Op. cit., 26, gennaio 1973

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op.cit. rivista quadrimestrale di selezione della critica d'arte contemporanea

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Edizioni • Il centro •


R.

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Fusco,

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La ÂŤ ridu;:ione" culturale nella progettazione architettonica

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Commento alla ÂŤriduzione,. culturale

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R. BARILLI,

Le due anime del concettuale

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A. DE ANGELIS,

L'a11tidesign

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Libri, riviste e mostre

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Alla redazione di questo numero hanno collaborato: Urbano Cardarelli, Cesare de' Seta, Alessandra Fasanaro, Elvira Macchiaroli Petroncelli, Maria Luisa Scalvini.



La «riduzione» culturale nella progettazione architettonica RENATO DE FUSCO

Nella sua forma più generale, ed inevitabilmente gene­ rica, proponemmo nel n. 23 (gennaio 1971) della nostra ri­ vista il tema della « riduzione ,. culturale sollecitati dai pro­ blemi della cultura e segnatamente dell'università di massa. In quella sede abbiamo dato, sotto la consueta formula della rassegna, alcune definizioni del termine che ci sembravano pertinenti ad un discorso che fosse appunto il più generale ed inclusivo possibile. Ma poiché il tema stesso della « ridu­ zione ,. trova il suo principale senso nella specificazione di obiettivi particolari - ed infatti allora esemplificammo una proposta riduttiva limitata al campo della didattica della storiografia architettonica - ci proponiamo qui ·di affron­ tare il problema, nell'altro scritto appena accennato, della riduzione architettonica nel campo della progettazione e della didattica progettuale. Ma prima di impostare il nostro più specifico tema, sarà bene rifarsi a quanto già detto nell'altro articolo, non tanto con lo scopo di ricapitolare una precedente puntata, quanto di riprendere quei punti che ci sembrano più consoni all'ar­ gomento della « riduzione ,. architettonica che ora vogliamo trattare. La nostra inchiesta· muoveva dalla constatazione di un grande divario esistente tra domanda ed offerta di « beni 5


culturali » e notavamo che, nonostante la tendenza comune ad entrambe di una maggiore quantificazione, esisteva uno spreco enonn _e nel settore dell'offerta e una notevole carenza in quello della domanda. Ora, sebbene con una fenomenologi'i r diversa· dagli altr campi, iii tjùellò dell'architettura il divario suddetto assume forse le proporzioni più allarmanti. Da un Iato assistiamo alla edificazione incondizionata di ogni angolo del territorio, donde le note battaglie sulla salvaguardia dei centri antichi e dell'ambiente paesistico, e dall'altra la do­ manda insoddisfatta di case, scuole, ospedali etc. Ovviamen­ te, la causa prima del divario è di natura economico-politica: s'investe solo ai fini di un reddito immediato, unicamente guidati dall'economia di profitto, rimandando ogni intervento architettonico ed urbanistico che sia in primo luogo un ser­ vizio sociale. Altrettanto evidente è che fin quando non si invertirà radicalmente tale tendenza ogni discorso di cultura appare o di fatto costituisce una evasione. Ciononostante si hanno fondate ragioni per ritenere che tale divario, e soprat­ tutto -le sue ripercussioni culturali nel senso antropologico, non deriva unicamente da questa macroscopica causa, che va risolta sul piano politico e con gli adeguati strumenti, ma di­ pende anche se in via subordinata dalla specifica struttura della nostra disciplina. E se la prima causa, tanto evidenti sono le sue contraddizioni, consente almeno una previsione della sua rimozione, la crisi disciplinare dell'architettura allo stato attua.e non pennette neanche questo, incerti ed am­ bigui come sono i suoi possibili esiti. In altri termini, se l'architettura consente una « immaginazione sociologica» per ciò che attiene -alle obiettive esigenze quantitative della so­ cietà di massa, i modi e le forme di questa architettura nulla o quasi concedono ad una « immaginazione progettuale ». Del resto se sul piano economico-politico s'è verificata, in vari modi e secondo la_ ·realtà storica dei diversi paesi, una orga­ nizzazione di tipo socialista, che per definizione deve aver rimosso le cause strutturali del divario suddetto, un'architet­ tura cui si possa senz'altro associare lo stesso attributo di fatto non_ esiste ancora.. 6 Nel nostro· pr�cedente saggio davamo alcune definizioni


del termine « riduzione » : secondo la fenomenologia husser­ liana, secondo la linea più condivisa nella moderna episte­ mologia, nel campo della logica, in una accezione meramente quantitativa etc., per concludere che in qualunque modo venga intesa, il portato della « riduzione » è sempre di tipo trasfor­ mativo. Aggiungiamo qui altre interpretazioni dello stesso ter­ mine. Nel Lalande troviamo sotto la voce « ridurre » tre si­ gnificati: A. Trasformare un dato o un enunciato per con­ durli sia ad una forma logicamente più interessante o più utilizzabile... sia a una forma più sintetica, più semplice, o più elementare... B. Diminuire, rendere meno importante o meno esteso... C. Costringere 1• Anche qui, come si vede, esiste un passaggio graduale dall'accezione positiva a quella nega­ tiva, con cui, con una certa forzatura in verità, potremmo far coincidere tre fasi della più recente storia dell'architettura: quella pionieristica, che « riconduce » l'architettura nel no­ vero della scienza, quella della maturità del Movimento Mo­ derno che « riduce » l'architettura al principio dell'arte per tutti, quella attuale in cui la produzione corrente riduce gli spazi architettonici e le persone ad una vera e propria co­ strizione; ma sull'argomento della storia dell'architettura mo­ derna come « riduzione » torneremo in modo più esatto e dif­ fusamente più avanti. Rifacendoci ancora al Dizionario di Lalande, leggiamo che i significati di questa parola sono spesso mescolati. .. Quando si parla di ridurre un fatto a certi elementi, vi si unisce ora l'idea di una restrizione e di un hn­ poverimento deplorevoli, che fanno si che se ne perdano i caratteri essenziali, ora invece l'idea di una semplificazione utile e legitthna, che mette in evidenza ciò che in esso vi è di più importante. Cosi, nella formula usata spesso da Con• dillac: « L'art de raisonner se réduit à une langue bien faite » (in partic. « Logique » II, 5), vi è ad un tempo l'�dea di un'equivalenza logica e quella di un ritorno agli elementi originari e fondamentali, ritorno che corregge le oscurità e le complicazioni successive 2• L'aforisma di Condillac può essere parafrasato dicendo: il fare architettonico si « riduce ,. ad una langue (nell'accezione semiotico-saussuriana), ad un codice ben istituito; aforisma che possiamo assumere dal no- 7


stro punto di vista come l'obiettivo di fondo di una moderna teoria architettonica, alla quale il presente studio intende essere un contributo. Un altro significato del termine « riduzione » può trovarsi nella sua equivalenza con la nozione di classificazione. Que­ st'ultima ha avuto ed avrà una notevole importanza nella letteratura teorica dell'architettura. G. Grassi sostiene che la classificazione costituisce la tecnica che più corrisponde ai presupposti metodici del pensiero razionalista. In quanto diretta all'elemento sintattico dell'architettura, la classifica­ zione è volta a definire la struttura di possibili ordini seriali e suo scopo è rappresentato da queste possibili combina­ zioni indipendentemente anche dalla utilità di esse o da una loro maggiore o minore efficacia. In tal senso la classifica­ zione nella definizione teorica del razionalismo rappresenta anche un punto in cui è più evidente la coincidenza sul piano metodico e del fine fra pensiero logico e architettura 3• L'au­ tore prosegue notando che anche i più recenti studi volti ad applicare il criterio della classificazione all'architettura si sono limitati ad una classificazione per funzioni. Non sol­ tanto perché essa rappresenta l'applicazione del metodo spe­ rimentale (quindi il dato certo, ecc.), ma anche e soprattutto perché rimandare alla funzione significa in fondo mantenere integro l'elemento qualitativo dell'architettura: « integro » e « inesplorato » (per lo meno rispetto a un determinato campo d'indagine). In ogni caso il significato sul piano conoscitivo della classificazione consiste proprio nel suo essere una « ridu­ zione »; e come tale essa rappresenta una imprescindibile e consapevole rinuncia a far intervenire tutti i termini del pro­ blema 4. La rassegna di altre definizioni del termine « riduzione », interessanti in un modo o nell'altro l'architettura, potrebbe continuare a lungo. La sospendiamo a questo punto perché, aggiungendo queste ultime interpretazioni a quelle del prece­ dente articolo (e qui più sopra riassunte), abbiamo già quanto basta ad avviare il nostro discorso, del quale piuttosto ci 8 preme fornire al lettore un breve sommario introduttivo.


Per trasferire le acquisizioni generali della « riduzione» culturale in campo architettonico, tracceremo un rapido ex­ cursus del Movimento Moderno fino alle esperienze più re­ centi con un duplice scopo. Da un lato intendiamo ricavare direttamente da esso una serie di «riduzioni» che ci sem­ brano specifiche del suo processo storico, cogliendo in tal modo alcune caratteristiche invarianti ed irreversibili dell'ar­ chitettura moderna. Dall'altro vogliamo indicare il fatto che l'insieme delle suddette « riduzioni» ed i loro legami con al­ trettante tendenze del Movimento Moderno ci inducono a considerarlo come un unitario fenomeno tendenzialmente ri­ duttivo. Su questa base e collegandoci ad altre ricerche teoriche in atto, orienteremo la nostra prospettiva semiologica que­ sta volta non più all'analisi storiografica, bensì alla previsione progettuale. L'indagine semiologica ci porterà così ad inne­ stare il problema della « riduzione» a quello della teoria della progettazione ed in particolare a conoscere, o almeno a for­ nire un contributo per individuare, il sistema, il codice, la struttura soggiacente al processo dell'odierno fare architetto­ nico. Ci proponiamo infine di giungere a concrete proposte operative, per quanto è possibile in uno scritto che rimane comunque teorico, dopo tanti discorsi in cui di linguistica e semiologia si parla ancora in termini metaforici o con un ac­ cento talmente specialistico da rendere incolmabile il divario fra teoria e prassi. Il Movimento Moderno come «riduzione» Premesso che ogni Kwzstwollen epocale, in quanto scelta ed esaltazione di alcuni fattori, è sempre da intendersi come una riduzione dell'intera potenziale esperienza a quei fattori, il Movimento Moderno sembra accentuare a tal punto le sue scelte e soprattutto le sue «semplificazioni» da darsi, sia pure nelle diverse accezioni del termine, come una grande e molteplice « riduzione». Ma prima di esaminare gli aspetti particolari di questo fenomeno, vediamo in che modo la storiografia e la critica

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del Movimento Moderno hanno colto questo aspetto che a noi sembra il più peculiare della nostra recente tradizione architettonica. Giedion, in varie occasioni, pur senza trascurare altre componenti e quindi alieno da una spiegazione riduttiva, ha tuttavia posto l'accento su tre fattori tipici del Movimento Moderno: lo sviluppo tecnologico, l'istanza di « moralità », l'apporto delle arti Vi$ive. In ciò egli ha seguito, grazie alla personale partecipazione e ai legami coi maestri di tale movimento, l'esperienza, le intenzioni e i programmi da essi enunciati; la sua è quindi una testimonianza di prima mano. Nel volumetto Architektur und Gemeinschaft, che riprende, aggiornandoli, molti temi discussi nel suo più famoso Spazio, tempo e architettura, egli tocca in alcuni punti il problema che ci interessa. Fu cosi (per combattere cioè la falsa mo­ numentalità) che l'architettura ebbe a percorrere un difficile cammino. Dovette, come la pittura e la scultura ricominciare tutto da capo. Dovette riconquistarsi i mezzi più ovvil, come se, in precedenza, non fosse accaduto nulla. Per il momento il passato fu, e doveva essere morto 5• Ci sembra di poter co­ gliere, al di là evidentemente dalle intenzioni di Giedion, in questi assunti la prima grande «riduzione» del Movimento Moderno, ossia quella di re-ducere l'architettura alla sua vera o presunta origine, alle sue cosiddette datità originarie. Que­ sto atteggiamento si ritrova in forme e connotazioni diverse in varie età della storia quando cioè si mira ad « annullare » un recente passato: operò in tal senso il Rinascimento quando in opposizione al Gotico ricondusse il suo lessico a quello del mondo antico; il razionalismo settecentesco quando in rea­ zione al Barocco ricondusse ·i suoi procedimenti alla «lo­ gica » vera o presunta ancora del mondo antico e oltre, in­ dagando le più remote origini; il Movimento Moderno quando reagì all'eclettismo storicistico riducendo il suo fare non al lessico né alla sintassi di precedenti età, bensì agli archetipi geometrici e alle funzioni primarie, sempre tuttavia nell'in­ tento o nella presunzione di rifarsi ad una autentica e «sin­ cera » « essenza» dell'architettura. Gli architetti, prosegue 10 Giedion, rinvennero l segni di una genuina espressione del


loro tempo molto lontano dalle costruzioni pseudomonumen­ tali. Li trovarono nei mercati coperti, nelle fabbriche, negli audaci problemi che promuovevano loro le volte dei padi­ glioni delle mostre fino al 1889 e nel giuoco di equilibri dei ponti e della torre Eiffel. Senza dubbio, a queste costruzioni mancava Io splen­ dore dei periodi precedenti... Apparivano nude e fredde; erano però sincere 6• E qualche pagina più avanti osserva: la pittura, la più sensibile delle arti figurative, ha spesso preannunziato il futuro. Fu la pittura, intorno al 1910, ad esprimere per prima, nei quadri dei cubisti, la concezione spaziale della nostra epoca ed a scoprire il nuovo linguag­ gio figurativo 7• Certo, deformeremmo in maniera scorretta il pensiero dell'autore se confondessimo queste indicazioni sulle compo­ nenti del Movimento Moderno con altrettante riduzioni di esso all'istanza tecnica, a quella morale, a quella pittorico­ figurativa; ma, a parte l'esegesi di Giedion, riteniamo che in generale i fatti andarono proprio così: ogni momento e tendenza dell'architettura moderna ha accentuato tanto uno di questi e di altri fattori-componenti, da costituire delle vere e proprie riduzioni dell'architettura ora alla struttura costruttiva, ora alla istanza morale, ora alla funzione sociale, ora al gusto figurativo, e di volta in volta ai numerosi altri parametri che incontreremo più avanti nella presente trat­ tazione. In un precedente studio 8, abbiamo osservato che l'at­ tuale crisi semantica dell'architettura, oltre ai ben noti motivi socioeconomici, non dipende tanto da una mancanza di significati; anzi esiste oggi potenzialmente una ipertrofia di contenuti e di intenzioni che tuttavia non riescono ad espri­ mersi in un codice unitario. Esisterebbe cioè una sorta di specializzazione comunicativa per cui le varie istanze - la classicità della forma, il senso costruttivo, gli accenti irra­ zionali, l'interpretazione psicologica, le interferenze o i pa­ ralleli scientifici, i fatti dell'inconscio, etc. - non si trovano mai in una sola poetica, in. una sola esperienza artistica, ma sono appannaggio di altrettante specifiche tendenze. Cosic- 11


ché quel rapporto, quella comunicazione che in epoche di cultura integrata risultava in un quadro pluralistico sì, ma unitario e decodificabile da tutti i livelli di preparazione culturale, oggi si trova frantumato in diecine di settori spe­ cializzati e come tali accessibili solo a ristretti gruppi di esperti. Ora possiamo spiegarci meglio questo fenomeno ato­ mistico ed attribuirlo alla riduzione specialistica ( e qui siamo in presenza di una accezione negativa sia del sostantivo che dell'attributo) di tante fasi del Movimento Moderno, di al­ trettanti aspetti unilaterali ed esclusivi. Dopo Giedion, anche in Zevi troviamo indicati alcuni fe­ nomeni basilari che sono all'origine del Movimento Moder­ no; egli li desume da quattro ordini di motivazioni derivanti dalle premesse teoriche di altrettante tendenze storiografi­ che: l'idealista, la meccanicistica, l'astratto-figurativa e la eco­ nomico-positivista. Esse sarebbero il rinnovamento del gu­ sto, la rivoluzione tecnica, gli « ismi • della visione figurativa, l'impulso sociale, che costituiscono altrettanti paragrafi del suo libro Storia dell'architettura moderna. Ma nel tirare le somme del capitolo dedicato appunto all'origine del Movi­ mento Moderno, Zevi scrive: Perché è sorta l'architettura moderna? Quale delle quattro componenti analizzate ha una precedenza sulle altre? Se si dovesse rispondere in forma unilaterale, se si volesse cioè schematizzare il problema delle origini dell'achitettura moderna scegliendo una causa a esclusione delle altre, si sarebbe autorizzati, per ragioni fi­ losofiche e storiche, a indicare il rinnovamento del gusto... Ma la storia procede per consenso e contagio di motivi, non per singole sollecitazioni. Le quattro cause su esposte non solo furono compresenti, ma complementari; si stimolarono reciprocamente, divennero ognuna la verifica di tutte le al­ tre 9• La conclusione è ineccepibile da un punto di vista sto­ riografico generale e valida per qualunque età della cultura, ma, se per motivi operativi, si vuol cogliere il carattere espo­ nente di un'epoca, bisogna riconoscere, scegliere ed accen­ tuare quella che si ritiene la valenza storica più emergente. In altre parole, è necessario rilevare, attraverso una « ridu12 zione » storiografica, la « riduzione • che già per suo conto


ha operato la storia. Che il Movimento Moderno presenti tali riduzioni s'è già detto e alla loro individuazione dedi­ cheremo le pagine che seguono. Peraltro quando Zevi pro­ pone quale specifico dell'architettura la sua interna spa­ zialità opera evidentemente una «riduzione» teorica e in­ dica una visuale che consente di rileggere tutta la storia del­ l'architettura come una storia delle diverse concezioni e con­ formazioni spaziali. E tale visuale si addice particolarmente alla vicenda del Movimento Moderno nelle cui opere lo spa­ zio, essendo in vario modo accentuato, evidenziato, esibito, fa sì che il tema della spazialità diventi una delle principali « riduzioni» verificatesi nella recente esperienza architetto­ nica. Ancora in fatto di individuazione dei caratteri esponenti del periodo storico suddetto , ricorderemo un giudizio di Argan riguardante non le origini ma questa volta gli esiti del Movimento Moderno. Riferendosi principalmente al Razio­ nalismo, egli scrive: L'architettura moderna si è sviluppata, in tutto il mondo, secondo alcuni principi generali: 1) la priorità della pianificazione urbanistica sulla progettazione ar­ chitettonica; 2) la massima economia nell'impiego del suolo

di poter risolvere, sia pure a li­ « minimo d'esistenza », il problema delle abita­ zioni; 3) la rigorosa « razionalità » delle forme architetto­ niche, intese come deduzioni logiche (effetti) da esigenze ob­ biettive (cause); 4) il ricorso sistematico alla tecnologia in­ dustriale, alla standardizzazione, alla prefabbricazione in see nella costruzione al fine vello di un

rie, cioè la progressiva industrializzazione della produzione di cose comunque attinenti alla vita quotidiana

( disegno in­

dustriale); S) la concezione dell'architettura e della produ­ zione industriale qualificata come fattori condizionanti del progresso sociale e dell'educazione democratica della comu-

Ma se questi principi costituiscono, come li definisce lo stesso autore, l'etica fondamentale o la deontologia del­ l'architettura moderna, la sua fenomenologia teorica ed ope­ rativa comportò altri aspetti riduttivi. Basti pensare che nei punti sopra citati manca qualunque accenno al problema formale che fu al centro del dibattito architettonico del Monità

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vimento Moderno e spesso numerose ragioni « etiche » -e « deontologiche » furono chiamate in causa proprio per soste­ nere questa o quella soluzione conformativa. Un altro autore va ricordato per il suo intento voluta­ mente riduttivo (questa volta nel duplice senso di cogliere i «fenomeni primari » e di sminuirli per mostrarne la po­ vertà e le contraddizioni) dell'arte moderna, Hans Sedlmayr. Questi riduce tutta l'arte moderna a quattro caratteristiche - l'aspirazione alla «purezza»; le arti sotto il dominio della geometria e della costruzione tecnica; la pazzia come rifugio della libertà (il Surrealismo); la ricerca delle origini (l'Espressionismo) - cui corrispondono una serie di conse­ guenze che l'autore definisce gli idoli dell'arte moderna. In questo quadro l'architettura si manifesta più esplicitamente nei primi due « fenomeni primari» o « caratteristiche fonda­ mentali». Per divenire « pura », « autonoma », l'architettura deve espellere da se stessa tutti gli elementi di altre arti con le quali era collegata sino alla fine del barocco e del rococò (e anche oltre), e cioè: 1) gli elementi scenici, pittorici, pla­ stici e ornamentali; 2) gli elementi simbolici, allegorici e rappresentativi; 3) gli elementi antropomorfici. Propriamen­ te, come quarto punto, dovrebbe espellere anche l'elemento « oggettivo », che nell'architettura è ... lo « scopo », la fina­ lità dell'edificio... Quest'ultimo passo l'architettura ... non può compierlo. Tuttavia gli si avvicina là dove lo scopo non è preso sul serio, ma diviene un pretesto per realizzare idee « puramente architettoniche ». Ed anche per questo gli esempi non mancano 11• Geometrismo e tecnicismo, ovvero il secon­ do parametro riduttivo di Sedlmayr, sono conseguenze del raggiunto ideale di « purezza » ed « autonomia ». Se l'aspi­ razione a questi fattori nasce con l'architettura dell'Illumini­ smo, è nel primo ventennio del nostro secolo che l'architet­ tura li raggiunge, grazie alle possibilità tecnologiche e alla sua riduzione alle forme della geometria elementare. La prospettiva di Sedlmayr è estranea alla vicenda del Movimento Moderno perché è intimamente conservatrice e spiritualistica: tutto il male dell'arte moderna deriverebbe


dall'aver sostituito la religione con degli idoli laici (va detto per inciso che Persico, indubbiamente più partecipe di quella vicenda, riusciva invece a vedere nell'architettura moderna una istanza di profonda religiosità); ma anche a non condi­ videre i suoi punti di vista, sarebbe insensato non cogliere in alcune osservazioni di questo illustre studioso aspetti veri o quanto meno problematici. Quando, ad esempio, per spie­ gare la fine dell'ornamento e dell'uso della colonna afferma: no, la causa della sua morte non è il mutamento dei mate­ riali. La colonna deve scomparire ora... affinché nasca l'ar­ chitettura «pura », l'architettura di pure superfici; oppure, quando contro le «giustificazioni» e motivazioni del pro­ gresso tecnologico, scrive queste tendenze non vanno attri­ buite al desiderio di prendere a modello i nuovi aeroplani, ma nascono « da sé », non appena l'architettura viene equi­ parata alla geometria, coglie delle caratteristiche del Movi­ mento Moderno che sfuggono ai suoi apologeti. Infatti, per limitarci solo ai due brani ora citati, egli intende stigmatiz­ zare il fenomeno per cui alcune scelte, alcune volontarie «ri­ duzioni » stilistiche vengono ipocritamente «giustificate » da motivi eteronomi e come tali più adatti a far presa sul pub­ blico. Insomma, le critiche che Sedlmayr muove a tutta l'arte moderna inducono quanto meno al sospetto che alcuni dei suoi fallimenti erano in parte insiti nelle sue stesse «ridu­ zioni», operate in una sfera distaccata dalla realtà, bisognose di «giustificazioni» e come tali in buona parte «ideologi­ che». Comunque quali che siano i limiti e le contraddizioni del Movimento Moderno, colti qui da una visuale spirituali­ stica e là da una marxista, non possiamo non riconoscerci come suoi eredi e sottrarci ai suoi esiti così come non pos­ siamo sottrarci alla più generale vicenda storico-sociale del nostro tempo. Ci proponiamo ora, conclusa questa breve rassegna di principi-base, elencati da alcuni autori, di individuarne altri o di ritrovare in quelli stessi caratteristiche più tipicamente riduttive, inevitabilmente attribuendo a questo termine vari significati.


a) Riduzione alla « essenza »

Ne abbiamo già accennato commentando un brano di Giedion. Per pura assonanza si potrebbe richiamare la ridu­ zione fenomenologica husserliana che, indica tra l'altro un ritorno alle datità originarie, il riportarsi cioè a quanto in fondo già da sempre si vedeva anche senza saperlo. Ma fuori da quest'ordine di idee, la credenza che alla base dell'archi­ tettura vi fosse una sorta di « essenza», si può dire che sia stata sempre presente nella storia dell'architettura. Essa al­ tro non è, a nostro avviso, che il desiderio di affrancare l'ar­ chitettura da ogni sovrastruttura imposta da una serie di con­ dizionamenti eteronomi e in definitiva la volontà di superare il codice vigente in nome di uno nuovo, presunto coincidente con la « vera natura» del fenomeno architettonico. Nel Set­ tecento e segnatamente con la cosiddetta architettura dell'Il­ luminismo questa tendenza assume carattere esponente nel quadro del generale orientamento riduttivo nella duplice ac­ cezione di ritorno alle «origini» (è l'epoca in cui si dibatte anche i'.l ,problema sull'origine del linguaggio) e di semplifica­ zione enciclopedica operata in ogni settore del sapere. Col Movimento Moderno il ritorno all'origine essenziale dell'architettura coincide con la nota polemica contro la storia, con l'idea di un radicale cambiamento per cui, es­ sendo in atto una trasformazione totale della civiltà la stessa architettura debba rinnovare tutto conservando la sua vera « essenza »; si aggiunga che, mentre gli ismi figurativi hanno spesso dichiarato che pittura e scultura erano morte, il dibattito architettonico, tranne qualche polemica eccezione, non ha mai ammesso ciò; anzi ha sempre sostenuto che i fe­ nomeni eteronomi, le istanze sociali, le funzioni del mondo contemporaneo nonché trovare soddisfacimento nell'architet­ tura moderna, servivano ad evidenziare la sua vera «essenza». Va inoltre considerato che questo, come ogni altro tipo di riduzione, s'incontra e si fonde con altri; senza contare che evidentemente la «vera natura», «l'essenza», le «datità originarie» dell'architettura assumono di volta in volta un 16 diverso significato. Così quando all'incontro con altri tipi di


riduzione, quella all'essenziale si manifesta ora con una esal­ tazione della geometria, ora della « purezza », ora dell'auto­ nomia e ancora dei tipi formali, funzionali, economici, etico­ sociali etc. Si tratta in sostanza come s'è detto di volta in volta di una accentuazione, di una scelta di forma riduttiva che ingloba tutte le altre ritenute ad essa subordinate. Ad esempio, coloro i quali sostengono essere la funzione il si­ gnificato dell'architettura, la sua quiddità, la sua ragion d'es­ sere, non negano affatto che essa esautori altri aspetti, ma affermano che si limita semplicemente ad includerli, essendo la loro «natura» subordinata appunto alla funzione. Certo, ci rendiamo conto che il parlare in questo senso di riduzione all'essenza equivale a sminuire il suo fondamento logico e a negarle persino validità critica, ma è proprio nel senso sud­ detto che ne parlarono i protagonisti nei loro discorsi, per così dire, da laboratorio, dei quali la critica deve comunque tener conto. Infine questo tipo di riduzione, nonostante la sua vera o presunta praticità, implica una valenza mitica ed irrazionale, che sarebbe ottuso negare alla natura complessa ed ambigua del Movimento Moderno. b) Riduzione dell'architettura alla costruzione

Se il Settecento medita «filosoficamente » un ritorno al­ l'origine, il positivismo ottocentesco, animato ad un tempo da ·spirito pratico e scientifico, pensa ad una «riduzione» dell'architettura alla scienza, alla tecnologia, all'efficienza co­ struttiva. La scienza-guida è notoriamente la fisica ed al suo modello si rifà la scienza delle costruzioni, a sua volta basata su poche ipotesi riduttive capaci di risolvere quasi ogni pro­ blema statico. Tale scienza inoltre si dimostra in grado di avere una completa autonomia di procedimenti, di confor­ mare i più complessi organismi spaziali nuovi e di sottrarre i vecchi dal dominio dell'antica arte del costruire. Si afferma ora la figura dell'ingegnere-costruttore che, dapprima incerto di fronte alla componente « estetica ,. dell'architettura, in un secondo tempo acquista fiducia, s'accorge dell'importanza della sua metodologia e ne esibisce anche formalmente· i

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frutti. Anche qui la «riduzione»· dell'architettura alla co­ struzione si: incrocia con altre istanze o parametri riduttivi, quello etico,· economico, geometrico etc. Né va scissa l'ac­ centuazione e· la scelta della. visuale tecnico-costruttiva dalla teoria architettonica:· l'opera di un Viollet-le-Duc e di un Sem­ per, sebbene sollecitata anche da· altri e più complessi motivi, costituisce ·il presupposto· ideologico più autorevole dell'ar­ chitettura ridotta a costruzione. Ancora una osservazione ge­ nerale va fatta circa queste forme più macroscopiche di « ri­ duzione»:· allorquando si affermano su una base ampia e condivisa, esse si pongono come invarianti nel processo sto­ rico dell'architettura moderna e soprattutto come fenomeni irreversibili. Infatti, la definizione di architettura come co­ struzione, con l'esaltazione della tecnologia e la presenza del­ l'ingegnere calcolatore non saranno più revocate in dubbio e rimarranno, per una serie .di ragioni, non ultima il criterio della divisione del lavoro, come delle costanti nella succes­ siva produzione architettonica. · · -· Ma, nonostante le sue contemporanee e future fortune, la « riduzione » dell'architettura- alla costruzione lasciò un re­ siduo irrisolto, un margine incolmato, quello relativo alla più ambigua sfera del gusto e dello . stile. Gli stessi teorici co­ struttivi sopra ricordati non avrebbero mai rinunciato all'idea che l'architettura potesse fare a meno di uno stile; anzi la loro indagine muoveva proprio dalle possibilità tecnologiche e costruttive per individuare lo stile più adatto alla produ­ zione del tempo. ,. · e) La riduzione « stilistica»

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A colmare la lacuna lasciata dai costruttori, intervenne quel -composito e per ·molti -aspetti sconcertante fenomeno dell'Art Nouveau. Esso rispondeva anzitutto ad una domanda che alimentava il dibattito architettonico dell'età eclettica e che costituì talvolta addirittura· il tema di concorsi inter­ nazionali : perché ...;... si chiedevano i' principali esponenti del mondo ottocentesco ..,..:,. la nostra epoca che vanta tanti progressi nòn possiede un suo stile? Essi pensavano ad uno


stile simile a quelli della tradizione, il Romanico, il Gotico, il Barocco etc.; ma la genesi e le motivazioni di quegli stili risultavano inutili ad una analisi che voleva ripercorrerne il processo per instaurare sul loro modello uno stile affatto nuo­ vo. In altre parole, ogni stile del passato era sì, tra l'altro, un codice convenzionale, ma questa convenzione si stabiliva gradualmente per tappe successive, come stratificazione dei caratteri ricorrenti nei singoli messaggi, nella dialettica fra opere paradigmatiche ed emblematiche, insomma in una pro­ cessualità storica che si arrestava con la nascita stessa della moderna civiltà industriale. Alla fine dell'Ottocento uno stile poteva sorgere solo in un modo meno « naturale », con un preciso atto di volontà, con una istituzione teorica che ac­ compagnasse o addirittura precedesse il suo uso nel linguag­ gio architettonico. La nascita dell'Art Nouveau, volutamente in antitesi con l'eclettismo storicistico, avvenne, in un certo senso, per « decreto », con un atto volontaristico ed artificiale, come un fenomeno paragonabile alla nascita dell'esperanto, ossia la più diffusa delle lingue artificiali internazionali, ba­ sata su una grande semplicità fonetica, grammaticale e les­ sicale 12; e come l'esperanto ebbe un inventore, il medico po­ lacco L. Zamenhof, questo artificiale linguaggio architetto­ nico ebbe un suo inventore in V. Horta. Non staremo ad in­ sistere sulle analogie dei due fenomeni: prelievo di termini e di regole combinatorie da stili e lingue preesistenti, faci­ lità d'impiego, concomitanza di precedenti teorici, la coin­ cidenza quasi delle date di nascita etc., qui bastando sotto­ lineare che i due linguaggi artificiali ebbero certamente in comune l'intento riduttivo. Ma quella del codice non fu la sola « riduzione » operata dall'Art Nouveau. Secondo Gregotti, il ribaltamento rispetto alla tradizione accademica effettuata da questa tendenza trova il proprio centro nella cosa costruita in quanto og­ getto. Anzi sembra che l'idea di oggetto ( e la riduzione di tutta l'architettura ad oggetto) sia la soluzione del problema dei nuovi rapporti con la tecnologia Imposti dalla produzione industriale che entra prepotentemente come parametro di­ retto ( e non più come causa indiretta di fenomeno con cui

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l'architetto ha, rapporto come negli anni precedenti) di con­ trollo progettuale. A sua volta essa è regolata nella produ­ zione da una parola d'ordine: qualità in ogni punto 13• D'altro canto, Argan osserva che proprio con l'Art Nouveau si sosti­ tuisce. al « feticismo del prodotto o della merce» il feticismo del progetto, vale a dire che con questa tendenza nasce il moderno design. In ogni caso, sia che l'architettura si riduca ad oggetto, sia a progetto, sta di fatto che l'Art Nouveau ri­ dusse ogni suo settore figurativo ad un unitario e artificiale stile: ogni opera, architettonica, di arredo, di arte applicata, ogni manifestazione di costume che implicasse il piano vi­ sivo, recava una inconfondibile cifra che, grazie al potere della moda e della divulgazione portò il segno di quel gusto quasi dovunque. Pertanto l'idea di uno stile livellatore e ri­ duttivo e con essa quella di ùn unitario metodo di progetta­ zione per tutti i manufatti nacquero con questa tendenza; e nel suo ambito si registra il primo e più completo fenomeno di industriai design, l'opera cioè di Behrens presso l'AEG. Se le··precedenti osservazioni sono vere, sembra lecito, data la diversa origine rispetto agli altri stili, quelli storica­ mente stratificati, parlare di una riduzione «stilistica» effet­ tuata· dall'Art Nouveau, che darà inizio - altro fattore che si· presenta come una costante irreversibile del Movimento Moderno - alla vasta serie di stili e sottocodici dell'architet­ tura contemporanea, tutti nati come «artificiali» atti di vo­ lontà, con .tutte le aporie .e difficoltà comunicative che questi hanno comportato.· d) La riduzione geometrica

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Il rapporto fra architettura e geometria esiste da sem­ pre e tutto lascia prevedere che gli elementi della geometria, euclidea e non, faranno parte anche in futuro della confor­ mazione architettonica; la geometria, si può dire, con l'ovvia approssimazione, ·che sta all'architettura come il suono sta alla lingua·: si tratta in entrambi i casi di conformare, artico­ lare; modulare i rispettivi elementi. Perché parlare allora di riduzione dell'architettura alla geometria per quanto attiene alle vicende specifiche del Movimento Moderno? Una risposta


si trova già nei punti precedenti: il «ritorno» alle còsiddette essenze implica il ricorso alla geometria come fattore peculiare agli archetipi dell'artificio umano rispetto alle forme della na­ tura; la riduzione dell'architettura alla costruzione comporta automaticamente la presenza del fattore geometrico, anzi le costruzioni ingegneresche, nate dal calcolo e dalla geometria, derivano proprio dalla combinazione di questi e dalla pre­ senza svelata, manifesta, esibita dei ritmi geometrici confor­ mativi delle strutture, la loro valenza estetica o quanto meno il grado di novità e d'«informazione" prodotta dai loro mes­ saggi. Ma si può obiettare: che c'entra la geometria con il punto (c) del nostro elenco, ossia con la riduzione «stilisti­ ca» da noi fatta coincidere con la nascita dell'Art Nouveau? Rispondiamo che questa tendenza, oltre ad instaurare uno stile nel senso suddetto, dà anche l'avvio a quel gusto geome­ trico tipico dell'architettura moderna ritrovabile nelle correnti successive, persino in alcune manifestazioni dell'espressioni­ smo architettonico. Certo quando parliamo di geometrismo in seno all'Art Nouveau non ci riferiamo alle fluenze lineari di Horta o del primo Van de Velde, facenti capo, per intenderci; alla teoria dell'Einfuhlung nella sua più diffusa concezione organicistica e dinamografica. Pensiamo ad un'altra famiglia morfologica che si sviluppò nell'ambito della stessa tenden­ za, ma basata appunto sugli elementi della geometria ele­ mentare e facente capo a quell'Astrazione teorizzata da Wor­ ringer, cui possiamo collegare le opere di Mackintosh, di Hoff­ mann e del primo Wright. Solo ammettendo l'esistenza di questa seconda famiglia morfologica in seno all'Art Nouveau e i suoi legami col binomio teorico Einfuhlung-Astrazione si riconoscerà il passaggio tra Liberty e Protorazionalismo; al­ trimenti bisognerebbe riconoscere fra queste due correnti una notevole soluzione di continuità, contrassegnata dal di� battito interno al Werkbund e dall'opera di Loos, il che è · ' : ·, palesemente semplicistico ed inesatto. Il Protorazionalismo, a sua volta, assume la « riduzione geometrica » e con deliberato atto di volontà - non più a� poggiandosi alla psicologia, ma a: parametri di «economia,.; di socialità, di aderenza ai manufatti e· ai sistemi tecnòlo-

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per · esprimerci. / La geometria è il nostro principio fonda­ mentale. / Dà anche forma ai simboli che rappresentano la perfezione, il divino. E ci procura le sottili soddisfazioni della matematica 14. Ma a parte le testimonianze e.le ragioni storiche dell'espe­ rienza concreta del Movimento Moderno, la « riduzione » alla geometria ha anche imprescindibili aspetti teorici ed analitici. Se da un lato è vero che quello geometrico non è il codice dell'architettura come, sebbene da diverse angolazioni, sosten­ gono Eco e Zevi 15, dall'altro è indubbio che la componente geo­ metrica ha una presenza attiva e vitale nel processo del fare architettonico. Non si tratta di un puro strumento di trascri­ zione, comune a molte altre attività che utilizzano la geome­ tria, come dice Eco; né pensare l'architettura in termini geo­ metrici equivale, come dice Zevi, in pratica ad. ucciderla. Quello della geometria è un fattore · ineliminabile per l'intel­ ligenza del sistema che soggiace al processo dell'architettura (su tale dicotomia diremo meglio e in modo esteso più avan­ ti); in altre parole anche se, per così dire, a cose fatte, la conformazione spaziale trascende il dato. geometrico (pen­ siamo alle opere di Poelzig, di Mendelson, di Scharoun etc.), l'analisi di esse non può darsi senza un riferimento alla geo­ metria, ovvero il principale modo di ridurre il continuo (del messaggio) al discreto (della lingua) attraverso l'individua­ zione di sottosegni specifici. Cosicché, sia per queste ragioni teoriche, sia per la parti­ colare intenzionalità « pratica » · e tipico-ideale che il Movi­ mento Moderno ha conferito alla sua « riduzione·;, geome­ trica, questa va assunta come una delle sue principali inva� rianti, come una norma del suo codice. Le stesse opere che esibiscono una antigeometria vanno quindi sempre riferite a tale codice, sono assimilabili · a deroghe, vivendo ·comunque in rapporto dialettico con .quel fenomeno · che abbiamo defi­ nito, includendovi tutte le possibili motivazioni, come «·riduH. .. ! _.._; zione geometrica ». • �;

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Potremmo distinguere due tipi di -orientaménti econo-

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miei in seno al Movimentò Moderno, che nel primo dopo­ guerra finirono per convergere : uno avente carattere « este­ tico»; l'altro carattere sociologico. La polemica condotta da Loos contro un atteggiamento complesso che egli definisce forse emblematicamente col ter­ mine «ornamento», rientra senz'altro nel primo tipo di « ri­ duzione economica». La semplificazione delle forme, il loro affrancarsi dall'ornamento vale anzitutto come scelta di con­ figurazioni essenziali valide proprio per il gusto, il partito preso della semplicità. Tale gusto si coniuga, è vero, in ter­ mini di lotta allo spreco e al superfluo e acquista quindi un accento morale e conseguentemente una connotazione sociale, ma ciò che muove questo aristocratico architetto radicale è in primo luogo una scelta di natura estetica. Ciò è confer­ mato anzitutto dalle sue opere - tutt'altro che economiche nonostante l'intenzione semplificatrice -, ma emerge anche in alcuni punti del suo celebre articolo Ornamento e delitto. Qui, tra le numerose tirate moralistiche, spuntano i motivi principali della polemica loosiana. Poiché l'ornamento non è più organicamente connesso con la nostra cultura, non è più neppure l'espressione della nostra cultura. L'ornamento che oggi viene prodotto non ha nessun rapporto con noi, non ha in generale nessun rapporto umano, nessun rapporto con l'ordine cosmico. Non è suscettibile di sviluppo 16• Que­ st'ultimo assunto, rivelatosi in un certo senso profetico, con­ ferma la nostra tesi che quando nel Movimento Moderno s'è operata una riduzione, essa è rimasta irreversibile. Ma il passo più esplicito a sostegno della interpetazione « estetica» della semplificazione, della « economia » architettonica, con­ cepita dall'architetto austriaco è quello in cui egli afferma: il difensore dell'ornamento crede che il mio bisogno di sem­ plicità equivalga ad una mortificazione della carne. No, egre­ gio professore della scuola d'arte, io non ml mortifico! Mi piace di più cosl. I piatti spettacolari del secoli passati, che mettono in mostra ogni genere d'ornamenti per far apparire saporiti i pavoni, I fagiani e I gamberi, su di me producono l'effetto contrario. Provo ribrezzo quando passo davanti ad 24 un'esposizione di arte culinaria e penso che dovrei mangiare


queste carcasse di animali ripiene. Io mangio roastbeaf 11. Ap­ pare qui evidente che le motivazioni di Loos sono originate da un impulso diverso da quello che anima Muthesius, il Werkbund, la Sachlichkeit ed altri intendimenti di natura pratica e commerciale. La « riduzione» del Nostro è una scelta ideale, estetica e come ogni altra moderna « riduzione stilistica » riflette un deliberato atto di volontà; il termine Kunstwollen trova da ora in poi la sua più letterale inter­ terpretazione. Ben altro è il senso della « riduzione economica» che il Razionalismo tedesco assunse come programma progettuale ed operativo nel dopoguerra. Com'è noto, per far fronte alla domanda di alloggi di tipo popolare (si preferiva allora usare la dizione esigenze della popolazione industriale) i Gropius, i May, i Klein etc. riducono tutte le esigenze dell'abitazione ad un limitato numero di funzioni, ipotizzate uguali per tutti gli uomini, teoricamente prescindendo dalla loro classe so­ ciale, ma in pratica derivanti dal programma economico che si proponeva in primo luogo di risolvere la richiesta di al­ loggi per una determinata classe · sociale. Ne scaturì, come tutti sanno, quel vasto piano di studi e di realizzazioni incen­ trate sul tema dell'Existenzminimum e con esso un vero e proprio codice progettuale che va dall'elemento più discreto; l'elemento d'arredo, il letto (il valore reale di un alloggio non deve essere commisurato alla superficie, ma al numero dei letti) all'organizzazione funzionale di un ambiente, la cu­ cina, dalla cellula abitativa al quartiere e alla città. · Per gli architetti, osserva Ernst May, l'essenza del pro­ blema è costituita dalla costruzione della singola unità di abitazione, secondo i principi di un concetto moderno di alloggio... oltre a ciò, essi hanno il compito, che · riguarda l'aspetto urbanistico, di Inserire l'Insieme di queste unità di abitazione nel quadro della città, In modo tale che per ogni singola unità vengono create · condizioni ugualmente favo­ revoli 18• Nel commentare questo brano Ayrnonino parla (con qualche forzatura del testo, peraltro legittima in quanto in­ terpretazione attuale della tematica dei razionalisti) di· un processo logico solo in apparenza. Il processo si ai;1lcola... 25


per « sommatoria »: più letti formano un alloggio, più al­ loggi formano un'unità tipologica (edificio), più unità tipolo­ giche • formano un insediamento, più insediamenti « sono » la città 19• L'apparente logicità starebbe nell'aver trascurato tutti i parametri intermedi che si danno nelle varie fasi di tale processo; donde il rilievo che questa sorta di riduzione venne effettuata non per tutti, ma solo nelle zone periferiche, nelle aree residenziali proletarie; · · Il discorso sui punti all'attivo o al passivo del Razionali­ smo tedesco (è fuori dubbio che gli uni prevalgono netta­ mente sugli altri) ci porterebbe fuori dal nostro tema e in particolare dalla dimostrazione della nostra tesL Quel che ci preme qui sottolineare è- l'indiscutibile carattere riduttivo che ebbero la teoria e la prassi architettonica di quegli anni. Nel Razionalismo· tedesco troviamo inglobate le prece­ denti classi di riduzione, di cui ai punti a, b, e, d, con tutte le componenti che ciascuna di esse contiene, ma segnatamente una riduzione di tipo economico-sociale. Al congresso del C.l. A.M. di Francoforte, Gropius affermava: Cosl, partendo dalla vita economica dei popoli, l'idea della razionalizzazione co­ mincia oggi a diventare un grande movimento di pensiero, per il quale il comportamento dell'individuo viene ridotto gradualmente in un rapporto vantaggioso per l'intera comu­ nità, trascendendo il concetto dl rendimento economico a favore di un singolo uomo. Percorrendo la strada della « ra­ tio », si otterrà la coscienza sociale 211• E questo preciso pro­ gramma - che fu in gran parte smentito dalle irrazionalità della storia, ma, come osserva· Argan, che veramente il pro­ getto fosse utopia ed il destino storia possiamo · dirlo sol­ tanto oggi, con il senno di poi 21 :_ non si limitò ad un ge­ nerico enunciato. Economicis a vantaggio, almeno ·presunto, dell'intera· comunità furono tutti i postulati operativi del Ra­ zionalismo: un unitario metodo per ogni settore della -pro­ gettazione; la codificazione di una tipologia che superò ogni altra precedentemente tentata; l'intento di quantificare pochi ottimali prototipi; la conseguente proprietà iterativa dell'ar26 chitettura e del design, ·assunta come parametro qualitativo;


i criteri di standardizzazione, unificazione, prefabbricazione, componibilità che si tradussero o si associarono ad altrettanti fattori lessicali e sintattici .del linguaggio· architettonico; la pianta libera, i cinque punti di Le Corbusier, l'indipendenza della conformazione architettonica dalla struttura portante, la continuità fra spazio interno ed esterno, la scomposizione del volume in piani, la semplificazione massima degli elementi architettonici che unitamente ai già citati principi di combi­ nazione e di iteratività consentì il « salto» di scala, . il pas­ saggio dall'architettura all'urbanistica etc. Non è chi non veda che tutti questi fattori di vario ordine e natura, ma tutti. al­ tresì riconducibili alla conformazione, costituiscono altret­ tante « riduzioni» che associano quella più generale dell'«.eco­ nomia » ad un precisa volontà di stile. Insomma il Raziona­ lismo, ereditando dal classicismo, dall'Illuminismo e dal pen­ siero positivo l'idea della « raison» come facoltà di disporre secondo schemi generalizzabili le conoscenze conseguite 22 e traducendola in un metodo e in un. linguaggio .atto a far fronte alle esigenze della società del tempo, rappresenta il più organico, coerente ed inclusivo tentativo di « riduzione », con tutti i suoi pregi e limiti, prodottosi nella storia dell'ar­ chitettura. A conclusione di questo paragrafo dedicato all'« econo­ mia» come principio riduttivo, dobbiamo far cenno ad un attributo,· quello di « funzionale », che accompagnò costan­ temente la vicenda dell'architettura migliore tra le due guer• re. Certo, quella della funzione fu indubbiamente la princi­ pale categoria « riduttiva » dell'architettura razionalista, ma non al punto da sussumere la nozione stessa di Razionali­ smo, donde il nostro tentativo · di classificarla tra le altre forme di .« riduzione economica ». Come osserva G.. Grassi, molto spesso il funzionàllsmo è stato scelto come la spiega­ zione più ovvia e più certa dell'architettura del razionali• smo; e in ogni caso ha rappresentato ciò ·che il pensiero teo­ rico razionalista esibiva · come più originale ed evidente. .· .· · A me sembra invece che il modo più. logièo per impo­ stare in termini positivi un discorso sul funzionalismo nel pensiero razionalista sia appunto quello di vedere il .rlferi- 27


mento alla funzione come elemento convenzionale nella co­ struzione di una teoria scientifica dell'architettura. La scelta della funzione si spiega proprio nella sua· carat­ teristica di maggiore evidenza rispetto all'architettura, ma li fatto di considerarla come parametro convenzionale ne sta­ bilisce anche il ruolo 23• In altri termini, se il fattore fun­ zionale ebbe una importanza notevole nella metodologia del Razionalismo non ne rappresentò tuttavia la struttura logica che va viceversa rintracciata nello sforzo - di tradizione più antica, nonostante il malinteso rapporto con la storia di codificazione e trasmissione di un sistema di norme, di tipi, di fattori elementari. La componente funzionale non aveva né i precedenti, né l'autonomia logica, né l'esauriente capa­ cità metodologica di operare quella « riduzione » propria al Razionalismo, che invece possedeva i suddetti requisiti e del quale rimase comunque solo una componente. f) La « riduzione » tecnocratica

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Se la presente rassegna fosse un excursus sull'intera vi­ cenda storica dell'architettura moderna, sia pure minimo ed angolato da una visuale riduttiva, dovremmo - poiché alcuni tipi di riduzione descritti coincidono con altrettante ten­ denze - estendere il nostro discorso all'architettura organica, al neoempirismo scandinavo, al neobrutalismo inglese e via via all'architettura informale, neoespressionista, neomonu­ mentale, alla Pop Architecture etc. Ma poiché il nostro in­ tento è diverso, nell'economia del presente scritto, non ci oc­ cuperemo di tali tendenze, le quali o rientrano in fatto di ri­ duzione nelle categorie sopra indicate o poco aggiungono in ogni caso alla nostra tesi che tutto· il Movimento Moderno può intendersi come una vasta « riduzione ». Qualcosa va detto tuttavia sul movimento organico per­ ché, se da un lato esso si è posto rispetto al nostro tema in maniera spesso simile al Razionalismo - tanto che si è sem­ pre parlato di continuità e d'integrazione piuttosto che di una vera opposizione - dall'altro le sue« riduzioni,. hanno avuto un accento ben diverso.


L'architettura centro-europea tra le due guerre, lo ab­ biamo già visto, s'è mossa nella linea del razionalismo clas­ sico, ha esaltato i principi della sua logica interna e ipotiz­ zando un dato assetto sociopolitico, quello socialista, in tutta la vasta e talvolta confusa gamma della parola, ha di fatto ridotto il suo processo a principi-base, tipologie, norme, clas­ sificazioni lessicali e sintattiche. In una parola il Razionali­ smo, oltre a produrre edifici, ha soprattutto prodotto, o ten­ tato di elaborare, teorie; la sua crisi rientra, per così dire, in quella che è stata definita la crisi dell'arte come « scienza europea ». Viceversa, le « riduzioni ,. dell'architettura orga­ nica hanno avuto una chiara matrice empirica, sono state l'espressione degli ideali politici della cultura anglosassone, sono state pragmatiche nel senso migliore del termine e come tali aliene dal produrre teorie generalizzanti. Da qui - e non intendiamo revocare in dubbio l'importanza della lezione wrightiana, né l'influenza che il movimento organico ha avuto per un certo periodo - la minore attualità di questa scuola in un momento come il nostro in cui da più parti si tende ad una rifondazione teorica dell'architettura per far fronte, tra l'altro, al pragmatismo (nell'accezione questa volta nega­ tiva del termine) dell'lnternational Style, che segna la crisi dell'architettura nell'era del consumismo, e all'ancor più pas­ siva « riduzione » tecnologica o, per i suoi noti legami coi gruppi di potere, tecnocratica. Questa, riallacciandosi alla ottocentesca_« riduzione ,. del­ l'architettura alla costruzione, ma senza la carica innovatrice che ciò comportava; riprendendo alla lettera assunti e confor­ mazioni del Razionalismo, ma fuori dal contesto e dalle ipotesi sociopolitiche ·e senza la relativa carica eversiva che esso proponeva, ha ridotto, nel senso che ha sminuito e costretto tutta la precedente vicenda storica dell'architettura nella ba­ nausia costruttiva che tutti conosciamo. :B questa l'architettura in cui la funzione ha praticamente annullato la forma, in cui il potere tecnologico ha consentito il massimo sfrutta­ mento di ogni risorsa, in cui il margine dell'azione proget­ tuale è ridotto quasi a zero, ogni intervento introducendo un errore in un sistema la cui logica non consente alcuna muta-

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zione. Ma· U:danno prodotto da questa «riduzione» tecnocra­ tica non si limita a vanificare in pratica tutto quanto finora pensiamo intorno al complesso termine di progetto, di design - un solo ufficio tecnico statale o privato potendo da solo far· fronte. all'intero fabbisogno di un paese -, non si limita all'evidente deterioramento di città e territorio e alla conse­ guente conformazione di ambienti socialmente alienanti e in definitiva a produrre più edilizia che urbanistica. L'aspetto più preoccupante dell'odierna « realtà » architettonica sta in ciò che la «riduzione» tecnocratica, ponendosi al di sopra delle parti che.confusamente si scontrano in modo impolitico e velleitario, sta imponendo la sua «cultura»: tende cioè, sfruttando miti utopistici da un lato e « ansie di certezza» dall'altro, a proporre sistemi meccanici sempre più perfezio­ nati onde produrre quella che si definisce attualmente inge­ gnerizzazione dell'architettura. Tutti o quasi i tentativi di pro­ gettazione e scientifica» ·che fanno capo all'uso degli stru­ menti elettronici non sono che un. sintomo di questa ridu­ zione dell'architettura all'ingegneria. Altrove abbiamo parlato di una caduta dell'architettura nel novero dei mass media; a qualche anno di distanza quella osservazione ci sembra ottimistica. Sia come sia, gli altri mezzi di comunicazione di massa producono messaggi, manipolati, alterati e persino falsificati, ma pur sempre dei messaggi per i quali prima o poi è possibile una reazione, una controinfor­ mazione. Nel caso dell'architettura il suo messaggio è tal­ mente ridondante e ossessivo da non produrre più alcuna in­ formazione. Esistono certo tentativi di controinformazione architettonica, quelli che consideriamo gli architetti più si­ gnificativi del nostro tempo ci sembrano in ·gran parte con­ trari alla « riduzione tecnocratica» (Kahn addirittura facendo il verso alle ultime opere di Mies ed ai suoi ammiratori); ma non si corre il rischio •di preferire un gruppo di autori ri­ spetto· ad altri applicando . ancora categorie critico-estetiche consumate e comunque inadatte a- fronteggiare la « riduzione tecnocratica»? Riteniamo. che si debba rispondere affermati­ vamente a questo interrogativo e che·occorra sia in sede pro-


gettuale, sia in sede critica, modificare radicalmente le cosid­ dette regole del gioco. In un interessante saggio sulle esperienze più recenti che l'autore, Costantino ·Dardi, chiama la Nuova Architettura esa­ minata in relazione e per differenza col Movimento Moder­ no, vengono individuate tre caratteristiche principali di essa, da assumere nel nostro discorso come altrettanti principi ri­ duttivi: - il ricorso alla « geometria • assunta come significa­ tivo « valore progettuale»; - l'attenzione tesa ad esplorare attraverso la « sezio­ ne • la configurazione dell'oggetto, si che questa si qualifica come « struttura portante • della composizione; - una concezione aperta dello « spazio », topologica­ mente interpretato in funzione delle relazioni che istituisce 24. Dardi spiega il diverso senso che hanno queste inva­ rianti rispetto a quelle analoghe del Movimento Moderno, ma il suo discorso si fonda sulle opere emergenti di Kahn, Tange, Stirling, Lasdun, Quaroni etc. senza dirci «contro» che cosa si muove la Nuova Architettura, qual è la reale con­ dizione dalla quale emergono le suddette opere; in assenza di questo realistico quadro della produzione attuale - e ci rendiamo conto che il saggio ha diversi obiettivi - può sem­ brare che la Nuova Architettura si muova contro il Movi­ mento Moderno piuttosto che, come ci sembra, opponendosi alla « riduzione tecnocratica •· Seguendo il discorso di Dardi le più valide esperienze di-oggi sarebbero riducibili a tre ca­ ratteristiche avendo egli eliminato le altre di carattere ete­ ronomo e puntando tutto l'interesse sul problema della forma. Anche noi sottoscriviamo questo tipo d'impegno e, no­ nostante la puntata contro la semiologia fatta dall'autore, anche noi abbiamo sempre sostenuto che il principale signi­ ficato dell'architettura sta nella sua formatività. Tuttavia, se si vuol combattere la « riduzione tecnologica • è necessario che il discorso sul significato dell'architettura, essendo forse l'unico adatto e possibile ad una-cultura d'opposizione, debba essere diffuso nell'intera sfera sociale, ben oltre la sparuta schiera degli addetti ai lavori; qualunque discorso speciali- 31


stico finisce per giovare all'automatismo tecnocratico. In al­ tri termini, se vogliamo concentrare ogni sforzo sul tema della forma, questa va vista in ciò che reca di significativo sul piano sintagmatico (autonomo) e su quello associativo (eteronomo) - l'importante è dichiarare dì volta in volta di quale significato stiamo parlando -, altrimenti ricadiamo in un formalismo altrettanto nocivo del sociologismo e comun­ que in una cultura a circolo chiuso, non adatta alle società di massa, verso la quale il tecnocrate ha ben altra e « posi­ tiva » presa. Cosicché la politica della cultura architettonica più adatta alla presente condizione ci sembra il tentativo di « ridurre » ciò che resta dopo tante irreversibili « riduzioni » ad una se­ miologia dell'architettura (beninteso con tutta la specificità di questo campo), ossia ad una scienza che per definizione studia la vita ,dei segni nel quadro della vita sociale.

Dalla « riduzione» alla previsione progettuale

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· Tutto il nostro discorso sulla « riduzione » architettonica tende ad un unico obiettivo : fornire un contributo alla teo­ ria della progettazione; e poiché tale discorso presuppone (e si svilupperà nelle pagine che seguono) il costante riferi­ mento alla semiologia strutturale, in questa sede tenteremo di mostrare il ruolo che essa svolge non più in sede d'ana­ lisi del già fatto, non più come metodica da integrare con quella storiografica, ma come strumento di previsione per ciò che è ancora da fare, in una parola la sua utilità nella proget­ tazione architettonica. · Partiamo da un assunto di Hjelmslev che peraltro espri­ me una convinzione diffusa nella moderna epistemologia: «a priori• sembrerebbe generalmente valida la tesi che per ogni «processo» c'è· un e sistema• corrispondente In base a cui il processo può essere analizzato e descritto per mezzo di" un numero limitato di premesse. Bisogna presupporre che qualunque processo possa essere analizzato In un numerò limitato di elementi che ricorrono In varie combinazioni, poi, In base a questa analisi, dovrebbe essere possibile ordinare


questi elementi in classi secondo le loro possibilità di com­ binazione. Dovrebbe inoltre e�sere possibile costruire un cal­ colo generale ed esauriente delle combinazioni possibili. Una storia così fondata dovrebbe innalzarsi sopra il livello di una semplice descrizione primitiva, arrivando a quello di una scienza sistematica, esatta e generalizzante, nella cui teoria tutti gli eventi ( combinazioni possibili di elementi) sono pre­ visti, e le condizioni della loro realizzazione stabilite is. Non crediamo che queste indicazioni siano molto valide per la storiografia come pretende il linguista danese in que­ sto passo che intende porre un'alternativa all'intuizionismo che guida, a suo dire, le discipline umanistiche, di cui la storia risulta la più emblematica. Un evento storico non è riducibile alla combinazione possibile di elementi. Si tratta semmai di trovare una regola di lettura dei passati eventi che possa aiutare a prevedere quelli futuri e siamo evidente• mente in un campo diverso dalla vera e propria storiogra­ fia. Ma se riteniamo inadatte alla storia le indicazioni di Hjelmslev, esse ci sembrano viceversa assai utili nel campo progettuale, ovvero in uno che prevede appunto futuri eventi. Il rapporto tra processo e sistema di cui parla l'autore citato è riferito a quello che in linguistica esiste tra parole e langue, tra messaggio e codice, fra un testo e la struttura sog­ giacente. In linguistica questo codice-sistema-struttura esiste; si tratta di individuarlo anche per l'architettura risolvendo così il punto nodale della sua crisi semantica e più in generale delle sue attuali difficoltà teoriche ed operative. Possediamo già, a nostro avviso, almeno per ciò che con­ cerne l'analisi storico-semiotica, un rapporto che in architettura equivale a quello sistema/processo ed è quello tra stile ed opera. Tuttavia, sia per confermarlo anche in sede proget­ tuale, sia per cogliere ulteriori possibilità operative, tentiamo di ritrovarlo nelle indicazioni fornite dal brano citato. Hjelmslev sostiene che il sistema può ricavarsi dal processo, anzi che questo può ricondursi ad un sistema, grazie ad un'analisi condotta per mezzo di un numero limitato di premesse e all'individuazione di un numero limitato di elementi che ri- 33


corrono in varie combinazioni. Benché premesse ed elementi siano distinti - le une appartengono evidentemente ad un ambito teorico, mentre gli altri all'esperienza concreta del­ l'evento da analizzare nel caso della storiografia, o da preve­ dere nel caso della progettazione - la loro distinzione non è separatezza in quanto tra processo e sistema intercorre una relazione dialettica: non si dà codice senza messaggio e vi­ ceversa. Tuttavia, per motivi d'ordine didascalico, comincia­ mo col porre le premesse al nostro tentativo di « riduzione» architettonica per una teoria progettuale. La prima è che l'architettura, come la lingua, è una forma e non una sostanza. Essa indica anzitutto che non con­ dividiamo, almeno per ciò che attiene alla previsione proget­ tuale di un evento inteso come possibile combinazione di elementi, che il significato dell'architettura sia quello di met­ tere in forma alcune funzioni. Se ciò fosse vero avremmo a parità e costanza di funzione una stessa costante ed indecli­ nabile forma, il che è smentito non solo dall'esperienza sto­ rica, ma anche da quella che è data di riscontrare oggi in un orizzonte sincronico. Riferendoci al concetto di segno, ab­ biamo, com'è noto due diverse concezioni di esso. Secondo alcuni studiosi di semiotica il segno si comporrebbe di tre fat­ tori, che hanno la loro più famosa esemplificazione nel trian­ golo di Ogden e Richards per cui all'angolo sinistro si trova il simbolo (al tempo stesso forma significante e sua imma­ gine acustica), all'angolo centrale, il riferimento (o concetto significato) e all'angolo destro il referente (o cosa nominata). Secondo la concezione saussuriana il segno sarebbe viceversa composto da due soli fattori, il significante ed il significato, una immagine acustica cioè e un concetto, con l'esclusione della cosa nominata o referente o sostanza della lingua, di un sistema cioè la cui pertinenza si limita all'organizzazione formale. Tra le spiegazioni più felici della nozione segnica saussuriana è quella datane da uno storico dell'arte, Cesare Brandi. Il monema, ovvero il segno linguistico o, egli dice,

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se si vuol essere meno esatti, la parola, non ha come signi­ ficato la cosa, ma lo schema preconcettuale della cosa o al più il concetto empirico della cosa; questo schema o con-


cetto tuttavia non è un surrogato della cosa, rappresenta bensì il riassunto gnoseologico della cosa secondo che una determinata società - quella che parla la lingua - l'ha prelevato e sintetizzato dall'esperienza 26• Questo fondamentale chiarimento calza perfettamente con ciò che attiene alla «funzione» in architettura. Posto che essa sia il principale movente dell'architettura - e nessuno può ragionevolmente dubitarne - la funzione non è una generica entità (abitare, lavorare, studiare etc., ovvero azioni che rientrano anche in altri settori), ma appunto parafrasando Brandi, il riassunto gnoseologico di un fenomeno secondo che una determinata società, quella che si riconosce in un dato stile architetto­ nico, _l'ha prelevato e sintetizzato dall'esperienza. Se questo è vero, si spiega il mutare delle forme all'apparente persistere delle funzioni o più esattamente il loro darsi in forme diverse storicamente e sincronicamente, ben oltre l'ingenuo precetto naturalistico, per cui la forma segue la funzione. In altri ter­ mini la funzione entra nella pertinenza del linguaggio archi­ tettonico nella misura in cui si trasforma in una determinata concezione, in un determinato modo di considerare il pro­ blema dell'abitare, del lavorare, dello studiare etc. Gli studi di Klein, ad esempio, che sembrano dettati esclusivamente dalla funzione distributiva dei locali per «abitare», sono in realtà delle trasformazioni di tale funzione secondo il con­ cetto, il proposito, l'intenzione, il programma etc. della mas­ sima economia, della « riduzione » ad un tipo presunto og­ gettivo ed ottimale, in una parola al senso dell'Existenzmini­ mum. Questo è il significato del contributo suo e del Raziona­ lismo in generale in fatto d'abitazione, non quello di far stare nel miglior modo possibile cinque persone in un alloggio, ossia di una cosa che sarà tradotta in cento altre lingue, a seconda dei tempi e dei luoghi. Accettando questa nostra interpretazione bisogna dedurre che la funzione architetto­ nica, comunemente intesa, e quasi l'equivalente del referente di cui parlano i linguisti. Operata questa riduzione della funzione, nel senso che riteniamo più corretto, o meglio ri­ condotta alla forma segnica dove resta inglobata tra gli altri concetti della componente «significato », abbiamo probabil-

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mente posto una premessa che omogenizza quegli elementi che ritroveremo nel processo. Una seconda indispensabile premessa per l'individuazione d'un sistema, d'un codice per l'odierno fare architettonico, va posta nel ridimensionare la pretesa che l'architettura da sola modifichi il mondo o quanto meno che la cultura archi­ tettonica sia in grado di cogliere e potenzialmente soddi­ sfare ogni istanza reale. Ciò non equivale affatto a depoliti­ cizzare l'architettura; anzi ad una sua più efficace e perti­ nente azione politica: le maggiori velleità ideologiche si tra­ ducono quasi sempre nella più acritica disponibilità. Si tratta in questo caso di una « riduzione » da effettuare in ordine alle scelte e ai comportamenti. S'è parlato, ora con ironia, ora seriamente di « ansia di certezza » per quanto attiene ad una esigenza diffusa in al­ cuni settori della moderna ricerca scientifica. Uno dei motivi del successo dello strutturalismo sta in ciò che, come scrive Starobinski, anche quando esamina « sistemi» o « organi­ smi» malati (che hanno anch'essi la loro struttura propria), esso suppone, da parte dell'osservatore, una scommessa in favore del senso, una opzione per l'intelligibilità. Lo struttu­ ralismo è una confutazione della facile drammaturgia del­ l'assurdo 27• Ciò evidentemente quando non si limita ad una presa di posizione o ad una istanza psicologica, ma si tra­ duce in una concreta spinta metodologica. Dal canto suo G. Grassi scrive: esigenza di certezza, generalità, elementi costanti, norme: tali sono appunto le esigenze tecniche del « pensiero deduttivo». Ad esse corrispondono: conoscenza ordinata, classificazione, manualistica, trattatistica. Ed è an• che evidente che in questo senso l'atteggiamento razionali­ stico, proprio per quella caratteristica « limitazione » che esso esibisce sul piano metodico di fronte ad una ipotetica possibilità di cogliere la realtà in tutta la sua complessità, ha coinciso li più delle volte con un determinato tipo di « classicismo » 28. Non sottoscriviamo tutte le tesi contenute nell'intelligente libro La costruzione logica dell'architettura, donde abbiamo 36 tratto il brano citato, ma a molte altre, come quelle conte-


nute in quest'ultimo, toccante peraltro il tema della « ridu­ zione», diamo la nostra completa adesione. Certo, mai come oggi, a meno di non trarre vitalistico stimolo dalla confusione dilagante e in certi casi addirittura di servirsene, si avverte l'esigenza di classificazioni, tipolo­ gie, codici, autolimitazioni o appunto, come nel nostro caso di « riduzione» strutturale. Del resto tutta la moderna lette­ ratura architettonica, ove si eccettui quella storica di vec­ chio stampo, è dichiaratamente o meno, vuoi che si usi il pro­ prio cervello, vuoi quello elettronico, alla ricerca affannosa di questi parametri normativi che, per paradossale che possa sembrare sono più utili alla « rivoluzione», che deve inven­ tarli ed autodisciplinarsi, piuttosto che alla« conservazione», cui risultano più comodi i vecchi decreti e/o lo spontaneismo intuizionistico. Tuttavia le leggi, tipologie e classificazioni recentemente proposte o risultano estrinseche all'architet­ tura (il dilettantismo sociologico) oppure, come nel libro so­ pramenzionato, essendo ricavate dalla stessa logica del fare architettonico in un quadro che rischia di essere metastorico, sono appunto tautologiche, attributo che non consideriamo nell'accezione positiva di cui parla il Grassi. Detto diversa­ mente, siamo dell'opinione che forse da sempre, ma certa­ mente nella moderna epistemologia non esiste alcuna scienza tanto autonoma e completa da poter prescindere da qualun­ que riferimento o modello estraneo ad essa. Ciò vale eviden­ temente anche per l'architettura. Peraltro, tra i vari signi­ ficati del termine « riduzione » sta proprio quello per cui si adottano per un determinato settore d'indagine leggi e criteri derivanti da un altro, ove se ne ravvisi l'economia e l'utilità. Diciamo questo per difendere la nostra prospettiva semiotica, che, se da un lato si rifà al modello della linguistica strut­ turale, dall'altro lo integra con interpretazioni prettamente figurative ed architettoniche quali la Kunsttheorie fiedleriana e segnatamente la Raumgestaltung di Schmarsow, senza par­ lare della logica propria alla esperienza storica dell'architet­ tura. Riteniamo cioè che solo con la sintesi dello specifico con l'aspecifico, ma tuttavia ricondotto al primo, si possa indi-

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viduare un sistema evitando il rischio di ricadere nelle tau­ tologie del classicismo razionalista. Anticipando una conclusione possiamo affermare che dalla nostra prospettiva di semiologia architettonica si rende assai probabile uno scandaglio che superi le precedenti clas­ sificazioni e tipologie per forme e funzioni di organismi ar­ chitettonici già conformati; ovvero lo studio di processi, cioè ancora le fabbriche, che costituiscono già dei messaggi, risol­ vendosi le relative codificazioni in codificazioni di tipi di mes­ saggi. Operando invece sui segni e sottosegni, ci poniamo nella condizione del codice-lingua che, come osserva Eco, mette in forma un sistema di relazioni possibili dalle quali si possono generare infiniti messaggi 29• Recentemente, proprio occupandosi del nostro primo saggio sulla «riduzione» culturale, Zevi ha scritto: il pro­ blema non consente evasioni: o si compie la riduzione dai testi reali alla lingua, oppure non la si compie per tema di cadere nell'accademia. Il movimento moderno ha rinunciato fini qui a sistematizzare la propria lingua, nella fiducia che i testi bastassero. Oggi siamo costretti a constatare che tale fiducia era illusoria. Il passaggio storia-progettazione deve essere mediato dalla lingua, pena la non comunicazione... Non si tratta di ridurre il numero dei testi (proposta da noi avanzata in verità come esempio di riduzione storiografica in campo didattico ed opportunamente motivata) ma di pas­ sare dai testi alla lingua, dai capolavori ad un lessico, ad una grammatica e ad una sintassi comprensibili a tutti, architetti e pubblico, attraverso la mediazione della critica o anche senza di essa 30• L'esigenza è evidentemente comune a quella da noi avan­ zata da tempo, non così la proposta in quanto, a parte l'as­ sunto che il Movimento Moderno sia stato indifferente alla sistematizzazione del suo codice, che non riteniamo esatto, Zevi spera ancora storicisticamente che dai capolavori si possa ricavare un codice. Questi notoriamente segnano piut­ tosto i punti di rottura della lingua, non certo il grado della sua convenzione sociale. Peraltro, a voler restare nella logica di derivare un codice dalle opere, sarà necessario ricercarlo


in quelle che in altra sede abbiamo definito emblematiche poiché contengono, per così dire, tracce del codice stesso. Inoltre Zevi rileva la mancata istituzione di un codice del­ l'architettura contemporanea presupponendo che ci siano noti i codici relativi ad altri periodi storici e che quindi ci sia nota la natura stessa dell'organizzazione strutturale della lin­ gua architettonica. In realtà, ove si eccettuino il codice clas­ sicistico - che poi era un codice per così dire, «storico» e una determinata accezione del termine «stile» (anch'essa ancora in fase di elaborazione teorica), non è stata finora scandagliato il sistema, l'organizzazione strutturale dell'archi­ tettura, ma nel migliore dei casi, classificato, periodizzato, suddiviso per grandi unità, l'insieme del patrimonio archi­ tetonico; in altre parole non si è studiato il sistema quanto il processo. Ci resta, prima di tentare la codificazione della mo­ derna lingua architettonica, da precisare meglio «l'universo del discorso » proprio all'architettura. Lo stesso Zevi, lo ab­ biamo già ricordato, ha contribuito con la sua concezione della spazialità interna a definire lo specifico dell'architet­ tura, ma per procedere ad una completa codificazione del linguaggio architettonico, di quello spazio vanno individuate non tanto la valenze poetiche e nemmeno quelle semantico­ culturali, in senso lato, bensì tutti i suoi elementi costitutivi e le loro articolazioni. Hjelmslev, come s'è visto, dice che qualunque processo può essere analizzato mediante un numero limitato di ele­ menti che ricorrono in varie combinazioni ed evidentemente pensa a quelli della linguistica; quali sono quelli peculiari ad un processo architettonico? Nei nostri precedenti studi e in uno più completo di pros­ sima pubblicazione 31, abbiamo tentato di individuarli, definirli e classificarli. Partendo dal riconoscimento che lo spe­ cifico dell'architettura è la sua conformazione spaziale, con­ traddistinta da un vuoto agibile fisicamente e/o virtualmente e da un involucro che lo delimita, più esattamente da uno spazio incorporato e da uno incorporante, abbiamo definito il segno architettonico come l'unità minima dotata di spazio interno, ovvero l'unione di due componenti: il «significato »

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coincidente appunto con lo spazio interno e il « significante » coincidente con lo spazio esterno dell'architettura (e non al­ l'architettura), quest'ultimo rientrando nella definizione del segno urbanistico. Una volta individuato il segno architetto­ nico, abbiamo definito i sottosegni (pianta, pareti, sezioni, aperture, prospetti, coperture etc.) e trovato i corrispondenti architettonici di altrettanti temi linguistici: il binomio con­ tinuità-discrezione, il grado di arbitrarietà dei segni, quello della loro articolazione, la dialettica tra codice e messaggio etc. Abbiamo insomma organizzato un intero sistema derivan­ dolo, come già s'è sopra accennato, dalle integrazione di as­ sunti generali propri all'architettura e alle arti visive (Pura visibilità, Raumgestaltung, Einfilhlung etc.) con quelli della linguistica strutturale. Tale sistema ci ha consentito di ef­ fettuare una serie di « letture » semiologiche di opere appar­ tenenti a diversi periodi storici, rilevando - almeno ce lo auguriamo - una capacità descrittiva ed interpretativa di ampio raggio. Ora, ammesso che i nostri precedenti studi abbiano indi­ viduato, grazie a quel sistema, un metodo analitico, resta an­ cora da verificare l'incidenza e l'utilità di esso sulla progetta­ zione e sull'odierno .fare architettonico. In altri termini, po­ sto che si sia colto, o almeno contribuito a definire, la strut­ tura generale del linguaggio architettonico, si tratta ora di studiare il modo per « parlare » ed insegnare la lingua ar­ chitettonica del nostro tempo. A tal proposito avanziamo, ba­ sandoci anche sulle riflessioni relative al tema della « ridu­ zione », una proposta per l'individuazione di un codice pro­ gettuale contemporaneo. Assunta l'intera esperienza dell'architettura moderna - il patrimonio delle opere, ossia la storia; le varie sistemazioni, le poetiche, i programmi, le intenzioni, ossia la teoria; la let­ teratura critica relativa ad entrambi i fattori precedenti, os­ sia la storiografia - come un unitario processo, se saremo in grado di riconoscere, di « costruire », di ipotizzare il cor­ rispondente sistema avremo il codice-stile-lingua che cerchia­ mo. In particolare, poiché, se non tutto, la gran parte con40 siste nell'operare le opportune riduzioni, nell'individuare in


primo luogo un limitato numero di invarianti, nell'ipotizzare la classificazione, nello sperimentare la combinazione, nel pre­ vederne la possibilità di tradursi in eventi, arrivando appunto ad una organizzazione esatta, sistematica e generalizzante della progettazione, sarà necessario ribaltare il principale caposaldo del metodo storicistico. Com'è noto, questo si basa sulla ricerca dell'individuale, dell'unico, dell'irripetibile. Vice­ versa, il procedimento che proponiamo (evidentemente solo operativo, « finzionistico », tipico-ideale) postula che la siste­ mazione di una lingua architettonica debba basarsi sulla ri­ cerca delle invarianti, dei caratteri comuni e costanti ritro­ vabili in opere, poetiche e teorie tra loro differenti. In altre parole bisogna tentare di cogliere non ciò che distingue le opere dei maestri, o comunque quelle che nella vicenda ar­ chitettonica contemporanea hanno per noi un qualunque va­ lore-interesse, ma essenzialmente ciò che le accomuna. Emer­ geranno tipi morfologici, tipi sintattici, tipi semantici, tipi di proporzionamento etc.; definiti usi di fattori conformativi quali la symmetria, il rapporto interno-esterno, quello ar­ tificio-natura, quello regola-caso etc.; particolari « meccani­ smi» predisposti per determinati effetti funzionali, compor­ tamentistici, psicologici etc.; persino definiti schemi icono­ grafici. Proponiamo dunque una tipologia formale? Si, ma più esattamente una tipologia di elementi costitutive delle forme; non tanto dei segni quanto dei fattori in cui essi si artico­ lano e una tipologia delle relative regole combinatorie. Pen­ siamo, ovviamente con larghissima approssimazione ma non metaforicamente, ad un alfabeto, ad un lessico, ad una sin° tassi dell'architettura. Il parlare di questi fattori richiede un richiamo a quanto abbiamo osservato in altra sede. Anzitutto abbiamo soste­ nuto che un codice architettonico risulterà tanto più utile operativamente quanto più discreti saranno i tratti che lo compongono; paragoniamo quest'ultimi (i segmenti commen­ surabili verticali, orizzontali, obliqui, curvilinei etc., coi quali si progetta) ad un alfabeto. Ancora in altra sede abbiamo visto che il codice architettonico non si basa sui segni ma 41


sui sottosegni o « figure» (piante, sezioni, pareti etc.). E qui sta la maggiore differenza tra il codice della lingua e quello dell'architettura, dove nel primo ogni parola è già un segno composto di significante e significato, mentre nel secondo caso, non essendoci corrispondenza tra la parola e alcun fat­ tore semiotico-architettonico per la diversa articolazione dei due sistemi, i sottosegni non equivalgono alle parole, perché mancano di spazio interno e quindi della componente « si­ gnificato». Ciononostante essi hanno una valenza semantica, donde la liceità di paragonare, con le debite differenze spe­ cifiche dei due sistemi, il lessico linguistico a quello architet­ tonico. Infine sono codificabili le regole combinatorie di tali sottosegni lessicali; il codice classico ne è pieno : disposi­ zione degli elementi dell'« ordine»; posizione di un ordine ri­ spetto ad un altro; criteri posizionali per cui gli elementi più robusti sotengono, o fingono di sostenere, quelli più leggeri; unione colonne-architrave e pilastri-arco; modi di raccordare una superficie piana con una copertura a cupola etc. Ma an­ che il codice--stile del nostro tempo è ricco di regole combi­ natorie: i cinque punti di Le Corbusier ( o meglio il princi­ pio che li lega); le varie interpretazioni della pianta libera; la sezione assunta come sottosegno-guida, ovvero come figura che determina l'iterazione dei sottosegni, dei segni e addi­ rittura dei sistemi segnici etc. A questo punto abbiamo quanto basta per poter dire di aver individuato, sia pure in parte e ovviamente con l'ap­ prossimazione di una proposta teorica mancante ancora della opportuna verifica sperimentale, alcuni fattori, le relative re-­ gole combinatorie e in una parola il « meccanismo» del si­ stema soggiante al processo. Per concludere, premesso che tutta l'esperienza storica del Movimento Moderno costituisca per se stessa una grande « riduzione » rispetto al linguaggio architettonico precedente, individuabile in una serie di invarianti tipologiche, ovvero attraverso una classificazione di forme per tipi e funzioni; premesso che grazie alla semiologia architettonica siamo in grado di ulteriormente « ridurre », scomporre, classificare si42 sterni segnici, segni e sottosegni, di individuare un codice nel


quale è possibile cogliere e istituzionalizzare una sorta di al­ fabeto, di lessico e di sintassi architettonica, cioè operare sui fattori e sulle relative regole combinatorie, che hanno una valenza semantica attuale, ovvero un valore d'uso nel quadro dell'odierna vita sociale, possiamo avanzare tre ipotesi sulla utilizzazione della nostra prospettiva metodologica: 1) Intendere le suddette indicazioni e i nostri prece­ denti studi come un contributo alla definizione di un codice per « parlare correttamente » la lingua architettonica del no­ stro tempo, ovvero imparare un lessico e una sintassi per poi conformare, nel modo più vario ed imprevedibile, fabbriche­ messaggi. 2) In un quadro più ambizioso, ma non da trascurare dal momento che molti ritengono di poterlo attuare ex ma­ china, pensare da un codice architettonico a tal punto for­ malizzato da rendere prevedibile e generalizzabile la confor­ mazione di qualsiasi evento. Entrerebbero in gioco leggi delle prevedibilità e processi stocastici, ma nonostante le perples­ sità per questi metodi, il fenomeno non ci sorprenderebbe. In campo scientifico esistono precedenti per cui, in base ad alcune teorie, s'è riuscito a prevedere il posto occupato da un elemento, da un processo e da una stessa branca disci­ plinare prima ancora della loro materiale scoperta e istitu­ zione. Né mancano casi di esatta previsione in architettura: il committente di un edificio rinascimentale a tre piani, sa­ peva esattamente finché vigevano alcune norme, che l'archi­ tetto avrebbe disposto in successione gli ordini dorico, jo­ nico e corinzio; tanto per citare il più semplice caso di pre­ visione linguistico-architettonica. 3) Considerare l'istituzione di codici, norme e leggi co­ me quella di un quid che si pone proprio per incentivarne un'alternativa dialettica, per sollecitare, in una società più libera e creativa, tante fantastiche deroghe quanti sono gli atti di parole, ogni fabbrica dandosi come il più originale ed inedito messaggio. Ma anche in questa utopistica prospet­ tiva, dove l'arte si pone come regola assoluta, non c'è dubbio che la sua comunicazione e socialità dovranno essere sem-

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pre garantite da una sua ,e" riduzione ,. ad un corpo di regole, di convenzioni e di aspettative. In ognuno dei casi e negli altri ancora ipotizzabili, se ri­ mane incerto il punto d'arrivo, ciò non implica affatto che si debba continuare ad ignorare il punto di partenza, le varie fasi del processo e le corrispondenti parti del sistema. In altri termini, se non sappiamo come e chi vincerà, dobbiamo a tutti i costi conoscere in partenza le regole del gioco. 1

A.

LAI.ANDE, Dizionario critico di filosofia,

p. 754. 2 Ibidem.

ISEDI, Milano, 1971,

3 G. GRASSI, La costruzione logica della architettura, Marsilio Edi­ tori, Padova, 1%7, PP- 54-55.

Ibidem, p. 58. s S. GIEDION, Breviario di architettura, Garzanti, Milano, 1%1, pp.

4

31-32.

Ibidem, p. 32. 1 Ibidem, p. 42. a R. DE Fusco, Arcltitettura come mass medium, Dedalo libri, Bari, 6

1%7.

9 B. ZEVI, Storia dell'architettura moderna, Einaudi, Torino, 1950, pp. 52-56. 10 G. C. ARGAN, L'arte moderna 1770/1970, Sansoni, Firenze, 1970, pp. 324-325. Il H. SEDLMAYR, La rivoluzione dell'arte moderna, Garzanti, Milano, 1958, pp. 17-18. 12 Cfr. voce «esperanto• del DEVoTo-Ou, Dizionario della lingua ita­

liana.

Il

V. GREGOTII, Il territorio dell'architettura, Feltrinelli, Milano,

1%6, p. 39.

LE C0RBUSIER, Urbanistica, Milano, 1%7, p. 11. 1s Cfr. l'editoriale di B. ZEvI, Verso una semiologia architettonica 14

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in « L'architettura, cronache e storia• n. 147. Alla stessa tematica Zevi dedica altri editoriali: Alla ricerca di un «codice» per l'architet• tura in e L'a. •• n. 145; Povertà della -/iloso-{ia architettonica in « L'a.•, n. 146 e in riferimento al tema da noi proposto sul n. 23 di « Op. cit.• cfr. dello stesso autore La « riduzione• culturale in architettura, in « L'a. •, n. 198 e Invito alla ricerca linguistica, in « L'a. •. n. 199. 16 A. Loos, Decorazione e delitto in U. C0NRADS, Manifesti e pro­ grammi per l'architettura del XX secolo, Vallecchi-Centro Di, Firenze 1970, p. 16. 11 Ibidem, p. 17. 18 E. MAY, L'alloggio per il livello minimo di vita, in L'abitazione razionale, Atti dei congressi C.1.A.M. 1929-1930 a cura di C. Aymonino, Marsilio Editori, Padova 1971, p. 100. 19 C. AYM0NIN0, I congressi di Francoforte (1929) e di Bruxelles (1930) in L'abitazione razionale cit., p. 82. 20 W. GROPIUS, I presupposti sociologici dell'alloggio minimo (per la popolazione industriale urbana), in L'abitazione razionale, cit., p. 103. 21 G. C, ARGAN, Op. cii., p. 450.


22 G. GRASSI, Op. cit., p. 55. 23 Ibidem, pp. 61-62. 24 C. DARDI, Il gioco sapiente, Marsilio editori, Padova, 1971, p. 171. 25 L. HmLMSLEV, / fondamenti della teoria del linguaggio, Einaudi, Torino, 1968, pp. 11-12. 26 C. BRANDI, Struttura e architettura, Einaudi, Torino, 1967, p. 38. 21 J. Sr,1RODJNSKI, nell'inchiesta Strutturalismo e critica a cura di C. Segre nel Catalogo generale de li Saggiatore, 1965, p. XIX. 2s G. GRASSI, Op. cii., p. 23. 29 U. Eco, La struttura assente, Bompiani, Milano, 1968, p. 224. JO B. ZEVI, La « riduzione • culturale in architettura, cit. li R. DE Fusco, Segni, storia e progetto dell'architettura, Laterza, Bari, 1973: la parte conclusiva del presente articolo corrisponde a quella che chiude il capitolo « Il codice dell'architettura• del voi. ci­ tato, di prossima pubblicazione.

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Commento alla «riduzione» culturale* GUIDO MORPURGO-TAGLIABUE

Il problema proposto non può non destare interesse: è in questione il procedimento, il priem della cultura. E anche il modo come tale procedimento è stato esemplificato dagli Autori - prendendo in esame il compito riduttivo della cri­ tica stilistica - penso che debba trovare consenso, malgrado non sia stato portato a fondo. Nel nostro caso, in particolare, non potremmo rifiutarlo: con meravigliata soddisfazione vi abbiamo trovato impiegate categorie che (salvo un certo vi­ zio veniale di banausia nell'uso del modello linguistico) sono le medesime, o molto simili a quelle da noi usate assai prima che tale moda si diffondesse 1; ma di ciò non è da parlare in questa sede, il discorso sulla riduzione culturale travali­ cando di parecchio l'ambito della critica d'arte: in queste pagine considereremo quindi il problema generale della cul­ tura, non della cultura artistica. Infine, anche la prospettiva nella quale l'argomento è stato inquadrato non manca di sug­ gestione: è un orizzonte storicistico. Ogni epoca, secondo gli Autori, presenta un suo fenomeno di ' riduzione culturale ', corrispondente al processo di evoluzione sociale di cui par­ tecipa; ciò posto, sembra di veder ripetersi oggi una specie di ricorso delle condizioni e delle aspirazioni del secolo de­ cimoquinto, allorché gli umanisti, reagendo al privilegio della cultura scolastica, auspicavano e promuovevano una più dif-

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"' L'articolo si riferisce alla rassegna pubblicata nel n. 23 (gennaio 1972) di « Op. cit. ». Nonostante i vari punti di dissenso, siamo lieti di pubblicare questo scritto augurandoci che gli altri studiosi invitati vogliano intervenire nel dibattito.


fusa cultura laica e borghese; allo stesso modo, in confronto della cultura borghese oggi viene auspicata una più vasta e rinnovata partecipazione popolare; quella proliferante, que­ sta riduttiva. Partiamo di qui. Riflettendoci, sembra infatti che quest'ultima riduzione non sia semplicemente una riduzione culturale, ma una nuova riduzione, formalmente diversa: non soltanto nel senso che ogni riduzione culturale è, per i suoi contenuti, sempre nuova di fronte alle precedenti, ma nel senso che potrebbe trat­ tarsi in questo caso di una riduzione tanto diversa, tanto ri­ duttiva, da non essere più culturale. In altri termini, il carat­ tere di ricorso, di ritorno, di ciclo, proprio del fenomeno della riduzione culturale 2, non si accorda con l'innovazione formale che il nuovo episodio comporta, come viene prospet­ tato dagli Autori; e può ispirare un dubbio fondamentale. Ogni cultura è riduttiva: si costituisce per selezione, e come tale promuove canoni, tipi, modelli, schemi, tutte op­ zioni di una classe egemone. La ' riduzione ' che oggi si pro­ spetta invece è diversa. Le precedenti erano selezioni di con­ tenuti e di forme di cultura in corrispondenza di una sele­ zione di soggetti, ossia di fruitori, di pubblico; questa invece viene concepita come una selezione di contenuti in vista di una non-selezione dei soggetti: per un pubblico esteso a to­ talità. Il privilegio qui viene capovolto; domina l'egemonia della massa su qualsiasi élite: come voi dite, « la selezione è un vantaggio della classe che storicamente tende a preva­ lere» (pp. 38, 42); e per comodo possiamo considerare la massa come totalità (ciò che non è), e le altre parti come quantitativamente trascurabili. Ovvio che, se le cose stessero a questo modo, non solle­ verebbero alcun dubbio, ma piuttosto una certezza: di tro­ varci di fronte a una proposta balorda. E infatti gli Autori non la intendono semplicemente così. La cultura di massa - essi ritengono - è una 'riduzione ' già in atto, che non ha certo bisogno di venire promossa. Essi vogliono promuovere « una cultura di massa criticamente avvertita», su base storicistica (p. 46). L'attuale cultura di massa è una cultura 47


aggregata, disorganica; in sua vece vogliono una cultura strutturata, organica, ridimensionata sì al livello della mas­ sa, ma capace di dirigerla secondo i suoi propri interessi. Sante intenzioni. Una cultura storicistica e critica: due attributi che, specie allorché vengono da Napoli, non pos­ sono non far pensare a un precedente illustre; quasi un omaggio alla memoria di B. Croce, di cui ricorre il venten­ nale della morte. Se c'è stata una 'riduzione' per eccellenza nella nostra cultura, condotta con metodo e con successo du­ rante la prima metà del secolo, e i cui effetti si risentono an• cara, è stata l'opera critica e storiografica crociana, o detto più semplicemente, « La Critica ». Possiamo riconoscervi la 'riduzione' di alcuni dei maggiori motivi della cultura sullo scorcio del secolo: il motivo decadentistico della primitività e della liricità, il motivo idealistico dell'astrattezza dell'intel­ letto-tecnico contrapposto alla concretezza della ragione-sto­ rica, il motivo empiristico della convenzionalità-pragmatica della scienza contrapposta alla genuinità dell'esperienza, il motivo positivistico della primalità della ragione politica sulla ragione giuridica, etc:; motivi che un forte talento riuscì a comporre in un insieme tanto completo da poter essere ac­ cusato di sincretismo. Con gli anni le diverse soluzioni ven­ nero sempre più contestate, anche perché talora provocavano esse stesse le problematiche capaci di metterle in discussio­ ne. La coerenza del sistema apparve sempre meno persuasiva, appunto perché il nascere dei nuovi problemi la rendeva sempre meno completa e stringente; ma soprattutto perché mutava il pubblico al quale era rivolta. Il pensiero crociano era indiri�to alla borghesia colta del primo Novecento; ora quella borghesia era quasi scomparsa, e un altro tipo di bor­ ghesia era sottentrato, che richiedeva diverse operazioni cul­ turali, nuove 'riduzioni'. Le tante dottrine che hanno tenuto il campo in questi ultimi decenni, in Italia e altrove, sono stati tentativi in questo senso, talvolta più originali, ma meno comprensivi. Il fenomeno di 'riduzione ' non è dunque un fenomeno impreveduto. Perché allora gli Autori ce lo presentano in 48 forma di programma? A prima vista si potrebbe dire: perché


l'operazione, oggi, sembra pm difficile e capitale. Sul piano della scienza la differenziazione e la specializzazione sono sconfinate; e nel campo artistico la genuinità creativa sem­ bra essersi fatta incompatibile con ogni istituzionalizzazione, e pertanto incapace di comandare al gusto: l'arte si è identi­ ficata con la sperimentazione, o avanguardia, ossia con lin­ guaggi incapaci di tradursi in codici ( quando non in codici in­ capaci di realizzarsi in linguaggi); la riduzione invece è pro­ prio una selezione realizzatrice e codificatrice. Ma direi che anche queste difficoltà si riducono all'altra, già ventilata so­ pra: la selezione dell'oggetto culturale non corrisponde più a una selezione del soggetto-pubblico. È facile immaginare che cosa si può ribattere (e sarà infatti la piattaforma degli Autori): che proprio la selezione della materia culturale provocherà una trasformazione radi­ cale del pubblico: non vi sarà più separazione tra pubblico incolto e pubblico colto, ma conversione del pubblico in­ colto in pubblico colto. L'ostacolo delle differenze sociali sarà scavalcato. Proviamo a accettare questa tesi. Che cosa significa? Si offrono tre alternative. Poiché la riduzione non viene più concepita in funzione di una classe per sé selezionatrice (coi suoi gusti e pregiudizi), ma in funzione di un pubblico totale, indistinto, in tal caso: A) o non avremo riduzione; B) o avremo una riduzione a livello elementare (essen­ do per lo più il grado delle scelte inversamente proporzionale all'estensione del pubblico); C) o avremo una riduzione condizionata non tanto da chi l'accoglie, ma da chi la propone; non da chi la fruisce, ma da chi la promuove. A) La prima è una soluzione autoritaria e machiavellica. La massa rimanga utilmente ignorante, e la cultura sia ri­ stretta a una minoranza di tecnici. B) La seconda soluzione soddisferà qualche roussoiano in ritardo. Non è male che la cultura della massa si arresti a un livello elementare: quanto il popolo perderà in intelli­ genza, tanto acquisterà in carattere. 49


C) L'ultima è la soluzione più realistica, ma non è certo neppure essa ottimistica; comunque l'esame può partire di qui. Tutte le riflessioni che quest'ultima ipotesi ispira si pos­ sono. riassumere in una. Ogni produzione è un processo di scambio, è un'offerta per una domanda; orbene, nel nostro caso la selezione operata mercé i mass media corrisponde al più recente processo di scambio, all'ultimo stadio dell'eco­ nomia (tanto capitalistica che comunistica): dove non è pii1 la domanda che comanda l'offerta, ma l'offerta che governa la domanda 3• Nessuno nega la natura dialettica, ossia l'intera­ zione domanda-offerta, del mercato; ciò non toglie che buona parte della produzione e della distribuzione moderna dei beni oscilli tra il monopolio e l'oligopolio. Questo fatto non an­ nulla, anche nella cultura, il carattere dialettico del rapporto produzione-consumo (geniale scoperta recente del sig. Morin, citato dagli Autori), ma nemmeno annulla l'eterodirezione degli interessi del consumatore da parte del produttore. Non essendovi altra scelta che tra il monopolio e l'oligopolio, l'unico modo di essere ottimisti nel campo dei mass media consisterà nell'essere moderatamente fiduciosi nel secondo termine del dilemma, visto che non si può esserlo nel primo. Inutile che l'Intellettuale si copra gli occhi e si chiuda le orecchie e si turi il naso : egli sa benissimo che cosa ciò si­ gnifica, ed è perfettamente d'accordo con noi. Questo è quan­ to c'è da dire, per il momento; sul punto C. Gli Autori invece, forse per i motivi accennati, lo hanno totalmente ignorato, e hanno puntato tutto sul punto B. Na­ turalmente corretto. Sembra infatti che, con un'opportuna in­ terpretazione, esso possa offrire una uscita di soccorso, e sod­ disfare le esigenze più ottimistiche. In che modo? La dialetticità del rapporto domanda-offerta - questo è il loro argomento - potrebbe venir ristabilita dal vigore critico della domanda. Ma quale critica? Fare affidamento su una disposizione della cultura di massa del tipo al quale gli Autori accennano, alla Benjamin, di una « ricezione distrat­ ta », ci sembra fuori luogo. Una tale ricezione appartiene. 50 tanto alla cultura di massa quanto alla cultura di élite; varia


solo l'oggetto. Che la stazione di Firenze o il grattacielo di Diisseldorf piacciano ai tassisti come agli architetti, ai ciompi e ai magnati di quelle città non comporta nessun impegno di manipolazione della cultura; che invece il tassista e l'ar­ chitetto discutano insieme con raffinata competenza a propo­ sito della « mezz'ala » o del « battitore libero» della 'Juven­ tus ' o del ' Borussia ', è un caso di valori-interessi ben mani­ polati, anche se i messaggi dello spettacolo sportivo e il loro imballaggio pubblicistico sono recepiti con una notevole ca­ pacità critica (quella che sembra aprire il cuore ai nostri Au­ tori, pp. 45-46) e provengono da oligopoli informativi abba­ stanza liberamente articolati. Abbiamo cioè qui un caso in cui né l'estensione dell'interesse né il suo modo critico ne fanno cultura; viceversa nel caso precedente la diffusione dell'interesse a livello anche popolare non ne escludeva il ca­ rattere culturale, malgrado lo scarso impegno critico. In conclusione, in una cultura di massa né la fruibilità dell'oggetto potrà determinare il criterio di riduzione, né lo potrà il modo di ricezione. Nel primo caso non è detto che quanto più l'oggetto è di massa, tanto meno sia di cultura (il punto B non è quindi tassativamente pessimistico); come nemmeno è detto che la diffusione e la partecipazione di in­ teressi e di beni, di cui sopra, ne faccia cultura (il punto B non è necessariamente ottimistico). Nel secondo caso il modo critico non può differenziare la cultura dall'incultura. Quale potrà essere allora il criterio della riduzione cul­ turale? Insistendo ancora su quello che abbiamo distinto come il punto B, gli Autori ci offrono una ulteriore risposta: il cri­ terio dovrà essere la coincidenza di valori e di interessi. Una riduzione culturale nascerà dall'incontro degli specialisti e del pubblico (p. 43). Semplice; Basterà mettere in contatto gli orientamenti degli uni e degli altri, e la risultante sarà il mass medium culturale. Ma questo ci darebbe la cultura dei . manuali e delle enciclopedie, un mosaico di cultura; e infatti gli Autori sembrano accorgersene, perciò ritornano indietro,

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e ripetono che i beni cosl disponibili devono esere anche « cri­ ticam ente partecipati ». Nel qual caso potremmo trovarci addirittura al livello (un po' troppo alto) della International Encyclopedy of Unified Science. Inoltre abbiamo veduto in precedenza, quanto valga questo senso critico. Al contrario, una autentica cultura può essere al livello di candour. Infine gli Autori tentano un'altra strada, e accennano a una 'parte­ cipazione politica '. Ma questo a sua volta contraddice quanto sopra: politica e critica non vanno necessariamente assieme. Pensate quanto stolida e acritica è la partecipazione delle masse proprio nei campi di loro maggiore competenza, allor­ ché vengono politicizzate. Operai, famigliari con la vita del­ l'azienda, ripeteranno slogans contro il profitto e contro il reddito: masse di studenti ripeteranno slogans sui vietcongs e i palestinesi. Qui 'partecipazione ' è sinonimo di acriticità e di incultura. Al contrario, una condizione di scarsa cultura può accompagnarsi a un sicuro senso critico politico: ope­ rai, negri e bianchi, negli Stati Uniti votano un presidente repubblicano e un senato democratico: sanno distinguere e contemp e rare politica estera e politica interna, interessi na­ zionali e sindacali, ciò che da noi non riescono a fare i lau­ reati. Qµale sarà allora· il carattere che distingue la cultura? Sempre, si intende, la cultura a livello di ' riduzione cultu­ rale ': non la cultura dei tecnici, degli specialisti, degli eru­ diti. Una volta si distingueva tra 'civiltà ' e 'cultura' come tra due valori affini ma diversi; oggi non si parla più di ci­ viltà, ma conviene distinguere tra cultura media e cultura specialistica; è la prima che va distinta dalla incultura. Quale dunque il carattere distintivo della cultura? Visto che nessuna delle precedenti varianti del punto B sembra reggere all'esame, conviene forse ritornare sul punto C dal quale eravamo partiti, con i risultati pessimistici, ma senza nessuna variante. Proviamo ora a variarlo, capovolgerlo. La soluzione farà sorridere per la sua semplicità. Ma non è tanto ingenua. Credo che la caratteristica della cultura nelle masse sia di non essere eterodiretta, ma di comportare 52 una adesione spontanea. _Riflettete solo al fatto che tutte le


partecipazioni culturali che ·sembrano più spontanee ( d'ordine sportivo, politico, ludico, letterario, artistico, etc.) sono ete­ rodirette; tanto è vero che per lo più riguardano fenomeni competitivi, necessariamente organizzati e guidati, dei quali si vuole incrementare programmaticamente il carattere di confronto e di premio. La stessa guida alla partecipazione si fa talora antinomica, e il partecipare del pubblico diventa allora parteggiare. a questo livello che abbiamo la pseudo­ cultura, l'incultura, l'imbecillità. Ed è a questo proposito che la sola salvezza della partecipazione culturale consiste nel: l'essere critica, come hanno veduto gli Autori. Solo che lo hanno veduto a rovescio. Non è la conoscenza dell'oggetto che deve essere critica, consapevole dei propri principi e dei pro­ pri metodi, ossia analitica o tecnica: ma è semplicemente la sua eteronomia che deve venire neutralizzata criticamente, controllando sia le fonti del messaggio che la sua compati­ bilità o incompatibilità con altri messaggi. Il carattere critìco dell'informazione non è quindi per se stesso indispensabile; lo è soltanto dove la riduzione rischia di essere eterodiretta. Tanto è vero che ciò non vale nella misura in cui questo fe­ nomeno inerisce alla natura stessa del messaggio. Nessuno direbbe incolto Io spettatore che non vuole analizzare troppo le ficelles dello spettacolo teatrale a cui assiste (la poesia, se­ condo il detto di Giorgia, essendo quel trucco in cui chi si lascia ingannare è più intelligente di chi non si lascia ingan­ nare); incolto invece è il pubblico che accetta senz'altro l'in­ timidazione culturale dei mercanti d'arte e degli autori di 'presentazioni'. La componente critica è soprattutto un fat­ tore neutralizzante dell'eterodirezione. Concludendo: i valori culturali debbono essere ampia­ mente condivisi, ma non è sufficiente che lo siano, per fare cultura. Possono essere criticamente partecipati, ma nem­ meno questo è sempre necessario. Unica cosa che sappiamo è. quel che non devono essere. Non devono essere eterodiretti.

:e

Parlare di autonomia del processo riduttivo culturale parrà a taluno non ingenuo, ma mostruoso. Perché comporta

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un: certo rifiuto, o almeno una limitazione dei mass media. Giustamente è stato osservato che questi strumenti, nell'at• tuale società, ci sono, e sono indispensabili (p. 39). Si tratta solo di scegliere come servirsene. Quanto più la riduzione cul• turale sarà diretta (nel doppio senso di ' immediata ' e ' gui• data '), tanto meno sarà·' partecipata '· e tanto più sarà su• bita: non vi sarà adesione, che è persuasione, ma suggestione, che è soggezione. Ciò significa che non ingiustamente i « mass media» vanno tenuti in sospetto e controllati: non perché i loro contenuti abbassino la cultura a un livello di volgariz­ zazione indecoroso e su canali di informazione monopolizzati e obbligati (inconveniente, quest'ultimo, grave, ma in parte ovviabile, in parte accettabile) ma perché impongono la ridu­ zione anziché lasciare che questa si manifesti. In confronto del libro e del teatro, il rotocalco e la televisione non lasciano scegliere e selezionare. Quando anche ci fosse una moltepli­ cità di programmi e di testi disponibili, neanche in questo caso la loro informazione sarebbe liberamente selettiva: si tratta di messaggi che per la propria struttura stessa de_vono essere accettati o respinti in modo immediato, costituiti come sono per agire fuori dal campo della riflessione; proprio per­ ché richiedono soltanto una 'partecipazione distratta ', an­ nullano in gran parte automaticamente la possibilità di una collaborazione selettiva del pubblico. Ciò non obbliga a dare il bando ai· mass media. La que­ stione è un'altra: se ai mass media vada affidato il ruolo cardine di quel processo di selezione culturale di cui si di­ scute, come sembrano propendere gli Autori, e se quindi un tipo particolare di canale debba condizionare un'intera area di messaggio. Ci è sembrato che quei canali compromettano non soltanto il contenuto del messaggio (un inconveniente che potrebbe venir corretto e tollerato), ma la sua natura. Non si tratta quindi di rinunciare allo strumento dei mass media in vista della riduzione culturale, ma di non identi­ ficare le due cose, visto che per certi aspetti, tra di esse è incompatibilità. Niente ci sembra più improprio della con­ vinzione esposta anche da persone sussiegose, secondo cui nella cultura moderna una quantità di apprendimenti devono


venire surrogati ormai· dalle comunicazioni di massa, e ai testi e agli insegnamenti possono sostituirsi i normali mezzi audiovisivi, il rotocalco o il fumetto o anche la dignitosa en­ ciclopedia. Al contrario, la selezione che costituisce cultura si fa per mediazioni: non per adattamento immediato al pubblico e da parte del pubblico, ma per trasmissione da strato a strato; solo in tal modo l'uno attinge dall'altro li­ beramente. L'intellettuale che vuole saltare questo processo e ridurre direttamente la cultura al livello del popolo fa come il· pedagogo che scrive libri giovanili per la gioventù, con esito nullo. La letteratura infantile forse funziona per l'età infantile, ma la letteratura giovanile non funziona ·per l'età gio­ vanile. Giunti all'età evolutiva, i giovani scelgono ·in modi autonomi progressivamente entro la produzione per gli adulti; nel campo dell'intrattenimento sceglieranno Mandrri.ke·· o Dickens o le biografie dei· calciatori o Dostojewskj o I'His­ toire d'O. Questa varietà è la loro ' riduzione ': essi ricono­ scono spontaneamente i livelli culturali più prossimi e con­ geniali ai quali attingere e a cui subordinarsi. Lo stesso av­ viene per gli adulti, in altri campi. Non è l'�utorità dunque e nemmeno l'autoritarismo didattico degli specialisti o dei raf­ finati, per fastidioso che sia, che deprime l'attitudine alla libera scelta culturale; questi sono interventi superflui quanto innocui; ma la pigra seduzione degli schemi, dei luoghi co­ muni, delle formule stereotipe, si tratti pure delle tesi di Marx o di Keynes o di Marcuse, ridotte a mass media. Sotto questo riguardo l'esempio più significativo e più recente è stato quello della cosiddetta contestazione, testé esauritasi in nulla. Se fosse stata un radicale episodio di distruzione della cultura, sarebbe stata qualcosa di deplorevole, forse, ma di serio; un avvenimento politico, come la contestazione distruttiva di Hitler nel 1935-39,- o di Mao nel 1966-70. Invece ha aspirato ad essere un tutt'altro fenomeno, molto minore: una pseudo-riduzione culturale, la riduzione della cultura a slogans, cara agli incompetenti, per sottrarsi alla selezione della cultura trasmessa da livello a livello di competenza. Ogni livello superiore (del maestro, del tecnico, dell'impren­ ditore, del magistrato, del docente, etc.) era respinto e de- 55


hunciato com:e la condizione odiosa del « padrone ». Parados­ salmente, anche · questo episodio di anarchia, e quindi di presunta spontaneità, confermava il modello dell'eterodire­ zione selettiva; poche e povere parole d'ordine di pochissime centrali esaurirono la domanda di informazione di masse gio­ vanili sprovvedute, riducendole alla condizione puerile di sottosviluppati. Si è trattato di un esempio tanto più probante quanto più estremo: l'anti-selezione selezionata, l'anti-condiziona­ mento condizionato. Ritornando al modello economistico, è sempre il prevaricare del produttore sul consumatore, degli oligopoli dei commercianti di cultura precotta sul pubblico sprovveduto e incline ai pronti consumi. Che questo pubblico sia di giovani ribelli o di padri di famiglia, non fa differenza; gli si venderanno slogans anarchici o slogans sindacali o slo­ gans tecnologici o slogaiis erotici o slogans snobistici, etc. La tecnica è la stessa per tutti i mercati. Come nell'economia, così nella cultura, la ·mancanza di libere scelte del pubblico, e con esse delle sollecitazioni che ne vengono alla produ­ zione appiattisq: poi la riduzione stessa è ne spegne l'inven­ tiva. Se nel campo merceologico come nel campo culturale i paesi· dell'Occidente conservano un provvisorio vantaggio, ciò è dovuto al fatto che qui il pubblico non è ancora inte­ ramente nelle mani di quelle caste egemoni - i ceti mercan­ tili e le burocrazie politiche-, che in sede economica come in sede culturale tendono a condizionare il consumo. Gli oli­ gopoli, abbiamo detto, Sono ancora meno peggio dei mo­ nopoli.

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Forse un inconveniente degli Autori che fin qui abbiamo tenuto presenti è consistito nel carattere normativo del loro discorso. E non poteva essere altrimenti, posto che era un discorso tecnico, rivolto ai lettori per averne approvazione e consiglio in vista dell'operazione riduttiva.· Si dirà che noi pure li abbiamo seguiti su questa strada. Ma non egualmente. Certo, tutti i discorsi sono in fondo pragmatici, e quindi in ultima analisi normativi. Ciò non toglie


che le norme a cui mettono capo possano essere diversamente fondate: in modo più o meno analitico, e su presupposti più o meno universalmente accettati (o su risultati più o meno accettabili). Il discorso di R. De Fusco e di G. Fusco - ci sembra -'­ aveva carattere dialettico, non analitico. Il suo procedimento inferenziale era questo : 1) Le cose, cosi, vanno male. - 2) Le cose dovranno andare, invece, cosi. - 3) Che cosa dobbiamo fare? Ma la loro seconda proposizione non era una legge, ma una massima. Che si debbano « ridurre i beni culturali - ria sultati di campi di cultura specializzata - in vista delle indi­ cazioni più autentiche ed autonome offerte dai valori-interessi del grande pubblico» {p. 38), non ha carattere obiettivo di legge; e tanto meno che sia « auspicabile una riduzione della produzione di beni culturali a vantaggio della classe che sto­ ricamente tende a prevalere» {p. 42). Che la classe più nume­ rosa tenda a prevalere, oggi, è innegabile; che convenga che si coltivi, è non meno auspicabile; che invece gli specialisti deb­ bano 'ridurre' la cultura alla sua misura, non è così assio­ matico. :e. il proletariato che se la deve ridurre autonoma­ mente, o altrimenti detto, è la cultura stessa che si deve ri­ durre, selezionare, da strato a strato, per salti e cascate cul­ turali: unico modo autonomo e autentico di 'riduzione'. Lo schema argomentativo degli Autori è questo: la cultura è stata prima privilegio gentilizio, poi è stata privilegio borghese, ora sarà privilegio popolare. È come se uno di­ cesse: la letteratura europea è stata fino a mille anni fa in lingua latina, poi in volgari-illustri, ora deve essere in dia­ letto. La cultura diventerà popolare, ma non è detto che dia venti privilegio popolare. O ogni forma di classe media scom­ parirà (si chiami borghesia o come si vuole), e non vi sarà più nessun privilegio; oppure potrà esserci un privilegio della: nuova classe, se saprà esserci. Il nascere della cultura clas� sica e ecclesiastica; il trionfo del mondo borghese è coinciso con la sua capacità di assimilare la cultura aristocratica; il trionfo del mondo popolare si delinea già come il suo assi­ milare la lingua, la cultura, il costume borghese, e sarà com­ pleto solo col suo assimilarne il senso dell'individualità, della 57


dignità, della responsabilità (che il mondo borghese sta per­ dendo). Sarà un successo solo in quella misura; sotto quel livello vi sarà sempre un sotto-proletariato. Quel successo fi. nora era possibile al proletario soltanto rinunciando a se stesso e cambiando classe, ora potrà ottenerlo anche consi­ stendo ·nella sua classe;· ma solo se avrà assimilato per 'ri­ duzione ' la cultura della classe superiore, posto che attual� mente non ne esiste altra (non ci risulta - forse per nostra scarsa informazione - che paesi i quali hanno realizzato ri­ voluzioni proletarie da decènrù ci offrano esempi di diversa alternativa). La classe più numerosa deve òperare la sua ri­ duzione· in modo autonomo; e così · infatti essa vuole. Sele­ ziona · e assimila a modo suo; non vuole essere eterodiretta. Oggi adotta l'astratto· è involutivo· discorso tecnologico ma­ nageriale, rendendolo magari anche più goffo (si pensi alla prosa dei comunicati sindacali indirizzati agli operai), rria respinge i begli slogans sonori popolareschi dettati dall'irra­ zionalismo dei gruppi extraparlamentari. Intuisce che questi sono mistificazioni per strumentalizzarlo (li accetta solo quando sono accompagnati dallo scontrino burocratico sin­ dacale). Una classe nuova in isviluppo tende spesso ad es­ sere guidata, s"empre ad essere ammaestrata, mai ad essere 'diretta ', cioè ingannata. (Naturalmente può essere ingan­ nata; la cultura eterodiretta, in particolare la cultura parti­ tica, è fatta per questo). Nessuno può negare· o rifiutare in buona fede che nel­ l'ambito di una società si formino e si conservino gruppi separati, distinti per il loro assolvere a precise funzioni utili all'insieme, ciascuno con una sua prerogativa di competenza, diversa per estensione o livello. All'estremo staranno sempre due risultati opposti di cultura. Non dimentichiamo che la 'riduzione', o selezione. culturale; può prendere due dire­ zioni contrarie: può diventare· elementarizzazione empirica, in modi intuitivi, e .farsi disponibilità al volgarizzamento, come può invece operare, a monte, una mediazione selettiva sempre più complessa e lontana tra concetti e fatti, tra postulati e verificazioni, tra calcoli e osservazioni. La 'riduzione ' non 58 può pretendere di eliminare senz'altro il distacco tra questi



inassa, che si risolve spesso in una mistificazione, ma al con­ trario, nella mancanza di rapporti più indiretti, più mediati. Quale è allora il compito dell'intellettuale? Malgrado ogni apparenza, non pensiamo in questo modo di ritornare al discorso normativo, ma soltanto di attenerci alla buona regola elementare di non pronunciare asserzioni senza precisarne le esperienze che la verifichino. Il significato di un termine - nel caso nostro il termine, che ci sembra felice, di riduzione - è connesso con l'impiego che si vuole farne per la deduzione di determinate conseguenze. Perciò si può accenriare prescrittivamente a una ipotetica determi­ nazione degli effetti positivi e negativi che ci sembra pos­ sano costituire quel significato. Non spetta certo all'intellettuale di tradurre la sua cul­ tura in briciole per evitare il rimorso di una presunta condi­ zione di isolamento e di privilegio (cose di cui può tranquilla­ mente andare orgoglioso; non vanitoso). Vi sono diversi livelli specialistici, come vi sono diversi livelli di volgarizzazione, ed è proprio in questo senso che opera una effettiva riduzione culturale. Possiamo definirla anche in modo negativo, dicendo che consiste nel non occupare falsi livelli. La si otterrà, solo che ciascuno si preoècupi di ciò che non deve fare; i risultati positivi verrano da sé, per chi ne è capace. Per un verso essa potrà essere riduttiva in senso privilegiato, a livello non po­ polare, confidando oltre tutto nell'efficacia del proprio pri­ vilegio (ossia prestigio), nonché nel compito delle successive mediazioni. Per altro verso potrà essere divulgativa, senza per­ dere la propria originalità, ma senza cadere nelle mistifica­ zioni del falso prestigio. Il teorico che eviti di usare formule logistiche per esibizione ballerina; il critico d'arte che rinunci misericordiosamente a citare i nomi di Einstein e Heisen­ berg e a appellarsi alla quarta dimensione; l'antropologo che ci faccia la grazia di analogie glottologiche facili quanto equi­ voche; l'intellettuale che rinunci a ricorrere al suo guru di moda (p. es., oggi a Althusser, il quale gli fa chiamare devota­ mente « lettura sintomatica » o « sintomale » la normale er­ meneutica); e così via, tutti costoro in qualche modo contri60 buiranno poco o molto a quella effettiva emendatio, che rim-


balzando di grado in grado porta a una limpida elementa­ rità la cultura. Diversamente il pubblico non parteciperà a una cultura, ma crederà di parteciparvi. Oggi non si accorge infatti che spesso l'autore, il quale tien cattedra al massimo livello, lo tratta invece come uno scolaro liceale. Non perché gli spezzetti idee difficili in modo facile; al contrario, lo stor­ disce e lo lusinga con un linguaggio labirintico, simulando profondità, mentre in effetto gli ripete fino all'esaustione po­ chi concetti elementari da maestro di scuola. Non poca della recente cultura francese - apparentemente così 'riduttiva ', secondo una secolare tradizione, così prossima al mass me­ dium per capacità di imbevere fino all'ultimo tutti gli strati disponibili della società - gode o soffre di questa prerogativa (compensata altre volte da capacità di divulgazione esemplari, a livello addirittura di ricerca originale). II 90% dei let­ tori di Althusser o di Lacan o di Foucault, non li capisce se non in modo molto approssimativo; costituisce una massa di lettori eterodiretti: un esempio di falsa riduzione. In que­ sto caso si tratta di riduzione non a livello popolare ma pic­ colo borghese, le cui conseguenze però non mancheranno di avvertirsi nelle mediazioni successive. Al pari di modelli di lusso prodotti a buon mercato nei grandi magazzini, né rari né popolari, certi prodotti sono soltanto sofisticati, kitsch. Solo allontanandosi da questa strada (ma niente lascia sperare che Io si voglia) si potrebbe ottenere senza danno una « selezione quantitativa della sovraproduzione di beni culturali » (p. 54), eliminando « la ipertrofia di parole, imma­ gini, oggetti etc., che caratterizzano il nostro tempo» (p. 55), secondo quanto si augurano gli Autori. La riduzione quanti­ tativa avverrà semplicemente per una selezione qualitativa. Sfrondato dall'essenziale il superfluo e il parassitario, divente­ rebbero più omogenei i diversi livelli, e ci si avvicinerebbe a quella coincidenza di specialistico e di elementare, di privi­ legiato e di comune, che ha fatto dell'antico senso classico euclideo del pensare e dell'esporre un modello di reductio. 1 Gli autori fanno uso del modello dicotomico lingua-linguaggio; sembrano però intravvedere che sotto quella dicotomia sta un rap-

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porto più profondo: accennano infatti a una dicotomia in termini di paradigma-emblema. Quest'ultimo rapporto, nella sua sostanza logica, è stato da noi analizzato in alcuni saggi: v. Estetica e assiologia, Rivista di Estetica, 1962, n. 3, 1963, n. 1; Sociologia dell'avanguardia, ibid., 1965, n. 2; L'esperie11za estetica, ibid., 1967, n. 1. 2 Vedasi « Op. cit. », n. 23, pp. 42-43. Va riconosciuto che il termine, in sé felice, si riferisce a un concetto non del tutto chiaro. Ma tale è il carattere dcll;i nozione stessa di 'cultura•. Gli interventi sull'argo­ mento, e, speriamo, anche il nostro, potranno contribuire a rendere questo concetto più distinto. ossia ad analizzarne i diversi aspetti e le componenti, le notae e notae 11otarw11, ma difficilmente potranno ren­ derlo globalmente più evidente. Un evoluto livello di analiticità non consente concetti chiari e indistinti, ma ne accetta di distinti e oscuri. 3 v. J. A. SCHUMPETER: « ... ogni mutamento nei gusti dei consuma­ tori è subordinato all'azione dei produttori », Business Cycles, New York, 1939, p. 73. 4 G. MYRDAL, Il valore nella teoria sociale, Torino, 1966, p. 20.

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Le due anime del concettuale RENATO BARILLJ

1.

Oltre le frontiere dell'arte e dell'estetica.

Nell'intento di reperire caratteri e proprietà dell'arte concettuale il metodo più opportuno è forse quello di pro­ cedere a una serie di approssimazioni successive tracciando frontiere via via più incalzanti. Incontriamo in primo luo­ go (1), la frontiera «artistica», largamente superata da tutta la ricerca contemporanea di punta. Arte, presa nel senso storico-etimologico, è un'attività produttiva condotta con abi­ lità e perizia e mirante alla costruzione di un oggetto dotato di precisa consistenza fisica. Non importa tanto, qui, consi­ derare una possibile distinzione successiva tra arti belle, che si valgono di procedimenti e di mezzi costruttivi tradizionali, come sarebbero il dipingere e lo scolpire, e attività artistiche tout court, disposte ad allargare il repertorio dei mezzi (le tele di sacco, le lamiere di Burri; le plastiche, il plexiglass, le fibre vetrose di tanto «nuovi scultori »): si tratta infatti di distin­ zioni interne scavalcate di colpo dall'attuale esigenza di por­ tarsi «altrove», verso spazi più ampi. Incontriamo poi (2), la frontiera estetica. Anche qui, il termine è da prendersi nel senso storico-etimologico fox:nito dal Baumgarten nel suo celebre trattato di metà Settecento, pur con le dovute rettifiche e precisazioni 1• L'estetica baum­ garteniana è una fascia di attività che comprendono dentro di sé l'« arte liberale» (la frontiera artistica) solo come un'isola parziale e limitata; il loro compito, ben più vasto, è quello di sollecitare la cognitio sensitiva (oggi diremmo la

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sensorialità). Fin dal tempo del Baumgarten tuttavia si ag­ giunge al campo estetico un connotato qualitativo, volto alla ricerca dei valori di armonia, integrazione, equilibrio. La sen­ sorialità infatti può essere studiata nel suo mero funziona­ mento, e questo è compito della fisiologia e di altre scienze naturali. Se l'estetica si occupa di essa, non è soltanto per constatarne o comunque procurarne la funzionalità, bensì per portare quest'ultima a un alto grado di espletamento. Com­ pete all'estetica insomma, fin dalle origini, una dimensione progettuale di « dover essere », un imperativo a migliorare le condizioni del proprio esercizio, fino ai limiti dell'utopia. E questo risulterà molto bene dalle interpretazioni successive di Kant e di Schiller, ben attente a fermare l'estetica al di qua della soglia dell'artisticità, ma nello stesso tempo decise ad assegnarle compiti sovrani di mediazione: tra sensi e in­ telletto, conoscere e fare, sentire e meditare, momento cul­ minante ed equilibratore di tutte le facoltà umane, luogo uto­ pico della nostra felicità, vero e proprio paradiso terrestre 2• Del resto, già il Baumgarten era ben avviato su questa strada, in quanto la cognitio sensitiva in cui egli ravvisava il letto dell'esteticità riusciva a comprendere in sé anche il pulcre cogitare e l'analogon rationis, cioè attività a impronta intel­ lettiva-noetica e non soltanto sensoriale, ove però l'intervento dei connotati di bellezza e di analogicità stavano appunto a indicare una contaminazione con una base sensibile (ma con­ taminazione provvida, equilibrante). Ci sarà infatti il recte cogitare della scienza, che cerca di prescindere, per esempio, dai richiami sensuosi del « significante » linguistico per inse­ guire associazioni fondate sui puri valori intellettivi; ma ci sarà anche il pulcre cogitare, che viceversa si lascia larga­ mente attrarre dai « corpi ,. delle parole e se ne vale per trac­ ciare analogie spericolate e poco rigorose. Consideriamo ad esempio la pulchra cogitatio (« concetto ,. barocco, motto di spirito freudiano) che consiste nel gioco di parole « tradut­ tore-traditore ,.: qui soltanto un dato « estetico ,. in senso stretto· (fonetico), presente nella lingua italiana, autorizza l'associazione di due nozioni altrimenti assai distanti tra loro. Un punto in cui oggi non si può più seguire il Baumgarten 64


è quello in cui la« sensitività» (che dunque penetra utilmente nella sfera del cogitare ricercando un accordo con l'intelletto) viene tuttavia riportata a un atto di cognitio. La « conoscen­ za» è per noi una sfera ristretta, specialistica, tale da far na­ scere un pericoloso dualismo rispetto· all'« azione•· Meglio allora valersi di termini anteriori a un tale dilemma, quali attività, esperienza, comportamento 3• Diciamo quindi che la ricerca contemporanea è largamente attestata nella fascia dei comportamenti estetici: gli « operatori» (non più artisti, per­ ché non chiamati a un'attività produttiva di oggetti fisici ben delimitati) si impegnano a trovare i mezzi per sollecitare la rete sensoriale umana (proficuamente saldata alla rete intel­ lettiva) verso il raggiungimento di uno sviluppo pieno, armo­ nico, integrato. Se poi si voglia tracciare un pur sommario elenco dei mezzi non-artistici usati per sollecitare (« massag­ giare », direbbe McLuhan) il sensorio collettivo dell'umanità (il sistema unico aisthesis-noesis), basterà rivolgersi alle eti­ chette storiche concrete in cui si è esplicata l'attività del comportamentismo estetico: arte povera, earth works, Land Art, Body Art ... ; e avremo allora: terra, ghiaccio, acqua, cera, fossati, tumuli, dighe; il corpo proprio, o quello di altri, e dentro di esso l'indicazione di parti distinte (mani, piedi...); si aggiungano elementi più decisamente « tecnici,. (artistici nel senso originario del termine, anche se non legati alla tra­ dizione delle belle arti, ma a un concetto generico di arte in­ tesa come produttività tecnologica): troviamo in questo am­ bito tubi al neon, resistenze elettriche, serpentini frigoriferi, ma usati non· per il loro spessore plastico, per il loro rilievo formale, bensì per il potere attivante, quasi di agopuntura, che possono esercitare su un intero contesto sensoriale. 2. Un concettuale « mistico •· Ed eccoci finalmente a (3), alla frontiera del concettuale. Questa ·si presenta a tutta prima (in un modo semplicista e lassista che viene aspramente criticato, conviene dirlo subito, da un gruppo ristretto di operatori particolarmente esigenti) come uno sviluppo quantitativo rispetto a (2), cioè come una

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estenuazione dei caratteri « estetici» (sensibili, sensuosi) pre­ senti nella fascia del comportamento. Già a proposito di esso abbiamo insistito sull'opportunità di ragionare in termini di sistema unico aisthesis0noesis; certo però l'equilibrio era spo­ stato a favore del primo termine: mezzi prevalentemente sensuosi, benché capaci di indurre una sfera di conseguenze anche noetiche. Logico quindi che successivamente si ten­ tasse di compiere un passo oltre, di spostare l'equilibrio a favore del secondo termine, cercando di impiegare mezzi a carattere via· via più decisamente noetico, benché provvisti di una residua consistenza ancora estetica. Detto più sempli­ cemente, passiamo a comportamenti, ad operazioni che si val­ gono di mezzi relativamente smaterializzati, quasi sfuggenti a un riscontro sensibile, o appoggiati su « significanti » ridotti al minimo (sempre come consistenza grafica e fonica): i nu­ meri, le parole, i diagrammi, qualche tecnica di registrazione visiva (foto, xerocopie, video), purché attenta a non dar luogo ad immagini « belle » e troppo consistenti. Nel complesso, fin qui si resta nell'ambito di un universo kantiano trascendentale, nel senso specifico del termine, dove cioè ogni atto di tipo intellettivo (noetico) non può tuttavia sperare di raggiungere il suo oggetto (noumeno) senza pas­ sare attraverso il fenomeno, cioè attraverso un complesso di proprietà spazio-temporali ovvero « estetiche », sempre nel senso kantiano della parola, che del resto non è molto di­ verso da quello etimologico: nessuna intellezione è possibile senza un qualche fondamento sensibile. E ancora: dire che restiamo dentro un universo kantiano trascendentale vuole anche dire che ogni intellezione, oltre che appoggiarsi su un fondo estetico, deve avere l'altra proprietà di essere diretta a un oggetto. Potrà essere un oggetto « intensionale » e non « estensionale ,. 4, cioè un oggetto-classe di individui partico­ lari, collezioni di esistenze contingenti, piuttosto che consi­ stere in un singolo, isolato « questo qui •; ma in ogni caso dovrà sopravvivere, seppur illanguidito, estenuato, questo re­ siduo nesso referenziale (che nei termini della fenomenologia husserliana si direbbe intenzionalità). Non è invece concepi66 bile, sempre nell'universo kantiano (e anche in quello husser-


liano, che ne è per tanta parte una continuazione riveduta e corretta) un atto intellettivo che, invece di riferirsi a un oggetto, si ponga, per così dire, trasversalmente, aggancian­ dosi in una catena processuale ad altri atti intellettivi ante­ riori e posteriori. Oppure, è possibile fare qualche deroga momentanea al criterio dell'intenzionalità (del riferimento all'oggetto), ma all'inizio e alla fine della catena deve essere sempre possibile un riempimento oggettuale. Detto sempre in gergo, la logica trascendentale è superiore a quella forma­ le: quest'ultima è un caso limitato, una porzione dell'altra; può essere considerata come uno strumento provvisorio e astratto, che però alla lunga richiede di avere un fondamento mondano. A ben pensarci, quando uno dei primi teorici del concet­ tuale, Sol LeWitt, nelle sue note Sentences esordisce con l'as­ serzione: « Gli artisti concettuali sono dei mistici piuttosto che dei razionalisti » 5, può essere riportato a questa scelta mondano-trascendentale. Il mistico è, anche qui etimologica­ mente, colui che si « mescola ,. con qualcos'altro. Nel nostro tempo la via più seria di « mescolamento » è quella che si esplica in direzione del mondo (piuttosto che di Dio o di qualche altro principio trascendente) a procurarci quella che si può dire un'estasi materialistica o un'epifania. Ora, il con­ cettuale è colui che, considerati ormai logori i mezzi ordinari estetico-artistici di procurarsi una simile esperienza mistica di immersione del mondo, ne ricerca altri assai più ampi e penetranti. Il sottinteso è che si debba introdurre una dimen­ sione storica nell'ambito della cognitio sensitiva. I nostri sensi non si limitano affatto ai cinque naturali; appare molto più opportuno parlare di una superficie estetica mobile, i cui confini avanzano, come ci ricorda McLuhan, coll'avanzare, o comunque col mutare dei mezzi tecnologici assunti dalle varie culture. I mezzi, nella definizione basilare che ne dà il teorico canadese, sono prolungamenti dei nostri sensi (e del nostro sistema nervoso, il che è un modo di dare una fondazione estetica alla fascia delle attività noetiche). Ora, in una cul­ tura fondata sull'elettronica come la nostra, è forse possibile che l'uomo continui a ragionare in termini di tattilità, olfat- 67


tività, visività ecc.? Le sue stesse capacità sensoriali dovran­ no spingersi oltre certi limiti, acquistare un potere di inter­ vento a distanza. Ritroviamo cosl l'aurea proposta di Jack Bumham, che cioè si debba considerare quale medium ideale dei concettuali la telepatia: alla lettera, un sentire (patéin) a distanza, cosl come l'elettronica ci consente di percepire (con la televisione e il telefono) immagini e suoni di remota provenienza. Ma, in base alle osservazioni precedenti, rivol­ gersi alla telepatia non vuol dire affatto invocare poteri mi­ steriosi, magici, contro quelli naturali fondati sui sensi; vuol dire al contrario sollecitare questi ultimi ad acuirsi oltre i li­ miti storici che hanno dovuto subire finora. La mentalità di Burnham, e più ancora di certi concettuali statunitensi della prima ora, resta fondamentalmente materialista: si avven­ tura nelle zone del noetico, ma considerando di attingerlo attraverso un potenziamento dell'estetico. Ecco alcune dichia­ razioni di Robert Barry molto eloquenti in proposito: « Que­ ste forme [di cui egli si valel certamente esistono... Sono fatte di vari tipi di energia che esiste fuori degli stretti e ar­ bitrari limiti dei nostri sensi. Uso vari stratagemmi per pro­ durre l'energia, rivelarla, misurarla, definirne la forma... Un genere di energia è costituito dalle onde elettro-magnetiche » 6• E Lawrence Weiner, rispondendo ad alcune domande del cri­ tico Thwaites: « Per me un concetto è l'oggetto. - Vuol dire un oggetto mentale? -=- Anche fisico, non appena è stato det­ to. :f:: stata generata dell'energia, dell'energia è stata usata... » 7• Dove, come si -vede, anch'egli, al pari del collega Barry, si attacca all'« energia» come a un quid capace di mediare tra l'estetico e il noetico. Che i concetti di Weiner siano degli oggetti, o meglio mantengano un nesso referenziale (intenzionale) a degli og­ getti non presenti fisicamente, ma secondo modalità immagi­ narie, virtuali, lo si scorge chiaramente dalla sua « pratica ». Si può partire dagli Statements del '68. Ne scegliamo alcuni tra i più perspicui: « 1. Un campo sparso di crateri di esplo­ sioni simultanee di tritolo... 8. Un foglio di plastica traspa­ rente appuntato al pavimento o alla parete... 11. Un certo 68 quantitativo di pittura versato direttamente sul pavimento e


lasciato seccare» 8• Balza subito agli occhi il carattere appunto di referenzialità mondana insito in questi Statements. Un mar­ ziano, ad esempio, assunto come rappresentante di una condi­ zione di sensibilità extra-terrestre, non ci capirebbe niente. Più precisamente, si tratta di una mondanità «inutile.», consisten­ te nella celebrazione di cose, gesti, circostanze per il solo fatto che ci sono, che hanno l'onore di partecipare all'onnivora ca­ tegoria dell'esistenza: epifanie «normalizzate» ed espanse, estasi materialistiche sul tipo di quelle che furono già alla base degli happenings e degli events 9• Ma con la grande dif­ ferenza che qui le «cose stesse » sono intenzionate in as­ senza, e non già in presenza. Viene meno cioè quello che i teorici anglosassoni chiamano il contro[ object, l'oggetto fi­ sico che con le sue proprietà materiali pone dei limiti alla libertà di percezione e di lettura da parte del fruitore. Al suo posto ci sono soltanto delle descrizioni linguistiche assai poco vincolanti, che quindi aumentano a dismisura i compiti della «esecuzione» immaginativa da parte dei lettori. Questa infatti, come vedremo, un'accusa precisa che i concettuali «puri» muovono agli impuri sul tipo di Weiner, rimproveran­ doli appunto di estendere in tal modo pericolosamente la sfera di intervento della soggettività individuale. Un'accusa che ovviamente viene anche dal fronte dei difensori dell'opera tradizionale. 3. L'immaginazione trascendentale.

Weiner e colleghi, però, si potrebbero difendere osser­ vando che, intanto, il contro[ object (la dimensione fisica del0 l'opera d'arte) va sempre integrato con un'«esecuzione» per­ sonale di tipo immaginativo, che è appunto quella per effetto della quale una stessa opera (almeno dal punto di vista fisico) risulta suscettibile di varie letture e interpretazioni, col va­ riare dei tempi e della sensibilità di chi l'avvicina. In fondo, da ogni opera d'arte promana sempre l'invito a una libertà, seppur guidata e incanalata entro certi argini. E gli argini vengono posti, o venivano posti in passato (attraverso la co­ stituzione dell'opera fisica) sulla base di una concezione re-

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co, aptico, corporeo: magari anche ·con un baluginarè indi­ stinto di proprietà visive, che certo però sono le più depres­ se, per una specie di legge del contrappasso, rispetto al pria vilegio di cui avevano goduto in altri tempi. Quanto poi ai rischi di maneggiare degli oggetti in ass senza, cioè di limitarsi a immaginarli, a idearli, a sognarli ecc., qui viene di nuovo in soccorso il modello tras·cendentale kantiano, o anche fenomenologico, cui questa zona di ricer­ che concettuali può essere riportata. Non c'è solo la via fi­ sico-percettiva di rifarsi, appunto, agli oggetti, né questa è privilegiata, come vogliono le rozze concezioni fisicaliste. Il . reale è più vasto del fisicamente verificabile (« con i cinque sensi » ); l'immaginazione, l'intellezione, il sogno ecc: sono modalità altrettanto reali di attingere gli oggetti, e di esse si dà scienza allo stesso titolo, seppur ovviamente con criteri diversi, di quanto avviene per la modalità fisica. Su queste solide premesse, di cui gli operatori concet­ tuali sono sicuramente consapevoli (anche se magari non giungono a esprimerle con queste stesse motivazioni tecni­ che), risulta autorizzato un procedimento di successivo di­ stacco dalle pur ridotte basi estetico-fisiche, verso esiti di ge­ neralizzazione crescente. Dopo gli Staternents Weiner ci dà le Tracce, del 1970 11: un elenco di participi passati, accampati ciascuno nel nitore di una pagina bianca: segni grafici ridottissimi, che a loro volta non consentono di immaginare una situazione articolata; ma resta lo stesso un rimando in­ tenzionale ad atti e comportamenti che mantengono pur sempre una consistenza sensuosa: « ridotto - scrosciato via - mu­ tilato - strappato - lubrificato - schiacciato - fermentato ·­ scheggiato... ». Forse più distante da ogni supporto estetico è fin dagli inizi Robert Barry, l'altro statunitense per tanti versi associabile a Weiner (e come lui soggetto alle condanne da parte dei concettualisti «puri» ): O meglio, si potrebbe dire che nel caso suo permane un'evocazione estetica, ma effettuata per via negativa. Si consideri Senza titolo, del '70 12, dove è lo sforzo di intenzionare una «cosa» situata al di là di ogni possibilità di percezione sensoriale, e tuttavia so­ pravvive l'evocazione veloce di proprietà estetiche, anche se 71


di volta in volta smentite; allo stesso modo la matematica dei numeri irrazionali, immaginari, complessi prende appog­ gio da quella dei numeri razionali (associabili ad oggetti fi­ sici): « Non è tangibile; non può essere conosciuta con i sensi; non ha una specifica collocazione; è impossibile ag­ grapparvisi; è incompleta ...». Nel più recente Two Pieces 13 l'assenza della cosa in carne e ossa, il libero muoversi nella dimensione immaginaria consente a Barry di predicare di essa due serie di proprietà simmetricamente opposte: « È uni­ forme (varia); precisa (ambigua); stabile (mutevole)... ». Il titolo stesso (Pieces) suggerisce l'impressione che ci si muova in un ambito di leggero e agibile esercizio musicale. Un'altra impresa di Barry è stata quella di stampare, in una serie di pesanti volumi da enciclopedia, un milione di punti, One Million Dots 14: impresa in parte contraddittoria, perché inizialmente si presenta col proposito di prendere alla lettera un modo di parlar figurato (secondo la figura dell'en­ fasi, dell'esagerazione): «un milione di » sta per « tanti ». Ma in realtà il fine ultimo sembra proprio quello di assicu­ rare un supporto concreto per un atto immaginario; nessuno evidentemente potrà fruire una simile opera volume per vo­ lume, punto per punto; conterà il fatto che si colga il ten­ dere all'infinito della serie, e si viva quindi l'esperienza del sublime di tipo matematico; col che si riguadagnano le rive dell'estetico, di cui il sublime tradizionalmente fa parte. Solo. che fino ad oggi gli artisti sembravano tenuti a fenomeniciz­ zare tale esperienza del sublime matematico, a calarla in una serie di «cose» (solo per stare a qualche caso dell'arte con­ temporanea: il puntinismo di Seurat,· le testurologie .di Du­ buffet e di Tobey). Oggi si tenta il passo di proporla allo stato puro, fidando nelle dilatate capacità percettive dell'uomo elet­ tronico, non più bisognoso dello «zuccherino » sensibile nelle sue attività di tipo immaginativo 15• L'impresa di Barry appena citata ricorda quella parallela di On Kawara, One Million Years. 16, di cui però si chiamano in causa più frequentemente altri lavori, a cominciare da quello consistente nell'inviare un telegramma come unica mo72 dalità di partecipazione personale a una mostra, «I am still


alive »: « lavoro » che giustamente è una bestia nera per i concettuali « puri » 17, che vi vedono. un caso tipico di falsa smaterializzazione, ricercata per raggiungeré, al polo oppo­ sto, una più ampia appropriazione del mondo, dell'esserci, nella sua globalità indiscriminata. Un caso eminente, quindi, di referenzialità, di eteronomia del mezzo impiegato, di sua sottomissione al contesto materiale della vita. E in effetti siamo nel cuore stesso della concettualità che abbiamo detto di specie « mistica », mondana, vitalistica, e che a sua volta va considerata come uno sviluppo quantitativo, un'estensione metodica delle tecniche di constatazione esistenziale inaugu­ rate (nel settore delle arti visive) dai ready made di Duchamp; i quali tuttavia rimanevano nella sfera limitata della thing­ ness (seppure già si spingevano a maneggiare cose volatili come l'aria di Parigi). Ci fu poi la normalizzazione di tali atti di appropriazione materiale, dovuta a Klein e a Manzoni (tutto quello che proviene dal corpo e dalla presenza fisica dell'artista è con ciò stesso artistico); e quindi si penetrò nel campo concettuale delle appropriazioni consistenti in dichia­ razioni linguistiche, esteticamente eseguibili solo a livello di immaginazione. Qui cade opportuno rendere il dovuto -omag­ gio al gruppo Fluxus 18: Brecht, Flynt, Maciunas, e soprat­ tutto Ben Vautier, infaticabile promulgatore di decine e de­ cine di « annessioni » artistiche. Si consideri ad esempio la seguente serie (che ha anche un sapore di rivendicazione cro­ nologica di titoli di priorità, in una eventuale storia del con­ cettuale): � J'ai signé la notion de tout en 1958; ...l'art en 1959; .. .les événements en 1959; .. .le déséquilibre en 1959; ...les sculptures vivantes en 1959; .. .le manque en 1959; ...la mort en 1960; ...les trous en 1960... ,. 19• Accanto a tutto questo ambito di esercizi rivolti ad ap­ propriarsi (con i mezzi immateriali della scrittura e dei nu­ meri) il vasto campo del reale (comprendente in sé, come si è visto, l'esistente, · l'immaginario, l'ideale ecc.), e prima di passare ad esaminare l'altro concettuale, « puro », formali­ stico, conviene soffermarsi un momento per collocare anche un filone di ricerche che ha il torto di essere stato trascurato dalla pubblicistica internazionale, ma che invece dovrebbe· 73



Bentivoglio 20 parte dal «significante» subconscio, ne effettua la scissione in sub e conscio, lasciando che per il primo spez­ zone intervenga la catena paradigmatica di tutte le nozioni legate al mondo subacqueo; un corpo immerso in un reci­ piente d'acqua (la coscienza divenuta un sub) sarà la visua­ lizzazione fornita a rendere credibile e dilettosa una simile «arguzia». Si potrebbe però obiettare che l'esemplificazione visiva, qui, ha un ruolo aggiuntivo, non necessario. Anche un letterato tout court potrebbe valersi dello· stesso gioco ver­ bale. Ecco allora un altro esempio che si appoggia su un'ana­ logia più strettamente visiva: la Bentivoglio propone la pa­ rola inglese Soul, ma in luogo del segno S usa $, cioè dol­ lari. Siamo in presenza di un tipico motto di spirito, così come è stato studiato da Freud: una nozione alta, nobile (anima) entra in cortocircuito con una bassa (i soldi), sfrut­ tando una vicinanza nei rispettivi significanti, nei corpi che le ospitano; ma appunto qui si tratta di una vicinanza riscon­ trabile solo visivamente, cui non si potrebbe giungere con i mezzi specifici della letteratura che, ricordiamolo, sono quelli della performance orale. I due esaminati sopra sono casi di un ragionar figurato (pulcre, analogicamente) a partire da significanti-significati comuni. Ci può essere però il procedimento esattamente in­ verso, di deflazione e riduzione letterale nei confronti di figure sussistenti (ma ormai inconsapevolmente) nella lingua di tutti i giorni. Ora, un tale intervento antiretorico risulta grandemente avvantaggiato da un •ricorso a mezzi specifici di tipo plastico-visivo. Lo attestano varie operazioni di Gino De Dominicis, come p. es. quella di riportare le costellazioni dello zodiaco agli oggetti fisici metaforicamente chiamati in causa (i Gemelli saranno così due gemelli e veri», e altret­ tanto si dica del Leone, dei Pesci, dell'Arietè). Oppure i gesti figurati della «morra» cinese (sasso, forbice, foglio) verran­ no riportati anch'essi a una nuda consistenza materiale; e così pure nel caso di « mozzarella in carrozza» o « saltim­ bocca alla romana»... 21• Un'attività alquanto diversa, più «se­ ria» e impegnata,· è quella che ha trovato un clamoroso esito alla Biennale veneziana dell'estate scorsa. De Dominicis si è 75


posto in un ambito di riflessione concettuale di tipo filosofico­ morale, affrontando il tema delle possibili « soluzioni d'im­ mortalità» che si aprono all'uomo. Ma anche qui non è man­ cato un intervento specifico di mezzi plastici: mentre infatti il filosofo, il moralista, il predicatore possono rendere sua­ dente il loro discorso con l'impiego di « figure» ed esempi essi pure immaginari, impalpabile come è tutto il discorso ver­ bale, De Dominicis invece ricorre alla perspicuità ben mag­ giore degli esempi « in carne ed ossa» : un mongoloide, una fanciulla, una coppia di gemelli, un giovane e un anziano so­ spesi a mezz'aria. Naturalmente si tratta di mezzi non certo artistici (l'operatore di sua mano non fa niente), bensl este­ tici, tali cioè da colpire i nostri sensi e la nostra mente con il ricorso al corpo di altri (come del resto si fa normalmente nel campo dello spettacolo). Operazione purtuttavia da dirsi concettuale, se come si è fatto in tutta questa prima parte, si parte dal presupposto che così possa essere definita, ap­ punto, ogni operazione mirnnte a un connubio, a un rafforza­ mento reciproco tra l'estetico e il noetico 22• 4. Il concettuale tautologico.

Ma è tempo di passare ad esaminare l'« altra» teoria circa l'arte concettuale: quella che ha avuto il suo principale teorico e pratico in Joseph Kosuth, un gruppo di altrettanto rigorosi adepti negli inglesi della rivista « Art-Language», e una sostenitrice di acuta capacità critica in Catherine Millet. Sintetizzando gli scritti di Kosuth e della Millet 23 ricaviamo i seguenti punti capitali, tutti largamente sovvertitori di al­ trettanti punti che si potevano ritenere acquisiti nella cor­ rente teoria artistico-estetica (anche d'avanguardia): a) rifiuto di ogni nesso di tipo referenziale al mondo, all'ambiente, sia esso -naturale o sociale, fisico o spirituale. Risulta -radicalmente destituito il· binomio soggetto-oggetto, uomo-mondo; è l'idea stessa di una datità oggettuale a venir sconfessata, sia essa anche di specie ideale (cioè di oggetti intensionali, di oggetti-classe, ovvero « generali»). Stretta76 mente legata alla destituzione di questa « coppia_» è quella


di una «coppia» altrettanto influente, in ogni modello di pensiero trascendentale-mondano: la coppia corpo-spirito, sen­ si-intelletto, o anche significante-significato. Saussure cercava di spiegare questo «mistero» di fondo, della relazione tra un «dentro» e un «fuori», tra un elemento sensuoso e uno noe­ tico, ricorrendo all'immagine evidente del foglio inevitabil­ mente provvisto di un «dritto» e di un «verso». Kosuth potrebbe accettare la sfida ponendo l'interrogativo: che male ci sarebbe a mantenersi sempre dalla stessa parte del foglio (sia questa indifferentemente il «dritto» o il «verso»)? Ma l'immagine, ovviamente, non è che un'immagine, perché certo si può rimanere sempre al di qua di un limite da varcare, ma con la consapevolezza di un ignoto che si potrebbe attin­ gere facendo un passo oltre, sfondando una barriera; mentre quello che Kosuth vuole dire, è che la nostra esperienza puo svolgersi interamente secondo una modalità monodi­ mensionale, ignorando la politica del doppio binario seguita con insistenza dalle filosofie trascendentali di derivazione kan­ tiana. Ciò implica una totale svalutazione delle componenti «estetiche» (sensuose) dall'attività artistica: non si tratta di quella svalutazione dubbia proposta dai concettuali dell'altra specie, che consiste in una estenuazione dei caratteri estetici, e quindi in fondo in un loro potenziamento. Kosuth fa pio­ vere su tali caratteri il più sovrano disprezzo, arrivando a dire che non · occorre neppure trascurarli troppo, depri­ merli troppo ostentatamente, poiché questo sarebbe un modo di riconfermarli, seppure per via negativa. In ef­ fetti, i concettuali dell'altro tipo, fustigando i mezzi este­ tici e riducendoli · al lumicino� ne confermano mediante questo passaggio al limite l'indispensabilità e l'insostitui­ bilità, con quel dubbio furore contro la carne che è tipico di tutti i mistici. Sarebbe pertanto assolutamente ingiusto far rientrare l'attività di Kosuth e compagni in una sfera di ricerche estetiche· o comportamentiste: nel loro caso si po­ trebbe anzi riproporre la vecchia e screditata nozione di·arte, di un «fare» che però prescinda da- ogni consistenza di or­ dine materiale. Giustamente il Migliarini ha ripescato per loro. il classico termine del·«poiéin», contrapponendolo al- 77


l'« aisthéin» 24: anche perché il primo termine, a differenza del secondo, è largamente immune dall'idea di rappresentati­ vità e di espressività. b) Se l'arte concettuale non è referenzialità mondana ottenuta con un potenziamento dei sensi degno dell'età elet­ tronica, che cos'è? La pronta risposta è che l'arte concettuale si dà come contesto, e basta: contesto autonomo, autofon­ dato, all'incirca nulla re indigens ad existendum. O !Un'altra nozione da invocare è quella di funzione, pur di precisare su­ bito, anche in questo caso, che l'arte è funzione di se stessa e di null'altro. Giacché termini come contesto e funzione sono tutt'altro che estranei alla buona tradizione del pensiero tra­ scendentale-mondano 25; anzi, anche i continuatori di Kant, o di Husserl, o di Dewey possono facilmente asserire che an­ ch'essi difendono i buoni diritti di un comportamento estetico ad essere considerato come un contesto fortemente organico, strutturato, « olistico» addirittura; pur di aggiungere che non si tratta di un contesto chiuso in se stesso, bensì posto in rapporto (rappresentativo? espressivo? analogico?) col più ampio contesto che è la nostra esperienza generale del mon­ do. Anche qui insomma le filosofie mondane giocano sul dop­ pio binario, ovvero sull'implicazione tra micro e macro-con­ testo. Questo vale pure per la linguistica saussuriana, che in­ fatti considera la contestualità che lega i significanti tra loro, nel qual caso si dice che essi assumono un « valore»; ma con­ sidera pure la contestualità più ampia propria della massa amorfa dei significati; che p. es. in italiano esistano indiffe­ rentemente « denaro» e « moneta», è un fatto interno rela­ tivo appunto ai « valori» del vocabolario; il parlante poi li fa funzionare, li oppone l'uno all'altro secondo i suoi intenti di significazione, ovvero di, riferimento al contesto esterno dei significati. .e) Per Kosuth e compagni, invece, è assurdo contrap­ porre, seppur dialetticamente, un contesto interno a uno esterno: c'è soltanto una contestualità auto-contenuta, auto­ limitata ecc. Secondo quali criteri verrà costruita? L'altra, quella di tipo kantiano, mira ovviamente a un programma 78 sintetico, poggia sulla realizzazione di varie sintesi: sintesi


tra il fenomenico e il noetico (tra forma e contenuto); e so­ prattutto sintesi tra i vari significati mondani che le funzioni di tipo scientifico-logico separano accuratamente in gruppi omogenei, laddove la funzione estetica procura di unirli ana­ logicamente, giocando liberamente sulla tastiera delle simili­ tudini, e in sostanza praticando quella che un kantiano sep­ pur di non stretta discendenza, Coleridge, chiamava appunto immaginazione sintetica. Di qui deriva il carattere connota­ tivo, ambiguo, plurivoco, metaforico ecc. che si riconosce di solito alle esperienze estetico-artistiche (quelle ben inteso di tipo mondano). Con i concettuali puri abbiamo invece la grande rivincita dell'analisi, uscita sconfitta fin dalle primissime pagine della Ragion pura kantiana. Se non c'è mondo, se non c'è bipola­ rità forma-contenuto, soggetto-oggetto, non c'è neppur luogo per procedere a sintesi, ad atti di inclusione successiva. Tutto, in una realtà rigorosamente monodimensionale, procede per analisi, cioè per esplicitazione dell'implicito, di ciò che è già dato da sempre; si tratta di un universo senza entrate e senza uscite, benché provvisto al suo interno di possibilità infinite di espansione. L'interrogazione rivolta su se stessa, il pro­ cesso di autoanalisi, possono consentire innumerevoli svilup­ pi. Essi saranno rigorosamente tautologici, trasformazioni de­ gli stessi principi, giacché per definizione nulla di nuovo può giungere da un inesistente mondo esterno. Qui però i con­ cettuali possono difendersi facendo notare che tra le infi­ nite trasformazioni tautologiche lecite ad ogni passo, ce ne possono essere alcune eleganti e p�rspicue, altre goffe e ba­ nali. Una qualità, un valore artistico, sono rintracciabili per­ fino in lidi così rarefatti. Ma certo non saranno qualità e va­ lori derivanti da un brillante esercizio della connotazione e della densità semantica (quale densità e quale semantica, se non è neppure pensabile un riferimento a qualcosa d'altro da sé?). Il grande modello sarà la limpidezza denotativa del lin­ guaggio scientifico, il « calcolo • logico, di una logica formale interamente affrancata dalla sudditanza a quella trascenden­ tale, paga cioè di se stessa, non tenuta a misurarsi in sede pratico-operativa.

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·Come ben si comprende, ·« escono » da questa prospettiva i numi tutelari della linea mondana, Kant, Husserl, Dewey, il fenomenologo francese Merleau-Ponty (reo di aver voluto conciliare a tutti i costi il visibile-estetico con l'invisibile-noe­ tico) 26• Subentrano· al loro posto gli esponenti della filosofia analitica anglosassone: Russell, Wittgenstein, Ayer, Wollheim: Catherine Millet poi stabilisce un ponte con i nuovi analisti che provengono dalle file dello st_rutturalismo linguistico: con à quanti cioè spezzano la binariet dialettica istituita da Saus­ sure tra il significante e il significato, e si mantengono sol­ tanto al di qua (nel « dritto ») della relazione, nell'ambito dei significanti 27, procrastinando indefinitamente il momento di saltare il fosso: Hjelmslev, Chomsky; e del resto qualche adepto della «nuova critica» francese, p. es. Todorov, già si è impegnato. sui lavori di qualche concettuale (Barré) 26, lu­ singato di trovare che anche in questo campo (come in quello di sua spettanza del récit) l'arte diventa discorso di se stessa, riflesso speculare della propria genesi.- E tuttavia a questo punto si potrebbe invitare la Millet a prestare più attenzione ai suoi connazionali della « nouvelle critique» (Derrida e De­ leuze soprattutto, al di là delle loro quérelles personali). Essi infatti hanno avvertito i limiti del modello «analitico» e l'hanno sottoposto a una critica, cercando· di assicurargli pos­ sibilità di emergenza, di autoproliferazione, di ingressi ener­ getici, che altrimenti la tecnica di svilùppo tautologico, troppo passivamente mutuata dal discorso matematico, ·rischierebbe di nullificare. · Questo infatti, diciamolo subito, un limite di Kosuth e compagni: l'essersi eccessivamente infeudati al clima asettico della logica e della matematica. D'accordo che solo di n potevano trarre la forza per sconfiggere l'odiata àmbiguità-connotatività del· discorso artistico-estetico tradi• zionale; ma, ricevuto questo autorevole aiùto, perché poi non muoversi con più autonomia, . perché non affrancarsi da una imitazione delle · vesti perfino estetiche della logica-matema­ tica (magrezza di segni grafici, nitore dello spazio bianco)? Visto che i materiali impiegati sono dichiarati indifferenti, né troppo importanti né troppo poco (per non cadere nel80 l'errore dei concettuali mistici), perché allora non coinvol-.


gere, nei ritmi autogenerantisi della deduzione analitica, ma­ teriali più vistosi e consistenti, perché non condurre un gioco più largamente gratificante di quello asfittico fin qui condotto 29? Ma procediamo a qualche rapida verifica di tali presup­ posti teorici. Kosuth, a dire il vero, paga inizialmente ..qual­ che residuo tributo alla referenzialità. Uno dei suoi primi la­ vori infatti (One and three chairs, 1965) consiste in una sedia « tale e quale », affiancata quindi dalla sua riproduzione fo. tografica e infine dalla definizione che di quell'oggetto si può trovare in un vocabolario (queste ultime due, foto e defini­ zione lessicale, evidenziate con gigantografie). � una perfetta rassegna dei vari tipi possibili di riferimento: da quello di grado zero (la cosa stessa) a quello iconico, a quello concet­ tuale; ma appunto di riferimento pur sempre si tratta: fin qui la definizione lessicale della sedia potrebbe essere un mezzo di tipo estenuato (di estetica al limite con la noetica) per con­ seguire comunque un risultato di coinvolgimento mistico con la cosa stessa. Gli adepti del gruppo Fluxus, con Ben Vautier in testa, non avrebbero operato in modo molto diverso. Tutto cambia se la definizione linguistica viene presa di per se stessa, non più allineata in una sfida concorrenziale con altri mezzi di riferimento. E poco importa che essa venga liberata dalle residue modalità di presentazione « artistica » (il riqua­ dro della gigantografia, troppo simile a un dipinto), e che le varie definizioni vengano fatte giungere agli eventuali frui­ tori disperse come inserti pubblicitari sulle pagine di un gior­ nale o mediante qualsiasi altro veicolo di informazione: fin qui infatti, conviene ripetere, potrebbero spingersi anche gli operatori estetici estenuati ovvero i concettuali mistici. Quello che conta, è l'intrisechezza, l'aseità di quegli scritti; e soprat­ tutto i processi di « calcolo », di sviluppo deduttivo-analitico che Kosuth intraprende su di essi. In seguito del resto egli scarta le definizioni di vocabolario (ancora troppo referen­ ziali, semantiche) per partire piuttosto da brani di discorso comune (un indovinello, un passo di romanzo popolare) 30; ma non siamo più al caso, ampiamente sfruttato da Duchamp in poi, del riscatto dell'oggetto inutile e del suo rovescia-

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mento da un valore estetico zero a un valore massimo, ac­ cordatogli per scommessa. Kosuth non si ferma a proporre i suoi materiali in nome della bellezza inedita e paradossale che raggiungono attraverso uno « spaesamento »: egli opera su di essi, li sottopone a varie trasformazioni, non esitando a prendere in prestito procedimenti matematici; oppure ri­ correndo, in Funzione, agli schemi del sillogismo. A diffe­ renza di quanto avviene in logica e in matematica, però, non importano i risultati cui si perviene; importa l'operare in se stesso, disperatamente autonomo e autofondato; e se questo si affida a meccanismi logico-matematici, lo fa solo per la loro neutralità, per la loro indipendenza da contributi esterni-am­ bientali. In fondo, Kosuth conferma, malgrado tutto, alcune qelle categorie più di frequente attribuite all'esperienza arti­ stico-estetica: l'intransitività, cioè il non mirare a null'altro che al proprio darsi come contesto (a differenza della transi­ tività che caratterizza le esperienze logico-matematiche); e quindi l'inutilità, il disinteresse assoluto. Resta, come già si diceva, un'austerità scostante, un clima di vigilia alquanto ar­ duo da sopportare, una rinuncia troppo radicale a sfruttare le possibilità alternative rispetto alla via mistica: se l'arte non ci gratifica consentendoci il piacere dell'immersione nel cosmo, dovrebbe almeno puntare su un altro tipo di piacere: il fare allo stato puro che è proprio del gioco, il quale però dovrebbe poter maneggiare dei contenuti estetici (sensuosi, gustosi), seppur debitamente sospesi, neutralizzati nella loro portata referenziale. Anche nel gruppo di « Art-Language » si parte da inizi ti­ midi, quando del resto non è ancora uscito il primo numero di questo periodico. Per esempio, nel marzo-aprile '67 Atkin­ son e Baldwin si producono in una nota Declaration Series, dove a prima vista è la solita estensione dell'atto, mistico per eccellenza, dell'appropriarsi di una vasta fetta di mondo con strumenti verbali, perché questi sembrano arrivare là dove non arriva il possesso materiale affidato ai cinque sensi. Viene dichiarato, per esempio, che l'intero Oxfordshire è un'opera d'arte (come avrebbero potuto fare Ben Vautier e On Ka82 wara). Ma già qui c'è la tendenza a non fermarsi all'atto mi-


stico, bensì a « lavorare» su di esso, ad analizzarlo per trarne numerose conseguenze. Un altro inglese, Keith Arnatt, sembra a tutta prima voler sfruttare la virtù inebriante dei numeri, che già ab­ biamo vista usata da Barry per darci un'esperienza del su­ blime. Senonché Arnatt capovolge l'andamento della progres­ sione numerica: fa consistere la sua partecipazione a una mostra nello scandire con un metronomo i secondi della sua durata, ma alla rovescia, da 2.188.800 a zero: in tal modo non c'è più esperienza immaginaria-estetica di un progressivo ritmo di crescita, di un tendere all'infinito, ma al contrario c'è quella che si dice un'operazione in tempo reale, cioè spie­ tatamente nemica di ogni virtualità e metaforicità, intera­ mente uguale a se stessa, ovvero « concreta» 31• Lo stesso Arnatt passa poi ad attività assai più raffinate e mentali, po­ nendosi in un'altra occasione l'interrogativo: «:e, possibile per me non far niente come mio contributo a questa mo­ stra?», e ricavandone una sottile rete di deduzioni 32• Le xero­ copie sono normalmente uno strumento dei «mistici» per fermare un attimo di esistenza, la traccia minima del con­ tatto o del passaggio di qualcosa. Nello Xerox Book di Ian ·Burn e Mel Ramsden vengono invece sollecitate a dar luogo a un'operazione di autogenesi (si potrebbe quasi dire di par­ tenogenesi). Supponiamo di xerocopiare un foglio bianco: la copia non sarà perfettamente identica all'originale, ma re­ cher� qualche macchiolina fuori programma. Fin qui, potrebbe essere un ottimo risultato « mistico»: la debole, pressoché invisibile traccia depositata dal vuoto stesso, dal « nulla», per dirla con Ben Vautier. Ma se si insiste a fotocopiare di nuovo la foto della foto, e così via, le macchioline si ac­ cumulano, si moltiplicano ad ogni passaggio, e l'accento si sposta tutto sullo svolgimento dell'operazione in sé; a patto di resistere alla tentazione estetica di considerare il risultato finale come analogo del macrocosmo stellare e del microcosmo del suolo, quasi si trattasse di una testurologia di Tobey o di Dubuffet. Victor Burgin stende, al modo di Barry e di Weiner, una serie di Statements, ognuno dei quali sembra ri­ petere l'ormai noto carattere di spartito da eseguire mental-

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mente per regalarsi un possibile happening; solo che in que­ sto caso, diversamente da quello dei due artisti statunitensi, si infittiscono i legami tra uno statement e l'altro: la sintassi, alla fine, prevale sulla semantica 33• 5. Conclusione. Volendo ora tirare le somme di questo esame del concet­ tuale, conviene forse parare un sottile sospetto di aver assi­ stito a una conferma dello stucchevole nihil sub sole novi. Se si tratta del concettuale «mistico», esso sembra ribadire i presupposti di un'estetica mondana, largamente presente nella pratica dei nostri tempi: l'arte e il comportamento estetico come accorgimenti per costituire un contesto volto a «spre­ mer fuori» (esprimere, se non si temono le implicazioni an­ tiquate di un tale termine) certe proprietà generali della pre­ senza del mondo - proprietà non necessariamente fisiche, ma anche immaginarie, ideali. Se si tratta del concettuale «tautologico» di Kosuth e compagni, esso conferma una li­ nea, forse minoritaria nell'arte contemporanea (non fosse altro che per le difficili pretese di radicalismo su cui poggia), comunque molto importante: la linea del concretismo: l'arte· come una pura concrezione, una fabula de lineis et figuris che altro non cura se non la propria sintassi interna. Si comin­ cia coi Costruttivisti russi e con le forme più rigorose di astrattismo; si continua con certe espressioni pittoriche pa­ rallele all'action painting degli anni 'SO, ma completamente diverse, cambiate di segno, come quelle di Barnett Newman e Ad Reinhardt; e si giunge infine al Minimal, vigilia obbli­ gata del concettuale formalistico, tanto è vero che molti se­ guaci di quest'ultimo iniziano la loro carriera nell'ambito di quello. Una riprova di un tale sconcertante sospetto circa un ri­ petersi della storia ci viene dalla lettura degli aforismi stesi nei lontani anni '30 dal nostro Carlo Belli e ora opportuna­ mente riediti da Vanni Scheiwiller 34: li proponiamo alla me­ ditazione di Kosuth e della Millet, certi che anche in loro la chiaroveggenza anticipatoria di queste affermazioni, o per lo 84


meno la loro alta aderenza a esigenze che sembrerebbero esclusive dei nostri giorni, non mancherà di suscitare stu­ pore e ammirazione. La concezione dell'arte come tautologia vi viene continuamente ribadita: « L'arte è Essa quindi non è altra cosa all'infuori di se stessa»; « Ogni cosa è uguale a se stessa...»; « Il pubblico non comprende che l'unità è l'unità... che la pittura è la pittura, che la scultura è la scul­ tura », fino alla nudità della formula logico-matematica: « [la massa bambina] non potrà mai comprendere che A = A». Di qui la feroce esclusione di consolanti compromessi umani­ stici: « L'arte non è dolore, non è piacere... non è in nessun modo un fatto umano», « Tanto più si comprende l'arte quanto meno si è umanità»; « Una mostra di opere che ncin portino titolo, senza firma degli autori, senza data e senza nes­ sun riferimento umano, distinte una dall'altra con semplici in­ dicazioni K, K,, Kz... Kn ». E ovviamente la stessa lotta contro il soggetto umano si ripercuote anche contro l'oggetto monda­ no, sotto forma di una implacabile requisitoria dei torti, ap­ punto, referenziali-mondani di cui, agli occhi schizzinosi di Belli appaiono colpevoli le avanguardie storiche anche più audaci: « Il cubismo ha generato la pittura geometrica, al­ gebrica, logaritmica, e il mercante Aphtalien, nel noto ro­ manzo di Georges-Michel, parla di sezione aurea, di proiezioni ortogonali coniugate, della « suite di Fibonacci»... Ma tutta questa attività preziosa si è esplicata il più delle volte in funzione di anatomie animali, vegetali e minerali, e siccome ciò presuppone un oggetto, è facile comprendere che si trat­ tava ancora della natura». Dunque, veramente nihil sub sole novi, se non un medio­ cre incremento quantitativo per cui là dove Belli ancora parla di pittura e scultura, di « opere », di dipinti, ora dovremmo collocare qualcosa di molto più espanso, cioè dei procedi­ menti informativi privi di un ubi consista,n materiale? Ma chi dice che questo sia soltanto un « mediocre incremento >, e non uno spettacolare mutamento di prospettive? In fondo, cadremmo vittime di una trappola meschina, se insistessimo nella quérelle tra un concettuale ancora estetico-mondano e un altro « puro », asettico, disumano. Quello che conta è pre- 85


cisamente l'incremento, la dilatazione, il constatare che l'uma­ nità si sta installando a livello di mezzi appunto concettuali, cioè estremamente sottili, diffusi, telepatici. Una grandiosa mutazione antropologica è così anticipata, seppure :i livello di progetto ipotetico, dalle ricerche d'avanguardia. E ritor­ nando al concettuale « puro », dobbiamo constatare, dopo la lettura degli aforismi soprendentemente acuti del Belli, che ciò di cui esso si può vantare non è tanto la novità di criteri tautologici, concreti, assoluti, già largamente presenti nelle avanguardie storiche; quanto piuttosto la qualità ultimamente « mistica », essa sì nuova, non ancora sperimentata, secondo cui tali criteri formalistici vengono ora attuati, in una diffusa vita cosmica. Se accettiamo la magra quaresima che ci am­ manniscono le « investigazioni » kosuthiane, è più in nome del loro inedito carattere aereo-impalpabile, onnipresente, che in quello di un rigore matematico cui da tempo già altre forme storiche d'arte ci hanno abituato.

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1 Rinvio al mio studio La rivincita dell'estetica, « Marcatré » n.s., nn. 4-5�. 2 Naturalmente ho presente la rilettura di Kant e di Schiller effet­ tuata da Marcuse. 3 Come si sa, la contrapposizione « opera o comportamento » è stata il tema di fondo (su indicazione di F. Arcangeli) del padiglione italiano nella 36• Biennale d'arte di Venezia. Cfr. anche il mio Dall'og­ getco al comportamento, Roma, 1971. 4 Questi due termini, assai familiari nell'ambito della logica, sono richiamati dai concettuali inglesi T. ATKINSON e M. BALDWIN, De legibus naturae, « Studio Intemational», May 1971. s S. LEWITI, Sentences on Conceptual Art, « Art-Language », I, n. 1, May 1969, p. 11. 6 Tratto da G. CELANT, Arte povera, Milano, 1969, p. 115. 7 J. A. THWAITES, Lawrence Weiner, « Art and Artists», sept. 1972. a L. WEINER, Statements, « Art-Language», n. cit. 9 Ho particolarmente studiato queste epifanie normalizzate o estasi espanse per quanto riguarda le ricerche narrative contemporanee. Cfr. L'azione e l'estasi, Milano, 1967. I romanzi d'azione potrebbero corri­ spondere all'altra anima del concettuale, quella che più che a una re­ ferenzialità mondana guarda ai valori sintattici interni (cioè ai valori di intreccio). 10 Del resto anche un « operatore sonoro» (quello che in altri tempi si sarebbe detto un compositore, o anche un esecutore musicale) è giunto a proporre delle « sentenze» sul tipo di quelle di Weiner, che risulta quindi ancor più legittimo considerare come altrettanti spartiti. Cfr. G. CHIARI, Senza titolo, Milano, 1971: « Appoggiare l'orecchio alla clessidra e ascoltare il tempo - Scendere una scalinata in diagonale -


abbassare la maniglia di una porta senza aprirla • Stringere uno spillo o un pennino tra due dita... "· 11 Torino, 1970. U Torino, 1970. 13 Torino, 1971. 14 New York, 1971, voli. 20. 15 Fra i vari • operatori» che ci propongono l'esperienza del sublime mediante progressioni numeriche troviamo il torinese Mario Merz, con le sue note ricerche sulla serie di Fibonacci. Cfr. la mia breve nota M. Merz in Dall'oggetto al comportamento, cit. 16 New York, 1970-71, voli. 10. 17 Ne esamina attentamente le ragioni E. MIGLI0RINI, nel suo Con­ ceptual Art, Firenze, 1972, lo studio più approfondito scaturito in Italia su tutta questa problematica. Cfr. p. 95. Cfr. anche lo studio ampio e ben documentato di D. DEL PESCO e M. PICONE, Note sull'arte concettuale, in • Op. cit.» n. 25, settembre 1972. 18 Cfr. un art. molto acuto di R. FRIEOMAN, Flwms and Conceptual Art, • Art and Artists », oct. 1972, dove si arriva a parlare di uno stato di • grazia » raggiunto dai concettuali, o anche di uno stato estatico ( « ... senso dell'innata datità del momento particolare, soggetto o og­ getto a portata di mano ora come ora, l'esserci [is-ness] delle cose, persone, tempi cosi come esistono» (p. SO, trad. mia, come anche in seguito). Un altro art. nello stesso numero della stessa rivista, di V. MUSGRAVE, The Unknown Art Movement, traccia un perfetto albero genealogico del concettuale « mistico»: « Dada, Cage, McLuhan, Mar­ cuse, Mumford, I Ching, Krisnamurti... W. Reich, Zen». 19 Dal Catalogo dell'esposizione Documenta 5, Kassel, 1972, sez. 13, p. 17. 20 Cfr. Il mio scritto introduttivo all'esp. presso la Galleria Schwarz, Milano, 1971. Quello che qui si dice di M. Bentivoglio può essere esteso al fronte di tutta la • poesia visiva» (in Italia): E. Miccini, Sarenco, L. Marcucci, L. Ori, M. Perfetti, B. Reale; altri operatori tra il verbale e il visivo: E. Isgrò, U. Carrega, V. Accame, A. Spatola... Per un ap­ proccio teorico cfr. L. PIGN0Tn, Fra parole e immagine, Padova, 1972. 2i Cfr. la mia nota su G. De Dominicis in Dall'oggetto ecc., cit. 22 Questa è anche la ragionevole conclusione cui perviene un art. di A. GoLOIN e R. KUSHENER, Conceptual Art as Opera, « Art News ,., aprii 1970, p. 40: « Nell'arte c. non ci si aspetta che uno contempli l'oggetto per una esperienza artistica significativa - sarebbe ben pre­ sto annoiato. Ma allo stesso titolo non ci si aspetta che uno passi un giorno intero a meditare sulle idee. Sono troppo semplici. Si tratta piuttosto di trovare quell'idea legata a questa situazione visiva. Questo confronto fornisce il principale interesse dell'arte c.». 23 J. Kosum, Art after Philosophy, « Studio International », oct. 1969; estratti dalle esp. Software e lnformation, tenute rispettivamente al Jewish Museum e al Modem Art M. di New York, 1970, da Arte concettuale, Milano, 1971; Function Funzione Ftmcion Fonction Funk­ tion, Torino, 1970; C. Mu.LET, Textes sur l'art co11ceptual, Paris, 1972. Allineato su queste posizioni è anche un ben informato contributo di I. T0MASSONI, Dall'oggetto al concetto. Elogio della tautologia. • Flash Art», nn. 28-9. 24 Si è già detto che il contributo del Migliarini è di gran lunga il più ampio e metodico reperibile in Italia. E se ne deve condividere, appunto, l'impostazione bipartita tra « aisthéin,. e « poiéin». Non ugualmente accettabile è però l'insistenza con cui il Migliorini sottolinea il carattere riduttivo che sarebbe proprio di entrambe le vie; o meglio, c'è indubbiamente una riduttività rispetto al carattere com-

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plesso dei tradizionali mezzi artistici, ma rivolta a conseguire un allar­ gamento quanto a capacità di penetrazione percettiva. Non appare quindi giusto asserire (p. 17) che «•.•una psicologia e una filosofia pre­ gcstaltiche informano le più recenti tendenze... dell'arte contempo­ ranea •· Al contrario, come ho cercato di chiarire sopra, le ricerche estetiche del «comportamento» hanno un traguardo di pienez1.a di vi­ ta, secondo la linea che da Schiller giunge a Marcuse. E d'altra parte la «poiesis • di Kosuth e compagni non intende certo essere un'atti­ vità «atomica», ma al contrario strutturale, gestaltica per eccellenza. Kosuth non potrebbe mai accettare che l'una o l'altra delle sue Inve­ stigazioni dovesse « ••• servire come pretesto per cogliere le oscure ener­ gie, le oscure germinazioni mentali, gli impulsi al momento del loro nascere" (p. 124). Se cosl fosse, sarebbero più di natura «estetica• che artistico-poetica. 25 Rimando in proposito al mio Per un'estetica mondana, Bologna, 1964. 26 Cfr. l'Introduction di «Art-Language », n. cit., n. 10: « Merleau­ Ponty è uno tra quanti di recente hanno dato contributi alla lunga linea di filosofi che in vari modi hanno posto l'accento sul ruolo delle arti visive come correttivo dell'astrattezza e generalità del pensiero concettuale •· 27 Cfr. MILLET, cit., p. 15: «Il contenuto dell'opera d'arte, quello che essa significa, non è altro che una definizione del supporto, della sua forma o della sua funzione, di ciò che si potrebbe chiamare con­ tenente e perfino, se è lecito azzardare una terminologia specialistica, il significante». 28 T. TOOOROV, presentazione dell'esp. di M. Barré, Paris, mai 1969. Cfr. MILLET, p. 56. 29 Per questa strada l'arte c. potrebbe diventare una specie di gioco combinatorio di materiali anche vistosi-sensuosi (recuperati p. es. dal museo). Qualcosa del genere sta avvenendo nel nouveau-nouveau roman francese di Jean Ricardou, che costruisce con criteri matematici degli assemblages apparentemente romanzeschi. Cfr. La prise de Costanti­ nople, Paris, 1965, dove il riferimento a Costantinopoli e alle Crociate interviene solo per un procedimento di analisi sul proprio cognome: RicARDOU ha cinque lettere in comune con VillehaARDOUin, il can­ tore appunto delle Crociate. 30 Cfr. p. es. la 6• Investigazione (Proposizione 2), 1%9, riportata in Idea Structures, London, 1970. Il brano comincia così: « Avevano cenato distesamente al lume di candela, e ora Celia stava cucendo mentre Jim si rilassava senza far nulla di particolare... ». Il racconto si popola poi di ospiti che mangiano dei crackers... L'artista, imper­ territo, «calcola» con varie operazioni matematiche un gran numero di relazioni tra questi elementi della «storia». Come si vede, non siamo molto lontani dalle rive del nouveau-nouveau roman alla Ricar­ dou, se si eccettua la maggiore « magrezza» e austerità delle Investi­ gazioni kosuthiane, mentre il narratore francese non esita a tirare in ballo materiali romanzeschi. 31 Cfr. Idea Structures, cit. 32 lbid. 33 Se ne ha la trad. it. in Arte conce//ua/e, cit. 34 Milano, 1972.

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L' antidesign ALMERICO DE ANGELIS

Generalmente si è soliti classificare il design in due grosse categorie: quello di tipo tradizionale (sia pure conte­ nente al suo interno tutta la carie.a di elementi riformatori) che si propone di offrire una risposta ai numerosi problemi deJI'attuale momento storico, e quello radicale, che gli in­ glesi chiamano « counter-design» e che noi generalmente definiamo come anti-design 1, che si propone, talvolta me­ diante il ricorso all'utopia, di provocare una modifica dei valori, o se si vuole della struttura dell'attuale società. Il pro­ blema però non va esaurito in questi due grandi filoni, ma dovrebbe comprenderne almeno altri due: lo styling e quello che vorremmo chiamare design archetipale o « meta-design» 2• In questa rassegna - che prende spunto dalla recente mostra « Italy: the new domestic landscape» apertasi lo scorso maggio a New York - parleremo principalmente di « counter-design» e di «meta-design» che, benché lontanis­ simi come modo di operare e, se vogliamo, come finalità, sono accomunati dal fatto di rappresentare ambedue dei non-pro­ getti o, in altri termini dell'anti-design. Sullo styling molto è stato già scritto, anche su questa stessa rivista 3, e molto si è dibattuto in questi ultimi anni, e questo credo ci esima dal parlarne ancora. Vorremmo solo citare una frase del Dorfles che sembra riassumere le ragioni che sono state alla base - anche senza per questo costituire una giustificazione ..... del fenomeno. Il fatto di ricorrere a 89


oggetti « diversi » non ancora posseduti da tutti o che co­ munque presentino delle particolarità tali da conferire al loro proprietario quella Invidiabile preminenza che solo l'Insolito, il nuovo, l'inedito sono In grado di offrire, difficilmente sarà estirpata da un'umanità, anche socialmente evoluta e non classisticamente retriva 4• Perché questa Invidiabile premi­ nenza? E perché farla dipendere dal possesso dell'oggetto? Vero è che l'uomo cerca di differenziarsi, perché diversi sono i caratteri, diverse le abitudini. Ma se una stessa natura ha dato luogo a culture differenti, c'è da chiedersi se non si possa pensare a degli elementi primari di arredo, degli uten­ sili che ogni uomo possa organizzarsi secondo la propria cultura. Bisogna però al contempo riconoscere che l'evoluzione industriale e il processo consumistico ad essa collegato - quale che sia il giudizio su quest'ultimo - hanno lasciato un grosso segno sul nostro ambiente e, quello che più conta, hanno contribuito in modo determinante alla formazione di una coscienza individuale ( questo vale sia in senso positivo, come in quello negativo), nella misura in cui l'essere umano appare molto più sensibile alle comunicazioni che gli pro­ vengono per immagini 5, e in ultima analisi a tutto il mondo della cultura. E, per dirla ancora con il Dorfles: non è pos­ sibile, In altre parole, prescindere ormai dal considerare come determinante l'influsso del prodotto industriale su tutto quanto il panorama dell'arte visuale contemporanea, sia che questa cerchi d'imitare l'oggetto industriale, sia che se ne serva ( come è accaduto per l'arte « pop ») per Inclu­ derlo nelle proprie costruzioni o per valersene come di « simboli » della nostra epoca: tutte le opere più interessanti della pittura degli ultimi vent'anni - da Rauschenberg a Liechtenstein, da Le Pare a Fontana, da Warhol ad Arman, non sarebbero concepibili senza la presenza d'un influsso di­ retto o indiretto dell'oggetto industrialmente prodotto 6• Ma proprio contro questo influsso che - spesso a livello inconscio - il prodotto industriale esercita sull'individuo, si muovono i protagonisti dell'antidesign: Destroying tbe notion of the object and tbe city means opposing the domi90


nant trend now prevailing in italian design, which cultivates the aesthetic quality of the product as status symbol and imposes middle-class standards on the urban environment 7• Il loro lavoro si muove spesso sul piano dell'utopia. Si tratta di utopie negative in quanto non tendono ancora alla costru­ zione di città ideali, ma piuttosto all'eradicazione dell'archi­ tettura e dell'urbanistica per liberare l'uomo da tutte le strutture formali e morali che gli impediscono di porsi libe­ ramente a giudizio della propria condizione e della propria storia 8• Vero è anche che problemi connessi con l'incremento demografico, collegato con l'affacciarsi di un sempre maggior numero d'individui al cosiddetto mondo civile, o se volete industrializzato, oltre a creare di per sé « nuovi » bisogni . « indotti » ha ridotto sempre più l'area a disposizione della natura e sempre di più le possibilità di fruizione di questa. Di qui, si voglia o non si voglia, la necessità dell'artefatto, la creazione di un ambiente artificiale che costituisca una possibile alternativa a quello naturale. Non a caso questo transfert è avvenuto anche a livello di linguaggio: termini come environment ( che deriva dal francese environs che sta per dintorni) o come landscape cui corrisponde il nostro « paesaggio » usati una volta esclusivamente in riferimento ad elementi geografici, sempre più e sempre più frequente­ mente, li troviamo riproposti nel linguaggio architettonico,. Sotto questo profilo la scelta più coerente potrebbe apparire la città senza confini: « No-stop City » degli Archizoom, di cui parleremo più avanti. Il problema a questo punto ha un necessario rimando a monte. Per molto tempo - forse troppo - i critici hanno dibattuto il problema se il design potesse essere conside­ rato arte oppure no, e diciamo pure che facendo questo non facevano niente altro che il loro mestiere, ma evidentemente le cose hanno avuto, come spesso accade, una evoluzione più veloce dei loro discorsi, diventando di pertinenza non più o non tanto dei critici quanto dei sociologi, degli antropologi, dei comportamentisti, dei politici. L'evoluzione della società, le conquiste della tecnologia, il salto di dimensione, la presa 91


di cosèienza politica, gli aumentati bisogni - questa volta non tanto e non solo di beni - di un numero sempre mag­ giore di individui, hanno evidentemente spostato se non ri­ baltato l'ordine dei problemi. L'idea che Caccia Dominioni abbia disegnato una bellissima maniglia nuova non interessa più nessuno. Anche perché potrebbe darsi il caso che la por­ ta, ammesso che ce ne sia bisogno, possa aprirsi anche senza maniglia. Il problema di una riduzione da operare anche nel campo del design diviene sempre più urgente, e non soltanto nel senso di eliminare la serie infinita di duplicati che esiste di oggetti che assolvono alla stessa funzione, ma anche nel senso di eliminare tutte quelle false funzioni e falsi bisogni che finora sono serviti da alibi alla creazione di una quantità di falsi oggetti, o quanto meno inutili. E poi prima di risol­ vere il problema della maniglia e della porta c'è la casa 9• Più che la casa il problema è Ja città, più che la città il problema è l'ambiente o la nostra stessa vita: se non riu­ sciamo ad ipotizzare un tipo di vita che ci soddisfa, certo non saremo nemmeno in grado di predisporne gli strumenti adatti; e quali strumenti? Pensare che il design - almeno quello concepito in senso tradizionale - possa essere l'arte­ fice di questa evoluzione, o pensare anche soltanto che possa contribuire a questa presa di coscienza · dell'individuo sui problemi reali è veramente utopico, se non altro richiede­ rebbe dei tempi troppo lunghi per essere accettabili; a meno che non si faccia l'ipotesi della saturazione come ipotesi di « prècipitazione » 10• Il design - in questa situazione - può solamente giocare un ruolo di spalla; ma anche questo non è da buttarsi via, pur sapendo che non saremo noi progettisti a cambiare il mondo 11• Che dei nuovi oggetti, sia pure con una carica rivoluzionaria al loro interno, non siano in grado di operare questa modifica strutturale della società è avver­ tito anche da uno dei più brillanti, attenti e impegnati ope­ ratori del settore: Ettore Sottsass, che presentando i suoi oggetti esposti alla mostra di design a New York nel catalogo scrive: Perché la cosa funzioni, dovremmo supporre una so­ cietà, o gruppi di persone, disposte a non barricarsi in citta92 delle fortificate; gente che non senta il bisogno di nascon-


dersi, gente che non senta il bisogno, o l'ineluttabile neces­ sità, di dimostrare continuamente il proprio « status » imma­ ginario, o di vivere in case che non sono altro che cimiteri per le loro memorie 12• Ma chi sarà l'artefice di questa evo­ luzione: certo non ,Ja politica. Se la manipolazione tecnica trasforma l'individuo in una macchina per il consumo, .la manipolazione politica priva l'individuo dell'esercizio del consenso e dell'autodeterminazione u. O per dirla con Karel Kosik: con l'aiuto del potere si può instaurare la libertà, ma l'indipendenza ogni individuo se la. crea da solo e senza intermediazioni 14• La libertà non viene da nessuna altra parte se non dalla possibilità della consapevolezza che ognuno di noi può avere, che sta vivendo e anche insieme, che sta - piano, piano - morendo 15• Indubbiamente un ruolo importante lo avrà il design, ma inteso questa volta come progetto di situazioni ambien­ tali che permettano, o stimolino, comportamenti diversi. Per, ché soltanto attraverso i comportamenti l'uomo potrà riu, scire a liberare se stesso. Vi è pur sempre il problema della riduzione; sperare che questo avvenga come conseguenza di una saturazione è illusorio come accennavamo prima e comunque richiederebbe tempi troppo lunghi. Uno degli scopi del designer, oggi, è quello di capire in questa marea di bisogni quali sono quelli primari e dedicarsi alla solu­ zione di questi bisogni. i:: in questo processo riduttivo che bisogna operare, e dire alla gente potete fare a meno di questo o di quello e quindi di lavorare 16• Soltanto riuscendo a liberare l'ambiente da tutte quelle superfetazioni che si sono andate accumulando artatamente, specie negli ultimi tempi, si può ridare all'uomo la capacità di pensare; di organizzarsi il proprio spazio finding form for your own experience instead of fitting loto other peoples schedules 17• t! in questa direzione e con queste tematiche di fondo che si sono andati sviluppando, in questi ultimi anni, in Italia, ma non solo in Italia, gruppi di ricerca che operano all'io• terno o talvolta ai margini della più vasta problematica ar• chitettonica, svolgendo un'azione che vuole essere di stimolo o di verifica per una modifica strutturale della società. 93


I gruppi Superstudio, Archizoom, 9999 - operanti tut­ ti a Firenze - o le persone come Ugo La Pietra o lo stesso Sottsass, da anni sono portatori di questa nuova po­ sizione del designer che non è più l'artista che aiuta a fare più bella la casa che bella non sarà mai, ma degli individui che muovendosi sul piano dialettico oltre che formale susci­ tano dibattiti e stimolano comportamenti che contribuiranno a questa presa di coscienza; unica premessa per un riequi­ librio di valori e infine per una evoluzione o se vogliamo un recupero dell'uomo stesso. Perché l'unica cosa da pro­ gettare è la nostra vita. E basta 11• I modi di essere di questa neo-avanguardia sono i più diversi, anche se formalmente vicini, tanto da apparire iden­ tici allo spettatore superficiale. Vanno dal neo-tecnicismo, carico però - abbastanza ovviamente - di implicazioni socio-politiche degli Archizoom, alle esperienze comporta­ mentiste di Ugo La Pietra, alle ironie cariche di significati, e al sogno -'- .mon confessato - umanistico dei Superstudio e di Ettore Sottsass. Comune a Sottsass e ai Superstudio la ricerca dell'elemento magico quale elemento coagulatore de­ gli istinti primordiali dell'individuo. La spazialità continua del razionalismo storico presupponeva una equivalenza dei gesti e dei comportamenti. Qui al contrario, lo spazio si con• centra, coagula in nuclei più densi, riservati a funzioni che si ritengono in qualche misura privilegiate, più cariche di senso: atti che potrebbero, dovrebbero ricoprire i significati originari simbolici, rituali, mitici 19• Quello che noi diciamo da tempo ( e che dice da sempre il Sottsass) è appunto il recupero dell'oggetto a questi valori magici, a questi livelli che diventano livelli esistenziali 20• Al contrario ciò che propongono gli Archizoom vuol dire soltanto spostare il problema. Introducendo la luce e l'area­ zione artificiale su scala urbana, vediamo che non è più ne­ cessario procedere al continuo spezzettamento immobiliare tipico della morfologia urbana: la città diviene una struttura residenziale continua, priva di vuoti e anche di immagini architettoniche 21• D'accordo, e poi? A questo livello di pro94 poste ce ne sono state anche altre come quelle di Fuller


o quelle affidate ad una tecnologia più raffinata che mediante l'uso opportuno dei satelliti artificiali,. ci assicura un condi­ zionamento continuo e perfetto del nostro pianeta. Il pro­ blema è un altro: date per scontate queste ipotesi - e qui prima o poi, in un modo o in un altro ci si arriverà - come vivremo in queste condizioni? Voglio dire quali saranno le nostre capacità associative? in che cosa crederemo? con che cosa giocheremo? per che cosa ci emozioneremo? Provate a mettere un italico medio all'interno di « No­ stop city », dategli pure una tenda di quelle che oggi si usano nei campeggi, per organizzarsi la sua privacy; l'unica cosa che sarà in grado di fare sarà quella di entrarvi e piangere. La proposta tradisce l'intenzione di dare al problema esisten­ ziale una risposta tecnologica. Proporre una città indifferen­ ziata formata da tante piastre - 40 - sovrapposte le une alle altre, in teoria senza limiti di estensibilità, con aria e luce artificiale, i garages sotto, e i giardini pensili sopra, con la scusa di restituire alla natura il suo ruolo autonomo 22, significa riproporre - su scala diversa, e quindi con conse­ guenze ben più tangibili - i modelli corbusieriani che tanta parte hanno avuto nell'attuale dramma urbanistico e umano. Più chiaramente gli Archizoom prefigurano un'architettura intesa come struttura neutra, disponibile ad un uso indiffe­ renziato, non strumento di organizzazione della società, ma libera area attrezzata in cui sia possibile compiere operazioni spontanee di sperimentazione di habitat individuali o collet­ tivi 23• Ma chi compierà queste « spontanee ,. sperimentazioni? il sottoproletario o ancora l'architetto-designer-santone? E ammesso che sia il sottoproletario, in che condizioni le com­ pierà? e con che mezzi? L'aspetto più drammatico è che « No-stop city ,. è una proposta esattamente realizzabile e con margini di profitto infinitamente superiori per gli ope­ ratori economici. Bisognerà pazientare soltanto un poco e vedrete che salterà fuori qualche finanziatore, desideroso di far quattrini e un po' di pubblicità, che proporrà di costruire almeno un pezzo di e No-stop city », per la gioia di tutti e clegli Archizoom. Dove il discorso diventa scoperto è quando 95


un altro componente del gruppo, Massimo Morozzi, scrive: Il discorso di fondo dovrebbe essere quello di fornire all'in• dustria di arredamento già un programma industriale com­ pleto, studiato però per la Montecatini, l'Eni, ecc. 24•

Questo per fornire degli ambienti prefabbricati, tutti uguali, ovviamente, al modico prezzo di S milioni l'uno, per riempire gli spazi vuoti di « No-stop city»? Affatto diverse, le proposte del gruppo Superstudio si muovono nel campo dell'utopia pura, usata spesso come sot­ tile ironia per evidenziare le contraddizioni del.la società contemporanea. Così le « Dodici città ideali» che non sono che un mezzo, se volete divertente, se volete irriguardoso, per far emergere queste contraddizioni. Il tutto condotto con lo spirito del gioco: gioco a quiz, bisogna scegliere una o più città. Quale che sia la risposta sarete considerato uno « zombi» un « golem» un robot un « mutante », un idiota 25• Soltanto se avrete capito il gioco sin dall'inizio potete sal­ \larvi 26. Quest'atteggiamento provoca irritazione, imbarazzo, o quanto meno incomprensione, da parte del fruitore. Ma fa ancora parte del gioco; questa volta la dimensione è totale. Ironizzare, aggredire, spiazzare è l'estremo tentativo - a vol­ te, forse patetico - per non essere assimilati dal sistema e perdere così ogni capacità critica nei confronti dello stesso. Ogni tentativo di teorizzare un comportamento difforme viene facilmente inglobato nel sistema onnivòro cultura� società, in quanto ne utilizza gli strumenti della rispettabilità scientifica. Per questo ogni azione alternativa deve essere

mobile e incomprensibile, cambiare apparentemente obiettivi e stancare con la presenza continua n. Così l'architettura interplanetaria intesa come presa di coscienza delle frustra­ zioni dell'architettura terrestre e come ultima possibilità di lavoro di un'area libera dalla logica razionale dell'architet• tura come produzione di beni 24• Così il « monumento con­ tinuo» risultato di una logica estrapolazione. L'immagine limite di una storia angolata dell'architettura. La storia del 96

monumenti cominciata con l'età della pietra, attraverso la Kaaba fino al Vertical Assembly Building a Capo Kennedy


trova la sua realizzazione in un monumento capace di « for� mare ,. l'intero mondo. Formare = capire 29• Architettura, quindi, come comprensione del mondo. L'unica possibilità di salvezza dell'uomo come specie, è la presa di coscienza del proprio disgusto per le cose, il terrore del proprio stato, e quindi la fuga, unica alternativa al suicidio di massa, alla fine del lemming io. Alla base di questo atteggiamento c'è un rifiuto di fondo della progettazione inteso ancora come difesa per non ritro­ varsi integrati nel sistema. Questo ovviamente non vuol dire rifiuto di operare, ma piuttosto la scelta di un'« area di par­ cheggio » da cui attendere l'evoluzione delle cose e dell'uomo. In queste proposte riscontriamo un fattore provocatoriamente ironico e una forte, consapevole componente ludica. Ma In questo gioco progettuale gli architetti mostrano di aver com­ preso ciò che sta accadendo e di voler incidere nella realtà nel senso indicato da Mc Luhan, ossia realizzando modelli di situazioni non ancora maturate nella società 31 e costruendo Arche di Noè per affrontare il mutamento che si prepara 32• La speranza s'intravede appena come conseguenza della fine dell'attuale società dei consumi. Quando il design come indu­ zione al consumo cessa di esistere, si crea un'area vuota in cui lentamente affiorano, come sulla superficie dello specchio, li bisogno di fare, plasmare, trasformare, donare, -conservare, modificare. L'immagine alternativa ( che è poi la speranza di un'immagine) è un . mondo più sereno e disteso, in cui le azioni ritrovino il loro senso completo e in cui la vita sia possibile con pochi utensili più o meno magici. Oggetti come specchi, cioè riflesso e misura 33• Più complesso il lavoro di Ettore Sottsass. A cavallo tra un'attività di design, che potremo definire inserita ....,.. le pro­ gettazioni per la Olivetti 34....:... ed una di contestazione - basti pensare agli oggetti esposti alla mostra tenuta a Stoccolma nel · 1969 35 o al progetto utopico « Il pianeta come festi­ val » 36 - finisce con lo sfuggire a qualsiasi tipo di classifica­ iionè. La realtà è che oggi è veramente difficile, per chi opera, non ·risentire delle contraddizioni del sistema. Si aggiunga 97


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lo sfasamento di tempi tra ipotesi di evoluzione della società e sua reale condizione. Sfasamento che spesso è aumentato dalle fughe in avanti di molti di coloro che amministrano la cultura, donde la necessità, talvolta, di tornare a prendere contatto con la realtà che ci circonda. Pur conoscendo esat­ tamente i limiti del nostro operare. È tenuto conto di queste premesse, che può essere intesa l'attività di design di Sottsass. Oltre al lavoro per la Olivetti ha ancora· disegnato oggetti, lampade, tavoli, contenitori. Ma è lecito parlare ancora di mobili? si chiede Gregotti. Presenze violentemente colorate, centri ed elementi di rife­ rimento magici, nuovi altari dove tutto dipende non solo dal rapporto simbolico con l'oggetto formale ma piuttosto dal­ l'approccio rituale (in lui hanno agito molto fortemente la cultura indiana ed estremo orientale come culture della pace e dell'amore); luoghi intenti a provocare nell'abitare un vis­ suto preldeologico, l'attenzione e l'amore invece della mani­ polazione e dell'uso 37• Ma ogni gioco presuppone la conoscenza di regole, l'ac­ quisizione di un codice. Altrimenti non accade nulla. È lo stesso Sottsass ad avvertirlo: questo vale solo nell'ipotesi che il « rito » della vita - come lo chiama Emilio Ambasz possa ricominciare ogni mattina con una nuova consapevo­ lezza, nell'ipotesi che la nostra memoria (che sappiamo di cui nessuno è capace di liberarsi o di eliminare dalla propria considerazione) rimanga memoria, senza la necessità di ma­ terializzarsi in simboli; piuttosto può diventare una sorta di plasma vitale con cui, giorno dopo giorno, poter sempre ricominciare da capo 38• Quale la prospettiva? Non c'è dubbio - scrive sempre Sottsass - che presto o tardi verrà fatto qualcosa per cui ognuno potrà mettersi su la propria casa così come indossiamo i nostri abiti, come ogni giorno sce­ gliamo una strada su cui passeggiare, come scegliamo un libro da leggere o un teatro dove andare; così come ogni giorno scegliamo un giorno da vivere, con tutti i limiti che il destino o il fato ci Impongono 39• L'aspetto drammatico è che tutti sappiamo - e Sottsass per primo - che mentre avanziamo ipotesi per una società nomade 40, vi è ancora


chi - e non certo una minoranza - sogna le due camere e cucina da arredare con i mobili « Cantù » e da pagare con lo stipendio fisso dell'impiego statale. Il discorso non vuole diventare nihilista, ma proprio la consapevolezza dell'impos­ sibilità d'intervenire - almeno con tempi brevi -, su una realtà.umana che appare sempre più distante da certi modelli di vita ipotizzati, ha imposto una riconsiderazione dei metodi ad in ultima analisi una sosta in un'« area di parcheggio» che non poteva essere che al di fuori della stessa realtà e quindi nel campo delle utopie. Dato il tempo e le condizioni - scrive sempre il Sottsass nel pezzo che accompagna nel catalogo gli oggetti esposti alla mostra di New York e dato anche per buono il punto di vista della gente, i miei pezzi di arredo esposti alla mostra non possono essere niente di più che dei prototipi, o forse dei pre-prototipi, e perciò se uno si avvicina s'accorge che in realtà non funziona nulla... Questi elementi di arredo, in effetti, rappresentano una serie di idee, e non una serie di prodotti da essere immessi sul mercato questo pomeriggio o domani mattina. Cosi spero che nessuno si chiederà quanto costano e dove si possano acqui­ stare, perché ovviamente non hanno prezzo e non sono in ven­ dita da nessuna parte. Un punto dovrebbe risultare chiaro: che l'intento della progettazione è stato non quello di otte­ nere un prodotto, ma quello di porre e di suscitare delle idee 41• Ma in fondo restano pur sempre degli oggetti rea­ lizzabili industrialmente, e anche sul piano formale con grandi doti di assimilabilità da parte dell'utente. Almeno di quello che è stato in grado di andare al Museum of Modem Art a vederseli. Non così i disegni e i progetti, che chiara­ mente appartengono al campo delle utopie, eseguiti per « Il pianeta come festival ». Un altro tipo di azione è quello di rifiutare ogni partecipazione, stare isolati e in disparte con­ tinuando a produrre idee, oggetti, di tale intenzionale diver­ sità che il sistema non possa mai utilizzare se non rischiando di venir coinvolto in una feroce autocritica. Per questo l'azione sulla cultura diviene in realtà azione sull'immagine pubblica del sistema squilibrandolo 42• · 1:. sullo squilibrio del sistema che opera gran parte del- 99


l'azione condotta da Ugo La Pietra. La sua pos1z1one non tanto sul piano formale, quanto su quello metodologico, dif­ ferisce da quella degli altri « antidesigners », in quanto netto è in lui il rifiuto dell'utopia, in grado - secondo La Pietra soltanto di liberare la fantasia senza tener conto della realtà sociale, territoriale ed ecologica in cui opera, esprimendo quindi un'alternativa che poggia unicamente nella capacità di pura immaginazione visionaria, chiusa in rigidi schemi formali-figurativi 43 • E ancora: negare l'utopia significa im­ pegnarsi nello scontro diretto con le logiche della produ­ zione 44• Quale che sia il giudizio su queste formulazioni, bi­ sogna riconoscere che Ugo La Pietra è forse oggi l'unico in grado di essere coerentemente definito antidesigner, in quanto l'unico i cui oggetti - se tali possono essere chia­ mati - svolgano soltanto un ruolo strumentale o didattico all'interno della prospettiva - questa comune a tutti - di operare una modifica della società. Strumenti, quindi, che siano in grado, non tanto di risolvere i problemi (ripropo­ nendo ancora una volta un atteggiamento che per anni ha caratterizzato il « fare architettonico ») quanto di sollecitare la presa di coscienza del problemi stessi, in vista di una più completa partecipazione di tutte le forze agenti all'interno della struttura urbana alla definizione e risoluzione dei pro­ blemi individuati 45• Interesse quindi per una dimensione ur­ bana. La crisi della città: fermare il processo di autodistru­ zione. Il problema di una città diversa non si pone, semmai quello di impossessarsi della città che già esiste 46• L'ipotesi di lavoro prevede l'individuazione all'interno della struttura organizzata dei cosiddetti gradi di libertà, vale a dire dei punti che il sistema lascia scoperti, in cui sia possibile inter­ venire. e un'operazione di . recupero. Individuati questi, le soluzioni progettuali si manifestano attraverso partecipazioni (a qualsiasi scala di intervento) in grado di costituire mo­ menti di rottura all'interno della base programmata. La som­ matoria di quesd momenti dovrebbe portare alla costituzione di un « sistema disequilibrante » in grado di coinvolgere qual­ siasi processo di formalizzazione 47• Ma come si accennava 100 prima l'obiettivo non è quello di costruire una nuova città,


né tanto d'intervenire sulle strutture fisiche preesistenti, né di aggiungere nuove forme alle vecchie, ma di incidere ( a livello mentale) sul comportamento dell'individuo e della massa, tentandone la liberazione dai falsi scherni precosti­ tuiti 48 • A questo punto il cerchio. sembra chiudersi. Pur al­ l'interno di metodologie tutt'affatto diverse, su posizioni for­ mali che a volte paiono in netto contrasto, emerge alla fine l'obiettivo comune: to free man from ali the formai and moral strictures that prevent him from passing free judg­ ment on his own condition and history come dice Emilio Ambasz 49, o come dice il Sottsass esprimendo lo stato d'animo, credo, veramente comune a tutti quelli che oggi si sentono impegnati nel settore: ci sono dei momenti in cul ci sentiamo davvero gente dell'umanità. Allora non sappiamo bene che cosa fare: immaginiamo semplicemente le cose che si « potrebbero fare » anche se sappiamo molto bene, molto, molto, molto bene che non si faranno mai cosi come si immaginano. Ma sappiamo m(/lto bene che noi non sappiamo proporre - per ora - altro mezzo per sollecitare il pensiero verso la consapevolezza della somma dei ·problemi come pro­ blema globale al quale cl sembra ormai impossibile sfuggire 50• Evidentemente questi problemi e questi obiettivi non sono soltanto italiani. Vero è che in Italia risultano maggior­ mente accentuati per i maggiori contrasti e squilibri sociali esistenti nel nostro sistema. In realtà da anni, sia pure con punte probabilmente meno polemiche, all'interno di tutto l'arco della cultura occidentale_--:. questo, ancora una volta, perché è qui che emergono in misura più chiara le conse­ guenze contraddittorie della società capitalistica - vanno sviluppandosi movimenti, in stretto contatto con tutto il mondo della cultura, di quella figurativa in particolare, che. tentano di operare, talvolta mediante una critica serrata alle strutture attuali, talvolta aprendo nuovi campi d'indagine - basti pensare a quello comportamentale -'- intèrvenendo nel processo di evoluzione delFuomo nell'intento di liberarlo da tutte le sovrastrutture accumulate lungo il corso dei se­ coli di « progresso ,. e che avevano finito per togliergli ogni grado di libertà. 101


I pnm1 a muoversi in una direzione che, pur sempre rimanendo nell'ambito dell'architettura se ne discostava for­ malmente e criticamente, sono stati probabilmente gli Archi­ gram che hanno cominciato a lavorare - ormai sono diversi anni - intorno a strutture mobili che isolassero e ripropo­ nessero i segni della città. Al di là degli aspetti formali - strutture pneumatiche, strutture di fili, trasmissioni di immagini, - comuni a molti dei gruppi di avanguardia, inte­ ressanti appaiono le formulazioni che sono alla base del loro lavoro: sulla mobilità dell'architettura, il contrasto tra città e campagna, il raggiungimento di uno stadio comune cul­ turale ottenibile soltanto mediante la trasmissione di imma­ gini - processo iniziato dalla televisione - ma che soltanto l'architettura può portare avanti. In più il· tentativo di dare una ri�posta alle istanze della gente, che non sia nel campo delle utopie, ma che certamente non può considerarsi « nel sistema ». It seems fundamental that architects (or whatever) should stop shaklng their hands and discussing always the impotence of the situation. Why not start using their wits to look under the surface of what is going on around them? 51 • troppo facile - dicono in altre parole gli Archigram - rifugiarsi dietro le carenze del sistema per non proporre delle alternative valide. Sooner or later people are going to say, « Yes you've told us what is wrong with the situation but can you do anything about it? » I think that this has remained Archigram's point of view. You can see that what we suggest is only some of the means of response: but it IS a response 52•. Sul piano del gioco, o se volete, del design d'evasione, - uno dei temi portati avanti anche da Superstudio" - si muovono i progetti degli « Haus-Rucker-Co » 54• Strutture pneumatiche su cui si può camminare, giocare, in cui ci si può racchiudere, sospendere, o concentrarsi ascoltando i battiti del proprio cuore. Giocattoli per grandi. Un modo ancora per ritrovarci, stare insieme, per ritrovare un nuovo « habitat » in un amo biente che stava per diventarci ostile. L'aspetto apparente102 mente più evidente è quello ludico, ma con significati più

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profondi come dicono gli stessi autori. The idea of e toy ,. means much more than usually accepted in the everyday sense. We think toys or play-objects and environments can bave deeper meanings than are usually given to them; can loosen people's attitudes and get them to responding in more direct ways to each other and environment. You may think of something llke e City Spa Hotel·• or the e Cover ,. show or the « Undertaker ,. as great big toys, that we are just fooling around. But if that is so, we are footing around seriously, and trying to discover new altematlves for people in changing their environments 55 • Con Alessandro Carlini, italiano, ma trasferito - e in­ tegrato - a Berlino dove risiede da quattro anni, ritorniamo al campo dell'utopia come gesto critico. Suoi i progetti d'in­ tervento con blocchi di ghiaccio all'interno dei tessuti urbani sclerotizzati. Ghiacciate il Centrai Park o la 5th Avenue o la sponda destra del Tamigi! L'origine dei nostri progetti è nella necessità di una nuova ecologia. Sospendiamo l'architettura e la città che soddisfano in termini illusionistici i bisogni delle masse. Sospendiamo cioè il senso (tradizionale dell'ar­ chitettura). Perché l'architettura e la città devono essere Io spazio e il tempo dell'uomo libero e non la neutralizzazione dell'uomo. La città deve essere insomma il CAMPO •, cloè non la condizione utopica dello sparlo esistenziale, ma il grado zero dello sparlo esistenziale quindi lo spazio per l'at­ tività dell'uomo. La gelidificazione del dato è un gesto critico. 11 segno che nato dalla storia si restituisce alla storia 56• A chiudere questo panorama internazionale - necessa­ riamente lacunoso e frammentario, che ha qui il solo intento di relazionare quanto avviene in questo momento in Italia con quanto avviene altrove - abbiamo scelto Ann e Law­ rance Halprin che da anni conducono esperimenti nell'am­ biente. Questi sono effettuati con gruppi di persone di nazio­ nalità, sesso e professione diversa (architetti, scrittori, bal­ lerini, studenti, insegnanti, attori, fotografi, assistenti sociali, casalinghe, e architetti del paesaggio) in ambiente urbano, sub-urbano, selvaggio, compiendo ogni tipo di esperienza e a livello percettivo, e a livello concettuale. Scopo principale 103


del lavoro: verificare le modifiche che l'uomo può apportare all'ambiente e quelle che l'ambiente apportava sui suoi com­ portamenti. ••."Thro'ugh the events they arranged in an open� ended manner; the thlrty-five particlpants,· dealing _in know, ledge .and perceptlon of thelr feelings, bodies and environ­ ments, gained in their abilitles to c!eal ,vith the pains and pleasure of sharing in ànd ·creating the changing environ, ment together 57• Abbiamo voluto concludere questa breve rassegna con gli esperimenti di Ann e- Lawrence Halprin perché di una cosa siamo veramente convinti: se c'è un campo dove ope­ rare, se c'è un campo dove poter trovare una risposta ai tanti, troppi interrogativi, questo è proprio l'uomo. Soltanto intervenendo sui comportamenti e aiutandolo a ritrovare se stesso potremmo anche arrivare ad una nuova architettura; ma allora sarà anche un gesto inutile, perché come diceva l'Adolfo (Nataiini) l'unica cosa da progettare è la nostra vita, e basta. · Alla fine di questo articolo èi accorgiamo che abbiamo parlato molto poco di design, almeno di quello che la gente intende per design. Abbiamo esordito rilevando la crisi del design, ma l'assunto può apparire gratuito senza un'alterna­ tiva. Se vogliamo, molto del lavoro degli-antidesigners è volto più a indagare sui comportamenti dell'uomo, o a provocarli, o a cercare ancora di modificarli · ponendogli dei dubbi, po­ nendolo di fronte alle contraddizioni, costringendolo in fine a pensare. un lavoro questo essenziale, e che certamente viene prima, se si vuole una società diversa, in cui anche il design possa esercitare un ruolo nuovo. Ma quale sarà questo ruolo? e cosa sarà allora il design? La risposta potrebbe essere tanto semplice da apparire banale: qualcosa che ci aiuti a. vivere. Evidentemente le nostre funzioni biologiche si esercitano a due livelli altrettanto importanti - direi com­ plementari - uno mentale ed uno fisico. Quello fisico si esprime ancora attraverso cinque sensi: gusto, olfatto, udito, vista e tatto. Potrebbe sembrare una lezione di antropologia; ma non lo è. Quando ci si accorge di essere in errore, è bene 104 andare all'origine delle. cose. Soltanto tenendo molto ben

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presenti queste, si può arrivare ad una soluzione. Allora il design sarà finalmente uno strumento che ci aiuterà .a com­ piere le nostre funzioni biologiche, le susciterà, le dividerà con noi. E, una volta per tutte, potremo sgombrare il campo da tutti quegli attributi che falsamente gli sono stati deputati in tutti questi anni facendogli assumere un ruolo che non gli competeva più: design come arte, design come status­ symbol, design come messaggio, design come possesso, design come funzione. Questo poi del design come funzione è stato uno dei più grossi equivoci perpetrati in nome del design. La forma può seguire la funzione finché esiste la pretesa (storica) che questa funzione sia definibile al di là dei sedi­ menti ideologici. Quando le funzioni appaiono sovente cosi acriticamente accettate da non essere più funzionali a qual­ che cosa, ma, paradossalmente, « funzionali » in sé e per sé; difficilmente una forma che tenti di « seguirle » potrà non essere gratuita, casuale, velleitaria 53• Evidentemente non è la forma che deve seguire la funzione, semmai sarà la fun. zione - o meglio ancora le funzioni - a scaturire dalla forma. In altre parole il design cessa una volta per tutte di essere una griglia - « frame » - capace di offrire uno ed un solo modello di vita. · La famosa cucina di Francoforte - materializzazione dei (famosi) principi razionalisti sull'abitare - offerta come �sempio a. tanti studenti d'architettura, difficilmente trove­ rebbe una collocazione in una concezione dello spazio at­ tuale, esattamente come non la trova - per citare un solo esempio - l'ambiente proposto da Zanuso e Sapper alla re­ cente mostra di New York. Non a caso prima abbiamo citato i cinque sensi; troppo spesso ne ignoriamo quattro. E la ragione è evidente: un design fatto per il consumo, la cui divulgazione necessariamente è affidato alle immagini, non può che ignorare le altre componenti. Ma forse sarebbe giusto cominciare a non parlare più di design• - fin troppi equivoci sono legati a questo termine - ma di qualcosa che sta al di là del design. e _che definiremo come metadesign. Liberatici del termine ci siamo liberati di tutta una serie di categorie strettamente · collegate con il . termine stesso: ;,105


l'utilizzabilità ( in senso funzionale), la durevolezza, l'esteti­ cità, etc. Allora metadesign potrà essere un gelato, o uno di quei meravigliosi pasticci con majonese esposti sempre alla rosticceria di via della Spiga, o un foglio di carta, o un utensile: una vite, un chiodo. O per entrare nel mondo della natura: un fiore, dell'acqua, la sabbia, con cui costruiamo castelli, ma su cui possiamo anche camminare, riposare... Oggetti di cui ci serviamo per le nostre operazioni quotidiane: per costruire, per giocare, per godere... Quello di cui abbiamo bisogno sono degli strumenti che possano essere la materia prima o gli utensili per il gioco della nostra vita, così come una volta lo era la natura. Degli oggetti che ognuno possa utilizzare secondo i propri bisogni e - cosa molto importante - secondo la propria cultura. Esattamente come fanno i bambini con quello che trovano a disposizione, per organizzarsi i loro giochi, per crearsi i loro spazi. Basta un foglio di carta, una forbice, delle scatole - di cartone o di legno - degli spilli, della colla... I riferimenti non sono casuali, ma potrebbero essere utili per delle nuove categorie di oggetti. Quello di cui abbiamo veramente bisogno sono pochi utensili, più o meno« magici», con cui sia possibile operare. Utensili come partner con i quali creare degli spazi ... non più degli oggetti divinizzati... in spazi considerati sacri... relazionati con un culto che non è più il nostro... delle creature invece... ripeto... come part­ ner... con le quali deridere la nostra epoca protesa verso il consumo 59•

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I « Anti-design ,. letteralmente è un « nonsense ,. perché si tratta pur sempre di design. L'apparente contraddizione in termini viene superata se relazionata al design di tipo tradizionale, o se volete « à la page,. che i protagonisti dell'antidesign vogliono contestare. A titolo di nota aggiungiamo che gli antidesigners italiani sono stati battezzati in lnghiltei:ra da Charles Jencks: « the Supersensualists » a causa delle relazioni « which no doubt do exist between sensual love, metaphysical angst, beauty, advanced technology, and (perhaps) Marxism,. in un saggio apparso su Architectural Design nel giugno '71 e gennaio '72. 2 Il termine « metadesign " è stato già adoperato una volta da Andreies van Onck per indicare ciò che stesse prima del progetto stesso (cfr. Metadesign in « Edilizia Moderna> n. 85). Qui è usato in un senso affatto diverso per ciò che possa assolvere al ruolo oggi esplicato dal


design senza pertanto il ricorso a quest'ultimo. Tipica in questo senso la definizione data nel Bauhaus di una sedia: un gas che ci tiene sospesi a 40 centimetri da terra. J Cfr. Design e mass media in e Op. cit. ,. n. 2 genn. '65. 4 G. DoRFLES, Introduzione al disegno industriale, Einaudi, Torino, 1972, p. 94 (P.e. Cappelli, Bologna, 1963). s Cfr. M. WATSON, Comportamento prossemica, Bompiani, Milano, 1972, pp. 41-42. 6 G. DoRFLES, Le oscillazioni del gusto. Einaudi, Torino, 1970, p. 123. 7 E. AMBASZ, /taly: the new domestic landscape. New York, 1972, catalogo della mostra, p. 421. 8 F. MllNNA, Design for new behaviours in ltaly: the new domestic landscape, cit. p. 411. 9 A. NATALINI/Superstudio in «Rassegna, modi di abitare oggi "• n. 22/23, 1972. Più avanti nello stesso articolo: « Il problema ridicolo è questo che ora all'università di Firenze per esempio abbiamo 6000 ragazzi che saranno disoccupati, è chiaro, però i più intelligenti, i più dotati, carichi di frustrazioni si scateneranno a disegnare oggettini, maniglie ccc. Allora noi o riusciamo a far convergere questo enorme serbatoio di forze su quelli che sono i problemi reali della società, come quello della casa, o si continuerà a fare oggetti d'argento bellissimi mentre i problemi della casa li risolvono i ragionieri"· 10 In realtà questa posizione è risultata più un alibi per molti <lesi gners desiderosi di partecipare comunque al festival di nuove forme, ma al tempo stesso preoccupati di trovarsi una copertura culturale. Che una saturazione del mercato possa portare ad una sua crisi, e quindi ad un azzeramento di posizioni, personalmente ho motivo di dubitarne; anche perché il gusto è sempre condizionato e in fin dei conti chi controlla il gioco è sempre il produttore mai il designer. Tuttavia l'ipotesi ha trovato credito anche tra studiosi attenti e tra operatori impegnati come gli architetti del Superstudio: e Il disgusto è figlio dell'eccesso; qua­ lunque operazione portata al limite genera il disgusto; all'opposto sta l'armonia generata dalla perfezione"· Distruzione, metamorfosi e rico­ struzione degli oggetti in «In,. n. 2-3, 1971. u A. MENDINI, Il design tra elargizione e lusso in « Casabella " n. 354, 1970. u Op. cit., p. 163. tJ F. MENNA, A design for new behaviours in Italy: the new domestic landscape, citato p. 406. 14 K. Kos1K, La nostra crisi attuale, Roma 1969, p. 94. 1s E. SorrsASS, Il pianeta come festival in e Casabella"• n. 365. 16 A. NATALINI/Superstudio in « Rassegna», citato. 17 B. GREENE/Archigram Disintegration of tlte city, in e In", n. 6, 1972. 18 A. NATALINI/Superstudio in e Rassegna"• citato. 19 F. MENNA, A design for new behaviours, citato. 20 A. NATALINI/Superstudio, in «Rassegna», citato. 21 A. BRANZI/Archizoom, L'Africa è vicina: il ruolo dell'avanguardia in « Casabella», n. 364. 22 « Nella ' No-stop city ' la natura non è più uno strumento di figurazione della città, non è più un episodio urbano, ma recupera una propria totale autonomia"· A. BRANZI/Archizoom, L'Africa è vicina, citato. 23 Ibidem. 24 M. MAROZZI/Archizoom in «Rassegna, modi di abitare oggi», n. 22/23, 1972. zs Tutti termini proposti da Superstudio con annesse spiegazioni che

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ci mostrano·quanto un interesse ·ad·una critica di costume sia presente in loro accanto a quella architettonica. Zombi: Un persona uccisa per sortilegio, diventa talvolta la schiava inanimata dello stregone il quale può trasformare il suo zombi in un animale e venderne la carne al pubblico mercato. Golem: Si costruiva con l'argilla rossa una statua umana all'in­ circa della taglia di uri ragazzo di .dieci. anni; Sulla fronte della statua cosl modellata doveva essere scritta la parola vita. Immediatamente il Golem diventava umano... li: mago··poteva impiegarlo per qualsiasi scopo ·senza preoccuparsi minimamente delle fatiche alle quali sotto­ poneva il suo simulacro ... e Mutante• e ... Si svegliò una mattina· da sogni inquieti, si trovò trasformato nel suo letto in un gigantesco scarafaggio "· Franz Kafka. Superstudio: Le Dodici città ideali. -Firenze 1971. . 26 Ibidem.

27 SUPERSTUDI0, Distruzione, metamorfosi e . ricostruzione degli og­

getti, in e In•, n.

2-3, 1971.

28 SuPERSTUDI0, L'Architettura interplanetaria; in « Casabella ", n. 364,

1972.

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29 Cit. in J. BURNS, Arthropods, New· -York, 1972, p. 93. JO SUPERSnJDIO, Distruzione, metamorfosi... cit. Jl F. MENNA, Design for new behaviours, cit. l2 M. McLuHAN, Gli strumenti del comunicare. Milano, 1967. 33 SUPERSTUDI0, Distruzione, metamorfosi ... cit. J.4 « A partire dal 1959, col primo elaboratore Elea 9003/1, la sua collaborazione con la Olivetti si fa stabile ed egli diventa ciò che era stato Nizzoli negli anni cinquanta sul piano dell'immagine dei prodotti Olivetti. La radicale semplificazione stereometrica con cui compie que­ sti primi esperimenti non gli impedisce d'.imporre loro un forte senso della vivacità con cui egli partecipa al mondo figurativo contemporaneo ed in particolar modo alla pittura americana· di quegli anni. ... Numero­ sissime le sue realizzazioni nel campo delle macchine Olivetti: elettro­ niche, per scrivere, elettro-contabili, sino all'ultima 'Valentina ', tutte sorrette da una vocazione verso l'immagine, severa ·e controllatissima, piena di invenzioni ma che non evade mai il senso del piacere del gioco colorato, della presenza plastica nell'ambiente giocata proprio sull'estraneità ed insieme nel tentativo di costruire un normale rapporto oggettuale con l'apparecchio nel contesto: degli- oggetti della casa •· V. GREGOTTI, Design italiano, 1945-1</ll in Italy: the new domestic land­ scape cit. p. 330 (Trat. it. in e Casabella "• n. 371). 35 Cfr. e Domus•, n. 474, maggio · '69.. · . 36 Cfr. e Casabella •• n. 365, maggio 1972. . . J7 V. GREGOm, op. cit. 31 E. SOTTSASS, in Italy: the new domestic landscape, cit., p. 163. 39 Ibidem. 40 e Noi siamo in un momento di passaggio trà una civiltà agricola e una nuova civiltà di cacciatori di nomadi. Il design moderno inizia nel passaggio tra il paleolitico ed il neolitico, il design finisce anche in questo nuovo passaggio tra un neolitico e un nuovo paleolitico... :Molto probabilmente questo passaggio sarà da una civiltà sedentaria come siamo ora ad una civiltà nomade, con là completa distruzione di tutte le strutture formali su cui ci basiamo.» ..A.. NATALINI/Superstudio -in e Rassegna,. cit. 42 SuPERSTUOI0, DistrU1.ione, metamorfosi e ricostruzione degli oggetti, · . op. cit. . 43 U. LA PIETRA, Strumenti e metodi per la riappropriazione e l'uso della struttura urbana, in e In•• n. 5, 1972.. , , . .


44 U. LA PIETRA, ·La cellula abitativa: una microstruttura all'interno dei sistemi di comunicazione ed informazione, in « In"• n. 6, 1972 . . 45 U. LA PIETRA, Strumenti e metodi per la riappropriazione etc.

op. cit. 46 A. BRANZI, L'Africa � vicina: il ruolo dell'avanguardia, in e Casa­ bella », n. 364, 1972. 47 U. LA PIETRA, Strumenti e metodi per la riappropriazione etc. op. cit., 48

Ibidem.

49 E. AMBASZ, Summary, in Op. cit., p. 321. 50 E. SorrsASS, Controdesign, in « Rassegna », n. 22-23, 1972. 51 ARCHIGRAM, lnstant city in progress, in e Architectural Design novembre 1970.

»,

52 Ibidem. 53_ « Se invece

ci si pone il problema di fare i conti ogni momento con la realtà, ci si pone il problema di ·vivere· in modo creativo, in un modo vero insomma, allora respirare regolarmente non basta, e bisogna inventare volta per volta, gli utensili per il • fare• e le risposte da dare ai nuovi quesiti •· e Design d'evasione, al di sopra dei giochi di parola, e di facili assonanze con politiche di disimpegno, è l'attività progettante e opera­ tiva nel campo della produzione industriale che assuma a metodo la poesia e l'irrazionale, e che cerca d'istituzionalizzare la continua eva­ sione dall'orrido quotidiano proposto dagli equivoci del razionalismo e funzionalità. ... Così il design_ d'evasione vuole costituire un'ipotesi d'introduzione di corpi estranei nel sistema... Come esorcismo per l'in­ differenza. Cose che modifichino il tempo e il luogo e che siano segnali per una vita che continua•· -SUPERSTUDIO, Design d'invenzione, design d'evasione, in « Domus •• n. 475, 1969. 54 Cfr. Domus n. 475 e Arthropods, citato p. 64-71. 55 Cit. in Arthropods, cit. p. 65. 56 Cit. in Arthropods, cit. p. 120. : SI J. 8URNS, Artliropods, cit. p. 173. 58 s. GIRONOI, G. MARTINERO, G. R.AIMONOI, A. VACCARONE, De-formaz;ion� come forma d'uso, in e Casabella •• n. 364, 1972, p. 59. 59 G. PEscE, Design? in e Architecture d'aujourd'hw ». n. 155, 1971. p. 62.

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