Op. cit., 28, ottobre 1973

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Elementi semiotico - progettuali_ d'-ar - chitettura - M. Krampen D_alla semiolo gia della çomunicazione alla logica de gli strumenti - Libr�, rivfste e mostre edizioni " Il centro•


Op.cit. rivista quadrimestrale di selezione della critica d'arte contemporanea

Direttore: Renato De Fusco Redazione e amministrazione: 80123 Napoli, Salita Casale di Posillipo 14 Te!. 690783

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Grafica: Almerico de Angelis

Edizioni e Il centro •


R. DE Fusco­ E. SEPLIARSKYR. V1NOGRAD,

M.

KRAMPEN,

Elementi semiotico-progettuali d'arc11itettura

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Dalla semiologia della com11nica,ione alla logica degli strumenti

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Libri, riviste e mostre

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Alla ,·eda,ione di questo numero hanno collaborato: Costanza Cani­

glia Rispoli, Daniela del Pesco, Cesare de' Seta, Maria Luisa Scalvini.



Elementi semiotico-pro gettuali d'architettura· Qualsiasi edificio completo non è altro, ed altro non potrebbe essere, che il risultato dell'accostamento e composi­ zione di un numero maggiore o minore di elementi. J. N. L. Durand

Oggetto del presente articolo è la ricerca dei sottosegni o «figure» più elementari e più usate nel codice dell'archi­ tettura contemporanea. Perché ci occupiamo dei sottosegni (pianta, facciata, copertura, aperture ecc.) e non dei segni unità tridimensionali cave, grosso modo le camere e gli am­ bienti in cui viviamo)? Perché i segni, composti .di «signifi­ cato» (lo spazio interno) e di «significante» (l'involucro di quello spazio) sono già delle conformazioni individuate, sono già dei messaggi, appartengono alla sfera della parole, men­ tre i sottosegni, mancando di una interna spazialità, sono privi della componente«significato», appartengono alla sfera della langue, sono essi che formano il codice. E poiché si vuol ren­ dere operativa la ricerca semiologica, è proprio al livello di codice, e di quello in uso oggi, che bisogna trovare gli ele­ menti formali e le regole combinatorie del moderno linguag­ gio architettonico. In particolare cerchiamo tutti ( o la mag­ gior parte) dei sottosegni o « figure » che siano pochi di nu­ mero e al tempo stesso dotati della massima combinabllità onde consentire la massima combin�one dei segni.

Ma prima di iniziare la nostra ricerca è necessario ri­ chiamare alcune nozioni semiologiche, già indicate altrove (cfr. R. D. F. Segni, storia e progetto dell'architettura, Laterza, Bari 1973), e definire in quale piano intendiamo svolgere

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la nostra analisi. Parlando delle articolazioni del linguaggio architettonico in riferimento al modello linguistico, in altre occasioni, abbiamo osservato che in architettura vi sono più di due articolazioni, almeno tante quante sono le dimensioni dei fattori costituenti il segno. Così questo, che ha tre dimen­ sioni, lo consideriamo di prima articolazione, le « figure » sot­ tosegniche, come la pianta e le pareti, che hanno due dimen­ sioni, le consideriamo di seconda articolazione, mentre i tratti lineari, che limitano tali « figure » ed hanno una sola dimen­ sione, li definiamo di terza articolazione; di grado zero, per così dire, è l'articolazione del punto in quanto, mentre serve a limitare le linee o tratti lineari sottosegnici, non consente articolazioni ulteriori, così come appunto si verifica con lo zero di una scala metrica. Nel capitolo del libro citato che trattava questo tema, abbiamo osservato che nessuna delle suddette articolazioni è paragonabile alla seconda della lin­ guistica, quella cioè basata sui fonemi, ossia entità acustiche aventi solo valore opposizionale e prive di marca semantica. Per trovare in architettura elementi paragonabili ai fonemi bisogna uscire dalla realtà architettonica, dove tutti i sotto­ segni hanno a loro modo una valenza semantica (una parete neoplastica, ad esempio, una conformazione lineare Art Nou­ veau, un sistema di punti nelle strutture spaziali ecc. hanno tutte un significato, sebbene diverso dalla componente « si­ gnificato» del segno) e pensare al piano del disegno, a quello progettuale. :e. qui che si trovano elementi opposizionali ed asemantici: i tratti lineari discreti e commensurabili verti­ cali, orizzontali, obliqui (non importa con quale inclinazione) e curvilinei (non importa con quale raggio di curvatura), che contentano in pratica di disegnare tutto. Ora, il passaggio dalla realtà architettonica - questo am­ biente in cui stiamo scrivendo - al piano progettuale dove si trovano i tratti suddetti ed il nostro intento, come dice il ti­ tolo dell'articolo, di individuare gli elementi progettuali, ci imporrebbero, a rigor di termini, di spostare tutto il nostro discorso sul piano appunto del progetto, che altrove abbiamo definito protolinguaggio architettonico. Ma ciò non è possibile 6 in questa sede. Anzitutto in tale protolinguaggio, appena si


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combinano i suddetti tratti discreti, si producono delle con­ formazioni aventi una valenza semantica: l'unione di essi dà luogo a «figure» che, grazie ad una convenzione acquisita, denotano piante, sezioni, pareti; l'unione di queste figure in base alle leggi prospettiche ci dà anche percettivamente l'im­ magine della spazialità propria ai segni architettonici; la com­ binazione di quest'ultimi produce la rappresentazione di si­ stemi di segni, ossia di edifici ecc. Certo, si tratta sempre di rappresentazioni e non di reale linguaggio architettonico, ma esse sono pur sempre indicative di significati e valori propri ad un linguaggio. In altre parole, poiché è indubbio che il disegno progettuale è un linguaggio con sue specifiche regole e convenzioni, esso dà luogo ad una specifica semiotica, og­ getto di una particolare ricerca che finora non abbiamo avuto modo di affrontare in maniera soddisfacente. D'altra parte pur riconoscendo tale specificità, il protolinguaggio dell'architettura, ovvero la progettazione, non è un linguaggio completamente autonomo; esso ha le sue proprie norme, ma non può far astrazione dalle proprietà degli oggetti architet­ tonici che intende precostituire : e nasce dall'esperienza reale dell'architettura e dalla fenomenologia di questa rigidamente dipende; peraltro certamente è nata prima la costruzione e poi la sua rappresentazione, anche se successivamente, per motivi di previsione, di programma, di economia ecc. è in­ valso l'uso di prefigurare quanto si andava costruendo. Data questa interdipendenza tra progetto e realtà architettonica e dato soprattutto il fatto che vogliamo cercare di codificare gli elementi derivanti dall'esperienza concreta dell'architettura, nessun progetto essendo possibile senza la codificazione di tali elementi, ci sembra lecito eludere l'obbligo di effettuare la nostra ricerca sul piano puramente protolinguistico e am­ mettere in questa sede per convenzione e per fini meramente . operativi l'equivalenza tra gli elementi reali dell'architettura e la loro rappresentazione. Intanto annotiamo un principio comune tanto nella co­ struzione quanto nella progettazione: ciascuna articolazione del linguaggio architettonico è il limite di quella che la pre8 cede con la quale instaura un rapporto dialettico. Così il


segno architettonico, è un limite dello spazio, di tutti gli spazi possibili; i sottosegni-«figure» sono un limite del se­ gno; i sottosegni-linee costituiscono un limite delle «figure»; i sottosegni-punti sono un limite dei tratti lineari. Ognuna di queste articolazioni non potendosi dare senza quella che la precede (e viceversa) dimostra di avere con essa una rela­ zione dialettica. Donde possiamo dire che l'architettura è li sistema dei linùti dialettici. Dovremmo a questo punto studiare la fenomenologia del punto, delle linee, delle «figu re», che costituiscono tutti sot­ tosegni dell'unità minima dotata di spazio interno, cioè del segno architettonico; tuttavia, grazie alle proprietà sopra enunciate, per economia espositiva, per non sconfinare, dato il carattere teorico del nostro discorso, in definizioni pro­ prie alla geometria, possiamo concentrare l'intero nostro esame sulle «figure» sottosegniche, che inglobano sia le linee che i punti. Il nostro compito si riduce così alla ricerca del mi­ nor numero di «figure» (piante, pareti, coperture ecc.) che consente il maggior grado di combinazione possibile degli spazi. Dal segno all e

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A tal fine partiamo dal segno per individuare le «figu re», ovvero passiamo dalla prima alla seconda articolazione. Ma di che tipo sarà questo segno? Non avevamo detto che es­ sendo già esso un messaggio lo escludevamo dalla nostra in­ dagine che intende, ripetiamo, operare sul codice? D'altra parte, per i principi sopra enunciati secondo i quali ciascuna articolazione limita la precedente e si presenta con essa in rapporto dialettico, come fare a descrivere l'articolazione delle «figure» senza tener conto dell'articolazione del segno? Per non contraddire le nostre premesse e per rispettare i · principi suddetti, assumeremo qui il segno non come una realtà architettonica - l'invaso e l'involucro, ad esempio, dove ci troviamo -, bensì come un simulacro di esso, avente cioè tutte le caratteristiche morfologiche e strutturali di un

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segno reale, ma non coincidente con esso in quanto privo di una significazione reale. In altri termini alla precedente con­ venzione dell'equivalenza tra gli elementi dell'architettura reale e la loro rappresentazione, dobbiamo aggiungerne un'al­ tra, quella per cui il nostro parlare di segni si riferisce ap­ punto ad un simulacro di segno, ad un segno tipico-ideale. nel senso che, pur avendo tutte le altre caratteristiche del segno, è privo della valenza significativa. Per estensione e per omogeneizzare gli elementi sui quali operiamo, diremo che convenzionalmente l'intero nostro discorso - nei limiti didascalici del presente articolo - farà astrazione dalla va­ lenza semantica di tutti gli elementi e dalle articolazioni chiamate in gioco. Certo, è una astrazione notevole per chi crede al valore linguistico e comunicativo dell'architettura, ma operativa­ mente non vediamo altra via per un procedimento che punta proprio alla indiviçluazione dei fattori-base che stanno a monte del momento comunicativo e l'unico forse in grado di codificare tipi morfologici con le relative regole combinatorie e non tipi di messaggi. Sulla scorta di tali premesse e convenzioni, partiamo da questo segno tipico-ideale, immaginandolo peraltro all'inizio formalmente assai complesso (si pensi alle più antigeometri­ che conformazioni dell'avanguardia espressionista o alla in­ formale « casa senza fine» di Kiesler), e successivamente, attraverso una sedie di motivate riduzioni e semplificazioni, cerchiamo di renderlo adatto alla nostra indagine sui sotto­ segni. Procedendo dal maggior grado di libertà possibile del nostro segno fino a giungere a quello più limitato, è necessa­ rio anzitutto passare da uno stadio di informale organicità ad uno di tipo geometrico. Anche in questo le possibilità con­ formative sono moltissime. Se pensiamo ad un poliedro irrego­ lare di « n » facce che oltre ad essere piane possono avere una o più curvature e se esso non va inteso come una con­ formazione piena ma, assai più prossima alla realtà archi­ tettonica, come una strutturazione cava chiamante in causa l'intemità e l'estemità di ogni sua faccia, risulta evidente che 10 il grado di varietà morfologica della suddetta conformazione


è praticamente infinito. E più alto sarà questo grado di li­ bertà, più diminuisce la possibilità di combinare fra loro tali conformazioni; ossia si verifica esattamente l'opposto di quei che cerchiamo. Pertanto per passare dalla descritta confor­ mazione geometrica al segno architettonico, ossia da una sfera dove tutto è possibile ad un'altra dov'è possibile tutto quanto abbia un senso architettonico, è necessario introdurre alcuni vincoli o limitazioni. La « figura » di pianta Tutti i vincoli di cui parleremo dipendono dalla neces­ sità di trasformare lo spazio della geometria in uno spazio penetrato dall'uomo e adattato alle sue varie esigenze, ivi compresa quella di rendere la conformazione dello spazio un atto comunicativo, anche se nel presente articolo, come s'è detto, non ci occuperemo di questo aspetto. In particolare, per tradurre il suddetto multiforme volume geometrico cavo in segno architettonico, nonché introdurre la scala della di­ mensione umana, è necessario anzitutto stabilire che il piano di vita, quello della pianta del segno architettonico dev'es­ sere orizzontale o segmentato con parti orizzontali.

Le motivazioni di questo vincolo sono evidenti: l'ele­ mento più tipico dell'habitat umano, il luogo in cui possono più agevolmente coesistere l'uomo e gli oggetti che usa è un piano di vita orizzontale. E se questo non ci dà ancora la« fi­ gura» della pianta del segno-ambiente, ci dice tuttavia che essa giace comunque su un piano orizzontale; non solo, ma che per combinare, più esattamente, per sovrapporre un segno ad un altro, è necessario che il piano della pianta del se­ condo coincida col piano della copertura del primo (quando parliamo di coincidenza intendiamo dire parallelismo di due facce, così come accade per l'intradosso e l'estradosso di una copertura), anch'esso quindi dovendo essere orizzontale. Non è chi non veda che il nostro originario multiforme volume geometrico ha perduto un grado di libertà e che, inoltre, in­ troducendo quel vincolo abbiamo anche ricavato un principio

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conformativo relativo alla combinabilità di due segni sovrap­ posti; in pratica abbiamo limitato due gradi di libertà. Il eh<! peraltro ci era già noto grazie al principio della reciprocità delle «figure» di due segni contigui: ognuna valendo come « figura» del «significato» del segno cui appartiene e come «figura » del «significante» del segno contiguo e grazie al principio dialettico che ogni elemento architettonico possiede sempre un recto ed un verso. Ma ricordando queste proprietà abbiamo esteso ai piani quanto altrove abbiamo enunciato per le «figure», alla cui forma non siamo ancora giunti se­ condo il nostro procedimento riduttivo di un segno multi­ forme e complesso. A tal fine, ovvero per definire i tipi di « figure » planimetriche più elementari e più usate nel codice dell'architettura moderna, dobbiamo introdurre un altro vin­ colo: l lati del perimetro di pianta non devono formare tra loro angoli acuti. Questa limitazione è meno ovvio della precedente. In realtà esistono segni anchitettonici aventi in pianta angoli inferiori a 9()<>; tuttavia, essi implicano uno spreco di spazio, tant'è vero che assai spesso vengono uti!izzati per disporvi apparecchi speciali, impianti, strutture portanti, ovvero sa• pientemente utilizzati in vario modo (si pensi ad alcune opere di Wright) senza compromettere la reale fruizione degli spazi interni. Inoltre l'angolo acuto di una pianta comporta qual­ ·he difficoltà nel combinare un segno con un altro compla­ nare. Infatti, o il segno che si accosta segue la direzione imposta dal lato «irregolare» (per esempio, l'ipotenusa di un tra­ pezio rettangolare) o, allineandosi con l'altro, il secondo se­ gno presenta necessariamente come complementare dell'an­ golo acuto del primo un angolo ottuso. Difficoltà di tal genere portano di solito a considerare scorretta una pianta avente angoli inferiori a 9Qo. L'aggettivo «scorretto • ci offre qui l'occasione per chiarire il senso dei vincoli o limitazioni di cui parliamo nel presente articolo. Lungi dal pensare ad accademiche norme ed a conforma­ zioni che non si «devono ,. realizzare, vogliamo qui solo in­ dicare alcune forme che «economicamente» risultano preferi12 bili ad altre; cosicché il termine «corretto» va inteso nel


senso di «economico» nella più vasta accezione del termine ( dal principio di Mies per cui «il meno è il più» a quello del mero risparmio, dalla possibilità di quantificare il prodotto architettonico alla pregnanza « estetica» delle forme pure ed elementari) e di più «usato» nel linguaggio dell'architettura moderna. Peraltro, nulla vieta di pensare che le forme più libere e complesse non possano basarsi sulle «figure» più economiche ed elementari. Ritornando al nostro discorso - che si basa, ripetiamo, sul ridurre delle conformazioni polimorfiche con uno scarso grado di combinabilità, attraverso una serie di vincoli, ad al­ cune altre più semplici e quantitativamente limitate aventi la massima capacità combinatoria possibile - ed avendo escluso le «figure» di pianta con angoli acuti, ne deriva l'op­ portunità di scartare le forme triangolari e trapezoidali, ad esempio, e di limitarci alle più elementari della geometria piana. Ma giacché stiamo dando un nome geometrico alle «figure» di pianta, converrà passare in rassegna le principali e più regolari in ordine al numero di linee che ne compon­ gono il perimetro. La «figura» di pianta (come qualunque altra figura sot­ tosegnica, secondo l'assunto che è limitata da linee o, più correttamente, da tratti lineari sottosegnici) può essere data da una sola linea: il cerchio; da due linee: un semicerchio e un diametro (nella loro combinazione più schematica); da tre linee: il triangolo; da quattro: il quadrato, il rettangolo e, così via. Ora, scartato il triangolo per il motivo suddetto, esaminiamo brevemente le caratteristiche dei volumi, dei se­ gni e della combinazione segnica cui queste forme geometri­ che possono dar luogo. Una «figura» di pianta ad una sola linea, il cerchio, può trovarsi in tre volumi regolari: la sfera, il cono e il cilindro (trascuriamo da ora innanzi le forme irregolari sia per eco­ nomia di discorso, sia perché sono raramente combinabili fra loro). Una sfera, anche se cava, non può essere un segno ar­ chitettonico perché manca all'interno di un piano di vita oriz­ zontale; il cono non può essere da solo un segno architetto- 13


nico, perché, come vedremo trattando delle pareti laterali del segno-ambiente, presenta una inclinazione «antieconomica» della sua superficie avvolgente; esso si trova correttamente usato solo nelle coperture di segni a pianta circolare. Pe­ raltro, posto che si voglia, all'interno della sfera e del cono, organizzare piani e pareti atti a renderli architettonicamente fruibili (il che esula in effetti dalla nostra mdagine sulle forme pure, assunte nelle loro specifiche proprietà morfolo­ giche senza ulteriori manipolazioni) si potrà dar luogo a segni isolati, a edifici monosegnici, ma non realizzare la combina­ zione di più segni. Ed abbiamo un'altra occasione per avver­ tire che quando parliamo di combinazione polisegnica ci ri­ feriamo sempre all'associazione di due o più segni uguali. Dei tre solidi suddetti il solo cilindro può tradursi in segno ar­ chitettonico presentando una pianta, orizzontale, la superficie laterale normale alla pianta e la proprietà di combinarsi per sovrapposizione verticale (cfr. i corpi cilindrici usati da K. Tange). Una « figura » di pianta a due linee, nella già menzionata versione più elementare, un semicerchio e un diametro, dà luogo ad un volume che equivale ad un cilindro sezionato longitudinalmente. Esso può assimilarsi ad un segno archi­ tettonico combinabile con altri sovrapposti e con uno affian­ cato lungo il lato piano. Per trovare «figure» di pianta che consentano maggiori accostamenti, dobbiamo ricorrere a figure di quattro lati: il quadrato ed il rettangolo; di cinque lati: il pentagono avente tre angoli retti; di sei lati: l'esagono. E poiché, non solo in pianta alcune di tali figure sono combinabili, bensì anche nella loro estensione volumetrica si può dire che la combi­ nazione di due o più segni al livello di pianta si ottiene quando le loro figure hanno lati coincidenti ed al livello di volume quando le facce di tali segni hanno superfici <">inci­ denti. In linea generale, oltre alle forme geometriche, si possono ricavare altre « figure» di pianta da una superficie planimetrica (si pensi ad un solaio con più cellule abitative) costituita da una pianta le cui linee forman9 tra loro angoli 14 di 45, 60 e 90 gradi.


Le « figure » delle pareti L'esperienza dell'architettura moderna ci fornisce un principio assai utile per la riduzione del numero delle « fi. gure » laterali del segno: le facce interne ( « figure » del « si­ gnificato ») e quelle esterne ( « figure » del « significante ») sono sempre parallele tra loro. Ciò elimina la complessa fe­ nomenologia del sottosegno che stiamo esaminando riscontra­ bile nell'architettura del passato. In essa molto spesso il pe­ rimetro interno della pianta era diverso da quello esterno, per cui, ad esempio, ad una superficie concava all'interno ne corrispondeva un'altra concava all'esterno o, nel caso più frequente nello spessore dei muri si ricavavano nicchie, cap­ pelle ecc. Con l'architettura moderna e la sua tecnologia lo spessore dei muri è praticamente trascurabile, il che associa indissolubilmente la combinabilità delle « figure » di pianta con la combinabilità delle « figure » parietali. Infatti, rr1entre in passato si potevano associare due segni con differenti pian­ te, la differenza essendo assoroita dallo spessore dei muri che acquistavano da una faccia e dall'altra la configurazione voluta, ciò non si verifica nell'attuale linguaggio architetto­ nico. Poiché una moderna parete altro non è che lo sviluppo in alzato di un lato della pianta di un ambiente, per acco­ stare a questo un altro è indispensabile che il lato lungo il quale avviene la sutura sia coincidente nei due segni. Inoltre se le pareti laterali non formano un angolo retto con la pianta, accostando due ambienti-segno ed inclinando in un verso le pareti di un invaso, si detennina una inclina­ zione in senso opposto delle pareti dell'invaso contiguo. Per­ tanto come in pianta abbiamo scartato per motivi econo­ mici gli angoli acuti, così in ahato, sia per l'economia d1 spazio all'interno di un segno, sia per la migliore combina­ zione di questo con altri, vanno scartate quelle pareti for­ manti con la pianta angoli diversi da 90°. Differente è la condizione delle pareti laterali aventi una faccia sull'esterno dell'edificio. Qui, mancando la necessità di combinare i segni con altri, è lecito conformare le facciate col massimo grado di libertà, purché ciò non determini un

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danno allo spazio interno dell'architettura e/o a quello esterno dell'urbanistica. Ma su questi aspetti dei sottosegni laterali con facce esterne agli edifici torneremo più aventi nel de­ scrivere il « modello schematico del sistema segnico riassun­ tivo di tutte le nostre considerazioni ». Un altro aspetto che caratterizza i sottosegni laterali è quello della loro permeabilità con porte e con finestre. A tal proposito possiamo dire che i nostri vincoli non toccano il problema della forma delle aperture sulle facciate. Infatti, grazie alla moderna tecnologia, al fatto che le pareti sono ge­ neralmente portate e non portanti, si possono avere sul­ l'esterno tutte le forme di aperture possibili senza nuocere alla combinabilità dei segni. In questo modo la « figura » di una parte può contenere la « figura » d'una apertura ed es­ sere quasi totalmente indipendenti l'una dall'altra. Ma, per individuare le « figure » più ricorrenti nelle pareti dobbiamo prima esaminare le conformazioni delle coperture. La fenomenologia della copertura

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A differenza di quelli planimetrici e parietali i sottosegni della copertura - per la quale vale tuttavia lo stesso princi­ pio del parallelismo delle sue facce, l'intradosso e l'estrados­ so - presentano una loro propria e più complessa fenomeno­ logia; cerchiamo di individuarla partendo dai seguentii punti: Anzitutto nel suo intradosso ( « figura » del « significato ») la copertura non è utilizzabile come piano di vita, né per porvi oggetti : è totalmente sgombra. In secondo luogo è di forma talvolta diversa da quella piana per motivi funzionali, displuvio delle acque, apertura di lucernari ecc. In terzo luogo essa è soggetta alle leggi statiche più delle altre parti del segno architettonico in quanto è quasi sempre sostenuta da altri elementi, deve coprire ampie luci, poggia spesso su pochi punti ecc.; il che le impone una conformazione niente affatto semplice: a volta, a capriata, con travature reticolari e ancor più complessi sistemi statico-spaziali. Peraltro è comune esperienza che il problema della copertura ha sempre



Poiché qualunque conformazione di copertura è possi­ bile, dobbiamo evidentemente introdurre altri criteri limi­ tativi, anch'essi, come al solito, dettati dal principio dell'eco­ nomia e dall'esperienza dei tipi di copertura più in uso nel linguaggio dell'architettura contemporanea. In base ad essi possiamo dire che risulta ridondante una copertura avente un numero di falde supel'iore a quello dei lati dell'ambiente che copre. Per trovarne altri, data la più ricca gamma con­ formativa di questo sottosegno rispetto agli altri, dobbiamo rintracciarli nel corso del seguente esame. Operando esclusivamente su «sezioni» di segni, esami­ niamo soltanto coperture rappresentabili in sezione con una e due linee che, come vedremo, possono dar luogo a diversi casi. Una copertura di un segno che in sezione si presenta piana - ed è il caso più diffuso nel linguaggio dell'architet­ tura moderna - non comporta in pratica alcun problema es­ sendo l'intradosso di quel piano del tutto simile morfologi­ camente alla «figura» della pianta del segno. Se quel piano di copertura, rappresentabile in sezione ancora con una sola linea, è inclinato (tetto ad una sola falda), questa condizione appena più complessa della precedente fa sì che - posto che il segno abbia pianta quadrata o rettangolare - due«figure» parietali prendono forma trapezoidale e le altre due forme di parallelogramma ad angoli retti, l'una più bassa dell'altra. Se la linea di sezione della copertura è curva (volta a botte) le «figure» parietali del segno saranno rispettivamente due a forma di parallelogramma con angoli retti e due aventi il lato superiore del loro perimetro arcuato. Se sezionando nella direzione normale alla precedente troviamo ancora lo stesso profilo della copertura curvo (abbiamo cioè una cupola), le quattro «figure» parietali del segno - che in questo caso avrà pianta quadrata - saranno tutte uguali ed aventi una forma con tre lati regolari ed il quarto superiore arcuato. Potremmo ancora considerare il caso che nella coper­ tura avente in sezione due linee, queste siano diverse tra loro, ad esempio, una retta ed una curva (profilo che si trova spesso negli sheds), ma esso è in gran parte inglobato già nei cast 18 precedenti. Infatti le pareti che denunziano la sagoma con le


due linee sono analoghe a quelle pentagonali determinate dal tetto a due falde, le altre due sono dei semplici paralle­ logrammi. Bastano quindi questi pochi casi di copertura, che sono evidentemente i più elementari, a farci enunciare un altro principio conformativo: oltre alla copertura piana e a quella a cupola, si verifica ancora l'uguaglianza delle « figure » parie­ tali del segno quando la copertura presenta tante inclina­ zioni o falde quanti sono i lati della pianta. Infatti, come

abbiamo visto, un tetto a due falde rende le quattro pareti dell'ambiente che sormonta uguali due a due, mentre un tetto a quattro falde le rende tutte uguali fra loro; e lo stesso ac­ cade per una copertura a cinque, sei, enne falde che sor­ monta un ambiente avente altrettanti lati. Ma ciò che più conta in queste considerazioni sui tipi più elementari di coperture è il fatto che la presenza di una copertura appena articolata, a partire cioè da due linee in poi, determina nonché la forma delle pareti sottostanti, an­ che la presenza di un numero di « figure» proprie alla strut­ tura stessa della copertura. Queste confermano l'assunto della copertura articolata come un invaso che si sovrappone a quello dell'ambiente, valga per tutti il caso della cupola. E poiché, a differenza dell'architettura del passato dove tra pa­ reti e copertura vi era sempre uno stacco contrassegnato da una trabeazione o almeno da una cornice, attualmente non c'è soluzione di continuità fra pareti e copertura, siamo por­ tati a considerare il doppio invaso suddetto come un unico segno dalla volumetria composita. Così, ad esempio, un am­ biente parallelepipedo regolare coperto da un tetto a due falde, risulta avere un invaso non di sei facce, ma di sette; uno coperto da un tetto a quattro falde non ha sei facce, ma nove. Inoltre, la presenza di « figure» proprie alla copertura ci dice che alcune forme - si pensi al triangolo sia a lati retti che curvi (rispettivamente falda di tetto e spicchio di una cupola) - che avevamo scartato quali «figure» di pianta e di parete, si trovano correttamente usate quali « figure » della copertura. Riassumendo e ricordando che il nostro esame si è ba-

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sato sulle forme più schematiche ed elementari di invasi spa­ ziali, possiamo indicare le «figure» più usate in pianta, nelle pareti e nelle coperture. Tali figure ovviamente non preten­ dono di esaurire tutta la possibile gamma: ciascun lettore ne potrà aggiungere altre purché rispetti la logica da noi indi­ cata; il che, unitamente alla ricerca di forme composite potreb­ be essere, a nostro avviso, un'utile esercitazione didattica. Pertanto, considerate le premesse, i vincoli suggeriti ed il principio della combinabilità, le «figure» planimetriche del segno architettonico possono essere: il quadrato, il rettango­ lo, il pentagono con tre angoli retti, l'esagono. Esse danno luogo a segni planimetricamente combinabili tra loro e quindi a sistemi polisegnici. Nel caso di edifici monosegnici possono correttamente usarsi un numero notevolmente più vasto di forme, purché non aventi angoli minori di 900; tra le forme prese in considerazione anche per altre «figure» possiamo annoverare: il cerchio, la «figura» composta da un semicer­ chio e un diametro, quella costituita da tre lati con il quarto semicircolare, l'altra avente tre lati con il quarto poligonale ecc. Le «figure» parietali del segno architettonico possono essere quadrate e rettangolari quando si tratta di sottosegni combinabili tra loro in senso verticale ed orizzontale; nel caso che dette pareti siano a contatto con la copertura le loro «figure» possono essere, nonché quadrate e rettangolari, an­ che di forma trapezia, pentagonale o di parallelogramma con il lato superiore arcuato; le «figure» laterali di un ambiente­ segno possono avere inoltre forme più libere di quelle suddet­ te quando corrispondono alle facce esterne dell'edificio, ossia quando i segni non devono più combinarsi da quel lato con altri. Le«figure» della copertura quando questa è piana sono le stesse di quelle della pianta del segno; quando la copertura ha un'unica curvatura semicircolare la figura sarà quella di una volta a botte; quando si ha una doppia curvatura rego­ lare, la corrispondente «figura» sarà quella di una cupola; ad un tetto a due falde corrispondono due «figure» rettan­ golari; ad un tetto a tre, quattro, cinque, «n» falde, corri­ sponderanno altrettante«figure» triangolari ecc. Questa mag20 giore quantità di figure, questo più ampio grado di libertà,


nonché derivare dalle caratteristiche proprie alle coperture, è reso possibile dal fatto che il livello della copertura essendo l'ultimo, cioè quello che conchiude un edificio, non presenta problemi di combinabilità segnica, allo stesso modo delle pa­ reti dei segni che corrispondono alla facciate esterne del­ l'edificio. E concludiamo il nostro discorso proprio trasferendo agli edifici, ovvero ad un sistema segnico, quanto abbiamo notato circa le « figure », la loro più economica morfologia, la loro proprietà di rendere combinabili i segni-ambienti. In altre pa­ role, proviamo a descrivere un modello schematico del siste­ ma segnico riassuntivo di tutte le precedenti considerazioni. Questo è pensabile come una grande maglia spaziale il cui modulo può essere un cubo, un prisma a pianta penta­ gonale con tre angoli retti, uno a pianta esagonale, ovvero - com'è il caso più frequente - un parallelepipedo a-pianta rettangolare con il lato maggiore disposto orizzontalmente perché consente in tal modo, a parità di altezza un grado maggiore di libertà nella variazione della superficie di pianta. Tale struttura spaziale è estendibile illimitatamente in al­ tezza e in lunghezza, con qualche limitazione, dovuta alla il­ luminazione e areazione naturale dei moduli-segni-ambienti intermedi, nella dimensione della profondità; ma anche que­ sti limiti possono essere superati con sistemi artificiali. Al­ l'interno di tale struttura gli spazi sono rigidamente colle­ gati, ovvero combinabili con l'unico grado di libertà che con­ sente loro la traslazione di piani orizzontali (in realtà assai modesta perché essi sono portanti ed è inoltre antieconomico superare la distanza utile fra loro) e quella dei piani verti­ cali (variazione più frequente dato che le pareti non sono por­ tanti). All'esterno questa grande maglia spaziale possiede teer ricamente il suo maggiore grado di libertà: a) sulle facciate; b) sulla faccia inferiore del primo solaio potendo l'intero or­ ganismo essere staccato dal suolo; e) in copertura perché lungo queste superfici cade il vincolo della combinabilità det segni-ambienti interni. Le stesse aperture di facciata potreb­ bero avere la più grande varietà di forma sempre in virtù del fatto che i piani verticali non sono portanti. Un organi- 21


smo insomma rigidamente vincolato all'interno e, in teoria, totalmente libero sulle sue superfici esterne. Tuttavia, se avviciniamo questo schematico modello, ai non dissimili esempi della tipologia edilizia oggi più in uso, questa libertà di fatto non viene attuata. Trattandosi ap­ punto di una articolazione « superficiale », giustamente il co­ dice dell'architettura moderna impone che lo spazio esterno dell'architettura, il « significante » dell'intero sistema rispec­ chi quello dell'interno-« significato ». Per avere un'idea del divario tra queste due componenti del sistema segnico, si pensi ad alcuni edifici della scuola di Chicago, nei quali alla interna struttura metallica ( conformatrice quindi di moduli­ segni spaziali analoghi a quelli descritti), corrispondeva un parametro esterno articolato con bow-windows poligonali e curvilinei, costruito in pietra e recante persino delle aper­ ture ad arco. Inoltre fattori vincolanti la potenziale varietà degli esterni sono l'industrializzazione dell'edilizia, la prefab­ bricazione degli elementi più ricorrenti nelle facciate, il loro sempre più perfezionato meccanismo, e non ultimo, il gusto per la iterazione, che inducono ad adottare inevitabilmente soluzioni di prospetti tipo curtain-wall. Anche per le coper­ ture, visto che la tecnica moderna rende inutile ogni tipo di copertura diverso da quello piano, ovvero una superficie uti­ lizzabile ancora come spazio praticabile, si rinunzia a quel grado di varietà conformativa che il coronamento d'un edifi­ cio potenzialmente possiede. Insomma il nostro schematico modello di sistema segnico si identifica, al limite, con la ridondanza meccanicistica di un prototipo realizzato dal Ra­ zionalismo degli anni '30 (la casa lamelliforme di Gropius), del quale notoriamente, per via di successivi impoverimenti « economici », ha perduto la carica innovativa e tutte le con­ notazioni riformatrici. Questo genere d'architettura è da qualche tempo in crisi nell'ambito della ricerca e della cultura architettonica, ma per la sua diffusione internazionale, per gli indubbi vantaggi ch'esso comporta, per il suo rispecchiare le tendenze in atto e soprattutto per essere il prodotto meglio rispondente alle

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possibilità della moderna tecnologia è quello più indicativo del codice dell'architettura contemporanea. Riconoscere ciò non vuol dire accettare passivamente la tipologia e la morfologia dell'edilizia oggi più usata: ogni norma comporta dialetticamente la sua deroga, finché il ge­ nerale codice non si trasformerà gradualmente in un altro affatto diverso. Ma pur opponendoci alla banausia dell'archi­ tettura attualmente più diffusa, non vediamo ancora ragione­ voli alternative ad essa. Certo, la storia dell'architettura con­ temporanea è piena di forme « libere », di proposte cosid­ dette utopiche, di avventure neo-tecnologiche ecc., ovvero di manifestazioni che intendono smentire quel codice, col quale evidentemente è possibile solo confezionare messaggi ridon­ danti e in definitiva privi di significato. Tuttavia le suddette manifestazioni, contestando totalmente tale codice, non si pon­ gono a loro volta come messaggi in quanto non si rifanno ad alcuna lingua o vagheggiano lingue eclettiche ed anacronisti­ che; esse giocano lo stesso ruolo conservatore del linguaggio contro il quale si muovono, anzi lo rafforzano: sono troppo individualistiche e radicali per poter essere realizzate e quan­ tificate nell'odierna civiltà di massa, di fronte alla quale si pongono come eversione « estetica », mentre ancora prevale la « scacchiera» e il curtain wall. Dal punto di vista comuni­ cativo (ma lo stesso vale anche per quello sociologico) un edi­ ficio-messaggio è tale quando, com'è noto, esiste un equilibrio tra grado di ridondanza e grado d'innovazione; mancando tale equilibrio si cade nel totalmente noto o nel totalmente inedito, che è altrettanto incomunicativo perché manca di ancoraggi a qualunque parametro referenziale. Pertanto è nostra convin• zione che, pur riconoscendo l'utile funzione dell'avanguardia e dello sperimentalismo, la nuova architettura debba nascere dalla ricerca motivata della dialettica norma-deroga resa pos­ sibile dalla conoscenza del codice in atto. Ecco perché rite­ niamo ancora utile, anzi prioritario rispetto a molte altre ri­ cerche necessarie, studiare gli elementi di un codice, di una lingua architettonica, nonostante che questa abbia già fatto il suo tempo. R. DE FUSCO, E. SEPLIARSKY, R. VINOGRAD

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Dalla semiologia della comu nicazione alla logica deg li strumenti MARTIN KRAMPEN

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Nel campo della semiologia (o della semiotica) architet­ tonica e urbanistica si incontrano attualmente immense dif­ ficoltà, che assumono anzitutto l'aspetto di confusioni termi­ nologiche, e di mancanza di operazionalità dei concetti. Com'è noto, il termine semiotica è tratto dalla filosofia (logica ed epistemologica), ed è legato al nome di Ch. S. Peirce. La ca­ renza di operazionalità del termine segno in Peirce (« qual­ siasi cosa può essere definita come un segno »), la sua clas­ sificazione dei segni e le combinazioni delle classi relative, ci autorizzano a supporre che, nonostante la sua individua­ zione di una classe di segni detti « iconici », molto difficil­ mente Peirce abbia pensato a qualcosa di diverso da una se­ miotica concettuale e verbale. E appunto in ciò deve ri­ conoscersi la ragione del fatto che gli studiosi che si ri­ fanno alla sua teoria si occupano soprattutto di testi (nel caso della città, dotata di una crosta verbale, delle insegne pubblicitarie: e basti pensare a Bense), o del « potere della parola» (Georg Klaus). La nozione di semiotica, assieme ad altre, è stata utiliz• zata dalla psico-linguistica americana. In un certo senso, Mor• ris stesso aveva scelto questa direzione, essendo la sua se­ miotica profondamente influenzata dalla psicologia comporta­ mentistica. La difficoltà principale della semiotica di Morris sta nel fatto che i suoi numerosi neologismi terminologici


non riescono a dimostrare molto di più di ciò che già la scienza tradizionale della letteratura aveva dimostrato, e pe­ raltro con l'aiuto di un apparato concettuale assai più sem­ plice. Nonostante la sua nozione di « iconicità», ereditata da Peirce, la teoria di Morris permette unicamente un'analogia tra strutture letterarie e non-letterarie; il che ad esempio lo conduce a trarre delle conclusioni errate riguardo alla pit­ tura astratta. Di contro, la teoria psicosemiotica di Osgood si rivela ben più aperta ed operazionale (bisogna precisare che ci se ne è serviti solo in rapporto alla significazione conno­ tativa della sfera verbale e del campo architettonico e urbani­ stico, con il cosiddetto differenziale semantico). Assai prima di tutti i tentativi sopra menzionati, riguar­ danti la semiotica filosofica e la psicolinguistica, De Saus­ sure esigeva, partendo dalla linguistica tradizionale, uno stu­ dio generale dei segni (oltrepassante la linguistica), che chia­ mò « semiologia ». Ma è proprio nella linguistica che si annida il pericolo di postulare, in base a false analogie, l'esistenza di elementi e strutture paralleli tra sfera verbale e sfera non­ verbale. Molti saggi in campo architettonico e urbanistico (ad esempio, alcuni tentativi di Roland Barthes) soffrono di tale errore. Viceversa, punti di partenza interessanti si trovano nel lavoro di Eric Buyssens, e nella recente « logica degli stru­ menti » di Luis J. Prieto, che definisce i segni linguistici (uti­ lizzando il punto di partenza linguistico di De Saussure) come degli strumenti di comunicazione, appartenenti ad una classe di strumenti più estesa. Il lavoro necessario per costituire una semiologia urbanistica non sta quindi tanto nella ' trascrizione' di una qualsiasi terminologia semiotica o linguistica (come se la solu­ zione di un problema potesse consistere nella creazione di un vocabolario ad hoc!), quanto piuttosto in un vaglio critico dei metodi linguistici (e di altri), secondo criteri utili a definire in qual modo questi metodi possano contribuire ad uno scaglionamento e· ad una strutturazione delle masse co­ struite reali che formano il tessuto urbano. Una volta che questi metodi, che consentono di classificare e cogliere gli elementi urbani, siano stati trovati, sarà forse possibile ap-

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plicare a questi stessi elementi degli strumenti statistici, come ad esempio quelli derivati dalla teoria dell'informazione. Nei termini sem-iologia e sem-iotica, è nascosta la parola greca « sema », che significa « segno »; la semiotica e la se­ miologia consistono, in larga parte, di definizioni e classifica­ zioni di segni. Pertanto, tenuto conto delle numerose defini­ zioni e classificazioni in campo semiologico, è estremamente importante non perdere di vista la funzione essenziale dei segni, ossia la comunicazione. Per trovare i punti di partenza per una semiologia urbanistica, è dunque indispensabile ve­ rificare l'esistenza, nell'ambito urbano, di fatti comunicativi. Per rispondere a questo problema, annetteremo una gran­ de importanza alla classificazione semiologica sviluppata a partire dalla linguistica. Da questo punto di vista, e in que­ sta fase della nostra ricerca, un ampliamento in termini psico­ linguistici del punto di vista linguistico non è ancora essen­ ziale, anche se proprio questo allargamento potrà conferire vitalità alla classificazione semiologica: la psico-semiologia potrebbe insegnarci in qual modo si apprendono certe rea­ zioni a certe classi di segni, e in qual modo ci si abitua a effettuare certe operazioni con certe classi di segni. Possiamo distinguere tre punti di partenza per una se­ miologia urbanistica. Fenomeni di comunicazione si verificano in tre momenti fondamentali: anzitutto, durante la fase di progettazione (attraverso disegni, fotomontaggi, plastici e foto di plastici: qui il corpus dei documenti da esaminare e clas­ sificare consisterebbe soprattutto di elaborati grafici); vi sono poi fatti comunicativi che hanno per oggetto l'urbanistica, nel qual caso, possiamo richiamarci alla distinzione di Roland Barthes tra « abbigliamento scritto» e « abbigliamento foto­ grafato », per sottolineare la presenza di persone diverse (giornalisti, critici, professori, studenti), che parlano e scri­ vono di architettura e di urbanistica, illustrando i propri ar­ ticoli con esempi normativi, i quali hanno funzione analoga al modello normativo fotografato nella rivista di moda. In questo caso, il corpus da indagare sarebbe costituito soprat26 tutto da elementi linguistici, che permetterebbero di costi-


tuire una semiologia dell'architettura scritta. Infine, vi è il fatto che lo stesso tessuto urbano funziona come fatto comu­ nicativo: esso costituisce una sorta di messaggio, in grado di influenzare sia gli specialisti che il pubblico generico. Dun­ que, ai fini di una semiologia urbanistica, sarebbe lo stesso tessuto a costituire il corpus dei documenti da esaminare e classificare. Resta ancora da chiarire se la relativa documen­ tazione grafica e fotografica porterebbe ad una autentica se­ miologia della « massa costruita ». Riteniamo opportuno, a questo punto, un chiarimento circa la possibilità di una semiologia architettonica fondata su rappresentazioni grafiche o su fotografie. La distinzione fondamentale sembra essere quella tra segni (documenti, di­ segni) e oggetti materiali (edifici), questi ultimi esistenti pri­ ma e indipendentemente da qualsiasi fatto percettivo o di rappresentazione 1• La relazione fra segno ed oggetto, o rela­ zione sigmatica, diviene particolarmente importante allorché si esamina la differenza fra il progetto (disegnato) e ciò che effettivamente è stato costruito; differenza che in nessun caso potrebbe essere trascurata nell'ambito di una semiologia prc:r gettuale. Diviene ora possibile distinguere quattro tipi fondamentali di relazioni semiotiche: a) relazioni sintattiche (fra i segni di un determinato codice); b) relazioni sigmatiche (fra i segni e gli oggetti materiali relativi); c) relazioni semantiche (fra i segni e le immagini mentali degli oggetti); d) relazioni pragmatiche (fra i segni e gli uomini). Se applichiamo queste relazioni ai segni grafici (disegni) dell'architettura, possiamo dire che le relazioni sintattiche vigono fra diversi segni grafici ( disegni), utilizzati in architettura (un esempio di relazioni sintattiche potrebbe essere costituito dalle norme DIN); le relazioni sigmatiche vigono fra gli edifici (antecedenti all'! concezioni ed ai disegni) esistenti in un certo intorno am­ bientale, e i segni grafici (disegni) utilizzati nel momento della concezione architettonica; le relazioni semantiche sus­ sistono tra la concezione di un edificio (operata sulla base degli edifici antecedenti a tale concezione) e la concretizza­ zione della coricezione stessa in un disegno; infine le rela-

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zioni pragmatiche vigono fra i segni grafici (disegni), e gli uomini che li utilizzano, producono ed interpretano: ad esem­ pio, le relazioni fra il disegno e la capacità, per un fruitore, di « leggerlo ». Se affrontiamo ora il problema dei rapporti tra signifi­ cazione e linguaggio, vediamo che in fin dei conti lo scopo es­ senziale di una semiologia è la descrizione del meccanismo grazie al quale è possibile comunicare una certa «significa­ zione», ossia, in un certo senso, del processo grazie al quale delle idee vengono trasmesse per mezzo di veicoli materiali. Tralasciando per questa fase della ricerca l'aproccio alla si­ gnificazione in termini psico-linguistici nel senso di Osgood 2, e con ampie riserve sul punto di partenza fenomenologico di Greimas 3, riprenderemo tuttavia di questo autore il concetto di «localizzazione della significazione nella percezione». Pre­ cisiamo che è impossibile fare a meno di un vocabolario se­ miologico, pur se ridotto. Diciamo così che un «significante» è ciò che rende possibile il costituirsi della significazione al livello della percezione; esso si colloca ' all'esterno ' della per­ cezione. Potremmo distinguere dei significanti visivi, sonori, e anche tattili (si pensi alla scrittura Braille). Un significato . si manifesta grazie alla presenza di un significante. Signifi­ cato e significazione sono completamente indipendenti dalla natura (visuale, tattile, sonora, etc.) del significante. Lo stesso Greimas ha sottolineato come non sia assolutamente il caso di parlare di significazione architettonica, pittorica, o musicale ad esempio, perché in effetti si tratta solo di significazioni espresse tramite l'architettura, la pittura, la musica, etc. Nonostante l'indipendenza del significato rispetto alla na­ tura del significante, questi due termini si correlano in ma­ niera dialettica in una 'entità di significazione ': come non vi è significante senza significato, così non vi è significato senza significante. Ogni entità di significazione (ossia, ad esempio, un pro­ dotto architettonico, pittorico, musicale) situata al livello della percezione, può essere tradotta in una lingua naturale (italiano, francese, inglese, tedesco, etc.). Analogamente, una lingua naturale percepita può essere tradotta in un'altra lin28


gua naturale: ciò dimostra che esiste uno statuto particolare, proprio deJla lingua naturale. Così, una lingua naturale perce­ pita può essere trasposta, in quanto 'entità' significativa, in una modalità sensibile completamente diversa: un film, ad esempio, può essere la trasposizione di una ' entità ' di signi­ ficazione linguistica in un ordine visuale preciso. Pertanto il significato (e dunque la significazione) di una lingua naturale può facilmente realizzarsi tramite parecchi significanti. (Ad esempio, per iscritto, e oralmente). Infine, qualsiasi lingua naturale può essere tradotta in una qualsiasi altra lingua: le lingue naturali sono dunque, allo stesso tempo, punto di partenza e punto di arrivo per trasposizioni fra ordini di­ versi. Un secondo aspetto fondamentale dei rapporti fra signi­ ficazione e linguaggio è costituito dai metalinguaggi . si dà meta-linguaggio ogni qualvolta il discorso ha per oggetto una entità di significazione. Questa regola è valida sia che si tratti dell'entità di significazione di una pittura che di un'opera architettonica o di un testo. Dunque, se si vuole costruire una semiologia urbanistica sulla base di un corpus di testi, di disegni o di edifici, fondati su fatti percettivi, non si può fare a meno di un metalinguaggio. Quest'ultimo potrebbe sia essere una lingua naturale (l'italiana, ad esempio), purché sufficientemente ' formalizzata ', sia, al limite opposto, un sistema di segni astratti. A sua volta, questo metalinguaggio dovrebbe essere esaminato da un meta-metalinguaggio, per ciò che concerne la sua coerenza e' scientificità'. Infine, i fatti condizionanti la validità e la verità del meta-metalinguaggio verrebbero formulati al livello di un linguaggio epistemologico. Dunque, la semiologia è un metalinguaggio formulato se­ condo i criteri di un meta-metalinguaggio, sulla base di una epistemologia; di conseguenza, a livello della percezione non esiste alcuna « lingua urbanistica o architettonica »; a tale li­ vello esistono soltanto disegni, plastici, edifici, ovvero testi re­ datti in una lingua naturale. Quando si esaminano dei testi ur­ banistici secondo un approccio semiologico, si è già alle prese con problemi meta-linguistici la cui coerenza scientifica e si­ gnificativa deve essere esaminata per quanto concerne la sua

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validità rispetto alla massa delle costruzioni e degli edifici esi­ stenti nell'intorno ambientale, e preesistenti ai discorsi che su di essi è possibile tenere. Com'è evidente, non è assolutamente possibile evitare di studiare la linguistica in relazione con gli altri dati materiali dell'urbanistica; e ciò soprattutto allorché si considera la semiologia non già come un obiettivo assoluto, ma piuttosto rispetto alla sua utilizzabilità pratica. Anche se ciò può sco­ raggiare non pochi operatori in campo architettonico e urba­ nistico... Compito della linguistica è analizzare la lingua naturale quale essa si presenta al livello percettivo; la terminologia del metalinguaggio linguistico, assai bene sviluppata, ha pro­ vocato la creazione di certi altri metalinguaggi, analoghi a quelli adottati in campo linguistico, che hanno per oggetto al­ tre entità di significazione (non linguistiche) collocantisi al livello della percezione. Tali analogie, troppo facili e man­ canti di rigore logico, hanno determinato l'idea che esistano un linguaggio dell'arte, un linguaggio dell'architettura, un linguaggio della moda, un linguaggio della cultura; è in que­ sto senso poco rigoroso che il termine 'linguaggio ' viene uti­ lizzato correntemente. Questa critica naturalmente non significa che la lingui­ stica e la semiologia (una teoria cioè, più generale e che oltre­ passi il quadro dei segni linguistici) non abbiano nulla in co­ mune; ma per il momento, si tratta soprattutto di accentuare le particolarità dei segni linguistici, per potere eventualmente trovare ciò che essi hanno in comune con altri segni. Senza alcuna pretesa di fornire un inventario completo delle pecu­ liarità dei segni linguistici, ricordiamo qui in particolare la doppia articolazione, in fonemi e monemi (morfemi secondo la scuola americana), messa in luce da Martinet 4 soprattut­ to; la linearità, l'intenzione di comunicare. Sono noti i tentativi di riscontrare in altri sistemi se­ miotici, in particolare in quello architettonico, degli equiva· lenti della doppia articolazione linguistica (o più in generale, un'articolazione di grado n); quanto alla linearità, Mounin fra gli altri ha cercato di riscontrarla in linguaggi non ver30


balì 5; ma ciò che qui soprattutto interessa, sono le ricerche inerenti il terzo aspetto, quello della ' intenzione di comuni­ care '. Il fatto che un interlocutore parli (e non importa che magari egli si rivolga in cinese ad una persona che non è as·• solutamente in grado di comprendere questa lingua) costitui­ sce per il ricevente un'indicazione certa del fatto che l'emit­ tente ha intenzione di comunicargli qualcosa. Prieto definisce ciò come « indicazione notificativa » 6• Inoltre, il fatto stesso che l'interlocutore parli, indica la sua volontà di comunicare un messaggio da lui accettato come valido, ossia proveniente dal suo repertorio (che non è il medesimo del ricevente); ecco un'indicazione significativa. Infine, la comunicazione si svolge nell'ambito di circostanze che riducono nel ricettore il grado di incertezza quanto alla natura del messaggio emesso dal suo interlocutore. Il ruolo che queste indicazioni circo­ stanziali giuocano nel campo della comunicazione è spesso trascurato o dimenticato; Prieto lo sintetizza in questi ter­ mini: « Il ricevente di un atto semico si rende conto del pro­ posito dell'emittente di trasmettergli un dato messaggio, e identifica questo messaggio grazie a delle indicazioni che gli vengono fornite sia tramite il segnale, sia dalle circostanze che ne accompagnano la produzione. Il segnale anzitutto, per il fatto stesso che viene prodotto, indica al ricevente che l'emittente si propone di trasmettergli un messaggio. È an­ cora il segnale a indicare al ricevente che il messaggio che l'emittente si propone di trasmettergli è uno cli quelli che esso segnale ammette. Le circostanze, favorendo più o meno uno dei messaggi ammessi -dal segnale, indicano infine quale, di questi messaggi, l'emittente si propone di trasmettere» 7• Ad esempio, non vi è alcun dubbio che, dietro un segnale di circolazione, si nasconda l'intenzione della polizia stradale di comunicare qualcosa agli automobilisti. Si interpreta facil­ mente l'intenzione della' crosta verbale' dell'architettura: ré­ clames, insegne di negozi, manifestano ancora una volontà di comunicare qualcosa. Ma è lecito invece interrogarsi sul­ l'intenzione dell'architettura di comunicare una qualsiasi cosa, allorché si considerano certi prodotti edilizi; e in ogni caso, è assolutamente necessario poter provare in campo archi-

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tettonico, e ancor di più in campo urbanistico, se o che una comunicazione era prevista. Il risultato di queste considerazioni linguistiche, per ciò che concerne la loro utilità o la loro applicazione al campo urbano, non è particolarmente incoraggiante. I metodi lingui­ stici, in particolare quelli di Greimas 8, che propongono delle concezioni legate ad una « semantica strutturale», restano applicabili, per il momento, solo ali'« architettura scritta»: anche se si tratta di u n blocco temporaneo, sta di fatto che l'applicazione del metodo di Greimas all'analisi semantica strutturale dei contenuti di libri e riviste di architettura, e dei contenuti di discussioni verbali su temi urbanistici ed ar­ chitettonici, costituisce anch'essa, allo stato attuale, un campo di ricerca ancora vergine. Alcuni punti di attacco, assolutamente non-sistematici, possono ritrovarsi in lavori come Das Gesellschaftsbild bei Stadtplanern, di Heide Bemdt 9, e Schliisselbegriffe der Stadt­ baukunst und Architektur, di Holschneider 10• Quest'ultimo lavoro ha, come sottotitolo, « un'analisi di significazione» e si tratta quanto meno di uno spunto interessante per ciò che riguarda il metodo (impiego del differenziale semantico, ana­ lisi dei fattori, etc.). Ma il lavoro più avanzato in questo campo è stato fornito recentemente da Françoise Choa y 11 nella sua brillante analisi dei testi « utopici» da Moore a Le Corbusier e del filone « semiogenico» da Alberti alla manua� Jistica del Novecento. Talune concezioni metodologiche della linguistica possono probabilmente essere utilizzate nell'analisi semiologica del disegno progettuale e di rilievo della massa costruita (come ad esempio la nozione di opposizione, e il test di commutazione); ma occorre riconoscere che l'inventa­ rio dei metodi linguistici trasponibili in una semiologia archi­ tettonica resta ancora da fare.

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E. ben noto il brano del Cottrs in cui De Saussure delinea l'ipotesi di una semiologia come « scienza che studia la vita dei segni nel quadro della vita sociale». Per poter passare dalla sfera linguistica a quella semiologica nel senso indicato da De Saussure, è necessario ' sospendere' due criteri distin-


tivi della linguistica: quello della doppia articolazione e quello della linearità. Denominatore comune della sfera semiologica delineata da De Saussure sarebbe dunque l'' intenzione di co­ municare '; è lecito dunque guardare a tale semiologia come ad una ' semiologia della comunicazione'. Poiché è dubbia la possibilità di dimostrare la volontà, da parte dell'autore di un edificio, di comunicare, è lecito interrogarsi sull'apparte­ nenza dell'urbanistica e dell'architettura ad una semiologia della comunicazione, seguendo l'idea saussuriana; viceversa, sarebbe certamente possibile dimostrare l'appartenenza, ad una tale semiologia, dei processi di comunicazione di idee architettoniche (tramite disegni, schizzi, fotografie di plastici e forse tramite gli stessi plastici). Pur rifacendosi alle intenzioni di De Saussure, Prieto ha proposto una semiologia differenziata secondo il modo di ar­ ticolazione dei codici; e già il solo fatto che una tale class,i­ ficazione sia possibile, prova che esiste una semiologia della comunicazione che oltrepassa la linguistica. In linea teorica, la semiologia della comunicazione dovrebbe presentare le se­ guenti possibili variazioni ed articolazioni: - codici a doppia articolazione (soprattutto in lingui­ stica) 12; - codici che hanno solo la prima articolazione, che prevedono cioè segnali formanti un'intera unità di significa­ zione, non scomponibile in elementi differenziali 13; - codici che hanno solo la seconda articolazione, ope­ ranti -solo per elementi di differenziazione formale 14; - codici con articolazione mobile, ossia nei quali l'arti­ colazione può ' saltare ' da un livello ad un altro 15; - codici senza articolazione 16• Abbiamo, qui sopra, esaminato il passaggio dalla lingui­ stica alla semiologia, nella prospettiva saussuriana, conside­ rando la sospensione del criterio della doppia articolazione. Possiamo ora allargare la nostra analisi, tenendo conto anche del criterio della linearità, rifacendoci alla posizione di Eric Buyssens 17, il quale propone di suddividere i metodi di segnalizzazione in tre coppie di classi:

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- metodi di segnalizzazione sistematica, o a-sistemati­ ca 1a; - metodi di segnalizzazione con rapporto intrinseco, o estrinseco, tra significazione e forma del segnale 19; - metodi di segnalizzazione aventi un rapporto diretto, o indiretto (rapporto sostitutivo), con la significazione e i segnali 20• In base al numero delle combinazioni fra le tre coppie sopra indicate, si individuano otto tipi di metodi teorica­ mente possibili 21; beninteso, sarebbe piuttosto difficile tro­ vare esempi per tutti questi otto tipi. Il criterio distintivo della semiologia della comunicazione sembra dupque essere quello della presenza di un sistema di segnali che serve a realizzare delle intenzioni di comunicazio­ ne: i segni sono dunque degli strumenti che servono a tra­ smettere dei messaggi. Il nostro interesse, come è evidente, va soprattutto ai metodi di segnalizzazione spaziale. Mounin è stato il primo a mettere in evidenza la diffe­ renza fra sistemi di significazione spaziali e lineari. Mentre per i sistemi lineari la lettura procede irreversibilmente lungo un asse x (o y, come avviene ad esempio per il giapponese o il cinese), la lettura dei sistemi spaziali, viceversa, si colloca nell'ambito di un sistema di assi cartesiani x e y. I sistemi di segnalizzazione spaziali possono essere codificati stretta­ mente; le carte geografiche consistono unicamente di ele­ menti codificati, e lo stesso vale per i catasti urbani, i trac­ ciati architettonici, i prospetti, le sezioni, le assonometrie, le prospettive, le piante, le istruzioni di montaggio, i diagrammi, gli organigrammi, i sociogrammi, etc. Nell'ambito del disegno architettonico sussistono una serie di convenzioni grafiche (ad esempio, le norme DIN). A questo livello si colloca la maggior parte di ciò che siamo soliti, in maniera alquanto approssimativa, definire come semiologia dell'architettura; in realtà, si tratta piuttosto di una semiologia grafica, quale l'ha cominciata a costruire Jacques Bertin in Sémiologie gra­ phique 22.

All'inizio, abbiamo detto che un momento particolare, e 34 importante, della comunicazione in campo architettonico e


urbanistico, si verificava durante la fase di progettazione. Pos­ siamo ora definire chiaramente lo status semiologico di tale comunicazione: si tratta di un campo grafico, proprio all'ar­ chitettura, nel quale vigono dei metodi (spaziali) di segnaliz­ zazione, sia sistematici che a-sistematici. Fintanto che il cor­ pus dei materiali da analizzare consiste di disegni architet­ tonici, schizzi e fotografie, non si tratta di una semiologia dell'architettura, ma piuttosto di una semiologia della grafica architettonica che fa parte di una semiologia generale della grafica. Vedremo ora come, per una semiologia dell'architet­ tura in senso proprio, sia necessario proseguire con la so­ spensione dei criteri distintivi della sfera linguistica, riesami­ nando l'aspetto della intenzione di comunicare, dopo aver rinunciato prima alla doppia articolazione e poi alla linearità. Se infatti vogliamo tenere ferma la nostra ipotesi eh.! un'opera architettonica e una città, per il fatto stesso di eser­ citare un'influenza sull'uomo, comunicano, dobbiamo arrivare a concludere che la comunicazione del tessuto costruito di una città è probabilmente una comunicazione senza inten­ zione. Le nuvole non significano che certamente pioverà, ma sono ciò nonostante degli indici, dei segni indicativi della pioggia: dunque, esiste una lettura di significazioni non inten­ zionali, una comunicazione senza intenzione. Una tale lettura si esplica grazie a dei segnali indicativi che inizialmente sono legati in maniera causale agli elementi di significazione (si­ gnificanti), così come ad esempio esiste una relazione causale tra le nuvole e la pioggia. Fra comunicazione intenzionale e comunicazione non intenzionale esistono degli indubbi pas­ saggi. Anche l'interlocutore che utilizza un linguaggio a me ignoto annuncia la sua intenzione di parlarmi grazie ad un'in­ dicazione notificativa, ossia il fatto stesso che parla. Eviden­ temente, ciò che egli vuole comunicarmi mi rimane ignoto fintanto che io non abbia appreso la sua lingua. Peraltro, esi­ stono anche messaggi che vengono emessi nel mondo senza che i loro emittenti abbiano individuato uno specifico rice­ vente; sono quelli che Norbert Wiener 2J ha chiamato mes­ saggi del tipo « to whom it may concem» ( « a chiunque possa interessare»). È possibile che, davanti ad un messaggio archi-

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tettonico, noi ci si trovi come davanti ad un messaggio in scrittura cinese. Sappiamo bene che qualcosa dovrebbe esserci comunicato, ma cosa? In. termini metodologici, per poter considerare l'oggetto costruito come un messaggio, è estre­ mamente importante sapere dall'emittente (l'architetto) se egli avesse intenzione di comunicare, e in caso affermativo quale fosse il contenuto del messaggio: è probabile che tal� intenzione sia presente in alcuni. casi, e assente in altri. Co­ munque, anche se l'intenzione di comunicare c'era, l'archi­ tetto non aveva forse i mezzi per articolarla.

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Si conferma dunque come, per giungere ad una semiolo­ gia dell'architettura e dell'urbanistica, sia necessario sospen­ dere l'ultimo criterio che, secondo De Saussure, collega la linguistica alla semiologia. Possiamo allora raggruppare tutti i segnali nella classe più ampia degli strumenti. Parole, segnali, martelli, pinze, case, manipolazioni e comportamenti sono tutti strumenti che hanno una funzione ed un'utilità precise: i segnali servono alla comunicazione, le case alla resi­ denza, etc. Dunque la semiologia rientra nella logica degli strumenti In questa direzione, già negli anni '30 Mukarovsky 24 e più recentemente Prieto 25 hanno dato un contributo decisivo alla costituzione di una semiologia architettonica e urbani­ stica. Vediamone le tappe essenziali. Ogni strumento è le­ gato ad una classe (astratta): quella delle operazioni che lo strumento stesso rende possibili; questa classe di operazioni definisce l'utilità dello strumento in questione. Un'operazione concreta può essere effettuata con l'aiuto di strumenti diver­ si; essa può far parte di parecchie «utilità» (classi astratte di operazioni possibili); uno strumento può far parte di più che una «utilità», ossia appunto di alcune classi di opera­ zioni possibili. Qualora per eseguire un'operazione concreta ci si possa servire di strumenti diversi, la scelta di un dato strumento implica che colui che opera la selezione sia in grado di im­ maginare il modo di eseguire l'operazione prevista. La scelta degli strumenti diviene dunque indice di una idea di esecu-


zione, ossia del concetto cli esecuzione di colui che agisce. Analogamente, poiché per eseguire (nella società) le stesse operazioni concrete sarebbe possibile adottare comportamen­ ti diversi, la scelta di certi comportamenti indica (in colui che si comporta), la presenza di certe idee riguardo al modo di eseguire una determinata operazione; pertanto il compor­ tamento osservabile diviene l'indice della concezione di colui che agisce. Una qualsiasi operazione x, eseguibile con stru­ menti diversi, implica dunque, a seconda dello strumento con cui viene eseguita, una corrispondente idea di esecuzione. Ma non è questo l'unico aspetto sotto il quale possiamo consi­ derare la questione. Infatti, le operazioni possono essere con­ siderate anche in relazione agli obiettivi che con esse ci si propone di raggiungere. Di conseguenza, una singola opera­ zione concreta fa parte cli due generi di concezioni differenti: la prima in relazione allo strumento scelto per eseguirla; la seconda in relazione all'obbiettivo che attraverso di essa ci si propone di raggiungere; le concezioni inerenti all'obbiettivo sono quelle che Prieto definisce « ideologiche ». Abbiamo visto che la scelta degli strumenti, dei segnali e dei comportamenti può diventare l'indice di una certa con­ cezione dell'operazione. Se tale scelta di strumenti, segnali o comportamenti è fatta intenzionalmente per fornire il segnale di una data concezione, allora, secondo Prieto, siamo in pre­ senza di « arte ». Una scelta intenzionale di strumenti, fatta per comunicare attraverso questa stessa scelta una determi­ nata concezione di esecuzione dell'op erazione, costituisce arte. Lo strumento coscientemente scelto per la comunicazione ar­ tistica può far parte di due classi: la classe più ristretta dei segnali (in questo caso, la stessa comunicazione è un pretesto per dar luogo ad una comunicazione artistica); la classe degli strumenti che non sono dei segnali (in questo caso, degli stru­ menti, degli edifici, etc., sono scelti come pretesto di una co­ municazione artistica). Allorché i segnali funzionano come strumenti di comu­ nicazione nell'ambito della semiologia della comunicazione, esistono due modi diversi di scelta: nel primo caso, i se­ gnali vengono scelti senza che vi sia l'intenzione di comuni- 37


care con questa scelta una particolare concezione di esecu­ zione (ad esempio, allorché un segnale di circolazione viene posto in una strada): si parla allora di comunicazione « de­ notativa ». Nel secondo caso, la scelta dei segnali viene fatta con la precisa intenzione di comunicare con la scelta stessa una data concezione di esecuzione; parliamo allora di comu­ nicazione « connotativa» (artistica). Analogamente, nel caso di strumenti che non sono dei segnali, vi sono due possibilità di scelta: nel primo caso, la scelta degli strumenti viene effettuata senza avere l'inten­ zione di rappresentare con essa una particolare concezione di esecuzione (ad esempio, nel caso della costruzione edili­ zia qualsiasi); nel secondo invece gli strumenti ".engono scelti con l'intenzione consapevole di comunicare una data conce­ zione di esecuzione. 11 primo procedimento potrebbe essere qualificato come «banale », il secondo come «artistico ». La scelta di un determinato strumento (edificio, ad esem­ pio) indica anzitutto una concezione di obbiettivo (l'ideologia dell'abitazione, la concezione dell'abitazione). Questa non cam­ bia necessariamente, anche se la scelta del modo di costruire viene fatta con delle intenzioni artistiche. Malgrado tutto, la scelta artistica dell'edificio differisce dalla scelta banale, per il fatto stesso di essere stata operata per comunicare una data concezione di esecuzione. Nel caso dell'architettura ba­ nale, ciò che si rende possibile è soltanto l'operazione di base, 'abitare', nel quadro della concezione «ideologica» d'obbiet­ tivo data dall'edificio come strumento per abitare. Nell'ambito della prosa banale, ci si serve dello strumento (testo, segnale) unicamente come strumento per la comunica­ zione di messaggi (operazione di base della comunicazione), nel quadro di date concezioni di obbiettivo (ideologie). Dun­ que le « arti» si collocano fra il livello della semiologia della comunicazione (uso intenzionale dei segnali) e il livello della logica della strumentazione (scelta intenzionale degli strumen­ ti). In effetti, esse rispondono in maniera particola re al cri­ terio dell'intenzione di comunicare; e ciò grazie proprio alla scelta consapevole dei loro strumenti, effettuata con lo scopo di 38 comunicare determinate concezioni artistiche di esecuzione.


Sembra dunque possibile distinguere una classificazione delle arti in funzione delle operazioni di base. In un primo caso, l'operazione di base è una comunicazione riguardante la realtà oggettiva; gli strumenti di questa operazione di base sono dei segnali, appartenenti a codici differenti, del tipo di quelli descritti al livello di semiologia della comunicazione. I segnali sono degli strumenti che sostituiscono altre cose. Così ad esempio un dipinto non viene visto come assieme di mac­ chie di colore (strumenti), né un film come un giuoco di luci. Dunque, ci si deve anzitutto chiedere che cosa un dipinto o un film rappresentino. Mediante la scelta consapevole degli strumenti (segnali), questa dimensione di comunicazione «de­ notativa» è accresciuta da una dimensione di comunicazione «connotativa». Le arti che con la propria dimensione denota­ tiva rappresentano la realtà obbiettiva sono definite da Mu-­ karovsky «arti tematiche», e da Prieto « arti letterarie»; in effetti questa definizione, oltre alla letteratura vera e propria, include fra le « arti letterarie» la pittura figurativa, la scul­ tura e la mimica figurative, il film, il dramma e i fumetti. Un secondo possibile tipo di operazione di base è una comunicazione riguardante una realtà soggettiva. Anche a que­ sto livello ci si serve di codici del tipo di quelli descritti per la semiologia della comunicazione. Ma con tali strumenti ven­ gono espressi degli stati di cose soggettivi, psicologici. Ad esempio, è ben possibile immaginare che la combinazione di certi elementi non-figurativi (ritmici e tonali) della musica, della pittura, della scultura e della mimica non figurativa, codifichi in maniera analogica delle tensioni psicologiche considerate considerate al livello denotativo. Una scelta con­ sapevole degli strumenti di comunicazione, ad esempio dei toni e dei ritmi, comunicherebbe dunque detenninate con­ cezioni di esecuzione a proposito di questa comunicazione d1 base. Arti di questo tipo, che rappresentano nella loro dimen­ sione denotativa la realtà soggettiva, sono definite da Prieto «arti musicali». Infine, un terzo possibile caso di operazione di base è quello della strumentalità non comunicativa. Come, per prima cosa, di fronte ad un'immagine ci si domanda che cosa essa 39


rappresenti (operazione di base: comunicazione concernente al realtà oggettiva; livello denotativo), così scorgendo un og­ getto architettonico o urbanistico, ovvero un prodotto di design, ci si chiede a cosa esso serva; si cerca cioè la denota­ zione della loro funzione. Secondo Prieto, ci troviamo nel campo dell'« arte architettonica» allorché, fra tutti gli og­ geti urbanistici, architettonici o di design potenzialmente in grado di consentire la realizzazione di una data concezione di obbiettivo, vengono scelti quelli che sono contemporanea­ mente in grado di comunicare la concezione di esecuzione del­ l'oggetto scelto. Le operazioni di base (comunicazione e strumentazione) si svolgono al livello denotativo (esse dicono qualcosa, rap­ presentano qualcosa, hanno una determinata funzione); l'ope­ razione artistica si svolge al livello connotativo. Delle comu­ nicazioni denotative. o delle semplici strumentazioni, possono essere assunte come pretesto in funzione dì intenzioni con­ notative o artistiche. Nelle arti letterarie l'operazione denotativa di comunica­ zione perde spesso di importanza, a tal punto che l'interro­ gativo « che cosa l'opera d'arte rappresenti», finisce con lo scomparire dietro il problema del « come l'opera d'arte rap­ presenti qualcosa». Che peraltro ciò non si verifichi neces­ sariamente sempre, è dimostrato da esempi contrari come il film documentario d'arte, o il cosiddetto realismo socialista in pittura. Nelle arti architettoniche, il parassitismo della scelta artistica degli strumenti non può svilupparsi con al­ trettanta facilità, anche se esempi dì parassitismo possono es­ sere riconosciuti nel caso degli archi di trionfo, o delle deco­ razioni parietali. � possibile riconoscere che i diversi stili ar­ chitettonici succedutisi nella storia si differenziano anche per il diverso grado di parassitismo (così ad esempio l'eclettismo ottocentesco rappresenta un momento stilistico fortemente parassitario).

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Restano aperti alcuni interrogativi. Grazie all'allarga­ mento della nostra prospettiva da una semiologia della comunicazione -ad una logica della strumentazione, siamo riu-


sciti a fare ricomparire la comunicazione in questo secondo campo, con le nozioni di «concezione di esecuzione» (leggi­ bile questa nell'operazione stessa), di « scelta degli strumen­ ti », e di «concezione di obbiettivo» (ideologia). :e. dunque giustificata la pretesa che uno strumento o un edificio indi­ chino una parte delle concezioni di esecuzione che vi sono ce­ late, e che l'operazione (resa possibile dallo strumento) indi­ chi una parte di quegli obbiettivi (ideologie) che si trovano alla base dell'operazione stessa. Questa comunicazione, ine­ rente alle concezioni di obbiettivo e di esecuzione, non può apoditticamente definirsi come «intenzionata», ma non può certamente essere negata. Introducendo la nozione di «scelta intenzionale degli strumenti» per comunicare le concezioni di esecuzione, si è creata la possibilità di una comunicazione volontaria non più ristretta unicamente all'ambito dei segnali (semiologia della comunicazione), e che ricollega anche gli strumenti alla sfera della comunicazione intenzionata (semio­ logia della strumentazione, «arti» architettoniche). In tal modo abbiamo costruito in maniera teoricamente corretta una semiologia dell'architettura e dell'urbanistica. A questo punto però sorgono altre difficoltà, che esemplificheremo uti­ lizzando un'altra forma di comunicazione artistica: il teatro. Con Mounin, ci si può domandare se una pièce teatrale costituisca veramente una comunicazione nel senso definito dalla linguistica, nonostante che apparentemente tutto sembri dimostrare il contrario. Esaminando la situazione del teatro. si rileva che gli attori non si rivolgono al pubblico (e che quest'ultimo non risponde loro), ma viceversa parlano fra loro per simulare una qualche situazione di comunicazione fra es­ seri umani. Un altro problema è costituito dal fatto che lo spettatore non può rispondere con lo stesso linguaggio (a meno che non si considerino gli applausi come una risposta linguistica); questo aspetto, che differenzia il teatro dalla co­ municazione linguistica, è quello che oggi si cerca di modifi­ care con gli happenings. Se il parlare degli attori non costi­ tuisce la comunicazione principale, è forse quest'ultima rap­ presentata dal testo dell'autore? A sua volta però tale testo non è letto direttamente dag}i spettatori, bensì diffuso tra- 41


mite un canale intermedio, gli attori. Dobbiamo dunque par­ lare di una comunicazione « à relais»? (ne esistono, e basti pensare ai segnali di fumo degli indiani). O il messaggio di una pièce sarebbe una combinazione di attori, loro relazioni, e testo dell'autore? In questo caso, avremmo dimenticato la scenografia, le luci,i costumi, etc. E ancora, che ruolo gioca il regista? Pos�iamo ancora chiamare messaggio, nel senso defi­ nito della linguistica e dalla semiologia della comunicazione, un prodotto composto da un tale numero di strati di relazioni? Gli stessi 'riceventi', gli spettatori, vivono con la pièce un rapporto particolare, tant'è vero che durante la rappresen­ tazione si crea spesso uno speciale clima, e che anzi tutto sommato proprio quest'ultimo sembra costituire lo scopo di una pièce teatrale. Forse, quest'ultima non è affatto un mes­ saggio da trasmettere, ma piuttosto un 'modo ' per stimolare il pubblico... Qui, alcuni paralleli si impongono, con l'urbanistica e con l'architettura. Come nel teatro, anche nel campo che ci interessa esiste una comuncazione che proviene da una sola parte. II pubblico dell'architettura (i fruitori), non può ri­ spondere utilizzando lo stesso canale; in fondo, esso non può 'partecipa�e ', nella misura in cui quel complesso canale lungo il quale architettura e urbanistica vengono ' trasmes­ se ', non è affatto a sua disposizione. Né è possibile, per l'ar­ chitettura, ' fornire istruzioni ' e ' spiegarla ', quasi si trat­ tasse di un qualsiasi gioco di Monopoli, come tentano di fare i fanatici dell'idea di partecipazione. Perché se ciò accadesse, si scambierebbero i ruoli: e si pretenderebbe dai fruitori un lungo tirocinio d'architettura, a loro spese, come lo si pre­ tende oggi dai tecnici dell'architettura... Un ulteriore paral­ lelo con la situazione del teatro si rileva osservando le com­ plesse relazioni che giuocano al momento della produzione degli edifici. La massa costruita non è 'fatta ' dall'architetto, ma, ai nostri giorni, da industrie che fabbricano e consegnano i diversi elementi della costruzione, e da operai che lavorano all'assemblaggio di questi elementi. Dobbiamo considerare il ruolo dell'architetto contemporaneo come analogo a quello dell'autore, o a quello del regi42


sta? O non si è piuttosto ridotto a quello del decoratore di scene? Tutti questi interrogativi si impongono, ed è indispensa­ bile rispondervi, per poter finalmente padroneggiare una se­ miologia dell'architettura e dell'urbanistica. 1 Cfr. G. KLAus, Semiotik 1111d Erkenntnistheorie, VEB Deutscher Verlag der Wissenschaften, Berlin, 1969. 2 Cfr. C. E. OsGOOo, Metltod and Theory in Experimental Psychology, Oxford Universily Press, New York, 1958. 3 Cfr. A. J. GREIMAS, Sémantique structurale. Recherche. de méthode, Augé, Gillon, Hollier-Larousse, Moreau et C. Librerie Larousse, Paris, 1966. 4 Cfr. A. MARTINCT, La linguistique synchronique, P.U.F., Paris, 1970. s Cfr. G. MouNIN, lntroduction à la sémiologie, Les Editions de minuit, Paris, 1970. 6 Cfr. L. J. PRlfilO, Messages et signaux, P.U.F., Paris, 1966. 7 Cfr. ibidem. 8 A. J. GREI.MAS, Sémantique structura/e, cit. 9 Cfr. H. BERN0T, Das Gesellschaftsbild bei Stadtplanern, Karl Krii­ mer Verlag, Stuttgart, 1968. 10 Cfr. J. HoLSCHNEJOER, Sc/1/iisselbegriffe der Architektur und Stadt­ baukunst, Verlag Schnelle, Quickborn, 1969. 11 F. CHOAY, Figures d'un discours méconnu, in e Critique », 1973, 311, Avril, pp. 293-317. 12 A parte la doppia articolazione linguistica, ci si può interrogare, secondo Prieto, sull'esistenza di altri codici a doppia articolazione. Ad esempio, i numeri telefonici di Parigi, che comportano sei cifre, pre­ sentano una doppia articolazione: le tre coppie della serie di cifre in­ dicano sia un quartiere, sia una strada, sia un immobile. 13 Si tratta di codici relativamente poco economici rispetto alle lin­ gue naturali, perché in essi non è possibile formare un numero ele­ vato di entità cli significazione partendo da un numero ridotto cli ele­ menti di differenziazione formale. Un esempio può essere costituito dalla numerazione degli appartamenti negli immobili multipiani, in cui il numero a due cifre indica con la prima il piano, e con la seconda il singolo appartamento. Esempi dello stesso tipo si ricavano dalla se­ gnaletica stradale, in cui ad esempio un cerchio rosso indica divieto di circolazione, e il pittogramma della bicicletta all'interno cli esso speci­ fica tale divieto appunto per questi veicoli; viceversa la sostituzione del cerchio rosso con uno bleu dimostra, attraverso il test di commuta­ zione, la possibilità di cambiare il significato. 14 Codici cli questo tipo possono essere esemplificati dalle linee dei trasporti pubblici distinte da due cifre o da due lettere: se ognuna indica uno dei due terminali del percorso, una sola, presa a sé, non ha alcun significato. 15 Umberto Eco, ne La struttura assente, ha cercato di provare l'esistenza di codici la cui articolazione •salta• da un livello all'altro. Assumiamo come codice un normale mazzo cli carte: qui si sovrappon- · gono l'articolazione costituita dal tipo cli carta (re, ad esempio), e quella costituita dal 'seme• (picche, fiori, etc.); ma il jolly è un ele­ mento che possiede solo la prima di queste articolazioni, e che risulta 43 combinabile con tutti gli altri elementi.


Un esempio molto diverso è costituito dalla musica tonale; in essa il codice delle note può far parte di un sistema a doppia articolazione, che in combinazione verticale rende possibile un messaggio di suoni e che in combinazione orizzontale rende possibile una combinazione di me­ lodie, se si considerano le note in base all'altezza del tono. Ma se si considera lo stesso sistema dal punto di vista del valore tonale (flauto, violino, chitan -a, etc.) il sistema contiene solo una prima articolazione in « clementi di significazione», che si manifesta ad esempio attraverso il «carattere di flauto» di una « pastorale». 16 Codci di questo tipo possono essere variamente esemplificati: anzitutto con elementi tipo il bastone bianco del cieco, o i « brac­ ciali» di lutto, etc.; in secondo luogo, abbiamo codici in cui l'assenza di un elemento (significante) comporta un messaggio, come il lampeg­ giare del fanalino di svolta di una vettura, la cui mancanza significa l'intenzione di procedere dritto; in terzo luogo, abbiamo ad esempio la segnaletica semaforica (verde, rosso), in cui ogni colore prescrive un preciso comportamento, ma che non possono essere combinati per significarne un altro; infine, vi sono codici che designano percorsi di trasporti pubblici (treni, autobus), con un'unica cifra o un'unica lettera. 11 Cfr. E. BUYSSENS, La comnmnication et l'articulation linguisti­ que, P.U.F., Paris, 1970), che costituisce la rielaborazione di Les langa­

ges et le discours. Essai de linguistique fo11ction11elle dans le cadre de la sémiologie, Office de Publicité, Bruxelles, 1943.

1a Nei sistemi di segnali del primo tipo, i messaggi del codice pos­ sono essere suddivisi in elementi stabili e costanti che Buyssens de­ finisce «semi» (ad esempio, la segnaletica del traffico); lo stesso non è possibile nei sistemi del secondo tipo. 19 Alcune insegne di attività artigianali (un paio di occhiali, degli sti­ valetti, etc.) hanno una relazione effettiva con l'attività esplicata nella bottega corrispondente; lo stesso invece non può dirsi ad esempio per la combinazione serpente-boccale, che sotto forma di insegna segnab « farmacia», e per la quale la relazione è estrinseca. 20 Un rapporto diretto tra significazione del messaggio e segnale esiste ad esempio nella « ideografia » dei simboli logici. Viceversa, esi­ stono segnali che non hanno relazione diretta con la significazione del messaggio: il codice Morse, ad esempio, deve essere trasposto in un linguaggio scritto prima di poter essere trasmesso in un linguaggio sonoro. 21 Si possono avere metodi di segnalizzazione: a) sistematici, intrin­ seci, diretti; b) sistematici, intrinseci, sostitutivi; e) sistematici, estrin­ seci, diretti; d) sistematici, estrinseci, sostitutivi; e) a-sistematici, in· seci, diretti; f) a- sistematici, intrinseci, sostitutivi; g) a-sistematici, estrinseci e diretti; h) a-sistematici, estrinseci, sostitutivi. 22 Cfr. J. BElTIN, Sémiologie graphique, Gauthier-Villard et Mouton, Paris, 1967. 23 Cfr. N. WIENER, The Human Use of Human Beings, Doubleday, New York, 1954. 24 Cfr. J. MUKAR0VSKY, Kapitel aus der Xst/wtik, Suhrkamp, Frank­ furt, 1970, un'antologia in traduzione tedesca di scritti già pubblicati in cecoslovacco a partire dal 1934. 25 Cfr. L. J. PRIETO, Messages et signaux, cit., e Notes pour une sé­ miologie de la communication artistique, in « Werk », n. 4, 1971, pp. 248251. 44

(Traduzione dal francese di M. L. Scalvini)




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