Op. cit., 27, maggio 1973

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maggio 1973

numero 27

della criticà d'arte contemporanea

Altri aspetti della «riduzione» cultu rale - Interventi: G. Dorfles Riduzione ad oggetto, riduzione a progetto; P. Fossati Riduzione o trasformazione?­ T. Llorens Sul concetto di comunica zione estetica - Libri, riviste e mostre edizioni

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Il centro ,.


Op.cit. rivista quadrimestrale di selezione della critica d'arte contemporanea

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Edizioni  Il centro •


G. Fusco

Altri aspetti della

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riduzioneÂť culturale

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G. Dorfles Riduzione ad oggetto, riduzione a progetto

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P. Fossati Riduzione o trasformazione?

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T. Llorens Sul concetto di comunicazione estetica

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Libri, riviste e mostre

Giancarlo Alisio, Gabriella D'Amato,

Alla redazione di questo numero hanno collaborato:

Costanza Caniglia Rispoli, Urbano Cardarelli, Almerico de Angelis, Alessandra Fasanaro.



Altri aspe tti dell a «riduzione» ·Culturale GIUSEPPE FUSCO

Nelle precedenti proposte di « riduzione culturale» 1 ci siamo più volte serviti di un'immagine che assimilava l'at­ tuale condizione culturale a quella di un libero mercato nel quale ad una fortissima domanda di beni da parte del pub­ blico si facevano corrispondere, in termini quantitativi, una sconcertante sovrapproduzione ed una conseguente sovrab­ bondante offerta. Ciò che impediva, sempre in quell'imma­ gine, la saturazione del mercato era il mancato riscontro in termini qualitativi fra i beni offerti e quelli richiesti. Che senso può avere quell'immagine riferita alla sfera del­ l'arte? Se si volesse affrontare il problema così posto sul piano commerciale, una transazione risulterebbe possibile solo a condizione di un'adeguazione qualitativa della domanda all'offerta, o dell'offerta alla domanda, o infine di un incontro a mezza strada, di un compromesso. La prima soluzione, ap­ parentemente logica in termini commerciali, va tuttavia con­ siderata decisamente irrazionale sul piano « economico », quello dei « bisogni »: questi sono infatti per definizione ir­ riducibili, poiché conseguentemente dettati da condizioni fi­ siologiche, psicologiche, sociali e storiche. Ciò che tuttavia appare irrazionale in termini economici, non sembra impos­ sibile né indesiderabile, almeno a coloro che, in buona fede, ritengono doveroso che le masse attraverso un adeguato quanto improbabile tirocinio « educativo », possano attingere a quella notevole mole di beni artistici che la nostra civiltà

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ha ereditato dal passato e continua· in varia forma e misura a produrre, tanto più quando sono in gioco « valori » che, lungi dal « consumarsi » nella fruizione, si arricchiscono e si moltiplicano 2• In questa visione, dunque, la « logica » com­ merciale si sposerebbe con quella stessa della « cultura », nella fiducia che i « falsi bisogni», cui verrebbero ridotti tutti quelli considerati inadatti all'assorbimento di quei beni, siano frutto di una diversa, deviante operazione commerciale, di una momentanea degenerazione causata dalla crisi di cre­ scenza del mercato. La seconda soluzione, quella di un'adeguazione dei beni alla domanda, risulta commercialmente deleteria, compor­ tando il sacrificio di un patrimonio inestimabile, ed economi­ camente equivoca: infatti mentre è considerato incontesta­ bile il valore dei beni sacrificati; non altrettanto limpida e incontrovertibile appare la « qualificazione» dei bisogni; la questione ovviamente verte sull'interrogativo: chi valuta e in qual modo l'offerta da una parte e la domanda dall'altra? La stima dell'offerta può contare su di una millenaria tradizione critica e storica, sì che chiunque la faccia ritiene di potersi autodelegare rappresentante dell'intera umanità che lo ha preceduto. Viceversa la valutazione della domanda risulta estremamente problematica; chi la fa, a proprio rischio e pe­ ricolo, dispone di strumenti spesso inadeguati, di armi che possono rivolgerglisi contro, e, quel che è peggio, non può contare sull'appoggio della domanda stessa, sempre diffidente, spesso ambigua, e comunque restìa a delegare chicchessìa a valutarla. La terza soluzione, infine, come ogni compromesso, può soddisfare solo coloro che non sono fermamente convinti né del valore integrale dell'offerta né della intrinseca necessità dei bisogni. Quella immagine, dunque, da cui siamo partiti, offre il problema in una formulazione che. appare insolubile in termini economici, poiché non crediamo possibile una edu­ cazione delle masse che non sia anche un'autoeducazione, e d'altra parte è improbabile che una tale autoeducazione con­ duca alla saturazione di quel mercato. Il problema evidentemente è molto più complesso, ma poiché molto spesso nella


prassi esso viene ridotto proprio in quei termini, non pos­ siamo nascondere la simpatia con cui seguiamo l'«audace,, valutatore della domanda e, insieme, la diffidenza che nu­ triamo nei confronti delle incondizionate estimazioni dell'of­ ferta condotte da nani che si ergono sulle spalle dei giganti, per quanto faticosa possa essere stata la loro ascesa. Simpa­ tia e diffidenza che ci hanno indotto a trattare qui il tema della « riduzione culturale" nel campo della storia e della cri­ tica d'arte, cioè proprio dei giganti e dei nani come potreb­ bero apparire allo sguardo di quell'« audace» che per un .at­ timo volgesse gli occhi tanto in alto da scorgerli. Che l'arte, l'opera d'arte, per la sua stessa esistenza, di­ penda largamente dalla partecipazione di un «pubblico» può sembrare una banale constatazione. In realtà si tratta di un'acquisizione, meglio di un'esigenza emersa piuttosto re- • centemente, che risulta ben lontana dall'essere soddisfatta e che attende ancora di essere chiarita in tutte le sue poten­ ziali conseguenze pratiche e teoriche. Finché, infatti, l'arte è stata identificata con la bellezza, con la riproduzione della realtà o, ancora, con l'esperienza estetica, di più, finché è stata considerata come un'attività rivolta ad un fine, quello appunto estetico, pur con le con­ seguenti sottili e troppo note distinzioni fra «bello artistico» e «bello di natura», «opera d'arte» e «oggetto estetico », ed altre consimili, al fruitore, fosse pur ridotto ai «minimi ter­ mini» del committente, del critico, dell'autore stesso, era ri­ servato esclusivamente il compito di verificare la rispondenza dell'opera ad un determinato «modello» (reale, ideale o sto­ rico) o fine (mimetico, didascalico, pratico o estetico). Né tale atteggiamento è sostanzialmente mutato quando, con l'av­ vento della ·rivoluzione industriale, le condizioni di mercato hanno mostrato con sempre maggiore evidenza il coinvolgi­ mento della produzione artistica nel ciclo economico della domanda e dell'offerta. Tuttavia forse proprio la più recente, provocante esibizione di questo radicale coinvolgimento, prima nascosto, o meglio mistificato dalle sue componenti ma­ gico-religiose, tecniche, edonistiche, è valso a suggerire quella nuova e specifica interpretazione dell'opera d'arte come uso 7


speciale di un linguaggio, che la rende, pur se legata « inten­ zionalmente • ad un pubblico particolare, «necessariamente » partecipe del consorzio umano nel suo complesso, della so­ cietà come un tutto storico. Probabilmente una tale interpre­ tazione non poteva prodursi prima che un tale consorzio al­ largato apparisse all'orizzonte storico come una concreta pos­ sibilità; né è stata -formulata integralmente ed univocamente; come per tutte le congiunture culturali essa si è venuta a con­ figurare grazie alla convergenza di molteplici processi diacro­ nici che la storiografia e la critica non hanno ancora rico­ struito in modo sistematico e coerente; ancora troppo spesso documenti e testimonianze vengono esibiti o, meglio, malin­ tesi come «anticipazioni » o « contraddizioni » di un feno­ meno complesso che richiede di essere accuratamente analiz­ .zato e ricostruito nelle sue innumerevoli componenti e rela­ zioni strutturali: ancora troppo spesso l'apparente linearità della postulazione rischia di irrigidire l'interpretazione in una formula disponibile per ogni sorta di equazioni. Non pen­ siamo tanto a quelle analogie proporzionali che, nel far corri­ spondere biunivocamente gli allusivi poli della astratta rela­ zione autore-opera-fruitore, ai termini, espressi in simboli logico-matematici, emittente-messaggio-ricevente devono poi «correggere,. adeguatamente i dati della teoria dell'informa­ zione onde « spiegare » le incongruenze: sì che talvolta in­ sorge il dubbio che la «motivazione » di un tal riscontro al­ tro non sia che la « esibizione » appunto d'una informazione: piuttosto ci riferiamo a quelle analogie comparative che mi­ rano ad identificare arte e comunicazione linguistica. Que­ st'ultimo confronto, in verità, si è posto all'origine stessa della concezione semiotica dell'arte e permarrà inevitabil­ mente al suo orizzonte, dal momento che ne costituisce la correlazione dialettica. Poiché l'opera d'arte, in quanto ogget­ to fatto o comunque eletto dall'uomo, sia pure mediante un puro atto di isolamento, non può fare a meno di veicolare uno o più significati, di essere strumento di comunicazione, di partecipare di un linguaggio, a maggior ragione in quanto uso di segni, testo, non può non servirsi di quei significati, 8 magari tradendoli o contestandoli. Dunque non è possibile in-


terpretarla come testo artistico se non attraverso quei signifi­ cati, dei quali non offre un'alternativa necessaria, ma una so­ luzione possibile. Considerare l'opera d'arte come« testo» vuol dire: a) pre­ sumere la sua appartenenza ad un sistema segnico determi­ nato, poiché nessun segno può stare per sé, può esistere da solo; b) attribuire a determinati oggetti una peculiare resi­ stenza ad una diretta ed univoca interpretazione, dovuta al fatto che il rimando al sistema cui appartengono, in quanto opere d'arte, diventa possibile e proponibile solo dopo aver « riconosciuto» che i rapporti che legano la sua configura­ zione testuale al modo in cui viene esperita sono compatibili col sistema contestuale; e) imporre la condizione che quel ri­ conoscimento possa mutare e di fatto muti nel tempo e da un individuo all'altro solo entro limiti volta a volta dettati dal sistema di appartenenza; d) ammettere che il sistema possa mutare e che di fatto muti nel tempo e da luogo a luogo in relazione alle condizioni storiche e culturali. Con che si sospende la « necessità " dell'esperienza estetica per la defi­ nizione delle opere d'arte e si nega ad esse qualsiasi affinità intrinseca che non sia l'appartenenza stessa al sistema conte­ stuale storicamente determinato: le tautologie implicite in tali rozze definizioni conseguono il proposito di renderle in certa misura indipendenti dalla relatività delle condizioni storiche. Da quanto sopra si evincono chiaramente i compiti che da una tale interpretazione dell'opera d'arte derivano alla sto­ riografia e alla critica per quanto attiene: a) la ricostruzione dei sistemi che nel tempo hanno definito il campo di inter­ pretazione segnica delle opere; b) i modi e i tempi di muta­ zione dei sistemi neHa storia e da luogo a luogo (ove« luogo» va inteso non solo in senso spaziale, ma anche sociale e cul­ turale); e) la determinazione stessa delle caratteristiche del sistema nell'ambito politico-sociale in cui storiografia e cri­ tica operano: a tale determinazione esse contribuiscono sia mediante la ricostruzione dei sistemi del passato sia attra­ verso un'azione diretta di riconoscimento e di orientamento delle componenti in fieri. 9


Queste due operazioni sono strettamente correlate ed in­ terdipendenti, e per dimostrarlo ci si consenta una breve di­ gressione epistemologica. Quel che sembra vanificare oggi il momento operativo e insieme paralizzare quello interpretativo di ogni attività pro­ gettuale (e l'artista, comunque si voglia definire questo prota­ gonista dell'arte, agisce sempre attraverso la progettazione) 3 è la mancanza di concreti punti di riferimento. Ma la ricerca di costanti nel continuo processo di trasformazione della na­ tura e della sodetà è sempre stata una necessità « riduttiva » degli uomini, maturata insieme alla coscienza di quei muta­ menti. Così posta la questione viene fatto di pensare che la prima costante individuabile sia proprio questa « ricerca di costanti », e di orientare in tal senso la ricostruzione di un primo modello « riduttivo »: quello appunto che codifica il linguaggio della storia, ovvero, la storia come un testo scritto dai fatti, con un suo lessico (i fatti si ripetono identici a se stessi ma mutano significato in relazione al contesto), una sua sintassi (le relazioni cronologiche e causali), una sua stilistica (relativa ai modi di racconto). Questo compito per millenni è stato svolto dalla tradizione, mitica, religiosa, politica; ma, con il graduale evolversi dell'atteggiamento scientifico, anche la storia è divenuta oggetto di scienza. La storiografia, intesa come scienza della storia, viene al­ lora concepita come una « riduzione » di secondo grado, nel momento in cui si pone, come è doveroso per ogni scienza, il problema teorico della definizione del suo oggetto, del suo rapporto con esso e delle metodologie da adottare. Di fatto l'operazione riduttiva cui induce l'attività storiografica è la decodificazione del racconto storico, l'individuazione di eventi, azioni, opere e delle loro complesse relazioni contestualizzate in un continuum dalla storia. Tale decodificazione muove ov­ viamente da un interesse attuale: il sottolinearlo mediante· un « principio di contemporaneità » appare come una banalità o come una esplicita riserva ideologica. D'altra parte il pri­ mato epistemologico del presente sul passato 4 non sarebbe sempre legittimo: La cosiddetta evoluzione storica si fonda O in generale sul fatto che l'ultima forma considera le prece-


denti come semplici gradini che portano a essa, e poiché è

raramente, e solo in certe determinate condizioni capace di

criticare se stessa ... le concepisce sempre unilateralmente s; dove quelle determinate condizioni si verificherebbero solo allorché le astrazioni scientifiche esistono allo stato di realtà empiriche, in quei rari periodi, cioè in cui la scienza, i con­ cetti scientifici esistono nella forma del « visibile ,. dell'espe­ rienza come altrettante « verità ,. a ciel sereno 6• II che, anche accettando l'ipotesi di periodi di eccezionale trasparenza, condannerebbe gli storiografi meno fortunati nella data di nascita, ad una inevitabile unilateralità di giudizio. In realtà, se è assurda l'idea stessa che il passato come tale possa essere oggetto di scienza 7, altrettanto assurda è quella di una scienza totale del presente, di una«trasparenza assoluta» quale si affaccerebbe, almeno come possibilità, in quei «presenti» privilegiati di cui parlava Marx. Quel che appare come «trasparenza assoluta» non è altro che la coe­ renza con cui procedono dialetticamente interrelate critica e storiografia nella costruzione di un determinato oggetto sto­ rico, di una storia particolare. Ma se ogni storia è storia particolare, cioè di un determi­ nato oggetto storico, e se ogni riflessione sulle forme della vita umana comincia «post festum » e quindi parte dai risultati belli e pronti del processo di svolgimento 8 un atteggiamento «riduttivo» nei confronti della storia non si limiterà, o me­ glio, non si lascerà ingannare dalla falsa evidenza di tali risul­ tati, ma procederà alla loro ricostruzione a partire dal campo di possibilità interpretative che li rende storicamente«neces­ sari » come «segni». In altre parole, qualsiasi discorso che miri ad un'apertura storica e non ad una mera coerenza lo­ gica o ad una «neutrale» constatazione dei fatti, deve proce­ dere alla costruzione del proprio oggetto mediante una docu­ mentata interpretazione dei «fatti» come segni e una consa­ pevole contemporanea ricostruzione di un codice più gene­ rale, del quale peraltro l'oggetto stesso contribuirà ad evi­ denziare nuove articolazioni. Cosicché quel codice, quella struttura più generale, pur aspirando ad una priorità ontolo­ gica, come orizzonte, attenderà di venire correttamente de-


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scritta proprio dal rapporto che la lega processualmente alla costruzione dell'oggetto specifico. Questo comporta Ia sospensione di ogni predeterminata periodizzazione storica come il rifiuto di qualsivoglia « pre­ sente privilegiato». Donde evidentemente il confronto con un'altra storia particolare diventa possibile solo a condizione di ridurre il suo oggetto, quello dell'altra stoda e i relativi rapporti ad una nuova e diversa storia particolare. In questo senso il « principio di contemporaneità» fun­ ziona solo come fulcro di interesse e a partire da una ridu­ zione teorica dell'oggetto di studio, che, prima di mettere in prospettiva il passato, frappone una « distanza» tra sé e l'at­ tualità. Questo è ciò che si intende quando si afferma: la necessità di una storiografia pluralistica contrapposta ad una « storia universale»; che la conoscenza storica è prospettivi­ stica; individuante; selettiva. Qui proprio alcune considerazioni sull'oggetto della sto­ ria dell'arte, alla luce di un'interpretazione semiotica, possono servire a chiarire il discorso. Si è detto che una delle caratte­ ristiche di questa storia particolare è la « presenza» degli eventi passati sotto la specie di segni sempre circolanti. Tut­ tavia il modo della loro presenza attuale di segni sembra completamente diverso dai modi della loro « presenza» nel passato, nelle varie epoche in cui sono sorti e alle quali sono successivamente sopravvissuti. Possono, per ciò stesso, questi segni venire identificati con quegli avvenimenti « chiave» cui, in altre storie, viene attribuita una particolare carica emble­ matica? 9 Se così fosse dovremmo riconoscere che quella « ri­ duzione» che gli storiografi operano in altri settori attraverso una scelta critica, nella storia dell'arte verrebbe viceversa ope­ rata dalla storia stessa, concepita come un processo dotato di una intrinseca logica Tiduttiva 10• Una simile delega ridut­ tiva ricorda le condizioni che, secondo Toynbee, privilege­ rebbero lo studio della storia greco-romana rispetto a quella di altre epoche più recenti, per il fatto appunto che il suo campo non è ingombro, non è oscurato da un eccesso di indi­ cazioni episodiche, e così noi possiamo vederlo nel suo complesso, grazie al drastico disboscamento che si è verificato su


quel terreno, durante l'interregno fra il dissolversi della so­ cietà greco-romana e il sorgere della nostra. Di più, la quan­

tità di informazioni rimastaci, agevole a essere consultata e

interpretata, non subisce il peso dei documenti di politiche particolari, come quelli che si sono accumulati, un mucchio dopo l'altro, nel nostro mondo occidentale durante I dodici secoli della sua era pre-atomica 11•

In verità un disboscamento di tal sorta, se ha potuto sti­ molare la fantasia di qualche storico, non può certo giovare alla riduzione storiografica, la cui selezione qualitativa risulta tanto più probante nei «fatti », quanto maggiore è la quan­ tità dei dati disponibili. D'altra parte un'interpretazione se­ miotica dell'arte pone lo storico nella peculiare condizione di dover interpretare come segni di un particolare codice sto­ riografico quelli che si offrono già anteriormente strutturati in altri codici, quelli appunto che li fanno riconoscere nelle opere d'arte del passato. La storia dell'arte aggiunge così al­ l'impegno della decifrazione dei codici storici, quello di rein­ terpretarne i segni nel particolare codice storiografico. Ab­ biamo già detto che quest'ultimo impegno non è mai disso­ ciabile dal primo come del resto osservava Panofsky nel di­ stinguere l'opera del «conoscitore», dello storico e del teo­ rico dell'arte: Abbiamo definito il conoscitore uno storico del­ l'arte laconico, e lo storico dell'arte un conoscitore loquace; il rapporto fra lo storico e il teorico dell'arte può essere pa­ ragonato a quello intercorrente tra due vicini che abbiano li diritto di sparare entro la stessa area, ma uno di essi tiene il fucile, l'altro tutte le munizioni. Entrambi mostrerebbero di essere accorti se si rendessero conto di questo stato dl fatto che li lega l'uno all'altro. 1:. stato giustamente affermato che, in una disciplina empirica, la teoria se non è accolta dalla porta, entra dalla finestra come un fantasma e rompe i mobili. Ma è altrettanto vero che, in una disciplina teoretica che tratti lo stesso gruppo di problemi, la storia se non è ammessa per la porta penetra in cantina come un'orda di topi e silenziosamente mina le fondamenta u. Potremmo qui sostenere che a questi impegni, già gra­ vosi, debba associarsi quello ulteriore che abbiamo definito

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altrove di « riduzione culturale»; ma, a ben guardare, non si tratta di un compito nuovo e aggiuntivo, bensì piuttosto di una necessaria esigenza di un moderno e coerente ope­ rare nel campo della storiografia artistica, se è vero, come afferma uno studioso non certo sprovveduto in materia, che non soltanto la pittura, la scultura e la musica di oggi sono incomprensibili a moltissime persone; ma persino quanto se­ condo i nostri esperti noi troviamo, si suppone, nell'arte del passato non ha più alcun senso per l'individuo medio 13• Non si tratta di distinguere una critica specialistica «competente», da una «incompetente», cioè non professio­ nale ma più politicizzata 14, da quella infine «ingenua », bensì di mettere a punto una metodologia di approccio ai fenomeni artistici capace di evidenziarne tutti i livelli di fruizione, onde coinvolgere nella sfera dell'arte gli interessi di un pubblico ·esteso alle masse, e di stimolare le facoltà creative e interpre­ tative degli artisti e dei fruitori. Panofsky, infatti, poteva an­ cora olimpicamente affermare, poco prima della seconda guerra mondiale che non si può far carico a nessuno di go­ dere le opere d'arte « ingenuamente », cioè di giudicarle e interpretarle in base al suoi lumi, senza preoccuparsi d'altro. Ma l'umanista guarderà con sospetto certi atteggiamenti di critica dilettantesca. Chi insegna al semplici che l'arte si comprende senza preoccuparsi degli stili classici, dei noiosi metodi storici e dei polverosi documenti antichi, spoglia l'« ingenultà • del suo incanto senza correggerne gli errori 15• Ciò che egli definiva come «incanto» è probabilmente quella diffusa ricezione informativa dell'oggetto oscillante fra l'in­ teresse più o meno competente per i suoi requisiti tecnici e la degustazione sensuosa dell'immagine e della materia sug­ gerita dalla suggestione del luogo e dai riti organizzati della fruizione stessa. Oggi,· come è stato più volte rilevato, proprio la trasfor­ mazione radicale subita dall'organizzazione di quei riti ha spostato l'interesse dei « semplici» su classi di oggetti di­ verse da quelle in cui venivano tradizionalmente annoverate le opere d'arte. C'è da temere pertanto che quei «semplici», non godendo più «ingenuamente• né in alcun altro modo


quelle opere, finiscano per chiedersi consapevolmente e au­ torevolmente quale ragion d'essere abbiano il conoscitore, lo storico, il teorico; questi « specialisti » infatti rischiano di apparire gli unici depositari e fruitori di un patrimonio che non sanno gestire, poiché non riescono a rendere fruttuoso per la società cui pure appartiene. Oggi non esiste un ac­ cordo sul modo d'identificare un'opera in quanto arte, tranne che includendola nella storia dell'arte. Ma la storia dell'arte è in continua espansione per arrivare a comprendere nuovi generi quali la fotografia, la TV, il cinema, Il fumetto. Inoltre, la qualificazione storica di un'opera come arte è minacciata oggi dalla trasformazione del museo e del libro d'arte in media di comunicazione di massa 16• Di qui le pesanti respon­ sabilità attribuite alla storiografia ed alla critica d'arte; di qui le carenze che è dato riscontrare sia sul piano teorico che su quello del linguaggio. Il linguaggio della critica d'arte 17 è divenuto solo di re­ cente oggetto di studi specifici volti, per un verso, ad analiz­ zarne le strutture sincroniche, lessicali, stilistiche, per un al­ tro ad interpretarne gli sviluppi diacronici in relazione soprat­ tutto agli usi metaforici: questi riflettono infatti più degli al­ tri il variare dei suoi rapporti con le tecniche e le teorie ar­ tistiche ed estetiche, con gli altri campi della cultura e della storia. A quanto è dato rilevare tali studi partono dal presupposto che sia entro certi limiti possibile e desiderabile ridurre, trasporre o comunque tradurre nel linguaggio letterario al­ cune caratteristiche peculiari del fenomeno artistico: sia che quest'ultimo venga anch'esso considerato alla stregua di un linguaggio (il che renderebbe più pertinente e coerente la tra­ duzione), sia che ad esso venga riconosciuta una sostanziale ineffabilità, astanza (il che pur postulando un residuo « esi­ stenziale » irriducibile, non esclude tuttavia la possibilità di descrivere, se non il fenomeno in sé, la sintomatologia della sua esistenza come possibile presenza). In entrambi i casi era dunque lecito e necessa1io chiedersi quale ruolo avesse svolto questo linguaggio nella storia onde meglio illuminare ed orientare la sua funzione attuale. In questo senso non era . l�


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possibile individuarne l'esistenza o, meglio, definirlo in modo univoco prima che si fosse riconosciuto al suo oggetto una coerente unità concettuale. D'altra parte l'istituzione di que­ sta unità non poteva essere dedotta se non storicamente dal­ l'uso del linguaggio stesso: nel nostro caso dall'uso della pa­ rola «arte», al singolare, priva di attributi specificanti (belle arti, arti liberali, ecc.); il che, se in riferimento alle sole arti figurative si è fatto risalire al Vasari, nel senso più generale e cioè estetico sembra per la prima volta documentato in un testo francese di La Bruyère alla fine del Seicento 18• Una tale unità concettuale dell'arte sarebbe peraltro stata preparata a lungo in tutto il secolo precedente dall'uso di un insieme di parole e di concetti semanticamente vicini e parziali (gu­ sto, ingegno, genio, fantasia, immaginazione, ecc.) quasi come una rosa di tiri preparatori destinata a centrare finalmente il bersaglio con la riduzione di quella appunto d'«arte» tout court. Ma in che misura questa ricostruzione teori­ cerstorico-linguistica che, a quanto ci risulta, risale al Crer ce, può illuminarci circa l'effettiva capacità della critica di operare quella «riduzione» che abbiamo qui assunto come suo compito specifico e urgente? Intanto la necessità di una « traduzione •, quando non muova da un'istanza poetica, quin­ di ancora artistica (è il caso, ad esempio, di quelle «trasposi­ zioni • letterarie di espressioni pittoriche che hanno valso a Dante, secondo Longhi, la paternità di una certa forma di cri­ tica d'arte) nasce vuoi dall'impossibilità circostanziale di prer curarsi l'esperienza diretta di un fenomeno peraltro noto nella sua essenza; vuoi dal desiderio di confrontare la propria espe­ rienza con quella altrui, il che è possibile solo confrontando le rispettive traduzioni; vuoi infine dalla presunta incapacità di esperire il fenomeno in sé. In tutti i casi si può paragonare la critica ad un metalinguaggio, il cui linguaggieroggetto è quello « parlato » dai fenomeni artistici; ma la funzione del metalinguaggio cambia nei tre casi qui schematicamente clas­ sificati. Da Erodoto, che descrive ai greci le cose meravigliose os­ servate nei suoi viaggi, a Vasari, quando dichiara di voler serbare almeno la memoria di opere destinate prima o poi a


scomparire, le notizie sugli aspetti notevoli delle opere d'arte assolvono quel primo compito nella presunzione che i let­ tori siano comunque capaci di fruire direttamente della espe­ rienza descritta. Il metalinguaggio corrispondente ha lo stile della cronaca, il lessico del linguaggio comune arricchito solo dei termini tecnici « di bottega »; le metafore, come nel lin­ guaggio comune, svolgono la funzione descrittiva della para­ frasi ovvero quel.la emotiva di palesare l'intento celebrativo o denigratorio. Nel secondo caso, quello caratteristico della moderna critica o della critica d'arte tout court, ancora si presume una medesima capacità di esperienza da parte di chi scrive e di chi legge, ma esclusiva di coloro che producono quel me­ talinguaggio, di coloro che oltre ad esperi-re il fenomeno sono in grado di interpretarlo e tradurlo: si sottintende cioè che trattasi di un'esperienza particolare che proprio da questo rapporto comunicativo metalinguistico tragga la sua stessa ragion d'essere. (Non per caso l'ermeneutica raggiunse il suo massimo grado di sottigliezza neLl'interpretazione scolastica dei testi sacri). Il metalinguaggio così si specializza: il les­ sico si arricchisce non solo dei termini tecnici degli artisti, ma tende a ridurre il significato dei vocaboli del linguaggio comune in relazione a specifici usi estetici, ad una loro parti­ colare storia metalinguistica, che riflette le influenze, gli orien­ tamenti, le funzioni di questo rapporto comunicativo; le me­ tafore, esclusa ogni connotazione emotiva, vengono adoperate in senso strettamente analogico: tuttavia non si tratta di ana­ logie descrittive, proporzionali, reversibili ma di analogie in­ terpretative, trasformative, irreversibili; tali cioè che i loro termini non vengono messi a confronto, soppesati come sui piatti di una bilancia, lasciandoci liberi di passare dall'uno all'altro e viceversa, bensì sono trasformati completamente l'uno nell'altro sì che nel secondo termine non si riesce più a riconoscere il primo. Proprio questo particolare uso metafo­ rico <lel linguaggio critico, per certi aspetti affine a quello poe­ tico, ha contribuito non poco a richiudere su se stesso in un circolo vizioso, il mondo dell'arte, attraverso una serie di ri­ mandi senza fine dall'arte alla critica e viceversa. 17


Il terzo caso, infine, il più urgente a nostro avviso per la nostra condizione culturale, richiede proprio quel tipo di traduzione che abbiamo definito altrove di «riduzione cultu­ rale"· Esso discende infatti dalla constatazione della inca­ pacità dei più di esperire i fenomeni artistici; dalla convin­ zione che tale «incapacità » sia da imputarsi non solo alle tendenziose volontà politiche del «consumismo», ma anche alle carenze teoriche e linguistiche della storiografia e della critica; dalla fiducia che queste ultime possano entro certi limiti contribuire a superarla; dal riconoscimento che tale superamento sia indispensabile alla sopravvivenza dei feno­ meni stessi. Si può obiettare che storiografia e critica sono esse stesse strumenti di quella volontà politica: ma è anche possibile osservare come quegli strumenti per la loro stessa inefficienza, per la macroscopica evidenza · delle loro interne contraddizioni, creano le condizioni favorevoli ad una «•ridu­ zione culturale ». Per questo tipo di operazione i metalin­ guaggi precedenti risultano entrambi inadeguati: H primo per la sua inevitabile genericità, il secondo per la sua intenzio­ nale chiusura gergale. D'altra parte trattandosi di metalin­ bruaggi è sempre possibile ipotizzarne una formalizzazione ade­ guata alla funzione, purché questa venga coerentemente teo­ rizzata a partire dalle condizioni stesse che la rendono ne­ cessaria. È vero: il fatto che l'interesse del pubblico nei confronti delle arti figurative sia calato in proporzione diretta all'ab­ bandono da parte dei pittori della figurazione del «visibile», cioè dei caratteri specificamente iconici della tecnica d'imma­ gine, dimostra solo che quell'interesse era diretto forse a nul­ l'altro che a quegli aspetti riproduttivi. Pertanto i tentativi di quelle maggiori o più modeste personalità, da Kandinsky a Moholy-Nagy, da Klee a Kepes, di costruire su basi essenzial­ mente gestaltiche un lessico (punto, linea, superficie), una grammatica (Ja modulazione delle linee e dei colori), una sin­ tassi compositiva (simmetria, asimmetria, ·relazioni di equili­ brio formale) della pittura o più in generale del « linguaggio della visione », onde istituzionalizzare un nuovo sistema co18 municativo più comprensivo di quello iconico, e quindi ca-


pace di sostituirsi al precedente sussumendolo come caso par­ ticolare, pur se riuscissero a ridestare l'interesse del pubblico non ne garantirebbero, per questo, una maggiore sensibilità all'arte. Più o meno esplicitamente da questa constatazione trag­ gono motivo i tentativi sperimentalistici della neo-avanguar­ dia, dall'informale all'arte cinetica, volti a negare il « valore comunicativo » dei segni esibendo una presunta, pura valenza artistica, dalla pop alla conceptual art, volti a ridurre il va­ lore artistico ad una mera ironica informazione sull'arte. Ma, da una parte, il fatto che i segni visivi, per quanto arbitrari, astratti, casuali, inevitabilmente vengono interpretati dagli uomini, per la natura stessa dei processi percettivi, in senso iconico, sia pure come rimando ad astratti valori spaziali o alla memoria di un gesto, rende illusoria la pretesa di sot­ trarsi a un certo grado di comunicatività del mezzo visuale; dall'altra è indubbio che la « intenzionalità ,. artistica, in quanto progettazione, tanto meglio riesce a estrinsecarsi quanto più riesce a padroneggiare gli strumenti che adopera. Dunque l'affidarsi ad una preterintenzionale « significanza » del segno, come il ridurla ad una mera informazione, non può influire che negativamente sull'esito artistico dell'opera; poi­ ché il valore, coinvolgendo tutti i livelli di fruizione dell'opera concreta, rimane necessariamente depauperato da una tale riduzione comunicativa dei segni. Che la fantasia poetica, crea­ tiva da parte dell'artista, e ricreativa da parte del fruitore sia del tipo di quel.Je « a ruota libera» del sogno o dell'infanzia, è stato negato dall'estetica prima ancora che la psicanalisi ne rivelasse i poderosi attriti dell'inconscio; pertanto il contare ciecamente sul segno per stimolare quel tipo di fantasia nel fruitore ricorda l'atteggiamento ipocrita di quei genitori che non compravano giocattoli ai loro figli sostenendo essere più dilettevole e proficuo per la loro immaginazione duellare con striscie di cartone che con fac-simili di spade. Il fatto che l'interpretazione e l'uso che la società fa o farà di un'opera possa deviare dall'intenzionalità dell'artista non giustifica in alcun modo la sua rinuncia a comunicare; d'altra parte l'esibizione comportamentale dell'artista può in-

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teressare la storia e .la critica nei limiti in cui essa contri­ buisce ad arricchire il contenuto semantico dell'opera ma non varrà mai da sola a giustificarne la fruizione né tanto meno a sostituire l'opera, a dispetto di tutte le «poetiche» dell'esecu­ zione. E questo non per una pregiudiziale estetica, ma per i limiti obiettivi di validità del comportamento dell'artista come «modello». Se spostiamo infatti per un momento l'accento dall'uso di una lingua a quelli che di fatto la «producono», potrebbe anche essere lecito ipotizzare all'orizzonte l'arte come un certo modo di orientare l'esistenza, ciascuno indi­ pendentemente dagli altri e proprio per questo incontrandoli in un libero rapporto intersoggettivo; un modo ed un rap­ porto che potenzialmente sono offerti a tutti fin dalla nascita, ma che fin dalla nascita i condizionamenti ferrei che la no­ stra società, sotto forma di madre, di famiglia, di scuola, di lavoro, esercita sul nostro sviluppo, soffocano nella mag­ gior parte di noi consentendo solo ad alcuni, più forti o più sensibili di estrinsecare: ma in una forma che non è mai quella che avrebbe potuto essere, perché inevitabilmente na­ sce come reazione a quei condizionamenti. Gli artisti dunque non possono essere considerati come modelli di comporta­ mento «artistico» se non per questa loro reazione, a volte lucida, tal'altra cinica o disperata, e solo sempre attraverso· le loro opere. Di fatto, se è vero che una norma si dimostra tanto più salda e valida quanto meglio riesce.a tollerare gli abusi, cosi come un uomo sano sopporta eccessi che distruggerebbero il debole 19 è lecito ritenere che almeno alcuni codici delle arti visuali si dimostrano ancora estremamente vitali se so­ pravvivono alle intemperanze di tanti sperimentalismi ed alla diffusione abnorme dei libri d'arte, questi platonici musei, nei quali vengono raccolte una accanto all'altra, come in un collage, innumerevoli «immagini di immagini» e che talora pur realizzano l'unico luogo o «non luogo » ove quelle im­ magini prime esistono per il pubblico, come nella memoria di uno schizofrenico. :B possibile dunque in qualche modo constatare l'esistenza e astrar.re le caratteristiche lessicali e strutturali di codici visuali, cui commisurare le varianti idio-


lettiche delle singole opere e delle distinte personalità arti­ stiche. Questo è proprio il compito di un'approfondita inda­ gine semiologica che tenga conto di tutti gli apporti che le possono fornire le scienze limitrofe, dalla sociologia alla psi­ cologia alla storia, pur serbando un proprio rigore nel dipa­ nare la matassa arruffata delle interferenze e della coesistenza di innumerevoli « codici ». Tale complessità, pur non costi­ tuendo un fenomeno nuovo nella storia, rappresenta certa­ mente una conseguenza diretta dell'attuale estensione e in­ terrelazione di molte culture; tuttavia l'individuazione e la . formalizzazione di quei codici non può basarsi solo sulle ca­ ratteristiche esteriori, poiché non sempre ad una pur stretta affinità formale dei segni, dovuta alla rapidità ed alla facilità di diffusione dell'informazione su di essi, corrisponde un'al­ trettanto stretta affinità strutturale. Gli sbarramenti cultu­ rali, regionalistici, sociali e psicologici sono ancora tanto forti da impedire un'effettiva integrazione dei vari live1li. Se, ad esempio, per l'a11te rinascimentale, può avere un senso par­ pare di « scuole » e di « influenze », intendendo che alle affi­ nità formali delle opere corrispondeva una qualche affinità culturale, tecnica o di tirocinio degli autori, oggi i canali di comunicazione sono tanti e tanto impersonali che una cor­ rispondenza riscontrabile esteriormente tra opere anche pro­ dotte neLla medesima area geografica, testimonia spesso nulla più della suggestione esercitata da un'informazione. Molte il­ lazioni storiografiche circa l'internazionalismo di alcuni mo­ vimenti moderni e contemporanei vanno pertanto verificate, seguendo pazientemente le fila delle varie personalità e delle singole opere, senza lasciarsi trarre in inganno da confronti puramente suggestivi. Si corre altrimenti il rischio di ricono­ scere codici inesistenti. Il compito dunque assegnato alla semiologia come stru­ mento storiografico e critico è dei più ardui e tuttavia a noi sembra l'unico capace di « ridurre » ad una più estesa com­ prensione e partecipazione i fenomeni artistici. In questo senso si può guardare all'attività di alcuni ar­ tisti, critici e storici, non per ritrovarvi delle anticipazioni, 21


quanto per rilevare alcune indicazioni utili al nostro discorso per la loro esemplare chiarezza metodologica. Questa normatività astratta, affermava Kandinsky a pro­ posito della pittura, propria di una certa arte, che in que­ st'arte trova un'applicazione costante, più o meno cosciente, deve essere messa in parallelo con la normatività della na­ tura... Nell'un caso e nell'altro - arte e natura - essa offre all'uomo un appagamento del tutto speciale; ma la stessa normatività astratta è certamente propria, in sostanza, delle altre arti... Noi ci apriamo a forza questa via affascinante fondandoci sulle reazioni della nostra sensibilità che certa­ mente sono radicate all'origine in esperienze intuitive. Ma la sola sensibilità potrebbe anche farci deviare facilmente e er­ rori di questo genere possono essere evitati solo con l'ausi­ lio di un esatto lavoro analitico. Un giusto metodo, però, cl terrà lontano dalle strade sbagliate. I progressi raggiunti col lavoro sistematico creeranno un vocabolario di elementi che, in un ulteriore sviluppo porterà ad una « grammatica ». Essi condurranno alla fine a una teoria della composizione, che varchi i limiti delle arti singole, e si riferisca ali'« arte » in generale. Il vocabolario di una lingua viva non è pietrificato, perché esso vive trasformazioni ininterrotte... Ma strano a dirsi, una grammatica dell'arte sembra a molti, ancor oggi, fatalmente pericolosa 20• Si tratta di compiere una vera e propria « riduzione » semiologica dell'arte, una riduzione che tuttavia l'artista non può compiere da solo come riconosceva Klee in una illuminante confessione: La leggenda dell'infanti­ lismo del mio disegno deve aver preso le mosse da quelle immagini lineari, in cui ho tentato di collegare una rappre­ sentazione oggettiva - diciamo d'un uomo - con l'impiego esclusivo di linee pure. Per ridare l'uomo « cosl com'è », per rendere la figura, mi sarebbe occorso un tale intricato guaz­ zabuglio di linee, che non si sarebbe più potuto parlare di pura rappresentazione elementare, e avremmo avuto invece un'irriconoscibile confusione. A parte questo, non è certo mia intenzione ridare l'uomo cosl com'è, ma solo come po­ trebbe anche essere. 2 cosl che posso riuscire a combinare 22 la mia visione del mondo col puro esercizio dell'arte. Le


stesse considerazioni valgono per tutti i mezzi formali: sem­ pre, anche coi colori, bisogna evitare confusioni del genere. t:: questo il cosiddetto uso irreale del colore nell'arte moder­ na. Come vi dice quell'esempio di « infantilismo », io mi oc­ cupo di certe operazioni parziali: e così tra l'altro disegno. Ho fatto esperimenti di disegno puro come di pittura esclu­ sivamente chiaroscurale; nel campo del colori ho tentato tutte le operazioni parziali cui potevo sentirmi indotto orien­ tandomi sul disco cromatico; colori complementari; più co­ lori; la totalità dei colori. Sempre in rapporto alle più in­ conscie dimensioni del quadro. Ho poi tentato tutte le pos­ sibili sintesi dei due tipi, combinando e ricombinando, sem­ pre cercavo la purezza dell'elemento. M'è capitato di sognare un'opera di vasto respiro che abbracci l'intero ambito degli elementi, dell'oggetto, del contenuto e dello stile. Questo ri­ marrà certo un sogno, ma è bene immaginare di tanto in tanto questa possibilità oggi ancor vaga. Non bisogna pre­ cipitare le cose; queste devono venire alla luce e crescere, e se alla fine suonerà l'ora di quell'opera, tanto meglio! Dob­ biamo ancora cercare. Finora abbiamo rinvenuto dei fram­ menti, non il tutto. Ce ne manca ancora la forza, a noi che non abbiamo il sostegno di un popolo. Ma un popolo noi lo cerchiamo, e i primi passi in questo senso li abbiamo fatti al Bauhaus. Nell'ambito cioè di una comunità cui offriamo tutto quel che abbiamo. Di più non ci è possibile fare 21• Il conclusivo richiamo alla comunità del Bauhaus, pur di­ venuto per noi oggi allusivo dei drammatici avvenimenti che sembrarono vanificare quel compito che Klee ed altri si erano proposto, deve tuttavia essere inteso come una concreta aspi­ razione ad una realtà storicamente « necessaria ». Il « popo­ lo », infatti, che cerca Klee non è l'analogo della Old Rural England di un Leavis 22, cioè una mistica società pre-indu­ striale nella quale l'esperienza estetica coincideva per intero con l'esperienza, integrata, cioè non ancora alienata dalla ci­ viltà industriale, né con un'utopistica società marxiana nella quale siano tutti artisti 23, ma è l'immagine complementare di una realtà storica vissuta lucidamente nella sua alienazione, un'immagine che non « finge » una presenza, bensì tende

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dialetticamente a colmare un'assenza. Infatti, come afferma Argan, la riduzione delle tecniche artistiche alla metodologia intenzionata del progettare non costituisce, in sé, la trasfor• mazione radicale del processo artistico annunciato dalle avan­ guardie. La « riduzione» proposta da Klee è qualcosa di più e di diverso. La sua originalità non è novità, poiché conti­ nua un processo già iniziato dalla «pittura» di Leonardo e dal « non finito» michelangiolesco: Arte non compiuta è arte in progetto e, insieme, progetto di esistenza secondo un or­ dine che non è quello della logica formale, ma un ordine in­ terno all'esistenza come tale, al suo attuarsi: un principio di struttura che si delinea e costruisce nella successione stessa degli eventi non passivamente subiti: come la struttura linguistica del De Saussure che non ha schemi o modelli a priori, ma forma via via un sistema « où tout se tient » 24• Il richiamo alla linguistica strutturale non è puramente allusivo: esso rivela quella medesima congiuntura culturale che, come abbiamo detto all'inizio, implica la « riduzione·» dell'arte, in quanto uso di segni, nell'ambito della semiologia. Avevamo cominciato col proporci di dimostrare, per lo meno a noi stessi, che le intrinseche potenzialità creatrici di tutti gli uomini esigono un « luogo » ove possano estrinsecarsi liberamente: abbiamo poi riconosciuto che il potere dei con­ dizionamenti imposti dalla società è tale che anche coloro che riescono a reagirvi, mossi da un più forte impulso alla li­ bertà, ne distorcono, spesso inevi-tabilmente, il senso; ab­ biamo attribuito alla storiografia e alla critica la responsa­ bilità di aver convalidato attivamente quelle distorsioni a scapi<to di un'autentica funzione «riduttiva» capace di coin­ volgere il pubblico. Abbiamo infine attribuito alla semiologia il compito di fornire strumenti validi a dare un senso a quella libertà, rivelando l'ambito fuori del quale essa diventa l'illu­ sorio arbitrio di uno delirio solipsistico. Ma quale semio­ logia? Uno sguardo panoramico a questa « scienza nuova» mo­ stra invero una tale molteplicità di teorie, definizioni, ap­ procci particolari, da richiedere essa stessa un'adeguata « riduzionè ». Più su abbiamo tentato, un po' goffamente, di


astrarre alcune implicazioni generali di una interpretazione semiotica dell'arte, in un certo senso indipendentemente dalle singole teorie. Ma avendo d'altra parte concluso che la signi­ ficanza dell'opera d'arte dipende strettamente dai contenuti semantici, comunicativi, del mezzo adottato, dei quali essa si offre come un particolare uso, è necessario rivolgersi ad essi prima di poter inferire le norme, le funzioni e i valori di quell'uso 25• Se infatti per la letteratura l'approccio semiologico, rap­ presentato dalla linguistica strutturale, è stato favorito, per non dire suggerito, dalla pratica inveterata di codici forti, ca­ paci cioè di scomporre e articolare il continuum del messag­ gio in un numero discreto di tratti pertinenti, al punto da rimandare ad un'origine mitologica l'esistenza stessa di un continuum non codificato, per la «pittura», intesa qui nel si­ gnificato più esteso, leonardesco, anche quando è stata pro­ vata l'esistenza di codici, ad essi è stata riconosciuta un'in­ trinseca debolezza, dovuta alla impossibilità di segmentarne in modo univoco ed organico i segni. In questo senso l'oggetto privilegiato di indagine è stato il segno iconico, per la sua presunta intrinseca significatività. Ma, come è stato rilevato, la «forza " delle codificazioni lin­ guistiche va ridimensionata quando si risale dalla lingua scritta a quella parlata. Già dal Cours di de Saussure si ri­ leva: Lingua e scrittura sono due distinti sistemi di segni; l'unica ragion d'essere del secondo è la rappresentazione del primo; l'oggetto linguistico non è definito dalla combina­ zione della forma scritta e parlata; quest'ultima costituisce da sola l'oggetto della linguistica. Ma il vocabolo scritto si mescola così intimamente al vocabolo parlato di cui è l'im­ magine, che finisce con l'usurpare il ruolo principale; cosl si arriva a dare altrettanta e anzi maggiore importanza alla rappresentazione del segno vocale che al segno stesso. È un po' come se si credesse che per conoscere qualcuno sia me­ glio guardarne la fotografia che guardarlo in faccia 26• L'indebolimento dei codici linguistici nella lingua parlata è dovuto a quelle che sono state definite le «varianti fa­ coltative » e i «tratti soprasegmentali •: vale a dire quelle 25


particolari inflessioni di voce e di pronuncia ( la cui gamma varia con continuità) che caratterizzano ogni messaggio ver­ bale, e che possono giungere, al limite, a sovvertire comple­ tamente il significato codificato delle parole. Tuttavia anche queste varianti, essendo convenzionali, sono entro certi li­ miti codificabili. Anche i segni iconici, dunque, nei quali analoghe « va­ rianti» generalmente prevalgono, quando non sostituiscono il codice percettivo di base, sono sempre codificabili perché « convenzionali». Ma i segni iconici, com'è noto, non esauri­ scono il linguaggio della pittura; i segni astratti, dalle arcai­ che decorazioni geometriche fino alle innumerevoli manife­ stazioni della pittura contemporanea, rappresentano un cam­ po altrettanto esteso e pertinente. Il discorso poi è stato esteso fino a comprendere un più generale « linguaggio della visione» ed un'ancor più estesa « semiologia del messaggio oggettuale». Per l'intera gamma delle comunicazioni visive Eco sug­ gerisce la seguente empirica e approssimata classificazione delle possibilità di codificazione: Codici percettivi, di ricono­ scimento, di trasmissione, tonali, iconici, iconografici, del gusto e della sensibilità, retorici, stilistici, dell'inconscio n. E Maltese distingue undici tipi di segno-oggetto in relazione allà distanza dal numero massimo delle proprietà duplicabili e so­ stituibili :iJ, a partire dalle sei proprietà che identificherebbero l'esperienza visivo-tattile dell'« oggetto di riferimento». Qui, pur senza negare il rilievo epistemologico di tali estensioni . dell'indagine semiologica, teniamo a sottolineare l'importanza e l'urgenza di verificare attraverso un'analisi specifica dei singoli mezzi linguistici l'effettiva possibilità di estenderne l'uso e la comprensione al più vasto pubblico. Un tale lavoro è stato forse già iniziato per la letteratura, il cinema e l'ar­ chitettura; per quanto riguarda le cosiddette « arti figurati­ ve», i tentativi più efficaci e stimolanti ci sembrano ancora quelli svolti pur in diversa chiave psicologica, da Read, Arn­ heim, Gombrich, Kris e pochi altri. Un'analisi semiologica delle arti visuali non potrà prescindere da questi studi; essa 26 dovrà porsi l'obiettivo di superare alcune pregiudiziali che


hanno indotto troppo spesso l'estetica a polarizzare l'inte­ resse ora sul momento « creativo ,. ora su quello « percet­ tivo ,. dell'oggetto, quasi che i fenomeni artistici si esauris­ sero in quei due momenti, o nelle molteplicità di quei mo­ menti, trascurando quello che, a nostro avviso, è il piano fondamentale dell'interpretazione segnica: quello che si di­ spiega nei tempi lunghi della memoria, individuale e collet­ tiva; solo in esso infatti i vari livelli di codificazione hanno la possibilità di estrinsecarsi in tutta la loro complessa ar­ ticolazione; solo rispetto ad esso i « tempi » diversi della per­ cezione, ad esempio, di un quadro e di una sinfonia, diven­ tano pressocché irrilevanti, poiché i primi si prolungano, i secondi si « spazializzano » estendendosi nelle stratificazioni strutturali; ma soprattutto ad esso si possono commisurare i valori specificamente artistici che non si esauriscono in un'esperienza, mistica o eccitante, ma si traducono in un durevole arricchimento, in una maturazione, in « conoscen­ za». Pertanto ogni semiotica dell'arte deve poter annove­ rare e distinguere una propria semiografia, intesa come ana­ lisi sistematico-descrittiva dei segni, ed una vera e propria semiologia, come scienza dei sistemi segnici, delle loro strut­ ture e delle reciproche relazioni sincroniche e diacroniche; sarà compito e discrezione di quest'ultima sviluppare ed ar­ ticolare al suo interno una semantica destinata ad illumi­ nare i rapporti che i sistemi intrattengono volta a volta con i più generali contesti storico-culturali e con le modalità esi­ stenziali della creazione e della fruizione. t Cfr. i nn. 23 e 26 di questa rivista. 2 « V'è antitesi fra consumo e valore: infatti in tutta la sua storia l'arte è un valore di cui si fruisce, ma che non viene consumato». G. C. ARGAN, L'arte moderna, 1770/1970, Sansoni, Firenze, 1970, p. 605. 3 Cfr. G. Fusco, Note per una epistemologia della rappresentazione visiva, in « Op. cit. », maggio 1971, n. 21. 4 L. ALTHUSSER, E. BALIBAR, Leggere il capitale, Feltrinelli, Milano , 1971, p. 133. s K. MARX, Per la critica dell'economia politica, Roma, 1957, pp. 192-

193.

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L. ALTHUSSER, E. BALIBAR, op, cit., p. 132. M. BLOCH, Apologia della storia, Einaudi, Torino, 1969, p. 39. K. MARx, Jl Capitale, cit. in L. ALTHUSSER ecc.

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9 « La storia di una civiltà è la ricerca, fra le coordinate del pas­ sato di quelle che rimangono ancora valide. Non si tratta di raccontare tutto ciò che si può sapere a proposito della civiltà greca o del Medio­ evo cinese, ma tutto ciò che, della vita di un tempo, resta efficace an­ cora oggi, nell'Europa occidentale o nella Cina di Mao Tse-Tung, per dirla con un'immagine, isolare tutti i punti nei quali si determina un corto circuito tra presente e passato, un passato spesso lontano di de­ cine di secoli"· F. BRAUDEL, li mondo attuale, Einaudi, Torino, 1966, p. 24. 10 « Ma la sopravvivenza di un'opera è determinata a volte da cir­ costanze che non hanno nulla a che vedere col suo valore, e spesso opere di grande valore devono morire proprio a causa del loro valore. Non vengono mai stampate, nessuno vuole guardarle o ascoltarle. E spesso l'immortalità si lega al brutto altrettanto saldamente che al bel­ lo"· I. A. RICHARDS, I fondamenti della critica letteraria, Einaudi, To­ rino, 1961, p. 209. 11 A. J. ToYNBEE, Civiltà al paragone, Bompiani, Milano, 1949, p. 7. 12 E. PAN0FSKY, La storia dell'arte come disciplina umanistica, in li signi"ficato delle arti visive. Einaudi, Torino, 1962, p. 25. Per i rapporti fra arte, critica ed erudizione cfr. fra gli altri B. CROCE, Estetica, La­ terza, Bari, 1912, p. 152 e segg., e E. H. GoMBRICH, Arte ed erudizione, in A cavallo di un manico di scopa, Einaudi, Torino, 1971 p. 161 e segg. 13 R. ARNHEIM, La forma e il fruitore, in Verso una psicologia del­ l'arte, Einaudi, Torino, 1969, p. 15. 14 Cfr. M. REINER LEPSIUS, Kritik als Beruf: zur Soziologie der [n. tellektuellen, cit. in F. Rosin, Contraddizioni di cultura, Guaraldi, Bo­ logna, 1971, p. 198. 15 E. PAN0FSKY, op. cit., p. 23. 16 H. RosENBERG, L'oggetto ansioso, Bompiani, Milano, 1967, p. 13. 17 Cfr. T. DE MAURO, Il linguaggio della critica d'arte, Vallecchi, Fi­ renze 1965, e A. M. MURA, voce Linguaggio della critica d'arte, in Arte 2/1, Feltrinelli, Milano, 1971. 18 Cfr. B. CROCE, op. cit., pp. 222-223. 19 Cfr. J. ORTEGA y GASSET, La missione dell'università, Guida, Napoli, 1972, p. 14. 20 W. KANDINSKY, Punto, linea, superficie, Adelphi, Milano, 1968, pp. 89-90. 21 P. KLEE, Teoria della forma e della figurazione, Feltrinelli, Mila­ no, 1959, p. 95. 22 Cfr. G. CIANCI, La scuola di Cambridge, Adriatica, Bari, 1970, dove si analizza la critica letteraria di I. A. Richards, W. Empson e F. R. Leavis. 23 « Marx, che annuncia tante fini, non prevede la fine dell'arte. Al contrario, gli accade di rappresentarsi il dispiegamento dell'attività estetica come modello dell'attività creatrice nella società futura. Ognu­ no diventerà poeta, musicista, drammaturgo, ecc. •· H. LEFEBVRE, La fine della storia, Sugar, Milano, 1972, pp. 69-70. 24 G. C. ARGAN, Progetto e destino, Il Saggiatore, Milano, 1965, pp. 6570. A proposito di Klee lo stesso autore nella prefazione alla Teoria della forma e della figurazione cit. afferma: « Si può dire che l'arte e la teoria di Klee sono il tentativo di ricostruire il mondo secondo i valori della qualità; e poiché questi non sono dei valori dati e come celati sono gli strati di false esperienze, bisognerà estrarli o dedurli mediante una trasformazione, una « qualificazione" della quantità. Bisognerà, in altri termini, ridurre progressivamente la ressa dei fenomeni quantita­ tivi che riempiono l'universo e l'esistenza stessa degli uomini, fino a


ricavare quel quid non ulteriormente riducibile o trascurabile, ch'è ap­ punto la qualità e che, insomma, è in tutte le cose della realtà, ma si rivela soltanto nella meditazione e nell'operazione dell'arte•· 25 Cfr. J. MUK,\ROVSKY, La funzione, la norma e il valore estetico come fatti sociali, Einaudi, Torino, 1971. 26 F. Dll SAUSSUR!l, Corso di linguistica generale, Laterza, Bari, 1972, p. 36. n Cfr. U. Eco, La struttura assente, Bompiani, Milano, 1968, pp. 145•

148.

2s C. MALTllSll, Semiologia del messaggio oggettuale, Mursia, Milano, pp. 166-168.

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Riduzione ad oggetto, riduzione a progetto GILLO DORFLES

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Sono pronto ad ammettere (rifacendomi al fascicolo 23 di « Op. cit.» e al dibattito che ne è seguito) una proprietà ri­ duttiva alla nostra epoca, o quanto meno, agli ultimi decenni della stessa, e a riconoscere alcuni dei pericoli che da questa riduzione derivano alla cultura in genere e a quella architet­ tonica in specie. (E, ovviamente, dicendo « cultura architetto­ nica» intendo non solo l'aspetto critico di un'analisi del fare architettonico quanto la stessa attività creativa dell'architet­ to: la povertà stilistica, la elementarità fantastica, di molta edilizia odierna non si può giustificare che nel senso d'una « riduzione» rispetto ai grandi modelli del protorazionalismo e del periodo aureo del Movimento Moderno). Ma tutto ciò, in definitiva ricalcherebbe la storia di sem­ pre, come giustamente afferma lo stesso De Fusco (« Op. cit. », n. 26, p. 10: « operò in tal senso il Rinascimento quando, in opposizione al Gotico, ricondusse il suo lessico a quello del mondo antico; il razionalismo settecentesco ... il Movimento Moderno, quando reagì all'eclettismo storicistico... ecc.»). Quello, per contro, che mi sembra del tutto peculiare del nostro tempo ( e forse proprio del periodo che va dagli anni sessanta in poi) è un duplice fenomeno riduttivo, - che in parte può essere anche collegato ad una sorta di « epochizza­ zione ,. stilistica - ma che più propriamente può essere in­ teso come rivolto in due direzioni sincrone ed opposte : la riduzione ad oggetto, e la riduzione a progetto. Due tipi ri-


duttivi che portano, - ed è questo il punto che mi sembra più importante - ad assistere al verificarsi di « oggetti senza progetto» e di « progetti senza oggetto»; o piuttosto che por­ tano a preconizzare l'esistenza dei due tipi di operazioni. Questi fenomeni valgono per l'architettura come per le al­ tre arti visive ( si vedano parecchie correnti concettuali re­ centi) e persino per certa musica nuova; e forse, in defini­ tiva, possono essere considerati come endemici in tutta quan­ ta la nostra cultura attuale. La « riduzione all'oggetto» - che già una decina d'anni or sono ho definito oggettualizzazione (contrapponendola al­ l'oggettivazione, come allora ancora si usava dire, non po­ nendo la necessaria distinzione tra i due termini di Objekt e di Gegenstand) - è- ormai un fenomeno ben noto che, nelle arti visuali, ha visto la massiccia produzione di opere dove pittura e plastica erano, per l'appunto, ridotte al puro e semplice oggetto senza alcun riferimento non solo figu­ rale, ma neppure astrattamente simbolico: ne sono state di esempio parecchie opere di Castellani, di Fontana, di Bo­ nalumi, e in genere tutte le cosiddette « Primary Structu­ res» e buona parte della « Minimal Art ». Nel caso dell'ar­ chitettura e del disegno industriale questa forma riduttiva è ancora più evidente perché parte da una certa sintassi mie­ siana del « contenitore indifferenziato», ossia d'un genere di architettura, anti-tipologica e, in definitiva, antisemantica, co­ stituendo uno degli errori interpretativi del M. M. da parte di alcuni epigoni dello stesso. Di fronte a questo indirizzo ( di cui per necessità di spa­ zio sono costretto a dare appena delle indicazioni quanto mai sommarie) possiamo veder affermarsi l'indirizzo opposto, quello che ho definito « la riduzione al progetto » ( e che si potrebbe anzi ricondurre al progetto senza oggetto, ossia alla creazione o ideazione dell'elemento progettuale che non giunge, e addirittura non intende giungere, sino alla relativa realizzazione oggettuale). Anche in questo caso gli esempi sono evidenti: innanzi­ tutto nel settore dell'arte visiva più recente; in molte opere (o ipotesi di opere) di artisti concettuali, per i quali l'opera 31


stessa consiste prevalentemente nel concetto, nell'idea di cui viene offerto un progetto (spesso limitato ad una descrizione verbale, ad un grafo, ad un diagramma, ad una fotografia, ad una registrazione di dati raccolti in vista d'una mai avve­ nuta effettuazione dello stesso). Questo settore, ormai assai vasto e che indubbiamente ha avuto notevoli influenze anche su molti artisti già appartenuti all'indirizzo opposto (soprat­ tutto quelli della corrente« minimale»), si estende anche ad alcune opere musicali (si pensi ai progetti di azione di Giu­ seppe Chiari, di LaMonte Young, di Paik, ecc.) e, ovviamente trova un campo particolarmente fertile nell'architettura. Esi­ ste, infatti, tutta una vasta attività progettativa - da parte dei giovani neolaureati, ma anche di parecchi gruppi già ag­ guerriti (e i nomi sono facili a farsi, dal notissimo Archi­ gram agli architetti ideatori di « Civilia»: Rodney Carran e Michael Rowley; dagli Archizoom, ai Superstudio ai Meta­ morph, da Yona Friedman a Vieceslav Richter, ecc.) - che è rivolta quasi esclusivamente alla creazione di progetti sine materia; e questo, non solo per le ben note difficoltà che pre­ senta oggi il settore dell'edilizia, ma anche per una evidente volontà di rimanere a livello progettuale, d'un genere di pro­ gettualità non oggettualizzabile. Questa « riduzione al pro­ getto» non va intesa nel senso di una riduzione dell'architet­ tura al design, come tipico modello progettativo; ma, anzi, può essere constatata anche nel campo del disegno industria­ le, là dove si scorge, accanto ad un design volto alla creazione dell'oggetto, un altro tipo di design che finisce per ridursi ad un « metades,ign» (come del resto era già stato osservato a suo tempo da Van Onck). E, visto che ho citato il caso del « metadesign», non sarà inopportuno accennare al fatto che, proprio in questo caso, si può effettivamente constatare la presenza d'una riduzione globale del linguaggio ad un « me­ talinguaggio», e dunque d'un insistere sul discorso attorno al linguaggio - come sul discorso attorno alla pittura, alla musica, all'architettura. Lo stesso ricorso, oggi così frequente, a schemi semiolo­ gici (di cui abbiamo spesso discusso e di cui, in queste pa32 gine, si sono dati ampi resoconti), è una riprova della ten-


denza al progetto cui sopra accennavo: l'analisi semiotica ap­ plicata al fare architettonico e artistico o linguistico in ge­ nere, altro non è che il bisogno di chiarire a se stessi l'oscu­ rità semantica del proprio e dell'altrui operare. Mentre - per rimanere nel campo architettonico - si assiste ad un continuo espandersi dell'edilizia in un senso quanto mai «riduttivo» (e, in questo caso, con una conno­ tazione decisamente derogatoria!) al punto di vedere oblite­ rata la stessa valenza semantica dei singoli edifici e dell'in­ tero territorio (anche a questo fatto ho già avuto occasione di accennare in un articolo su « Casabella», n. 365), si assi­ ste, per contro, ad un aHrettanto sterile dilagare di ipotesi di lavoro, di tentativi utopistici, che possono avere un inte­ resse solo per quei pochi in grado di immaginarne gli svi­ luppi futuri. Il risultato immediato di tutto ciò è il sempre maggior distacco tra cultura elitaria e cultura delle masse; proprio quel distacco che si sperava di poter superare attra­ verso una massificazione della cultura e un declino della so­ cietà borghese. Purtroppo, come è stato ripetuto fino alla sazietà, il frutto più succoso e più ambito dalla nostra società è proprio il Kitsch (nelle sue infinite varietà anche architettoniche e di design), e una volta assapora,to il gusto dolciastro e zucche­ roso di questo frutto è difficile al grosso pubblico rifarsi a cibi più genuini o meno facilmente assaporabili.

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Riduzione o trasformazione? PAOLO FOSSATI

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Con molta puntualità, a un certo punto del discorso di De Fusco e Fusco sulla riduzione culturale, si tocca il tema della interdisciplinarità. Le due ipotesi, la riduzione e, ap­ punto, la interdisciplinarità, vanno di comune accordo e si intersecano fra loro. La questione, avvertono gli atuori, è du­ plice, e se da un lato tocca la ricerca, dall'altro converge sulla dinamica di gruppo, con cui oggi si intende formulato il la­ voro di ricerca. Questione, direi ancora, che tocca al cuore un aspetto sociologico non da poco: ci si chiede se nel gruppo ci sia davvero un'esigenza di interdisciplinarità b se esso non simboleggi una tribù che si 'riconosce già utente e si chiude in difesa della propria costituzione culturale e sociale, sicché i partecipanti, attori e utenti insieme, si confermano cultural­ mente costituiti sul reciproco assenso. In altri termini, siamo di fronte a una ambivalenza degli addetti fra qualificazione tecnica e linguistica entro e per il proprio -specifico, al fine di consentirne l'uso e il trapasso ad altri specifici, e « predisposizione strutturale delle singole di­ scipline » di cui sono i sacerdoti dichiarati. C'è da chiedersi, ad esempio, se la mobilità degli specifici e dei loro materiali conseguentemente strutturati, non derivi, almeno talora, da una esigenza di definire verso l'esterno il ruolo, e le motiva­ zioni di ruolo, degli addetti, in vista di una trasformazione del loro collocamento nei quadri sociali più agile e meglio si­ gnificativo. Né è privo di significato che molti studi sulla cul­ tura enucleino piuttosto la situazione dell'operatore che non quella dei suoi materiali, sicché questi, giustamente spesso,


si riducono a quello. Questione questa del tutto strutturale, o, meglio, di uso strutturale, se in quella ambivalenza di cui s'è appena detto si consuma, di fatto, la possibilità di passare di · struttura in struttura, da specifico a specifico, e che perciò tocca le interrelazioni connesse. Il punto è singolarmente delicato. Perché se vi è una larga misura che da una struttura transita ad altra per ovvia determinante dinamica, è pur vero che qualcosa entro ogni struttura si consuma differenziato, non deducibile, diverso, per conformazione specifica, e statica. Sicché i ruoli, ammesso un largo utile di dinamizzazione culturale, dovranno fare po­ sto a una conservazione per nulla reazionaria, ma indispen­ sabile. Le funzioni dialettiche, quindi, relative alla struttura, alla riduzione e all'interdisciplinarità sono molte e tutte estrema­ mente importanti, mi pare, non facilmente riducibili a questa o a quella definizione tecnologica e linguistica. Donde la que­ stione interdisciplinare. Dove si può sottolineare, con accordo, la riflessione di Bruner che « la storia della cultura è la storia dello sviluppo delle grandi idee organizzative o strutturali », ma con uno scarto sul pensiero di Bruner, perché non si tratta solo di porre in luce una struttura logica della materia ri­ dotta a corpus, come se quella struttura logica fosse automa­ ticamente inerente al corpus in quanto tale, mentre è una decisione che muove da ben altra fonte e cioè dalla dialettica specificità-ruolo debitamente assunta, cioè dialetticamente ri­ conosciuta. Il punto mi pare decisivo, e aiuta a comprendere in ter­ mini diversi la questione strutturalistica, col rischio che questa ha, da valutare tutto fino in fondo, di una nuova precettistica e di una nuova normatività, essendo strutturante, al limite negativo, ciò che funzionalmente è diretto in un certo verso storico-politico, e non altro. Col conseguente « consumismo » della domanda interna della partecipazione allargata, popolare, di base, fino a un gioco di servizio di quella domanda che esaurisce ogni altro discorso. Consumi­ smo, e sia pur esso riduttivo, se è proliferativo invece quello della domanda esterna per (fasulla) discendenza da uno spe- 35


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cifico disciplinare la cui mobilità non viene mai definita, e la cui immobilità ascende a verità in sé, astoricamente intesa. Morpurgo Tagliabue ha riassunto così la questione: a) ogni cultura è riduttiva; b) lo è in quanto selezione di con­ tenuti e forme di cultura in corrispondenza di una selezione di soggetti cioè di fruitori; e) la riduttività odierna, ipotiz­ zata da Fusco e De Fusco, non è di un tal tipo, in quanto · non presuppone selezione di soggetti, cioè presuppone una non selezione dei fruitori. Ed è esatto, in un'ottica ristretta: il rovello dell'indagine degli autori dello studio sulla ridu­ zione sta proprio qui, nello studiare una riduzione in cui cultura non sia per classi di fruitori selezionate entro la strut­ tura stessa di cultura e solo da essa. D'accordo dunque: riduzione diversa, diversa in quanto modifica la connotazione dei fruitori valorizzandone non la condizione di pubblico, ma la creatività di esecutori, di agen­ ti. E diversa, aggiungo subito, in quanto in modo non omo­ geneo alla strutturazione della cultura data è sorta l'espe­ rienza, si è fondato l'impatto, si è diramata l'esigenza di una considerazione corrispondente del pubblico, nel senso appena più su detto. Da questo ultimo spunto, la non omogeneità, nasce quell'aspetto aggregato e disorganico di risposta pro­ prio di talune contestazioni estreme contro cui lo studio di « Op. cit. » muove proposte e strutturate e organiche, al limite scientifiche, di coordinamento. Ma sono proposte parziali, non per scarso rigore storicistico e critico, ma perché è un rigore non recato fino in fondo a correggere e lo storicismo e la criticità. Che non sono, torno a dire, solo monovalenti, come coerenza culturale, ma dotati di quella ambivalenza sociologica per cui non si dà specifico corpus senza ruolo operativo, o per contrario, non si dà ruolo senza corpus. La questione della partecipazione politica, ironizzata da Morpurgo Tagliabue e bene vista invece dai due autori, si innesca a questo punto, nel valutare a dovere l'ambivalenza e considerarla non più come contraddizione sublimata (ma le pagine di Chomsky riferite dai nostri due autori rivelano che la sublimazione non soddisfa nessuno : e neppure la reazione, che alza il prezzo della propria accettazione del gioco),


ma come incastro necessario. Dibattere di civiltà e cultura, o di cultura media e specialistica, come fa Tagliabue, quali li­ veli i scissi tra loro e comunicanti quando fa comodo a chi fa comodo, significa non capire il senso motivatamente politico delle pagine di L. Lombardo Radice citate dagli autori, e che ciascuno farà bene a rileggere, perché di lì nasce una defi­ nizione di struttura non meccanica e non meccanicistica, in­ duttiva e non deduttiva soltanto, cui mi pare si deve aderire in toto. Col risultato, mi pare, di rovesciare il facile sofisma di Tagliabue. Il quale scrive, confondendo specifico e auto­ nomo: « i valori culturali debbono essere ampiamente condi­ visi ma non è sufficiente che lo siano, per fare cultura ». Da cui si evince, per così dire, che per far cultura non è neces­ saria la cultura, ma sono indispensabili i valori : sicché ciò che il fruitore è chiamato a «partecipare» o a «condividere» non sono fatti o fattibilità, sono dei valori, questi sì autono­ mi. Su questa morfologia dei valori di per sé i dubbi non· saranno mai troppi : la specificità indica solo quella parte di permanenza che non si esaurisce nella singola elaborazione o definizione prestata alla materia di volta in volta, e quindi la domanda che la materia stessa pone sulla natura antropo­ logica della propria presenza e sulla natura storica dell'uso in cui viene collocata, e quindi sulla coerenza o sullo scarto fra le due. Laddove l'autonomia si rifà a una ipotetica mor­ fologia assoluta. Ma torniamo al tema che ci siamo visti proporre e che si è accolto. Credo che a questo punto discorrere di politi, cità sarà definito sufficientemente nella rimeditazione speci­ fico-ruolo, nella loro effettiva agibilità interrelata e dialettica. Quale interdisciplinarità, dunque, se si prescinde dalla ra­ gione politica che la· muove? E quale riduzione se non in funzione della massima articolazione possibile? {Apriamo pa­ rentesi per aggiungere che, qui, politicità e articolazione non stanno propriamente su un piano solo, ma in qualche modo costituiscono coppia dialettica, almeno come capacità e volontà dell'una di esser critica dell'altra, per evitare quella eterodirezione che resta il punto debole di siffatti discorsi di massa). 37.


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Gli autori, a un certo punto, pongono la questione della riduzione e dell'opera d'arte visiva e del campo della critica: questione che gioverà a spiegare il senso dell'appena citata « articolazione ». Il pubblico s'è dunque posta la domanda che cosa significa?, domanda maliziosa maliziosamente ri­ masta inevasa. Che in tale domanda stesse « autentica cu­ riosità» è lecito dubitare: la domanda scaturisce dalla falsa ipostasi con cui s'è fatto dissolvere il doppio spazio della realtà visuale in arte, ma per aggravarla. Che l'opera visiva sia immagine e figura, cioè evento sensibile di un sensorio di scarsa connessione alla concettualizzazione della parola, è certo il primo spazio in questione; che la sua articolazione sia discorso mediabile, ermeneutico nella socializzazione della parola è l'altro spazio che ci preme: ma quest'ultimo, almeno nella critica moderna, ha distrutto quella. Il discorso ha fu­ gato la figura, l'evento è stato divorato dalla dimensione in cui la traduzione è più coerente alla prassi verbale in uso al­ meno dall'illuminismo in poi. La domanda che significa? ha due _valenze, dico di fatto, nell'esperienza quotidiana: a) il significato è tale se è verbale; b) il mediatore, il cosidetto critico, è tale, cioè mediatore, se media verso una partico­ lare lingua e verso quella sola. Con un codicillo, oggi in voga, anche troppo: che realtà socializzata e sociale è solo, o pre­ valentemente, quella verbale, scritta o meno che sia, perché a quel processo di strutturazione che alla verbalità fa capo s'affida il corpus cultura riducibile ergo omnes ad erga omnia. Questo è stato il predicato che ha consentito di as­ sorbire nel sistema le formulazioni infrasistematiche che pongono le avanguardie, ·sia detto a limite di troppi studi in corso sulle medesime. Assorbimento, tra l'altro, non indesi­ derato dalle « avanguardie » medesime. Ora, qui articolazione massima, e quindi specifico, è ri­ trovare la connessione fra piano dell'immagine e coordina­ zioni delle immagini, fra « parole » e sintassi, iniziando col riprendere il discorso da una realtà, del resto socializzata e quanto!, come quella, specifica deHa immagine, della figura. Si scoprirà che là, come in ogni specifico, c'è una serie di strutture multiple e sintetiche, a coglier le quali !'interdisci-


plinarità è indispensabile fin dall'inizio, ab ovo. Ma si sco­ prirà anche il rischio massimo di siffatta riduzione: che è giunta, proprio nel campo delle arti figurative e della loro co­ sidetta critica, a mutare, parzialmente ma con netta radica­ lità, il segno della propria materia. Un discorso sulla ridu­ zione fino a che punto ci salverà da simili inversioni di fi­ siologia? Ancora su interdisciplinare e riduzione. Dal lavoro di De Fusco e Fusco i due termini paiono appartenere non alla ma­ teria indagata ma a un metodo di indagarla, a una minima ma nutrita epistemologia. E si sa che la perfetta coerenza di un sistema si verifica con un linguaggio che sia fuori del sistema stesso. Il che ha una sua curiosa simmetria nel rap­ porto col pubblico che ha una certa cultura: laddove questa seleziona contenuti e forme in corrispondenza di una sele­ zione di pubblico, scrive Morpurgo Tagliabue. Pubblico ester­ no, di altro sistema, nella coscienza del commentatore. Ma qual è, nei fatti, nelle decisioni, l'omologia della classe della materia culturale e della classe dei fruitori? La non selezione dei soggetti, temuta da Tagliabue, muta di fatto rango all'epi­ stemologia. Meglio perciò che di riduzione sarebbe parlare di trasformazione.

P.S. Per i lettori di « Op. cit. » i riferimenti fatti in queste righe sono di facile decifratura, essendo il lavoro di Fusco e De Fusco uscito sul n. 23, gennaio 1972 della rivista (sulla interdisciplinarità a pg. 14 sg.; sulla critica delle arti figurative a pg. 46 sg.; il testo di Bruner è ivi ri­ ferito a pg. 17; quello di Chomsky a pg. 19 sg.; quello di L. Lombardo Radice a pg. 21 sg. ). La replica di G. Morpurgo Tagliabue è comparsa invece nel numero 26, gennaio 1973.

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Sul concetto di comunicazione estetica* TOMÀS LLORENS

La letteratura impegnata nell'analizzare gli oggetti di di­ versi campi disciplinari del design considerati come segni, ha conosciuto negli ultimi anni un'autentica fioritura. Molti di questi studi sono stati presentati - e taluni accettati come dei paradigmi metodologici, volti a rendere esplicite regole che avrebbero dovuto accrescere il grado di validità scientifica della letteratura, tradizionalmente umanistica, de­ dicata allo studio della teoria, della critica e della storia delle Belle Arti. Queste metodologie sono, in effetti, caratterizzate da una grande diversità. Lo stesso tema di questa conferenza - « Ana­ lisi semiotica: esistono regole fondamentali comuni a diverse discipline del design? » - indica in una certa misura l'ob­ biettivo di vagliare la possibilità che tale diversificazione ven­ ga, in un qualche modo, sistematizzata e ricondotta ad un im­ pianto concettuale unitario. Inoltre, questo titolo connota una interpretazione, della situazione attuale, che vorrei definire alquanto ottimistica. Sembrerebbe infatti da esso di poter dedurre che, quanto meno all'interno di ciascun campo deL!e differenti discipline del design, già esistano alcune regole fon­ damentali per l'analisi semiotica, e che il problema attuale

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* Comunicazione presentata al Semiotics International Workshop, svoltosi ad Ulm-Donau nell'ottobre 1972 sul tema « Semiotic Analysis: are there common basic rules for different design disciplines? •, per iniziativa di Martin Krampen, docente presso la Scuola di Architettura dell'Università di Ginevra.


consista nel trovare un comune linguaggio teorico per l'insie­ me di tutti questi ambiti disciplinari. Non ritengo che le cose stiano in questi termini. l,l recente Simposio di Castell­ defels ha dimostrato che già in uno solo dei campi, quello architettonico, vi sono quasi altrettanti diversi approcci me­ todologici quanti studiosi, e inoltre, che risultava impossibile ridurre tale diversità ad un comune impianto sistematico. D'altro canto in molti casi una determinata metodologia, quantunque verificata solo nella sua applicazione ad un cam­ po specifico (architettura, o cinema, ad esempio), è cionono­ stante proposta con l'intenzione di stabilire delle basi teori­ che che dovrebbero permetterne un'analoga applicazione ad altri campi. Per cui, il mio commento al titolo della presente conferenza sarà che la distanza fra i diversi tentativi di ana­ lisi semiotica per i vari sistemi che producono oggetti di de­ sign, non dipende tanto dalle differenze riscontrabili fra i si­ stemi stessi, quanto dall'assenza di concetti teorici general­ mente accettati da coloro che si occupano di questi studi. Come è già stato osservato, ci troviamo attualmente, in que­ sto campo, nello stadio pre-paradigmatico (secondo la termi­ nologia di Kuhn) 1; ma non sono affatto sicuro che l'aver tro­ vato un nome così elegante per la nostra malattia ci possa aiutare a vincerla, e ci garantisca, prima o poi, l'accesso a quel livello di rispettabilità che lo stesso Kuhn chiama « normai science ». Lasciando da parte l'interrogativo sul futuro avvento o meno di una specifica scienza dei sistemi del design, questo mio contributo consisterà nella discussione teorica di uno degli argomenti generali che, in un modo o nell'altro, sotten­ dono la maggior parte delle analisi concernenti i prodotti del design considerati come segni. Un argomento che, nonostante il suo carattere 'centrale', di rado ha costituito l'oggetto di uno studio specifico, perché in genere è stato accolto così come era stato elaborato in altri campi del pensiero scienti­ fico: il concetto di comunicazione estetica. In primo luogo, esporrò il modello più generalmente accettato - accettato dai diversi autori con una variabile aggiunta di elaborazioni specifiche, che in questa sede non prenderò in esame -; in 41


secondo luogo, mi soffermerò su alcune delle difficoltà che, a mio giudizio, derivano da tale accettazione; infine, enuncerò alcune considerazioni che potrebbero riflettersi positivamente sull'uso di questo concetto, in modo tale da evitare le diffi­ coltà di cui sopra. Il modello al quale faccio riferimento rappresenta la co­ municazione come una relazione triadica, M (A, B), composta da un predicato (la trasmissione di un messaggio M), e da due soggetti (l'emittente A e il ricevente B). Si tratta di una relazione dello stesso grado di quelle di dare, vendere, pre­ stare, etc ...; ma di grado diverso rispetto a quelle di abitare, essere verde, grande, buono, etc., che corrispondono ad una struttura diadica del tipo P (A). Possiamo dire che la configurazione del modello, nella sua versione originaria, deriva fondamentalmente dalla teo­ ria statistica della comunicazione, o teoria dell'informazione. Per quanto le basi teoriche fossero già state stabilite da Hart­ ley 2, la formulazione definitiva, quella che ha ricevuto ampia diffusione ed ha influenzato buona parte degli studi riguar­ danti la comunicazione estetica, è quella di Shannon e Wea­ ver 3• In maniera assai sintetica, lo scopo di questa teoria può essere fatto coincidere con l'obiettivo di misurare la quan­ tità di informazione, considerata come la grandezza princi­ pale, e al limite sufficiente, per descrivere il predicato M nel­ l'ambito della struttura teorica data. Questa teoria si è dimostrata ampiamente valida per i risultati raggiunti nel suo campo originario, l'ingegneria elet­ tronica delle comunicazioni. E il successo ha fatto sì che essa incidesse su di un tradizionale problema del pensiero riguar­ dante la comunicazione per mezzo del linguaggio: quello della dicotomia forma/contenuto. L'elenco degli studi che negli ul­ timi due decenni, in un modo o nell'altro, hanno cercato di stabilire un'analogia tra informazione e contenuto di un mes­ saggio, è troppo lungo perché lo si possa fare qui. Dal mo­ mento in cui _la comunicazione interumana è divenuta oggetto di interesse scientifico da parte di diverse discipline, il mo­ dello mutuato dalla teoria statistica della comunicazione è 42 stato applicato alla psicologia della cognizione e del linguag-


gio con G. A. Miller 4, alla fonologia con Jakobson s, ai lin­ guaggi in generale con Moles 6, alla psicologia sociale con Ruesch e Bateson 7, etc. Per quanto riguarda la comunica­ zione estetica, potremmo ancora citare Moles 8, Bense 9 e molti altri. I termini, ovvero i momenti, che caratterizzano la tra­ smissione di informazione, secondo Shannon e Weaver, pos­ sono così essere indicati: sorgente di informazione - [messa in codice] - emittente - canale - ricevente - [decodificazione] destinazione dell'informazione, in cui la messa in codice e la decodificazione possono essere descritte come operazioni sim­ metriche di selezione, implicanti gli stessi: a) repertorio (di elementi da selezionare), b) regole sintattiche (che producono la ridondanza necessaria per assicurare la trasmissione del1 'informazione), e c) regole di traduzione (regole biunivoche di sostituzione di ogni evento interno alla trasmissione per corrispondenti eventi esterni), o semantiche. All'insieme co­ stituito dal repertorio e dalle regole si dà il nome di codice. Benché io mi proponga di esaminare il concetto di co­ municazione estetica, l'aspetto che per il momento mi inte­ ressa è solo quello concernente il concetto di comunicazione in generale, come un nucleo dal quale è già stata tratta una teoria che cerca di misurare la informazione estetica, ma di cui non mi occuperò qui in maniera specifica. D'altro canto, si può dire che i caratteri fondamentali evidenziati nel dia­ gramma di Shannon e Weaver corrispondono ad un modello generale, accettato sia nel campo della linguistica che in quello teorico estetico ben al di là della specifica applica­ zione della teoria dell'informazione. Senza dubbio, questa accettazione generalizzata del mo­ dello corrisponde ad alcuni importanti vantaggi, che vale la pena di considerare. Anzitutto, la sua chiarezza concettuale. La sorgente è facilmente identificabile con l'artista o con il designer, il messaggio è l'opera o l'oggetto prodotto, il desti­ natario è il pubblico - e pt.T quanto sia evidente che ab­ biamo a che fare con una pluralità di destinatari, agli effetti della necessaria semplificazione del modello la riduzione del­ l'intero complesso di relazioni ad una relazione semplice fra 43


una coppia di soggetti, non sembra portare se non vantaggi. Infine, il codice è l'insieme delle costrizioni - repertorio e regole - cui il designer o l'artista devono sottomettersi af­ finché il contenuto estetico del loro lavoro raggiunga il pub­ blico. In verità, quest'ultima analogia è alquanto debole. Nel senso definito dalla teoria della comunicazione, il codice è co­ stituito da regole biunivoche di sostituzione. Questa condizio­ ne non vige nei cosiddetti codici stilistici, in cui assai di rado si può dire che una data entità del contenuto semantico cor­ risponda ad una data entità del repertorio stilistico; e a ri­ gore, non vige nemmeno nelle lingue naturali. Ma gli stessi linguisti, ciò nonostante, hanno utilizzato il termine codice in questo senso analogico e lato, e gli psicologi hanno fatto altrettanto parlando di modelli di riconoscimento nella perce­ zione visuale, di operazioni di selezione nella memoria, etc. Tornerò in seguito su questa difficoltà. Per il momento, è suf­ ficiente dire che gli inconvenienti che possono scaturire da questa analogia forse troppo debole, sono apparsi compen­ sati da tutti i motivi che militano in favore dell'ammissione di questo modello in campo estetico. La novità delle formulazioni basate sul modello tratto dalla teoria dell'informazione ha in qualche modo nascosto il fatto che esso veniva ad incidere positivamente nel senso di alcune delle più note argomentazioni tradizionali del pensiero estetico: da un lato, nel senso della considerazione della crea­ zione artistica come espressione (analoga dunque, per la sua natura, ai fenomeni del linguaggio), argomento questo che aveva le proprie radici già nella filosofia dell'antichità, ma che costituì un locus privilegiato delle dottrine estetiche pre-ro­ mantiche; dall'altro, nel senso dell'atteggiamento di relati­ vismo storico per quanto riguarda i fenomeni del gusto, tema questo fra i maggiori messi in luce dagli estetologi dell'Illu­ minismo 10, e per il quale a prima vista sembra possibile trarre dalla nozione di codice delle soddisfacenti possibilità esplicative. E infine, nel senso di qualcosa che chiamerò « no­ stalgia dell'Accademia». L'estetica deve essere normativa o 44 descrittiva? I positivisti del XIX secolo avevano avuto un


bello sforzarsi a configurare la « scienza dell'arte» come una disciplina puramente descrittiva; la verità è che gli artisti assai di rado accettavano tali sforzi. All'inizio del Novecento, una parte degli ambienti di avanguardia rispose alla man­ canza di norme accademiche ponendo i propri lavori all'in­ segna della più assoluta libertà; ma un'altra parte, reagendo al positivismo ottocentesco, si prefisse lo scopo di cercare la chiave per un nuovo sistema di norme estetiche, a costo di doverlo difendere con l'autorità della conoscenza scientifica. Non cercherò qui di fornire una spiegazione sociologica a questo fenomeno storico-culturale. Ma appare del tutto na­ turale che proprio questo secondo atteggiamento abbia otte­ nuto il maggior favore negli ambienti in cui predominavano architetti e industriai designers. La psicologia della perce­ zione e l'ingegneria erano i campi che fornivano i paradigmi elementari per i nuovi sistemi normativi estetici, che veni­ vano a soddisfare le esigenze didattiche e quelle di «raziona­ lizzazione» e di «normalizzazione» della produzione artistica, in sostituzione di quelli, ormai scomparsi, prima forniti dalle Accademie. All'inizio dei recenti anni sessanta, gli ultimi pa­ radigmi concettuali presi a prestito dal campo dell'ingegneria furono .organizzati attorno al tema centrale della «metodolo­ gia scientifica del design» e, in più di una occasione, in que­ st'ultimo campo si manifestò un preciso interesse per l'ana­ lisi semiotica dei prodotti del design, considerati come veicoli di comunicazione. La Hochschule fiir Gestaltung di Ulm, ad esempio, specchio e modello per le didattiche del design scientifico, che nel 1966 organizzò una conferenza sulla me­ todologia della progettazione architettonica, già nel 1959 aveva manifestato il proprio interesse per i problemi della comuni­ cazione. Ma forse, ciò che più militava a favore della introduzione del modello comunicativo che sto discutendo, era la sua evi­ dente validità nel caso degli atti comunicativi della vita di ogni giorno, operati per mezzo del -linguaggio originario. «Ab­ biamo un'idea», che vogliamo «comunicare»; la «esprimiamo» cercando le parole appropriate ossia applicando un dato «codice» (e la nostra esperienza delle lingue straniere, ov-

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vero dei liversi 'registri ' della nostra stessa lingua, ci ha abituati ad essere consapevoli della diversità d_ei codici possi­ bili); il successo della comunicazione dipende dal fatto che la persona alla quale ci rivolgiamo usi il nostro stesso codice. Se le cose stanno così, l'idea « che avevamo in mente», si tro­ verà adesso nella mente della persona cui ci siamo rivolti. Perché non applicare questo semplice modello all'attività artistica? L'artista « ha un'idea » ( « idea» di natura assai par­ ticolare, tanto che alcuni autori preferiscono parlare di «sen­ timenti», « sensazioni» etc.), che si manifesta nella mente grazie ad un qualche misterioso meccanismo - divina ispira­ zione forse, o « intuizione che riflette la realtà », o semplice­ mente effetto di quella « creatività» che è inerente alla stessa umanità dell'umana natura ... Ma tutto questo ha, in ultima analisi, un'importanza secondaria; ciò che realmente conta è « l'abilità dell'artista di esprimere» la « idea » ovvero il « con­ tenuto estetico». Di conseguenza, è necessario che egli sap­ pia usare il « codice » appropriato nel modo appropriato; il concetto del relativismo storico lo ha assuefatto all'idea della pluralità dei «codici», e la semiotica sta adesso per offrirgli una tecnica generale per la appropriata utilizzazione del co­ dice, quale che esso sia. Le difficoltà del modello si rendono evidenti quando cer­ chiamo di operare una disamina più ravvicinata di tutta que­ sta rete di analogie, cominciando proprio dalla stessa auto­ evidenza del modello. Nel caso della comunicazione usuale, il modello appare valido perché l'emittente - colui che « ha intenzione» di «comunicare » - non ha difficoltà nell'indivi­ duare quale sia i.I «codice» appropriato (benché possa incon­ trarne nell'usarlo in maniera appropriata); l'ipotesi che tale codice sia condiviso dal ricevente appartiene al livello del senso comune, e può essere posta in termini quanto mai sem­ plici : egli conosce l'inglese / non conosce l'inglese / lo conosce «fino ad un certo punto». Ma nel caso della comunicazione estetica non è possibile, per così dire, individuare il codice « espressionista » o «surrealista » allo stesso modo in cui identifichiamo il codice della lingua inglese ordinaria, e ciò si verifica perché in questo secondo caso il codice non si fon46


da, come era precedentemente, sulla base del senso comune. Come direbbe Peirce, si manifesta una fessura (« cleft ») una crepa nel solido terreno deHa conoscenza condivisa; una fes­ sura che non può essere colmata dal senso comune, e che deve essere oggetto di un'indagine scientifica. A dire il vero, la fessura appare anche nel caso del lin­ guaggio ordinario, per poco che si scavi oltre la superficie. Perché in effetti, né possiamo parlare del linguaggio ordinario come di un codice strictu sensu (nello stesso senso ad esem­ pio in cui possiamo parlare del « codice Morse » ), né trovia­ mo, nel linguaggio ordinario, un sistema rigoroso cli regole biunivoche di sostituzione. Il punto debole del consenso pub­ blico, ad esempio, si rende manifesto al livello connotativo. Ma quanto meno ad un certo livello cli questo consenso pub­ blico, sussiste un solido terreno di conoscenza condivisa, co­ mune, sul quale possiamo fondare un atto comunicativo effi­ cace, ovvero un'analisi deHa comunicazione o della trasposi­ zione di una comunicazione da un sistema ad un altro (ad esempio, dal linguaggio parlato a quello scritto, dal linguag­ gio scritto al sistema dei segnali telegrafici, etc.), usando i co­ dici appropriati senza doverci preoccupare cli verificare se il codice viga veramente. Semplicemente assumendolo per dato. In ultima analisi, la questione se il codice viga o meno coincide con il problema del significato, del come accade che esistano dei significati, del come accade che le persone comu­ nichino e si comprendano l'una con l'altra. E questo proble­ ma ricade quasi interamente al cli fuori dell'ambito della teo­ ria dell'informazione. Utilizzando la distinzione tra segno e veicolo segnico, Ch. Morris osserva che « the Shannon type of ' information theory ' is a theory of efficient sign-vehicle trans­ mission, and not a genera! theory of signs », e poco oltre, ri­ ferendosi alla distinzione stabilita da D. M. McKay tra infor­ mazione selettiva e informazione semantica, aggiunge : « ••.' In­ formation ' of the Shannon variety is selective information only, and has nothing to do with the signification of the mes. sage » 11• Non vi è dubbio che si possa percorrere anche un lungo cammino, part�ndo dal punto di vista della operatività nella 47


comunicazione, senza che sia necessario interrogarsi sul pro­ blema del significato. Dipende dalla misura in cui si vogliono far rimanere valide le analogie che derivano dalla teoria sta­ tistica della comunicazione, ossia da quell'ambito scientifico originario in cui gli interrogativi sul significato risultano su­ perflui dal punto di vista operativo. E dipende, in ultima ana­ lisi, dal punto al quale possiamo giungere muovendo sul ter­ reno del senso comune. Per molti aspetti della conoscenza del linguaggio ordinario, è possibile andare molto innanzi senza alcuno strumento di verifica empirica, se non la auto-osserva­ zione che il linguista può esplicare nei confronti di se stesso come_ individuo appartenente ad una comunità linguistica. In maniera analoga, dopo Galileo l'ottica poté compiere dei gran­ di progressi dal punto di vista operativo, senza doversi ne­ cessariamente porre degli interrogativi sulla natura della lu­ ce, accettando una posizione che non doveva entrare in crisi se non molto più tardi, alla fine dell'Ottocento, allorché si delineò la possibilità di applicazioni analogiche ad altri tipi di radiazioni. Nel campo della comunicazione estetica, molti fattori indicano che i paradigmi generalmente accettati nel campo della teoria dell'informazione, o in buona parte della linguistica contemporanea, devono essere messi in crisi. Ritornando alla questione della auto-evidenza del model­ lo, ho già accennato alla artificiosità della posizione per cui, ad esempio, « La mariée mise à nu par ses célibataires me­ mes», di F. Picabia, sarebbe « messo in codice» secondo un certo precostituito « codice dadaista». Per quanto, fra gli al­ tri, Arp., Richter, e lo stesso Picabia abbiano parlato di « pro­ cedimenti », o « regole», che di fatto sono stati messi in pra­ tica nella composizione di determinati quadri dadaisti, resta il fatto che queste regole non hanno nulla a che fare con quelle « relazioni biunivoche» tra elementi di significato ed elementi di « linguaggio pittorico », di cui un ipotetico « co­ dice della pittura dadaista» avrebbe dovuto essere costi­ tuito. Negli ambienti artistici o intellettuali più ostili all'intro­ duzione di nuovi jargons nella teoria estetica e in quella del 48 design, si sente spesso osservare che fino a questo momento


nessuna opera importante è stata prodotta grazie all'applica­ zione dei concetti di « codice», « repertorio », e « informa­ zione estetica ». Ritengo che questa obiezione sia valida (in­ dipendentemente dall'atteggiamento di irrazionalità, o di sa­ cralizzazione dell'attività artistica, mostrato da coloro che la sostengono), precisamente nella misura in cui si pretende di estendere, per via analogica, un modello del concetto di co­ municazione che si basa, fondamentalmente, sulla sua mani­ festa validità in campi diversi da quello della comunicazione artistica. In ultima istanza, il maggior fascino di questa esten­ sione analogica era la utilizzabilità operativa che a prima vi­ sta esso sembrava permettere. Questa operatività, nel campo della comunicazione estetica, è stata sin qui verificata in mi­ sura minima. L'impossibilità di applicare questo modello al campo dei fenomeni estetici è evidenziata dalla difficoltà di identificare in questo campo gli elementi principali che costituiscono il modello stesso. Abbiamo già visto le difficoltà inerenti alla nozione di codice (e su di esse ritorneremo in seguito). Ma difficoltà dello stesso tipo sussistono se prendiamo in consi­ derazione altri componenti del modello. In che modo può es­ sere identificato il « contenuto del messaggio estetico»? Qual è la natura del« contenuto» del messaggio filmico, architetto­ nico o musicale? La maggior parte delle indicazioni in pro­ posito, riscontrabili nella letteratura corrente, sono di tipo negativo: si riferiscono cioè alla specificità del messaggio fil­ mico, e alla impossibilità di ridurlo, ad esempio, al linguaggio verbale 12• Nel campo dell'architettura, è sufficiente ricordare, a ti­ tolo di esempio, le polemiche fra Eco da una parte, e De Fu­ sco e Scalvini dall'altra, circa la natura del 'significato ' ar­ chitettonico, per rendersi conto che ci troviamo assai lontani dal solido terreno del consenso comune, grazie al quale (e per lo meno sino ad un certo livello), noi sappiamo che la pa­ rola.« tavola» significa questo oggetto che sto toccando. Altre difficoltà si manifestano in riferimento ai concetti di sorgente e di destinatario. Chi sta comunicando con chi, nella comunicazione artistica? Mi rammento che appunto a 49


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queste difficoltà, riferite al caso del teatro, si richiamò M. Krampen durante il dibattito al Simposio di Castelldefels. Se ci riferiamo ai fenomeni estetici extra-artistici, come pos­ siamo identificare la sorgente e il destinatario? Limitandoci al campo dei fenomeni artistici, il tipo di fenomeni che nel­ l'Ottocento furono etichettati come folk-art sembra del tutto inadeguato ad una trattazione teorica basata su tali con­ cetti. Ma anche lasciando da parte la folk-art, la necessità di trovare un qualcosa che corrisponda al concetto di « sor­ gente collettiva », non sembra possa essere negata. Nello stesso Simposio di Castelldefels, la relazione di Krampen ri­ guardava il tema dell'analisi delle facciate grazie ad un'appli­ cazione analogica del TTR [Type/token ratio, N.d.T.] usato in psicolinguistica, e nella discussione che seguì lo stesso Krampen sottolineò la possibilità di considerare, come sor­ gente, non già gli architetti che avevano disegnato le facciate, ma piuttosto una sorta di 'costrutto teorico ', nel quale en­ travano in giuoco elementi eterogenei come le norme urbani­ stiche municipali, gli standards imposti dalle Compagnie di assicurazione, gli stereotipi estetici appresi dagli architetti durante l'iter del loro tirocinio didattico nelle scuole di de­ sign, etc. A mio modo di vedere, si tratta di osservazioni partico­ larmente stimolanti, e tuttavia dobbiamo riconoscere che siamo assai lontani dalla chiarezza del modello proposto dalla teoria dell'informazione, con la sua netta distinzione fra sor­ gente e destinatario, e la stretta unidirezionalità che in esso caratterizza il processo di trasmissione dell'informazione. Nel 1962 Eco pubblicò un dettagliato studio sulla diffusione, nel­ l'arte del XX secolo, di una particolare poetica, che sarebbe stata appunto caratterizzata dall'abolizione della frontiera tra sorgente e destinatario 13• Contemporaneamente, l'Autore cercava di formulare le proprie ipotesi riferendosi all'im­ pianto concettuale della teoria dell'informazione. Nella recen­ sione che feci a questo volume 14, sottolineai le difficoltà de­ rivanti da tale tentativo: il concetto di « opera aperta � 'lOn era applicato in maniera univoca ai diversi esempi passati in rassegna, e ciò a mio parere si verificava perché l'autore con-


fondeva le apparenti similarità formali di codici diversi, - o «statuti del linguaggio», come egli stesso diceva - con l'identità della loro validità storico-culturale. A questa critica vorrei ora aggiungere che l'origine di tale confusione aveva le proprie radici appunto nell'ambiguità implicita nell'uso del concetto di informazione, utilizzato per descrivere fenomeni non aderenti al paradigma metodologico dal quale tale con­ cetto veniva prelevato. Tornando adesso alla nozione di codice, cui mi sono testé riferito, e prendendo in esame il problema della messa in co­ dice del messaggio, si vede che è proprio a questo proposito che le difficoltà, insite nel modello di comunicazione estetica che sto discutendo, risultano più serie. Ed è anche a questo punto che, nel caso della comunicazione artistica, la nozione di validità intrinseca entra più chiaramente in conflitto con i requisiti teorici del modello. Le difficoltà nascono dal fatto che, com'è noto, l'obbiettivo della innovazione è un elemento sempre più strettamente connesso con i problemi del valore estetico. In ogni caso, cambiamento e consapevolezza del cam­ biamento (ovvero percezione della sua storicità) sembrano es­ sere fattori indispensabili per la comprensione dei fenomeni artistici del nostro tempo. :e. proprio questa la ragione per cui, come è stato detto più di una volta, l'approccio 'struttu­ ralistico - e il modello di comunicazione estetica che sto commentando è usualmente proposto come derivato da ipo­ tesi teoriche strutturaliste - non è adatto per lo studio dei fenomeni culturali nelle società moderne. Per far fronte a tali difficoltà, è stato utilizzato fra l'altro da Dorfles il con­ cetto di «consumo del codice » 15• La ragione per cui è stato proposto un tale concetto, con la cui utilizzazione si spera di colmare lo scarto fra teoria e realtà, è abbastanza facile a comprendersi; mentre è viceversa difficile comprendere, in maniera teoricamente rigorosa, cosa questo stesso concetto significhi. In che modo un sistema formale - come ad esem­ pio la geometria euclidea o l'algebra di Boole - diventereb­ bero «consumati»? :e. evidente che si tratta di una metafora, ma che cosa significa, esattamente, questa metafora? Il codice artistico, sostiene Dorfles, si «consuma» con ogni mes- 51


saggio che lo usa in maniera ripetitiva. Che senso avrebbe una simile espressione, se riferita ad esempio al codice Mor­ se? Nel caso del linguaggio ordinario, si è parlato di « consu­ mo» semantico delle parole, e di « consumo » delle metafore; ma questi concetti sono stati per lo più riferiti al livello con­ notativo - ossia, a quegli aspetti del linguaggio che nori sono realmente « messi in codice» -; e per quanto riguarda le metafore, si ipotizza esplicitamente che esse appartengano ve­ ramente al codice solo una volta che sono state completa­ mente «consumate». In un recente articolo, assai penetrante 16, Eco ha coniato l'espressione di « self-contradictory code», appunto per rife­ rirsi a quei messaggi estetici «che posseggono la duplice pro­ prietà di essere ambigui ed auto-riflessivi». Eco, che si li­ mita a porre la questione, dice che un'analisi in tal senso richiederebbe « una approfondita indagine circa le relazioni fra logica strutturale e logica dialettica». Questo modo di porre il problema ha quanto meno il vantaggio di non mesco­ lare (come invece fa l'espressione « consumo dei codici») ele­ menti eteronomi rispetto alla discussione del concetto di co­ dice, che è di natura formale. Sono stati fatti diversi tenta­ tivi per costruire dei sistemi logici in cui il principio di non­ contradèlizione risulti assente, e si potrebbero anche citare al­ cuni tentativi di costruzione di sistemi logici che assumono esplicitamente un principio di contraddizione. Ma franca­ mente ritengo che nessuna di tali costruzioni sia applicabile al problema della « auto-riflessività» del messaggio estetico, cui Eco si riferisce. Maggiormente applicabili mi sembrano quelle considerazioni, che lo stesso autore fa nel medesimo articolo, che riguardano invece la « complessità dei codici» e la possibile « molteplicità dei codici», allorché le circostanze e il messaggio stesso « agiscono come sorgente». Forse la for­ mulazione-chiave del problema può ritrovarsi dove Eco sug­ gerisce che « presumibilmente il codice non è una condizione naturale dell'Universo Semantico Totale - riferendosi con ciò al modello semantico di Fodor e Katz, discusso nei prece­ denti paragrafi dello stesso articolo - né una struttura sta52 bile che sottenda il complesso dei legami e delle ramificazioni


che costituis.ono il funzionamento di qualsiasi processo se­ miotico». Ma con ciò, siamo già nell'ambito di una costruzione con­ cettuale completamente diversa da quella del modello che abbiamo discusso sino a questo punto. Si propone infatti una nozione di semiosi espressa non più in termini di rela­ '<.ioni fra elementi preesistenti (sorgente, codice, destinata­ rio ... ), ma in termini invece di processo. !:. vero che ancora permangono alcuni frammenti della costruzione assiomatica formale ereditata dalla teoria della comunicazione - come ad esempio l'uso della stessa terminologia - ma il concetto di significato non è più assiomaticamente dato per definito, e diviene piuttosto l'oggetto di un approccio problematico: in maniera implicita in tutta la prima parte dell'articolo, al­ lorché Eco discute la distinzione di Morris tra denotatum e significatum, e in maniera esplicita allorché viene asserito che «la semiotica ha a che fare con i segni considerati come forze sociali». Prima di giungere alla parte conclusiva del mio contri­ buto vorrei sottolineare un ultimo aspetto del modello di co­ municazione estetica discusso sin qui. Questo modello, se con­ frontato ai ricchissimi sistemi concettuali elaborati dal pen­ siero corrente sulla storia dell'arte, alla fine del XIX e all'ini­ zio del XX secolo, appare francamente deludente : e precisa­ mente allorché esso si riferisce ai discussi concetti di «emit­ tente», «destinatario » e «codice ». Sia le concezioni ideali­ stiche della storia dell'arte - per cui Wolfflin coniò l'espres­ sione di «storia senza nomi» - sia il sociologismo marxista, si sono occupati, e in maniera assai interessante, del proble-­ ma-scoglio sul quale abbiamo visto naufragare il modello. D'altro canto, è vero che il successo di quest'ultimo deriva in parte da talune carenze di fondo appunto di quelle concezio­ ni: in primo luogo, grazie ad un'analisi più dettagliata - sot­ to l'egida della teoria della comunicazione - del carattere «espressivo» tradizionalmente attribuito ai fenomeni artisti­ ci, per il quale le risposte filosofiche date sia dalla storiogra­ fia idealistica sia da quella di ispirazione sociologica (i ben noti sistemi sviluppati da Croce e da Lukacs), apparivano 53


francamente insoddisfacenti; e in secondo luogo, grazie ad una concezione dei processi estetici come agenti determinan­ ti, e non come meri prodotti determinati dalla storia. Il problema attuale è costituito dalla necessità di costrui­ re un modello di comunicazione estetica che da un lato ci pennetta di conservare i vantaggi di una trattazione rigorosa dell'opera d'arte come segno - fra cui quello dell'operatività, cui così entusiasticamente aspirano il modeHo informatico e quello linguistico - e che dall'altro ci consenta di recuperare il senso di storicità dei sistemi estetici di significazione, senza cadere in quel determinismo meccanicistico di cui così spes­ so è stata accusata la storiografia artistica post-hegeliana. I miei propositi, in questa sede, rimarranno lontani dai traguardi posti da un così ambizioso programma. Mi limiterò ad esporre alcuni rilievi, che mi sembrano pertinenti alla co­ struzione di un possibile nuovo modello di comunicazione estetica. Temo che queste mie osservazioni, specialmente ri­ spetto al criterio della operatività cui aspirano i modelli in uso sin qui, risulteranno alquanto insoddisfacenti, special­ mente per coloro che, nei confronti del problema della comu­ nicazione estetica, si collocano con un ruolo di concreta par­ tecipazione, e non da un punto di vista descrittivo e di ri­ cerca teorica qual è invece il mio. Mi auguro tuttavia che esse abbiano un ruolo operativo nel senso di contribuire ad eliminare alcuni falsi problemi. Le riflessioni che mi accingo ad esporre sono tratte in prima istanza dalla teoria generale dei segni proposta da Ch. Morris, una teoria che ha avuto un'ampia diffusione, pari al fraintendimento di cui è stata oggetto. Non mi propongo adesso di rievocare le polemiche sviluppatesi attorno alle teo­ rie comportamentistiche della significazione. In primo luogo perché, appunto riguardo al concetto di significato - un con­ cetto-chiave, come ho già detto, per la comunicazione este­ tica - è mia opinione che l'approccio behaviouristico sia stato il solo a porre realmente la questione in termini di ri­ cerca scientifica, mentre i suoi critici si sono limitati a sotto­ linearne i supposti aspetti negativi, ovvero hanno risolto la 54 questione del significato in maniera assiomatica, ipostatizzan-


do le convinzioni basate sul senso comune. In secondo luogo, perché i soli punti che -trarrò da Morris sono: a) il modo di porre il problema del significato nell'ambito delle scienze del comportamento (prescindendo dalla terminologia circostan­ ziale che Morris adotta nel 1946, e che al limite può essere fuorviante se non si prendono le necessarie precauzioni: mi riferisco ad espressioni come « famiglia di comportamenti », « serie di risposte », « stimolo preparatorio », etc.); b) la con­ cezione della semiosi come un processo, che a mio parere è il più importante tratto distintivo della teorizzazione svilup­ pata in Signs, Language and Behavior, rispetto alla prece­ dente, esposta in Foundations of the Theory of Signs. Precedentemente, nel discutere dell'articolo di Eco, mi sono riferito al fatto che il modello corrente di comunica­ zione estetica deve essere rivisto, precisamente nel senso di un approccio processuale contrapposto a quello relazionale. In Morris, un tale approccio processuale deriva appunto dalla tradizione della filosofia pragmatista, e più esattamente, dal­ l'esplicita accettazione del concetto di comunicazione quale venne formulato da G. H. Mead 17• La formulazione di Mead può ben essere paragonata alla rivoluzione copernicana, se ci riferiamo al modo tradizionale di porre il problema della co­ municazione. Anziché considerare la comunicazione come un rapporto fra due soggetti « each one enclosed within his con­ sciousness », Mead afferma che l'autentico processo di comu­ nicazione è un processo di interazione sociale, partendo dal quale occorre spiegare la nozione di io (« self »). Anziché cer­ care di spiegare come accada che la significazione venga ge­ nerata all'interno della mente, egli spiega come accade che sia il concetto di mente ad essere generato dal concreto at­ tuarsi della comunicazione come fenomeno sociale. Ad un primo livello, la semplice interazione sociale di organismi può essere considerata già come comunicazione (nel senso più lato del termine). Ma l'interazione, nella misura in cui è regolata da abitudini, determina lo stabilirsi di ruoli di­ stinti. Questa è la condizione perché, ad un secondo livello, si manifesti una comunicazione simbolica, con le seguenti

fasi:

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1) Le abitudini individuali («habits») determinano ciò che Mead chiama attitudini: manifestazioni organiche, ma non osservabili, del comportamento (ciò che oggi chiame­ remmo «risposte mediazionali»). · 2) I ruoli sono stabiliti come«habits» di un comporta­ mento complementare appreso, e una parte di questo com­ portamento (la pii.1 stabile) è del tipo che Mead chiama at­ titudini. 3) Un'altra parte particolarmente stabile del compor­ tamento nell'interazione sociale è costituita dai gesti: nell'ap­ prendimento sociale, i gesti sono convertiti in stimoli che inducono la corrispondente risposta complementare (e, come parte di essa, l'attitudine corrispondente). 4) Alcuni tipi di gesti (principalmente i gesti fonetici) sono percepiti in modo molto simili da coloro che li com­ piono e da coloro che li ricevono. Di conseguenza questi ge­ sti tendono a provocare nell'emittente l'attitudine corrispon­ dente al ruolo che, nella interazione sociale, è complemen­ tare al suo. 5) Da questa «intercambiabilità» dei ruoli, che au­ menta notevolmente l'efficienza co-operazionale dell'interazio­ ne sociale man mano che aumenta il repertorio appreso di gesti, si sviluppa la «comunicazione simbolica», caratteriz­ zata quest'ultima, tradizionalmente, dalla comunanza o iden­ tità di «pensiero » che « emerge » dall'atto comunicativo fra soggetti comunicanti. Con quanto sopra, ho fornito una versione schematica, e meno ricca, della teoria della comunicazione sviluppata da Mead; ma penso che ciò sia sufficiente per i propositi di questo studio. D'altro canto, è necessario tener conto del fatto che questa teoria venne sviluppata parecchi anni prima che apparissero alcuni lavori, la cui importanza risultò fon­ damentale per lo sviluppo della psicologia comportamentisti­ ca. Di conseguenza, la terminologia di Mead, e il suo stesso impianto concettuale, suonano oggi assai 'datati'. Lo sviluppo delle indicazioni implicite nella teoria di Mead, con utilizzazione degli strumenti teorici fomiti dall'or56 mai ben nutrito campo degli studi sulla teoria dell'apprendi-


mento, è un lavoro piuttosto complesso, che ho iniziato al­ cuni anni orsono, ma la cui esposizione andrebbe al di là dei limiti del presente studio. In ogni caso, val la pena di osser­ vare che, per quanto riguarda .le basi fornite dalla teoria di Mead, le più importanti ' addizioni ' nell'ambito dello svilup­ po da me proposto, sono orientate nelle direzioni seguenti: 1) La considerazione del comportamento per rinforza­ mento, e di quel ' costrutto teorico' definito da Hull «frac­ tional antedating goal response», quali meccanismi di appren­ dimento fondamentali per la comprensione della comunica­ zione simbolica. 2) L'interazione sociale come sorgente di rinforzamen­ ti, le cui « fractional antedating responses» sono elementi fon­ damentali della comunicazione simbolica, e in particolare del­ la comunicazione estetica. 3) La considerazione dell'interazione sociale come inte­ razione non solo « cooperazionale », ma anche «competitiva». 4) La considerazione dell'emergere del cambiamento so­ ciale. soprattutto da conflitti di interazione sociale (fra indi­ vidui, ma principalmente fra gruppi). 5) La nozione di gruppo sociale come concetto stretta­ mente connesso a quello di comunicazione simbolica. Per concludere, sottolineerò che da questi elementi è pos­ sibile intravedere l'eventuale emergere di un nuovo paradigma di comunicazione estetica, in grado di fondarsi sia, da un lato, sulla natura significativa dei fenomeni estetici (e ciò svi­ luppando soprattutto lo studio del comportamento della gente che interpreta i prodotti del design), sia, dall'altro, sul carat­ tere sociale e storico dei sistemi estetici di significazione. Un tale paradigma potrebbe far fronte a tutte le difficoltà della teoria della comunicazione estetica che abbiamo sin qui discusso. 1) Anzitutto, grazie alla relativizzazione della dicotomia «sorgente»/« destinatario», il gruppo sociale apparirebbe come la matrice originaria della comunicazione estetica, dalla quale i ruoli complementari della «sorgente» e del « ri­ cevente» scaturiscono come ruoli suscettibili di essere co- 57


perti dall'intero gruppo, da sotto-gruppi, o da individui sin­ goli. 2) In secondo luogo, grazie alla relativizzazione della polarità codice/messaggio. II sistema globale di interazione simbolica di un dato gruppo è costituito da messaggi (il co­ dice essendo soltanto, in ultima istanza, una descrizione pre­ dittiva, 'astratta ' di essi). Ma nella misura in cui questi mes­ saggi sono originariamente determinati (anche nel loro con­ tenuto) del gruppo, che assegna i ruoli, essi partecipano della natura istituzionale che è usualmente attribuita al codice. Tutto ciò potrebbe essere espresso, in maniera meno confusa, sostituendo al termine «codice» l'espressione «sistema di significazione» - intendendo qui per «sistema» un insieme di processi che 11011 si verificano in maniera casuale, e che, di conseguenza, includono sia la nozione di «leggi» o rego­ larità, sia l'idea di fenomeni «retti» dalle suddette leggi. II grado di istituzionalizzazione del sistema sociale di significa­ zione - come grado di stabilità di sistemi di comportamento che lo costituiscono, e nella misura in cui questi sono com­ portamenti appresi, resistenti in misura variabile a ciò che lo psicologo chiama «estinzione» - è in sé variabile. Un uso ristretto del termine «codice » corrisponderebbe quindi a si­ stemi di significazione particolarmente stabili, e potrebbe forse essere utile mantenere questo termine nell'ambito del suo specifico campo di validità. D'altro canto, al livello dei fenomeni che appartengono alla comunicazione estetica, si incontrano assai di rado sistemi dotati di tale particolare sta­ bilità, e l'uso del termine «codice» può solo portare a confu­ sioni. L'interazione fra gruppi sociali, e i conseguenti cambia­ menti storici, sono all'origine della variabilità dei sistemi di significazione. Il problema dei «messaggi che negano il co­ dice», o quello dei «codici auto-contraddittori», non sono che un modo per tener conto di tale variabilità. La soluzione teorica del problema sta semplicemente nel porlo usando la terminologia appropriata. Ma la soluzione del problema in ciascun caso particolare comporta una ricerca (talora diffi­ cile o addirittura impossibile) sulle particolari circostanze 58 storiche (inclusi gli aspetti socio-psicologici).


3) Infine consideriamo il criterio di auto-evidenza, al quale mi sono ripetutamente riferito. Non vi è dubbio che. come sostituto di quello di consenso comune, questo criterio diviene scientificamente inaccettabile allorché entra in crisi. È questa la ragione per cui ritengo la sua utilità piuttosto li­ mitata, nel campo della significazione estetica. Forse, questa mia posizione deriva dalla inconscia perce­ zione del fatto che il nuovo paradigma che ho cercato di de­ lineare appare scarsamente «auto-evidente» per il designer e l'artista del nostro tempo. Di fronte a tale osservazione, sarei tentato di rispondere che, se ciò si verifica, è perché essi hanno perso il 'senso comune', il 'senso• del consenso pub­ blico. Non penso di essere il primo a dire una cosa del gene­ re; mi sembra che sia stato W. Morris a dire che un processo del genere era andato man mano attuandosi a partire dal Ri­ nascimento (ma com'è noto, Morris aveva un'opinione assai ottimistica su ciò che si è verificato prima del Rinasci­ mento... ). E su di un punto almeno, mi sembra, è possibile concor­ dare: sul fatto che il paradigma da me proposto mette in ri­ salto, più di quanto non accada con quelli correnti, il fatto che la ricerca deve essere orientata fondamentalmente sugli effetti che i prodotti del design hanno sul comportamento delle persone che li usano, li vedono, e ne traggono sensazio­ ni. E questo è qualcosa che è - o dovrebbe essere - fornito ai designers ed agli artisti dalla stessa auto-evidenza intro­ spettiva, se ancora rimane loro qualche frammento del per­ duto senso comune. 1 T. S. KUl·IN, The Structure o/ Scientific Revolutions. Chicago. Univ. of Chicago Press, 1962. 2 R. V. L. HARTLEY, Transmission of lnformation. Beli System Techn.,

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8 A. MoLES, Théorie de l'information et perception estltéliqtte. Paris, Flammarion, 1958. 9 M. BENSE, Aesthetica. Baden-Baden, Agis, 1965. 10 Come sviluppo da questo tema, appare anche quello della valu­ tazione estetica del cambiamento, e dell'originalità dell'artista, che sarà poi convertito in essenza delle dottrine di avanguardia nella prima metà del XX secolo. Di qui, il tema dell'originalità è stato sviluppato, sino a costituire in certo senso il nucleo concettuale della nozione di informazione estetica, per gli autori che si ricollegano alla formula­ zione di Birckhoff. Qui abbiamo un'ulteriore convergenza fra gli argo­ menti dell'estetica tradizionale e le nuove formulazioni, basate sul mo­ dello della teoria dell'informazione. 1=. abbastanza paradossale rilevare come un tema nato grazie alla nuova sensibilità storica dell'Illumini­ smo, finisca con l'originare la ricerca di valori a-storici nei fenomeni estetici. In ogni caso, dato che l'argomento di questa esposizione non ha per oggetto centrale l'analisi specifica delle teorie collegate al con­ cetto di informazione estetica, non mi soliermerò su questo partico­ lare punto. 11 CH. MoRRIS, Signs, Language and Behavior. New York, Prentice Hall, 1964. 12 Vale la pena di rilevare, in proposito, l'enorme ' distanza seman­ tica• che separa il termine « codice » usato in questo contesto, dallo stesso termine qual è usato nel contesto originario. Per alcuni Autori che hanno lavorato nel campo della teoria della comunicazione, il con­ cetto di codice è inscindibile da quello di traduzione. Si veda, ad esem­ pio, la definizione di « codice » data da C. Cherry: « Una trasformazione istituzionalizzata, o assieme di regole univoche grazie alle quali i mes­ saggi sono convertiti da una rappresentazione ad un'altra». 1 3 U. Eco, Opera aperta. Milano, Bompiani, 1962. 14 T. LLORENS, Recensione al volume di U. Eco, Opera aperta. In « Suma y Sigue », n. 2 gennaio 1963, pp. 40-45. 15 G. DoRFLES, Simbolo, comunicazione, consumo. Torino, Einaudi, 1962.

16 U. Eco, A Semiotic Approach 10 Semantics. In «Versus», n. 1, 1971. 17 G. H. MEAD, Mi11d, Self a11d Society. Chicago 1934.

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(Traduzione dall'inglese di M. L. Scalvini).




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