Op.cit. rivista quadrimestrale di selezione della critica d'arte contemporanea
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Edizioni  Il centro•
Note di terminologia semiotica
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O. BoHiGAS , Il design: processo e fruizione Il  silenzio • de/l'architettura contemporanea
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Libri, riviste e mostre
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T. LLORENS, S. RAY,
Alla redazione di questo numero hanno collaborato: Pasquale Belfiore,
Teresa Colletta, Renato De Fusco, Giuseppe Fusco, Maria Luisa Scalvini.
Note di terminologia semiotica* TOMÀS LLORENS
La lista dei termini che qui di seguito si commen tano non deve essere considerata come un dizionario tecnico. Per un tale dizionario infatti (e anche conside randone una stesura abbreviata e sintetica), manchereb bero alcuni termini di importanza-chiave; d'altra parte, l'estensione assegnata a ciascun commento non riflette l'importanza della collocazione che al termine relativo dovrebbe essere attribuita in un panorama sistematico della letteratura contemporanea concernente la teoria dei segni. L'intenzione, nel redigere le presenti note, è stata soltanto quella di contribuire a che i partecipanti al Sim posio potessero confrontare le proprie rispettive posizioni teoriche con maggiore facilità, precisione, e rapidità. Tale intenzione comportava una valutazione preliminare circa i temi destinati ad essere oggetto di maggiore discussione; per questa valutazione mi sono basato sui riassunti, for nitimi in precedenza dagli autori delle relazioni in pro* Dal 14 al 18 marzo 1972, organizzato dal Colegio Oficial de Arqui tectos de Cataluiia y Baleares con la collaborazione del Colegio Oficial dc Arquitectos de Valencia, si è svolto a Castelldefels (Barcellona) un Simposio internazionale sul tema « Arquitectura, historia y teoria de los signos », al quale hanno presentato relazioni ufficiali: O. Bohigas, J. P. Bonta, G. Broadbent, D. Canter e S. Tagg, F. Choay, A. Cirici Pellicer, A. Colquhoun, P. Eisenman, Ch. Jencks, M. Krampen, N. Por tas, X. Rubert de Ventos, M. L. Scalvini. In questo numero pubblichiamo due testi presentati in tale Sim posio: la relazione di Orio! Bohigas, e le Notas terminologicas redatte da Tomàs Llorens dell'Università di Valencia; queste ultime sono state fornite ai partecipanti come un documento di lavoro.
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gramma. A parte l'evidente fragilità di questa base, mi auguro che la scelta dei termini non si riveli, durante lo svolgimento del Simposio, del tutto inadeguata. I testi che compongono queste note possono essere classificati secondo questi tre tipi: a) Riassunti della teoria esposta negli scritti del l'autore più accreditato per ciascuna delle accezioni ter minologiche; ho fatto ricorso a citazioni testuali (in cor sivo) solo quando questo è apparso come il metodo più adeguato all'economia del presente scritto. I relativi riferimenti bibliografici sono indicati, rispettivamente, [ ] e ( ).
b) Esempi illustrativi. Generalmente, si tratta di esempi suggeriti dai rispettivi autori stessi. e) Talvolta, commenti personali miei. Questi testi sono in corpo ridotto. Alla fine, si è aggiunto un elenco di riferimenti biblio grafici per le citazioni testuali 1• * ARTICOLAZIONE. DOPPIA ARTICOLAZIONE (Martinet). Carat tere distintivo fondamentale del linguaggio umano: una sequenza linguistica consta di un numero finito di ele menti discreti, suscettibili di combinarsi secondo deter minate regole. Il complesso di tali regole costituisce il * CODICE di una lingua. Quando la divisione tra i detti elementi discreti si produce in modo tale che alla divisione nel piano del l'espressione (o del significante) corrisponde una divisione nel piano del contenuto (o del significato), essa viene de nominata PRIMA ARTICOLAZIONE. Gli elementi minimi (non ulteriormente divisibili) della prima articolazione sono chiamati MONEMI (per esempio la parola «tavola», o il suffisso «-gli » in «digli » ). Un monema contiene, nel piano semantico, la quantità minima di informazione suscetti-
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I Per la pubblicazione su • Op. cit. •, alla indicazione delle traduzioni spagnole è stata sostituita quella delle traduzioni italiane di cui si era a conoscenza. (N.d.T.).
bile di essere presa isolatamente per essere introdotta in differenti sequenze linguistiche. Oltre a questa prima articolazione, una sequenza lin guistica può essere divisa anche, con riferimento al solo piano del significante (ossia alla sola forma fonetica), in una serie di elementi minimi chiamati FONEMI. Questa divisione prende il nome di SECONDA ARTICOLAZIONE. Le nozioni tradizionali di «parola» e di «lettera» (vocale o consonante) corrispondono ad una percezione intuitiva di queste due articolazioni linguistiche. Di fatto però è possi bile ottenere, di queste regolarità linguistiche, una rap presentazione più esatta mediante l'applicazione sistema tica dell'operazione di COMMUTAZIONE, che ci conduce pro priamente alle unità sopra definite come monemi e fonemi. *
ASTRAZIONE
(Buyssens). Cfr. * SEGNO.
"' COMPETENZA («Competence») (Chomsky). Conoscenza (in gran parte «tacita» o «latente») [FNL, 413 n] delle regole linguistiche, da parte di un parlante-ascoltatore, grazie alla quale questi è capace di distinguere, com prendere e/o emettere una frase * GRAMMATICALE (cfr.), anche se totalmente nuova per lui.
* COMPORTAMENTO VERBALE («verbal Behavior ») ( Skin ner ). È il comportamento rinforzato dalla mediazione di altre persone [VB, 14]. (Cfr. * SEGNO, Osgood). * COMUNICAZIONE (Buyssens). Trasmissione di informa zione per mezzo di messaggi, composti da * SEGNALI. La comunicazione si realizza tramite un «mezzo», che può essere NON SISTEMATICO, o SISTEMATICO. I SISTEMI di comunicazione sono i «mezzi» di comunicazione nei quali i messaggi sono formati da unità isolabili, formal mente (cfr. * ASTRAZIONE) identiche in messaggi diversi, e nei quali queste unità stabili. costituiscono i messaggi secondo regole di combinazione anch'esse stabili. , 7
* CRITERIO PRAGMATISTICO DI SIGNIFICATO (Peirce). Con sider what effects, which might conceivably have practical bearing, we conceive the object of our conception to have. Then, our conception of these effects is the whole of our conception of the object. (C.P. 5, 402). « Conside riamo quali effetti, capaci di avere presumibilmente con seguenze pratiche, possa avere l'oggetto da noi concepito. Il nostro concetto di questi effetti coincide in realtà con l'intero nostro concetto dell'oggetto stesso ». Esempi: il nostro concetto di peso (come quando diciamo che un corpo è pesante) consiste (solo ed esclu sivamente) nella nostra considerazione del fatto che que sto stesso corpo, qualora non vi si opponga una forza contraria, cadrà. Il nostro concetto di durezza (come quando diciamo che un corpo è duro) consiste (solo ed esclusivamente) nella nostra considerazione del fatto che, in determinate circostanze, questo corpo scalfirà (o sarà scalfito da) un altro corpo, etc. * DENOTATUM (Morris). Ciò che permette che si com pleti la sequenza di risposta, la cui disposizione appare in un organismo a causa di un * SEGNO (WGTS, 361). Il denotatum di un segno è un complesso di condizioni fatiche, che possono darsi o meno in una determinata occorrenza segnica. * DERIVAZIONE (« Derivation ») (Chomsky). Operazione consistente nello scrivere una serie di righe, nella quale ogni riga si ottiene dalla precedente applicando, una vol ta, una (e solo una) * REGOLA DI DERIVAZIONE ad un solo elemento. In ogni riga l'applicazione della corrispondente re gola A� Z si effettua indipendentemente dal contesto di A nella riga precedente e, in generale, nella derivazione. Qualsiasi operazione di derivazione si conclude in una SEQUENZA TERMINALE (sequenza composta da simboli 8 che non si possono scrivere alla sinistra di ➔).
*
(Chomsky). Operazione di DE nella quale: a) la prima riga consiste nel simbolo S (che può leggersi come « enunciato » - « sentence »). b) la sequenza dell'ultima riga, o SEQUENZA TERMI NALE, contiene gli inserimenti lessicali (cfr. * STRUTTURA PROFONDA e * REGOLE DI TRASFORMAZIONE). e) gli ulteriori simboli sono indicatori di costi tuenti sintagmatici (del tipo FN, « frase nominale» - NP « nominal phrase » - FV, « frase verbale », etc.). DERIVAZIONE CATEGORIALE
RIVAZIONE
' DIFFERENZIALE SEMANTICO ( «semantic differential») (Osgood). Strumento usato in psicologia per misurare il significato di una parola (o segno). Per «misurare» •si intende qui attribuire un valore quantitativo distintivo e caratteristico al significato che una parola (o segno) pos siede, per una data persona in una data circostanza. Il differenziale semantico, così come fu progettato da Osgood e dai suoi collaboratori, consiste in un gruppo di 50 scale bipolari (opposizionali), (del tipo: retto-curvo, forte-debole, etc.). Per misurare il significato di una serie di parole, si chiede ad un gruppo di soggetti sperimentali di valutare (secondo una scala costituita da sette spazi) ciascuna di tali parole collocandola in ognuna delle scale. I dati così ottenuti possono essere rappresentati per mezzo di una matrice cubica (numero dei soggetti X numero delle parole X numero delle scale). L'elaborazione mate matica dell'informazione statistica contenuta in matrici di questo tipo, convinse gli autori che la varianza totale poteva essere esplicitata mediante non più di sette fat tori di correlazione, tre dei quali, che potevano essere con siderati come principali, davano conto della maggior parte della varianza stessa. Gli autori li denominarono in questo modo: Fattore I (o di valutazione), Fattore II (o di po tenza), Fattore III (o di attività). Una serie di prove spe rimentali successive mostrò che questi tre fattori sono presenti nel significato di qualsiasi parola (o segno), e che 1
possiedono una validità transculturale.
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Questo fatto suggerì la possibilità di stabilire uno * SPAZIO SEMANTICO come modello di rappresentazione dei significati. In tale modello, i tre fattori sono rappresen tati come i tre assi delle coordinate di uno spazio tridi mensionale, e ciascun significato viene rappresentato come un punto definito da tre valori, uno per ciascun asse. Questo modello consente di rappresentare i risultati del l'analisi semantica in termini quantitativi, come ad esem pio distanze tra ·significati, strutture spaziali di signifi cati, etc. L'uso del differenziale semantico permette di verifi care, in termini di osservazione, proposizioni predittive inerenti a cambi di significato, tanto in psichiatria (per esempio nel corso di un trattamento psichiatrico) come in psicologia sociale (effetti di una campagna politica, etc.). * GRAMMATICA ( « Grammar ») ( Chomsky). Sistema di rap presentazione dei fatti linguistici per mezzo dell'enunciato delle relative regolarità. Una grammatica di una lingua si propone come una descrizione della * COMPETENZA in trinseca del parlante-ascoltatore ideale. Se la grammatica è, inoltre, perfettamente esplicita ( ...) possiamo chiamarla ( con una certa ridondanza), * GRAMMATICA GENERATIVA (ATS, 6). La grammatica adeguata di una lingua deve permet tere lo stabilirsi di una certa relazione tra il suono ed il significato, tra le rappresentazioni fonetiche e quelle semantiche. (FNL, 398). Di conseguenza, le regole che com pongono il sistema grammaticale si possono raggrup pare secondo tre componenti principali della grammatica: sintattico, fonologico, e semantico, dei quali i due ultimi sono interpretativi, mentre il primo è formativo (non interpretativo). * GRAMl\1ATICA GENERATIVA (Chomsky). Una grammatica che non permetta di rappresentare una serie infinita di fatti linguistici è inadeguata, posto che una delle caratte10 ristiche essenziali del linguaggio è il suo aspetto creativo.
Una grammatica che, con un complesso finito di regole, permetta di produrre una serie infinita di frasi, sarà una grammatica generativa. La grammatica generativa o ade. guata di [un linguaggio] L sarà uno strumento capace di produrre tutte le sequenze grammaticali di L e nessuna di quelle non-grammaticali. (SS, 13). *
GRAMMATICALITÀ (di una frase) ( « Grammaticalness » o grammaticality ») (Chomsky). Si dice che una frase è «grammaticale» in L quando è accettabile per un par lante nativo. [SS, 13-17]. In un senso più ristretto, biso gna distinguere fra la accettabilità di una frase e la sua grammaticalità. L'accettabilità di una locuzione (frase pronunciata in una data circostanza) dipende da fattori extra-grammaticali che influiscono sul parlante-ascoltato re, come l'abitudine, la memoria, etc. Il criterio di gram maticalità, invece, si stabilisce con riferimento alla * COM· PETENZA di un parlante-ascoltatore ideale ( ... ) che sappia perfettamente la sua lingua, e non sia condizionato da fattori grammaticalmente irrilevanti, come ad esempio limitazioni di memoria, distrazioni, errori. (ATS, 5). «
* ICONE ( « icon ») (Peirce). Un veicolo di * SEGNO la cui relazione con il relativo oggetto dipende da una sorta di somiglianza, benché la sua esistenza non dipenda dal1'esistenza dell'oggetto stesso. (Cfr. * INDICE). In senso stretto una icone è una qualità generale, e, di conseguenza, esiste solo come idea. In senso lato qualsiasi cosa può essere una icone. Esempio: in senso Iato, una bolla d'aria può essere una icone della Terra: (la bolla d'aria sarà il veicolo se gnico, la Terra sarebbe l'oggetto, e l'immagine della bolla d'aria nella mente dell'interprete sarebbe l' * INTERPRE TANTE). In senso stretto, l'immagine della bolla d'aria (la sua sfericità, che è una qualità generale e che non si iden tifica con una particolare bolla d'aria esistente) sarebbe il veicolo segnico, l'oggetto sarebbe la Terra, e l'interpre tante sarebbe il pensiero (la riflessione) di considerare 11
che la sfericità (della bolla d'aria) rappresenta la forma della Terra (o un qualsiasi altro pensiero basato su tale somiglianza). Qualsiasi interpretante è sempre una icone (presup pone pertanto necessariamente, in quanto veicolo segnico, un altro interpretante, e così via, all'infinito) [CP, 5.138]. Non esistono iconi pure (qualità «disincarnate»); però qualsiasi segno è in certo modo iconico, nella misura in cui è generale (nella misura in cui la sua funzione lingui stica consiste nel rappresentare una classe e non un de terminato oggetto particolare). * INDICE ( « index ») (Peirce). Un veicolo di * SEGNO la cui relazione con il proprio oggetto consiste in un qualche tipo di relazione esistenziale (indipendente dalla relazione semiosica). Esempi: Un dito indice puntato su di un oggetto (la relazione esistenziale è in questo caso la disposizione spa ziale). Il fumo in relazione al fuoco (la relazione esisten ziale consiste, in questo caso, in una relazione di causa effetto ). L'igrometro, in relazione alla umidità atmosfe rica; i pronomi in un contesto linguistico, etc. (Cfr. * SE· GNO, * ICONE e * SIMBOLO). Gli indici sono gli unici segni il cui modo di essere non è generale, bensì particolare (cfr. * VEICOLO SEGNICO). Essi svolgono così la funzione (necessaria) nel linguaggio di rendere possibile il riferimento ad oggetti particolari: sono il ponte fra il linguaggio ed il mondo. Così, ad esem pio, l'interpretante del simbolo linguistico «uomo » non può essere riferito a nessun oggetto particolare se non viene accompagnato da un complesso di indici linguistici ( « quest'uomo ») e/o extra-linguistici (la situazione di colui che emette il segno e del suo interprete in una par ticolare circostanza). * INDIZI (fr. «Indices »; ingl. « Indicators »). (Buyssens). 12 * SEGNI (Cfr.) che non sono * SEGNALI (Cfr.).
* INTERPRETANTE ( « interpretant ») (Peirce). Modificazione prodotta nel pensiero da un * SEGNO. Nella teoria di Peirce il « pensiero » è considerato con indipendenza da qualsiasi entità psicologica, e non richiede neppure di essere attribuito ad un ente indivi duale. * INTERPRETANTE (Morris). La disposizione di un inter prete a rispondere, in conseguenza di un * SEGNO (Cfr.) con sequenze di risposta appartenenti ad una famiglia di comportamenti. (WGTS, 363).
Il concetto morrisiano di interpretante deriva da una ridu zione del concetto di Peirce ai presupposti epistemologici della psicologia comportamentistica.
* INTERPRETE (« interpreter ») (Peirce). Il soggetto di un * INTERPRETANTE (Cfr.). * INTERPRETE (Morris). Un organismo per il quale un certo qualcosa è un * SEGNO. (WGTS, 363). (Cfr. * INTERPRE TANTE).
*
PARADIGMA
(Saussure). Cfr. * RELAZIONE
*
REFERENTE(«
ASSOCIATIVA.
referent ») (Ogden e Richards). Cfr. * SIM·
BOLO.
* REFERENZA, o * PENSIERO ( « reference », « thought » ). (Ogden e Richards). Cfr. * SIMBOLO. * REGOLE DI DERIVAZIONE(« derivation rules ») (Chomsky). * REGOLE DI RISCRITTURA che si applicano nella operazione di * DERIVAZIONE. In una regola di derivazione la sequenza che si trova collocata alla sinistra del segno ➔ deve essere composta
da uno e un solo elemento.
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* REGOLE DI RISCRITTURA ( « rewri ting rules ))) (Chomsky). Regole del tipo A➔ Z, in cui A e Z rappresentano se quenze di simboli, e ➔ definisce un ordine prioritario nel1 'operazione. Una regola A➔ Z può essere interpretata come riscrivere ( tornare a scrivere) A sotto la forma di Z. (SS, 26). Agli effetti della grammatica generativa, ➔ pos siede Io stesso valore della costante logica di implicazione ( « se... allora » ). * REGOLE TRASFORMAZIONALI ( « transformational rules ») ( Chomsky). * REGOLE DI RISCRITTURA, A➔ z, la cui appli cazione (facoltativa o obbligatoria) si fa dipendere dal contesto di A nel complesso delle righe precedenti (otte nute per* DERIVAZIONE- cfr.- o per TRASFORMAZIONE applicando precedentemente regole trasformazionali). Pertanto, in una trasformazione, una riga non si ottiene da quella immediatamente precedente, bensì dal com plesso_ delle righe precedenti. Le regole trasformazionali devono essere applicate secondo un certo ordine definito preliminarmente. È que sta un'altra caratteristica che le differenzia dalle regole di derivazione, per le quali non si definisce un ordine di applicazione [SS, 44-45]. Le regole trasformazionali so gliono essere applicate ciclicamente. Appartengono a questo tipo: a) Le regole di inseri mento lessicale (cfr. * STRUTTURA PROFONDA), che permet tono di sostituire con dei lessemi i simboli della sequenza terminale di * DERIVAZIONE CATEGORIALE [FNL, 426]; b) le regole fonologiche, che permettono la interpretazione fo netica di una struttura superficiale [FNL, 411]; c) (pro babilmente) le regole semantiche, che permettono l'inter pretazione semantica di una struttura profonda [FNL, 418]; d) le regole di trasformazione in senso stretto, che permettono la trasformazione delle strutture profonde in strutture superficiali. * RELAZIONE ASSOCIATIVA (Saussure) (cfr. *SINTAGMA e *PA14 RADIGMA). Fuori del discorso, le parole offrenti qualche
cosa di comune si associano nella memoria, e si formano così dei gruppi nel cui ambito regnano rapporti assai di1,:ersi (... ). Il rapporto associativo unisce dei termini in absentia in una serie mnemonica virtuale (CLG, 149-150). I termini di una famiglia associativa non si presentano né in numero definito né in un ordine determinato (... ). Un termine dato è come il centro di una costellazione, il punto in cui convergono altri termini coordinati, la cui somma è indefinita. (CLG, 152-153). Esempio ensefgnement
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Tuttavia, il secondo carattere (numero indefinito) può non esserci. Così accade ad esempio con i paradigmi delle declinazioni (ad esempio, in latino: « dominus»), «do mini», «domino», etc.). La formulazione di Saussure può prestarsi a confusioni per quanto riguarda la distinzione - fondamentale per lo struttura lismo successivo - fra il livello psicologico ( « associazioni men tali ») e quello propriamente lingi.ùstico-strutturale. Un criterio operativo per rendere il concetto di paradigma indipendente dalle sue implicazioni psicologiche è, per esempio, quello di commu tazione. « Le unità che possono commutarsi vicendevolmente in un gran numero di enunciati costituiscono un paradigma. Il fonema francese che la scrittura nota gn (in oig,ion ... , etc.) non figura mai nel paradigma delle consonanti iniziali francesi...» (Mounin, CL, 76).
*
REPLICA
(«Token», o «replica»} (Peirce). Occorrenza
particolare di un * SIMBOLO. Esempi: una emissione fo- 15
nica di « uccello » in una data circostanza; la configura zione scritta « uccello » nella presente circostanza, etc. Si contrappone a *TIPO. * SEGNALE (« signal ») (Morris). Qualsiasi segno che non sia un * SIMBOLO. * SEGNALE (« signal ») (Buyssens) (cfr. * COMUNICAZIONE). * SEGNO che soddisfa a queste due condizioni: a) è pro dotto con l'intenzione di comunicare; b) questa inten zione è riconosciuta da chi lo riceve. * SEGNO ( « signe ») (Saussure). Il segno linguistico unisce non una cosa e un nome, ma un concetto e una immagine acustica. Quest'ultima non è il suono materiale, cosa pura mente fisica, ma la traccia. psichica di questo suono. (CLG, 83-84). Questi due elementi sono intimamente uniti e si richiamano l'un l'altro ( ...). Noi chiamiamo segno la combinazione del concetto e dell'immagine acu stica: ma nell'uso corrente questo termine designa gene ralmente soltanto l'immagine acustica, per esempio una parola(... ). Noi proponiamo di conservare la parola segno per designare il totale, e di rimpiazzare concetto e imma gine acustica rispettivamente con significato e signifi cante (CLG, 84-85). I caratteri fondamentali del segno sono: a) la arbi trarietà o convenzionalità della relazione significato-signi ficante; b) la linearità del significante: In opposizione ai significati visivi ( segnali marittimi etc.) che possono offrire complicazioni simultanee su più dimensioni, i signi ficati acustici non dispongono che della linea del tempo. (CLG, 88). Di conseguenza, in ogni punto della catena lin guistica vi sono soltanto opposizioni diverse con ciò che è accanto (CLG, 88).
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Saussure sembra qui manifestare - e lo stesso accade con la sua concezione della * SEMIOLOGIA (cfr.) - una tendenza al sostantivismo (psicologista) che in realtà è estranea al suo sistema, e che è stata abbandonata dalla posteriore linguistica di ispira-
zione saussuriana. Ciò che da Saussure si è preso, è stato non l'ipotesi della realtà psicologica del segno, bensì il suo concetto del significato e del significante come entità formali, costituite da valori relativi, differenze che dipendono e si organizzano in una stmttura: la lingua.
* SEGNO (« sign ») (Morris). In senso lato: qualcosa che regola il comportamento [di un organismo] rispetto ad una qualche cosa che non è nello stesso momento uno stimolo [per quello stesso organismo]. In senso più pre ciso: se A è uno stimolo preparatorio che, in assenza degli oggetti-stimolo che danno inizio a sequenze di rispo sta appartenenti ad una certa famiglia di comportamenti, produce in un certo organismo una disposizione a rispon dere con sequenze di risposta appartenenti alla detta fa miglia di comportamenti, allora A è un segno (WGTS,
366). Questa definizione di Morris non dovrebbe essere usata senza tener conto di alcune considerazioni di tipo storico: sembra ragio nevole considerare il concetto morrisiano di segno come il risultato del proposito di ridurre il concetto di Peirce - la cui chiave sta nella nozione di * INTERPRETANTE - a dei termini suscettibili di soddisfare i criteri di verificabilità messi a punto dal Circolo di Vienna. A tal fine Morris ricorse ai concetti teorici della psicologia comportamentistica (nel suo sviluppo anteriore al 1946). La utilizzazione morrisiana di questi concetti - utilizzazione non letterale - suscita parecchie difficoltà di interpretazione. II con cetto di stimolo preparatorio deve essersi presentato nel pensiero di Morris « per simmetria» rispetto al concetto della « condotta molare preparatoria» (« preparatory set»); in parte Mowrer, e soprattutto Zener, proposero nel 1937-'39 una interpretazione circa la natura della risposta condizionata, secondo la quale questa con sisterebbe in un complesso di risposte (molecolari) caratterizzate dalla propria strumentalità rispetto alla ottimizzazione della ri sposta non-condizionata. Il fatto che Morris utilizzi il termine di stimolo preparatorio (insolito nella teoria psicologica) sembra indicare la sua intenzione di evitare le critiche che erano state mosse alle formulazioni psicolinguistiche, proprie del primo com portamentismo, basate esclusivamente sui meccanismi del condi zionamento classico. Tuttavia, il fatto che Morris utilizzi il termine « oggetto-stimolo » - che suppone una confusione fra quello che Skinner (1938) chiamò stimolo discriminatore (preliminare alla risposta) e lo stimolo rinforzatore (successivo alla risposta) -
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indica che egli non prese coscienza dell'unico possibile tipo di apprendimento (il condizionamento per rinforzamento) alterna tivo rispetto al condizionamento classico. Per il resto, la termino logia usata da Morris non presenta difficoltà: il termine (anch'esso insolito) « famiglia di comportamenti» ( « Behavior-family ») deve corrispondere in linea generale a quello di famiglia di abitudini (« Habit-family») di Hull (1934); e il termine « disposizione a rispondere» potrebbe corrispondere a ciò che, nella psicologia posteriore, fu chiamato processo mediazionale, e, più precisa mente, al concetto di « fractional-antedating-goal-response » di Hull (cfr. in proposito Hull, 1956). Se riformulassimo la definizione di Morris impiegando una terminologia attuale, otterremmo: un segno è uno stimolo appreso che provoca in un organismo un processo mediazionale; questo processo mediazionale o appartiene a una famiglia cli abitudini semplice, associata con almeno uno stimolo non appreso; ovvero appartiene ad una famiglia di abitudini composta - « Compound habit-family » (Maltzmann) - nella quale è inclusa almeno una famiglia di abitudini semplice, associata con uno stimolo non appreso. Una tale concezione sarebbe, tuttavia, così ampia, che pale serebbe gli stessi inconvenienti che Morris segnalava nelle conce zioni di Peirce e di Tolman. Sembra quindi opportuno aggiungere ad essa una specificazione suggerita da Osgood (cfr.).
* SEGNO (Osgood). Uno stimolo appreso, A, è un segno quando lo si trova associato, in una famiglia di abitudini, con un qualche stimolo non appreso tramite un processo mediazionale, sempre che le contingenze di apprendimento obbediscano a regolarità di origine sociale ( e non a leggi naturali: arbitrarietà del segno) [BAPLCP, 194-195]. So stanzialmente questa specificazione coinciderebbe con la condizione mediante la quale Skinner definisce il * COM PORTAMENTO VERBALE.
* SEGNO (« sign») (Peirce). A sign stands for something to the idea which it produces or modifies (CP, 1.339). « Un segno rappresenta (sostituisce) una qualche cosa rispetto all'idea che produce o modifica». Un segno, dunque, è una relazione triadica i cui ter18 mini sono: a) il * VEICOLO SEGNICO; b) l'oggetto (la cosa
rappresentata); e) l' * INTERPRETANTE (la modificazione che il segno produce nel pensiero). Una delle possibili classificazioni dei segni si rife-. risce alla relazione che un veicolo segnico presenta con l'oggetto del segno stesso. Secondo questa classificazione, i segni possono essere * SIMBOLI, * !CONI o * INDICI. Per il funzionamento di un linguaggio, è necessario che que st'ultimo possegga iconi e indici, oltre che simboli; però soltanto i simboli sono autentiche relazioni triadiche (e pertanto soltanto questi sono veri e propri segni): negli indici e nelle iconi la relazione triadica si stabilisce sulla base di una relazione duale tra il veicolo segnico ed il suo oggetto. * SEGNO (Buyssens). Qualsiasi fenomeno o cosa che rap presenta o sostituisce altro fenomeno o cosa in determi nate circostanze. I segni si classificano in * INDIZI e * SE GNALI.
I due termini di questa relazione sono chiamati ri spettivamente piano della forma e piano del contenuto. La relazione fra questi due piani non si dà mai al livello della realtà fisica totale, bensì a quello di alcune delle rispettive qualità, ottenute per astrazione. Così per esem pio la sostituzione tra l'emissione fonica « questo mar tello » e un determinato oggetto fisico che tale emissione .sostituisce o rappresenta in una data circostanza, mette in relazione: da una parte, determinati caratteri o qualità considerati pertinenti, dell'oggetto fisico (selezionati ri spetto ad altre componenti non pertinenti, come la sua composizione molecolare, il colore, il peso, etc.); dall'altra parte, determinati caratteri pertinenti della emissione fo. nica (selezionati rispetto ad altri caratteri non pertinenti come il timbro di voce della persona che emette la se quenza sonora, etc.). *
SEMIOLOGIA
(« Sémiologie ») (Saussure). Si può, dun
que, concepire una scienza che studia la vita dei segni 19
nel quadro della vita sociale; essa potrebbe formare una parte della psicologia sociale, e di conseguenza della psi cologia generale; noi la chiameremo "semiologia" ( dal greco CTT)µEi:ov, "segno") (... ). Poiché essa non esiste an cora, non possiamo dire che cosa sarà; essa ha tuttavia diritto ad esistere e il suo posto è determinato in partenza. La linguistica è solo una parte di questa scienza generale, le leggi scoperte dalla semiologia saranno applicabili alla linguistica (CLG, 26). Però, il segno sfugge sempre, in qualche misura, alla volontà individuale o sociale, questo è il suo carattere essenziale (CLG, 27). :e difficile valutare l'incidenza, in Saussure, di questa dipen denza linguistica ➔ semiologia ➔ psicologia sociale. In ogni caso, sembra indubbio che il pensiero dell'autore non si collocava nella tradizione scientifica della psicologia europea del XIX sec. È stato suggerito che, su questo punto, Saussure possa essere stato in fluenzato dalla concezione di Durkheim sull'autonomia del livello sociologico (rispetto ai livelli psicologico e storico). Se tale inter pretazione fosse provata, bisognerebbe aggiungere che, oltre a questa, Saussure sembra suggerire una sorta di « seconda rottura epistemologica », all'interno stesso del livello sociologico, rottura che stabilirebbe l'autonomia dei sistemi semiologici (in quanto istituzioni sociali) rispetto al resto delle istituzioni sociali. Il ca rattere distintivo di questa distinzione sarebbe costituito dalla arbitrarietà del * SEGNO (cfr.).
* SEMIOSICO/A(« semiosic ») (Morris). Che si riferisce ai processi segnici. (Analogamente a psichico/a, cfr. * SEMIO TICO/A).
*
SEMIOTICA ( « semeiotics », « semiotics », « « semiotica »: inglese) (Locke, Peirce, Morris).
semiotic », La scienza
dei segni.
* SEMIOTICO/A(« semiotics », « sémiotique »). Che si rife risce alla scienza dei segni. (Analogamente a psicolo gico/ a).
* 20 *
SIGNIFICANTE((( SIGNIFICATO(«
signifiant ») (Saussure). Cfr. * SEGNO.
signifié ») (Saussure). Cfr. * SEGNO.
* SIGNIFICATUM (Morris). [Il complesso] di condizioni a etti una qualche cosa deve soddisfare per essere * DENO TATUM di un * SEGNO. (WGTS, 366). Il « significatum » può essere formulato o non for mulato. La formulazione comportamentistica di un « significatum » consisterebbe nell'esplicitarne gli elementi: stimoli, sequenze di risposta e risposta finalizzata, della famiglia di abitudini asso ciata con il segno.
* SIMBOLO ( « symbol ») (Morris). Un segno che è pro dotto dal stw [stesso] interprete e che agisce come un sostituto di un certo altro segno di cui è sinonimo. (WGTS, 367). L'idea morrisiana del simbolo non deriva da quella di Peirce, bensì da quella di G.H. Mead. Mead contrapponeva, ad altri tipi di comunicazione, la comunicazione simbolica significativa - ge nerata partendo dall'atto sociale del comunicare; essenzialmente per il fatto che questa comunicazione tende a produrre, sia nel l'emittente che nel ricettore del segno lo stesso effetto (grazie al quale si produce quella intercambiabilità dei ruoli che è caratte ristica dei fenomeni culturali e che è alla base della possibilità del pensiero, come funzione della organizzazione sociale, etc.). In certo qual modo, questa concezione di Mead è una riduzione, al linguaggio osservazionale della psicologia comportamentistica, di quell'elemento (inosservabile) di intenzionalità, che tradizional mente si considerava come distintivo della comunicazione simbo lica umana. Morris denomina « simbolo » la stessa cosa che Mead (con una certa ridondanza) chiamava « simbolo significativo"• aggiungendo dal canto proprio la specificazione: « agisce come sostituto di un altro segno». La funzione di questa seconda condi zione nella teoria morrisiana non è molto chiara (di fatto, si potrebbe sopprimerla senza che la struttura complessiva della sua teoria dei segni ne risenta); sembra verosimile che Morris · l'abbia aggiunta con l'intento di lasciare aperta una via che gli permettesse di sussumere altre accezioni del tennine « simbolo» (psicologiche, come quella della psicoanalisi; o letterarie, come quella del New Criticism) nell'ambito della propria stessa teoria semiotica.
* SIMBOLO ( « Symbol ») (Peirce). Un veicolo di * SEGNO, che è relazionato con il proprio oggetto unicamente per mezzo della relazione triadica da cui il segno è costituito. 21
Questa relazione si stabilisce per mezzo dell'interpretante, e consiste in una legge, o regolarità, che genera un'abitu dine o associazione. È necessario distinguere tra il sim bolo propriamente detto (il cui modo di essere è gene rale), e le particolari occorrenze di tale simbolo: tra * TIPO e * REPLICA. Esempi: Qualsiasi parola ordinaria, come " uccello ", " matrimonio ", è un esempio di simbolo. È applicabile a qualsiasi cosa che possa essere concepita come rea lizzazione dell'idea connessa con la parola; però, da solo, il simbolo non identifica queste stesse cose. Non ci mostra un uccello, né materializza dinanzi ai nostri occhi una cerimonia matrimoniale; però presuppone la nostra capa cità di immaginare queste cose, e di aver associato la parola con esse (CP, 2.298). Il modo di essere del simbolo ( come legge, o abi tudine) consiste nel fatto reale che, se si danno deter minate condizioni, si esperimenterà una qualche cosa. (CP, 4.447). Il simbolo, dunque, concerne la futura azione condizionale dell'interpretante. Di qui il * CRITERIO PRAG1'.-iATISTICO DI SIGNIFICATO (Cfr.). * SIMBOLO (« Symbol ») (Ogden e Richards). Il seguente diagramma mostra come funziona, in termini psicologici, il meccanismo del simbolismo:
Pensiero o Referenza C'Thoughl" o •Reference.)
Simbolo c•symbol")
22
(relazione attribuito) ( sia al posto di) Rappresento
VERO
Referente ('Refe�nn
I simboli si caratterizzano per la loro funzione psico logica e/o culturale. I simboli dirigono e organizzano, registrano e comunicano l'esperienza (MM, 27); rendono possibile (forse come condizione necessaria) il pensiero (MM, 31); intervengono, organizzandolo, nell'atto stesso della percezione (MM, 93-103), etc. La relazione diretta (di tipo attributivo) fra simbolo e referente non corrisponde a nessuna relazione naturale; la sua stabilità riposa unicamente su di una base di na tura funzionale ( teleologica). Tuttavia, la sua origine può spiegarsi per mezzo dei meccanismi (psicologici) di cau salità naturale, che stabiliscono la doppia relazione fra il simbolo ed il pensiero, e fra il pensiero ed il re ferente. La concezione di Ogden e Richards, che ha esercitato una vasta influenza per molto tempo, costituisce un notevole sforzo per stabilire le basi di una conoscenza scientifica dei segni, fon data sull'osservazione empirica. Tuttavia, benché citino come orien tamenti plausibili (quantunque scarsamente sviluppati) quelli di Pavlov e dei primi psicologi comportamentisti, Ogden e Richards continuano a basarsi sul dualismo eventi mentali- eventi sensibili, che sottende la psicologia dell'associazionismo propria della tra dizione dell'empirismo filosofico. Ciò li conduce a certe incon gruenze (tipiche di un atteggiamento mentalistico) come quando affermano: « Fra il simbolo e il referente non esiste nessuna rela zione adeguata al di fuori di quella indiretta che consiste nel fatto che qualcuno lo usi (il simbolo) per rappresentare il referente» (MM, 29; la sottolineatura è mia); ponendo così, in ultima istanza, la chiave della relazione di significazione nella « intenzione », ovvero all'interno della mente del parlante; e ciò a dispetto del fatto che, reiteratamente, nella loro opera essi asseriscono che le difficoltà con cui tradizionalmente si sono scontrati i filosofi, i linguisti etc. nel trattare del significato, debbono essere spiegate proprio col fatto che quasi sempre essi partono da analisi intro spettive, e non valutano la necessità di una verifica empirica delle proprie affermazioni.
*
Syntagme ») (Saussure). (Cfr. * RELAZIONE Le relazioni fra gli elementi di una lingua, che si basano sul carattere lineare di questa, prendono il nome di relazioni sintagmatiche. Nell'ordine sintagma tico, un termine acquisisce il suo valore solo perché è 23 SINTAGMA («
ASSOCIATIVA).
opposto a quello che lo precede, a quello che segue, ovvero ad entrambi (CGL, 148). Esempi: « ri-leggere»; « contro tutti»; « la vita umana»; « Dio è buono»; « se farà buon tempo, parti remo», etc., sono sintagmi. Le relazioni sintagmatiche appartengono al piano della langue, non a quello della parole. * SPAZIO SEMANTICO
(« semantic space») (Osgood). Cfr.
*DIFFERENZIALE SEMANTICO.
* STRUTTURA PROFONDA ( « deep structure») (Chomsky ). (Cfr. * STRUTTURA SUPERFICIALE). La struttura profonda di una sequenza linguistica contiene informazione pertinente per la sua interpretazione semantica 1• Il componente sintattico [cfr. * GRAMMATICA], consiste di regole che ge nerano le strutture profonde, combinate con regole che applicano le strutture profonde alle corrispondenti strut ture superficiali. Chiameremo questi due sistemi, rispet tivamente, il componente di base, e il componente tra sformazionale della grammatica ( ... ). La struttura gene rale di una grammatica sarà pertanto quella descritta dal seguente diagramma: B ➔
Struttura S j profonda T "\
Rappresentazione semantica
Strutt. sup.
➔
Rappresent. fonetica
(FNL, 420).
24
1 Si noti che, mentre « la struttura superficiale di una sequenza linguistica è quella che contiene tutta la informazione pertinente per la sua interpretazione fonetica», viceversa, per quanto riguarda la struttura profonda Chomsky scrive (FNL) che, non essendo ancora sufficientemente noto il funzionamento semantico del linguaggio, non possiamo sapere con certezza se le deep structures contengano per intero, o solo per una parte, l'informazione pertinente per l'interpreta zione semantica. Di qui l'ambiguità della traduzione italiana adot tata. (N.d.T.).
Fra le regole di applicazione delle strutture profonde, quelle del tipo S(➔) permettono di ottenere la rappre sentazione semantica, mentre quelle del tipo T(➔) per mettono di ottenere le strutture superficiali; le regole F(➔) di applicazione delle strutture superficiali permet tono di ottenere la rappresentazione fonetica. Quanto alle regole di base B(➔), che permettono di ottenere la strut tura profonda, esse si raggruppano in due sottosistemi: lessicale e categoriale. Le regole del sub-componente categoriale sono * RE GOLE DI DERIVAZIONE; le regole del sub-componente lessi cale, così come le regole del tipo T(➔) e quelle del tipo F(➔) sono * REGOLE DI TRASFORMAZIONE. Delle regole del ti po S(➔) si può dire(per quanto il loro studio non sia allo stato molto sviluppato) che molto probabilmente sono anch'esse regole di trasformazione. * STRUTTURA SUPERFICIALE (« surface structure»)(Chom sky). La struttura superficiale di una sequenza linguistica è quella che contiene tutta l'informazione pertinente per la sua interpretazione fonetica.(Cfr. * STRUTTURA PROFON DA e * GRAMMATICA), mediante l'applicazione delle corri spondenti regole fonologiche, o del tipo F.(Cfr. * REGOLE DI TRASFORMAZIONE). La struttura superficiale può coinci dere con la struttura profonda; tuttavia per la maggior parte delle sequenze linguistiche le due strutture diffe riscono. In questo caso, si può generare la struttura super ficiale proiettando (« mapping out») la corrispondente struttura profonda, mediante un adeguato complesso di regole di trasformazione. * TIPO(«Type »)(Peirce). * SIMBOLO propriamente detto (cfr.). Esempio: la parola «uccello». Si contrappone a * REPLICA(cfr.). * VEICOLO SEGNICO («Sign-vehicle»)(Peirce). Entità che, nel * SEGNO(cfr.), sta in relazione con l'oggetto e con l'in terpretante. Può essere una qualità(generale), un evento 25
o oggetto (particolare), o una relazione, legge o regola rità (generale).
* VEICOLO SEGNICO (Morris). Un evento o oggetto parti colare, per esempio un suono o una marca che funziona come segno. (WGTS, 367). BIB L IOGR A F I A BUYSSENS, E. (CAL): La communicatio11 et l'artic11latio11 li11guistiq11e. Paris, P.U.F., 1967. CH0MSKY, N. A. (SS): Syntactic Structures. L'Aja. Mouton, 1967. (Traci. ital.: « Le strutture della sintassi». Bari, Laterza, 1970. Si cita dalla traduzione italiana). (ATS): Aspects of the Theory of Syntax. Cambridge, Mass. The MIT Press, 1965. (Trad. ital. nei « Saggi linguistici», voi. II. Torino, Boringhieri, 1970). (CL): Cartesian Linguistics. New York. Harper & Row, 1966. (Traci. ital. in « Saggi linguistici», voi. III, « Filosofia del linguaggio», a cura di A. De Palma. Torino. Boringhieri, 1969). (FNL): The forma[ nature of language. (In E. Lenneberg, « Biolo gica\ Foundations of Language », New York. Wiley & Sons, 1967, pp. 397-492). (Trad. ital. in E. Lenneberg, « Fondamenti biologici del linguaggio». Torino, Boringhieri, 1971). Huu, C. C. A Behavior System. Yale Univ. Press, 1956. MoRRis, C. W. (WGTS): Writi11gs on tlte generai Theory of Signs. L'Aja. Mouton, 1971. MouNIN, G. (CL): Clefs pour la linguistique. Paris, Seghers, 1968. (Trad. ital.: « Guida alla linguistica•• Milano. Feltrinelli, 1971. Si cita dalla traduzione italiana). OGDEN e RICHARDS, (MM): The Meaning of Meaning. Londra. Routledge & Kegan Paul, 19.23-1946 (8• ediz.). (Trad. ital. « II significato del significato ». Milano. II Saggiatore, 1966. Si cita dalla traduzione italiana). Oscooo, C. E.; Sucr, G. J.; TANNENBAUM, P. H. The Measurement of Mea11i11g. Urbana, Ili. Univ. of Illinois Press, 1957. - (BAPLCP): A Behavioristic Analysis of Perception and Language as Cognitive Pltenomena. (In W. Buckley (ed.), « Modem Systems Research for the Behavioral Scientist». Chicago, Aldine, 1968). PEIRCE, C. S. (CP): The Collected Papers of Charles Sanders Peirce. (Vols. I-VI, ed. by C. Hartshorne and P. Weiss, vols. VII-VIII, ed. by A. Burks). Cambridge, Mass. Harvard VP. 1931-'35, 1958. SAUSSURE, F. de (CLG): Cours de linguistique générale. (A cura di C. Bally e A. Séchehaye). Parigi, 1916. (Trad. ital. « Corso di linguistica generale ». Bari. Laterza, 1967. Si cita dalla traduzione italiana). SKINNER, B. F. (VB): Verbal Behavior. New York. Appleton-Century Crofts. 1957.
26
(Traduzione dallo spagnolo di M. L. SCALVINI)
Il design: processo e fruizione ORIOL BOHfGAS
1. Processo e artefatto Il design può essere definito soltanto come un carat teristico processo di creazione di forme, in una succes sione di fasi chiaramente stabilite e differenziate. A distinguerlo da qualsiasi altro campo creativo è proprio questa catena processuale nella quale praticamente nes suna fase emerge come «causa» diretta né tampoco come determinante il prodotto in modo particolare. Promo zione, elaborazione di dati e ipotesi formali, progetto, produzione e uso non appaiono con queste medesime caratteristiche nella musica, nella pittura, nell'artigia nato, nella letteratura, nella pianificazione territoriale e nemmeno nelle forme storiche di quegli elementi che oggi vengono disegnati. Il risultato finale è un determinato prodotto la cui forma è stata condizionata da tutte le specifiche circo stanze del processo. A questo prodotto diamo il nome di «artefatto» utilizzando una terminologia abituale, per esempio, in S. A. Gregory, che non va confusa con l'uso di questo stesso termine in altre discipline, come la ricer ca biologica. «Artefatto» è, cioè, un prodotto del lavoro umano, il risultato materiale della progettazione, tutto ciò che è stato progettato e fabbricato. È il risultato ma teriale di questo processo di design. Ma una volta che l'artefatto ha acquisito una sua propria vita, costituisce un elemento indipendente al quale occorre applicare giudizi non specificamente rela zionati al processo che lo ha costituito. L'uso, il signifi- 27
cato, i valori estetici e culturali possono essere conside rati indipendentemente dalla sua biografia e in accordo, invece con la sua reale e attiva presenza nella nostra attualità. Così, possiamo classificare due fenomeni indi pendenti che ammettono analisi e valutazioni autonome: il processo del design di un artefatto e l'artefatto in sé. Questa distinzione è stata stabilita più chiaramente in altre discipline. Althusser, per esempio, nel commen tare« Il Capitale» distingue nettamente il mode d'exposi tion e il mode d'investigation. Il secondo di questi« modi » è rappresentato dai lunghi episodi della indagine che Marx condusse per tanti anni. Ma le vie e i documenti di questa ricerca scompaiono di fronte alla sostanzialità del risul tato, che in questo caso è la definizione delle caratteri stiche della produzione capitalistica. Il tema fondamen tale de « Il Capitale» non è l'esposizione della logica di un processo di scoperta, bensì la esposizione sistematica, l'ordinamento apodittico dei concetti nella forma stessa di quel tipo di discorso dimostrativo che è « l'analisi» di cui Marx parla. Popper, per un altro verso, afferma testualmente ne « La logica della ricerca scientifica»: il problema rela tivo al modo in cui ad una persona viene in mente una idea nuova - sia un tema musicale, un conflitto dram matico o una teoria scientifica - può essere di grande interesse per la psicologia empirica, ma è di scarsa im portanza per l'analisi logica della conoscenza scientifica. Si tratta, cioè, di distinguere nettamente, entro il processo di concezione di una nuova idea, i metodi e i risultati del suo esame logico. Benché queste due citazioni si riferiscano a processi di ricerca e di invenzione, il criterio si può trasporre inte gralmente al design, senza timore di cadere in considera zioni metaforiche. Soprattutto perché questi processi hanno la medesima struttura delle fasi centrali del pro cesso di design nelle quali si definiscono le ipotesi formali. Così la validità. attuale di un artefatto va determinata in 28 conseguenza della sua analisi e della sua conoscenza, indi-
pendentemente dalle sue vicissitudini biografiche, dalle intenzioni e perfino dai condizionamenti di qualunque or dine che intervennero nel processo di design. Allo stesso modo in cui la logica di un processo di invenzione o di ricerca è indipendente dalla validità della teoria che ge nera, - che viene verificata subito con mezzi deduttivi e con confronti empirici - la validità di un artefatto non si comprova in base al suo processo di design, bensì in base a quel che l'artefatto è, ed alle sue relazioni con il suo attuale intorno. Abbiamo, dunque, due analisi indipendenti: quella del processo e quella dell'artefatto. Nell'analisi del proces so intervengono in modo fondamentale i problemi della struttura sociale che agevola e perfino provoca il processo; della ideologia individuale o collettiva introdotta nelle decisioni formali o nella elaborazione e gerarchizzazione dei dati; dei metodi operativi in ogni sua fase; dei mezzi di produzione che sono intervenuti e che hanno definito il processo tanto per l'aspetto sociale che per quello tec nico; dell'uso cui l'artefatto era destinato e del concetto che di questo uso avranno coloro che interverranno suc cessivamente nel processo. Tutti questi temi sottendono, evidentemente, una serie di considerazioni filologiche che pongono in relazione tutto il processo al contesto sociale che lo ha sostenuto.. Invece, nell'analisi dell'artefatto, le considerazioni storico-filologiche praticamente scompaiono. L'oggetto sta lì, senza altra storia che la memoria e le cariche psicolo giche dello spettatore o dell'utente. Sta come un oggetto presente, che solo si giustifica per quel che è oggi e per ciò cui oggi serve. È un elemento da considerare solo se condo la nostra percezione e nell'attuale contesto. Di fronte ad una unità architettonica come la chiesa di Santa Maria del Mar, per esempio, possiamo scegliere due atteggiamenti, due modi di conoscere ed afferrare la sua complessissima presenza. Il primo consiste nel con siderare il processo attraverso il quale quell'edificio fu concepito e costruito; motivazioni sociali della sua isti- 29
tuzione; ideologia e struttura professionale delle persone e dei gruppi che intervennero nelle decisioni formali; me todi di costruzione adottati e loro adeguamento ai metodi progettuali; uso al quale la chiesa era destinata e sua rispondenza a determinate forme di vita, ad una deter minata struttura economica e sociale; etc. Queste consi derazioni servono per il giudizio valutativo di un fatto storico o per dedurre determinate correlazioni fra archi tettura e società, architettura e metodo costn1ttivo, etc. che possono essere considerate ad integrazione di una struttura valida per altre situazioni storiche e applica bile, pertanto, agli attuali problemi del processo del de sign. Ma, che il metodo sia storico o strutturale, l'analisi si riferisce alla biografia della chiesa di Santa Maria del Mar e non a quel che in realtà oggi è e significa. Il secondo modo di conoscere ed afferrare questa presenza è considerare quel che l'edificio è attualmente: un oggetto architettonico di determinate caratteristiche formali; un generatore di relazioni psicologiche e di nuove funzioni, sviluppate su un piano che ha molto poco a che vedere con i fondamenti psicologici e funzionali che deter minarono la sua costru:z:ione: un ricettacolo di usi im previsti; un fatto costruttivo oggettivabile, indipendente mente dalle sue giustificazioni storiche; uno stimolo ·per determinati comportamenti; una esperienza estetica con dizionata dalla sensibilità di oggi; etc. Queste conside razioni ci porteranno a conoscere la chiesa di Santa Maria del Mar non come il risultato di un processo, bensì come un oggetto che si percepisce nella società e nella cultura di oggi. Se estendiamo questi criteri ad altri campi creativi come la pittura o la letteratura, essi appaiono ancora più evidenti. Noi siamo sicuri che i dipinti murali di Taull non potrebbero essere prodotti nella nostra situazione cul turale e sociale nella quale è impossibile ritrovare le cir costanze che li motivarono. Ma, in cambio, li percepiamo come oggetti nuovamente validi per la nostra sensibilità. 30 Il fatto che un qualsiasi pittore che oggi imiti pedissequa-
mente Velasquez o Mondrian non può essere altro che un simulatore incolto, non ha nulla a che vedere con la nostra ammirazione per « Las Meninas » o per la serie « Boogie-Woogie », né con la nostra capacità di fruizione di queste opere. Il processo d'invenzione e di produzione è possibile solo se è adeguato alla sua situazione sto rica e al suo contesto originale, mentre la percezione e l'uso dell'oggetto prodotto sono indipendenti da questo processo. 2.
Conoscenza e frnizione
Si disegna un oggetto perché l'uomo lo comprenda, lo usi e, infine, ne fruisca, nel senso più ampio della pa rola. La conoscenza di un oggetto può essere volta a diverse finalità secondo il punto di vista dal quale si compie questo sforzo di conoscenza. Queste finalità pos sono essere correlate alla interpretazione di una dinamica sociale, di un progresso tecnologico, di una formalizza zione visuale, di determinati condizionamenti economici. Ma è evidente che dal punto di vista dell'uomo che si accinge semplicemente ad utilizzare quell'oggetto, indi pendentemente da altre considerazioni non immediata mente attribuibili, la conoscenza non può essere più che un mezzo per ottenere il suo pieno uso e, in ultima ana lisi, la completa fruizione di tutte le possibilità che in esso si scoprono. Se conosciamo in modo insufficiente il rasoio Braun Synchron e non sappiamo che premendo un determinato pulsante le testine si dispongono in modo da rifilare i baffi e le basette, faremo un uso ridotto di questo stru mento. Non lo useremo in tutte le sue possibilità. Alla persona che si sta radendo importa piuttosto poco il processo logico della sua definizione formale nonché il mecca1ùsmo grazie al quale le testine funzionano in modo particolare al comando del pulsante. Quel che importa è sapere tutto ciò che può fare con la macchina e quale sia il suo uso più proficuo. E questo atteggiamento cono- 31
scitivo, come presto vedremo, non solo è importante per l'utente, bensì anche per il designer, giacché è un modo, di intendere l'oggetto, che condiziona i criteri logici del processo di design. 1:. ovvio che l'uso di un oggetto non si riduce a fat tori di funzionalità meccanica come il pulsante del rasoio Braun. In esso intervengono altre sollecitazioni, dalle quali derivano condizioni strettamente psicologiche, fino alle esigenze di carattere estetico. Inoltre, la soddisfazione della maggior parte di queste sollecitazioni non si limita ad un meccanismo razionale asettico, mediante il quale l'esperienza si conclude nel momento in cui si è soddi sfatta una necessità. Al contrario, la ricerca e la scoperta delle possibilità d'uso dell'artefatto costituiscono altre, nuove forme d'uso. Questo modo di comprendere l'oggetto è, in realtà, la fruizione totale di esso. A questo proposito, dobbiamo riferirci ad una nota asserzione di Susan Sontag: Quel che ora importa è recu perare i nostri sensi. Dobbiamo imparare a vedere di più, a udire di più, a sentire di più... In luogo di un'ermeneu tica, abbiamo bisogno di un sensismo dell'arte. ( «Contro la interpretazione»). E in una recente intervista Roland Barthes manifestava un atteggiamento analogo, espresso in termini praticamente letterali. Parallelamente, bisogna stabilire un modo di conoscere e analizzare i prodotti del design, che sia diretto a scoprire quelle caratteristiche, quegli elementi e relazioni che rendono questi prodotti «sperimentabili»; ma che, inoltre, porti nello stesso processo di analisi nuove esperienze e un incentivo di sensibilizzazione nei confronti dell'artefatto. Vale a dire, che non sia un processo di interpretazione, bensì un processo di accentuazione degli aspetti sensibili del mo mento fruitivo. Questa analisi deve basarsi, pertanto, sulla percezione dell'artefatto, cioè sul come vedere e come comprendere un determinato prodotto per renderlo mas simamente «fruibile». Prescindendo dalle considerazioni teoriche che pos32 sono sostenere questo criterio, desidero sottolinearne la
necessità da un punto di vista pratico. In questi ultimi tempi abbondano gli studi teorici sul design, sia sotto forma di trattati apparentemente sistematici, come di agili conversazioni e simposi più o meno turistici e divulgativi. I tentativi di ricerca ci sembrano fondamentali, soprat tutto in un momento come quello presente nel quale tutti abbiamo coscienza che il design deve rifondare tutto il suo campo di attuazione di fronte ai mutamenti tecnici e sociali che stanno trasformando il nostro mondo. Ma molto spesso questa ricerca si rifugia in campi eccessiva mente astratti che finiscono per svincolarsi completa mente dai reali e scottanti problemi di chi deve progettare e di chi deve usare e fruire un prodotto di design. Non è esagerato affermare che si è già prodotta una pro fonda frattura fra gli abituali partecipanti ai Congressi e coloro che continuano a progettare nei loro studi pro fessionali. Di questo passo, molto presto vedremo apparire una nuova specializzazione universitaria, le cui cono scenze e argomentazioni si applicheranno esclusivamente alla manipolazione di astratti concetti sul design. D'altra parte, gli operatori professionali continueranno ad af frontare i loro concreti problemi senza alcun rapporto comunicativo con quelle ricerche teoriche: alcuni, quindi, con un certo escapismo reazionario e altri in termini di mera pratica, senza alcuna base di ricerca. Nel campo degli studi metodologici questo problema è già emerso chiaramente: da un lato, la maggior parte delle proposte ha trovato scarsa applicazione e, dall'altro, i problemi imposti dalla realtà dei processi progettuali non sono stati affrontati. Ma nel campo delle analisi formali esso appare ancor più evidente. La semiologia in pratica non ha for nito alcuno strumento efficace al designer, né ha costi tuito un metodo per l'uso e la fruizione di un artefatto. La ragione di questa inefficienza deriva dal disconosci mento di ciò che realmente è un artefatto e dall'intento di applicare ad esso alcuni sistemi precostituiti, e spesso mutuati da altre discipline, principalmente dalla lingui stica. La scoperta della struttura di un oggetto può ve- 33
nire solo da ciò che l'oggetto stesso suggerisce, cioè da una serie di descrizioni empiriche. Solo cosl possiamo riu nire in un medesimo campo di ricerca la teoria e la pratica professionale. Partendo, dunque, da tre considerazioni, abbiamo sta bilito che l'analisi dell'artefatto deve tendere a renderlo sperimentabile; che non deve essere interpretativa, bensì sensoriale; che deve basarsi su descrizioni empiriche. Rias sumendo, il modello dell'analisi deve essere contrassegna to dai temi che lo stesso artefatto impone nel processo della sua percezione.
3. Percezione Non ci addentriamo nel complesso campo della per cezione perché non è il nostro campo specifico e perché desidero intenzionalmente limitare queste note al punto di vista concreto e pratico dei problemi del design. Così, per noialtri, un processo di percezione incomincia col pre stare attenzione a un artefatto; vale a dire, guardandolo nel modo più diretto e immediato e memorizzandolo. La memoria è, senza dubbio, indice di una prima compren sione. Si deve riconoscere che, come afferma R. Arnheim, la semplice presa di contatto con i capolavori non può bastare. Troppe persone visitano i musei e raccolgono libri d'arte senza con ciò ottenere un accesso all'arte. :E. evidente che nella nostra cultura stiamo perdendo il dono di comprendere le cose valendoci di ciò che i sensi ci dicono di loro. Ma si deve accettare questo fatto e sosti tuire completamente ai sensi le esplicazioni interpreta tive, o possiamo guidare i sensi ad una rivitalizzazione? Questi interrogativi trovano, per lo meno, una chiara ri sposta in campo pedagogico. Educare la memoria visiva, per esempio, è una buona via per intendere direttamente un oggetto. Nell'insegnamento del disegno, gli esercizi di memoria visiva possono essere d'una enorme efficacia. 34 Un secondo passo possono essere le descrizioni empiri-
che riferite sempre al processo di percezione. Stabilire elementi e relazioni di un artefatto dal punto di vista di chi percepisce, anche senza giungere a formulare una struttura, può fornire un catalogo esaustivo sul quaie fondare un'ulteriore conoscenza più completa. Alcune delle analisi semiologiche possono essere uti lizzate come descrizioni empiriche se si eliminano i ri ferimenti a un sistema sovrapposto, soprattutto, al si stema linguistico. Presumiamo che questa riconsiderazio ne contribuirà a dimostrare che il modello linguistico può perfino ostacolare la visione diretta dell'artefatto e che il miglior apporto delle analisi di Bonta o di Brandi, per esempio, si riscontra nelle osservazioni e nelle descrizioni empiriche dalle quali è assente ogni intento di formulare un sistema. Parallelamente possiamo dimo strare che molte descrizioni formulate prima della intro duzione della semiologia, potranno trasformarsi nei suoi metodi di lettura, senza, con ciò, introdurre alcuna mag giore comprensione né tampoco scoprire strutture più adeguate alla realtà dell'artefatto. Questo si potrà consta tare in alcune descrizioni ormai classiche di Argan, di Wittkower e perfino nell'analisi degli « itinerari » di ·' Vieira de Almeida. Ma, come affermarono già i gestaltisti, la visione non è una registrazione meccanica di elementi, bensì la ricezione di patterns significativi. Il terzo passo è, per tanto, la conoscenza della realtà totale dell'artefatto, la constatazione di alcune relazioni strutturate. Questa co noscenza è stata sempre basata su processi di analogia, che, quantunque abbiano fornito punti di vista interes santi, si dimostrano assolutamente insufficienti. Una via è stata il riferimento a modelli stilistici stabiliti accade micamente e un'altra la utilizzazione di modelli che pro vengono da altre discipline o l'intento di adeguarsi a si stemi precostituiti. La descrizione e la conoscenza dell'architettura con riferimento a modelli stilistici sono state la base di una determinata formazione accademica. Un edificio era buo- 35
no o cattivo a seconda che si adattasse con maggiore o minore esattezza ad uno stile già perfettamente catalo gato. Nelle Scuole di Architettura si richiedeva all'allievo di progettare un certo edificio nel tale stile, in modo che il metodo di design costituiva una pretesa conoscenza della storià, sottomessa ai pregiudizi accademici dello stile, ad alcuni lessici formali previsti da un rigido dogma tismo. Gli aspetti negativi di tale atteggiamento appaiono ovvii, soprattutto adesso, dopo la lotta polemica che il Movimento Moderno ha scatenato contro gli stili. In tutti i casi, in esso si devono considerare due fattori forse ancora validi. Il primo è il vantaggio metodologico che comporta la normativa stilistica, la quale favorisce una linea di esperienze basate su ripetizioni tipologiche. Pos siamo confrontare, per esempio, due modi di operare praticamente contemporanei, come quelli dell'Art Nou veau e della Sezessiori i quali, fra le altre cose, si diffe renziano per la maggiore normalizzazione stilistica di quest'ultima scuola. Sicuramente la tipizzazione di ele menti che la Sezession comportò fu una delle cause della sua straordinaria divulgazione e, alla lunga, della sua maggiore influenza culturale, nel senso che promosse al cuni sbocchi verso il Movimento Moderno. Il secondo concerne ciò che potremmo definire la sensibilizzazione nei confronti della forma. Quando un architetto, un cri tico o un semplice utente fedele alla tradizione stilistica comprende profondamente l'ordine dorico come una strut tura basata sugli undici moduli della colonna, ha acqui sito l'abitudine· di rispondere a qualsiasi cambiamento di proporzioni e si sente particolarmente sensibile a questo settore della sua capacità percettiva. In fondo, l'educa zione stilistica ha questo aspetto positivo: la sua relativa equivalenza ad una descrizione_ empirica non solo di ele menti isolati, bensì delle loro relazioni. Ma di fronte a questi fattori ancora in parte validi, il riferimento a modelli stilistici ha evidenti aspetti ne gativi, tutti quelli derivanti dall'apriorismo che esso com36 porta. Di fronte a questo apriorismo paralizzante, la stes-
sa educazione accademica reagì con un metodo di enorme efficacia: la nota formula del « rilievo dei monumenti». La tendenza e perfino la moda di andare a esperire ( ve dere, palpare, misurare, mettere in relazione) diretta mente un monumento classico ha dato nella storia alcuni risultati rivoluzionari immediati. L'architetto che aveva una aprioristica formazione stilistica si trovava di fron te al Partenone, alle Terme di Caracalla, al Pantheon, o, passando ad altri periodi e ad altri metodi, al Teatro Olimpico di Vicenza o alle facciate albertiane e consta tava che i suoi modelli accademici non coincidevano con la realtà che esperiva, dalla quale, invece, poteva dedurre altre strutture più in armonia con quel che era l'edificio che con ciò che l'edificio doveva essere. Oggi possiamo riabilitare l'antico metodo di « rile vare i monumenti», soprattutto se abbiamo eliminato l'alienazione accademica basata esclusivamente sulla nor mativa stilistica e siamo capaci di aggiungere considera zioni fisiche molto più ampie, superando la limitazione planimetrica e spaziale. Si deve riconoscere che questa limitazione si è dimostrata difficile da superare nelle de scrizioni e nei « rilievi » di origine più o meno semiolo0 gica. Per esempio, le analisi sintattiche di Eisenman della Casa del Fascio tentano di dedurre una struttura profonda, approssimativamente nel senso chomskyano, basandosi esclusivamente sul piano e sullo spazio, ma trascurando altri livelli percettivi come la luce, il ru more, l'odore, il valore delle indicazioni direzionali e, in generale, tutto ciò che implica una determinata modula zione psicologica. Questo non fa altro che dimostrare un fatto che subito discuteremo: la negligenza dei problemi psicologici e della totalità del fenomeno della percezione nell'ambito delle analisi semiologiche. Fin qui abbiamo trattato la conoscenza della realtà strutturale dell'artefatto facendo riferimento a modelli stilistici e abbiamo visto che l'attualizzazione della vec chia formula di « rilevare i monumenti » può superare i suoi apriorismi accademici. Come abbiamo detto, un'altra 37
via battuta è l'utilizzazione di modelli provenienti da al tre discipline o il tentativo di adeguarsi a sistemi preco stituiti. I metodi semiologico-strutturalistici sono il mi glior esempio di questa via. Così come nel parlare dei modelli stilistici, anche qui possiamo rinvenire diversi ri sultati positivi, ma riteniamo che il bilancio complessivo sia decisamente deficitario. Adeguare il disegno ad una struttura di origine linguistica più meno stiracchiata e perfino dissimulata obbliga a grandi forzature della real tà e, conseguentemente, spiega pochissimi fenomeni. Invece, la ricezione delle strutture significative d'un artefatto dovrà basarsi su un'analisi che non pregiudi chi altri modelli estranei né adotti un metodo di classi ficazione precostituito. Lo stesso processo di fruizione del l'artefatto dovrà determinare il metodo della sua descri zione e, in conseguenza, la ricezione della sua struttura. Vale a dire che la conoscenza procede lungo la linea della sua fruizione. Questo suggerisce, in sintesi, che la descri zione va riferita a quei fattori e relazioni che fondano la nostra percezione e fruizione (cioè quelli che ci sensibi lizzano), e che la stessa descrizione accresce la nostra sen sibilità (quel che ci eccita, cioè). Questi due temi meritano alcuni chiarimenti. Nel primo bisogna tener conto di certe caratteristiche della percezione. Senza addentrarci in questo argomento che, d'altra parte, non possiamo affrontare per una evidente mancanza di specializzazione, è necessario qui chiarire che l'artefatto viene percepito in modo condizionato dal le situazioni sociali e culturali di colui che percepisce. Prima abbiamo escluso dalla considerazione dell'artefatto quei fattori storico-filologici che consideravamo propri del suo processo di design, ma non della sua comprensione, uso e fruizione. Ma ora vediamo che questi fattori inter vengono nel campo specifico del percettore, non riferiti alla storia dell'artefatto, bensì alla storia dell'individuo che percepisce. La situazione sociale e culturale del per cettore, la sua memoria, le sue relazioni, tutto il con38 testo che lo involve, la sua stessa ideologia determinano
modi diversi di percepire e comprendere l'artefatto e di definire le sue strutture significative. Così, le strutture rilevate saranno tante quante le diverse confi gurazioni dei gruppi umani che le percepiscono e le usano. E que sta diversificazione spiega la grande varietà di modi di intendere un oggetto disegnato e la impossibilità di sta bilire norme oggettive di valutazione. Cioè un artefatto sarà migliore o peggiore e provocherà reazioni diverse a seconda della persona che lo usa e ne fruisce. Allo stesso modo, l'insieme delle persone che disegnano un artefatto porterà all'una o all'altra definizione formale in funzione non di criteri oggettivi e immutabili bensì dell'intenzione di rivolgersi a un pubblico concreto e di provocare in esso determinate reazioni. Il secondo tema ci introduce alla quarta fase di que sto processo: vedere e memorizzare, descrivere empirica mente, scoprire una struttura significativa e, ancora, sti molare la nostra sensibilità. Come abbiamo detto prima, la ricerca e la scoperta delle possibilità d'uso dell'arte fatto costituiscono altre nuove forme d'uso, ma sono an che uno strumento di sensibilizzazione. Perciò quest'ul timo passo può costituire la base di alcune proposte pe dagogiche, non solo per il possibile utente, bensì princi palmente per lo stesso designer. Crediamo che in alcune scuole siano stati saggiati metodi e strumenti di descri zione volti a sottolineare l'atto dell'esperienza stessa e a porre le basi di una sensibilizzazione, ma quasi mai in modo ordinato e intenzionato. 4. Critica
Dopo· aver stabilito e, nei limiti del possibile, pro mosso la percezione dell'artefatto allo scopo di consegu ire la sua fruizione, possiamo parlare delle altre attività: spiegare scientificamente quali sono i meccanismi che fanno sì che un determinato artefatto permetta determi nate forme di fruizione. Questa attività può essere assi- 39
milata a quella che tradizionalmente viene chiamata cri tica del design. Nel parlare della percezione si è detto che la descri zione dell'artefatto non potrà essere fatta secondo modelli stilistici né mediante modelli che provengono da altre di scipline, perché questi due metodi implicano la precon cezione di un sistema che va al di là della osservazione della realtà dell'artefatto. La descrizione dovrà rivelare, invece, la sua autentica struttura formale. Ora, nel ten tativo di spiegare i meccanismi della fruizione appaiono altresì discutibili questi due stessi metodi: storico e strut turale. Secondo il primo, fruiamo di un oggetto esclusiva mente per il suo adeguarsi ad alcune norme stilistiche e tipologiche: sottomessi, cioè, ad alcuni fattori e relazioni privilegiati dalla storia. Appare evidente che questo atteg giamento, che secondo noi ha efficacia in una determinata fase del processo di design, non vale a spiegare l'uso dell'oggetto, giacché stabilisce un criterio tipicamente conservatore e reazionario. E, inoltre, non include alcuna spiegazione dei processi ovvero la spiegazione che ne dà è eccessivamente rudimentale. Il secondo, invece, tenta di stabilire un sistema che spieghi scientificamente il modo in cui si svolge la lettura dell'artefatto. Ma la semiologia di tipo strutturalista sulla linea Saussure-Barthes non sembra aver fornito sotto questo aspetto risultati posi tivi. La sua provenienza linguistica la induce a mantenere alcune contraddizioni che sembrano insuperabili. Per esempio, il tema dell'articolazione non ha alcun senso reale nel disegno e il concetto di significato e significante si può adottare solo in modo superficialmente metaforico. Sembra, invece, che questi problemi trovino una migliore focalizzazione nella linea morrisiana, secondo la quale il segno è uno stimolo che produce nell'individuo una di sposizione a rispondere. Questa linea, che si pone in re lazione con alcuni presupposti comportamentistici, ap pare più valida perché ci porta al problema reale che qui abbiamo impostato: stabilire un sistema fondato 40 sulle relazioni fra l'artefatto e chi lo percepisce, in base
alla conoscenza delle leggi del processo della percezione ed all'intero contenuto psicologico del percettore. Il si stema che spiega scientificamente i meccanismi che fanno sì che un determinato artefatto permetta alcune forme di fruizione e stimoli determinate condotte deve basarsi, pertanto, sull'intero campo della psicologia del disegno. Per i designers, che progettano e non pretendono af frontare remoti, vecchi e inutili apparati teorici, la cri tica efficace è quella che si appoggia alla esplicazione si stematica delle reazioni dell'utente. Disgraziatamente que sto campo è stato molto meno studiato di quello, per esempio, della semiologia di tipo strutturale o delle meto dologie induttive, la cui applicazione si è dimostrata tanto carente. Di recente, tuttavia, il comportamentismo come anche la psicologia empirica più tradizionale hanno dedi cato molta attenzione a questi problemi e possiamo già impostare uno schema di come dovranno strutturarsi i risultati perché risultino operativi nel campo del design. Il comportamento umano è frutto in gran parte di un processo di apprendimento e solo in minima parte di con dizionamenti fisiologici ineluttabili. Come primo passo bisogna conoscere esattamente i meccanismi di questo settore minore, in base al quale si può stabilire una si cura corrispondenza fra stimoli e comportamenti. Nel1'altro settore, di gran lunga maggiore, le risposte agli stimoli varieranno in relazione al modo in cui è stato diretto l'apprendimento per le condizioni sociali e cul turali dalle quali è stato coinvolto l'individuo. Alcune di esse, ciò nonostante, possono essere considerate sufficien temente costanti attraverso la storia o nella nostra cul tura concreta, tanto da far ritenere che vi sono risposte a determinati stimoli universalmente valide. In questo settore si possono acquisire senz'altro molte esperienze della Gestalt che, benché nel complesso non considerino il contenuto sociale e culturale del processo di appren dimento del percettore, possono essere mantenute nel caso in cui questi contenuti si dimostrino sufficientemente 41 costanti.
Se a questo gruppo aggiungiamo quelle relazioni ac quisite ·socialmente, nel controllo delle quali è evidente che il design non interviene in alcun modo, avremo un campo relativamente ampio di corrispondenze che per la nostra disciplina verranno ad essere le più generali. Solo in base a questa catalogazione (molto più estesa delle limitazioni del comportamentismo, ma molto più ridotta di quanto pretende essere, per esempio, il significato sin tattico di P. Eisenman o alcuni tentativi di trasferire al disegno il concetto di struttura profonda) si potrà formu lare una teoria dei segni nella quale la coerenza lingui stica si oggettivi indipendentemente dalla sociologia. Infine c'è tutta una serie di stimoli e risposte che agi scono condizionati ad una variata e molteplice situazione sociale e culturale dell'individuo. La maggior parte del processo di percezione di un artefatto e la sua fruizione concernono questo settore ed è in esso che abbiamo mag gior bisogno di studi sistematici. Questi studi dovranno tendere a commisurare i dati per conoscere come a tale stimolo corrisponda tale reazione con tali condiziona menti sociali e culturali. Con questa catalogazione di stimoli, reazioni e condizionamenti si potrà allora intro durre una critica ideologica che si basi, pertanto, sullo specifico contenuto di questi condizionamenti sociali e culturali. La possibilità di stabilire una critica ideologica ba sata sulle istituzioni sociali e culturali che condizionano le risposte, invalida un atteggiamento molto diffuso in questi ultimi anni che tenta di assorbire tutto un campo della psicologia del disegno. Ci riferiamo ad alcune pro poste teoriche e pratiche di Venturi, Rapoport ed altri, basate su un indiscriminato rispetto per i desideri del l'utente. Queste proposte sono state enunciate in modo molto efficace nel senso di superare il « dispotismo illu minato» dell'architetto o quello che possiamo chiamare l'« architettocentrismo» di alcuni temi che ci appaiono ora molto più generali. Ma in realtà sono impostate senza 42 tener conto se questi desideri rispondono a condizioni
antropologiche ineluttabili o sufficientemente costanti ov vero se, al contrario, vengono provocate da pressioni ester ne che modificano questi desideri in funzione di una deter minata ideologia. Sostenere un'architettura, per esempio, che favorisca tutte le tecniche del consumismo non è servire i desideri evidenti del consumatore, bensì contri buire a confermare in lui l'ideologia del proprio consu mismo e operare in favore di una determinata situazione sociale ed economica. E. sintomatico, d'altra parte, che l'assenza di una critica ideologica coincida quasi sempre con la sottomissione ad una ideologia assolutamente rea zionaria e con un atteggiamento contrario al design spe rimentale.
5. Metodo Abbiamo visto che un artefatto viene conosciuto, usato e fruito come tale, indipendentemente dal suo processo di design: che questa conoscenza si basa su operazioni percettive; che il sistema capace di spiegare questa fruizione è fondato sulla psicologia e, concreta mente, sulle relazioni fra stimolo e comportamento: e che questo sistema permette di istituire una critica ideo logica dell'artefatto. Riteniamo che tutto ciò si accordi con la realtà del disegno e partendo non da una specula zione teorica, bensì da quei problemi che direttamente ineriscono il progetto e l'uso dell'artefatto. E. possibile che di fronte a questi temi scompaia quella dicotomia di cui abbiamo parlato tra designers impegnati a discutere nei Congressi senza troppo contatto con la realtà e desi gners che si limitano a realizzare con una carente base di ricerca e senza alcun fondamento teorico. Questo aspetto pratico è stato sottolineato nel corso della esposizione. Ma ora possiamo concludere commentando la utilità con creta dell'ultima fase, cioè dell'impiego della critica ideo logica. .1 Una delle finalità della critica è la possibilità di uti lizzare validamente i suoi giudizi nello stesso processo 43
creativo. Giacché il sistema critico stabilito fornisce in feed-back alcuni chiarissimi elementi metodologici. Così, dopo aver analizzato l'artefatto in sé, indipendentemente dal suo processo di creazione, deduciamo alcuni criteri che possono essere applicati a questo processo o per lo meno in alcuni stadi di questo processo. Questo metodo si strutturerà nella forma seguente: 1) Come conseguenza degli studi sul comportamento umano, conoscere le relazioni che legano gli stimoli alle risposte, tanto se queste risposte sono frutto di condizio namenti ineluttabili, quanto se vengono determinate da costanti o variabili situazioni sociali e culturali. Cono scere, pertanto, gli effetti del disegnato sul comportamento umano e tutto il sistema che lo regola. 2) Classificare i desideri e le necessità umane che vengono condizionati dalla situazione sociale e culturale, in ordine al tipo delle motivazioni. 3) Scegliere quelle motivazioni che corrispondono alla ideologia che si vuole applicare al design nel campo ristretto del designer o nella totalità del processo. Cioè prendere partito fra le diverse scelte di base ideologica. 4) Applicare queste conoscenze e queste decisioni alle determinazioni formali per influire con ciò sul com portamento dell'utente. Questo schema dovrà costituire la base di un processo di design ideologico. Ci sono da fare, tuttavia, due osser vazioni. La prima è che non si tratta propriamente di un metodo globale che abbracci tutta la fase di determina• zione della forma, soprattutto perché, · secondo noi, la forma non viene data esclusivamente in base ai dati che derivano da questa analisi. In realtà, pertanto, più che un metodo sarà un modo di proporzionare al meccanismo metodologico alcuni elementi di partenza che finora sono stati scarsamente considerati e che ci sembrano fondamentali se crediamo che si possa ope rare ideologicamente nel design. La seconda è che la presa di posizione di fronte a differenti scelte di 44 base ideologica presenta enormi contraddizioni nel corso
del processo di design. Se la presa di pos1Z1one è coe rente durante tutto il processo che, come si sa, viene fondamentalmente condizionato dalla promozione e dalla produzione, l'ideologia imposta sarà chiaramente quella delle forze decisionali della struttura sociale ed economica. Se è esclusivamente il designer, nel suo limitato campo, a tentare di introdurre determinate decisioni ideologiche in contrasto con quelle che contrassegnano il resto del processo, la loro attuazione dovrà essere mediata da quella di tutte le altre fasi. In tal caso l'introduzione della sua ideologia dovrà essere conseguita mediante una stra tegia nella quale interverranno altri tipi di metodi e di strumenti. Non è questo il momento di insistere su questo tema. Desidero sottolineare che si deve tener presente che l'azione ideologica del designer è sempre un fattore limitatissimo nella totalità del processo. Non possiamo farci illusioni. Ma, nonostante tutto, una funzione fon damentale del designer è di accentuare questa carica ideo logica: ottenere che l'artefatto stimoli specificamente ad essere percepito e fruito sotto determinati aspetti, in modo da incidere su determinati comportamenti. Solo così, benché in campi di ridotta efficacia, il design può contribuire ad una trasformazione del mondo.
(Traduzione dallo spagnolo di G. Fusco)
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Il "silenzio,, dell'architettura contemporanea STEFANO RAY
Il discorso intorno ai problemi dell'architettura sof fre, in linea generale, di una sorta di complicazione ver bale, che, oltre a sfiorare i confini del solipsismo, non contribuisce peraltro di certo ad una corretta valutazione delle questioni. Naturalmente, non si può mancare di rico noscere a molti dei problemi sul tappeto un alto grado di complessità, a fronte del quale sarebbe fuori di luogo il suggerimento di una semplificazione, sic et simpliciter, delle strutture dei modi di comunicazione della critica. Tuttavia, nell'accumulazione vertiginosa dei frammenti metalinguistici, inestricabilmente sovrapposti ed intrec ciati, sembra valga qualche volta la pena di privilegiare l'atteggiamento che (ho avuto occasione di ricordarlo già altrove) Le Corbusier definiva, in Précisions, « une can deur aussi na'ive, qu'indiscrète »; di « prendere le di stanze», insomma, nello sforzo di «centrare» almeno un «momento», ancorché parziale, nella riduzione a signi ficati generali, della totalità dei fenomeni considerati. Le proposizioni che seguono sono state stese per un dibattito svolto in sede universitaria. Pertanto, risultano schematiche ed, in più punti, ovvie; nonché tendenziose, perché a tesi (intese a «dimostrare»). Alla luce delle considerazioni esposte nelle righe che precedono, non mi è parso, comunque, di doverle rettifi care; sibbene di proporle nella loro stesura«immediata». Se riuscissero, in qualche maniera, oltre che elementari, 46 anche, appunto, « indiscrete», un risultato potrebbe,
forse, dirsi raggiunto. Il .tema su cui vertono, d'altronde, s1 raccomanda di per sé, mi sembra, come cruciale. 1. L'esistenza di una contrapposizione tra architet tura del «passato» (o «antica», o «classica») e archi tettura «attuale» (o «moderna», o «contemporanea») è nozione comune. 2. È altresì nozione comune che la «frattura» tra l'una e l'altra risalga al tempo della «rivoluzione indu striale», al periodo tra la fine del 700 e l'inizio dell'800. 3. In realtà, sappiamo che, nel corso della storia, con trapposizioni del genere, tra << antichi» e «moderni», tra « passato » e «presente», si sono già manifestate più vol te in maniera esplicita e largamente dibattuta (lasciando da parte le ovvie contrapposizioni, più o meno sfumate, che hanno accompagnato ogni mutamento stilistico o pro grammatico e ogni «cambio della guardia» fra genera zioni successive, basta ricordare un esempio: la polemica vasariana contro la «cattiva maniera tedesca » ed in fa vore della «buona maniera moderna»). 4. Tuttavia, dal nostro osservatorio, a distanza, nel loro insieme, le contrapposizioni precedenti perdono quasi tutta la propria vis polemica, mentre siamo indotti a ve dere piuttosto ciò che accomuna gli opposti campi, e ci è necessario un certo sforzo per distinguere quanto li divide. 5. Al contrario, quello che caratterizza la contrappo sizione attuale, e la rende unica, è il fatto che tutta l'ar chitettura del passato, dalle lontane origini al confine con la proto-storia fino all'epoca neo-classica, ci appare netta mente come «cosa diversa », formante un «tutt'uno» strutturalmente autre, rispetto a quella contemporanea. Nella biblioteca immaginaria di ognuno di noi esistono due distinti volumi: Storia dell'architettura antica e Storia dell'architettura moderna. 6. Di tale «alterità» dell'architettura contemporanea si è cominciato a prendere coscienza assai presto, grosso modo intorno alla prima metà dell'800. La nozione della 47
« discontinuità» è stata via via approfondita ed esplici tata, fino ad essere condotta alle punte massime dell'an titesi al tempo delle «avanguardie» del primo 900. 7. Da questo momento in poi, schematizzando, si può dire che, di contro, ha inizio una fase di «recupero». In altre parole, si dà luogo al tentativo di individuare un filo capace di ricucire, se non altro per via dialettica, la continuità della storia dell'architettura. 8. Lasciamo qui da parte i connotati specifici dei singoli tentativi condotti nelle due direzioni: scindere il passato dal presente, ritrovare in quello le premesse espli cite ed implicite di questo; osserveremo solo che entrambi gli indirizzi sorgevano da esigenze « Qperative». 9. In un caso come nell'altro, infatti, di fronte ad una realtà straordinariamente complicata e in trasformazione continua e rapidissima, si trattava di offrire agli archi tetti indicazioni convincenti (e quindi, nelle intenzioni, «storicamente» motivate) su cui basarsi per operare, dal momento che, in ogni caso, operare pur occorreva, ed occorre. 10. Naturalmente, sia nell'una che nell'altra dire zione, era proprio l'analisi storica a venire deformata, se è vero che un insieme di fenomeni che cambia in pro gressione geometrica non tollera di essere misurato sulla base di parametri «radicali», e pertanto restrittivi, né per mezzo di strumenti semplicemente«revisionati»; ma esige la lenta «messa a punto» di tecniche di indagine altamente sofisticate. «Tempi lunghi », dunque, che non si accqrdano con i «tempi brevi» dell'operare. 11. Risultato. Oggi le nostre idee su alcuni problemi fondamentali riguardanti l'architettura sono ancora abba stanza confuse. :B vero o no che l'architettura moderna è «diversa», strutturalmente diversa, da quella antica? Se sì, che cosa, in realtà le fa diverse? E se no, in che cosa consiste la loro omogeneità? Quando, esattamente, (e dove) va collocata nel tempo (e nei luoghi) l'eventuale «frattura»? E quali le cause effettive che l'avrebbero 48 determinata? Si vede bene come dalle risposte a questi
interrogativi discendano conclusioni su argomenti deci sivi proprio ai fini dell'operatività: quale sia la «presa» dell'architettura sulla realtà, e, di conseguenza, quale il «campo di applicazione» disciplinare dell'architetto, quali i «valori» di cui l'architettura, ed essa sola, possa farsi portatrice, quali il ruolo ed il compito del critico e dello storico (v. 36 - 44). 12. Se le nostre idee su questi punti - nonostante la gran mole di studi, analisi e proposte esistenti in ma teria, quasi tutti rispettabili e molti anche pregevoli non sono sufficientemente chiare, sembra lecito per un momento dimenticare (o «fare come se» avessimo dimen ticato) quanto è stato detto o sappiamo sull'argomento, per tentare un approccio il più «diretto» possibile al l'architettura. 13. Concentriamo la nostra attenzione su quelli che sono i «dati» che ci colpiscono immediatamente, come intrinsecamente propri in quanto complementari, del fe nomeno «costruire»: l'impatto visivo e la fruizione; o, se si preferisce, l'immagine e la funzione; o, ancora (sotto il profilo dell'esperienza e del comportamento) lo «spetta colo» e la «partecipazione». 14. t:: evidente che dalla separazione di questi due « poli » (o, forse meglio, dallo stabilire tra di essi una gerarchia in base a cui il primo «prevalga» come «im portanza» sul secondo) discende la suddivisione delle costruzioni in due « classi», o « categorie»: in « archi tettura » ed «edilizia » - distinzione di fatto universal mente accolta, anche se in rapporto a definizioni variabili, e se in diversa misura considerata «giusta» o inevitabile. 15. Tale suddivisione implica la nozione che alcune costruzioni si differenziano per qualche cosa che non è misurabile ed afferrabile in termini quantitativi, di «presa di possesso» fisica, ma che non per questo è meno «concreta», e valutabile: si configura, in altre parole, i) concetto di «architettura - arte». L'«architettura» si di stingu e in relazione alla «qualità », che ad essa sola è propria. 49
· 16. Si tratta di un'idea che ritroviamo nel corso di tutta la storia dell'architettura « del passato». Dagli an tichi teorici greci a Vitruvio, dalle « enciclopedie» del primo Medioevo all'abate Suger, dai proto-umanisti all'Al berti, dai trattisti del 500 e del 600 ai pensatori dell'Illu minismo, tale « qualità» viene definita in innumerevoli modi diversi. Tuttavia la sua esistenza non è mai revo cata in dubbio. 17. Anche dopo la « frattura», oltre la quale siamo soliti parlare di architettura « moderna», la distinzione di cui si è detto ha continuato ad essere operante. Dai riformisti religiosi e sociali anglosassoni dell'inizio del1'800 a Ruskin e Morris, da Viollet-le-Duc a Van de Velde, da Gaudì a Le Corbusier e Gropius, fino ai più recenti critici, si è continuato a discutere di « che cosa debba essere l'architettura»; vale a dire della « qualità» che le è propria. • 18. Va notato che in epoca « contemporanea» gli sforzi sono stati sostanzialmente indirizzati verso defini zioni che consentissero la massima estensione dei « con fini» dell'« architettura», fino a comprendervi tutto l'am bito delle costruzioni. Un noto ed eccellente esempio di tale tendenza è rappresentato dalla formulazione che del concetto di « architettura» diede William Morris, e che si iscrive nei termini seguenti: « l'intera realtà fisica escluso il puro deserto ». 19. Se vagliamo tanto le definizioni « antiche» quan to quelle « moderne», alla ricerca di ciò che esse, al di là delle differenze, hanno in comune, ci accorgiamo facil mente di come in quelle del primo « gruppo» venga pre vilegiato il momento che oggi definiremmo « estetico» ed in quelle del secondo, invece, la costante « sociologica». . 20. La « qualità» fondamentale dell' architettura « classica», infatti, risiederebbe nella sua capacità di « emergere » perché, .sostanzialmente, « bella ». 21. Quella dell'architettura «contemporanea», al con trario, nella sua disponibilità a fornire un « servizio so SO ciale » - sia esso identificato nel migliorare le condizioni
delle abitazioni di tutti, nel far partecipare tutti del «bello», o nel risvegliare in tutti la coscienza delle «con traddizioni» di un sistema«repressivo», si tratta comun que, e sempre, di offrire alla «società» uno standard di vita più « elevato ». 22. A questo punto è opportuno arrestarsi su di un'osservazione, anch'essa nozione comune, ma che nel contesto che siamo venuti delineando assume un partico lare significato e sulla quale torneremo più tardi (v. 27). Al di là di tutte le differenze, il «ciclo» dell'architettura del «passato» si contraddistingue per la presenza persi stente di un insieme di «elementi semplici» impiegati nella «composizione»: colonne, pilastri, capitelli, basi, cornici, modanature, archi, trabeazioni, partiti decorativi, iconograficamente variabili entro limiti più o meno ampi, ma in ogni caso definiti. La presenza di tali «elementi fondamentali» risulta verificabile durante l'intero corso del ciclo in questione, benché non di tutti contempora neamente, e sempre in combinazioni diverse. 23. L'architettura « attuale», invece, non possiede al cun repertorio di «elementi fondamentali», di «configu razioni elementari » da organizzare in sistemi complessi. 24. « Filtriamo» attraverso un«setaccio » ancora più fine le innumerevoli definizioni del «proprio » dell'archi tettura: ciò che ne resta di comune è un «residuo » se mantico. 25. Si intenda per «architettura » un'«edilizia bella» o un «servizio sociale», è evidente come la «bellezza» possa essere concepita solo in quanto venga«trasmessa», «comunicata», e che, altresì, il «miglioramento» del «modo di essere al mondo» si persegue, attraverso l'ar chitettura, per via indiretta (giacché il topos specifico di simile operazione è certamente l'attività concreta e pra tica in campo sociale, economico e politico)- vale a dire, suscitando, con opportuni«messaggi», la«coscienza» di una condizione insoddisfacente, o fornendo, con «infor mazioni » esemplari, termini di confronto su quanto si potrebbe fare «di meglio». 51
26. Il «residuo semantico» può essere direttamente rilevato sugli edifici «antichi», sottoponendoli all'analisi storica, anche se si prescinde dalle speculazioni dei teo rici del tempo (v. 30). 27. L'«architettura » del «passato », lo abbiamo visto (v. 22), esibisce difatti immediatamente ciò che la diffe renzia rispetto ali'«edilizia», proprio nella presenza di quelli che abbiamo chiamato « elementi semplici», o «configurazioni elementari» della composizione. Che tale presenza costituisca il carattere distintivo dell'«architet tura» antica è provato indirettamente anche dalla circo stanza che, -quando un edificio «comune» pretende di «nobilitarsi», di «fingere» l'appartenenza all' «altra» classe, immancabilmente vi ritroviamo - usati più o meno «a proposito » - alcuni di quegli elementi, di quelle configurazioni. 28. In che consiste, viene a questo punto da doman darsi, l'uso « a proposito », corretto, delle «configurazioni elementari», specifico dell'«architettura» come contrap posto dell'« edilizia»? In due caratteristiche: nell'essere questi elementi riferibili ad un repertorio di modelli con solidato nel tempo, da una parte; e nella combinazione degli elementi medesimi secondo schemi prestabiliti ed, essi pure, tramandati. Vale a dire, nel carattere altamente formalizzato, strettamente «convenzionale », degli ele menti e delle combinazioni. 29. Un sistema «convenzionale» basato su un umero circoscritto di elementi «convenzionali» che si possono combinare tra loro secondo schemi «convenzionali», è di fatto strutturato allo stesso modo e regolato dal mede simo genere di meccanismo di un sistema semantico: un insieme di «segni», o di «parole» - per riferirsi al tipo più ovvio di «sistema semantico», il linguaggio che si combinano secondo una «grammatica» ed una « sintassi». 30. Ma c'è di più. Oltre a presentare i caratteri orga nizzativi dei « sistemi semantici», l'architettura «antica» 52 costituisce di per sé stessa - anche se se ne ignorano
le «regole compositive» - un «messaggio»: contras segnata dalle «configurazioni elementari», essa «tra smette» il «messaggio» di essere « diversa»; «comu nica» la propria esistenza come << architettura». Da que sto «messaggio» fondamentale e costante discendono tutti gli altri possibili, destinati a variare, ad essere sot toposti al «fraintendimento sistematico» che si accom pagna inevitabilmente alla comunicazione. A noi, qui, comunque, preme di aver stabilito la natura semantica come caratterizzante omogenea dell'intero «ciclo» del l'architettura «antica» (v. 26). 31. Possiamo, in altri termini, affermare che l'archi tettura «antica», costituendo un «sistema semantico», si basava su di un « codice» (che si può identificare, lata mente, con le regole del cosiddetto « classicismo» ). 32. Tale codice consentiva almeno due livelli princi pali di comunicazione. Uno, per così dire, «interno», de stinato a coloro che ne conoscevano le leggi, ed erano pertanto in grado di apprezzarne le«variazioni»; ed uno «esterno», per gli «altri», i «non dotti», che recepi vano, appunto, il messaggio fondamentale della «diver sità» dall'«edilizia» (caricato, nelle singole circostanze storiche, di differenti connotazioni: celebrazione del po tere, lusinga dei sensi, venerazione della divinità, rispetto della «nobiltà », affermazione della «rispettabilità», «decoro» della comunità ecc.). 33. Abbiamo visto che un «residuo semantico» è comune anche all'architettura«moderna» (v. 24). In essa tuttavia constatiamo una« interruzione» del « circuito di comunicazione». In effetti, mentre nel caso del passato possiamo rilevare il messaggio fondamentale, la « diver sità », direttamente sugli edifici, per l'architettura con temporanea ciò è praticamente impossibile: niente, al di fuori della « qualità », unicamente « intuibile» ma non evidente perché non rapportabile ad alcuno « schema », con alcun « codice», distingue più l'«architettura» dal !'«edilizia». 34. Confrontiamo per esempio, l'immagine di una 53
struttura architettonica contemporanea, anche estrema mente complessa, con l'immagine di un qualsiasi « brano » di città attuale: solo a fatica riusciamo a di stinguerle l'una dall'altra. 35. Cosa significa tutto ciò? Innanzi tutto, che ab biamo stabilito due fatti: l'architettura antica e quella moderna sono omogenee in quanto entrambe « sistemi semantici »; tuttavia, esiste, a separarle, una « frattura » radicale - la prima « comunica » poiché possiede un « codice » di riferimento; la seconda non « comunica » perché manca di un « codice ». In secondo luogo, che la mancanza di un codice « moderno » è parallela e simme trica alla «sovrabbondanza» delle immagini «spontanee» offerte dall'edilizia e dai fenomeni ad essa connessi, come il traffico, l'an-edo urbano ecc.; talché nessuna« immagine progettata » riesce ad imporsi, a « distinguersi » visiva mente. 36. Abbiamo così trovato una risposta alle prime tre domande che ci eravamo posti: se esisteva una«frattura», quali i motivi di differenziazione e quali quelli di omoge neità. Ed anche, parzialmente, alla quinta - perché si fosse verificata la « frattura » (v. 11). 37. Rispondendo alla quarta domanda (quando, e dove, si è dato luogo alla « frattura »), completeremo an che la risposta alla quinta (v. 11). 38. Osserviamo un qualsiasi grafico sull'andamento della popolazione mondiale negli ultimi due millenni. Noteremo immediatamente che ad un andamento oriz zontale pressoché costante, della durata di circa 1850 anni, fa seguito un brusco, spettacolare flesso, per il quale, nei restanti 150, la curva descrive un'impennata che la trasforma praticamente in una verticale. 39. :B un dato, questo dell'aumento della popolazione, universalmente noto. Tuttavia, osservarne una rappresen tazione grafica permette di coglierne l'evidenza, più di qualunque descrizione, nella drammatica velocità del fe nomeno e nell'enormità dell'aspetto quantitativo. 54 40. Appare ovvio, a questo punto, il «perché» della
«frattura». Per oltre 20 secoli un numero limitato di persone elabora, mette a punto, e varia lentamente, un «sistema di comunicazioni » attraverso manufatti co struiti: l'«architettura». Quasi all'improvviso, si verifica un'«esplosione» quantitativa della popolazione. Il «co dice » dell'architettura si frantuma per opera di una doppia «pressione»: dall'«interno» - crescendo veloce mente il numero di coloro che possono venirne a cono scenza ed usarne, esso esaurisce rapidamente le proprie residue potenzialità combinatorie; da11'«esterno» - per la «concorrenza » travolgente che, sul piano dell'imma gine, viene portata dalla sconcertante proliferazione del l'edilizia (con le relative attrezzature), conseguente all'au mento de11'attività costruttiva proporzionale de11'aumento di popolazione (v. 11). 41. Quali conclusioni, o indicazioni, o suggerimenti, si possono, da quanto precede, trarre a livello operativo? Non è facile dirlo. Tuttavia è possibile fare alcune consi derazioni, suscettibili di essere analizzate e, forse, speri mentalmente vagliate (v. 11). 42. Se il «proprio» dell'«architettura » è realmente il suo carattere semantico; se la comunicazione attraverso l'architettura si è interrotta; se - l'esperienza lo insegna - il tentativo di «riattivare il circuito» per mezzo de11'uso di forme geometriche elementari (il cubo, la sfera, il cilindro, il cono, la piramide), al fine di porle a con trasto con l'ottundente complessità visiva de11'edilizia, conduce a11a rinascita del « classicismo», e quindi a rie sumare invano un codice «esaurito» (ciò è accaduto già due volte, quanto meno: con l'Illuminismo; e in anni molto recenti, da Kahn ad Aldo Rossi p. es.): sarà forse non inopportuno osservare che il « codice» antico traeva le proprie capacità di funzionamento da un pattern cul turale ben preciso ed, a suo modo, «oggettivo», « scien tifico » - vale, a dire, dalla rispondenza de11e «parti » al «tutto», del «microcosmo» della «architettura » al «macrocosmo» dell'Universo, attraverso la sequenza 55
Uomo - Storia - Natura, che si supponeva regolata da leggi «armoniche » comuni. 43. Sostituire al codice « arbitrario» del « passato» un codice fondato su di una effettiva oggettività << scien- . tifica», potrebbe essere il tentativo da compiere. 44. Si tratterebbe, schematicamente, di collegare la ricerca architettonica a quelle sul comportamento. Un'an tropologia strutturale che mettesse gli architetti in grado di conoscere e valutare le «costanti» dei meccanismi bio-psicologici, ed un'antropologia culturale che chiarisse loro i «condizionamenti» e le «variabili» (o i «campi di variabilità») di tali meccanismi, potrebbero sostituire l'antico pattern antropometrico, e sollecitare forse la co stituzione di un nuovo « codice»: un codice « aperto», « polivalente», « molteplice », adatto al « grande nume ro», ai «grandi sistemi».
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