Op. cit., 20, gennaio 1971

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Op.cit. rivista quadrimestrale di selezione della critica d'arte contemporanea

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Edizioni  Il centro •


R. DE Fusco,

UtilitĂ storiografica di una dicotomia linguistica

M. L.

Meaning in Architecture

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F. DAL Co,

La cultura di Le Corbusier

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F. SBANDI,

New Towns (definizioni)

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SCALVINI,

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Alla redazione di questo numero hanno collaborato: Anna Barricelli, Renato Bonelli, Costanza Caniglia Rispoli, Gabriella D'Amato, Renato De Fusco, Giuseppe Fusco, Silvana Sinisi.



Utilità storiografica di una dicotomia linguistica

Alcuni articoli pubblicati sulla nostra rivista, che costitui­ scono dei tentativi di applicazione semiologica 1 alla «lettura ,. storica di monumenti famosi, sono stati accolti dalla critica con pareri discordanti. Accanto ai numerosi giudizi positivi, espressi in via «amichevole» o in modo esplicito quanto autorevole da studiosi come Sergio Bettini 2, non sono man­ cate una serie di riserve, che giudichiamo altrettanto fondate non foss'altro perché riflettono i nostri stessi dubbi. In sostanza ci si chiede se il metodo storico non contenga già gli elementi necessari per accertare i valori semantici e in genere comunicativi dell'architettura; in tal caso non si giu, stifica il ricorso alla disciplina semiologica ed al suo apparato teorico. Ora, a parte la necessità di un maggiore approfondimento del metodo storiografico come tale, anche noi ci siamo posti ovviamente lo stesso interrogativo e di volta in volta abbiamo trovato una motivazione che, moda strutturalista a parte, giu­ stificasse la nostra ricerca: prima convincendoci che l'archi­ tettura sia un linguaggio, poi paragonando la semiologia al­ l'iconologia e più recentemente riflettendo sulle indicazioni di una celebre dicotomia saussuriana, quella sintagmatico­ associativa, cui dedichiamo il presente articolo. A tale recente riflessione peraltro siamo stati indotti dalla lettura del libro di Brandi, La prima architettura barocca, e da quello di Koenig,. Architettura e comunicazione, entrambi pubblicati l'anno scorso. La posizione di Brandi è nota; egli riconosce due vie per l'indagine artistica, quella basata sull'« astanza ,. e l'altra sulla semiosi e, privilegiando la prima, ha fornito

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nel volume suddetto una stimolante lettura strutturale delle opere di Pietro da Cortona, Borromini e Bernini. Più avanti vedremo la relazione tra l'assunto di Brandi e la dicotomia di cui ci occupiamo. II libro di Koenig è una estensione metodologica del suo precedente voi. Analisi del linguaggio architettonico; in particolare, il confronto tra la sua conce­ zione del segno architettonico e la nostra è stato determinante per le riflessioni sulla suddetta dicotomia saussuriana. Partiamo quindi proprio da tale confronto. Com'è noto, Koenig, nella linea Peirce-Morris, sostiene che il segno è qualcosa che sta per un'altra, anzi considera tale condizione indispensabile per poter definire un linguaggio : Il messaggio significante, nel processo di significazione archica (contra­ zione che sta per architettura), è tutto ciò che i nostri organi ricettori percepiscono nel segnale; e che, attraverso i codici e lessici di ricezione, viene tradotto in un significato. Se il mes­ saggio significante coincidesse fisicamente con il segnale, crollerebbe ogni concezione linguistica ed ogni analisi della comunicazione archica ... la forma archica non trasporterebbe nessun messaggio... e significherebbe solo se stessa, senza nessuna caratteristica di « rimando ad alcunché», che è il fondamento di ogni segno linguistico 3• Dal canto suo Eco condivide l'assunto di Koenig identificante il significato archi­ tettonico con la funzione, riconoscendo nel segno architetto­ nico la presenza di un significante il cui significato è la fun­ zione che esso rende possibile 4• Ed inoltre indica nei segni dell'architettura un significato originario e denotativo, ossia la funzione, e un significato assunto da una storica stratifi­ cazione o connotativo, ossia la valenza simbolica. Per parte nostra, abbiamo proposto una interpretazione del segno che tiene conto ed associa gli esiti della pura visi­ bilità e della definizione saussuriana del segno linguistico come unione di un significante e di un significato. A tal propo­ sito abbiamo affermato che, riconosciuto come carattere pecu­ liare dell'architettura, conformazione spaziale tridimensionale cava, la presenza di uno spazio interno agibile, ragion d'essere della sua pratica attuazione, possiamo considerare tale spazio 6 come il significato e lo spazio esterno come il significante.


L'unione dialettica ed indissociabile di tali entità ci sembra la legittima estensione di quell'unione tra immagine acu­ stica e concetto che definisce le componenti del segno lin­ guistico. Inoltre recentemente, per smentire l'idea che la nostra proposta contenga un certo automatismo, abbiamo precisato che nell'associare i due binomi interno-esterno e significato­ significante, non intendiamo stabilire una corrispondenza cli termine a termine, bensì una equivalenza tra i due binomi uella loro globalità. In altri termini, poiché non operiamo su 5trutture tettoniche, semplici e schematiche, ma su organismi architettonici, generalmente articolati e complessi, se è vero che lo spazio esterno svolge il ruolo del significante e quello interno il ruolo del significato, non si verifica tuttavia una identificazione, a due a due, fra i quattro termini suddetti, né una netta separazione fra le due entità spaziali conside­ rate; infatti, data la natura omogenea di queste, non è possi­ bile - così come avviene in linguistica per l'immagine acu­ stica e il concetto corrispondente - ritrovare l'esatto punto di passaggio fra interno ed esterno, fra significato e signifi­ cante, che varia da un'opera all'altra ed è ricco di problema­ tiche articolazioni. Comunque l'assunto di identificare nella loro globalità il binomio spaziale e quello semiologico consente peraltro di rispondere alle seguenti esigenze: 1) non contraddice quella che ci sembra un'obiettiva conquista dell'estetica moderna, l'unione cioè di forma e contenuto, la quale viene inevitabil­ mente compressa dai sistemi semiotici dove segno e signi­ ficato vengono divisi; 2) si lega a quel carattere di autonomia sistematica di un campo semiotico, senza rimandi eteronomi ad altri sistemi, che costituisce quel criterio di pertinenza considerato uno dei principi-base del metodo strutturale. Tuttavia se la nostra concezione del segno architettonico è, o ci sembra, teoricamente più corretta delle altre, va rico­ nosciuto a queste un grado di maggiore operatività. Infatti, anche dissentendo, non è chi non veda come il comporta­ mentismo che ispira la prospettiva di Koenig abbia, ad esempio, una indubbia incidenza ,,sociologica, e come le 7


denotazioni e connotazioni proposte da Eco riflettano tra l'altro una processualità storica quando spiegano il variare dei significati delle fabbriche col passare del tempo: la storia

non fa altro che riempire di sensi e di interpretazioni succes­ sive questi fatti fisici osservabili, continuando a considerarli come segni, per quanto appaiano ambigui e misteriosi 5•

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A questo punto viene fatto di chiedersi da che cosa derivi la maggiore operatività, o meglio, la capacità di dire o far dire all'architettura più cose secondo la linea seguita da Koenig ed Eco. Non affrontiamo in questa sede il problema di verificare fino a che punto intervenga il talento e la capa­ cità analitica degli autori citati che potrebbe dar forse buona prova anche da una prospettiva erronea; se il metodo di Eco sia più proficuo per le valenze peculiari alla semiologia che per quelle filosofiche o antropologico-culturali che vi sono connesse; né se Koenig riesca a dire di più come storico assai informato sulle vicende del Movimento Moderno, spe­ cie quelle tedesche, che come semiologo comportamentista. Quel che è certo, essi, distinguendo i segni (ma non sono forse sintomi, per dirla con Segre?) dai significati, le forme dalle funzioni e queste in prime e seconde, denotative e conno­ tative, sembrano in grado di articolare un discorso assai ricco di facoltà applicative. t:. possibile che questa ricchezza di strumenti dipenda proprio dal fatto che la loro imposta­ zione prescinde deliberatamente dalle acquisizioni estetiche, mentre la minore operatività della nostra idea di segno archi­ tettonico derivi dallo sforzo di tenere unita la semiologia all'estetica? Non si· corre il rischio, così come abbiamo detto all'inizio, dalla nostra visuale di ripetere in termini diversi le stesse cose acquisite con il metodo storico-critico e per giunta al suo stadio più empirico? Questo interrogativo evi­ dentemente pone .in crisi la funzione di politica della cultura, di riduzione storiografica e progettuale che attribuiamo alla semiologia architettonica. Di fronte alla scarsa operatività della nostra imposta­ zione, e in considerazione del fatto che, dopo aver postulato l'unità di tali componenti, in s�d� appUcativa (l'analisi della Rotonda palladiana ad es.) ci siamo in definitiva riferiti a


dei simboli, ossia a faltori esterni al segno, si pone la seguente alternativa: o è sbagliata la nostra concezione del segno architettonico, oppure, oltre l'unione significativa data dal binomio spazio interno-esterno, esiste un altro parametro indispensabile al processo di significazione. Riformulando il problema in termini più corretti si tratta da un lato di affermare l'autonomia significativa del segno architettonico senza ricorrere a « qualcosa d'altro", ossia a simboli, e dall'altro di non rinunziare al compito di appro-, fondire, allargare, esplicitare il processo di comunicazione, inclusivo dei parametri più eterogenei, in omaggio al rigore vero o presunto d'una coerenza teorica. In altri termini, è lecita la coesistenza di una significazione autonoma e di una eteronoma? La risposta a tutti i precedenti interrogativi si trova in quella dicotomia saussuriana, oggetto del presente scritto, ossia il piano dei sintagmi e quello delle associazioni, che ha avuto finora scarso rilievo nelle ricerche di semiologia archi­ tettonica. Eppure, proprio parlando di questi due assi, de Saussure trova nell'architettura la loro più calzante esempli­ ficazione. Attingiamo direttamente dal capitolo in cui egli, dopo aver affermato che nel linguaggio tutto poggia su rap­ porti, parla di quelli sintagmatici ed associativi. Da una parte, nel discorso, le parole contraggono tra loro, in virtù del loro concatenarsi, dei rapporti fondati sul carattere linea­ re della lingua (sul carattere spaziale dell'architettura possia­ mo dire nel nostro caso ). ... Queste combinazioni che hanno per supporto l'estensione possono essere chiamate sintagmi. Il sintagma dunque si compone sempre di due o più unità consecutive... Posto in un sintagma, un termine acquisisce il suo valore solo perché è opposto a quello che precede o " quello che segue owero a entrambi. D'altra parte, fuori dal discorso, le parole offrenti qual­ che cosa di comune si associano nella memoria, e si formano così dei gruppi nel cui ambito regnano rapporti assai diversi. Così, la parola enseignement farà sorgere incosciamente nello spirito una folla di altre parole ( enseigner, renseigner ecc., oppure armement, changement ecc., o ancora éducation, ap- 9


prentissage ecc.); per qualche aspetto, tutte hanno qualche cosa di comune tra loro. Ognuno vede che queste coordinazioni sono d'una specie affatto diversa rispetto alle prime. Esse non hanno per sup­ porto l'estensione; la loro sede è nel cervello ... Noi le chia­ meremo rapporti associativi 6•

Dopo aver affermato che il rapporto sintagmatico si basa su uno o più termini realmente presenti nel discorso e quello associativo in una serie mnemonica virtuale, l'uno cioè in praesentia l'altro in absentia, de Saussure ricorre al famoso esempio architettonico: colonna e architrave stanno in un rapporto sintagmatico, ma appena si pone mente al fatto che quella colonna è d'ordine dorico, ecco che questo determina un rapporto associativo con gli ordini ionico, corinzio ecc.; il primo rapporto è determinato da elementi realmente pre­ senti nello spazio, il secondo determina. una associazione mentale. Come abbiamo notato altrove, in qualunque sistema semiologico ogni segno implica (almeno) tre relazioni: quella interna delle sue componenti, il significato e il significante; quella che lega il segno agli altri in una determinata strut­ tura (relazione sintagmatica); quella che lega il segno per associazione mnemonica ad altri appartenenti a diverse strut­ ture (relazione associativa o paradigmatica o sistematica) 7• Ma in quello scritto che risale ad alcuni anni fa non eravamo in grado di cogliere tutte le valenze della dicotomia sintagma/ associazioni così come si rivelano oggi dopo aver affettuato alcuni tentativi di applicazione semiologica. Dopo tali espe­ rienze e gli interrogativi che queste hanno prodotto, nonché le altre riflessioni sul rapporto fra metodo storico e metodo strutturalista, ci sembra di poter affermare che la dicotomia in esame non solo risolve alcuni problemi semiologici, ma risulta utile anche per la metodologia storiografica. Antici­ pando una .conclusione, riteniamo che la dicotomia in parola, in semiologia, consente di indagare il processo di significa­ zione tenendo rigorosamente uniti i significanti coi significati e al tempo stesso di non rinunziare a quelle significazioni indotte di tipo simbolico, metaforico, virtuale, associativo10 mentale ecc., che sembrano esclusivo appannaggio di quelle


semiotiche dove il segno sta per qualcosa d'altro. L'estensione alla storiografia architettonica ed artistica delle caratteristi­ che della stessa dicotomia consente, tra l'altro, di indagare sulla struttura dell'opera, grazie all'idea d'un asse sintagma­ tico, e di indagare sul suo contesto, sulle influenze eteronome, sulle ideologie, sui valori e significati ch'essa ha assunto nel tempo ecc., grazie all'idea di un asse associativo. Insomma, salvo errore, la dicotomia di cui ci occupiamo sembra introi­ tare le due vie indicate da Brandi, quella dell'astanza e della semiosi, senza peraltro privilegiare l'una rispetto all'altra. A tal proposito ci pare che la via dell'astanza altro non sia che una indagine basata, sia pure con pregevoli risultati, sulla sola linea dell'asse sintagmatico. Sull'utilità storiogra­ fica della dicotomia saussuriana, che costituisce il tema del nostro discorso, torneremo più avanti per specificare ora i caratteri particolari dei due assi. Pur avvertiti che il piano sintagmatico e quello associa­ tivo fanno parte di una esperienza globale, essi si possono distinguere per motivi metodologici e didascalici. Quanto al primo, l'unione di due o più elementi architettonici (chia­ miamo qui elementi sia quelli provvisti di spazio interno, ovvero i segni, sia quelli puramente tettonici, costitutivi dei segni fino a quelli meramente decorativi), cioè di segni e sotto-segni, dà luogo ad un sintagma. Questo con altri determina una catena sintagmatica, ovvero il sistema costi­ tutivo di una fabbrica, la sua struttura. Il significato di tale sistema è dato non dalla somma dei significati (per noi gli spazi interni) di ciascun segno, ma da quello dell'intero insie­ me, come sappiamo dall'antica nozione di symmetria, dalla teoria gestaltica e dal concetto di struttura. Parlando della solidarietà sintagmatica de Saussure scrive: il tutto vale per le sue parti, le parti valgono altresì in virtù del loro posto nel tutto, ed ecco perché il rapporto sintagmatico delle parti al tutto è tanto importante quanto quello delle parti tra loro. � questo un principio generale che si verifica in tutti i tipi di smiagmi enumerati più in alto; si tratta sempre di unità più vaste, composte di unità più ristrette, le une e le altre poste in un rapporto di solidarietà reciproca... Di regola, 11


noi non parliamo per segni isolati, ma per gruppi di segni, mediante masse organizzate che sono esse stesse segni 1• La precisazione è di grande importanza per la semiologia architettonica. Qui possiamo aver solo eccezionalmente un unico segno, ovvero un unico ambiente dotato di spazio inter­ no non più scomponibile; in generale le fabbriche si presen­ tano « mediante masse organizzate che sono esse stesse dei segni »; parleremo allora di edifici polisegnici, le cui parti sono strutturate in maniera sintagmatica. Ritornando al significato che si addice all'asse dei sin­ tagmi, tale significato è di tipo gestaltico, conformativo, fa capo ai principi della pura visibilità, riguarda i fenomeni ottico-percettivi con tutte le loro implicazioni conoscitive indicate appunto dalla teoria purovisibilista, dall'EinfW1lung, dalla Gestalttheorie, dalla psicologia transazionale ecc. Posse­ diamo quindi tutto un bagaglio di strumenti suggeriti dal­ l'estetica, dalla teoria dell'arte e da altre scienze per poter analizzare e cogliere il senso di una struttura architettonica attenendoci in prima istanza ai suoi valori fenomenici e spaziali. Ancora appartenenti alla struttura sintagmatica pos­ siamo considerare quei fattori pre-iconografìci e iconografici di cui parla Panofsky. Insomma si tratta di escludere da questo primo scandaglio tutto quanto .esula dai tangibili valori strutturali e conformativi, denotativi o interni, come le informazioni sul contesto storico-sociale, i significati con­ notativi acquisiti da una fabbrica nel tempo, le implicazioni ideologiche e soggettive dello storico. Viceversa nell'analisi associativa è legittima ogni classificazione, tipologia, ricorso a tipi-ideali, impiego di metafore, riferimento eteronomo; si tratta di cogliere, descrivere e classificare i valori conno­ tativi o esterni d'una fabbrica, dando soprattutto conto del suo storico contesto, indicando il suo significato originario e le sue mutazioni di senso dalla sua costruzione sino ad oggi. Qui ogni illazione ideologica, politica, sociologica ecc. trova il suo terreno d'elezione. Sulla maggiore flessibilità del piano associativo rispetto a quello sintagmatico, de Saussure s'è espresso in tutta evi12 denza: l'associazione può poggiare... sulla sola analogia dei


significati ( enseignement, instruction, apprentissage, éduca­ tion ecc.) o, al contrario, sulla mera comunanza delle imma­ gini acustiche (per esempio enseignement e justement). Dun­ que vi è talora comunanza duplice, del senso e della forma, talora comunanza di senso o di forma soltanto. Una parola . qualsiasi può evocare sempre tutto ciò che è suscettibile di esserle associato in una maniera o un'altra 9. Tutto è quindi lecito rapportare al piano delle associazioni? Sebbene de Saussure esemplifichi sempre in base ad un dato tangibile, il radicale, il suffisso, la forma, il senso, si può rispondere affermativamente. Ma, e qui sta, a nostro avviso, uno degli aspetti metodologicamente più utili della dicotomia in parola, dichiarando esplicitamente che si tratta di una operazione connotativa e non denotativa, mentale e non fenomenica, riguardante valori soggettivi e virtuali, non obiettivi e reali. Abbiamo già accennato all'utilità semiologica della dico­ tomia sintagmi/associazioni. Essa consente di indagare il processo di significazione sia per quanto attiene all'internità di un sistema, caratterizzata dai segni, sia per ciò che riguar­ da l'esternità di esso, ossia i rimandi referenziali, i simboli cosicché grazie ai due assi in esame possiamo dire che la semiologia inglobi la iconologia. Ma al di là del taglio pura­ mente semiotico, come s'è detto, vogliamo mostrare l'utilità della dicotomia saussuriana, oltre i cenni già dati, nella me­ todologia storiografica. :E!. noto che la storia dell'architettura e dell'arte si pre­ senta come una storia speciale, in quanto, a differenza della storia civile, dove i fatti vtvono nella dimensione della me­ moria e per ciò che ancora influenzano oggi, gli oggetti arti­ stici conservano (o dovrebbero) la loro originaria struttura; sono, per così dire, degli eventi viventi. Inoltre, mentre tutti gli altri fatti storici vengono · tradotti in un linguaggio ad essi eterogeneo per sopravvivere, quelli artistici si basano anzitutto sulla loro tangibile presenza (l'astanza di cui parla Brandi). Ora questa storiografia particolare, che in gran parte si attua in praesentia, non possiede in quanto tale la prima caratteristica dell'indagine sintagmatica? Non si basa anche questa sulle relazioni realmente esistenti in un sistema strut- 13


turale? Evidentemente sì. Ma è altrettanto chiaro che non basta l'analisi e neanche l'interpretazione fattuale di un'opera architettonica per farne la storia; è necessario collegarla con eventi omogenei ed eterogenei, comunque esterni a tale opera, per fissarne il contesto e la storicità. Sembra pertanto lecito definire questa seconda operazione come una attività di tipo associativo, attuabile in absentia. Ad affrancare quanto dicia­ mo dal sospetto di una meccanica trasposizione dalla lingui­ stica alla storiografia, basterà indicare l'utilità dell'analogia proposta che, come tutte le questioni di metodo, si giudica dai risultati, dalle aporie che riesce a risolvere, dalla capacità di chiarire qualche problema. Consideriamo alcune questioni rientranti nei principali capisaldi della storiografia: il principio di individualità, quel­ lo di causalità e quello di selettività. Quanto al primo, è noto che, a differenza di altre scienze miranti a formulare leggi generali, la storia tende a cogliere l'aspetto individuale, unico ed irripetibile di un evento. Tut­ tavia, è stato dimostrato che, mentre le une non possono trascurare l'individualità, l'altra non può prescindere dalla generalità. Siamo quindi in presenza di un rapporto dialet­ tico in ogni caso; nella storiografia architettonica i caratteri inediti ed irripetibili d'una fabbrica vanno colti in relazione ·ad alcune caratteristiche generali della cultura del tempo e, d'altro canto, gli aspetti generali di tale cultura, per esempio lo stile di un epoca, non sono delle astratte generalizzazioni, ma vanno colti nei tratti comuni offerti dalle specifiche con­ formazioni delle singole opere. Il modo di risolvere questo nodo dialettico, che in pratica si affronta empiricamente o, peggio, privilegiando talvolta il momento individuante e tal­ altra quello generalizzante, potrebbe più utilmente effettuarsi riportando il primo all'analisi sintagmatica dell'opera in esa­ me e .il secondo a quella associativa. L'analisi dei sintagmi darebbe conto di tutto quanto è unico, peculiare ed irripe­ tibile d'un edificio, mentre quella associativa, chiamando in causa fattori iconologici, tipologici, ideologici, stilistici ecc. indicherebbe tutti quei fattori che legano l'opera al contesto 14 e magari alla sua in11uenza futura. Inoltre, ricordando sempre


la relazione dialettica dei due momenti, si eviterebbe tra l'altro di ridurre tutta l'indagine ad una lettura formale del­ l'opera e all'opposto di ridurla alla sua sola interpretazione ideologica. Il caposaldo della causalità può anch'esso giovarsi della dicotomia in esame. Infatti, se per spiegazione causale d'un evento (problema da molti ritenuto non pertinente alla storia dell'arte, mentre noi lo consideriamo perfettamente legittimo anche in questo campo) s'intende una ricerca mirante ad indi­ viduare le cause esterne, socio-politiche, ideologiche ecc., che hanno contribuito a, o influenzato la realizzazione d'una fab­ brica, il fatto che tale ricerca sia condotta - ed esplicita­ mente - secondo l'ottica di tipo associativo ci sembra che chiarisca un procedimento di metodo, affrancando peraltro da ogni intonazione deterministica, in quanto fa salva l'altra indagine, quella sulla struttura sintagmatica che è tutta an­ cora da compiere. Se per spiegazione causale, come abbiamo proposto altrove 10, s'intende un processo mirante a vedere un'opera come causa d'un'altra, allora appare evidente che la linea d'indagine più adatta è di tipo sintagmatico, tende cioè a riconoscere fattori conformativi derivanti da altri di analoga natura; ma anche qui non si cade nel formalismo in quanto, esplicitamente dichiarando il tipo d'operazione che si compie, si riconosce che, a completamento del quadro storiografico, occorre ancora tener conto di ciò che deriva da una parallela indagine di tipo associativo. L'utilità storiografica della dicotomia linguistica può rico­ noscersi infine nella risoluzione di un problema rientrante uel caposaldo della selettività storiografica, ossia quello della contemporaneità della storia. Non c'è dubbio che ogni vera storia muove da interessi attuali, ma se ciò ridimensiona l'erudizione e la filologia, letteralmente inteso, comporta una deformazione della storicità delle opere, degli autori e dei periodi esaminati ed un loro forzato adattamento agli inte­ ressi di oggi. La contemporaneità della storia si riduce quindi, nel migliore dei casi, ad una equilibrata interazione tra 1 fatti e lo storico, ad un suo « senso di misura», in realtà assai poco verificabile. Si può obiettare che tale fenomeno

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rientra appunto nel carattere selettivo della storiografia, giu­ stificante appunto un certo grado di indeterminazione ogget­ tiva; ma quando si tratta di dire in che modo avviene tale selezione, ecco che il metodo storico-empirico mostra tutti i limiti del suo soggettivismo ed intuizionismo. Se anche di fronte al problema della contemporaneità della storia utiliz­ zassimo gli assi sintagmatico ed associativo potremmo in gran parte risolvere la suddetta aporia. Infatti, l'uno, inda­ gando .sui rapporti strutturali d'un'opera, potrebbe meglio dar conto della sua originaria storicità, mentre l'altro, utiliz­ zando la stratificazione delle conoscenze ottenuta col tempo, potrebbe dar conto della sua attualità. Certo, anche l'esame più rigorosamente pertinente agli aspetti conformativi, ossia quelli rimasti entro certi limiti immutati delle fabbriche, quelli che, come s'è detto, rendono la storia dell'arte una storia di organismi ancora viventi, risente d'una « deformazione» attuale, non foss'altro per le tecniche e i criteri di lettura, ma - salvo ad intendersi nei termini - nella sostanza l'analisi sintagmatica, operando sul contesto reale d'una struttura, sui valori di contiguità delle parti, sui loro rapporti gestaltici ecc., non dovrebbe fornirci un quadro dell'opera molto diverso da quello originario e, per estensione, un'idea dell'originario contesto. Si ·tratta iil definitiva di « far parlare » quelle opere per ciò che esse real­ mente dicevano e dicono ancora per le loro caratteristiche rimaste invariate. E questa operazione, finora appannaggio della pura filosofia, o, nel migliore dei casi, d'una lettura unilateralmente visibilista, diventa pienamente storica e cri­ tica perché muove da un interesse attuale, qual è quello della significazione. Ma non è una storia ideologica perché tiene ben distinto, per quanto è possibile, ciò che l'edificio con­ serva del suo originario significato da ciò che oggi esso signi­ fica per noi. A questo secondo compito provvede l'analisi di tipo associativo con i suoi parametri mentali, virtuali, ete­ ronomi ecc., registrando le mutazioni diacroniche del senso, quel cambiamento connotativo di cui parla Eco o il « con­ sumo» di significato indicato da Dorfles. Riassumendo il lato storiografico del tema discusso, pos-


siamo dire che le seguenti alternative o antinomie: indivi­ dualità e generalità; causalità, per così dire, autonoma (opera che genera opera) e causalità eteronoma (contingenze che condizionano opere); storicità e contemporaneità possono tradursi in altrettante dicotomie risolvibili secondo il modello di quella saussuriana. Una dicotomia del genere, applicata alla storia ha soprattutto il merito di indurre il ricercatore a dichiarare di volta in volta lungo quale asse sta operando, in ciò fornendo una indubbia garanzia di verificabilità del suo metodo. RENATO DE Fusco

• Significanti e significati della Rotonda palladiana, in « Op. cit. •, n. 16, settembre 1969; Lettura storico-semiologica di Palmanova, in « Op. cit. •• n. 17, gennaio 1970; Segni e simboli del tempietto di Bra­ mante, in • Op. cit. », n. 19, settembre 1970. 2 Cfr. S. BETIINI, Problemi di semiologia, in « Bollettino del centro internazionale di studi di architettura Andrea Palladio•, n. XI, 1969. 3 G. K. KoENIG, Arclzitettura e comunicazione, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze, 1970, p. 201. 4 U. Eco, La struttura assente, Bompiani, Milano, 1968, p. 200. s Ibidem, p. 201. 6 F. DE SAUSSURE, Corso di linguistica generale, Laterza, Bari, 1967, pp. 149-150.

7 Arclzitettura come mass medium, note per una semiologia architettonica, Dedalo libri, Bari, 1967, p. 161. 8 F. DE SAUSSURE, Op. cii., pp. 154-155. 9 Ibidem, p. 152. 10 In Storia e struttura, teoria della storiografia architettonica,

E.S.I., Napoli, 1970, p. 109.

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Meaning

.

lil

Architecture

La ricerca semiologica nel campo dell'architettura vanta ormai al proprio attivo non solo il notevole contributo for­ nito alla sistemazione teorica di questo ambito disciplinare, ma anche alcune esperienze volte a verificare « sul campo » le possibilità applicative di tale metodo di lettura. Inoltre, essa ha il merito di aver riproposto come un aspetto fonda­ mentale, per la semiologica architettonica, quella « valenza semantica » che viceversa molte impostazioni, strettamente pertinenti alla linguistica o a sistemi segnici diversi da quello di cui qui ci occupiamo, sono state sin qui concordi nell'esclu­ dere - o quanto meno nel porre in secondo piano - prefe­ rendo fermarsi sui soli aspetti relativi alla formalizzazione di tali sistemi. Per la semiologia architettonica, l'attenzione ai problemi del significato risulta a nostro avviso evidente in buona parte della letteratura di cui ormai disponiamo; una ulteriore, recente conferma ci è venuta dalla lettura di quel Meaning in Architecture I che già nel titolo dichiara un interesse non marginale per gli aspetti semantici, e che ha riproposto alla nostra riflessione alcune questioni ed interrogativi, peraltro già delineatisi nel corso di precedenti letture; questioni ed interrogativi che stanno all'origine del presente scritto. Va detto anzitutto che l'esigenza di verificare il « conte­ nuto del significato » - o se si vuole la sua « natura » - non può che risultare determinante per ogni tentativo di interpre­ tazione semiologica del fatto architettonico; e ciò anzitutto perché uno dei motivi originari di tale approccio coincide con una più volte affermata esigenza di « risemantizzazione ,. 2 18

del linguaggio dell'architettura. Esigenza complessa, giacché


la questione non investe tanto la univocità e chiarezza deno­ tativa di quelle che per ora definiremo genericamente le cc unità significative» del linguaggio architettonico (ché anzi, come già ci è occorso di notare altrove 3, non si può non riconoscere all'architettura contemporanea, nella gran parte dei casi, una immediata chiarezza di denotazione), quanto piuttosto la sfera della significazione nella sua globalità, e in particolare le componenti connotative. Che questa « crisi della significazione» interessi soprattutto la sfera dei valori conno­ tati e delle più radicate e riposte « ragion d'essere» dell'archi­ tettura, è indirettamente confermato dalla diversità di ango­ lazione con cui possono essere affrontati, invece, i problemi semiologici del codice grafico - il disegno - che presiede alla rappresentazione progettuale dell'architettura. L'analisi semio­ grafica di questo codice comunicativo, infatti, per essere sostanzialmente orientata a verificarne la univocità e chia­ rezza, può con discreta approssimazione assimilarsi, come problematica, a quella di un qualsiasi altro codice, ugual­ mente formalizzato, di tipo avalutativo (ad esempio logico­ matematico). Viceversa, la natura della comunicazione che l'oggetto architettonico stabilisce in quanto unità fisicamente percepibile e fruibile, è strettamente legata, fra l'altro, a patterns culturali che sono in gran parte « ideologici,. e comunque di tipo valutativo. Ciò riporta in primo piano il contenuto semantico della comunicazione architettonica, ossia la natura del suo significato; nella presente rassegna, quindi, i significati ci interesseranno non solo in quanto «altra faccia• dei significanti, ma talora, al limite, per se stessi. Meaning in Architecture è costituito da una serie di saggi diversamente angolati dal punto di vista teorico, su alcuni dei quali soltanto 4 ci soffermeremo nella presente rassegna; saggi di vario interesse, talora assai stimolanti ma in qualche caso invece tali da suscitare non poche riserve o dissensi, e che abbiamo preso in considerazione non perché più significativi di altri contenuti nello stesso volume, ma solo perché più pertinenti all'ambito della presente ricerca. Va detto anzitutto che non poche perplessità suscita già (a parte altre minori inesatezze) la voce « signifier-signified,.

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nel glossario dei termini semiologici premesso alla prima parte del volume stesso. Qui infatti leggiamo che « il signi­ ficante è la rappresentazione di un'idea o di un pensiero che è significato. Nella lingua, il suono sarebbe il significante e l'idea il significato, mentre in architettura la forma sarebbe il significante e il contenuto il significato. Il fatto che ogni segno abbia almeno 5 questa doppia natura è chiamato ' doppia articolazione • ». A parte la anacronistica riproposi­ zione della distinzione tra forma e contenuto (che franca­ mente sarebbe un ben contraddittorio risultato dell'analisi semiologica) è immediato osservare come, in linguistica, l'espressione « doppia articolazione» sia ormai correntemente riferita alla distinzione di Martinet sui livelli fonemico e morfemico 6; e d'altro canto, le pagine di Meaning in Archi­ tecture cui la definizione sopra citata rinvia, si riferiscono sia alla struttura del segno come unione di significante e significato, sia (ma con qualche improprietà) all'articolazione in fonemi e morfemi. Va fatta a questo punto una precisazione. Un discorso sulla natura del significato dell'architettura, qual è quello che qui ci proponiamo, potrebbe apparire condizionato, per la sua formulazione in termini ipotetici e problematici, dal carattere in fieri che contrassegna la ricerca semiologica in questo campo, o anche dalla particolare complessità di strut­ tura del linguaggio architettonico. Non sarà quindi fuor di luogo ricordare come la nozione di significato sia in sé complessa e multivalente, al punto che nel celebre The Meaning of Meaning, Ogden e Richards distinguono addi­ rittura sedici diverse accezioni per il termine meaning 1• In linea estremamente generale, sembra difficile non condividere l'asserto - spesso formulato, e riproposto del resto anche ir1 Meaning in Architectu1·e 8 - che il significato può variare con - e talora addirittura dipendere da - il particolare uso che di un segno si fa all'interno di un determinato contesto: e ciò sia nel senso del contesto definito da un particolare linguaggio, o metalinguaggio, o jargon, sia in quello del contesto inteso in termini situazionali e sociali; concetto 20 questo che trova in linguistica precisi riscontri, nella nozione


ad esempio di linguaggio affettivo 9• Quanto all'architettura, ed alla complessa natura della sua struttura comunicativa, ricordiamo come ad esempio il Collins 10 - che ha il merito di aver riproposto una serie di antecedenti sette- ed ottocen­ teschi inerenti ad una interpretazione linguistica dell'archi­ tettura che con Bettini definiremo metaforica 11 - si soffermi sulla natura del linguaggio architettonico con chiaro riferi­ mento alla valenza semantica, e specifichi che « Il linguaggio ... come l'architettura, ha insieme un valore funzionale ed emo­ tivo. Esso ha un fondamentale scopo funzionale, che è di far fronte alle esigenze della comunicazione; ma nel far fronte a questa esigenza esso può raggiungere un potere emozionale che lo colloca nel rango delle Belle Arti » 12• Mentre per l'excursus storico del Collins sulla « Lingui­ stic Analogy » rimandiamo all'omonimo capitolo del suo libro ed a quanto altrove ci è già occorso di notare in proposito, torna forse utile invece, ai fini del presente discorso, ripren­ dere la posizione di James Fergusson (pure ricordata dal Collins), anche perché essa può essere ricollegata oggi al complesso discorso che - in parte anche su questa stessa rivista 13 - è stato sviluppato sulla opposizione tra presen­ tatività e rappresentatività nei linguaggi artistici. Scrive infatti il Fergusson che « l'architettura non imita nulla, non illustra nulla, non narra alcun racconto ... ; essa riesce appena ad esprimere un'emozione di gioia o di tristezza con la stessa chiarezza con cui potrebbero esprimerle dei bruti privi della parola » 14• Al di là delle specifiche formulazioni, e dei sup­ porti teorici che la sottendono, è questa una posizione ricor­ rente, che tende a porre l'accento su di una« comunicatività» di tipo puramente empatico e appunto emozionale, contrap­ ponendo in certo senso la natura semantica della comunica­ zione linguistica (idonea all'articolazione di « messaggi ») a quella dei sistemi di segni non linguistici, e quindi in parti­ colare dell'architettura, la quale appunto « tells no tale». Poiché il nostro proposito è di soffermarci sulla« natura » del significato architettonico, è opportuno premettere un cenno sui rapporti tra linguistica e semiologia. Va anzitutto precisato che, nella querelle fra i sostenitori della linguistica 21


come parte della semiologia, e viceversa i fautori di una linguistica come scienza madre generale, di cui la semiologia sarebbe parte (e fra questi ultimi ricordiamo il Barthes), gli studiosi che si sono occupati della trasposizione di tali strumenti concettuali al campo architettonico hanno per lo più preso posizione secondo il primo partito. In altri termini, - e indipendentemente, in certo senso, dallo specifico consen­ tire o meno sulla natura « comunicativa » dell'architettura è prevalsa la prima impostazione, ossia quella di ritenere la semiologia come la scienza madre, di cui la linguistica costi­ tuirebbe una branca speciale (anche se invero, e senza alcun dubbio, la più avanzata nelle sue formulazioni, modello teo­ rico obbligato di riferimento), così come un'altra branca speciale sarebbe costituito dal sistema segnico dell'architet­ tura. 1:. indubbio quanto osserva in proposito Ch. Jencks, ossia che « in qualsiasi situazione segnica vediamo immediatamente intervenire il linguaggio, e comprendiamo così perché all'ini­ zio la semiologia si sviluppò dalla linguistica » 15• Questo giu­ dizio richiama quello espresso dalla Choay, allorché osserva che « l'uomo contemporaneo intrattiene con tutti i suoi pro­ dotti una sorta di rapporto riflessivo; il linguaggio stende progressivamente uno schermo tra lui ed essi » 16; giudizio al quale è facile peraltro ribattere che in realtà lo « screen » sussiste non solo fra l'uomo contemporaneo e i suoi prodotti, ma fra l'uomo e la materia, come vedremo più oltre. In effetti, comunque, l'aspetto che a mio avviso nel modo più probante milita a favore della sistematica che vede la lingui­ stica come una parte della semiologia, e non viceversa, può essere riconosciuto nel fatto che la linguistica rappresenta il solo caso in cui il sistema dei· segni costituente l'oggetto dell'analisi, e il sistema segnico con cui l'oggetto viene ana­ lizzato, hanno la medesima natura. Ciò non sembra potersi interpretare se non, appunto, come un caso particolare; rico­ noscendosi al contrario, nella generalità dei casi, una disomo­ geneità di sistemi segnici, fra piano dell'oggetto e piano della sua lettura interpretativa e critica. Questa disomogeneità, 22 del resto, in campo architettonico risulta non solo ovviamente


verificata, ma addirittura stimolatrice di nuove ipotesi di analisi critica, formulate secondo lo stesso sistema segnico dell'oggetto, quali ad esempio quelle. recentemente esaminate da Tafuri 17• Su questo primo punto possiamo dunque concludere nel senso di una interpretazione del linguaggio architettonico come un sistema segnico, per il quale le operazioni interpre­ tative, di lettura critica, di esegesi storica, etc., vengono attuate (o per lo meno lo sono state sin qui) attraverso l'uso di quel particolarissimo sistema segnico che è la lingua; ciò peraltro non comporta affatto che, nell'uno e nell'altro siste­ ma, i significati debbano presentare la medesima natura concettuale. D'altro canto, dire che l'architettura è un « siste­ ma di segni » costituisce asserto di tale genericità da poter essere condiviso anche da chi dissenta dalla prospettiva semiologica, nella misura in cui tale espressione lascia del tutto imprecisata la nozione di segno. La quale peraltro costi­ tuisce un punto molto importante da chiarire, prima di parlare di « natura » del significato architettonico. L'antino­ mia infatti fra la nozione peirciana del segno come un qual­ cosa « che sta per », e quella saussuriana del segno come unione di significante e significato, costituisce uno dei motivi dominanti di quel grosso discorso critico che è il dibattito sulla natura presentativa/rappresentativa dei fatti di natura artistica, e in specie di quel fenomeno architettonico che particolarmente ci interessa. Anzi, proprio la nozione peir­ ciana del segno ha costituito il punto di partenza di alcune fra le critiche più serrate rivolte alla interpretazione semio­ logica dell'architettura; critiche imperniate sull'asserto che ad esempio una colonna non « sta per » ma « è », ossia non rappresenta un « altro da sé », bensì « presenta » se stessa. A ben riflettere, sotto il profilo dell'indagine semantica è que­ sto un punto cruciale: giacché da esso dipende che il signi­ ficato stia « dentro » o viceversa « fuori » del segno (nel nostro caso, dell'architettura). Il fatto è che, pur restando nel campo generalmente semiologico - ossia accantonando per il momento la disputa sulla natura segnica dell'architettura - è la stessa nozione 23


di segno a risultare ancora non univocamente definita, e ciò anche escludendo nozioni particolari come quella morrisiana del segno icoruco. Le ipotesi alle quali ci si riferisce usual­ mente (entrambe, non a caso, di ascendenza linguistica), sono rispettivamente quella della struttura binomiale del segno come unione inscindibile di significante e significato (di deri­ vazione saussuriana, e solitamente esemplificata nell'ormai classica analogia con le due facce del foglio di carta) e della struttura triadica del cosiddetto triangolo semiologico, in cui il segno risulta costituito da tre componenti: significante, significato e denotatum (o referent). Ad entrambe queste nozioni di segno si fa riferimento nei saggi di Meaning in Architecture, in modo non sempre chiaramente alternativo; con l'eccezione del saggio di G. Broadbent, in cui si avanza una ipotesi diversa, e che mette conto di segnalare per la sua singolarità. Scrive Broadbent: « Non vi è dubbio che, come nel linguaggio, il segno o unità di significato architetto­ ruco sia composto di un significante e di un significato. Ma in linguistica sussiste un'ambiguità tra ciò che è 'reale ' e ciò che non lo è. Nel discorso, ad esempio, il significante con­ siste in un'unione di fonemi, o suoni fisici, che possono signi­ ficare qualsiasi cosa, da un concetto astratto ad un semplice, concreto oggetto... Abbiamo supposto, nel delineare delle analogie tra linguistica ed architettura, che il significante sia l'edificio - un semplice, concreto oggetto - e il signi­ ficato un qualche concetto astratto o 'significato ' (meaning). Può darsi che si tratti di un eccesso di semplificazione. Può darsi che le cose stiano esattamente al contrario. Suppo­ niamo, ad esempio, che il significante sia un concetto astratto e che l'edificio stesso sia il significato. Non vi è dubbio che, in passato, gli edifici siano stati progettati in questo modo, come materializzazione di concetti astratti a diversi livelli, dalla mistica incarnazione della luce nel St Denis di Suger, alla concretizzazione di un ideale sentimentale, medioevale, nel St Augustine di Pugin. Questa inversione dei ruoli tra significante e significato rimuove, d'un colpo, il maggior osta­ colo alla trasposizione della linguistica saussuriana in termi24 ni architettonici. Il linguaggio non attiene più alla costi-


tuzione fisica dell'edificio, esso è trasporto dal piano del contenuto a quello dell'espressione, che è quello che gli com­ pete» 18• Broadbent - che ha il torto di continuare a contrap­ porre «forma» e «contenuto», - ha però il merito di aver intuito (come mostra H titolo del suo saggio, Meaning into Arclzitecture) come il significato stia dentro l'architettura; solo che, per giustificare questo assunto nella sua prospettiva di una rigida separazione tra significante e significato, giunge a porre il significante fuori dell'architettura: il che, confes­ siamo, non ci riesce molto chiaro, sempre che non si voglia dare a tale capovolgimento un valore puramente terminolo­ gico e di nomenclatura. Più particolarmente, all'asserto di Broadbent va obiet­ tato, anzitutto, che nella teoria saussuriana il significato è sempre un concetto, un'immagine mentale: sia che si tratti di una entità astratta, sia che il significante possa essere rife­ rito ad un oggetto concretamente esistente. In secondo luogo, dire che St Denis rappresenta «Suger's mystical embodiment of light » non comporta affatto, ci sembra, né tanto meno esemplifica, quel «reversal of roles » di cui parla Broad­ bent, ossia che l'edificio sia il significato e la « mistica incar­ nazione della luce » il significante, ma al contrario riflette l'idea che il significato dell'architettura (il significante nella terminologia di Broadbent) sia di natura meramente alle­ gorica, simbolica. Infine, il riferimento ad un piano del con­ tenuto e ad un piano dell'espressione, post Hjelmslev, non può essere fatto in modo generico, e senza una precisazione di natura teorica. E. da notare anzi, a questo proposito, che in Meaning in Architecture i riferimenti (impliciti) a que­ stioni toccate dal linguista danese sono numerosi e ricor­ renti. Così ad esempio sia Broadbent che Jencks (quest'ul­ timo partendo da un accenno alla teoria di Whorf « il quale asserisce che il linguaggio dà forma sia al pensiero sia alla nostra conoscenza della realtà» 19), riprendono un esempio - quello ben noto dello spettro e dei nomi dei colori di cui Hjelmslev si serve per chiarire, relativamente al piano del contenuto, la sua dicotomia di sostanza e forma. Sulla impostazione teorica di Hjelmslev ci soffermiamo 25


qui brevemente per ragioni che risulteranno chiare alla fine di questo scritto. Com'è noto, la sua glossematica si fonda su di una quadruplice distinzione: piano del contenuto e piano dell'espressione, sostanza e forma; per cui si hanno rispettivamente una sostanza ed una forma del contenuto, ed una sostanza e una forma dell'espressione. Nota in proposito G. Lepschy che «il 'contenuto ' tradizionale corrisponde alla sostanza del contenuto di Hjelmslev, e la' forma ' tradizionale si rivela come un ammasso di elementi incoerenti che occorre distinguere: cioè, ... non solo sostanza dell'espressione e for­ ma dell'espressione, ma anche forma del contenuto» 20• (Va qui precisato che nella glossematica di Hjelmslev la nozione saussuriana di segno come unione di significante e significato si trasforma nella nozione, analoga, di segno come rapporto tra due «funtivi », forma del contenuto e forma dell'espres­ sione, essendo la lingua una forma e non una sostanza). La quadripartizione di Hjelmslev può essere meglio intesa ricor­ dando che, nella sua glossematica, si parte da una specifica nozione di «materia,. (in danese « mening »), materia che è amorfa e comune a tutte le lingue; e si arriva al contenuto linguistico (diverso da lingua a lingua) a partire da una stessa materia amorfa, sottoposta ad un processo di forma­ zione 21• «Riconosciamo così - scrive Hjelmslev - nel con­ tenuto linguistico, nel suo processo, una forma specifica, la forma del contenuto, che è indipendente dalla materia ed ha con essa un rapporto arbitrario, e la forma rendendola sostanza del contenuto » 22• Analogo processo si verifica per l'espressione, nel senso che «una stessa materia del­ l'espressione può essere formata diversamente in lingue di­ verse,. 23• Per Hjelmslev, i due funtivi che tra loro contraggono la funzione segnica sono dunque la forma del contenuto e la forma dell'espressione; ed è in questo senso, e soltanto in questo, che in una maniera apparentemente analoga a quella della linguistica tradizionale si può, secondo Hjelmslev, par­ lare del segno come segno di un qualcosa che si trova al di fuori di esso. Ciò che sta al di fuori del segno è la 26 sostanza del contenuto, che è fatto extra-linguistico, ossia



i cenni già svolti sulla nozione di segno - ci propo­ niamo di affrontare tre ordini di questioni: le unità mi­ nimali costitutive del significante; la connessione tra si­ gnificante e significato e la sua rh,pondenza o meno al cri­ terio dell'arbitrarietà; la identificazione, in architettura, del­ l'analogon del concetto che in linguistica corrisponde al si­ gnificato. Quanto al primo di questi tre aspetti, ricordiamo che in linguistica il concetto della doppia articolazione, dovuto a Martinet, h a posto in evidenza come il morfema (che in prima approssimazione assimiliamo al segno architettonico) sia costituito da fonemi, ossia da elementi privi di signifi­ cazione, e di numero limitato in ogni lingua. La ricerca delle unità minimali costitutive del segno (ossia per intenderci degli equivalenti dei fonemi) rappresenta un tipo di estensione, della teoria linguistica al campo architettonico, particolar­ mente controverso anche tra i fautori dell'interpretazione semiologica; e del resto, la stessa trasponibilità in architet­ tura della nozione di segno come unità minima dotata di significazione ha suscitato delle riserve. Paradigmatica ci sem­ bra in proposito la posizione di Dorfles qual è espressa nel saggio, contenuto in Meaning in Architecture, e intitolato Structuralism & Semiology in Architecture. « ...Anche se pos­ siamo ammettere l'esistenza di un codice architettonico in gran parte istituzionalizzato, e suscettibile di essere decodi­ ficato da coloro che lo usano in una maniera sufficientemente precisa, questo codice però non può essere scomposto in unità distinte identificabili con quelle del comune linguaggio parlato ... A maggior ragione dovrebbe esser chiaro che consi­ dero assurda l'idea della costante presenza di una ' doppia articolazione ' in ogni sistema segnico... Chiunque ha il diritto di chiamare ' sintagma architettonico ' la gradinata che con­ duce ad una piazza, o l'ascensore che porta ad una terrazza, o il pannello di alluminio di un curtain wall, ma solo in maniera metaforica. Nessuno ha il diritto di trattare le fine­ stre come 'sintagmi ' e i mattoni come 'fonemi ' ... Sostengo al contrario... che vi è spesso se non sempre un ' quid for28 male' - che potremmo definire come un ' gestaltema ' -


che comunica esclusivamente su di una base formale e di configurazione » 2s. Un recente tentativo, operato per verificare la presenza in campo architettonico di un « grado n » di articolazione, ci aveva condotto ad ipotizzare viceversa un triplice livel­ lo, identificando negli « elementi » architettonici delle entità intermedie tra il livello dei fonemi (entità prive di signifi­ cato) e quello dei segni (unità dotate di specifico significato architettonico, ossia, nella nostra prospettiva, di spazialità interna). Gli elementi intermedi, nella nostra ipotesi, erano dei sub-segni dotati di una particolare, per lo più elevata, capacità di significazione simbolica: come ad esempio gli stilemi degli ordini classici 29• Può essere di qualche interesse notare come ad una tri­ plice articolazione dell'architettura (intesa però in tutt'altri termini), si riferisca anche Ch. Jencks, allorché afferma che « in ogni architettura, in genere, vi sono una forma, una fun­ zione, ed una tecnica » (e sin qui, nihil sub sole navi dopo Vitruvio), per poi soggiungere che « nella maggior parte delle opere architettoniche vi deve essere una forma (compren­ dente ad esempio colore, testura, spazio, ritmo), una funzione (scopo, uso, connotazioni del passato, stile, etc.), ed una tecnica (consistente nella struttura, nei materiali, negli im­ pianti meccanici, etc.). E dunque, se il linguista cerca di sco­ prire quali unità fondamentali comunicano il significato ver­ bale, e trova elementi come i fonemi e i morfemi, sarebbe quanto mai opportuno che chi ricerca nel campo dell'archi­ tettura trovasse ' formemes, funcemes and techemes ', que­ ste unità fondamentali del significato architettonico. Mentre ogni lingua usuale presenta una doppia articolazione, l'archi­ tettura ne presenta una tripla » 30• Anche tralasciando di prender partito sulla validità teorica di una simile impostazione (fonemi e morfemi apparten­ gono a livelli diversi di articolazione, mentre « formemes, fun­ cemes and techemes » apparterrebbero, come componenti diverse, ad un unico processo costitutivo del prodotto archi­ tettonico), non si può non notare comunque come Jencks riunisca, sotto ciascuna di queste partizioni « categoriali • 29


(forma, funzione e tecnica) aspetti fra loro del tutto etero­ genei: e valga, fra i tanti rilievi possibili, l'esempio della « categoria funzione», in cui rientrerebbero non solo lo scopo e l'uso, ma anche lo stile e le « past connotations». In ogni caso, accantonando per il momento la questione dei livelli di articolazione in architettura - che francamente ci sembra « misunderstood» da Jencks, e che in ogni caso è più che mai aperta - sembra utile passare al secondo degli aspetti sopra indicati; aspetto peraltro chiaramente correlato al terzo, giacché è evidente che la natura - arbitraria o meno del rapporto tra significante e significato architettonico, non può essere indipendente _dal « contenuto» del significato stesso. Circa la connessione linguistica tra significante e signi­ ficato, più che ripetere gli esempi usualmente addotti, ci sembra opportuno riportare qui un brano di Vendryes, che a nostr:o avviso rende in maniera assai precisa la natura di tale connessione. « ••• tra il segno e la cosa significata, tra la forma linguistica e la materia della rappresentazione, non vi è mai un legame naturale, ma solo un legame di circo­ stanze. Per molto tempo, si è creduto che l'origine del lin­ guaggio fosse consistita nel dare dei nomi alle cose, ossia nel creare un vocabolario. Era questa l'idea che già Lucrezio aveva espresso nel verso, spesso citato, 'Utilitas expressit nomina rerum', in cui d'altronde egli giustamente attribuiva la creazione del linguaggio al soddisfacimento di una neces­ sità. In Francia, nel XVIII secolo, il presidente De Brosses ha tentato di spiegare la ' forma ' delle parole attraverso il senso che esse esprimono. Scopo della sua ricerca era la costituzione di una sorta di simbolica dei suoni, che sarebbe servita ai primi uomini per creare le loro parole. L'impresa fa oggi sorridere. L'essenziale, non è di aver battezzato gli oggetti con la tale o la talaltra parola, ma di aver dato alle parole, per una sorta di tacito accordo fra i parlanti, un valore fiduciario; di averle assunte come oggetti di scambio, così come si è sostituito, al pagamento in natura, l'uso delle monete o dei biglietti di banca» 31• 30 Quanto al campo della se� ologia architettonica, è abba-


stanza singolare che la gran parte degli autori che ricono­ scono all'architettura una struttura segnica nel senso della comunicazione, ammetta una non-arbitrarietà, per essa, del rapporto tra significante e significato, in opposizione alla convenzionalità della omologa connessione linguistica; men­ tre viceversa un autore come Brandi, che rivendica all'archi­ tettura - e più generalmente all'arte - un manifestarsi per astanza e non per semiosi, riscontri poi nell'architettura un carattere del tutto analogo a tale arbitrarietà 32• Tuttavia, poi­ ché su questa posizione di Brandi ci è già occorso altrove di soffermarci, riteniamo più utile riprendere il filone della nostra rassegna esaminando la posizione assunta in propo­ sito da Dorfles. Nel saggio già citato, egli afferma di sentirsi propenso « ad accettare principi completamente opposti a quelli sostenuti dalla maggior parte dei linguisti contempo­ ranei, circa la convenzionalità della connessione tra il segno verbale ed il suo referente ", e ciò perché, a suo avviso, « esiste un elemento semantico implicito nella stessa struttu­ ra fonetica della parola ». Analogamente quindi si rileve­ rebbe « l'esistenza di una sorta di analogie isomorfi.che tra la forma dell'edificio e dell'oggetto e la sua struttura fisica »; ciò permetterebbe di « visualizzare una precisa connessione tra il significante architettonico o urbanistico e il suo 'signi­ ficato'... il che equivale a dire che il segno architettonico (la relazione tra significante e significato) sarà molto probabil­ mente di ordine simbolico, non concettuale, non razionale, anche se tutta la realizzazione e l'utilizzazione pertinenti a questa arte sembrano presupporre la ragione e la logica " 13• Rimandiamo qui a quanto già detto altrove sulla valenza simbolica del significato, e sulla sua appartenenza ad una sfera, al contrario, ambigua proprio per la sua polisemia e e molteplicità concettuale :H_ Resta però da esplicitare come i due aspetti sopra ricordati, del riconoscimento o meno di una arbitrarietà di connessione tra significante e significato, e della interpretazione circa la natura del significato stesso, siano - come abbiamo già sottolineato - tutt'altro che indipendenti. Notiamo anzitutto che un'interpretazione in senso funzionale, o comportamentistico, della natura del signi- Jl


ficato, porterà a riconoscere come rilevanti, peculiari aspetti di conformazione del significante (ossia il suo conformarsi in maniera da permettere, o enfatizzare, una certa funzione); aspetti questi che, viceversa, saranno giudicati del tutto mar­ ginali nella prospettiva di una diversa interpretazione circa la natura del significato. Così ad esempio la proposta - già applicata in alcune specifiche letture di opere 35 - di far cor­ rispondere i due binomi significato-significante, e spazio in­ terno-esterno, ha tra i propri « corollari » quello di recu­ perare alla sfera architettonica anche quegli episodi il cui spazio interno non ha come propria principale destinazione una fruizione collettiva ( come ad esempio il naos del tempio greco). In effetti, se si parte da un approccio semantico orien­ tato verso le « ragioni funzionali», non si può che giungere, magari per vie diverse, alla distinzione ben nota di Eco tra funzioni prime (denotate) e funzioni seconde (connotate) 36; le prime appartenenti alla sfera pratica, le seconde di natura simbolico-referenziale. Di conseguenza, vengono a delinearsi una nozione di significato-funzione ed un'altra di significato­ rinvio simbolico. � il concetto che ancora Dorfles adombra nell'osservazione che « oltre ad avere il normale significato funzionale (i pilastri di sostenere, le porte di aprirsi, etc.) questi elementi ne hanno un altro, traslato, allegorico e meta­ forico ». Particolarmente interessante ai nostri fini è però il seguito di questo stesso discorso, centrato sulla distin­ zione fra due diversi aspetti del fattore iconologico. « Dob­ biamo distinguere fra la presenza di un aspetto simbolico­ iconologico, che era giustificato negli edifici sacri dell'anti­ chità, e quella di un aspetto tipologico-iconologico, che è tuttora presente in molti edifici contemporanei, specialmente quando rivestono particolari caratteri 'semantici•. Entrambi questi aspetti debbono costituire il punto di partenza di qualsiasi successiva analisi linguistica. In altre parole, non ha senso analizzare un edificio con l'apparato semiologico senza prima decidere di quale natura fosse il compito iconologico, se simbolico oppure tipologico, cui l'edificio doveva rispon32 dere. Nel caso di un moderno air terminal, un tale compito


può essere esattamente decifrato, mentre nel caso cli un edificio antico la cui reale destinazione ci è ignota, possiamo solo supporlo. Ciò che rimane però importante è che l'edi­ ficio avrà una sua presenza, determinata appunto da quegli aspetti formali e conformativi che gli garantiscono un'espres­ sione autonoma e non ambigua» J1. In effetti, non è tanto la distinzione tra un aspetto sim­ bolico-iconologico ed uno tipologico-iconologico, a lasciare per­ plessi, quanto il rapporto di antinomia (« whether... or») in cui Ii pone Dorfles. Da un lato infatti è abbastanza imme­ diato rilevare come talune tipologie si siano caratterizzate e si caratterizzino proprio per una spiccata capacità di river­ berazione simbolica (né è a caso che spesso le analisi sui valori simbolici dell'architettura abbiano preso le mosse da contrapposizioni tipologiche); dall'altro, proprio la struttura della comunicazione simbolica, per il suo impasto di conven­ zione e di indeterminatezza, di codificazione e di ambiguità, ha dovuto spesso incardinarsi su strutture architettoniche tipologicamente definite, di cui volta a volta si contestava il valore convenzionale attraverso Io « sgarro », il sovvertimento della regola. È chiaro che l'antinomia di Dorfles nasce dalla separazione netta che egli postula tra sfera del simbolo e sfera della razionalità; d'altronde, non sembra accettabile questa attribuzione di valore simbolico alle sole antiche fabbriche sacre e la esclusione del simbolo dall'ambito delle « tipologie laiche»: è sufficiente pensare alle architetture progettate dai « rivoluzionari» fine-settecenteschi, per vedere delinearsi tutto un mondo di simbolicità « laica ». Anch'essa condizionata alle scelte operate circa la natura del significato architettonico, ristùta la visione dei rapporti segno-contesto; e ciò sia per quanto riguarda la dimensione sincronica della catena sintagmatica, sia per quanto attiene alla dimensione diacronica. In termini estremamente generali, può rilevarsi che, ove prevalga una interpretazione in senso funzionale (e comportamentistico), l'approccio semio­ logico mira ad individuare una « classificazione » dei segni in senso appunto funzionalistico, ossia tende al riconosci� mento della permanenza diacronica del loro significato-fun- 33


zione, al di là della evoluzione morfologica e stilistica del significante. Così è evidente che se per Dorfles il « nonna} functional meaning » coincide con « columns carrying, doors opening, etc.», tale significato costituisce una invariante rispetto al livello del concreto e mutevole manifestarsi stili­ stico, conformativo, etc., del significante. Un tale criterio di classificazione per costanti di significato-funzione, si ritrova nella terminologia delle semiotiche comportamentistiche di derivazione morrisiana, che per l'architettura parlano di «segni di compartimentazione verticale», e simili. Al contrario, ove prevalga una interpretazione del signi­ cato (e del significante) in termini di spazialità, nel senso sopra e altrove precisato, diviene irrilevante una classifica­ zione dei segni per caratteri funzionali, e risultano viceversa dominanti la individualità e la storicità dello specifico segno considerato, ossia la sua messa in relazione con una serie di «contesti»: quello globale (sintagmatico) della struttura poli­ segnica dell'opera considerata; quello più generale dello stile dell'artista; quello infine dello stile epocale. In questa pro­ spettiva cioè, il fatto che lo scalone della Laurenziana, la gradinata dell'Aracoeli e la berniniana «scala regia», possano tutte e tre essere percorse come «entità funzionale scala», risulta del tutto irrilevante. Se quindi, per un verso, il dibat­ tito sulla natura del segno e delle sue componenti porta inevi­ tabilmente alla questione delle relazioni segno-contesto, ossia all'analisi sintagmatica, dall'altro il problema della signifi­ cazione, in architettura, si ripropone anche lungo il secondo asse della dicotomia saussuriana - ossia lungo l'asse para­ digmatico - come significato di natura associativa, analiz­ za bile ed esplicitabile secondo diverse direzioni: in senso tipologico, stilistico, iconologico. In questa prospettiva, un primo aspetto problematico su cui soffermarsi, è costituito dalla individuazione dei rapporti tra i significati dei singoli segni architettonici, e quello globale della fabbrica, ossia il significato dell'intera struttura polisegnica considerata; un secondo aspetto è costi­ tuito dall'analisi semantica dello spazio urbanistico, inteso 34 come contesto di macro-segni (o polisegni) architettonici. Su


quest'ultimo punto - il cui approfondimento rimandiamo ad altra occasione - ci limitiamo qui a citare, sia perché recen� tissima sia perché espressa con grande efficacia e semplicità, la posizione di Maltese: «••• la casa di una casbah ha un senso solo se è unita strettamente a tutte le altre, ma non avrebbe senso se, potendo resecarla dal contesto, la si collo­ casse in un parco come se fosse una villa... ; ...è assolutamente necessario difendere certi rapporti spaziali e volumetrici che si sono creati o che sono stati previsti attorno ad un edificio (si pensi alle cattedrali gotiche o alle piramidi egizie) se non si. vuole distruggere una parte essenziale del messaggio che esso costituisce» 38• Sul primo punto invece, poiché è evi­ dente che la stessa nozione di struttura esclude che per il significato globale si possa prendere in considerazione l'ipo­ tesi di una « sommatoria di significati parziali», è opportuno cercare di precisare a quale ordine possano appartenere tali relazioni, dei segni fra loro e di ciascun segno in rapporto al contesto. Se consideriamo, in rapporto alla sfera architettonica, la triplice distinzione enunciata da Della Volpe circa f «tipi» del discorso (comune, scientifico, poetico), vediamo come - al di là delle generiche e «metaforiche » rispondenze che sarebbe possibile verificare 39 - discorso comune, discorso scientifico e discorso poetico si differenzino non solo per il rispettivo carattere di genericità, di univocità e di polisemia, ma particolarmente per il fatto che i nessi tra i segni, nei tre casi, presuppongono strutture contestuali profondamente di­ verse. In particolare, mentre nel discorso scientifico (onni­ testuale ed eteroverificabile) la scelta dei segni è (anche) condizionata all'obiettivo che la loro specifica univocità deb­ ba, attraverso le reciproche relazioni, indurre un aumento della globale univocità del contesto, viceversa nel discorso poetico, caratterizzato da una particolare contestualità, l'alone di ambiguità semantica di cui ciascun segno è dotato, è desti­ nato a potenziarsi, a ricevere dal. contesto nuove, inedite riverberazioni 40• :e. dunque la «disposizione» dei segni, oltre alla loro « qualità» ed al loro significato come singole unità seman-

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tiche, a determinare il significato globale dell'opera; risultato che del resto ha già trovato conferma attraverso la lettura se­ miologica di specifiche opere architettoniche. Generalizzando, possiamo dire che, assunte due diverse strutture polisegniche come oggetto di analisi semiologiche finalizzate in senso semantico, non sembra possibile affrontarne la lettura con l'obiettivo di scomporle in unità che risultino identiche, od omologhe, in termini di significazione. Lo stesso uso degli stilemi degli ordini ha assunto, nella storia dell'architettura, un valore del tutto peculiare e diverso: nelle fabbriche rina­ scimentali, e in quelle dei revivals classicheggianti, ad esem­ pio; per non parlare delle « citazioni» classiche 41 consuete agli architetti rivoluzionari, o ai protorazionalisti 42 • Ciò con­ ferma la necessità, già ritrovata per altra via, che l'analisi semiologica si applichi alle concrete opere architettoniche, colte in tutta la loro storicità, e non a presunti «elementi» (finestre, etc.). In altri termini, non sembra possibile (se non appunto prescindendo dalla valenza semantica e limitandosi ad analogie superficiali inerenti alla sola morfologia dei signi­ ficanti), organizzare di questi ultimi una sorta di « catalogo», con la pretesa di farvene corrispondere uno omologo dei significati. Non ha fondamento, cioè, l'idea della formazione di un «vocabolario», raccolta di segni potenzialmente orga­ nizzabili in un qualsiasi contesto con invarianza di significa­ zione delle singole unità-segno; e risulta in tutta la sua evi­ denza il carattere metaforico di asserti come quello di Ger­ main Boffrand, fatto proprio da tanta cultura a lui contem­ poranea, che « i profili delle modanature e le altre parti che compongono un edificio stanno all'architettura come le parole al discorso» 43• In questo senso, possiamo condividere il discorso di Dorfles allorché afferma che « ci troviamo così di fronte ... ad un aspetto sintattico del linguaggio architettonico che a mio avviso è assai più importante del mero aspetto seman­ tico dei singoli elementi...; dobbiamo determinare le nostre unità significanti in senso architettonico dopo l'analisi, e in rapporto al particolare contesto...» 44• 36 Le difficoltà che sin qui siamo andati sottolineando, e


le ipotesi che abbiamo cercato di avanzare, confermano a nostro avviso come la questione del significato dell'archi­ tettura sia tuttora, e più che mai, « aperta »; nonostante che un chiarimento di ordine generale possa essere ritrovato­ nella dicotomia saussuriana tra sintagma ed associazione - cui nella presente rassegna si è talora fatto riferimento, e che per taluni aspetti è stata utilizzata nella recente lettura di S. Pietro in Montorio - alla quale in questo stesso numero è dedicato un ampio saggio di De Fusco. Riteniamo tuttavia che talune particolari difficoltà potreb­ bero essere, se non ·superate quanto meno chiarite nei loro termini, ricorrendo ancora una volta ad alcuni concetti mu­ tuati dal campo linguistico, questa volta dalla glossematica di Hjelmslev, ed alle distinzioni da lui operate tra i vari tipi di semiotiche. Ci limitiamo qui ad avanzare delle ipotesi di lavoro, che potranno diventare un utile strumento concet­ tuale per la ricerca in campo architettonico solo dopo un approfondimento teorico, e qualche verifica applicativa. Hjelmslev definisce una lingua come « una semiotica nella quale ogni altra semiotica, cioè ogni altra lingua e ogni altra struttura semiotica concepibile, può essere tradotta. Tale traducibilità si basa sul fatto che le lingue (e le lingue soltanto) sono in grado di formare qualunque materia; nella lingua, e soltanto nella lingua, è possibile ' lottare con l'ine­ sprimibile finché si arrivi ad esprimerlo ' (Kierkegaard). 1:. questa qualità che rende la lingua utilizzabile in quanto lingua, capace di dar soddisfazione in qualunque situazione. Non c'è dubbio che tale qualità si fonda su una peculiarità strutturale che potremmo capire meglio se sapessimo qual­ cosa di più sulla struttura specifica delle semiotiche non linguistiche » 45• Circa i sistemi diversi dalla lingua, lo stesso autore precisa: « Dobbiamo lasciare agli altri specialisti nei campi particolari la decisione se, per esempio, i cosiddetti sistemi simbolici della matematica e della logica, o certi tipi di arte, come la musica, si debbano definire come semio­ tiche da questo punto di vista, o no. ... Noi proponiamo di chiamare sistemi simbolici quelle strutture che sono inter­ pretabili (cioè a· cui si può coordinare una materia del con- 37


tenuto), ma non biplane...» 46• Successivamente, Hjelmslev amplia il proprio discorso introducendo la nozione di « semio­ tiche connotative» (il cui piano dell'espressione è una semio­ tica ), e di «metasemiotiche» (semiotiche il cui piano del contenuto è una semiotica), e precisa, a proposito delle prime, che « qualunque testo non sia di estensione così limitata da non costituire una base sufficiente per la dedu­ zione di un sistema generalizzabile ad altri testi, contiene di solito derivati che si basano su sistemi diversi», e può essere analizzato in rapporto a « forma stilistica, stile, stile come valore, mezzo, tono, vernacolo, lingua nazionale, lingua regionale e fisionomia...» 47: categorie tutte, queste, per le quali è immediato trovare delle corrispondenze in campo architettonico. Mentre rimandiamo al testo di Hjelmslev per le com­ plesse precisazioni di natura teorica implicate dai concetti di « semiotica connotativa » e di « metasemiotica », ci propo­ niamo qui, semplicemente, di sviluppare alcune considera­ zioni. Il fatto che l'analisi semiologica in campo architetto­ nico si debba, a nostro parere, esplicare sulle opere anziché su astratti «segni elementari», assimila il nostro approccio interpretativo a quello della critica letteraria, che assume a proprio oggetto - quale che sia il «filtro» prescelto 48 un testo storicamente e concretamente determinato. L'analisi di tale testo è volta sia a riconoscere una serie di peculiarità attinenti alla struttura dell'opera (analisi sintagmatica), sia a riportare l'opera stessa alla individualità stilistica del­ l'autore, allo stile epocale, alle Stimmungen del tempo; o ancora al «genere» di appartenenza dell'opera (direzioni di ricerca secondo l'asse paradigmatico). In una siffatta analisi, per quanto attiene all'asse del sintagma, ciascun segno è considerato, sotto il profilo semantico, come dotato di una significazione la quale va al di là, per così dire, del mero significato che nella langue è correlato a quel signi­ ficante; in altri termini, si riconosce ad ogni segno un « alone semantico» che, attorno a quel nucleo di significato primi­ tivo, mutuato dalla sfera della langue, cristallizza una serie 38 di strati ulteriori di significato, legati alla parole: ossia alla


struttura contestuale, conformativa, stilistica dell'opera: al punto da far talora scomparire, per così dire, il nucleo semantico primitivo. Viceversa, allorché si analizza un mes­ saggio strutturato con obiettivi di informazione, il nucleo semantico originario è in primo piano, e la univocità costi­ tuisce un carattere necessario del messaggio stesso. In pro­ posito, vanno ricordate la nozione jakobsoniana di « messaggio a funzione estetica» 49, e l'applicazione che Brandi ha svi­ luppato 50 della distinzione carnapiana tra campo intensionale e campo estensionale. Ai fini del nostro discorso, potremmo esemplificare il concetto del diverso ruolo che il nucleo se­ mantico originario può assumere in rapporto al diverso tipo di messaggio, contrapponendo l'informazione contenuta in una frase come « le acque del Rodano sono chiare e fresche», alla polisemia caratterizzante i versi « Chiare fresche dolci acque...», nei quali l'informazione è presente, ma per così dire assorbita, posta sullo sfondo, rispetto ai piani di lettura, sintagmatica e anche associativa, che sono pertinenti ad un tale tipo di testo. Nell'un caso e nell'altro può parlarsi di significato, ma sembra evidente che non si possa farlo negli stessi termini. È così che il significato-funzione del salire e c.lello scendere è presente tanto nello scalone della Lauren­ ziana, quanto in una qualsiasi combinazione di elementi tet­ tonici collegati in modo da consentirmi tale utilizzazione; ma r, ben vedere il peso semantico di questo nucleo di signi­ ficato-funzione sarà, nel primo caso, irrilevante rispetto alla dominanza dei significati di natura gestaltico-conformativa. A questo punto, e con le necessarie cautele, il discorso èi Hjelmslev può essere utilizzato per chiarire meglio la distinzione ricorrente in campo architettonico, tra compo­ r,ente « funzionale » e componente « conformativa » della significazione. L'architettura cioè, nella misura in cui si diffe­ renzia dalla tettonica, sarebbe una semiotica (un sistema di segni) che definiremo « connotativa » nel senso che il suo piano dell'espressione è costituito da una semiotica (la tetto­ nica), già a sua volta costituita da un piano dell'espressione (dei significanti) e da un piano del contenuto (il significatofunzione). 39


L'11tilità di un tale concetto - l'architettura come semio­ ·tica connotativa nel senso definito - può essere, a mio avviso, intravista in diverse direzioni. Anzitutto, essa ci per­ mette di dar conto del fatto - peculiare all'architettura 1ispetto alle altre arti - che essa risponde sempre, e deve rispondere, anche a finalità di natura pratica, e appunto "funzionale». In secondo luogo, ésso ci consente di ripor­ tare immediatamente l'operazione interpretativa, la lettura dell'opera svolta in una prospettiva semiologica, al livello che più le è pertinente, ossia a quello che con termine inclu­ sivo chiameremo strutturale (stilistico-sintagmatico). Infine, in questa prospettiva le difficili analogie con la struttura comunicativa della lingua, basate sulla teoria dell'informa­ zione e sull'analisi di « messaggi informativi», scomponibili in unità univocamente significative, possono con una certa tranquillità essere messe da parte: quel particolarissimo « testo», che è l'opera architettonica, si offre alla nostra interpretazione come una struttura la cui significazione, pur se inclusiva anche di significati-funzioni, è peraltro essenzial­ mente polisemica, e analizzabile in termini stilistko-sintag­ matici. Ciò comporta che il significato dell'architettura, la sua struttura semantica, non siano frazionabili, né decodifica­ bili per sola scomposizione, alla stregua di quanto avviene per un « messaggio informativo »; e ciò anche se possono inclu­ derne più d'uno. Possiamo considerare entrambi « testi», ciascuno nella propria sfera semiotica, la Rotonda e / promessi sposi; non la villa palladiana e l'espressione di « Lucia e Renzo dopo molte difficoltà si sposarono». I piani di analisi pertinenti all'opera del maestro vicentino e al testo manzoniano consi­ derano, per la significazione globale, un livello ed una strut­ tura che investono essenzialmente la sfera stilistico-sintagma­ tica - oltre evidentemente alle relazioni paradigmatiche ed associative -, e che in ogni caso vanno al di là, rispettiva­ mente, del piano della funzionalità dell'una in quanto resi­ denza, e della « trama» dell'altro in quanto romanzo storico; e ciò nonostante che, appunto, l'una sia anche abitabile, e il 40 secondo, tra l'altro, narri un « intreccio». � vero dunque che


l'architettura « tells no tale », ma - al limite, e per assurdo nemmeno la poesia e la letteratura, in quanto tali. MARIA LUISA SCALVINI

I Meaning in Architecture. Raccolta di saggi di autori vari, a cura di CH. JENCKS e G. B,IIRD, Londra, 1969. (Le citazioni da questo libro, non ancora tradotto in italiano, sono nostre, e ci scusiamo in anticipo con i lettori per eventuali inesattezze; altrettanto vale per le citazioni dal Collins e dal Vendryes). 2 Cfr. in particolare la posizione di R. DE Fusco, in Architettura come mass medium, Bari, 1967. J Cfr. M. L. SCALVINI, Simbolo e significato nello spazio architet. tonico, in « Casabella•. n. 328, 1968. 4 Gli articoli di Meaning in Architecture cui ci riferiremo nella presente rassegna sono i quattro della prima parte del volume: « Semiology & Architecture•, di CH. JENCKS; « Urbanism & Semiology•• di F. CHo,,v; « Structuralism & Semiology in Architecture•, di G. D0R· FLES; « Meaning into Architecture•, di G. BAIRD. s L'uso del limitativo « almeno• ( « at least•) si giustifica, credia­ mo, per il fatto che nel volume è frequente anche il riferimento alla nozione del cosiddetto triangolo semiologico, ossia del segno come unione di tre termini: symbol (sinonimi: form, word, signifier), thought (sinonimi: conteni, concept, signified) e referent (sinonimi: percept, denotatum, thing). Cfr. in particolare Meaning in Architecture, cit., p. 15.

6 Cfr. A. MARTJNCT, La considerazione funzionale del linguaggio, Bologna, 1965, pp. 43-45. 7 « ... nel loro fecondo volume /I significato del significato, Ogden e Richards mettono in evidenza la confusione, da parte dei filosofi, nell'uso fondamentale di questo termine. Ciascun filosofo ritiene che il proprio uso sia chiaro e comprensibile, mentre gli autori dimostrano che non è affatto così; essi distinguono sedici differenti significati del significato•· (CH. JENCKS, Semiology & Architect11re, in Meaning in Architecture, cit., p. 13). s « ... ciascun uso del significato è diverso da ogni altro, e ogni caso particolare deve essere compreso partendo dal contesto• (ibidem, p. 13). 9 In proposito, cfr. fra gli altri J. VENDRYES, Le langage - Intro­ duction linguistique à l'/1istoire. Parigi, 1968 (prima edizione 1914). Cfr. in particolare il cap. IV della seconda parte, « Le langage affectif•, pp. 157-175. 10 P. CoLLINS, Changing Jdeals in Modem Architecture. Londra, 1968. Cfr. in particolare il capitolo « The Linguistic Analogy•, pp.

17J..184.

11 Cfr. S. BETTINI, Critica semantica; e continuità storica dell'archi• lettura europea. In e Zodiac•, n. 2. 12 P. COI.LINS, cit., p. 174. 13 Cfr. in particolare G. M0RPURGO-TAGLIADUE, L'arte è linguaggio?. In e Op. cit. •• n. 11, 1968. 14 Nella sua Historical Inq11iry, Fergusson divide le arti in tre cate-

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gorie ( e tecniche. estetiche e poetiche ,.), e definisce l'architettura come una combinazione di elementi tecnici (costruttivi) ed estetici (orna­ mentali e decorativi). Cfr. in proposito P. CoLL1Ns, cit., p. 176. 15 CH. JENCKS, cit., p. 15. 16 F. CHOAY, Urbanism & Semiology, in Meaning in Architecture, cit., p. 27. (Si tratta di una riedizione del testo già apparso in « L'Ar­ chitecture d'Aujourd'hui », n. 132). 17 Cfr. M. TAFURI, Teorie e storia dell'architettura, Bari, 1968, in particolare il III cap., « L'architettura come metalinguaggio: il valore critico dell'immagine•• pp. 121-164. 18 G. BR0ADBENT, Meaning into Architecture, in Meaning in Arclli­ tecture, cit., p. 56. 19 Jencks si riferisce al libro di B. L. WH0RF, Language, Thought and Reality, MIT Press, 1956. 20 G. C. LEPSCHY, Hjelmslev e la glossematica. Introduzione alla trad. it. di L. HJELMSLEV, I fondamenti della teoria del linguaggio, Torino, 1968, p. XXV. 21 1:. notissimo - e spesso ripreso - l'esempio di cui si serve Hjelmslev, dello spettro continuo (materia amorfa del contenuto, o mening); spettro la cui continuità, nelle diverse lingue, viene diversa­ mente suddivisa con i nomi dei colori. Cfr., per un maggior dettaglio, L. HJELMSLEV, I fondamenti della teoria del linguaggio, cit., pp. 57-59. 22 Cfr. ibidem, p. 57. 23 « Come, per esempio, la zona dei colori e le zone dei morfemi sono suddivise diversamente in lingue diverse, poiché ogni lingua ha un suo numero di designazioni di colori, il suo numero di numeri grammaticali, il suo numero di tempi, etc., così si possono anche scoprire, confrontando lingue diverse, zone nella sfera fonetica suddi­ vise in maniera diversa in lingue diverse•· (Ibidem, p. 59. 24 Cfr. L. HJEI.MSLEV, cit., pp. 62-63. 25 G. C. LEPSCHY, Introduzione, cit., p. XXV. 26 Circa l'applicazione al campo architettonico della nota dicoto­ mia saussuriana di asse sintagmatico e asse associativo, cfr. sia i rife­ rimenti contenuti in R. DE Fusco - M. L. SCALVINI, Segni e simboli del tempietto di Bramante, in e Op. cit. », n. 19, 1970, sia, per una diffusa esplicitazione, R. DE Fusco, Utilità storiografica di una dicotomia lingui­ stica, nello stesso numero di questa rivista. r, Cfr. R. DE Fusco, N. PALMIERI, G. PASCA RAYM0NDI, Note per una semiologia figurativa, in e Op. cit. », n. 7, 1966. La stessa analogia è stata in seguito sviluppata da De Fusco in numerosi e noti scritti. 28 G. DoRFI..ES, Structuralism & Semiology in Architecture, in Meaning in Arcltilecture, cit., p. 40. 29 Cfr. R. DE Fusco, M. L. SCALVINI, Significanti e significati della Rotonda palladiana. In e Op. cit. •• n. 16, 1969. 30 CH. JENCKS, cit., p. 17. 31 J. VENDRYES, Le langage, cit., pp. 27-28. 32 « A documentare l'arbitrarietà del segno architettonico sta il fatto che, se non fosse arbitraria l'unione, simile a quella di significante e significato, si sarebbe dovuto avere un'unica architettura invece del succedersi e sovrapporsi degli stili che la storia documenta, dato che fra i bisogni ai quali sovviene l'architettura il maggior numero è ,;tato comune, almeno fino al secolo scorso, a tutte le civiltà ed a tutte le epoche, eppure in tutte le civiltà e in tutte le epoche hanno ricevuto esiti architettonici diversi•· (C. BRANDI, Slruttura e archilettura, To­ rino, 1967, p. 35. 34 Cfr. M. L. SCALVINI, Simbolo e significato nello spazio architet­ tonico, cit., in particolare per quanto riguarda i riferimenti al saggio


di R. GIORGI, Simboli e interpretazione, in Surrealismo e Simbolismo, Quaderno a cura dell'Archivio di Filosofia, Roma, 1965. lS Mi riferisco ai saggi già citati, Significanti e significati della Rotonda palladiana, e Segni e simboli del tempietto di Bramante. 36 Cfr. U. Eco, La struttura assente, Milano, 1968, in particolare pp. 207-209. 37 G. DORFLES, cit., p. 44. Ma il discorso sull'ambiguità andrebbe approfondito perché suscettibile di molte analisi che qui non è possi­ bile sviluppare. 38 C. MALTESE, Semiologia del messaggio oggettuale, Milano, 1970, p. 126. 39 Lo stesso impiego di espressioni come « stile vernacolare,. rife­ rite sia al linguaggio che all'architettura, mostra l'immediatezza di certe analogie. 40 ì:. questo ad esempio il concetto huxleyano della «recklessness " (cfr. in proposito le osservazioni di G. PRETI in Retorica e logica, Torino, 1968, pp. 4546). 41 Circa questa specifica nozione di «citazione", e la distinzione tra l'uso della citazione come intento di rifondazione, ovvero la cita­ zione intesa come « riferimento ad un universo logico dell'architettura •, cfr. G. GRASSI, La costruzione logica della architettura, Padova, 1967, p. 147 e segg. 42 Cfr. su questo punto M. L. ScALVINI, Antistoricità e storia nel movimento moderno. In « L'Architettura - Cronache e storia"• nn. 178 e 179, 1970. 43 P. COLLINS, cit., p. 174. 44 G. DORFLES, cit., p. 47. 45 L. HJELMSLEV, cit., p. 117. 46 Ibidem, p. 121. 41 Ibidem, pp. 123-124. 48 Cfr. in proposito C. SEGRE, I segni e la critica, Torino, 1969, p. 17 e segg. 49 « Il messaggio riveste una funzione estetica - scrive Eco sinte­ tizzando il concetto di Jakobson - quando si presenta come strut­ turato in modo ambiguo e appare autoriflessivo, quando cioè intende attirare l'attenzione del destinatario anzitutto sulla propria forma"· (U. Eco, cit., p. 62). so Cfr. C. BRANDI, Sulla nozione di codice nella critica d'arte. In «Rivista di Estetica •• anno XIII, fase. III, pp. 321-331.

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La cultura di Le Corbusier

A chi oggi abbia la costanza di affrontare la monumen­ tale bibliografia che accompagna l'opera di Le Corbusier, non dovrebbero sfuggire alcuni elementi significativi che vale la pena di riprendere in considerazione; in primo luogo non si può evitare di notare come in tante migliaia di pagine date alle stampe in ogni parte del mondo vi siano delle costanti critiche - una sorta di presupposto concernente la natura dell'opera di Corbu - che vanno riesaminate in quanto con­ sentono di illuminare meglio il valore storico complessivo di una vicenda con la quale la critica e la pratica architetto­ nica - proprio nel darne per scontate alcune caratteristiche di fondo - hanno evitato, sino ad ora, di fare definitivamente i conti. Al contrario invece di ciò che normalmente avviene, la figura di Le Corbusier - a patto di abbandonare quei gene­ rici presupposti - è oggi l'unica dell'intera generazione dei maestri dell'architettura borghese del XX secolo su cui si possa condurre un discorso critico con la speranza che esso abbia un minimo di validità storica complessiva; Le Corbu­ sier, infatti, non appartiene soltanto ad un'« altra genera­ zione », ma bensì può essere preso a simbolo pregnante della fine di un'epoca. Quando André Malraux, nella corte d'onore del Louvre il primo settembre 1965, appropriandosi in nome dello spi­ rito della Francia della straordinaria figura di questo archi­ tetto svizzero, pronunciava le parole: « Il avait été peintre, sculpteur, et, plus secrètement, poète. Il ne s'était battu ni pour la peinture, ni pour la sculpture, ni pour la poésie: il ne s'est battu que pour l'architecture » 1, sintetizzava compiuta­ mente l'assunto critico di cui parlavamo in precedenza. Ma 44 dopo il gran numero di studi che hanno seguito la morte di


Le Corbusier e dopo la comparsa in libreria, a breve distanza di tempo, dell'ottavo volume delle Oeuvres complètes e del reprint de « L'Esprit Nouveau -.., è ancora possibile essere soddisfatti di queste acquisizioni di critica? M. Besset ha notato in un suo recente scritto come Le Corbusier tenda a lasciare trasparire una ricchezza di forma­ zione culturale assai più limitata di quella dimostrata, prati­ camente, nelle sue opere 2; questo giudizio ha indubbiamente un certo valore nei confronti della critica corrente la quale ha, per quella via, potuto sempre ricondurre l'op era di Le Corbusier al proprio livello, ma si tratta tuttavia, in termini generali, di un giudizio limitativo se adottato per la lettura, in sede storica, del ruolo ricoperto da Le Corbusier all'interno della cultura borghese del Novecento. La riduzione apriori di Le Corbusier ad architettura, a pura e semplice architettura, questa che per il nostro punto di vista è una fondamentale mistificazione del significato storico dell'opera lecorbusieriana, cela la vera natura del legame che si vuole riaffermare tra la problematica architet­ tonica di oggi e le elaborazioni condotte durante gli anni Venti e Trenta, e mira ad arricchire il rapporto con il Movi­ mento Moderno - attraverso Le Corbusier - di una ambi­ guità e di una irresolutezza che il movimento dell'architettura radicale, sia oggi come allora, è ben lungi dal possedere. Quegli « anni gloriosi,. in cui i maestri del Novecento hanno prodotto i loro capolavori, dovrebbero ormai essere per la critica più avvertita un libro aperto, disponibile solo a studi filologici ma, di fatto, ormai definitivamente situato e circo­ scritto da un punto di vista storico. Molto ancora pare però si debba insistere per dimostrare quale sia l'unica possibile chiave di lettura che si può utiliz­ zare per l'analisi di questo brano specifico di storia dell'ar­ chitettura moderna senza assumere una posizione opposta a quella dettata da un chiaro « punto di vista di classe ,. : l'assunto critico che oggi, e proprio nell'attualizzazione del ·problema, si deve potere generalmente riproporre è quello che coglie nei primi decenni del Novecento il realizzarsi di una storica, complessiva lacerazione su tutto l'arco dell'or- 45


ganizzazione borghese del lavoro che, pur non racchiudendo nulla di « apocalittico », apre una crisi profonda dell'intero apparato istituzionale e disciplinare del potere borghese. Tale crisi deve essere giudicata e interpretata nel suo valore sostan­ zialmente progressivo quantunque in essa possa essere impli­ cita la « morte » di alcune delle forme specifiche della civiltà e della cultura borghese; ed è da questa lacerazione che il nostro discorso prende l'avvio per tentare di dimostrare co­ me anche l'architettura - sopra tutto l'architettura - esca definitivamente consunta, incapace non solo di esprimere un rinnovamento tanto radicale da adeguarla come disciplina al valore intimamente progressivo della crisi, ma bensì impos­ sibilitata a raggiungere nel suo complesso un livello di auto­ coscienza e di «cultura», tale da po11la ad un'altezza parago­ nabile a quella conseguita dalle punte più avante della grande cultura borghese. Se questo è il limite di fondo, e potremmo dire « struttu­ rale », di tutta l'architettura radicale europea, l'unico mae­ stro che vada al di là di questo confine oggettivo, che vada al di là di questo generalizzato stadio di mediocrità, è Le Cor­ busier. La mediocrità e teorica» di molte delle opere del Movimento Moderno può essere documentata appieno scor­ rendo, ad esempio, gli scritti di gran parte dei maestri degli anni Venti e Trenta dove il dato generale è una profonda piattezza e debolezza negli assunti che neppure l'immedia­ tezza e l'insistenza con cui si ripresentano certi dati socio­ logici può nascondere; il pensiero teorico del Movimento Mo­ derno rivela una staticità sconfortante, di per sé alternativa alla dinamica della crisi storica in cui si sviluppa; basta rileggere le pagine più impegnate di questa vicenda come ad esempio Baukunst im Volkstaat e altri scritti iniziali di Gropius o quelli degli architetti socialdemocratici tedeschi o ancora quelli prodotti in seno all'avanguardia architettonica sovietica, per comprendere tutto ciò, per vedere quale abisso vi sia tra queste posizioni e quelle propugnate dal solitario architetto svizzero. Tutto quelle opere ruotano, senza avere­ la capacità di penetrarne il meccanismo di fondo, intorno al 46 problema centrale che la crisi. storica delle .istituzioni pone


di fronte all'architettura, ma non solo ad essa; il riconosci­ mento esplicito che si coglie nelle prime pagine di Grossstadt di Hilberseimer - che il problema di fondo è quello di ren­ dere omogenea l'intera società ad una determinata forma di divisione del lavoro, che il metro di misurazione unico può essere soltanto quello che discende dalla produzione, dalla macchina non più intesa come evento « estetico », come dato sociologico, ma come fattore determinante di una nuova sto­ rica organizzazione dei rapporti sociali - rimane una proble­ matica soltanto superficiale e formalmente sfiorata dal Movi­ mento Moderno, solo parzialmente accolta in tutta la sua com­ plessità e in tutte le sue conseguenze dalle teorie dell'architet­ tura radicale. Ed è perciò che l'architettura « per natura », si pone con­ tro il riconoscimento del valore dinamico del sovvertimento presente, tentando di dominarlo per ricondurre in esso quei valori che ne rappresentano perlomeno una parziale nega­ zione in quanto legati - e frutto...:.... della staticità del dominio borghese. Ciò in particolare avviene colà dove l'impegno assu­ me i toni più radicali, dove l'assunto politico di parte è più manifesto, come ad esempio in Unione Sovietica o nell'opera di un B. Taut. Ma rimanendo all'interno degli schemi tradizionali della critica architettonica è praticamente impossibile cogliere tutto ciò, afferrare la dimensione reale dell'intero panorama storico che si deve invece affrontare: nell'epoca in cui l'arte deve sottostare a quelle leggi complessive che solo parzial­ mente l'espressione di Benjamin sulla « riproducibilità tecnica dell'opera d'arte » sintetizza, non è più possibile vedere in una qualsiasi delle forme di espressione deH'eideticità bor­ ghese, in una qualsiasi delle ipotesi del progetto intellettuale borghese, la traduzione complessiva - l'immagine - del con­ flitto sociale in atto, del rinnovato senso che il funzionamento dialettico dello sviluppo sociale va acquistando. Il coraggio di riconoscere questo limite storico del lavoro intellettuale è ciò che sostanzialmente differenzia Le Corbusier, o perlomeno una grande parte della produzione di Corbu, dalla generalità della vicenda dell'architettura moderna; con ciò egli si colloca 47


molto al di sopra di quel posto a cui la critica lo ha relegato vedendo nella sua opera la premessa ad un rinnovamento «incompiuto,, dell'architettura del Novecento. Ed è proprio quello specifico «coraggio ,, di Le Corbusier che ora è venuto a mancare, ma è solo partendo da esso che si può sperare di ricostruire il complessivo significato storico di quegli anni che dalle avanguardie al piano obus racchiudono ben più che il semplice e crepuscolare sussulto dell'architettura della bor­ ghesia. � per questo che per· comprendere cosa significhi la «cultura» di Le Corbusier, ma non solo ma bensì per capire parallelamente ciò che conduce dalla metropolitana di Gui­ mard o dal bagno di vetro di O. Wagner all'Afrikanische Strasse di Mies ed infine all'Unité di Corbu non è più possi­ bile ritornare ai codici ormai usurati della critica architetto­ nica, all'architettura che non è più, ma è invece necessario recuperare l'intero senso storico degli ultimi prodotti della cultura borghese e della società «precapitalistica »; tra le pa­ gine sparse dell'architetturà moderna ci si deve decidere ad inserire altri avvenimenti, si devono riscoprire e ritrovare Musil e il '17 operaio sovietico, Nietzsche e la crisi inglese del '26, Le considerazioni di un impolitico di Mann e il '29 di Wall Street. Parlare solo di architettura ha l'innegabile pregio di ren­ dere possibile ogni generalizzazione di parte: in ciò ogni figu­ ra, ogni episodio, viene ricondotto a quella generale condi­ zione che è il gregge: ed è proprio l'« istinto del gregge» che nel terzo libro de La gaia scienza viene riconosciuto come ciò cui spetta il compito di erigere il «sistema dei valori»; il medesimo spirito del gregge è anche la base storica da cui prende inizio l'intera lettura che da parte borghese è stata condotta sugli ultimi prodotti dell'arte borghese; la moralità che sta alla base di esso ingenera la speranza collet­ tiva di una «salvezza»; che i valori siano riproducibili in quanto tali; che in definitiva, il compito dell'arte - dell'«uni­ cità,, e della moralità dell'arte - sia ancora rappresentato dal dovere dei valori. Ed è questa in gran parte generalizzata condizione che permette di ricostruire continuità storiche che 48 hanno un significato solo retroattivo, unicamente regressivo


nei confronti del processo di sviluppo non solo delle disci­ pline e della scienza ma della « società civile » nel suo com­ plesso. L'esame da questo punto di vista della fortuna critica di Le Corbusier svela il reiterato tentativo di ricondurre •la sua opera sotto il medesimo segno che presiede allo « spirito del gregge»: in ciò viene esercitata la più radicale violenza con­ tro l'intera sua vicenda, contro la sua produzione teorica e architettonica che è tutta volta contro la moralità come istin­ to del gregge nell'individuo, che si esprime in valore solo proprio attraverso la propria amoralità sino in fondo ricono­ sciuta e alternativa a tutti i codici di valori che l'architettura moderna si è data o ha cercato di scoprire. Per anni quindi Le Corbusier è stato solo Ronchamp o villa Savoye, di volta in volta « poeta » o stringente razionalista, cartesiano e mi­ stico, preda della critica marxista e •dell'impegno ma anche del più disarmante secolarismo cattolico, ma alla fine solo e soltanto architetto; per anni, da sempre si potrebbe affer­ mare, la critica ha congiurato per renderlo assimilabile ad una astratta definizione di « Movimento Moderno» che sola lo avrebbe reso accessibile alla continuità delle generazioni, che sola lo poteva privare del suo forse più grande merito di appartenere tutto alla storia del passato. Ciò è sintomati­ camente avvenuto senza che almeno in apparenza sia mai sorto un dubbio sulla validità anche soltanto metodologica di questa operazione, senza che mai gli schemi in virtù dei quali tali operazioni erano possibili venissero posti in di­ scussione. Che l'architettura radicale sia stata « solo » architettura, e suo malgrado, non lo si può più ormai dubitare; ogni scon­ finamento dei maestri del Novecento al di fuori del campo dell'architettura rivela una debolezza sconcertante spesso una profonda grettezza e proprio colà dove questo sconfinamento è sentito come più necessario. La speranza di un riscatto, pas­ sando necessariamente attraverso la mediazione dell'architettura ha trovato un suo limite estremo; questo limite è vin­ colante, riduttivo, mistificante solo per quel,le punte isolatis­ sime dell'architettura del XX secolo che proprio per l'aver 49


interpretato e sentito quel confine non possono essere assi­ milate al Movimento Moderno, che con pari difficoltà quindi possono essere ricondotte all'interno dei recinti della « pura architettura». La vicenda di Le Corbusier è - nonostante le due strade si siano formalmente incrociate in più occasioni - altra ri­ spetto a quella del Movimento Moderno e dell'architettura radicale europea, e ciò non certamente solo perché i risultati della sua opera sono la stupefacente espressione di una genia­ lità che sovrasta di molto i prodotti correnti dell'architettura del Novecento. Anche e forse in maniera determinante può derivare da tutto ciò una chiarificazione del rapporto che deve esistere oggi tra l'architettura dei nostri giorni e quella degli anni Venti e Trenta; i volgarizzatori delle ricerche del Bauhaus o del neoplasticismo, i virtuosismi che riemergono dal reper­ torio formale dei Boullée e dei Ledoux, stanno ad indicare . un sopravvivere della disciplina concesso nella misura in cui il riscatto del banale è divenuto una branca della pura ideologia, è la prassi di un operare che non consente più avanguardie neppure sul piano formale; il piatto bricolage delle forme non approda che a quel travestimento privo di ironia che già Marx attribuiva ai « catoni» della rivoluzione francese. In Le Corbusier è difficile trovare le tracce di un qual­ siasi travestimento ed anche in ciò, quindi, egli chiude e non apre un'epoca; non vi è mai nella sua opera ricerca di dignità ed essa semmai sta tutta nell'averla esclusa a priori in quanto attributo formale; dopo la realizzazione di questa scelta di fondo i e catoni» sono sempre più anacronistiche comparse ridicolizzate della storia. Ma proprio in questo, nel rifiuto drastico di qualsiasi dignità borghese, di qualsiasi dignità di discendenza illuminista, Le Corbusier, a differenza dell'architettura radicale a lui contemporanea, è perfettamen­ te in sintonia con la storia, tanto aderente ad essa, al suo farsi, al suo sviluppo, che all'opera sua non si può che guar­ dare come a qualche cosa di storicamente conchiuso, un guardare ai posteri, un episodio da cui è possibile ripartire 50


solo là dove esso finisce. Ma già nell'affermare ciò, bisogna comprendere come sia necessario rovesciare ancora il punto di vista tradizionale della critica: definire il punto in cui Le Corbusier « finisce » si gnifica affrontare globalmente il problema della fine della cultura borghese, scoprirne il con­ tinuo andamento tautologico, chiarirne, infine, la definitiva importanza; tutto ciò è possibile solo richiamando in gioco i concetti di fondo della cultura borghese, le sue tendenze implicite ed esplicite, prescindendo da ciò che è dato come definitivo. A questo scopo, per dare la giusta collocazione dell'esau­ rirsi dell'opera di Le Corbusier è necessario non solo riper­ correre le tappe della sua formazione culturale e della matu­ razione durante gli anni Venti, ma bisogna dare anche un senso all'« ermetismo» in cui si esplica la sua attività duran­ te gli ultimi anni, e ciò ancora una volta al di fuori dalle formule a cui la superficialità critica ha ridotto alcune delle ipotesi lecorbusierane nel tentativo di renderle « parole d'or­ dine» della moderna architettura; si tratta anche di ricostrui­ n, il filo di una maturazione teorica che spesso supera e assume più ampi significati di quanto lo sviluppo formale dell'architettura di Le Corbusier non lasci intravvedere a pri­ ma vista, almeno. Però si deve fare una premessa necessaria : Le Corbusier è, vale la pena di sottolinearlo ancora, l'unico architetto del Novecento che segua una strada diversa da quella indicata dalla tradizione storica dell'architettura e ciò già lo si può cogliere, perlomeno parzialmente, nelle prime opere di La Chaux-de-Fonds e di Le Lode e soprattutto nei manoscritti preparatori a Le voyage d'orient; ma ciò diventa particolar­ mente chiaro quando si vanno a sfogliare le pagine delle riviste a cui egli ha collaborato sino agli anni del piano di Algeri, da « L'Esprit Nouveau» a « L'homme réel» e « Le plan». Men­ tre il Movimento Moderno tenta una continua selezione di tutto ciò che lo circonda allo scopo di ridurre il divenire storico della società borghese ai parametri di gestione del­ l'architettura, Le Corbusier procede su una strada diametral­ mente opposta. 51


Sotto quel profilo niente è più profondamente borghese, più strutturalmente legato alle sorti della «fase prerivolu­ zionaria», precapitalistica, della gestione del potere borghese, dell'esperimento più vivace a cui l'architettura europea ab­ bia dato vita, cioè alla gestione socialdemocratica della città, in Germania in particolare: proprio là dove, almeno a prima vista, l'architettura e potere si fondono. Storicamente nulla è più «reazionario», alternativo allo sviluppo di questa fu­ sione mistificata dell'architettura con il « potere »; nulla è in realtà più lontano dal piano di questo programma contem­ poraneo ad esso e velleitaria volontà di prefigurazione pro­ prio in quanto ideologia di quello. Lì l'architettura in effetti si rinserra su se stessa non si « apre»: essa esercita un ruolo progressivo solo nei confronti di una realtà ottocentesca dello sviluppo urbano e industriale; è intimamente legata alle teo­ rie engelsiane nella misura in cui l'opera di Engels è tutta interna a quella stessa limitatezza storica; nella misura in cui l'analisi di Engels usufruisce - prende spunto si può dire - dalla stessa povertà di strumentazione che affligge anche l'architettura. Da questa limitatezza di fondo deriva la parzialità sconfortante delle soluzioni e la gracilità dell'ana­ lisi. Assai poco di ciò che di nuovo l'occidente va creando, poco di ciò che avviene all'interno della classe operaia e della borghesia dopo il '17 sovietico penetra realmente all'in­ terno dell'architettura radicale: qui la genesi da Baudelaire dell'avanguardia si stempera nella « moralità» che ispira la lettura engelsiana del fenomeno urbano, l'aspirazione ad esse­ re con il progresso si scontra con la reale estraneità dai meccanismi e dalla logica dello sviluppo. Iniziare oggi, almeno embrionalmente, a dimostrare come le punte più avanzate dell'architettura moderna, specificamen­ te sul piano della progettazione urbana, trovino nelle opere di Engels motivo di ispirazione e contemporaneamente il pro­ prio invalicabile limite, è un compito difficilmente procrasti­ nabile: le «verità» tratte dalla parola di Engels serpeggiano più o meno apertamente all'interno di tutte le ipotesi del­ l'architettura radicale, così in Germania come nella Russia 52 sovietica, solo per proporre gli esempi più evidenti. La let-


tura tutta sociologica condotta da Engels del fenomeno urba­ no è il limite invalicabile contro il quale cozzano le più disparate ipotesi; il dato di partenza rimane comunque la città « sconvolta » nel suo assetto strutturale dalla produzione ma­ nifatturiera, ed è essa che continuamente la teoria urbanistica è costretta a ritornare. Cosl come assai poco traspare nelle descrizioni di Engels delle città inglesi di un tentativo di analisi che si proponga di andare al di là del dato empirico, che voglia cogliere la tendenza del fenomeno della crescita urbana superando in ciò anche lo « sdegno morale » per la condizione inwnana imposta alla città dal processo della prima accumulazione capitalistica basata su11a manifattura, alla stes­ sa maniera la stragrande maggioranza dell'architettura bor­ ghese denuncia un ritardo imperdonabile nei confronti dei problemi posti dal realizzarsi del salto dalla produzione mani­ fatturiera al ciclo produttivo capitalistico, passaggio questo che proprio negli anni Venti e Trenta va acquistando il proprio volto definitivo. Ed è da questa base che si può affermare co­ me l'orizzonte teorico all'interno del quale l'architettura si trova a dover operare - orizzonte complessivamente definito dai correlati dell'analisi engelsiana - tenda sempre più a coin­ cidere di fatto con le ultime « utopie » del potere borghese, confondendosi nello stesso « sdegno morale » di cui si servono i Rathenau, i Ford o i Pullman; la sociologia umanitaria di Engels confina con I'« wnanitarismo » della figura del singolo capitalista illwninato, così come la città colorata di Taut trova il proprio corrispondente storico nell'immagine del­ l'operaio depositario dei destini migliori e progressivi della società, figura questa che ancora sulle pagine di Engels si fonda. � su questa serie di ambiguità teoriche, di arretratezze specifiche, di carenze analitiche che dobbiamo condurre il discorso sui limiti a cui l'architettura è destinata a perve­ nire; restringendo solo apparentemente il nostro punto di vista si può affermare a questo livello che l'architettura nella sua strutturalità, nelle sue componenti ideologiche, nella sua stru­ mentazione di disciplina si va conformando come un progetto alternativo al concetto di scienza, al divenire del mondo capi- 53


tulistico che identificandosi con lo sviluppo deve accogliere anche il proprio ed esclusivo divenire scientifico, l'etica e l'ideologia di esso cioè la non-eticità e la non-ideologia della scienza. Da questo momento l'architetto non può che inse­ guire, cercare di inseguire, lo sviluppo rispecchiandone di volta in volta la parzialità formale, senza aver mai la possi­ bilità di precederlo, di stimolarlo, di prefigurarlo; dove è l'una non è l'altro e viceversa. Il Movimento Moderno non può che registrare la propria estraneità allo sviluppo capita­ listico, impossibilitato a porsi, attraverso l'architettura, quale interlocutore valido a quel processo delineato profeticamente nelle pagine dei Grundrisse da Marx: « Il pieno sviluppo del capitale ha quindi luogo - o il capitale è giunto a porre la forma di produzione ad esso adeguata - solo quando il mezzo di lavoro non è solo determinato formalmente come c a p i t a l e f i s s o , ma è soppresso nella sua forma immediata, e il c a p i t a I e f i s s o si presenta di fronte al lavoro, all'in­ terno del processo di produzione, come macchina; e l'intero processo di produzione non si presenta come sussunto sotto l'abilità immediata dell'operaio, ma come impiego tecnologico della scienza » 3. Per ciò che riguarda l'opera di Le Corbusier il discorso va in gran parte rovesciato rispetto a quello utilizzabile per l'architettura radicale; Algeri, ma anche Chandigarh, sep­ pure per altri e diversi motivi, sono all'opposto di ogni pos­ sibile « insegnamento » deducibile dal Movimento Moderno. La speranza in una nuova giovinezza della disciplina sorgente dall'unione di architettura e potere, viene respinta da Le Corbusier che dimostra come una nuova sintesi possa darsi solo al di là della disciplina, chiudendo con una « storia » ormai vecchia di cinque secoli. Ma ciò è possibile perché Le Corbusier non è solo architetto, perché egli in realtà personi­ fica l'ultimo grande tentativo di sintesi della cultura occiden­ tale; in questo senso Corbu è anche lo spartiacque tra la cultura borghese e « gaia scienza »; per questo egli è l'ultima avanguardia. Perché dunque gaia scienza e ultima avanguardia? Cer54 cheremo di dimostrare nelle pagine che seguono come appun-


to questi termini sono imprescindibili all'interno dell'econo­ mia del nostro discorso per scoprire quel punto di cui par­ lavamo all'inizio dove l'architettura « termina » e dove deve trasformarsi in qualche cosa di diverso. L'inconciliabilità dei due termini « ultimo » e « avan­ guardia » non deve sorprendere come non deve sorprendere che essi si identifichino in colui che forse più di ogni altro ha compreso il significato del rappel à l'ordre di Cocteau: il purismo di Le Corbusier, tutto « L'Esprit Nouveau» sono espressioni di un bisogno di sintesi, sono la ricerca di quel punto discriminante di passaggio dalla cultura alla scienza, al di là di tutto il fascino meccanicistico subito dall'avan­ guardia artistica della borghesia 4; se ciò non fosse molti degli scritti di Le Corbusier, quelli almeno destinati a rimanere e a non sc')mparire in un rapido consumo così come per un rapido consumo erano stati concepiti, sarebbe un passo re­ gressivo anche rispetto alle stesse avanguardie, mentre in effetti ne segnano il completo superamento. Le Corbusier non mira certamente ad un semplice rinno­ vnmen to dell'architettura quando afferma « L'epoca macchi­ nista ha sconvolto tutto: comunicazioni interpretazioni annientamento delle culture regionali rapida mobilità brutale rottura delle abitudini secolari dei modi di pensare. Le tre basi dell'urbanistica sono scese in campo: la base sociale la base economica la base politica Noi rinnoviamo le nostre abitudini noi aspiriamo ad una nuova etica noi ricerchiamo una nuova estetica» 5• La ricerca di queste nuove sintesi è la premessa ai grandi piani urbanistici degli anni Trenta: Le Corbusier sembra

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partire dal presupposto schilleriano che ciò che deve valere è una nuova Zweckmiissigkeit ma del ventesimo secolo, nel mondo della macchina. Questa ricerca della «corrispondenza allo scopo» segna la vera fase di passaggio nell'esperienza di Le Corbusier ed in essa, come vedremo, è possibile ritrovare l'unico momento realmente utopico della sua opera. Nella Zweckmassigkeit rivive il momento «illuminista » più vero di Le Corbusier: la «razionalità» della sua arclùtettura può essere facilmente ridotta al principio enunciato da Schiller secondo cui «la fonte generale di ogni godimento, anche fisico, è la corrispondenza allo scopo». Ciò chiarisce un pro­ blema metodologico di fondo, ma sta anche ad indicare come il metodo, quel metodo, sia divenuto il valore unico a cui il progetto intellettuale può tendere; per tali motivi dunque, nella corrispondenza allo scopo, nella ricerca di questa basi­ lare coerenza di fondo, Le Corbusier è ancora tutto dentro a quella moralità di cui avevamo parlato all'inizio. La libera­ zione da tale moralità, l'abbandono definitivo dello «spirito del gregge» può venire solo nel momento in cui il metodo cessa di valere in quanto determinatezza, in quanto valore legato ad uno scopo; nel momento in cui serve indifferente allo scopo stesso e si pone in quanto tale; nel momento cioè in cui quel tanto di utopia che ancora rimane viene superata nella gaia scienza. Ma come dicevamo, all'interno di questo livello è possi­ bile cogliere anche il vero momento utopico di Le Corbusier: la vera utopia, come dimostrano appieno le ultime opere e gli ultimi scritti, sta nell'aver creduto ancora possibile una con­ ciliazione tra cultura e scienza, nella possibilità del passaggio dall'una all'altra attraverso un processo sintetico, senza la scomparsa dell'una nell'altra. Ma si tratta di una battaglia del tutto teorica che intacca solo superficialmente il significato dell'opera lecorbusiana che si sviluppa e ricerca strumenti al di fuori di qualsiasi utopia; e ciò lo si può cogliere intera­ mente osservando come in Le Corbusier si sviluppi in ma­ niera del tutto originale lo «spirito della macchina», come presupposto appunto al raggiungimento della scienza. La macchina è per Le Corbusier ben più di quello che 56


questa « nuova potenza » poteva rappresentare per i. contem­ poranei architetti lettori di Engels. Per primo in tutta l'archi­ tf:ttura moderna egli comprende il carattere assolutamente amorale della macchina e della scienza con essa; come solo in quel carattere risieda la garanzia del « progresso »; come al di fuori della scienza non vi siano conciliazioni possibili; come dialettica e sviluppo si rapportino alla macchina solo come sistemi regolati da leggi assolutamente amorali, alter­ native a qualsiasi valore. Ed è in questo riconoscimento che si deve cogliere il suo abbandono del terreno storico dell'ar­ chitettura; il suo intervento al Werkbund di Stoccarda a differenza di tutto ciò che lo circonda, sta ad indicare i modi del possibile « aprirsi » dell'architettura alla storia dello svi­ luppo della società capitalista e della nuova città con essa. Il riconoscimento del legame che intercorre tra la struttura della Domino e i piani· urbanistici degli anni Trenta suona ora come la scoperta dell'uovo di Colombo: in Le Corbusier tutto è città - e forse lo era anche prima della partenza da La Chaux-de-Fonds per Parigi; ma è una città che sempre meno si giustifica sulla metrica tradizionale dell'architettura e che abbisogna sempre più di altre spiegazioni. Le ville dei primi anni della vita parigina scandiscono questo progressivo supe­ ramento dell'architettura in quanto tale. Pensare oggi alle bianche facciate degli anni Venti e Trenta come a dei modelli agibili dopo le ville di Le Corbusier a Parigi ha un valore solo velatamente ironico; in esse non è che riscopribile la lotta persa sin dall'inizio di una disciplina languente contro il pro­ prio ridursi a banalità formale. Questa banalità, incompreso valore dalla moralità borghese, viene assunta sino in fondo da Le Corbusier; nei cinque punti l'architettura si riduce quasi totalmente a « scienza » ineffabile a qualsiasi valore: essi se­ gnano un progressivo superamento della ricerca della Zweck­ massigkeit aspirando ormai apertamente all'attributo di « gaia ». Lunghi anni di dibattito vengono vanificati da questa scoperta che tutto può essere architettura, che la validità della costruzione sta nel suo disponibile adattarsi alla razio­ nalità di un metodo. Le ville sono la prima sperimentazione di questo e, progressivamente, non indicano altro valore al 57


d1 fuori di esso: uno spazio cubista può essere liberamente contenuto nella villa Stein cosl come l'avanguardia viene tutta « reificata» nel rapporto nuovo che villa Savoye instaura con il pubblico. Sono dunque le tappe queste di un tentativo di conciliazione che trova espressione anche nell'accostamento dell'immagine del volto di Goethe con la facciata della fab­ brica Van Nelle che chiudono l'articolo Spectacle de vie mo­ derne nel numero 13 di « Le Pian »; ed è qui che termina forse realmente la « prima fase» dell'opera di Le Corbusier. Scomodare lo « spirito cartesiano» così come spesso si è fatto a proposito dei primi anni di attività di Le Corbusier, lascia - soprattutto per i modi con cui questo accostamento è stato tentato - alquanto perplessi: e per capire meglio quale realmente fosse lo « spirito» di Corbu bisognerebbe rivedere alcuni degli scritti pubblicati su L'homme réel. Più che certi generici accostamenti a nostro avviso è preferibile piuttosto ripercorrere questo cammino che porta Le Corbu­ sier dalla ricerca della sintesi alla scoperta della « gaia scien­ za», al più completo disincantamento; il momento del pas­ saggio segna piuttosto il tracollo di ogni residua speranza, ed anche in ciò Le Corbusier si muove su di una strada dia­ metralmente opposta rispetto a quella del Movimento Moder­ no. Il suo arrivare alla scienza lo conduce a liberarsi di ogni residua arnbiguìtà, ad una ironica totale lucidità nei confronti della -società che lo circonda, ma anche ad una adesione ugual­ mente totale ai destini dello sviluppo capitalista: in questo senso il passaggio dalla coscienza illuminista alla scienza as­ sume un valore assai simile a quello che ha in Nietzsche 6• Tutta scienza - è « gaia » in quanto « scienza è vita che si afferma, che vuole potere, che non rinuncia, che non si disinteressa, che non fugge che non deve: è perfetto disin­ cantamento razionale e perfetta funzionalità» - è l'opera di Le Corbusier « urbanista »: vi è un salto colossale, da questo punto di vista, tra i piani di Corbu e qualsiasi proposta urba­ nistica del Novecento. Nel piano per Algeri l'amoralità della macchina diviene l'unico valore; ma si badi bene, non si tratta più del primi58 tivo sentimento macchinista: qui la macchina diviene intera-


mente e totalmente sistema. F. la realizzazione definitiva que­ sta del dettato del lavoro intellettuale borghese, la realizza­ zione, in essa, dell'« architettura»; non solo qui la cultura evita di conciliare le forme di ogni dominabile contraddi­ zione, ma pone la contraddizione a bene supremo, a motore dello stesso sistema che la forma. La città borghese è supe­ rata in quanto concetto; il definitivo abbandono della conce­ zione engelsiana risiede proprio in questa elevazione della macchina a sistema, in questo implicito riconoscimento che la città nulla può essere se non la funzione di un processo dove la ricerca della composizione di « lavoro» e « progres­ so» diviene una formula preistorica, parte di un progetto di complessivo sviluppo che pone come presupposto che « il processo di produzione ha cessato di essere processo di lavoro nel senso che il lavoro lo soverchi come unità che lo do­ mina», e che mira ad un fine necessario: « l'aumento della produttività del lavoro e la massima negazione del lavoro necessario è, come abbiamo visto, la tendenza necessaria del capitale » 7• Quanto l'essersi adeguato ad un simile progetto « attra­ verso le cose» sia un fatto sconvolgente ed incommensu­ rabile con il livello a cui si svolgeva intorno agli anni Trenta il dibattito urbanistico in Europa, solo oggi lo possiamo completamente cogliere; ma a questo punto la critica della cultura borghese non può che risolversi nella critica tout­ court dei modi dello sviluppo capitalista, ed è solo assumendo questo punto di vista che si può raccogliere un « insegna­ mento» da Le Corbusier, che si può tentare di storicizzare la sua opera, di « utilizzarla ». La sua urbanistica rimane ancora l'espressione isolata, in seno all'architettura moderna, della conquistata coscienza della dissoluzione del processo di industrializzazione borghese e segna il passaggio alla scoperta della necessità del concetto di « produttività» per lo sviluppo capitalista; nella formalizza­ zione di questo passaggio Le Corbusier gioca l'ultima vera carta dell'avanguardia e nel prefigurare il sistema d'ordine del nuovo sviluppo - « Nous vivons sur les scories d'une civilisation débordée par le machinisme. Les temps modernes 59


sont en vue, mais non pas commencés : nous sommes encore en pleine cacophonie »' - egli chiude di fatto la partita con l'architettura borghese. Dopo Algeri la sua opera è un tentativo reiterato di im­ porre l'acquisizione di questo passaggio, come quando nella lettera al sindaco di Algeri Brunnel il piano per la città si trasforma in un'immensa« profezia»« Dans l'économie mon­ diale bouleversée règne l'incohérence de groupements arbi­ traires et néfastes ( ...) Paris, Barcelone, Rome, Alger. Unité qui s'etend du nord au sud selon un méridien, à travers la gamme totale des climats, de la Manche à l'Afrique Equa­ toriale, ressemblant tous les besoins comme aussi toutes les ressources» 9. Per imporre il suo punto di vista Le Corbusier ricorre ora ad ogni mezzo, non disdegna qualsiasi mediazione; dopo Algeri gran parte della sua opera può essere letta come un tentativo cosciente di rendere percorribile la sua« scoperta •· Da questo punto di vista non vi è opera più antilecorbusie­ riana della Carta d'Atene, di questo frutto derivante dalla necessità di riconfrontarsi con gli stadi raggiunti dall'elabo­ razione teorica dell'architettura radicale. L'impegno di Le Corbusier risiede nella sua volontà continua di negazione; la negazione diviene nella sua opera il motore non soltanto del rapporto tra architettura e società, ma l'elemento dina­ mico della forma stessa; con la Carta d'Atene, dopo Algeri, Le Corbusier deve tornare a verificare se stesso, a confron­ tarsi, con quella ideologia che ancora credeva in una missione di conciliazione dell'uomo con la macchina, in una città im­ magine della conquista di questa « nuova qualità», con quanto di più distante cioè vi sia, sia dai piani di Le Corbusier sia dalla « città senza qualità» scoperta quasi contemporanea­ mente da Hilberseimer. L'abbandono dell'« impegno», della negazione cioè, riemerge anche nell'architettura là dove com­ pare un uso nuovo delle citazioni formali, un ripetere e sconvolgere esperienze già tentate, un ripiegare sul proprio passato come nell'Unité di Marsiglia dove ricompare assumen­ do il valore di un testamento, un brano dell'Immeuble à 60 redents.


Ronchamp, Firminy, Chandigarh non sono più alla fine espressione della scienza di Algeri, ma sono una « allegoria » di essa; ma neppure a questo punto è possibile parlare di architettura in senso stretto: si tratta piuttosto di un« gioco» eccezionalmente sapiente, -di un linguaggio ermetico che ricer­ ca solo di non comunicare, di farsi comprendere esclusiva­ mente da « coloro che possono ». La primitiva opera di Corbu era stata una esplosione perenne di contrasti; il Le Corbusier di Algeri potrebbe dire con Nietzsche: « Niente ci è divenuto più estraneo del desi­ derio di una volta, quello della ' pace' dell'anima, il desiderio cristiano; niente ci fa meno invidia della moralistica vacca e della grande felicità della buona coscienza. Si è rinunziato alla vita grande se si è rinunziato alla guerra ( ... )» 10 ; nel Campidoglio di Chandigarh è difficile ritrovare in forma diretta qualche cosa di tutto ciò. In India questo rigido architetto calvinista accetta di costruire la sua architettura sulla base di un piano fondato su principi opposti a quelli da lui propugnati per anni: ma ciò non deve tuttavia farci dimenticare che anche Chan­ digarh è uno sberleffo alla coerenza, in definitiva, alla « mo­ rale del gregge ». Il piano sul quale Le Corbusier ha costruito è sostanzialmente non molto dissimile, nelle sue linee gene­ rali, rispetto e quello elaborato nella sua prima versione da A. Mayer con la collaborazione di C. Stein; quel piano riflette in larga misura, anche nella sua stesura definitiva le concezioni maturate durante gli anni Venti in seno alla Regional Planning Association of America che, dal punto di vista teorico, rappresenta quanto di più lontano si possa pen­ sare dall'urbanistica lecorbusieriana essendo ampiamente influenzata dal pensiero del Mumford, quello stesso che defi­ nirà, anni più tardi, l'Unité come « la follia di Marsiglia». Conoscendo la biografia di Le Corbusier, la pervicacia con cui egli ha saputo mantenere certe inimicizie, per chi abbia avuto la ventura di raccogliere le testimonianze dell'astio che ancora la sua figura suscita tra alcuni reduci del Movimento Moderno, tutto ciò non può che apparire, almeno a prima vista, stupefacente. Eppure indagando più a fondo sulle 61


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vicende che condussero al suo incarico - abbandonando almeno una parte della mitologia che egli stesso ha contri­ buito ad alimentare intorno a questa sua opera - si può vedere come Chandigarh fosse l'unica scelta possibile alla fine della sua attività. Analizzare questa architettura da un punto di vista formale, non ci porterebbe che ad evidenziare ciò che gli scritti più avvertiti, pubblicati segnatamente in questi ultimi anni, hanno già ampiamente dimostrato: ciò che è stato invece poco compreso è il valore complessivo di questa che è la più lecorbusieriana delle opere dell'ultimo Le Corbusier. Il Campidoglio di Chandigarh rimane un epi­ sodio astratto, isolato dalla città che lo circonda, alternativo in gran parte ad essa, indifferente; qui Le Corbusier non nega più nulla; è il suo « canto del Sì e dell'Amen». Chandigarh è ancora una volta la non-città, il Campidoglio non è neppure la metafora ironica di essa. Se il grande complesso venisse completamente portato a termine secondo i disegni originali, sarebbe solo la sconfortante esposizione di un museo delle occasioni perdute, un immenso tributo in memoria di Le Corbusier. Impossibilitata a scomparire nel sistema l'architettura come altro ormai dalla sintesi della scienza, risorge quasi dalle contraddizioni della dialettica; nulla è così lontano, eppure così simile allo spirito di Algeri come il monumento alla Main Ouverte « signe de paix et de reconciliation ». Il puro segno - l'incomunicabilità del « simbolo» - è il risul­ tato ed insieme il linguaggio in fieri del sistema: la scienza fallisce nella specificità del dominio progettato, fallisce per ragioni storiche e per impotenza delle discipline specifiche, ma rimane tuttavia come il fine tanto più presente quanto più la dissacrazione del repertorio formale ne indica la lontananza. La forma si scolla quindi ancora una volta dalla missione che aveva assunto su di sé negli anni dell'« im­ pegno », e quanto più Le Corbusier sembra volersi immergere in essa tanto più dobbiamo avvertire la sua ammonizione, il senso di questa sua rinuncia: « Contro l'arte delle opere d'arte voglio insegnare un'arte superiore: quella di invenzione di feste ». E pensiamo ci si possa concedere di sognare


che la l'« architettura degli uomini della conoscenza» vagheg­ giata da Nietzsche doveva essere assai simile al Campidoglio di Chandigarh. FRANCESCO DAL Co

I A. MALRAUX, A la mémoire de Le Corbusier, in LE CORBUSIER, voi. III, a cura cli W. BoESIGER, :eclitions d'Archi­ tecture Artemis, Zurigo, 1970, p. 187. 2 Cfr. M. BESSET, Qui était Le Corbusier, :eclitions Albert Skira, Ginevra, 1968, p. 7. 3 K. MARX, Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica, voi. II, La Nuova Italia, Firenze, 1970, p. 393. 4 Nella prefazione a La peinture moderne, Crès et C.ie, Parigi 1925, Ozenfant e Le Corbusier scrivono: « L'acier a révolutionné la société. Il a permis le machinisme. Le machinisme a changé en un siècle l'allure de la civilisation et par conséquent nos besoins { ... ) par contre, de nombreuses fines que se proposait l'art d'autrefois sont satisfaites par des procédés nouveaux ». 5 LE CoRBUSIER, Conferenza tenuta il 3 ottobre 1929 all'associazione « Amigos del Arte . • di Buenos Ayres; trad. it. in Le Corbusier, antologia di testi a cura G. DE CARLO, ROSA e BALLO, Milano, 1945, pp. 33-35. 6 Scrive a questo proposito M. CACCIAR!. Sulla genesi del pensiero negativo, in « Contropiano », a II, n. I, La Nuova Italia, Firenze, 1969, p. 191: « La gaia scienza è la forma ormai positiva del Freigeist, attra­ verso la quale passa dalla semplice dissoluzione critica all'affermazione della sua volontà. Il Freigeist è ormai colui che può: in questo senso i necessari corollari della gaia scienza saranno possesso, potenza, effet­ tualità. La scienza è vita che si afferma, che vuole potere, che non rinuncia, che non si disinteressa, che non fugge, che non deve; è per­ fetto disincantamento razionale e perfetta razionalità. La scienza espri­ me, insomma, la forma chiave della nuova fase del capitalismo, ne rappresenta in pieno la nuova disposizione ' etica ' •· 7 K. MARX, op. cit., p. 391. B LE CORBUSIER, L'urbanisme est une clef, :eclitions Forces Vives, Parigi, 1966, p. 16. 9 LE CORBUSIER, Lettre à un Maire, in LE CORBUSIER et P. IEANNERIIT, Oeuvres complètes, voi. II, :editions d'Architecture Artemis. Zurigo, 1964, p. 174. 10 F. NIETZSCHE, Crepuscolo degli idoli, in Opere, voi. VI, tomo III, a cura cli G. COLLI e M. MONTINARI, Adelphi, Milano, 1970, p. 79. 11 F. NIETZSCHE, Frammenti postumi, 1881-1882, in Opére, voi. V, tomo II, op. cit., p. 371. Oeuvres Complètes,


New Towns (definizioni)

A voler classificare i precedenti dell'odierna idea di « new town » si possono in sintesi distinguere i seguenti casi: 1) Comunità frutto di esperimenti utopistici e realiz­ zate da associazioni a carattere filantropico, interessate prin­ cipalmente allo sviluppo del benessere sociale. Tra esse pos­ sono comprendersi l'unità per lavoratori del sale a Chaux (1776), opera dell'architetto C. N. Ledoux, immediatamente seguita dai villaggi industriali (Owenite communities) del riformatore sociale R. Owen, il cui prototipo New Lanark, presso Manchester (1799) fu seguito negli Stati Uniti da New Harmony (1825) sul fiume Wabash (Indiana) f! dall'Oneida Community nella Mohawk Valley di New York. Indi il Falan­ sterio di F. Fourier (1829), ideato per 1.620 abitanti, il cui unico esemplare realizzato nel Massachusetts, a West Rox­ bury, venne distrutto dal fuoco dopo appena quattro anni di vita, e la Victoria, proposta da J. S. Buckingham (1848) nonché la modesta Saltaire (1850) opera di T. Salt 1; 2) Comunità di piccole dimensioni, sorte vicino alle grandi città o zone industriali, che nella forma più complessa assumono il carattere di « company towns », create tutte per lo specifico interesse alla concentrazione delle rispettive for­ z�lavoro, e dove gli alloggi presentavano taluni migliora­ menti rispetto allo standard tradizionale 2• Tra esse, in Ger­ mania, sono da citare le cosiddette « Siedlungen », sorte nel 1863 presso le fabbriche Krupp, negli Stati Uniti i villaggi realizzati dal 95% delle 1200 textile mills nella prima parte del XX secolo; e tra le company towns Pullman 3 nell'Illinois della George Pullman's Palace Sleeping Cars (1880), proget­ tata dall'architetto S. S. Berman e dal landscape designer 4 64 N. F. Barrett , ed in Inghilterra Port Sunlight (1887), una


comunità di lavoratori eretta vicino a Liverpool dalla W. H. Lever Soap Company, oltre a Bournville (1889) vicino a Birmingham, definita da Spreiregen 5 una « garden commu­ nity » voluta dalla Cadbury Chocolate Company; 3) Comunità sviluppate da organizzazioni di specula­ zione edilizia, interessate principalmente al profitto ricavabile dalle vendite dei terreni e degli alloggi, il cui prototipo può considerarsi Roland Park nel Maryland, realizzata nel 1891, che dominò il mercato degli alloggi suburbani di Baltimore per più di 40 anni 6; 4) Comunità sviluppate da agenzie governative, come le prime città coloniali dell'America Latina, pianificate da quelle che C. S. Ascher definisce il « colonia! office of Spain », o le città amministrative, come La Plata in Argentina, fon­ data nel 1882, capitale della provincia di Buenos Aires, o Belo Horizonte in Brasile, pianificata come la capitale dello Stato di Minas Gerais nel 1894, nonché la stessa Washington D. C., capitale degli Stati Uniti d'America 7• Esorbita dalla suddetta classificazione il caso della « città giardino », per la quale si rimanda alla ricca e nota lettera­ tura sull'argomento. II fenomeno delle « garden cities », con tutte le sue impli­ cazioni, segna una pietra miliare nella cultura urbanistica, ed indubbiamente rappresenta il precedente più diretto del­ l'idea di « new town ». Tuttavia, per poter parlare di « nuove città » nell'effettiva accezione del termine, occorrerà aspet­ tare l'entrata in vigore nel Regno Unito del primo Town Planning Act del 1909, il quale, come evidenziato da Petersen, era basato sulla premessa che l'espansione periferica (sub­ urbanization) rappresentasse la salvezza della città 8• Le prime effettive « new towns » inglesi, però, derivano politicamente dal rapporto Barlow (1937-1940); tale rapporto evidenziava la necessità per una politica di decentralizzazione e di deconcen­ trazione industriale sul piano nazionale, oltre che la delimi­ tazione della taglia della regione londinese. Tutte le ipotesi, quindi, in quella sede formulate potettero essere avviate a realizzazione dopo la creazione del Ministry of Works Plan­ ning (1942) e del Ministry of Town and Country Planning 65


(1943) e dopo l'investitura della comm1ss10ne Reith, il cui rapporto, pubblicato nel 1946, portò alla promulgazione del

New Town Act del 1° Agosto dello stesso anno. e questo strumento legislativo, in effetti, l'atto di nascita delle « new towns » nel Regno Unito, e forse nel mondo 9•

Il fenomeno della crescente urbanizzazione interessa attualmente quasi tutti i paesi. Senza eccezioni, la crescita della popolazione nelle città è sempre maggiore del tasso medio generale di espansione. Se l'aliquota mondiale di cre­ scita demografica è circa il 2% all'anno, le città stanno cre­ scendo del 4%, alcune del 5 o 6%, altre addirittura dell' 8% 10• Durante il 1950 quasi il 21 % della popolazione mondiale già viveva in città di oltre 20.000 abitanti, con ampie variazioni che vanno dal 47% e 42% dell'Oceania e del Nord-America al 13% e 9% dell'Asia e dell'Africa 11• Se si prescinde dalla taglia delle città, i tassi di concentrazione crescono ancora. Dei 220 milioni di abitanti, ad esempio, dell'America Latina, ben il 45% già vive in città u. In Gran Bretagna 1'80% della popolazione è urbana e circa 1/4 vive nella Greater London metropolitan area. Belfast, nell'Irlanda del Nord, ospita circa il 40% dell'intera popolazione irlandese 13• La Danimarca e la Finlandia sono caratterizzate da tassi di urbanizzazione del­ l'ordine del 74% e del 44% rispettivamente, mentre l'Ungh� ria raggiungeva il 40% nel lontano 1960 14 • Tasso ancora elevato si registra nello Stato di Israele, àove il 77% della popolazione totale (e 1'84% del totale della popolazione ebraica) vive in città. Il 61% in città di oltre 20.000 abitanti, mentre più di 1 /3 (34,9%) vive in città di oltre 100.000 abitanti 1s. In Asia, il fenomeno non sembra presentarsi in termini sostanzialmente differenti; secondo Tadashi Fukutake 16 in Giappone il rapido sviluppo dell'industria ha aumentato natu­ ralmente la popolazione urbana; nel 1886 essa era appena il 6,7% del totale; safi al 15% nel 1908, al 21,7% nel 1925 ed al 37,9% nel 1940. In un paese generalmente riconosciuto come 66 rurale, l'India, contro un aumento del 18,4% di popolazione


urbana nel periodo 1921-31 corrispose una pereentu4!1A: ,1i incremento del 41,3% nel decennio 1941-51. Dal r:en�ir�.// del 1951 emerse come circa il 17,3% della popr1la1.vm.e #mU vivesse in « cities» o « towns», mentre la corrispondenu � quota era soltanto dell'11,4% nel 1921 e del 13,9% nel 1941-,r;, Nel 1960, in base ai dati forniti dal Census Bureau, ;,w#,i Stati Uniti d'America circa il 63% della popolazione ffl<.e)->a nelle metropolitan areas, e tali aree, inoltre, avevano l1Sp)­ tato circa 1'80% dell'aumento di popolazione tra il 1950 ed il 1960 e 1'83% nel periodo 1960-66 18• Le previsioni al 2000 dello Skiss 1966 till regwnplan /or Stockholmstrakten evidenziano come per quell'epoca la popo­ lazione totale della Svezia raggiungerà la cifra di 10 milioni di abitanti, dei quali il 90% localizzato in aree densamente popolate 19• Ora il fenomeno in esame sta attualmente subendo un processo di particolare accelerazione in dipendenza di tre aspetti essenziali, e cioè lo sviluppo demografico, l'esodo della popolazione agricola dalle campagne e dal rispettivo settore occupazionale, ed il crescente processo di industria­ lizzazione e quaternarizzazione. L'assenza o deficienza di programmazione, ancora, ha portato, nei paesi definibili « altamente urbanizzati», a pe­ santi fenomeni di accentramento e congestione in quasi tutte le grandi agglomerazioni od aree metropolitane, le· cui conse­ guenze si è ben lungi dall'emarginare o risolvere. Secondo M. J. Wise 20, infatti, gli agenti potenziali dell'agglomerazione metropolitana sono riconosciuti da almeno mezza secolo, ma sono stati puntualmente sottovalutati nella pianificazione. :E!. pur vero che un certo grado di concentrazione metropo­ litana rappresenta un vantaggio economico per le comunità, ma quella che permane è la difficoltà di individuare a che livello un tale assunto rimane valido e per quale durata di tempo 21• Analogamente, nei paesi « sotto-urbanizzati », nei quali la concentrazione urbana si palesa in poche aree e con poche sfumature di congestione, laddove invece prevale una dif­ fusione di piccoli insediamenti sparsi di tipo rurale, l'assenza 67


di pianificazione o la fretta conseguente a fenomeni parti­ colari come l'immigrazione (Israele ed India) 22-23, hanno portato ad errori di impostazione che solo in ritardo si cerca di correggere od annullare a livello nazionale. Né i due casi sono chiaramente distinguibili nella realtà, in quanto anche i paesi « altamente urbanizzati» contengono aree più o meno vaste nelle quali il tasso di urbanizzazione è troppo basso per assicurare agli abitanti quel minimo stan­ dard indispensabile ad una moderna società. L'urbanizzazione di una società non è semplicemente questione di espansione di insediamenti esistenti o di repe­ rimento di nuovi, poiché nel primo caso come nel secondo, i riflessi conseguenti alle due operazioni si faranno sentire nel tempo, sia per lo sviluppo delle aree depresse che per la decongestione delle grandi aree metropolitane. Per cui è chiaro come l'aspetto più macroscopico e serio sia e rimanga pur sempre quello economico, risultando evidente come una concezione dell'urbanizzazione non possa prescindere da una più vasta concezione della pianificazione del disegno futuro della stessa società. Le politiche nazionali, quindi, ai fini del processo di urbanizzazione, devono dipendere dalle politiche di distri­ buzione della popolazione e di sviluppo delle risorse di tutto il territorio nazionale. � in questo contesto che, come è riconosciuto da tutti gli esperti, va inquadrato il problema delle « new towns». L'evoluzione del concetto di new towns consiste nelle possibilità di uso cui esse sono destinate per influire positi­ vamente sia nella risoluzione dei problemi delle aree densa­ mente urbanizzate, sia per la promozione economica delle aree depresse. Ma è anche ovvio che la tipologia delle stesse dipende essenzialmente dalla problematica inerente alle ca­ ratteristiche dei vari paesi del mondo nei quali esse ven­ gono realiizate. Per assolvere al compito di individuare le varie definini di new towns ci rifaremo essenzialmente agli Atti dei zio 6&.


più recenti convegni internazionali che si sono occupati di questo tema specifico. Nel seminario internazionale sul tema « Public Admi­ nistration Problems of New and Rapidly Growing Towns in Asia» (Problemi di pubblica amministrazione delle città nuo­ ve e di rapido sviluppo in Asia) tenutosi a Nuova Delhi nel dicembre del 1960, ed organizzato sotto gli auspici delle Nazioni Unite e dell'UNESCO, venne affrontato preliminar­ mente un importante problema, e cioè come definire le« new and expanding towns ». Dal rapporto riassuntivo del Semi­ nario redatto da V. Jagannadham emerse che non v'è dubbio che uno scopo definito determina la struttura ed il conte­ nuto di « new towns », come la città dell'acciaio di Hitachi in Giappone, o Bhilai, Durgapur e Rourkela in India. Ma un importante fenomeno si presenta anche per lo sviluppo di città suburbane intorno a città metropolitane come Delhi, Djakarta e Manila. Queste « expanding suburban towns » hanno collaborato ad alleviare la congestione di vecchie città e ad assorbire una parte della popolazione venuta dai lontani villaggi 24• Allo scopo di rendere sempre più chiaro e stan­ dardizzato il concetto di « nuova città » si giunse in quella sede alla seguente definizione: Il termine « new town » può essere usato per indicare « self-contained communities », cioè comunità nelle quali la gente vive e lavora. ·Questa definizione, a detta dei suoi estensori, escluderebbe di per sé comunità del tipo « satellite o suburban towns » oltre agli « housing estates » (complessi residenziali) nei quali la gente risiede, ma è costretta a viaggiare ogni giorno verso il centro delle grandi città vicine o verso altre località sedi di industrie. In conclusione, un'alternativa che ricevette una maggior una­ nimità di vedute fu quella che vedeva le new towns classifi­ cate in quattro diverse categorie: a) città di espansione (overspill towns), per alleviare la congestione delle grandi città, b) città create per singole industrie, e) città ammini­ strative e d) agrovilles 25• Tra i rapporti presentati a quel seminario di notevole interesse ci è parso quello di Mrs. E. Layton, nel quale sono distinte cinque principali ragioni per la realizzazione di 69


new towns, che possono ben servire ad una relativa classi­ ficazione: 1) per provvedere alla mano d'opera per nuovi svi­ luppi industriali, al di fuori dei principali · centri abitati; 2) per alleviare la congestione nei centri urbani su­ peraffollati; 3) per provvedere alla creazione di centri urbani per la popolazione rurale e forse per alleviare la sua disoc­ cupazione; 4) per popolare aree sottosviluppate; 5) per provvedere alla creazione. di nuove città « ca­ pitali» 26• Non fu comunque un caso isolato quello riportàto, nel quale esperti internazionali si riunirono per discutere in­ sieme del problema delle new towns. L'International Fede­ ration for Housing and Planning, nella sua riunione annuale del giugno 1963, chiedeva agli intervenuti di pronunziarsi circa l'adozione dell'una o dell'altra delle due seguenti soluzioni per ovviare ai mali che minano le nostre città: o mantenere le attuali sedi, operando su esse, entro confini sempre più ampi, un'opera di rinnovamento; oppure procedere ad una creazione di nuovi centri, di proporzioni più modeste ma sempre a funzione urbana, per ospitare l'eccesso demogra­ fico accompagnato dalle necessarie attività di lavoro. « Città più grandi o più numerose?,. era l'alternativa proposta 21• La conclusione sembrò essere che i due concetti possono e debbono fondersi in una complementarietà che risponda alle esigenze ed alle tendenze causate dai cambiamenti veramente rivoluzionari che si sono verificati e che vanno continua­ mente verificandosi nel campo delle attività umane e delle strutture ad esse corrispondenti 28• Nel complesso, quindi, in quella sede, non furono ten­ tate classificazioni ad ampia visuale sul fenomeno delle « nuove città », ma piuttosto si puntò allo scioglimento del dilemma proposto nel caso delle grandi aree metropolitane, giungendo a formulare il concetto della moderna struttura urbana, espressa da una relazione dinamica al posto di 10 quella statica esistente nella città tradizionale 29:


Secondo il « Demographic Training and Research Cen­ tre » di Bombay l'industrializzazione dei villaggi o delle grandi città metropolitane non è in ogni caso la sola alternativa ad un modello urbano-industriale. « New Towns », infatti, possono essere realizzate sia in aree rurali selezionate sia vicino alle grandi città, chiamando le prime « independent towns » e le seconde « satellite towns » 30• Le prime sono caratterizzate da certi aspetti positivi, come terreni a prezzi relativamente bassi, maggiore libertà di pianificazione per la futura destinazione d'uso del terreno, e taluni negativi, come la previsione iniziale di tutte le attrezzature, mentre per le « satellite towns » le difficoltà iniziali d'insediamento sono sempre meno onerose data la vicinanza alla città madre. Sempre per l'India, Manickam, Vagale, Bhuta e Rao, riferen­ dosi alle nuove città già realizzate od in via di completa­ mento 31, prospettano la seguente classificazione : (1) New Towns per la riabilitazione cli profughi (Faridabad, Nilo­ kheri, Rajpura e Kalyani); (2) Capitali amministrative, come Chandigarh, Bhubneswar e Bilaspur; (3) Steel towns (città dell'acciaio), come Rourkela, Bhilai, Durgapur e Bhadravati; (4) Altre città industriali, come Chittaranjan, Nangal, Mitha­ pur, DandeH e Ranchi; (5) Company towns, come Modinagar, Neyveli, Kagaznagar e Sindhri, dovute a società private; (6) Oil towns, come Barauni e (7) Port Towns, come Kandla. Più che una classificazione concettuale, la precedente è piut­ tosto la registrazione dei vari casi di new towns indiane, anche se alcune di tali tipologie sono reperibili in altri paesi del mondo. Boleslaw Malisz, nell'esporre lo stato della pianificazione fisica delle new towns nei paesi dell'Europa orientale al Symposium organizzato dalle Nazioni Unite a Mosca nel­ l'estate del 1964, propose la suddivisione di esse in due grandi gruppi, non discostandosi di gran lunga da quanto proposto dal « Demographic Training and Research Centre » di Bombay; e cioè (1) nuova città satellite, costruita per decongestionare una grande città esistente, (2) new towns tendenti alla creazione di un nuovo centro di attività all'in­ terno di una regione sottosviluppata. Nel primo caso, egli

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scrive 32, costruendo un sistema di città satelliti intorno ad una città madre, noi possiamo rifoggiare la sua struttura spaziale e sarà allora possibile procedere allo sviluppo della deconcentrazione nella forma di una struttura composita. Nel secondo caso, la creazione di nuove città dipende essen­ zialmente dallo sviluppo industriale ed è dovuta ad una poli­ tica di decentralizzazione regionale; cioè quando si va a sviluppare un territorio sottosviluppato, la creazione di « new towns » avviene in accordo con la localizzazione di nuove industrie 33• In altri termini, secondo Malisz, esistono due aspetti del fenomeno della concentrazione, il primo è· quello conseguente delle aree sottosviluppate, ed il secondo è quello della necessità della decongestione delle grandi agglomera­ zioni. I due aspetti formano una specie di vaso comunicante. Ora, egli continua 34, vi sono due modi per operare la « decon­ gestione»: con la •decentralizzazione», o lo spostamento dell'attività economica (soprattutto industriale) verso le aree scarsamente sviluppate, e la «deconcentrazione», quest'ul­ tima strettamente connessa con le città « satelliti ». La poli­ tica economica dei paesi dell'Europa orientale per lungo tempo è stata caratterizzata dalla scelta per la « decentra­ lizzazione » ( cioè la creazione di new towns del tipo « indi­ pendente »). Secondo le interpretazioni in essere nell'Unione Sovietica, a detta dello stesso autore, le « satellite towns », ancora, possono essere suddivise per attrezzature d'impiego in tre gruppi distinti: a) quelle città caratterizzate dall'as­ senza in loco della maggior parte dei posti-lavoro, reperibili invece nella vicina città madre; b) quelle con possibilità di lavoro in loco corrispondenti al 50-60% della popolazione at­ tiva locale e c) quelle con possibilità di impiego in loco pressocché totale (85-90% ). La percentuale della popolazione attiva impiegata sul posto, ancora egli continua, varia di re­ gola al variare della distanza della « new town » dalla città­ madre. Il primo caso corrisponde ad una nuova città inse­ diata in un raggio di 15-50 km dalla città-madre, il secondo ad un insediamento impiantato a circa 50 km, ed il terzo ad una città realizzata a 70 km dalla città-madre. Soltanto il 72 « terzo » tipo di « new town » viene considerato opportuno.


Stando agli attuali mezzi di comunicazione, la distanza di 100 km è considerata nell'Unione Sovietica come limite mas­ simo per l'insediamento di new towns del tipo « satellite ». Città a questa distanza ed oltre vengono considerate città «indipendenti» 35_ L'esperto russo in geografia economica V. G. Davido­ vitch 36,dal canto suo, divide tutti i possibili casi di nuovi insediamenti nelle seguenti categorie: 1) New towns realizzate su terreno agricolo o comunque libero; 2) New towns realiz­ zate in connessione con vecchi insediamenti; 3) Estensione su vasta scala di città esistenti; 4) Città esistenti ingrandite non oltre 5 volte la loro primitiva estensione; 5) Città esi­ stenti con popolazione stabile od in diminuzione. Classifica­ zione questa che travalica quella strettamente pertinente al problema delle new towns che qui si sta cercando di approfondire. Più pertinenti, invece, anche se egualmente più estesi, i risultati del Seminario Internazionale di studi sul tema: The future pattern and forms of urban settlements, tenutosi in Olanda nell'autunno del 1966. Ivi, i convenuti tentarono una classificazione degli schemi di urbanizzazione tipici regi­ strati nella situazione attuale di un certo numero di paesi, ed articolarono in tre punti essenziali una tale classificazione, distinguendo a) una concentrazione di insediamenti urbani in grandi città; e/o aree altamente urbanizzate, b) distribuzione di città grandi e medie sull'intero territorio nazionale o su aree limitate senza alcuna relazione chiaramente definita intercorrente fra le stesse, e c) insediamenti in regioni non ancora urbanizzate 37• Se questa improvvisata classificazione viene accettata, essi aggiungono 38, allora è possibile caratte­ rizzare ad ampie linee il modo nel quale ognuna di queste categorie può svilupparsi: e cioè a) « large towns and highly urbanized areas »; in. questo caso sembra che l'ulteriore svi­ luppo possa seguire sia uno schema unicentrico che multi­ centrico, pur rimanendo possibili le seguenti varianti addi­ zionali: « Unicentred »: (i) estendendo una «centrai town » me­ diante « lobedevelopment » (sviluppo a lobo), sia su vasta 73


scala (Mosca) che su piccola scala (Amsterdam, Belgrado, Tolosa). In tali casi questa espansione non è dovuta, o lo è soltanto parzialmente, ad un aumento di popolazione della città, ma è l'inevitabile risultato per il miglioramento delle condizioni fisiche di vita delle popolazioni già esistenti (Mosca ed in un certo senso Amsterdam); (ii) l'estensione di insedia­ menti esistenti o l'impianto di città completamente nuove come unità più o meno indipendenti (self-contained towns, satellite or dormitory towns) sorgenti ad una distanza più o meno grande o più o meno piccola dal centro (new towns intorno a Londra, città-satelliti intorno a Parigi, nuovi insedia­ menti intorno a Stoccolma),· «Multicentred»: (iii) l'ulteriore sviluppo di città esistenti o gruppi di città esistenti all'interno di un più vasto raggruppamento regionale dipendente dalla loro specifica posizione e funzione (ad esempio Amsterdam, l'Aia e Rotterdam con i relativi distretti, nella parte occiden­ tale dell'Olanda - Il « Randstad ») (iv) effettiva pianificazione del futuro sviluppo di una vasta area, decelerando la crescita in taluni insediamenti ed incoraggiandola in altri, (... ) creando allo scopo un efficace ed ordinato schema di insediamenti, che possa formare un insieme funzionale e gerarchico (Israele ed Olanda). Passando al secondo caso b ), cioè di « insediamenti sparsi che non sono gerarchicamente interrelazionati,. (scattered settlements wich are not hierarchically interlinked), gli autori puntualizzano come questo schema possa verificarsi nelle regioni o nei paesi meno urbanizzati, e come possa fornire la base per due tipi di pianificazione: (i) incoraggiare una distribuzione bilanciata della popolazione e (ii) promuovere una maggiore distribuzione delle risorse; infine, segue il terzo caso c) delle aree non urbanizzate (non-urbanized areas), nelle quali le misure adottate sono simili a quelle relative al caso b), ma per le quali è possibile distinguere due tipi di interventi: (i) creazione di nuovi posti di lavoro per le popolazioni già stabilite in loco (quelle, ad esempio che a causa della meccanizzazione e razionalizzazione dell'agricol­ tura non possono più a lungo trovar lavoro nel settore pri­ mario) e (ii) trasferimento di popolazione verso aree offrenti 74


nuove fonti di lavoro, come l'estrazione di risorse minerarie (USSR), la bonifica del deserto (Israele) e la conquista di nuova terra dal mare (Paesi Bassi) 39. R. Gray e F. Parfait, nel loro intervento al seminario olandese, si soffermarono sulla distinzione tra « dormitory town », « satellite town » ed « independent town ». Per essi questi insediamenti, fattori dello sviluppo di un'area, sono realmente gli unici mezzi che consentono ai cittadini di partecipare al raggiungimento della propria civilizza­ zione. Il termine « satellite town », essi aggiungono, significa un tipo di urbanizzazione intermedio tra una città autonoma, completamente indipendente da una città principale e le aree residenziali ed industriali immediatamente collegate ai sob­ borghi di una città. Di particolare interesse è la funzione che essi attribuiscono alle città satelliti, identificando in esse una delle armi a medio termine che il pianificatore ha a sua disposizione per impedire lo spontaneo ed irrazionale svi­ lupp o di una agglomerazione ◄0• Comunque, essi notano, nes­ suna città in nessun paese può dirsi completamente indi­ pendente dal punto di vista economico e culturale, mentre ogni città è più o meno «satellite» di un'altra per una o più delle sue necessità. Ciò si presenta ovviamente molto più chiaramente quando una città sorge vicino ad una grande agglomerazione; in tal caso le sue attività si trovano in un equilibrio essenzialmente in fase di evoluzione. Perciò, se i mezzi di comunicazione con la « centra[ city» migliorano, la città autonoma (independent) tenderà a diventare una città satellite. Di contro, quando il centro di una città è saturo, centri secondari di attività possono essere realizzati nei sob­ borghi, per cui alcune aree-dormitorio tendono a trasformarsi in unità-satelliti. Analoghi concetti, in effetti, vengono espressi da J. Wil­ inson, a proposito delle new towns inglesi 41; il termine « self­ k contained new town », egli afferma, abbisogna di alcune speci­ ficazioni quando viene applicato alle « new towns » del Regno Unito; il paese è piccolo ed altamente urbanizzato,· la gente può ed in effetti viaggia frequentemente da un insediamento 15


all'altro per ragioni di lavoro e di «shopping», perciò nes­ suna città può considerarsi completamente « self-contained » (autosufficiente). Particolare rilievo nel Regno Unito è dato ad una «balanced community», nella quale le opportunità di lavoro, « shopping » e ricreazione devono potersi reperire da parte di tutti gli abitanti, ammettendo nel contempo come possibili quei movimenti verso l'interno o l'esterno delle città, a seconda delle circostanze locali. Una tale differenziazione, però, tra « self-contained » e « balanced communities », non sembrava dover sussistere nel­ l'idea fondamentale di new towns, almeno come espressa nel rapporto Reith 42, in quanto queste nuove città erano definite come comunità sia autosufficienti che bilanciate, per il lavoro e la vita 43• Frank Schaffer spiega come il termine « self­ contained » del rapporto Reith significasse che la gente che fosse vissuta in queste città avrebbe dovuto disporre in loco dei relativi posti-lavoro e di tutti quei servizi necessari alla vita, mentre al termine « balanced communities » egli attri­ buisce un significato diverso da quello espresso dal Wilkinson, nel senso che in queste città sarebbero stati reperibili tutti i cittadini appartenenti a differenti classi sociali, dal manager all'operaio non specializzato. Il rapporto Reith, infatti, evi­ denziava come i proprietari, i dirigenti, i funzionari ammini­ strativi e gli altri operatori economici, sia industriali che commerciali avrebbero dovuto risiedere nella città e prendere parte attiva alla sua vita. ( ... ) Tale diversa composizione, socialmente equilibrata, era da prevedersi sin dall'inizio della costituzione della nuova città 44• La varietà degli équipments e la ricerca d'una gamma la più completa possibile di servizi possono, tuttavia, soltanto permettere di evitare che le rela­ zioni delle città nuove con le altre città dell'ossatura metro­ politana siano esclusivamente delle relazioni di migrazioni giornaliere 45• Per Louis de Quirielle, in una definizione alquanto appros­ simativa, una « nuova città » è quella che ha i suoi posti di lavoro e di divertimento e che, pur trovandosi vicino ad una grande città preesistente o a diretto contatto con essa, ha anch'essa una vita indipendente, nella misura in cui i suoi 76


abitanti hanno la possibilità di vivere senza far ricorso alla loro vicina, più vecchia 46. Henry Roussillon non va molto più in là nell'affermare che, in prima approssimazione, si può parlare di « ville nou­ velle » allorquando l'unità urbana si presenta come fisica­ mente, sociologicamente ed amministrativamente autonoma ◄1. Dagli Stati Uniti, T. A. Darnes e W. L. Grecco, in un loro studio sull'argomento 48 , riportano le definizioni dovute a V. Gruen, H. L. Surnmers e J. B. Willmann. Il primo, nel suo piano per Litchfield Park, Arizona, definisce una « new town » come una comunità totale ed unificata, con un equi­ librio in essa presente fra i settori residenziali, industriali, commerciali e ricreativi. Summers, imprenditore di Rancho Bernardo in California, nota come le « new towns » differi­ scano dagli ordinari « real estate developments » (complessi immobiliari) nel senso che esse sono costantemente pianifi­ cate, allo scopo di assicurare un insieme unificato. J. Will­ mann, del Washington Post, le definisce come quelle localiz­ zazioni dove non esistevano in precedenza centri abitati, cor­ relate ma non « soffocatamente attaccate » ad una grande città, con un ottimo sistema di trasporti, una varietà di resi­ denze per abitanti di vario reddito ed un cospicuo numero di posti-lavoro, creati dal suo proprio apparato industriale, commerciale e ricreativo nonché di servizio, e con una propria amministrazione municipale. La più pertinente definizione, però, sulle new towns recenti degli Stati Uniti d'America sembra essere quella sca­ turente dalla constatazione espressa da A. Mayer 49, che cioè lo sforzo per la creazione di tali città (in USA) rappresenta una concezione di vita, di lavoro e di rapporti sociali drasti­ camente differente dagli attuali e prevalenti modi di vivere, che gli speculatori privati realizzano oggi. Il movimento delle new towns, infatti, è apparso negli Stati Uniti, anche nel parere di Pierre Merlin 50, come uno sviluppo naturale dell'azione di imprenditori privati. Questi, dopo aver soddisfatto la domanda di alloggi individuali nei quartieri esterni alle grandi città, si sono rivolti verso il più vasto mercato delle classi a reddito leggermente superiore alla 77


media (upper middle income families). La minore ristret­ tezza di questo mercato, la necessità di offrirgli una trama di « équipements » superiore a quella dei sobborghi residen­ ziali, hanno portato alla previsione di operazioni più impor­ tanti, per le quali la denominazione di « villes nouvelles » è essenzialmente apparsa come un argomento pubblicitario di scelta. L'esperienza canadese ancora nel campo delle new towns

rivela un più sistematico interessamento governativo a para­ gone con gli Stati Uniti. Difatti, il recente sfruttamento di

risorse minerarie e forestali nel nord del paese ha finito col dare una · urgenza drammatica alla previsione di « nuove città ». Una recente lista di città siffatte, aventi una attività

industriale di base, e localizzate in terreni vergini od agricoli, raggiunge il numero di venticinque a partire dal 1945, delle quali otto possono definirsi come « company towns » almeno nella fase iniziale di sviluppo, undici risultano promosse dal governo provinciale od autorità consimili, ed altre otto de­ vono la loro promozione al governo centrale 51• In Israele, infine, i termini « new towns » o « develop­ ment towns », a detta di Berler e Shaked, si riferiscono a casi che sottintendono differenti implicazioni. Nel suo signi­

ficato più ampio, il termine si riferisce a tutte quelle città che sono state fondate dopo la creazione del nuovo Stato, insieme con le altre che hanno subìto un processo di rinno­ vamento e ricostruzione, cambiando interamente la loro preesistente struttura 52• Perciò, essi includono nelle « new towns » non soltanto quelle completamente nuove come

K.iriat Gat o Kiriat Shmone, ma anche quelle ricostruite, come ad esempio Beer-Sheva, Ramla, LÒd, Tveria, Zefat etc. Il Centra! Bureau of Statistics del nuovo Stato, dal canto suo, include nel termine tutte quelle città costruite dopo la costituzione e quelle contraddistinte da una predominante popolazione di immigrati (cioè abitanti giunti nel paese dopo il 1948). Altri, ancora, non includono nella classifica quelle città la cui localizzazione non ricade geograficamente al­ l'interno dei limiti delle zone definite di sviluppo, come ad 7g· esempio Ramla e Lod, le quali,. malgrado siano composte


prevalentemente da immigrati, vengono appunto tenute fuori dall'elenco perché sorgenti nella parte centrale del paese. La maggior parte delle città per immigrati, in realtà, chiari­ scono Berler e Shaked, sono state popolate prima che la concezione di « development towns » si materializzasse; esse furono soltanto più tardi classificate come tali, ed il loro sviluppo diretto lungo le direttrici implicate in questo termine 53, A conclusione, è sembrato opportuno riportare una classificazione riflettente i criteri amministrativi caratteriz­ zanti le varie new towns, avanzata da E. Layton, dopo un approfondito esame delle situazioni tipiche dei vari paesi del mondo; essa distingue: a) new towns, il cui sviluppo sia dovuto ad industrie private o ad imprenditori commerciali (company towns e simili); b) new towns la cui iniziativa imprenditoriale sia presa da una autorità locale, usando però strumenti gover­ nativi; c) new towns realizzate da organizzazioni pubbliche ad hoc appositamente create (development corporations); d) new towns realizzate dalla combinazione dei sistemi su riportati 54•

In sintesi, dallo scandaglio effettuato, sembra possibile distinguere le « new towns» per i fini tattici cui esse sono destinate. Tra i principali, emergenti risultano quelli inerenti le decongestione o deconcentrazione di grandi città od aree metropolitane, con le relative distinzioni del caso, come le situazioni di Londra e del Randstad dimostrano, oppure inerenti lo sviluppo delle aree depresse mediante il ricorso alla decentralizzazione, sebbene i due fenomeni siano senz'altro correlati, così come lucidamente evidenziato dal Malisz. Nel primo caso si tratterà di città del tipo «satellite» per la maggior parte, in quanto l'indipendenza dalla città-madre sembra difficilmente ottenibile, mentre nel secondo caso si 79


potrà con maggiore sicurezza definirle del tipo «indipen­ dente». Esiste, tuttavia, un'altra serie di nuove realizzazioni le quali, sebbene tese allo stesso fine, almeno nel caso della decongestione di grandi aree metropolitane, non sembrano decisamente potersi includere nella classificazione riportata (Belgrado, Parigi, Mosca etc.). Fra tutte, classiche si mostrano quelle di Stoccolma, laddove i nuovi insediamenti realizzati non hanno (e non volevano avere nell'intenzione del pianificatore) la spiccata caratteristica di «new towns », in quanto per niente auto­ sufficienti od amministrativamente autonomi. Il ricorso alle «new towns » del tipo «indipendente», infine, risulta tipico di quegli stati politicamente indipendenti dalle situazioni locali, specie per la promozione di risorse naturali e l'impiego di nuove industrie particolari (Canada, India ed USSR) o per lo sviluppo di regioni essenzialmente agricole (Stato di Israele). Le città per profughi, all'interno di grandi agglomerati (es. Nuova Delhi), non sembrano invece rappresentare una casistica a sé stante, anche se da taluni ciò venga ritenuto opportuno. Esse, in effetti, ricadono nel caso di «new towns » create per la decongestione di grandi aree metropolitane, affollate « anche » dalla presenza di immigrati da lontane zone depresse del paese. Le classificazioni di tipo promozionale, infine, come le «company towns » e le «città filantropiche » sembrano essen­ zialmente valere per il passato, anche se nel primo caso esempi recenti (Canada) dimostrano una evoluzione nella collaborazione tra imprenditori privati ed organizzazioni pubbliche. Riassumendo, quincii, dal quadro prospettato, che non si ritiene affatto esauriente, sembra scaturire come le «new towns» contengano insito nella loro concezione e nella susse­ guente realizzazione la necessità di una visione globale dei vari fenomeni sui quali esse sono chiamate ad incidere, e sw quali si cerca di influire appunto facendo ad esse ricorso; Nel caso ottimale, e cioè quando le circostanze politiche SQ


lo consentono, la decisione per l'adozione di « new towns » spetta all'organo politico di più alto grado, e cioè al governo nazionale (paesi dell'Europa Orientale e Gran Bretagna), il quale solo può, con una serie di provvedimenti legisla­ tivi nei più svariati campi (economico-industriale-terziario), rendere meno rischiosa e più proficua l'intera operazione. Negli altri casi, che spesso palesano però ampi squarci di incertezza nella riuscita effettiva, il compito è affidato ai governi regionali od istituzioni consimili, ma raramente alle singole amministrazioni comunali, anche se liberamente raggruppate. FRANCO . SBANDI

1 La maggior parte delle notizie riportate e l'ordine cronologico delle stesse sono presi da P. D. SPREIREGEN, The Architecture of Town and cities, McGraw Hill Company, 1965, p. 29-48. 2 Così, almeno per Pullman, rispetto agli standards, si espressero gli ispettori dell'U.S. Labor Commission, come rilevasi da E. R. L. GouLD, Eight Special Report of the Commisioner of Labor, The Housing o/ the Working People, Washington: Government Printing Office, 1895, p. 332. 3 J. W. REPS, The Making of Urban America, A History of City­ planning in the United States, Princeton University Press, Princeton New Jersey, 1965, p. 421. 4 S. BUDER, The Model Town of Pullman, Town Planning and Socia! Contro! in the Gilded Age, in « AIP Journal •, voi. XXXIII, n. 1, January

1967.

s Cfr. P. D. SPREIREGEN, op. cii., p. 31. 6 Cfr. C. S. AsCHER, Administration of New Towns in the Americas,

in Public Administration Problems of New and Rapidly Growing Towns in Asia, United Nations, Report of the Regional Seminar on Public Administration Problems of New and Rapidly Growing Towns in Asia, New Delhi, India, 14-21 December 1960, New York, 1962, ST/TAO/ M/18, p. 54. 7 Nell'esaminare 144 casi di comunità più o meno soggette ad un comprehensive physical pian nel passato, l'United States National Resources Committee (divenuto poi il National Resources Planning Board dell'Executive Office del Presidente nel 1939) giunse nel 1936 a queste conclusioni. Cfr. allo scopo C. S. AsCHER, op. cit., p. 55. s Cfr. W. P1m,RSEN, The Ideologica/ Origins of Britain's New Towns, in « AIP Jouma1 », voi. XXXIV, n. 3, May 1968. 9 A tal riguardo, tra le ultime pubblicazioni, si ricorda: F. SCHAF­ FER, The New Town Story, MacGibbon and Kee, Bungay, Sulfolk, 1970, p. 8 e seg. e P. MERUN, Les Villes Nouvelles, Presses Universitaires de France, 1969, p, 10, e RAv THOMAS, London's New Towns, G. Berridge and Co., London and Thelford, 1969. 10 Cfr. B. WARD, The Processes of World Urbanization, in Planning

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of Metropolitan Areas and New Towns, Meeting of the United Nations Group of Experts on Metropolitan Planning and Development, Stock• holm, 14-30 September 1961 ed United Nations Symposium on the Planning and Development of New Towns, Moscow 24 August- -7 Sep­ tember 1964, UN Sales N• 67.IV.5, p. Il. 11 Cfr. Metropolitan Planning and Development, adattato da Metro­ politan P/anning and Development - part one - Report of the Group of Experts on Metropolitan Planning and Development, held in Stockholm, 14-30 September 1961, ST/TAO/Ser.C/64, in Planning o/ Metropolitan Areas and New Towns, op. cit. alla nota precedente. 12 Cfr. B. WARD, op. cit., p. 14. Il Cfr. M. J. W1sE, Economie Factors of Metropolitan Pla1111i11g, in op. cit. alla nota (10). 14 I dati sulla Danimarca e la Finlandia sono desunti dai Proceed­ ings of tlte Seminar on the Supply, Deve/opment and A/location of Land for Housing and Related Purposes, Paris, 28 March • 6 Aprii 1965, voi. 1, UN ST/ECE/HOU/15, pp. 48 e 54; per l'Ungheria cfr. BoLESLAW MALISZ, Pltisical Planning for tlre Deve/opment of New Towns, in Planning of Metropolitan Areas and New Towns, op. cit., p. 204. 1S Cfr. A. BERLER ed S. SHAKED, New Towns, in Tlze Future Pattern and Forms of Urban Settlements, Proceedings of the Seminar, The Netherlands 25 September • 7 October 1966, voi. Il, New York, 1968, UN ST/ECE/HOU/28, p. 216. 16 Cfr. TADASHI FUKUTAKE, Problems of a Rapidly Growing City in Japan, Hitacl1i, in op. cit. alla nota (6), p. 46. 17 Cfr. DELHI, Some Economie Issues in Urban Planning, by The Town Planning Organization, Govemment of India, a p. 22 dell'op. cit. alla nota precedente. 18 Cfr. A. DowNs, Alternative Forms of Future Urban Growth in the United States, in « AIP Journal •, voi. XXXVI, n. 1, January 1970. 1 9 Skiss 1966 ti/I regionplan fil.r Stockholmstrakten, Stockholmstrak­ tens regionplanekontor, Tryckt hos Esselte, Stockholm, 1967, pp. 9-32. 20 Cfr. M. J. WISE, nell'op. cit. alla nota (13), p. 60. 21 A. WEDER, T/1eory of the Location of lndustries, Chicago, 1929. Analisi dettagliate delle economie di urbanizzazione possono ritrovars i nelle opere di Hoover, Losch ed Isard, R. Artle e C. B. Wurster. 22 Per Israele si rimanda a A. BERLER e S. SHAKED, op. cit. 23 Per L'India vedere K. DAVIS, Urbani:r.ation in India, past and future, in lndia's Urban Future, Roy Turner, Berkeley, Universi!) of California Press, 1962 e THE DEMOGRAPHIC TRAINING AND RE­ SEARCH CENTRE, Bombay, Urbanization in South-East Asia, in P/an­ ning of Metropolitan areas and New Towns, UN ST/SOA/65, p. 25. 24 Da Report of the Regional Seminar on Public Administration Problems of New and Rapidly Growing Towns in Asia, New York, 1962, Sales N• 62.11.H.l, part. 1, pp. 3-4. 25 Le « agrovilles • (letteralmente « città di campagna») furono realizzate per la prima volta in Russia mediante la trasformazione dei piccoli klwlkozes in insediamenti più grandi. Questo tipo di insedia­ mento è stato imitato, a detta degli esperti di quel seminario, nella Repubblica del Viet-Nam, dove il Governo ha creato delle comunità urbane per la popolazione rurale (circa una ventina di unità). L'obiet­ tivo è quello di raggruppare i contadini sparsi in una comunità orga­ nizzata, scegliendo localizzazioni più o meno baricentriche ai loro luoghi di lavoro agricolo. L'area di impianto viene espropriata dallo stesso Governo, che concede ad ogni famiglia una porzione di terreno agricolo per la quale percepisce poi danaro o prestazioni di lavoro. Allo stesso Governo rimane la gestione dei servizi pubblici, come


l'educazione, la salute pubblica, l'approvvigionamento idrico etc. In ogni « agroville » si contano in media 4-500 famiglie. 26 E. LAYT0N, Ac/ministration of New Towns in the United Kingdom, Netherlands and Canada, a p. 70 del rapporto citato alla nota (6). 27 Cfr. D. ANDRIELLO, Howard o del/'Eutopia. L'idea della città­ giardino alla luce della conferenza internazionale di Arnhem, giugno 1963, Minerva Editrice, Napoli, 1964, introduzione p. 9. 28 Ibidem, p. 85, riportando il parere del Vink. 29 Ibidem, p. 88. 30 Da Urbanization in South-East Asia, Background Paper N• 2, preparated for the UN Symposium on the Planning and Development of New Towns, Moscow, 24 August - 7 September 1964, inserito nella pubblicazione di cui alla nota (10) p. 29. 31 Da T. J. MANICKAl\l, L. R. VAGALE, B. M. BHUTA and M. S. V. R,10, New Towns in India, a p. 17 della pubblicazione citata alla nota (6). 32 Cfr. B. MALISZ, Physica/ Planning for the Development of New Towns, a p. 201 della pubblicazione citata alla nota (10). 33 Un altro tipo di new town considerato dall'autore in esame è quello di • stazione termale» o di « villeggiatura» costruito per la promozione di iniziative turistiche (Bulgaria, Turchia etc.). � Cfr. 8. MALISZ, op. cii., pp. 203-204. JS L'autore riporta anche che il massimo raggio per la localizza. zione di città satelliti considerato opportuno in Cecoslovacchia è di soli 25 km dalla città-madre. Unità più piccole e perciò sempre più dipendenti dalla città-madre (4.000-10.000 abitanti) possono, secondo gli esperti cecoslovacchi, essere localizzate entro un raggio di 10 km. In tal caso non sembra a Malisz, ed anche a noi, opportuno definirle new towns. Ad esse meglio si adatterebbe il termine di town sections adoperato a Stoccolma per insediamenti del tipo similare come Val­ lingby, Farsta, etc. 36 Cfr. V. G. DAVIDOVITCH, Distribution of Selllements in industriai regions, Moscow, 1960, p. 9. 3i Cfr. H. HovENS GR0VE and L. WuERs, Survey of tl1e case studies presented and reflexions thereon, a p. 63 del voi. I del rapporto pre­ parato per il Seminario internazionale dell'Aja (25 settembre - 7 otto­ bre 1966) sul tema: « The future pattern and forms of urban settle­ ments ». 38 Ibidem, pp. 63-05. 39 Gli autori citati prendono anche in considerazione un ultimo aspetto riguardante quegli insediamenti abitativi che, in dipendenza di particolari condizioni economiche, sociali e fisiche dei paesi interes­ sati, si sviluppano nei dintorni di grandi città {Stoccolma) od ad una certa distanza dalle stesse, in aree di particolare attrazione a fini ricreazionali, come è il caso di taluni insediamenti francesi sulle Alpi o sulle sponde del Mediterraneo, o sovietici sulle sponde del Mar Nero. 40 Cfr. R. GRAY and F. PARFAIT, Dormitory and Satellite Towns, in The Future Pallern and Forms of Urban Settlements, Proceedings of the Seminar, The Netherlands 25 September • 7 October 1966, voi. II, pp. 201-215. 41 Cfr. J. WILKINS0N, New Towns, a p. 267 della pubblicazione citata alla nota precedente. 42 Dal Rapporto Reith, cap. 3, p. 17. 43 Cfr. in proposito anche F. ScHAFFER, The New Town Story, London, 1970, MacGibbon and Kee Ltd., p. 102. +1 Dal Reith Report, come riportato da J. TETLOW and A. Goss, Homes Towns and Traffic, Faber and Faber, London, 1965, p. 53. 83 45 ai Cahiers de l'OREAM, Lyon-Saint Etienne, Avril 1968, p. 34.

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46 Cfr. L. DE OuIRIELLE, Les nouveaux ensembles immobiliers, Paris, 1960, Berger-Levrault, p. 31. 47 Cfr. H. RousSILLON, Le Mirai/, in L'Experience Française des vii/es nouvelles, Foundation Nationale des Sciences Politiques, Paris, 1970, p. 140. Trattasi degli Atti della giornata di studi sulle « villes nouvel­ les" tenutasi alla Fondazione nazionale di Scienze Politiche il 19 aprile 1969. 48 Cfr. T. A. DAMES and W. L. GRECCO, A Survey of New Town Plan­ ning Considerations, in « Traflìc Quarterly" October 1968, p. 555. 49 Cfr. A. MAYER, The Urgent Future, McGraw Hill, 1967, p. 86. 50 Cfr. P. MERLIN, Les Vii/es Nouvelles, Presses Universitaires de France, 1969, p. 163. SI Cfr. c. S. AsCHER, op. cit., p. 61. 52 Cfr. A. BERLER and S. SHAKED, op. cit., p. 223. S3 Ibidem, p. 224. 54 E. LAYTON, op. cit., p. 77.

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