height /ndex ed il Centrai Business /ntensity Jndex di Murphy e Vance, il • Block­ fro11tage-volume-0f-sales •• di Malcom J. Proudfoot, ed altri. 20 Cfr. M. VAN HuLTEN, In search o/ the urban core of Amsterdam, in Urban Core and /nner city, op. cit., -p. 183. 21 Per l'analoga situazione dei CBD americani cfr. R. L. NELSON, Tlze Se/ection of Retai/ Locations, F. W. Dodge Corporation, New York, 1959, p. 23. 22 M. VAN HULTEN, Op. cit., p. 193. 23 1962 ars cityplan, Axel Vanje, Stadskollegiets Reklamkommitté, Sièisteens, Stockholm. 2A SVEN MARKELlUS, Stocklzolm City, in « Arkitektur "• 11-1962. 25 « Arldtektur •, n. 11, 1962, p. XXXVIII. 26 Cfr. W. W. OLSS0N, Stockholm, structure and development, AJm­ qvist e Wiksell, UppsaJa 1961.

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27 CIAM, op. cit., p. 73. 28 R. PANE, Problemi di restauro e urbanistica dei centri antichi, in Attualità dell'ambiente antico, La Nuova Italia, Napoli, 1%7, p. 64. 29 Cfr. MANFREDO TAFURI, Studi ed ipotesi di lavoro per il sistema direzionale di Roma, in « Casabella », n. 264, 1962. .lO Cfr. C0RWIN R. MOCINE, New Business Centers for Jtalian Cities, in « Journal of the American Jnstitute of Planners », voi. XXXI, n. 3, August 1965. 31 CARLO AYM0NIN0, Il sistema dei centri direzionali nella Capitale, in « Casabella » n. 264, giugno 1%2. 32 c. AYMONINO e P. GIORDANI, J Centri Direzionali, De Donato editore, Leonardo da Vinci, Bari, 1967, p. 17. 33 c. AYl\l0NIN0 e P. GIORDANI, op. cii., p. 17. 34 C0RWlN R. MOCINE, op. cit. 35 K. GANSER, Mobility, a feature of the reside11tial function o/ tlte inner city, in Urba11 core and inner city, op. cit., p. 201. 36 GuIOO CANEUA, Vecchie e nuove ipotesi per i centri direzionali, in « Casabella » n. 275, maggio 1963. 37 R. E. MURPHY, The American City, McGraw-Hill Book Company, 1966, p. 214. 38 R. E. MURPHY, op. cit., p. 216. 39 Secondo il Census Bureau degli S.U. d'America non tutte le città di 50.000 o più abitanti, situate in una standard metropolitan area, sono da considerarsi necessariamente « central cities •· La città più grande di ogni SMA viene considerata la « principal centrai city•. Ogni altra città di 25.000 abitanti o più può classificarsi come « centrai city• se la sua popolazione è 1/3 o più di quella della • principal central city•· Comunque, mai più di tre città vengono considerate • central cities,. in una standard metropolitan area. Le Standard metropolitan Statistical Areas (SMSA) introdotte dal Censimento del 1960 non diffo. riscono a questo riguardo gran ché dalle primitive. Cfr. MURPHY, op. cii., p. 17. 40 I Major Retail Centers (MRC's) vengono definiti dal Census Bu­ reau come quelle concentrazioni di negozi al dettaglio (collocate all'in­ terno della SMSA's nelle quali si trovano città con CDSs, ma fuori dei centri stessi), includenti almeno un « department store • (major generai marchandise store). Tali .MRC's includono non soltanto i • planned suburban shopping centers,. ma anche quelle attrezzature commer­ ciali al dettaglio disposte lungo le principali arterie, o nei sobborghi purché abbiano i requisiti già menzionati. 41 Cfr. W. Dl.lllRINER, Class in suburbia, Prentice Hall Inc. New Jersey, 1963, p. 143. 42 Cfr. M. J. PR0UDFOOT, City retail structure, in « Economie Geo. graphy », voi. 13, 1937. 43 P. H. BENDTSEN, Town and Traf/ic in tlze motor age, Danish Technical Press, Copenhagen, 1961, p. 7. 44 Cfr. R. E. MURPHY e J. E. VANCB, op. cit. 45 P. H. BENDTSEN, op. cit., p. 7. 46 Cfr. Parking in the City Center, Wilbur Smith and Associates, New Haven, Connecticut, May 1965, p. 1. 47 Cfr. MEYER, KAIN, WoHL, The Urban Transportation Problem, Har­ vard University Press, Cambridge, Mass., 1965. 48 JoHN R�NELLS, The Core of the City, A Pilot Study of Changing Land Uses in Centrai Business District, Columbia University Press, New York, 1956, 1968, p. 51. 49 BURI!AU OF THE CENsus U.S., Department of Commerce, 1963 Census of Business, Summary report, BC63-MRC.1, p. II.


so V1crOR GRUEN, The Hear1 of our cilies, Thames and Hudson, Lon­ don, 1965, p. 47. 51 Cfr. PETER HALL, op. cii., pp. 184--196. 52 V. GRUEN, Cenlres in melropolilan regions, in Has down1own slill a future?, proceedings of the 2nd international congress of the interna­ tional association town-planning and distribution, Stockholm, maggio

1969.

53 Laurence A. Alexander è l'editore del periodico • Downtown Idea Exchange • che si occupa negli Stati Uniti di tutti i problemi connessi con i CBDs. S-1 L. A. ALEXANDER, The Region's Smaller Downlowns: Whal Role in The Future? A paper presented at the 20th Annua! Regional Pian Confercnce, New York, nov . .1965. 55 Cfr. D. DURDEN e D. MARBLE, The Role of Theory in CBD Planning, in « Journal of the American Institute of Planners », special issue, voi. XXVII, n. 1, feb. 1961. 56 Cfr. KEES BoVENBERC, Planning and Inner Coly Research, in Urban Core and Inner City, op. cit., p. 372. 57 HoRwooo and BoYcE, Studies of the Centrai Business District and Urban Freeway Developmenl, University of Washington Prcss, Seattle, 1959, p. 14. 58 Cfr. HORWOOO e BOYCI!, op. cit., p. 11. 59 Cfr. HORWOOD e BOYCI!, op. cii., p. 16. 60 Cfr. P. H. BENDTSEN, op. cii., ip. 7. 61 Cfr. HORWOOD e BoYCE, op. cii., p. 15. 62 R. E. MURPHY, op. cii., p. 313. 63 J. E. VANCE jr., Emerging Patterns of Commerciai Slructure in American Cilies, in The IGU Symposium in Urban Geography, op. cit., p. 518. 64 • Mass seller » sta per mercato di massa per la popolazione della parte interna di una metropoli, • specialty seller » per mercato di pro­ dotti e servizi rari per la popolazione della città intesa nel senso geo­ grafico della parola e « office area» per area di uffici al servizio dell'in­ tera regione. 65 Cfr. R. E. PACK and E. W. 8URCESS, The City, University of Chi­ cago Press, Chicago, Ili., 1925. 66 Cfr. HARR1S and UU.MAN, The Nature of Cities, AAAPSS, CCXLII, nov. 1945, p. 15. 66 HoRWOOD and BOYCE, op. cii., p. 19. 68 HoRWOOD and BOYCE, op. cit., p. 20. 69 HoRWOOD and BOYCE, op. cii., pp. 20.21. 70 Cfr. E. W. N. MAU.ows and J. BEINART, Plamiing in the CBD, the Potential of the Periphery, in « Traffic Quarterly », Aprii 1966. 11 Cfr. K. C. EowARDS, Trends in Central Area Differentiati-On, in The JGU Symposium in Urban Geography, op. cit., p. 519. 72 Cfr. Urban Core and Inner City, op. cit., p. 527.

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Lettura storico- semiologica di Palmanova

Nel proposito cli estendere all'urbanistica - intesa come proiezione su più vasta scala del campo spaziale ove si ma­ nifesta il fenomeno architettonico - un metodo di lettura e di interpretazione fondato sull'approccio semiologico, sem­ bra opportuno premettere alla analisi-campione di un caso concreto alcune considerazioni di carattere generale che pos­ sono ulteriormente chiarire, prima di tutto a noi stessi, le prospettive culturali e storico-critiche dell'esperimento di ri­ cerca. In via preliminare, si è pertanto indagato se il grado di articolazione cli cui sono suscettibili i temiini del discorso urbanistico - sempre, beninteso, ammesso che il contesto vivo di un'opera o di un complesso urbanistico sia verifica­ bile nei termini di una discorsività di linguaggio, più o meno esplicita - possa, in certo qual modo, paragonarsi con quello che si riscontra nella linguistica strutturale. In tale ipotesi, sarebbe infatti possibile - in analogia con quanto è stato scritto da Renato De Fusco e Maria Luisa Scalvini per l'ar­ chitettura 1 - operare anche in questo ambito una lettura semiologica. Tale indagine ha rivelato, anzitutto, una sensi­ bile corrispondenza fra alcuni elementi dell'una (la lingui­ stica) con altrettanti termini dell'altra (l'urbanistica). Ai fonèmi, privi di un preciso valore semantico, sembra fare riscontro, sul piano della rappresentazione, una serie di elementi dotati di analoghi caratteri di genericità (linee, piani, punti, ecc.); e sul piano della realtà spaziale dell'opera co42 struita o anche soltanto intuita in una compiuta immagine ar-


tistica, sembra corrispondere un altro elemento, ugualmente generico e, in sé, insignificante, che risulta dalla interconnes­ sione dei precedenti: l'intelaiatura prospettica. Incardinata all'albertiano razzo centrico 2, l'intelaiatura prospettica assu­ me qui particolare rilievo per l'obiettivo stesso che questa ri­ cerca si prefigge, cioè quello di indagare su di un campione dello spazio urbanistico rinascimentale quasi immune da suc­ cessivi rifacimenti e stratificazioni; nel quale, dunque, l'im­ pianto spaziale ha davvero la pregnanza dei sistemi puri. Con­ trasterebbe, tuttavia, questa ipotesi l'opinione fondata sui noti studi di Erwin Panofsky 3, circa il valore di forma simbolica assunto della prospettiva nel rinascimento, valore che confe­ risce ad essa quasi il significato di una scelta ideologica. La prospettiva nasceva, in altri termini, già come oggetto con­ creto - se Piero della Francesca poteva addirittura ritrarla come fosse una « madonna » - e non quale modulo astratto entro cui organizzare la visione del reale 4• Queste considera­ zioni, però, nulla tolgono al fatto che, oltre il simbolo, anche allora la prospettiva costituisse uno strumento potenzial­ mente suscettibile di dar luogo ad una forma, pur restando, in sé, qualcosa di neutro ed inespressivo. E per indicarne il ruolo, simile a quello del fonèma, ancora legato a questo stadio potenziale della immagine spaziale, abbiamo appunto usato il termine di intelaiatura prospettica e non, tout court, di prospettiva. Ai fonèmi, nella progressione linguistica, seguono i mo­ nèmi 5, elementi dotati di una loro propria individualità così come di individualità, topografica e, in senso lato, urbana pos­ siamo parlare quando le linee, i piani e la piramide prospettica si compongono per formare il quadro concreto e fruibile di una strada o di una piazza, Ma tali elementi restano an­ cora, in urbanistica, termini separati e scarsamente significativi, se isolati al difuori di una articolazione spaziale più vasta, che possiamo identificare con il duplice livello semantico della struttura simbolica e della struttura segnica della città. Se dalla considerazione degli elementi morfologici di base si passa alla valutazione dell'insieme cui essi risultano appartenere, ecco che si accede, implicitamente, ad una me- 43


todologia strutturale. Nelle ormai frequenti applicazioni di quest'ultima alla linguistica, un suono o un enunciato ... non sono definibili, interpretabili, insomma comprensibili altro che come elementi della struttura linguistica cui apparten­ gono 6• Procedendo su questa falsariga, è facile porre delle obbiezioni a quanti vorrebbero intendere l'applicazione della metodologia strutturale all'architettura e all'urbanistica come lo studio e la classificazione degli elementi tettonici sganciati dal contesto e dotati di un valore costante, in sé; ma non è altrettanto facile individuare l'equivalente di struttura lingui­ stica. Si pone, anzitutto, il quesito se, nelle nostre discipline, struttura sia da considerare lo stile o la singola opera. Certamente, la nozione di stile si presta abbastanza bene a rispecchiare quella di linguaggio, se lo si voglia intendere come una sorta di denominatore comune cui gli operatori si adeguavano in una determinata epoca, cioè come stile ste>­ rico e non come stile individuale. Lo stile rinascimentale, ad esempio, inteso come sostrato linguistico comune a Brunelle­ schi, all'Alberti, al Palladio, con tutte le sfumature sincre>­ niche (la lingua di Dante non è certo quella del Boccaccio, pur potendosi per entrambi parlare di espressione letteraria del volgare) e diacroniche (umanesimo prima, rinascimento e manierismo poi), può essere, ci si chiede, considerato og­ getto di analisi strutturale? t:., insomma, lo stile stesso strut­ tura, o non lo si deve piuttosto considerare sistema, per ri­ ferire invece il primo termine all'opera concreta, a S. Maria degli Angioli, poniamo, o a S. Andrea di Mantova, analizzate in termini sincronici di contemporaneità di effetti spaziali, pur non escludendosi la storia del monumento, che è tutt'al­ tra cosa dalla diacronicità del suo stile o del suo autore? Ci sembra che insistere su questi interrogativi sia senz'al­ tro utile, dal momento che una particolarità di questo tipo di analisi consiste appunto nella continua necessità di modi­ ficare l'intero metodo e di porre nuovamente in discussione le stesse definizioni fondamentali, tutte le volte che cambia l'oggetto di studio. Si ricorda, in proposito, che entrambe le anzidette interpretazioni sembrano, allo stato, possibili 7; è 44 evidente che la migliore riprova della più o meno intensa at- ·


tendibilità dell'una o dell'altra ipotesi è devoluta, infine, alla maggiore o minore incisività del discorso critico che esse, al banco di prova, consentono di formulare. Fra le v.arie testimo­ nianze critiche, estremamente chiarificatrice è, a mio avviso, la posizione enunciata da Cesare Segre nel recente saggio I segni e la critica 8• In una composizione unitaria, egli os­ serva, il sistema si è attualizzato in struttura; e il rapporto tra le varie composizioni può costituire a sua volta una strut­ tura. Il sistema stilistico di un'opera d'arte è un sistema chiuso. E naturalmente lecito confrontarlo con altri sistemi stilistici, ... ma tenendo presente che questi confronti ci por­ tano sempre al difuori della perfetta sincronia costituita dal­ l'opera. Queste sortite dalla sincronia ci aiutano ad afferrare le implicazioni e le possibilità funzionali degli elementi sti­ listici: i quali, però, entro l'opera, assumono particolari fun­ zioni, determinate dall'interrelazione tra gli uni e gli altri 9• Ciò posto, Segre rileva che, nei saggi d'ispirazione struttura­ listica, alcuni critici esaminano ogni componimento nelle sua autonoma individualità, e perciò come struttura compiuta ed autonoma 10, ponendo la loro attenzione soprattutto sui rap­ porti sintagmatici esistenti all'interno della struttura stu­ diata; ed è questo il caso, osserviamo quasi per inciso, del saggio della Rotonda palladiana comparso nel precedente numero di questa rivista. Altri critici, invece, si rivolgono a considerare il sistema dei componimenti dello stesso genere, all'interno del quale evidenziano i rapporti paradigmatici tra le varie opere o strutture che ad esso appartengono. Per i motivi già prospettati nel saggio citato 11, pur non trascurando, come si vedrà, i nessi paradigmatici fra esem­ plari appartenenti allo stesso sistema, assumeremo qui come oggetto dell'analisi un'opera storicamente determinata, alla quale riferiremo il concetto di struttura, simbolica e segnica. La struttura simbolica, per quanto riguarda Palmanova e, in ispecie, l'urbanistica rinascimentale, può ritrovarsi nel ritmo di scansione della pianta, nella geometria e nell'artico­ lazione dei rapporti numerici, nel « tipo ,. - il cui chiari­ mento rispetto al modello come prototipo è ancora da riferire alla ben nota posizione di Quatremère de Quincy - elen · 45


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cato fra la scacchiera, il ventaglio, la stella, del cui valore simbolico si è a lungo discusso. Elementi tutti che risultano, però, mere astrazioni, se prive della pregnanza spaziale che consideriamo qualità tipica e determinante dell'urbanistica al pari che dell'architettura. E si vede allora che la struttura se­ gnica ipotizzabile per l'urbanistica trova riscontro immediato nella stessa nozione di spazio postulata a base del fenomeno architettonico. Se il segno è l'incontro di un significato e del relativo significante, la struttura segnica in urbanistica si manifesta nell'intreccio - altrettanto indissolubile quanto il binomio parola-concetto, risolto nel logos platonico - fra uno specifico significato ed un altrettanto univoco signifi­ cante di quella e non altra particolare struttura radiocen­ trica, stellare o a scacchiera. E allora, la dicotomia - e non antinomia - spazio interno-spazio esterno, si traduce per noi iu prima istanza nella pluralità di articolazione degli spazi interni della città e del profilo esterno della medesima, in­ teso come margine globale della struttura urbana polise­ gnica. Di una tipica struttura polisegnica, di relativamente fa­ cile percezione e di lettura quasi immediata, abbiamo pen­ sato di servirci per investigare l'eventuale riscontro di una tematica semiologica in urbanistica: Palmanova presenta in­ fatti quei caratteri di semplicità e al tempo stesso di com­ plessa articolazione strutturale che ne fanno un campione esemplare per i nostri studi. E l'aver preferito, coerentemente con le considerazioni fin qui svolte, la seconda piuttosto che la prima forma interpretativa del concetto di struttura de­ riva, oltre che dalla maggiore souplesse strumentale di un caso come Palmanova, che riconduce, in sostanza, ai motivi già addotti nel saggio citato, anche dalla difficoltà di identi­ ficare, con altrettanta univocità di scelta che per l'architet­ tura, uno stile anche per l'urbanistica. In questo campo, in­ fatti, tale nozione è certamente più debole, sia per la meno intensa stratificazione degli studi storici tradizionali - che per le arti figurative hanno creato ben note e codificate ca­ tegorie stilistiche - sia per l'esistenza di un più forte legame con campi di studio collaterali, ad esempio con la so-


ciologia, di fronte ai quali la catalogazione stilistica perde assai spesso di significato. Creazioni urbanistiche, anche coeve, sono infatti mala­ mente ascrivibili ad un medesimo stile, in quanto possono risultare ,legate a condizioni generatrici, di natura econo­ mico-sociale, differenti; e viceversa, creazioni lontane nel tempo possono rivelare analogie stilistiche tanto sensibili quanto sorprendenti 12 • Benvero, l'analisi sincronica di una struttura deve senz'altro arricchirsi - e vorrei dire stori­ cizzarsi - nel confronto diacronico fra esemplari distanti, anche nel tempo, opera di progettisti diversi, istruiti dalla teoria o resi edotti dalle proprie pratiche esperienze di co­ struttori di città, ovvero frutto di diverse condizioni sociali, pur nell'ambito dello stesso stile. A tanto si è pensato di provvedere, con l'esplicito richiamo ai trattati rinascimentali e ad altri esemplari urbani che possono essere legittima­ mente considerati come appartenenti al medesimo sistema stilistico della città ideale. La letteratura sulla città veneta, progettata con compiti prevalentemente difensivi nel 1593 da Giulio Savorgnan, su ispirazione, sembra, dello Scamozzi (che più tardi ne avrebbe contradetto i principi informatori nel suo trattato), non offre particolari spunti al nostro lavoro, salvo una significativa, quanto impreveduta, frase di Lavedan: la piace commande à tout es les parties de la cité 13• Si instaurava dunque, già nel pensiero dello storico francese, l'idea della struttura urbana come sistema interrelato di spazi, di cui la piazza centrale assumeva il ruolo dominante di elemento coordinatore, se­ condo un concetto corrente nel rinascimento, esplicitamente enunciato da Francesco Colonna nella Hypnerotomachia Po­ liphili: turpe e qualunque parte al suo principe non con­ gruente. Si tratta, tuttavia, soltanto di un accenno alla tema­ tica del luogo maggiormente segnato, affetto cioè da una più forte carica semantica; infatti, il rapporto cui alludono il La­ vedan e il Colonna è di dipendenza gerarchica e non di inte­ razione dialettica, come invece si può tentare di dimostrare. Il valore rappresentativo della piazza centrale, spazio di­ sponibile sul quale non prospetta nessun edificio in posizione 47


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di particolare rilievo (anche la cattedrale, disegnata dallo Sca­ mozzi, non sembra possedere alcun valore di posizione, in serita com'è fuori delle sequenze prospettiche che esamine­ remo), costituisce, è vero, il fulcro semantico della città 14• Ma questa focalità - e qui la lettura mutua necessariamente termini ed espressioni dalla analisi visuale delle strutture ambientali - è l'espressione, piuttosto che della struttura se­ gnica di Palmanova, della sua struttura simbolica. Essa si riconnette al tipo della città radiocentrica, impostata sulla affermazione della idea di centralità 15• È interessante, però, notare che il centro urbano è qui segnato, anzicché con la emergenza di un volume pieno (per esempio, un castello, un palazzo o una cattedrale, che 1iassumendo le tradizionali fùnzioni emblematiche del potere), con la preminenza di un cavo, di uno spazio urbanistico interno. Questo interno co­ stituisce il significato generatore della composizione urbana, che scaturisce, come vedremo, dalle interrelazioni che ven­ gono a stabilir.si con altri significati minori, ossia con gli altri cavi spaziali in cui si articola il disegno della città, e con gli elementi significanti che costituiscono l'involucro esterno dei significati e che, al limite, si possono far coin­ cidere con i margini visuali degli spazi urbani. Tuttavia, prima di addentrarci nella analisi della strut­ tura segnica di Palmanova, identificandone sistemi e sotto­ sistemi sorretti nella loro varia articolazione da una dialet­ tica centro-margini, conviene completare con qualche ulte­ riore osservazione la lettura della struttura simbolica, che alla fine riconduce alla considerazione dei segni e del loro specifico valore nel contesto urbano. La pianta di Palmanova riprende il tema della centralità caro alla trattatistica ed alla prassi rinascimentale, con la co­ struzione di una figura geometrica particolarmente elaborata e complessa. Il perimetro è un poligono a nove lati uguali, tre dei quali, equidistanti fra loro, contengono le porte, men­ tre i bastioni triangolari si collocano in corrispondenza di ciascuno spigolo saliente. Il ritmo degli elementi è basato su quantità multiple di tre e consente un ricco intreccio di corrispondenze fra elementi diversi. Se si assume come termine


cti confronto un'altra struttura radiocentrica, per esempio, Grammichele, si può subito osservare che l'elemento distin­ tivo, per Palmanova, è la matrice triangolare della sua geo­ metria, mentre una matrice quadratica dà origine all'esa­ gono di Grammichele. La matrice triangolare consente di op­ porre a ciascun lato, un angolo, mentre quella quadratica, comunque si voglia sviluppare la costruzione geometrica, darà sempre luogo ad una opposizione di lati a lati e di angolo ad angoli. Tralasciando per il momento di conside­ rare il valore segnico-spaziale di questo dettaglio strutturale (ad ogni porta si oppone un bastione, in una continuità pro­ spettica che rinvia immediatamente, in un rapporto sintag­ matico, da un segno all'altro), cerchiamo di concluderne lo studio in senso simbolico-formale. Fra i tipi di città a schema radiocentrico Palmanova si distingue per una immaginazione creatrice assai più ricca e feconda di imprevedibili sviluppi spaziali. Crediamo di in­ dividuare tale qualità nella formula geometrica in cui si ri­ solve il suo impianto spaziale. L'opposizione sistematica lato­ angolo, assente a Grammichele, richiama, sia detto per in­ ciso, con particolare evidenza, l'opposizione in termini musi­ cali fra tonica e dominante, che nella sua articolazione dia­ lettica dà luogo, com'è noto, alla forma sonata, la cui ric­ chezza di sviluppi - anche espressivi - ne ha consentito la prevalenza storica sulla forma monotematica, così come ad un'attenta lettura, Palmanova si impone su Grammichele dove, con pedissequa sequenza imitativa, si ritrova una op­ posizione di elementi simili che non provoca nessuno svi­ luppo formale, chiusa com'è nella sua gabbia speculare. Da ciascun punto del suo perimetro, infatti, non si inquadra altro che il proprio simmetrico, restando in partenza bloc­ cato ogni svolgimento dialogico fra un elemento ed un altro diverso, fra un certo segno ed un altro differente, nell'ambito della stessa struttura spaziale. Il paragone con Grammichele, scivolato quasi di sfug­ gita, ci suggerisce l'opportunità, prima di continuare ad esa­ minare Palmanova come una struttura in sé, chiusa nei rap­ porti sintagmatici fra le sue componenti spaziali, di avanzare 49


anche un'altra ipotesi di ricerca, cioè quella fondata sullo studio dei rapporti paradigmatici di essa con altri elementi dello stesso tipo, che compongono il sistema stilistico in cui storicamente si può collocare questa città. Il sistema stili­ stico della città ideale del rinascimento si può all'incirca far coincidere con una serie di enunciazioni teoriche, accompa­ gnate da scarse realizzazioni, che si collocano fra la rilettura umanistica di Vitruvio e la trattatistica quattro-cinquecente­ sca, da Leon Battista Alberti al Filarete, da Francesco di Giorgio Martini al Serlio e al Palladio. In questi testi teorici si ritrovano, qua e là emergenti in vari filoni, quasi tutti gli elementi strutturali tipici della città ideale; primo fra gli altri, la forma, circolare o poligo­ nale, del suo perimetro. Non è un caso che quasi tutti gli autori traggono inizio, nel descrivere la città ideale, dalla de­ limitazione dell'area urbana, distinguendola nettamente dal territorio esterno 16; essi inconsciamente ereditano la tradi­ zione più antica del carattere sacrale e rituale del tracciato delle mura 17, anche se in genere i moderni tendono a con­ fortare la scelta formale con considerazioni pratiche 18 • In tal senso è esatto rilevare che, nelle città ideali, il perimetro sia un elemento fortemente segnato in senso semantico 19 , mentre non sempre questa configurazione definisce implicita­ mente quella del contesto urbano. Nel caso di Sforzinda, ad esempio, lo schema stellare, inscritto nella circonferenza del perimetro, pur riflettendosi in un sistema urbanistico monocentrico, sembra smentito dalla forma delle piazze e delle fabbriche costituenti il nucleo della città 20; la stessa discordanza si ritrova nella città prefigurata dall'Alberti 21, dove la struttura viaria sfugge a qualsiasi ordine geometrico, e nei disegni dello Scamozzi e del Cataneo 22, che propon­ gono lo schema a scacchiera all'interno di perimetri, rispet­ tivamente dodecagonale e pentagonale. In Palmanova, invece, ove la Rosenau rileva la influenza del trattato di G. Maggi e J. F. Castriotto 23, simmetria e centralità si ripercuotono dal centro ai margini, e viceversa. La pianta radiocentrica segue fedelmente il tracciato delle 50 mura, di cui si potrebbe dire diretta emanazione anche per


il valore di fondale agli assi viari che acquistano le porte ed i bastioni 24 • Lo stesso esprit de géometrie che informa la piazza e le due terne di assi che adducono, rispettivamente, dalle porte alla piazza e da questa ai bastioni, emana, rie­ cheggiato e filtrato, attraverso tutta la tessitura urbana. Ci sembra dunque che l'esemplare si collochi con una certa originalità e compiutezza di strutturazione anche rispetto alle concezioni teoriche; e se la mancanza di coerenza fra tessuto e perimetro in autori, come il Filarete, rigorosamente fedeli all'ideale della centralità in campo edilizio, può sugge­ rire, più come indizio che come prova, una soluzione di con­ tinuità fra architettura e urbanistica 25, si può parimenti de­ durre che Palmanova non solo dimostra, nel caso specifico, il contrario, ma che anzi rappresenta una conferma dell'as­ serto che tende a considerare la città ideale del rinascimento come un fenomeno ,spaziale di natura tipicamente architet­ tonica 26• Essa va dunque valutata, come l'edificio, alla stre­ gua di un « oggetto storico » assai più che come fatto ur­ banistico, se prescindiamo dal considerarne le intenzioni, la cui prevalenza caratterizza, com'è noto, la tematica della pianificazione urbanistica. In Palmanova si supera quasi del tutto la dicotomia murazione-tessuto urbano, che molti trattatisti ereditano dalla tradizione greco-romana e medioevale n, per accedere . ad un concetto unitario dell'utopia urbana. La planimetria, nel caso specifico, svolge un ruolo di coordinamento dell'in­ tero campo spaziale, che acquista quindi il valore di un og­ getto totalmente disegnato; se l'utopia è tradotta, senza re­ sidui, in architettura, tanto più legittimo diventa il proposito di studiarne, attraverso gli stilemi figurativi, i contenuti sim­ bolici e la struttura semantica. Ma a questo punto ci sorge un dubbio: la coerenza del tracciato regolatore è di per sé garanzia di un'elevata pregnanza semantica, o quest'ultima non è piuttosto da ricercare altrove? A tal proposito, non bisogna dimenticare che Palmanova « esce » al tramonto di un fervido fiorire di idee sulla città rinascimentale, che il Garin identifica con le idealità civili che avevano alimentato quella immagine della società urna- 51


nistica, nella crisi delle strutture cittadine in cui questa cul­ tura « umana» si era affermata. E mentre all'inizio, con l'umanesimo si riscontra un deciso impegno morale e poli­ tico, alla conclusione, nel rinascimento non resta altro che il distacco di una riflessione ormai autonoma nella propria organica teoreticità 24• Alla compiutezza formale sembra dunque accompagnarsi, in un parallelo evidente con il passo citato, l'affievolirsi della carica semantica presente nei primi trattatisti. Palmanova, occorre confessarlo, non è una città completa in senso sociologico, come avrebbe potuto in­ tenderla l'Alberti; essa nasce in piena Controriforma, e per una destinazione d'uso che è quella di ospitare non una co­ munità democratica - secondo il frequente paragone fra le istituzioni della res publica e la sua struttura 29 - bensì una guarnigione di soldati. Palmanova è una piazzaforte, il cui cuore non è il luogo di raccolta dei cittadini che si ammini­ strano, ma una semplice piazza d'armi, che della prima ri­ prende, forse, la lettera, privandola però delle implicazioni semantiche. Eppure, malgrado queste considerazioni, Palma­ nova ci interessa: anzitutto perché rispecchia, benché im­ pallidita, la struttura semantica della città repubblicana, come per effetto di un transfert psicologico operato incon­ sciamente dal suo artefice al livello della esercitazione gra­ fica; e poi perché dimostra che l'utopia, almeno nel mondo rinascimentale, è soprattutto nella realtà. Leonardo Bruni, ad esempio, non esitò, a un certo mo­ mento, contro il mito di Roma, a rivalutare Firenze e il suo ordinamento come il tipo ideale della città giusta, bene or­ dinata, armoniosa, bella... Il suo pensiero, nota ancora il Garin, è importante proprio perché la sua città ideale, così piena di echi platonici, non è una fantasia..., ma tende ad identificarsi con una città esistente, di cui non fa che esaltare, e correggere secondo una maggiore razionalità, i tratti... 30• II Bruni è uno di quegli umanisti a cui non erano certamente sconosciuti i valori simbolici e semantici della città - e mo­ stra d'altronde di saperli individuare molto bene nella Fi­ renze del suo tempo - ma è anche di quelli per cui la di52 cotomia utopia-realtà, non si risolve necessariamente in una


scelta alternativa 31: la città perfetta, la città tipo, così nei suoi edifici come nelle istituzioni, non è fuori del mondo, ... è presente, anche se non compiuta, in una città esemplare 32. Se allora la città ideale non ha bisogno di essere tradotta nel disegno di una città nuova, ma può risultare anche dalla idealizzazione di una città esistente, se ne deve dedurre, che condizione ad una proficua lettura simbolica non è la esi­ stenza di un particolare disegno della città. Simboli o espres­ sioni in cui si materializzano in maniera tangibile rapporti, ad esempio, di potere, possono essere rintracciati con suc­ cesso in una struttura qualsiasi, purché dotata di un certo numero di luoghi privilegiati. Il disegno architettonico di Palmanova potrebbe allora rivelare, più sostanziale ed effi­ cace di una struttura simbolica, la sussistenza di una vigo­ rosa struttura segnica. Il discorso ci ha dunque, a grado a grado, ricondotti al­ l'argomento basilare della nostra ricerca: l'identificazione della struttura segnica o, come si accennava all'inizio, polise­ gnica di Palmanova. A questo punto ci sembra però oppor­ tuno inserire la discussione di quello che si debba intendere per segno urbanistico. Mutuando il concetto da Buyssens attraverso Segre 33, si deve intanto ammettere che i soli segni da prendere in considerazione nell'analisi semiologica sono quelli volontari, in cui è diretto il nesso tra una azione mentale e la sua espressione 34• Per le argomentazioni addotte a conforto di essa, questa ipotesi di carattere generale ci sembra senz'altro accettabile anche nel nostro campo di indagine, nel quale anzi si annunzia foriera di importanti chiarificazioni, e con­ .ferma con un assunto più rigoroso quanto la critica storici­ stica aveva già da tempo intuito, pur senza sostenerlo con motivazioni di carattere teorico 35• Ci si riferisce, evidente­ mente, alla ben nota distinzione tra urbanistica spontanea e urbanistica disegnata, nella quale il riconoscimento della vo­ lontarietà del segno asswne un significativo valore discrimi­ nante. Questa precisazione sembra in certo qual modo richia­ mare il parallelo crociano di poesia e letteratura, trasferito con rigore critico da Roberto Pane all'architettura e all'edi- 53


lizia; ma non pensiamo di poter attribuire soltanto all'ar­ chitettura il valore di segno, quando tanta edilizia, ricca di àignità letteraria, appare ugualmente intenzionata, anche se il suo significato è espresso in maniera meno esauriente e completa che nella poesia architettonica. In urbanistica, invece, la critica semiologica acquista una propria specifica utilità, consistente nel permettere un immediato riconoscimento fra ciò che è segno - e possiede quindi un reale valore comunicativo - e ciò che è sintomo e rappresenta soltanto una manifestazione consuetudinaria di costume. L'urbanistica spontanea non sarebbe suscettibile di analisi semiologica per il semplice motivo di non essere co­ stituita da veri e propri segni - emanati, cioè, dalla volontà dell'emittente, quale controparte del ricevente, sia questo il critico, l'osservatore o il fruitore di un determinato spazio tensì da un coacervo di sintomi o di indizi. E i sintomi sono dettati, in forma puramente involontaria, deterministica e senza alternative di scelta, da consuetudini sociali, da situa­ zioni climatiche, insomma da un costume del territorio - che altri preferiscono chiamare stile - di cui formano il fedele rispecchiamento. Non v'è dubbio che ciò riveste grande inte­ resse per la storia della cultura urbanistica, ma resta lettera muta di fronte al linguaggio personale e comunicativo del­ l'espressione artistica. Il limite della critica semantica consisterebbe quindi nel suo rivolgersi con qualche successo soltanto all'urbanistica disegnata; la problematicità dei sintomi spontanei ed il loro inestricabile e stratificato intrecciarsi nella realtà urbana e territoriale che non deriva da un disegno preordinato bensì da una pluralità di interventi frammentari e spesso incuranti del risultato spaziale cui danno luogo, costituiscono, in questo approccio, un serio motivo di perplessità. Sembra, infatti, estremamente difficile - ed improbabile - che si riesca a sceverare da un così ampio contesto sintomatico una serie di nessi comunicativi diretti e volontari, tali da dare adito ad una interpretazione semantica che non sia gratuita o vel­ leitaria. Controindicazioni in tal senso possono essere sempre 54 possibili, specie se fondate su prove di carattere applicativo;


ma a questo punto ritorna alla mente l'aggettivo dull - stu­ pido, insignificante appunto - con cui la cultura anglosas­ sone definiva l'edilizia corrente di certi quartieri sette-otto­ centeschi di Londra 36; qualità tipica, questa, che se da un Iato sta a testimoniare un onesto e costumato mestiere edile, dall'altro riflette abbastanza bene il senso di affievolimento del segno urbanistico (ma non necessariamente della carica semantica) presente nel tessuto, omogeneo ed anonimo, del­ l'urbanistica minore. Palmanova, invece, si presenta come un insieme organico di segni volontari, esplicitamente denunziati in un disegno unitario; basta a tal fine osservarne la pianta. In questo ap­ proccio, lo studio della pianta della città, ancorché spesso sganciato dai reali segni spaziali, che si percepiscono solo nella diretta esperienza dei luoghi, acquista un significato particolare e positivo, in quanto da solo può rivelare, con maggiore immediatezza della visione diretta, l'eventuale pre­ senza di una volontà ordinatrice della struttura semantica. Si vuole tuttavia sottolineare che non è esatto identificare con la pianta il segno urbanistico, né il segno architettonico; ci serviremo anzi di una estensione della definizione di quest'ul­ timo, ipotizzata da De Fusco e Scalvini, per approdare ad una specificazione di segno urbanistico coerente con H taglio epistemologico prescelto. Si possono dunque riprendere le considerazioni circa l'esclusione dal significato dell'urbani­ stica della componente funzionale, che pure spesso è stata considerata essenziale nella valutazione critica, in senso so­ prattutto denotativo. Costruita sulla tradizione puro-visibilista e sulla teoria de.Jl'Einfuhlung, l'idea di urbanistica come « arte dello spazio » si preannuncia in Camillo Sitte ri e si precisa nella poetica dell'urbanistica post-funzionalista in senso autonomo 38, oltre che come logica estensione dell'in­ terpretazione spaziale dell'architettura fornita da Bruno Zevi 39• Il distinguo fra lo spazio « interno » proprio dell'archi­ tettum e quello « esterno » dell'urbanistica è giustificato solo su un provvisorio terreno didattico, perché l'invaso di una piazza o di una strada, esterno rispetto agli edifici che la fa­ sciano, e interno rispetto alla città; i fabbricati fungono da

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divisori o da direttrici di contenimento delle fluenti cavità urbane, come i setti parietali o i mobili che articolano un am­ biente racchiuso. Per caratterizzare una piazza o una strada non occorrono metodi diversi da quelli atti a definire le sale, le gallerie, i portici, il cortile di un palazzo. I sistemi radiocen­ trici, ortogonali e stellari trovano, attraverso i tempi, un'espli­ cazione sincronica in architettura e in urbanistica: ... agli ideali centrici e proporzionali dell'architettura rinascimen­ tale corrispondono gli schemi urbanistici del Filarete, di Francesco di Giorgio, del Serlio, di Leonardo, ... fino ai po­ stumi di Palmanova e Grammichele; alla crisi dei moduli ri­ nascimentali, operata da Michelangelo nella Laurenziana, segue il sovvertimento documentato dalla piazza del Campi­ doglio. ... Senza dubbio, conclude Zevi, la « scala » di una città impone una preparazione particolare a chi vuol cap­ tarne il significato spaziale; ... comprendere gli spazi urbani nelle loro molteplici e concatenate vicende è assunto assai impegnativo. ... I contenuti sono più complessi e la loro rappresentazione di impervia e tortuosa lettura. Tuttavia, la differenza tra spazio « interno » e spazio « esterno», tra ar­ chitettura e urbanistica, non concerne la peculiarità dell'og­ getto: la città è anch'essa creazione di spazi racchiusi 40• È evidente che qui l'urbanistica viene considerata alla stregua del town design; si prescinde dalle sue « intenzioni » e dagli aspetti di pianificazione territoriale e se ne considera unica­ mente l'oggetto storico reale, sia esso la piazza, la città, il territorio urbanizzato o il paesaggio. Ma è appunto lo spazio di questo« oggetto» l'unico elemento di cui si abbia la perce­ zione diretta, e pertanto solo esso può costituire il segno tan­ gibile da leggere e analizzare in senso semantico. Il segno urbanistico è dunque lo spazio, cavo, della città, l'invaso di un ambiente o di una serie di ambienti legati da una continuità temporale e spaziale, in una sequenza di « luoghi». Questo indirizzo sembra assumere la Choay quando considera lo spazio urbanistico, il vuoto tra le case, dotato di un valore positivo, che -ne indica la significatività; ma poi ne accentua la fonction de liaison fra gli edifici, che diven56 tana, nella sua analisi, i veri elementi significanti, distinti in


macro-elementi, poli dotati di carica semantica (la chiesa, il castello), ed elementi di base, le case comuni, legate fra loro in rapporti di tipo sintagmatico 41 • Quindi, in definitiva, si viene ad identificare il segno urbanistico con l'edificio, cioè con il pieno anzicché con il vuoto; e così non solo viene meno la possibilità di differenziare il segno architettonico da quello urbanistico - id che pure in qualche modo deve avvenire - ma l'osservazione resta imperniata sull'edificio senza che ne vengano distinte le implicazioni spaziali se­ condo le due diverse modalità di fruizione, quella cioè che avviene girandovi intorno e quella che si verifica penetrandovi. Se invece si considera, nell'ambito della continuità spa­ ziale indicata da Zevi, non tanto la identità qualitativa fra il segno architettonico e quello urbanistico ma la loro pre­ cisa corrispondenza, che vede, all'esterno del segno architet­ tonico (considerato nel suo volume edilizio globale) configu­ rarsi il segno urbanistico (lo spazio della strada o della piazza), e viceversa, è possibile dire che il segno urbanistico corrisponde al negativo del segno architettonico, così come quest'ultimo corrisponde al negativo del segno urbanistico. Nella realtà oggettiva i due segni sono contigui: li separa un impalpabile diaframma - la pellicola esterna dell'edificio rispetto al quale il segno architettonico si sviluppa allo in­ terno, e quello urbanistico, viceversa, allo esterno. Questo rilievo, al cui chiarimento ha non poco contribuito il brano che abbiamo riportato, consente di sviluppare una serie di osservazioni circa la fenomenologia degli elementi significanti e dei significati, nel passaggio dall'architettura all'urbanistica. Partendo dal presupposto che ogni spazio esterno tridi­ mensionale cavo è segno urbanistico, la fenomenologia del significato si articola in una serie di spazi o ambienti, che compongono, nel loro insieme, uno spazio polisegnico. Tra i vari ambienti si instaurano, come tra le camere di un edi­ ficio, rapporti di tipo sintagmatico, generati dalla percezione diretta degli ambienti l'uno dall'altro, e rapporti di tipo as­ sociativo, in virtù dei quali da un ambiente è possibile in­ tuirne altri oltre quelli direttamente visibili. Più complessa appare la delineazione di una fenomenolo- 57


gia del significante del segno urbanistico: esso, in via generale, per analogia con il corrispondente architettonico, si può iden­ tificare con l'involucro esterno dello spazio urbanistico. Tale involucro ha di norma due facce: una faccia rivolta verso lo spazio urbanistico, coincidente grosso modo con i pro­ spetti degli edifici che lo delimitano, e che, rispetto al segno urbanistico, si comporta come una faccia interna, mentre rispetto al segno architettonico si comporta come una faccia esterna; un'altra faccia rivolta verso lo spazio architettonico, esterna rispetto al segno urbanistico ed interna rispetto a quello architettonico. Malgrado la sua collocazione spaziale oggettiva, questa seconda faccia non ha la proprietà dialet­ tica di valere, oltre che come faccia interna del significante del segno architettonico, anche come faccia esterna del signi­ ficante del segno urbanistico, perché, molto spesso, la sua configurazione è assolutamente priva di nessi significativi con lo spazio urbanistico. In una diversa interpretazione, si potrebbe identificare l'involucro significante del segno urbanistico, con il fabbricato nella interezza del suo spessore quasi fosse un grosso muro divisorio (secondo l'immagine suggerita da Zevi) tra due o più spazi cavi o urbani (ad esempio, il terrapieno dei bastioni fra Palmanova e il territorio esterno). In tal modo, però, e in casi diversi dall'esempio citato, le due facce del significante - que­ sta volta sempre esterne rispetto al segno architettonico - ri­ sulterebbero a volte esterne e a volte interne rispetto al segno urbanistico considerato, generando qualche confusione a causa della più elevata fluidità degli spazi urbanistici, che di norma sono aperti, rispetto a quella degli spazi interni architettonici che, almeno negli esempi classici, risultano ben delimitati in ambienti chiusi. V'è inoltre da considerare il fatto che non sempre le varie facce di un edificio hanno tutte lo stesso grado di significatività, architettonica e urbanistica: Michelangelo, ad esempio, nel ricostruire il palazzo Senatorio, si occupò del prospetto rivolto verso la piazza del Campidoglio, ma non di quello posteriore, che non può essere in alcun modo as­ sunto come significante dello spazio interno della piazza. Pre58 feriamo, per ora, la prima ipotesi, che si risolve, come ho


detto, nel considerare non significativa per il segno urbani­ stico (salvo eccezioni) la faccia esterna del suo involucro si­ gnificante (come, del resto, avviene talvolta anche per il segno architettonico). Nel nostro caso particolare, se ne può dedurre che, ad esempio, per la piazza centrale di Palmanova e per tutti i segni urbanistici minori costituiti dalle strade e piazze se­ condarie, il segno urbanistico è delimitato da un significante dotato di una sola faccia significativa: quella che è interna per il segno urbanistico, e che si identifica con quella esterna per il segno architettonico. Mentre nel caso dello spazio anu­ lare adiacente ai bastioni (fa circumvallazione), essendo più netta la distinzione tra le due facce dell'involucro significante (l'una sempre rivolta verso la città e l'altra sempre rivolta verso il territorio), si potrebbe accedere anche alla seconda ipotesi di due facce entrambe significanti in senso urbani­ stico: quella interna, che si identifica con la faccia interna del terrapieno, e quella esterna, che coincide con la faccia esterna della fortificazione e definisce, in maniera fortemente signifi­ cativa, il profilo della città. La murazione di Palmanova, fra l'altro, con i bastioni geometricamente configurati a stella e incuneati come punte ostilmente rivolte verso il territorio, costituisce un esterno in senso assoluto, un esterno che non consente alcuna me­ diazione con l'ambiente naturale, nessun prolungamento in esso. L'andamento altimetrico della città sposa, nel com­ plesso, quello pianeggiante della campagna veneta; ma un im­ portante elemento volumetrico, non realizzato sebbene pre­ sente nel progetto - la torretta centrale, vago ricordo di Sforzinda - contribuiva, nel disegno iniziale e quindi nella volontà dell'emittente, a contrastare la giacitura prevelante­ mente orizzontale del terreno circostante, accentuando il di­ stacco fra natura ed artificio umano, secondo un tipico ca­ none rinascimentale. Il significante esterno di Palmanova è dunque un elemento fortemente caratterizzato nella assolu­ tezza del disegno e nel distacco dall'ambiente di natura. Ribadi•ta l'ipotesi del ruolo dominante svolto dallo spazio nella struttura urbanistica, ed indentificato lo spazio 59


stesso con il segno urbanistico, osserviamo con maggior det­ taglio la struttura segnica - o spaziale - di Palmanova. Essa si compone di parti più o meno segnate, che si collocano spa­ zialmente l'una rispetto all'altra con un gradiente di signifi­ catività decrescente all'interno verso l'esterno. Ci sembra quindi lecito individuare un primo gruppo di segni � o si­ stema, da non confondere con il sistema stilistico di cui si è detto in precedenza - che fa capo ad un elemento forte­ mente segnato, la piazza, e termina con un altro elemento, segnato meno fortemente ma altrettanto importante nella composizione urbana, i bastioni (fig. a). Questi ultinù, con i rivellini più tardi disposti ai margini della città, ne costi­ tuivano lo strumentario difensivo, accentuato in senso sim­ bolico dalle porte scamozziane. I due elementi principali del primo sistema che abbiamo individuato sono il centro e i margini: l'uno con prevalenza di carica simbolica, l'altro con prevalenza di carica funzionale, ma entrambi segnati e ricchi di intenzionalità. Mentre la piazza riassume lo spazio interno della città nel significato della città stessa adombrato nel simbolo dell'assemblea dei cittadini, la cinta rappresenta lo spazio esterno, anzi il significante dello spazio interno glo­ bale della piazzaforte, rivolto come un muto ma esplicito avvertimento a chi dal territorio si avvicinasse alla città. Nello spessore fra questi due elementi, come nel cavo di una doppia calotta, si trova la città; e la comunicazione fra di loro è assicurata da ben precisi canali spaziali o termini strutturali che completano l'ossatura del primo sistema. Il centro comunica con l'anello marginale tramite tre strade che conducono dalle porte alla piazza. È interessante osser­ vare come, in virtù della struttura geometrica evidenziata, da ciascuna porta sia possibile inquadrare, attraverso la piazza libera, la visuale di uno spigolo 42, cioè di un bastione. Ogni porta ha, come termine sintagmatico, l'opera difen­ siva, con la quale fa sistema in una continuità spaziale non intuita (come in un semplice rapporto di tipo associativo) ma direttamente espressa attraverso il legame prospettico della piramide ottica composta dalle pareti della strada-corridoio. 60 Se il primo sistema è indubbiamente il più interessante


e ricco di spunti per l'ulteriore indagine semantica, in quanto attraverso cli esso si compie il discorso principale della pene­ trazione da uno spazio urbanistico esterno - il territorio ad uno spazio urbanistico interno - la città - non vanno trascurati due altri sotto-sistemi, che si articolano appunto in quello spazio urbano che abbiamo paragonato al cavo fra due calotte. Un primo sotto-sistema (fig. b), diretto prolunga­ mento del sistema principale lungo i semiassi che vanno dalla piazza ai bastioni (allineati quindi con i semiassi principali porte-piazza), è costituito dall'itinerario secondario interno, per il movimento fra i punti nevralgici della città. Un se­ condo sotto-sistema (fig. c) si svolge ai lati di questo itine­ rario, con un settore urbano articolato in una piazza cen­ trale e due strade ortogonali che assumono, al livello di quartiere o di vicinato, il significato di un riecheggiamento iterativo, in tono minore, del tema principale. Le strutture segniche minori sono destinate a trasferire, sia pure attenuata, la qualità urbana al tessuto altrimenti amorfo ed indifferenziato dalla fascia compresa fra la piazza centrale e le mura. Ai lati dei semiassi minori (primo sotto­ sistema) si aprono tre coppie di piazze quadrate, attraver­ sate a croce da due strade ortogonali. Ciascuna di queste piazze si configura quindi come un ambiente urbanistico chiuso, le cui prospettive, attraverso le strade che vi immet­ tono, sono ugualmente bloccate e prive di sfondi significativi. A differenza della piazza centrale, protesa verso le porte e i bastioni, queste piazze minori esprimono il raccoglimento della residenza, pur provvedendo ad un minimo cli servizio urbano (la chiesa, il mercato, ecc.). È qui condensata in nuce la teoria della organizzazione cellulare della città 43 del ra­ zionalismo: autonome per i fabbisogni elementari, satelliti e tributarie del centro per le funzioni superiori, le sei piazzette sono il centro di altrettanti settori urbani in cui risulta ar­ ticolato lo spazio di Palmanova. Le strade-corridoio e gli in­ nesti fra esse rappresentano poi un insieme fluido cli ele­ menti di passaggio,, il cui valore segnico è soprattutto fra i luoghi maggiormente segn ati. La figura mostra la triplice articolazione degli spazi urbanistici, dal sistema principale 61


a

b

e


(a) ai due sotto-sistemi dei semiassi minori (b) e delle piaz­ zette (c). L'indagine dovrebbe, a questo punto, procedere oltre, e ricostruire, interpretandole, le varie sequenze visive degli élmbienti e dei sistemi individuati, restituendo alle scene urbane di Palmanova la concretezza che l'astrazione cli una ricerca sistematica ha certamente loro sottratto. Riteniamo tuttavia di dover concludere sulla scarsa possibilità di svol­ gere su questo campione, per altri versi cli eccezionale inte­ resse, una analisi completa a causa della particolare qualità edilizia dell'esemplare prescelto. A Palmanova, il disegno pla­ nimetrico non è accompagnato da un altrettanto espressivo e volontario disegno di alzato, ad eccezione della cattedrale e delle porte. Per cui, in definitiva, mancando le pareti signi­ ficanti a definire Io spazio, il segno urbanistico risulta incom­ pleto: se la faccia esterna del significante architettonico è, come in questo caso, debole, dovrebbe risultarne indebolita anche l'immagine spaziale urbanistica. Sussiterà pur sempre un segno urbanistico, ma il suo significato, per quanto ricco nelle intenzioni, apparirà scarsamente espresso dall'involucro significante. Da questa osservazione si può dunque dedurre, a conclu­ sione dello studio, che l'architettura e l'urbanistica vivono in una continuità spaziale - che è, in sostanza, continuità del medium espressivo - tale da autorizzare l'uso cli analoghi procedimenti di lettura e di analisi; e che inoltre sussiste fra loro una sorta di reciprocità semantica, già del resto adombrata nella reciprocità fisica faccia interna-faccia ester­ na dei rispettivi involucri significanti. Per cui, se il segno ar-­ chitettonico trae forza dall'inserimento in un più ampio se­ gno urbanistico, sia il paesaggio dei colli Euganei o la piazza del Campidoglio, è anche vero che, in un rapporto cli mutua complementarità, il segno urbanistico riceve compiutezza dal segno architettonico che lo circonda, in particolare dalla fac­ cia esterna del suo significante, fosse la più anonima edilizia o l'architettura del paesaggio. Il paragone fra il positivo e il negativo cli una stessa immagine - che è la nostra, interiore, fotografia dello spazio 63


abitabile - appare legittimo sul piano della continuità fisica di urbanistica e architettura, e, in parte, anche al livello delle loro valenze estetiche, che per l'urbanistica si circoscri­ vono entro gli aspetti direttamente percepibili nella visione, dal town- al landscape. Tale principio non è, in realtà, del tutto estraneo alla critica tradizionale, ma ci sembra quanto meno interessante aver potuto dimostrare, mediante una ana­ lisi del tipo di quella che ci eravamo proposti di svolgere, che, malgrado le ultime considerazioni sulla unitarietà della immagine spaziale, è sempre possibile identificare nessi lo­ gici e rapporti fra le parti di una struttura urbanistica, pre­ cisandone la peculiarità dei segni, indipendentemente dalla architettura delle facciate. Perché a Palmanova - dove la suggestione sensoria dei bei prospetti allineati lungo que­ sta o quella strada è quasi inesistente - la lettura sto­ rico-semiologica rivela indubbi significati di carattere tipi­ camente urbanistico, espressi in una serie di sistemi, che, malgrado la carenza di un adeguato completamento in senso architettonico, consentono ugualmente di intraprendere un itinerario critico non del tutto privo di stimolanti sorprese. E questo, forse, non sarebbe stato permesso disponendo di altri strumenti di indagine. URBANO CARDARELLI

I Cfr. R. DE Fusco e M. L. ScALVINI, Significanti e significati della Rotonda palladiana, in « Op. Cit. •. n. 16, settembre 1969. 2 Cfr. G. C. ARGA.111, Brunelleschi, Mondadori Milano 1966; in parti­ colare il secondo capitolo. « La teoria prospettica•, pp. 15-19. J Cfr. E. PANOFSKY, La prospettiva come forma simbolica, Feltri­ nelli, Milano 1966. 4 Si potrebbe citare un caso analogo nel concetto di spazio nella

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cultura greca, acutamente rilevato da Sergio Bettini: « ...i segni della lingua greca, che noi traduciamo genericamente con spazio, significano propriamente le strutture formali dell'architettura greca»; ed allo stesso modo, nel rinascimento, con prospettiva si indica proprio la strut­ tura formale dell'architettura e dell'urbanistica, cioè la scansione spa­ ziale resa dalle membrature, dai piani, dalle volte. Si veda, in propo­ sito, anche P. FRANCASTEL, Lo spazio figurativo dal rinascimento al cu­ bismo Einaudi Torino 1960. s Per queste ed altre definizioni cfr. G. C. l.EPsCHY, La linguistica strutturale Einaudi, Torino 1966. 6 G. c.' wscav, Op. cit., p. 35.


1 Cfr. R. DE Fusco e M. L. ScALVINI, Op. cit., pp. 5-6. 8 C. SEGRE, J segni e la critica, Einaudi Torino 1969. 9 Cfr. c. SEGRE, Op. cit., p. 31. 10 Ibidem, p. 95. 11 Come si dirà più avanti, anche questo studio parte dalla ipotesi teorica di identificare le componenti del segno - significante e signi­ ficato - con i termini della dicotomia spazio interno-spazio esterno, con le varianti che il passaggio dall'architettura all'urbanistica impone. 12 Come avviene, ad esempio, nel caso dello schema planimetrico a scacchiera, presente con piccole varianti, relative alla forma e alla di­ mensione dei lotti, sia nelle città coloniali di fondazione greca o ro­ mana, sia in alcune città medioevali ( bastides e città di fondazione re­ gia), rinascimentali (Torino) o barocche (Mannheim), sia, infine, nei quartieri ottocenteschi di numerose metropoli moderne. In tutti que­ sti casi, lo stile, individuale nell'impianto e nella partitura spaziale del territorio urbanizzato, è sensibilmente uguale, ma siamo convinti che difficilmente una analisi critica che limitasse l'indagine allo studio di esso potrebbe condurre a risultati di qualche rilievo, nell'approfondi­ mento della conoscenza storica dell'urbanistica e della interpretazione dei suoi segni. 13 Cfr. H. l.AVBJAl'\, Histoire de l'urbanisme, Paris 1951, p. 90. 14 In Francesco di Giorgio troviamo enunciato, in chiave antropo­ morfica, il concetto della prevalenza simbolica del centro della città: come l'ombelico, ove « nel principio la natura umana piglia nutrimento e perfezione•, così la piazza principale deve essere centrale rispetto alla città. Anche il Filarete accentra nella piazza che sorge nel mezzo di Sforzinda le funzioni inerenti alla direzione e ai servizi dell'intera co­ munità, conferendo, inoltre, a questo luogo, nota De Fusco, « una sua dimensione in rilevato, con un andamento costantemente in ascesa dalla periferia verso il centro• (R. DE Fusco, Il Codice dell'Architettura, E.S.I., Napoli, 1968, p. 230). chiaramente allusivo alla preminenza di significati della parte elevata. 1s La presenza di una centralità semantica nel tipo urbanistico che stiamo esaminando è stata rilevata, tra gli altri, da Giovanni Astengo, nella voce Urbanistica della Enciclopedia dell'Arte: « l'incrocio di assi o la raggiera definiscono il baricentro geometrico della città, eviden­ ziato da una piazza regolare... ; rivivono così le antiche concezioru co­ smologiche•· Una interpretazione immanentistica viene invece da Euge­ nio Battisti: « II richiamo cosmologico, per cui queste città, ad imita­ zione, del resto, della Repubblica di Platone, s'ispirano a cerchi, a stelle, a forme geometriche, non è più il riflesso di un valore superiore, ma l'affermazione di una totale autosufficienza per cui la città bene ordi­ nata è già di per sé un valore ,perfetto• (E. BATTISTI, L'antirinas� mento, Milano 1962, p. 323). 16 « Espressivo di tale concezione discrimmante• fra il territorio esterno (quasi un « mondo del pressappoco•l e la città interna alle mura (una sorta di « universo della precisione•), nota M. L. Scalvini, « risulta il fatto che il perimetro della città, il tracciato delle mura, sia una forma nel senso più rigoroso: ossia un dato geometrico og­ gettivo, ... figura chiusa e dotata di semanticità e comunicabilità to­ tali, senza residui• (M. L. SCALVINI, Spazio come campo semantico, Istituto di Architettura e Urbanistica dell'Università, Napoli 1968, p. 79). 17 Cfr. F. DE CouLANGES, La cité antique, Le Club du Meil!eur Livre, Paris 1959, pp. 121-128, dove è descritta e commentata in maniera esauriente la cerimonia della liminatio ,presso i Latini. 18 « La forma della Città non dee esser quadrata, ne di angoli acuti, ma circolare, acciocché sia il nimico da più luoghi scoperto • 65


(Vitruvio, I, 5). « Questo princ1p10 morfologico», commenta il De Fu­ sco, « nato per ragioru di difesa militare, rimarrà sostanzialmente inal­ terato nel tempo, caratterizzando la forma della gran parte delle città, o almeno quella del loro perimetro esterno». (R. DE Fusco, Op. Cii., p. 31). Con l'Alberti, al motivo militare se ne aggiunge uno geometrico ed economico: il cerchio è preferito come la forma di quel perimetro che, a parità di lunghezza, consente di racchiudere la massima super­ ficie. « Il sito tondo, dicono che è più di tutti capacissimo e di manco spesa à chiuderlo d'argine, ò di muro. Il più vicino à questo, dicono ch'è quello, che ha molti canti, ma bisogna che e' sieno al tutto canti simili, e corrispondentisi, e uguali per tutto il sito» (Alberti, 1,8 in R. DE Fusco, Op. Cit., p. 127). 19 M. L. ScALVINI, Op. Cit., p. 66. 2ll Cfr. R. DE Fusco, Op. Cit., p. 228, dove è riportata anche l'os­ servazione di L. Piccinato, secondo il quale « il Filarete non sentì com­ pletamente fino alla conclusione estrema il tema della città a pianta centrale, ,pur abbozzandone il principio •· 21 Cfr. R. DE Fusco, Op. Cit., p. 150; egli osserva che, di fronte alla configurazione perimetrale delle mura, che darà luogo a tutte le ben note varianti dello schema stellare, « più attuali appaiono le conce­ zioru» dell'Alberti « relative alla forma interna dell'organismo urbano•• in quanto dettate da fattori climatici, dai rapporti tra superfici coperte e scoperte e dal tracciato vario. 22 Cfr. H. ROSENAU, The Ideai City, London 1959, pp. 48-49. 23 Ibidem, .pp. 49-50. 24 Stranamente imprecisa è la notazione su Palmanova di J. Schlos­ ser: « la più notevole costruzione di questo genere, e anche quella che esercitò i maggiori influssi, è la fortezza veneziana di Palmanova, del 1593, che rappresenta tradotta nella realtà l'idea del Filarete, la piazza principale rotonda inscritta nell'ottagono ... »; mentre è noto che la piazza centrale di Sforzinda è rettangolare, quella di Palmanova esago­ nale e che il circuito delle mura di quest'ultima è un poligono a nove lati uguali. (Cfr. J. SCHLOSSER, La letteratura artistica, La Nuova Italia, Firenze 1956, pp. 130-131). 25 Cfr. R. DE Fusco, Op. Cit., p. 228. 26 Cfr. M. L. SCALVINI, Op. Cit., p. 76, e si veda .pure un passo del Lugli: e nelle città rinascimentali è la istituzionalizzazione delle espe­ rienze formali e figurative già applicate al livello dello spazio monu­ mentale,. (P. M. LuGu, Storia e cultura della città italiana, Laterza Bari 1967, p. 170). V Sono tipici i casi di Neapolis e Pos1doni�Paestum, dove il trac­ ciamento delle mura precede, in ordine di tempo, quello dei decumani e dei cardines e dove le porte urbane si trovano in corrispondenza del­ l'incontro delle mura con le strade campestri e non con gli assi della scacchiera. Nelle città medioevali, invece, le mura seguono un trac­ ciato dettato quasi sempre dalle condizioni ororafiche e le strade in­ terne si organizzano in funzione di queste e degli edifici .princip:ili. 28 E. GARIN, Scienza e vita civile nel Rinascimento, Laterza Bari

1965, P. V-VI.

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29 Ibidem, p. 37. 30 Ibidem, pp. 3941. 31 Così come l'Alberti, che in fondo accoglie l'idea della città or­ ganica, medioevale, esaltandone e razionalizzandone in una forma tipica la struttura organizzativa (si pensi, tra l'altro, ai quartieri per gli ar­ tigiani). 32 Cfr. E. GARIN, Op. Cit., p. 42. 33 Cfr. E. BuvssENS, La communication et l'articulation linguisti-


que, P.U.F., Paris-Bruxelles 1967, citato in C. SEGRE, Op. Cit., pp. 45 e segg. 34 Cfr. C. SEGRE, Op. Cii., pp. 38-39. « In questo modo•, commenta il Segre, « Buysscns respinge l'eccessiva e confusionaria estensione che si tende a fare della semiologia • - e qui l'allusione a Roland Barthes sembra esplicita - « a tutto ciò che è interpretabile come indizio, laddove è evidente che le sole espressioni segniche riportabili, perché omogenee, a unità sono quelle coscienti•· (Ibidem, p. 45). Più avanti, lo stesso Segre precisa i motivi della esclusione: « Se il segno è l'unione d'un significato e d'un significante, la comprensione reciproca è possi­ bile solo sulla base della sua costanza: volendo esprimere un signifi­ cato, ricorro al significante che gli corrisponde• nel codice; « ascol­ tando o vedendo un significante, so a che significato si riferisce. In verità l'esattezza di sovrapposizione tra significante e significato varia a seconda dei sistemi di segni. Già in campo linguistico, la semantica si imbatte di continuo in casi di polisenùa ed omonimìa, di ambigwtà, ecc. » (Ibidem, p. 70). Anche nel sistema dei segni architettonici e urba­ nistici si rpuò supporre l'esistenza di una analoga dose di ambiguità: basta, del resto, pensare alla tematica del complesso e dell'ambiguo in Venturi e in molti urbanisti (Rapoport) e sociologi (Ardigò). Segre quindi conclude: « Inglobare nella semiologia anche gli indizi vuol dire annullare la bipolarità della comunicazione: togliere importanza al formulatore di segni e darne esclusivamente al loro ricevitore•. (Ibi­ dem, p. 45). 35 Del resto, i compiti che si possono ragionevolmente attribuire ad una nuova critica non sono altri, a mio avviso, che quelli di siste­ matizzare la lettura dello spazio e di renderne dimostrabili, attraverso un discorso più rigoroso, quei valori che già la critica tradizionale aveva, se non altro, intuito. E riuscire in questi scopi ci sembrerebbe già molto. 36 Devo questo ricordo ad una conversazione avuta molti anni fa a Londra con il prof. Gabriele Baldini. J7 Cfr. C. Srrrn, L'arte di costruire le città, Milano 1946. 38 Si veda, tra l'altro, in proposito: E. BACON, Design of Cities, New York 1967, nei capitoli: « La città come atto della volontà• e « La nozione di spazio», dove l'autore riassume, in una lettura storica di ampio respiro, gli ultimi sviluppi delle teorie spaziali. 39 Cfr. B. ZEVI, Saper vedere l'architettura, Einaudi, Torino 1951. «> B. ZEVI, Architectura in nuce, Istituto per la Collaborazione Cul­ turale, Venezia 1960, pp. 68-71. 41 Cfr. F. CHOAY, Sémìologie et urbanisme, in « Architecture d'au­ jourd'hui», n. 132, 1967. 42 Questa disposizione è in contrasto con un precetto architettonico espresso dal Serlio a proposito degli edifici a pianta poligonale con i lati in numero dispari: « la forma penthagona•, egli scrive, « è molto difficile percioche se in uno de i lati se fara porta, a l'incontro d1 quello vi si truovara un angolo: cosa che non è comportabile nella buona Architettura» (R. DE Fusco, Op. Cii., p. 449). 43 Concetto che si trova già in Francesco di Giorgio (111, 1): « quando per grandezza della città, una sola piazza fusse a molti incommoda nelle estremità della terra abitanti, in questo caso devono più piazzette secondo il bisogno di essa essere ordinate in luoghi che alle dette estremità siano più che si può comuni e comodi• (R. DE Fusco, Op. Cit., p. 310). Se alla piazza si attribuisce la funzione di elemento gi> neratore di un nucleo urbano, il passo citato esprime il principio del decentramento per nuclei satelliti.

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