Op. cit., 29, gennaio 1974

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Op.cit. rivista quadrimestrale di selezione della critica d'arte contemporanea

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Grafica: Almerico de Angelis

Edizioni • Il centro •


G. DAL CANTON, Per una lettura semiotica della prospettiva

F. D.

MOCCIA •

I. FERRARo,

Elementi di una tendenza dell'architettura italiana

A. Ds ANGELis,

XV Triennale

Alla redazione di questo numero /tanno collaborato: Pasquale Belfio Daniela del Pesco, Cesare de' Seta, Maria Teresa Perone, Italo Prozzil Maria Luisa Scalvini.



Per una lettura semiotica della prospettiva GIUSEPPINA DAL CANTON

In questa sede ci proporùamo di indicare alcune linee per una lettura, in chiave semiotica, della prospettiva. La no­ stra analisi, però, si appunterà quasi esclusivamente sulla pro­ spettiva rinascimentale, che appare come un particolare fe­ nomeno di codificazione e di istituzionalizzazione di un certo modo di rappresentare lo spazio, così da offrirsi come un ' campione ' particolarmente adatto al tipo di lettura che si vuol qui condurre. 1. Alcune considerazioni preliminari All'analisi vera e propria dobbiamo tuttavia premettere alcune considerazioni su problemi che stanno, per così dire, a monte dell'analisi stessa e che ne motivano l'impostazione generale tanto sul piano metodologico quanto sul piano delle proposte applicative. Anzitutto intendiamo fornire qualche breve chiarimento circa la tesi - da noi sostenuta - della convenzionalità, della relatività e della pluralità dei sistemi prospettici e richia­ mare, almeno per sommi capi, i testi che ne costituiscono il supporto, a cominciare dal fondamentale testo panofskiano. Stimolato da studi e da ricerche precedenti di carattere

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non soltanto filologico e tecnico-geometrico, ma già a carat­ tere storico e stilistico 1, ed illuminato dalle risoluzioni che il Riegl 2 aveva dato al problema dello spazio, nonché dal pen­ siero filosofico di Ernst Cassirer 3, fu infatti il Panofsky, com'è noto, a minare radicalmente la concezione tradizionale, per la quale si considerava la prospettiva del Rinascimento (la quale, nonostante le diverse regole impiegate per pervenirvi, coincide, praticamente, col sistema moderno di proiezione centrale, ancora insegnato nelle scuole) la sola scientifica­ mente valida, aderente all'oggettività visiva, unica e legitti­ ma. Di siffatta prospettiva egli evidenziò la « storicità », cioè il fatto di non esser altro che una rappresentazione relativa alla concezione dello spazio di un certo periodo, sì che, lad­ dove se ne erano appropriati gli artisti, essa veniva ad assu­ mere, per il critico, valore di elemento stilistico, soggetto a rielaborazioni e a modifiche individuali. Le proposte contenute ne La prospettiva come « forma simbolica » 4 aprirono un dibattito che continua ancor oggi e che non è il caso di ridurre in poche righe 5; ma è soprattutto il concetto, che vi si sostiene, del valore simbolico tanto della prospettiva, quanto, più generalmente, dello spazio rappre­ sentato dagli artisti, che rivoluzionò il campo della critica d'arte. Sulla sua scia, come è noto, mossero le loro ricerche il Little 6, che si occupò eminentemente della spazialità degli antichi, la Bunim 7, il White 8, e, da una angolazione socio­ logica, il Francaste! 9; il Gioseffi 10, invece, abbastanza recen­ temente, ha inteso contestare proprio la tesi sostanzialmente più valida e stimolante delle ricerche panofskiane, quella della pluralità dei sistemi prospettici, storicamente condizionati e legati ad epistème diverse. Nel suo libro del '57 e in altri studi successivi, egli ha cercato infatti di verificare e di dimostrare con ogni argomento la validità scientifica e perenne della pro­ spettiva rinascimentale, cioè, per dirla con Marisa Dalai, che ha molto acutamente recensito e controbattuto i saggi di Gio­ seffi 11, l'identità di quadro prospettico e realtà percettiva nel 'corretto' atto visivo u. La nostra ricerca invece, oltre a respingere il valore « na6 turalistico » ed astorico attribuito alla prospettiva, voluta-


mente si disinteressa a vagliare il grado di coincidenza tra prospettiva e realtà veduta, ritenendo ormai palesemente su­ perato tale problema; una simile preoccupazione, fra l'altro, nonché mostrarsi improduttiva ai fini di una ricerca semio­ tica, porterebbe alla pretesa, alquanto scorretta, di far en­ trare, a forza, il referente in uno studio che del referente non può e non deve trattare. Infatti, come spiega Eco, la semiotica non si occupa, praticamente, che del lato sinistro del famoso triangolo di Ogden e Richards 13, e non le dovrebbe affatto pertenere lo studio del vertice destro della base, che è rap­ presentato, appunto, dal referente, cioè dall'oggetto in sé, dalla cosa reale. In altri termini: La presenza del referente, la sua assenza, o la sua inesistenza, non incidono sullo studio di un simbolo in quanto usato in una certa società in rapporto a determinati codici 14• Davanti ad una rappresentazione prospettica noi lavo­ riamo sui dati di esperienza fomiti dal suo disegno e ne at­ tuiamo il riconoscimento in base a codici che, come tutti i co­ dici figurativi, comunicano per convenzione, cosl come per convenzione comunica la lingua.Non intendiamo indugiare, in questa sede, a riferire, magari con parole diverse, le pagine in cui tanto limpidamente Eco illustra la convenzionalità dei codici iconici e dei codici imitativi 15, ma a quelle pagine ri­ mandiamo, come pure rimandiamo alla lettura di varie os­ servazioni contenute in altri testi che, sebbene su basi diver­ se, non di meno servono ad illustrare con numerosi esempi l'arbitrarietà con cui i segni denotano certe condizioni della percezione o comunque alcuni percetti ridotti a tracciati gra­ fici convenzionalizzati 16• Basta qui soltanto accennare a quella specie di requisi­ _toria condotta da Eco contro la definizione morrisiana per la quale un segno Iconico è il segno simile, per alcuni aspetti, a ciò che denota 17, definizione che può accontentare il buon senso, ma non una riflessione più profonda. Eco rivede infat­ ti, punto per punto, servendosi anche di esemplificazioni, tale definizione, approdando a conclusioni che solo parzialmente collimano con essa: il segno iconico, dunque - osserva il nostro semiologo - costruisce un modello di relazioni


( tra fenomeni grafici) omologo al modello di relazioni per­ cettive che costruiamo nel conoscere e nel ricordare l'og­ getto. Se li segno Iconico ha proprietà ht comune con qual­ cosa, le ha non con l'oggetto, ma con li modello percettivo del­ l'oggetto; è costruibile e riconoscibile ht base alle stesse ope­ razioni mentali che compiamo per costruire li percetto, mdi• pendentemente dalla materia ht cui queste relazioni si rea­ lizzano la. Anche il problema del codice prospettico va riportato dunque nell'orbita dei problemi relativi ai codici visivi e si inserisce in un discorso sulla meccanica stessa della per­ cezione che, al limite, può esser vista come un fatto di co­ municazione, come un processo che si genera solo quando, ht base ad apprendimento, ha conferito significato a determi­ nati stimoli e non ad altri 19_ · Le concezioni di Eco, che abbiamo richiamato sopra, circa la percezione e i processi di convenzionalizzazione che condizionano i nostri sistemi di attese, hanno come proprio sfondo la psicologia transazionale 20; dal canto nostro, pur non opponendoci indiscriminatamente alla Gestaltpsycholo­ gie, non possiamo che rifiutarla quando essa prescinde dalla storia nell'indagare e nel definire le leggi della percezione 21• Del resto anche la ricerca di Panofsky che, precorrendo in maniera sorprendente le attuali ricerche strutturaliste, non ha prescisso mai dal divenire storico delle strutture inda­ gate, ci illumina ancora una volta sull'orientamento da se­ guire nella nostra ricerca: essa ci conferma sull'opportunità di lavorare su certe strutture dell'attività umana e dell'atti­ vità artistica in particolare, tenendo sempre presente la sto­ ria come processo dinamico. E bisogna anche aggiungere che questo contributo sulla prospettiva, per quanto breve, sot­ tintende più di una scelta, per così dire, filosofica e psico­ logica, le cui origini derivano dalla lettura dei testi della fe­ nomenologia della percezione 22 e della epistemologia gene­ tica 23, oltre che di quelli della psicologia transazionale, per la quale le leggi della percezione sono strettamente dipen­ denti da modelli culturali storicamente condizionati e, a loro 8 volta, condizionanti.


Da un'angolazione che coincide, appunto, con quella della psicologia transazionale, è condotta anche l'analisi dei vari tipi di visione prospettica (in tutto tredici) di James J. Gib­ son 24 • Questi ritiene infatti che ogni nostra percezione di­ penda da un'esperienza acquisita che condiziona, caso per caso, le modalità dei fenomeni percettivi. Come spiega Hall, Gibson ha indicato tredici varietà di artifici sensoriali sca­ lari che «staccano,. gli oggetti per permetterci la visione prospettica: tredici diverse « configurazioni ,. delle Impres­ sioni visive che si accompagnano alla percezione della pro­ fondità su una superficie o su un contorno continui 25• Nella prima classe rientra, appunto, al terzo posto, la prospettiva lineare in uso nel Rinascimento. Un'altra premessa che completa quanto detto finora: è nostra convinzione che un'analisi semiotica, almeno per quan­ to riguarda quel sistema di segni abbastanza semplici che è la prospettiva, non sia incompatibile con la lettura panof­ skiana della prospettiva come «forma simbolica », e che, per l'oggetto della nostra analisi, non abbia praticamente molta rilevanza il problema della differenza fra lettura iconologica e lettura semiologica, con tutto ciò che esso comporta 26• Inol­ tre non ci sembra fuori luogo eliminare, in questo caso parti­ colare, la distinzione, in altri casi legittima, fra segno e sim­ bolo o, almeno, ridurre gli scarti differenziali fra i due ter­ mini. Vediamo di dare, brevemente, ragione delle nostre affer­ mazioni. Facendo nostra la constatazione generale di U. Eco che la semiologia cl mostra nell'universo dei segni, siste­ mato in codici e lessici, l'universo delle ideologie, che si ri­ flettono nei modi precostituiti del linguaggio 27, possiamo a nostra volta sostenere che i segni del sistema prospettico non denotano solamente, ma simultaneamente anche conno­ tano 21 a noi fntitori un certo modo di concepire e quindi di vedere lo spazio; e, nel caso del sistema prospettico del Quat­ trocento, connotano la concezione di uno spazio «razionale » e «matematico,., secondo la definizione panofskiana, e ci ri­ velano la Weltanschauung che ha generato quella certa rap­ presentazione spaziale, che si basa sui principi della raziona- 9


lità, dell'organicità, dell'armonia, dell'equilibrio, della simme­ tria, ecc. (e se poi la prospettiva' classica' è usata in un'opera odierna, ne ricaviamo, chiaramente, l'ispirazione del suo au­ tore a codici di tipo accademico). Quando Panofsky indicava nel sistema di segni prospet­ tico la « forma simbolica " di una cultura, non indicava altro che il livello connotativo che si instaura sulla significazione del sistema segnico soggiacente: dal livello denotativo egli era rinviato al livello connotativo e in quest'ultimo ritrovava l'ap­ parato ideologico di cui la prospettiva è un prodotto 29• Non che la connotazione coincida - secondo noi - con il piano delle ideologie, ma è sulle semiotiche connotative che la cri­ tica rintraccia generalmente molti degli elementi costitutivi dell'apparato ideologico o, almeno, qualche elemento che può illuminare sulla cultura collegata a certi sistemi denotativi. Leggendo, infatti, un'opera d'arte non accade forse di essere rinviati dai signi-ficati denotati a ciò che sta oltre ad essi, vale a dire alla visione del mondo cui appartengono, proprio come quando dallo stadio di lettura preiconografica ed iconografi­ ca, siamo sospinti come spiegava il Panofsky 30, ad un livello che non è più soltanto descrittivo, quello cioè della lettura iconologica 31 ? Perfino certe strutture elementari, come le strutture geometriche, non sono immuni da qualche carica simbolica (si pensi alle geometrie di Mondrian o ai quadrati di Malevic). Pur ammettendo una diversità fra iconologia e semiotica, se non altro perché si tratta di due discipline storicamente distinte, siamo del parere dunque che la lettura della prospet­ tiva come segno (o, più correttamente, come sistema di segni) possa saldarsi e fondersi con la lettura della prospettiva come simbolo, o meglio come « forma simbolica », anche se siamo pienamente consapevoli delle diverse accezioni che possono avere le nozioni di segno e di simbolo in altri contesti 32• Leggere la prospettiva in chiave semiotica equivale, in­ vece, per noi anche a leggerla sotto un profilo per così dire « iconologico », cioè nei valori simbolici che appartengono al e significato intrinseco o con.tenuto » (il quale è sempre stret10 tamente dipendente da un certo universo ideologico e non da


altri), dal momento che, per dirla con Eco, se una semiotica si ha da fare, essa dovrà occuparsi anche dell'universo del contenuto 33• 2. Per una definizione del dei « codici visivi»

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codice prospettico» nell'ambito

Una lettura del fenomeno prospettico si mostra anzitutto possibile a livello del binomio Lingua/Parola ovvero codice/ messaggio e di altre nozioni famose (sincronia/diacronia, sin­ tagma/paradigma ecc.), che è· pur sempre compito di una ri­ cerca semiotica affrontare, ma in un'analisi più ampia eh quanto sia possibile in questa sede. L'esame di tali nozioni, con tutta la serie di problemi che comportano, ci porterebbe a delineare un quadro indubbiamente più compiuto e più va rio del fenomeno in esame, e tuttavia preferiamo limitarci ad accennarvi di sfuggita per soffermarci, piuttosto, sulla defi­ nizione e la classificazione della prospettiva nell'ambito speci­ fico dei codici visivi. A proposito, invece, delle nozioni summenzionate, basterà ricordare che la prospettiva del Quattrocento normativizza e rende istituzionale, nella prassi pittorica, una ricerca già in atto da tempo 35; ma vediamo che la stessa prassi pittorica trova precisi punti di riferimento nella codificazione scritta delle norme prospettiche, con la conseguenza di un poten­ ziamento della prospettiva nei caratteri che ne fanno una vera e propria Lingua. Come è noto, 1a trattatistica prospettica in genere si svolge, didascalicamente, su due piani strettamente legati e, anche, interdipendenti, cioè sul piano grafico e, contempora­ neamente, sul piano del linguaggio verbale che, essendo usato per spiegare e commentare i disegni, non svolge soltanto una funzione complementare, ma, quasi sempre, una funzione me­ talinguistica (come spiega Hjelmslev, un metalinguaggio è una semiotica il cui contenuto è una semlotica)36• Attraverso una lettura sistematica dei « trattati prospettici » (anche se non sempre si tratta di trattati autonomi), da condursi con criteri analoghi a quelli adottati, per i trattat� 11 "j4


di architettura, da Renato De Fusco 37, il « codice della pro­ spettiva » si configura come una raccolta di esperienze che vanno dall'Alberti al Filarete, a Francesco di Giorgio, a Piero della Francesca, a Pomponio Gaurico, a Jean Pélerin, a Diirer, al Serlio, al Rivius, al Danti, al Barbaro, al Vignola, al Lo­ mazzo, ecc., fino a coprire un arco di tempo di quattro o ad­ dirittura di cinque secoli; chiaramente, però, all'interno del codice, inteso come momento dell'istituzione, è dato di co­ gliere la deroga, vale a dire la violazione, in sede applicativa, delle norme contenute nelle stesse trattazioni. Filarete e Fran­ cesco di Giorgio, ad esempio, non esitano a violare, proprio nei disegni architettonici dei rispettivi trattati, le leggi pro­ spettiche di cui mostrano di esser a conoscenza e di cui si fanno sostenitori nei passi specificatamente dedicati alla pro­ spettiva, cosl come le opere pittoriche e scultoree loro attri­ buite raramente si mostrano fedeli agli assunti teorici e spes­ so deviano consapevolmente dai codici dati fornendo mes­ saggi quasi sempre assai originali. Coerenza di prospettico dimostrerebbe invece l'opera di Leon Battista Alberti, qualora fossero effettivamente sue le Tavole Barbarini 38, così come coerentissima appare tutta l'opera di Piero della Francesca, che, sottoposta ad un'ana­ lisi rigorosamente tecnica, mostra di attenersi puntualmente ai teoremi del De prospectiva pingendi 39• L'opera di Piero, in generale, potrebbe essere considerata, per adottare una terminologia usata in sede di semiotica architettonica da Renato De Fusco, -ricca di valori paradigmatici, ma essenzial­ mente emblematica 40, per quanto riguarda la storia della pro­ spettiva. All'analisi della prospettiva, condotta affrontando le no­ zioni semiotiche summenzionate, si collega immediatamente, fra gli altri, il problema della prospettiva come ' logotecni­ ca ' 41 , che, a sua volta, implica sia il problema della modalità di elaborazione del sistema prospettico sia il problema della

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decodificazione da parte dei fruitori, i quali dovettero pro­ gressivamente imparar a vedere in modo nuovo, modificando i loro sistemi di attese e le loro abitudini percettive in rapporto alle nuove convenzioni di rappresentazione.


Nel condurre siffatta lettura ci si accorgerebbe poi an­ che che, nel definire i tratti strutturali del codice prospettico rinascimentale, si definiscono anche alcuni tratti del codice prospettico classicistico del quale fa parte. Infatti la prospet­ tiva rinascimentale non subisce alcun autentico « salto rivolu­ zionario » almeno fino alla « scoperta cubista », anche se, ef­ fettivamente, lo storico dell'arte è in grado di cogliere l'evol­ versi del codice fondamentale nell'ampio arco di più di quat­ tro secoli, distinguendo, all'interno di quello, i codici derivati, cioè quelli che fanno differenziare, ad esempio, la prospettiva del Brunelleschi e dell'Alberti da quella dell'età barocca, non­ ché i sottocodici relativi ai diversi ambienti, cioè, ad esem­ pio, sempre per restar nel Quattrocento, quelli relativi all'am­ biente padovano, da quelli relativi all'ambiente fiorentino, e addirittura sottocodici prospettici individuali (e se si vuole anche idioletti), escogitati ed elaborati dai singoli artisti 42• Insomma, il codice prospettico classicistico, come insieme di regole interne alla rappresentazione spaziale, ci offre moltis­ sime e varie contestazioni ' dall'interno ', le quali, anziché sov­ vertire, potenziano il codice dato, rendendolo più ampio e più duttile e perciò più capace di sopravvivere alle proprie crisi. Ne deriva che lo studio strutturale di tale codice servi­ rebbe, fra le altre, a mettere in luce la caratteristica fonda­ mentale dell'invenzione prospettica brunelleschiana sotto il profilo del suo ruolo storico e ideologico, quella cioè di ten­ der ad essere, come di fatto fu, un fenomeno di immobilismo

come avanguardia.

Ma veniamo piuttosto all'analisi che più ci preme, con la quale tenteremo di individuare, attraverso alcune ipotesi, la natura del codice prospettico non già nei trattati, ma a li­ vello delle realizzazioni pratiche, cioè, in altri termini, cer­ cheremo- di definirne le caratteristiche relativamente ad una possibile classificazione dei codici visi11i 43• La terminologia che decidiamo di adottare è quella usata da Luis Prieto 44 e ripresa poi da Umberto Eco. (si veda, ad esempio, la distin­ zione tra figure, segni e semi), condividendo noi pienamente gli assunti dei due autori sia. circa l'esistenza di diversi tipi di codici, spesso assai differenti dal codice del linguaggio verba-

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le, sia circa i diversi tipi di articolazioni presentati dai vari codici (codici senza articolazioni, codici con la sola prima ar­

ticolazione, codici con la sola seconda articolazione, codici a due articolazioni, codici con articolazioni mobili)45.

Ovviamente bisogna anzitutto distinguere fra le proiezioni prospettiche centrali che si effettuano a livello dei problemi di geometria descrittiva e la prospettiva concretamente ap­ plicata nei dipinti da artisti, che si sono serviti di un codice prospettico per rappresentare la profondità spaziale e i corpi nello spazio non come in se stessi, ma come appaiono all'oc­ chio dell'osservatore, secondo le loro diverse posizioni e di­ stanze, cioè per tradurre sulla tela bidimensionale un'imma­ gine che sembri tridimensionale, come è nella realtà. Prendiamo dunque in esame il primo caso, quello della rappresentazione prospettica come operazione grafica distinta dall'opera oppure precedente l'opera pittorica o l'opera ar­ chitettonica realizzate. Per definire i segni prospettici ed il re­ lativo codice occorre richiamare l'ipotesi, già avanzata da Eco, che la cultura occidentale possegga una serie di « unità pertinenti • di ogni figurazione possibile, che sarebbero ap­ punto gli elementi della geometria, cioè gli stoichéia euclidei. Funzionando come figure, cioè come elementi discreti, i pun­ ti, le linee, le curve, gli angoli, ecc. sarebbero in grado di ge­ nerare, sia pure con innumerevoli varianti facoltative, ogni figurazione. Ovvio che la verifica di questi assunti non appar­ tiene alla semiologia, ma alla psicologia nella forma più spe­ cifica di un'« estetica sperimentale• 46• Esiste poi un'altra ipotesi, sempre in Eco (1968), per la quale le figure dei codici visivi non sarebbero in numero fi­ nito, e non sempre sarebbero discrete, il che equivale a dire che, pur essendoci w1 codice, esso non è facilmente e immt> diatamcnte riconoscibile. Si tratta insomma di una specie di seconda articolazione che appare come un continuum di pos­ sibilità da cui emergono tanti messaggi individuali, decifra­ bili in base ad un contesto, ma non riducibili ad un codice preciso, sebbene quest'ultimo - ripetiamo - esista, come prova il fatto che, alterando oltre un certo limite i rapporti

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tra figure, le condizioni della percezione non sono più deno-


tate. A questa seconda ipotesi, comprensiva degli elementi geometrici oltre che di altre condizioni della percezione tra• scritte in segni grafici 47, si può obbiettare che in sede anali­ tica è possibile render discreti gli elementi geometrici, ren­ derli cioè opposizionali mediante la misura. Come dimostra De Fusco quando indica nella progettazione il luogo speci­ fico in cui cercare quelli che egli definisce gli elementi di terza articolazione del linguaggio architettonico, le grandezze conti­ nue possono esser rese commensurabili, ridotte di numero, rese pertinenti e funzionali, sia in senso lineare che angola­ re 48• Gli equivalenti dei fonemi linguistici sarebbero pertanto i « tratti » verticali, orizzontali, obliqui e curvilinei 49• Qualsiasi cosa io voglia rappresentare in prospettiva, sia che si tratti di un elemento della geometria euclidea cioè, ad esempio, di un segmento, oppure di figure piane oppure an­ cora di solidi più o meno complessi, d'ebbo sempre partire da grandezze commensurabili, cioè sempre da elementi di­ screti, che sono elementi di seconda articolazione ovvero figure nel senso di Prieto (1966) e di Eco (1968; 1970). Tali elementi, che sembrano appartenere a più codici visivi, prece­ dono la rappresentazione prospettica: essi sono individuabili già sul piano orizzontale (geometrale) e, dove occorra, anche sui piani di profilo 50, prima di procedere alla costruzione prospettica vera e propria, tramite la quaile vengono ridotti secondo procedimenti operativi codificati, cioè regole che, per quanto riguarda i prospettici del Rinascimento, sono tut­ tora oggetto di studi e di discussioni di carattere tecnico e filologico. Sul quadro (intendendosi per quadro il piano verti­ cale su cui avvengono le proiezioni del piatzo orizzontale o geometrale e quelle dei piani laterali), invece, mi appaiono gli elementi che hanno già subito la riduzione prospettica: per chi conosca la geometria descrittiva e possieda le regole del codice prospettico, un segmento tracciato sul quadro di proiezione non sarà soltanto un segmento, cioè un elemento privo di qualsiasi valore di significazione, ma un segmento perpendicolare o parallelo alla linea di terra o inclinato di x gradi rispetto a quella, a destra o a sinistra della stazione dell'osservatore ecc.; e così pure un quadrato non sarà più

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un quadrato, ma una figura piana che io riconosco come qua­ drato solo se posseggo le regole della prospetiva, in quanto esso ha perso le proprietà che gli ineriscono per definizione ( quattro lati uguali, quattro angoli uguali), e la sua nuova forma denota altre caratteristiche, come, ad esempio, il fatto che esso sia parallelo al piano orizzontale o inclinato di 45° rispetto a quello. Anche senza continuare con altri esempi, a questo punto ci si accorge che gli elementi in gioco sono sempre portatori di precisi significati, per tradurre i quali nel linguagio verbale siamo spesso costretti a ricorrere addirit­ tura a frasi, cioè a sintagmi, perché non esistono segni verbali equivalenti; in altre parole, siamo passati dal livello delle sem­ plici figure a quello dei veri e propri segni, anche quando si ha la riduzione prospettica di elementi semplicissimi come i segmenti, dal momento che gli elementi che appaiono sul quadro prospettico hanno sempre funzioni denotative precise. Insomma, se sul piano orizzontale o su quelli di profilo ho un segmento o una figura piana o un solido (quest'ultimo però è rappresentato secondo convenzioni grafiche che ne rendono pertinenti alcune proprietà) con le relative misure (e nel caso del solido non basta la sola pianta, ma occorre anche la scala delle altezze, alle quali riferire le misure dei segmenti verticali da ridurre prospetticamente), cioè ho gli elementi di seconda articolazione o anche elementi di prima articolazione (sempre scomponibili però in elementi di seconda articolazione) corre­ dati di tutte le istruzioni necessarie per la costruzione prospet­ tica, nel quadro, invece, un segmento, una figura piana o un solido sono riconoscibili come elementi che, complessivamente, denotano sempre anche la riduzione subita. Va incidental­ mente precisato che i semi non costituiscono elementi di un'ipotetica terza articolazione perché non sono altro che combinazioni di segni: pertanto avrò un sema quando avrò una figura complessa (piana o solida) formata da un insieme di segni del codice prospettico che, per essere strettamente legati o unitariamente coordinati fra loro nello spazio rappre­ sentato, corrispondono, grosso modo, ad un enunciato, ad una 16

frase del linguaggio verbale. Da questa prima analisi risultano le seguenti possibilità


di definizione del codice prospettico, considerato a livello pu­ ramente grafico, cioè di problemi proiettivi e di operazioni, per così dire « prepittoriche » e, talora, « prearchitettoniche: a) se, in un disegno, vogliamo tener conto complessi­ vamente, oltre che del quadro, anche del piano geometrale che si trova nella parte inferiore dello stesso foglio e/o dei piani di profilo che si trovano a destra o a sinistra dello stesso quadro (tutti e tre questi piani potrebbero però anche esser disegnati su fogli a parte), in modo tale da considerare il primo strettamente collegato agli altri e a quelli diretta­ mente rinviante, così che ci sia un rapporto di dipendenza reciproca tra gli elementi dell'uno e gli elementi degli altri, allora il codice prospettico di quel disegno può essere consi­ derato un codice a due articolazioni, dal momento che con­ templa tanto la presenza di figure quanto la presenza di segni. Infatti - come s'è visto - sul quadro un sema, come ad esempio una figura piana con quattro lati, è scomponibile in segni (quattro segmenti che formano insieme un unico quadrilatero, ma ognuno avente un preciso significato rispetto alla linea di terra e al punto di vista dell'osservatore), ma que­ sti non sono a loro volta scomponibili nelle figure « segmenti », in quanto hanno sempre precisi valori denotativi nel contesto del codice prospettico 51; invece sul piano geometrale e sui piani di profilo è possibile scomporre gli eventuali semi in segni (dotati di significato), e questi, a loro volta, in figure prive di significato, cioè in unità discrete del più generale codice geometrico, e che potremmo trovare benissimo anche in grafici che non siano quelli deHe costruzioni prospettiche. Quindi un segmento, una linea curva, ecc. possono essere figure o segni secondo i codici in cui vengono usati, i quali conferiscono loro diverso valore rendendoli o non rendendoli pertinenti. b) Se invece si escludano il geometrale. e i piani di profilo e non si disponga che del quadro prospettico, come di fatto accade in parecchi casi, in cui i piani verticali ed orizzontale mancano, magari perché originariamente-costituiti da fogli a parte, allora al fruitore, che conosca - ripetiamo le regole del codice prospettico, gli eventuali semi disegnati

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nel quadro appariranno scomponibili in segni i quali gli deno­ teranno precisi significati, le loro precise posizioni e relazioni nello spazio. Tutte le unità che appaiono nel quadro prospet­ tico sono, dunque, unità di prima articolazione: ne derive­ rebbe un codice prospettico come codice ad una sola articola zione, la prima. (Per converso, come si accennava più sopra, nel geometrale e nei piani possono apparire sia la sola se­ conda articolazione, sia tutte e due le articolazioni assieme). Si può avanzare infine un'ulteriore ipotesi: c) il codice prospettico, sia che si tenga conto del solo quadro sia che si tenga conto del quadro e, insieme, del piano orizzontale e di quelli di profilo, è - in ogni caso - un co­ dice a due articolazioni e queste appaiono tanto sul quadro prospettico quanto sul geometrale e sui piani di profilo. Tut­ tavia le unità di prima e di seconda articolazione sono diverse a seconda che si trovino sul quadro prospettico, oppure sul piano orizzontale e sui piani di profilo; anche le misure, me­ diante le quali i tratti orizzontali, verticali, obliqui e curvili­ nei vengono resi discreti, mutano a seconda del contesto e, pur riferendosi agli stessi oggetti, ne mutano gli elementi di riconoscibilità: non siamo tuttavia in presenza di un codice ad articolazioni mobili, perché in questo lo scambio suole av­ venire tra segni che diventano figure e figure che diventano segni a seconda del contesto, pur restando gli elementi in gioco sempre gli stessi. Nel passare dai piani al quadro e viceversa, compio un'operazione simile ad una traduzione da una lingua verbale ad un'altra lingua verbale, in cui differenti significanti composti da fonemi e da monemi differenti fra loro si riferiscono ad uno stesso significato. Così accade che una figura piana nel contesto del geometrale sia rappresentata in un certo modo e, invece, nel quadro in tutt'altro, e che le figure in cui è scomponibile nell'uno non siano necessaria­ mente le figure in cui è scomponibile nell'altro. t:: chiaro per­ ciò che, ad esempio, nel contesto del geometrale e dei piani di profilo io posso analizzare un qualsiasi oggetto rappresen­ tato scomponendolo in segni e quindi in figure, cioè in tratti verticali, orizzontali e curvilinei, ma è chiaro anche che le figure, che nei piani possono essere o non essere portatrici


di valori semantici, passando nel quadro, oltre a cambiare di misura, diventano sempre anche portatrici di valori se­ mantici. Quindi anche considerando soltanto il quadro pro­ spettico, troviamo, oltre agli elementi di seconda articolazio­ ne, gli elementi di prima articolazione: infatti, da un certo punto di vista, i segmenti obliqui che compongono, ad esem­ pio, un poligono sono sì figure, tratti elementari di riconosci­ mento, ma da un altro punto di vista ciascuno di essi è an­ che portatore di un significato «prospettico» molto preciso, a seconda della sua posizione spaziale 52• Questa terza ipotesi sembra anche la più soddisfacente, perché più elastica e, forse, più completa delle altre. Veniamo ora alla prospettiva nei dipinti o in vedute pro­ spettiche per la progettazione architettonica, in cui non ap­ paiono che elementi che hanno già subito la riduzione pro­ spettica, sicché parrebbe sufficiente, in sede analitica, ricon­ durre tale tipo di prospettiva al caso b ), o, meglio, al caso c) precedentemente esposti. In realtà una simile classifica­ zione, pur mostrandosi legittima, appare troppo semplicistica nella misura in cui non tiene conto di alcuni fatti che inter­ vengono quando subentra anche l'elemento colore e, ciò che è più importante, quando lo spazio rappresentato non sia più lo spazio astratto, della geometria, ma uno spazio carico di significati culturali. Sebbene in questa sede non si intenda esaminare che la prospettiva lineare, tralasciando i problemi connessi alla pro­ spettiva atmosferica, che integra la prima, e volta a rendere le variazioni di intensità luminosa e le gradazioni dei toni in rapporto alla distanza, allo spessore degli strati dell'aria in­ terposti e alle sorgenti luminose, non possiamo ignorare al­ cuni nodi fondamentali del rapporto forma/colore, attraverso i quali passa necessariamente la nostra ricerca. In questa sede ci accontentiamo di rammentarli brevemente, riservandoci di discuterne altrove in maniera adeguatamente ampia e più approfondita. Prima di tutto giova richiamare l'attenzione sulla con­ statazione di Max Bense che non è possibile percepire nessun colore senza forma e nessuna forma senza colore ( anche se

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si trattasse del caso del colore di contrasto dovuto alle linee di contorno). Sono oggetti della percezione solo unità ele­ mentari o complesse di forma e colore. Relazioni di forma e colore sono le relazioni basilari del mondo della percezione visiva. Ciò che è dato nella percezione visiva è dato per mezzo di relazioni di forma e colore. Ed ancora: L'estensione del colore è determinata da una forma. L'estensione di una forma è determinata per il colore dal contorno. In analogia al noto principio semantico della logica, secondo il quale le nostre proposizioni sul mondo sono proposizioni riguardo a predi­ cati, che competono o non competono a un oggetto, c'è un principio semantico della percezione visiva, che rende perce­ pibile o non rende percepibile una forma mediante un colore e viceversa. ...Una semiotica visiva pura (linguaggio visivo), che sia costruita su elementi di forma (formemi) ed elementi di colore (cromemi), si richiama con ciò a«unità percettive visive», a« · percettemi », che nel dominio visivo si presentano solamente come relazioni di forma e colore. Un « quadro » (della pittura) o una «fotografia» sono ad esempio « per­ cetti » di questo genere che possono venire analizzati in ele­ menti di forma ed elementi di colore, che sono numerabili e quindi costituiscono possibili percettemi » 53• Sulla base di quanto sopra riferito, Max Bense stabi­ lisce poi una equivalenza tra la formula L'i del linguaggio logico di Carnap e quella vcf (in cui e sono gli elementi di di colore ed f gli elementi di forma) dal linguaggio visivo, che conterrebbe c.f. relazioni di forma e colore, e riesce quindi a definire la « densità » visiva, caratteristica semiotica di ogni «percetto » nei « quadri » o nelle opere grafiche mediante la formula Dv

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c.f.

= --. E

Senza indugiare a riferire ancora, punto per punto, lo sti­ molante testo di Bense, a cui preferiamo rimandare diretta­ mente, non è chi non veda che anche l'analisi di un feno­ meno circoscritto come la prospettiva comporta la riflessione su più vasti problemi semiotici, ai quali è strettamente colle-


gata e dai quali sono condizionate e, anche, spesso determi­ nate le soluzioni che se ne vogliano dare. Così, ad esempio, se possiamo trovarci d'accordo con Bense quando evidenzia che i formemi (elementi geometrico-topologici) e i cromemi cor­ rispondenti sono fatti della percezione, che però non rap­ presentano in senso stretto né un criterio di realtà né ad esempio un'affezione egocentrica, dipendente dalla coscien­ za 54, ma sono invece segni nel senso più proprio del termine (ed in quanto tali potranno entrare in « relazioni triadiche,. e perciò in « classi di segni » nel senso di Charles Sanders Peirce), non ci troviamo del tutto d'accordo con la sua clas­ sificazione dei sistemi prospettici nell'ambito delle forme in­ dicali o indexicali (sempre nel senso di Peirce) e preferiamo invece la classificazione che ne dà Eco (1973), riformulando e completando le distinzioni peirciane fra indici, icone e sim­ boli. Nell'ipotesi di Eco, infatti, si tiene conto anche della distinzione tra segni naturali o emessi senza intenzione da un emittente e segni artificiali emessi intenzionalmente da un emittente umano 55 sicché gli indici rientrano fra i segni naturali, dai quali sembra pertanto opportuno escludere la prospettiva grafica, che può rientrare piuttosto tra i segni artificiali e precisamente tra quelli produttivi ed eterosostan­ ziali (e, significativamente, nel Quattrocento la prospettiva li­ neare viene chiamata Perspectiva artificialis). Ovviamente lo spazio di un quadro rinascimentale non è che la traduzione dello spazio reale, al quale rimanda non perché esista un effettivo legame col referente, ma perché, come spiega Eco, a proposito dei segni iconici, una conven­ zione ha stabilito le modalità di « produzione » della corri­ spondenza percettibile fra tratti di riconoscimento e tratti grafici 56• Lo spazio in cui viviamo, però, non è un materiale insignificante, anzi, esso è tutto pregno di contenuti comuni­ cativi, diversi di epoca in epoca e di civiltà in civiltà, dal mo­ mento che, come insegna la prossemica 51, lo spazio «parla», e parla per convenzioni culturali. Tutti i nostri modi di essere nello spazio recano un significato preciso e, anche se si espli­ cano apparentemente solo nell'ambito dell'uso e se sono magari meccanici e istintivi, questi modi comunicano, poiché 21


non esiste uso che non venga semantizzato: un metro o cin­ que metri di distanza permettono diverse funzioni fisiche, e queste - a loro volta - permettono differenti funzioni so­ cio-antropologiche. Quindi, in un dipinto, non ho solo dei segni del codice prospettico (costituiti da elementi di forma strettamente legati a elementi di colore), tutti denotanti le loro varie posizioni rispetto alla linea di terra e rispetto all'oc­ chio dell'osservatore, e le reciproche relazioni (cfr. casi b) e c)), ma le distanze lineari di quei segni si qualificano espres­ samente anche come « traduzioni », nella scala del quadro, di rapporti spaziali convenzionalizzati dalla cultura in cui quel dipinto di colloca storicamente. II codice prospettico dunque sta al linguaggio dello spazio usato in una certa cultura, come il codice iconico sta, secondo convenzione, agli oggetti di cui i suoi segni sono le icone (se­ condo le condizioni indicate da Eco 58). Naturalmente occorre rilevare - e la rilevazione a questo punto sembra quasi su­ perflua - che non importa che in un dipinto appaiano alcuni personaggi per stabilire che esso media alcuni significati prossemici: anche qualsiasi oggetto fisico può includere, come forma della propria sostanza dell'espressione, una distanza li­ neare x, che sappiamo essere in grado di stabilire fra due o più persone intervalli corrispondenti a precise unità di un sistema di funzioni socio-antropologiche 59• Sul quadro mi appaiono, in genere, scene con personaggi ed oggetti di gran­ dezze diverse da quelle reali, ma i rapporti che queste gran­ dezze hanno tra loro sono ridotti secondo regole che, ab­ biamo visto, mi consentono di risalire, o per via grafica, cioè mediante un'effettiva « restituzione prospettica » o, almeno, per via intuitiva, senza ricorso alla carta e alla penna, anzi­ tutto alle distanze della scena dipinta prima della riduzione prospettica, e da queste, successivamente, è possibile anche immaginare i rapporti spaziali della scena reale cui l'artista ha guardato (naturalmente ciò vale solo per opere con pretese di fedeltà alle proporzioni reali, senza implicare, per questo, che, complessivamente, tali opere risultino più « realistiche » di altre: si veda la fedeltà alla geometria e ai rapporti spa22 ziali « reali » nelle opere di Piero della Francesca e i relativi


risultati che, paradossalmente, hanno fatto parlare molta cri­ tica di « idealismo» e di « astrazione» pierfrancescani). Quindi anche quando vediamo un tavolo, un trono, un fonte battesimale, ecc. rappresentati in una scena non figura­ ta, intuitivamente confrontiamo le misure degli elementi che Ii costituiscono, con le debite riduzioni, a misure appartenenti a modelli, depositati nella nostra memoria, di oggetti della nostra esperienza, incontrati nel mondo reale, i quali inclu­ dono, appunto, come marche morfologiche (ciascuna con la corrispondente marca semantica) elementi dotati di certe mi­ sure che corrispondono a quelle degli elementi che costitui­ scono gli oggetti del dipinto. Le marche semantiche di tali oggetti possono, come s'è visto, rinviarmi a funzioni fisiche e perciò anche a funzioni socio-antropologiche permesse da quegli oggetti; inoltre sulle funzioni socio-antropologiche pos­ sono appoggiarsi, connotativamente, altre funzioni seconde: ad esempio, se la distanza lineare di quarantacinque-settanta­ cinque centimetri denota una funzione fisica per la quale, se­ condo Hall ro, posso entrare in rapporti con qualcuno «me­ diante le estremità» e posso vedere la testura della sua su­ perficie epidermica in maniera chiara e precisa, successiva­ mente, la distanza e la funzione fisica insieme significheranno la funzione socio-antropologica « distanza personale-fase di vicinanza»; questa ultima potrà, a sua volta, connotare «ami­ cizia», «familiarità», «confidenza», «dimestichezza», ecc, in base ad altre convenzioni culturali. In conclusione, in un dipinto, sia che i personaggi rappre­ sentati mostrino di usare in vario modo lo spazio, sia che nello spazio appaiono soltanto oggetti architettonici che permet­ tono un certo uso dello spazio, la prospettiva in esso impie­ gata si propone di rendere, ridotti mediante artifici, i diversi rapporti spaziali, già pregni dei loro significati denotati e connotati a vari livelli. Essa potrebbe essere considerata come · un sistema connotativo rispetto ad altri sistemi ai quali si appoggia: pur combinando secondo le sue particolari regole e opposizioni i segni costitutivi di altri codici soggiacenti, la prospettiva persegue la resa, convenzionale, di significati già mediati da quelli. 23


Naturalmente l'analisi della prospettiva di un dipinto con­ creto non si accontenterebbe di cercare i codici prossemici, rispetto ai quali la prospettiva fungerebbe quasi da lessico 61, ma dovrebbe legare il fenomeno prospettico a tutti gli altri si­ stemi di segni su cui si regge il dipinto�: la prospettiva, tanto che la si voglia considerare un codice quanto che si preferi­ sca ritenerla un lessico connotativo di altri codici, si presenta sempre relazionata a codici iconici, a codici iconografici, a co­ dici tonali, a codici di gusto e di sensibilità, a codici stilistici, a codici dell'inconscio e così via. L'aggiunta di un codice pro­ spettico alla catalogazione dei vari codici visivi (per tale cata­ logazione vedasi Eco, 1968, pp. 145-148) è valida, tutt:lvia, li­ mitatamente all'esperienza artistica che va grosso modo dal Quattrocento alla «dissoluzione dello spazio plastico » e, inol­ tre, per disegni e progetti, anche odierni, che applichino an­ cor oggi la proiezione centrale. Per le opere anteriori o posteriori a tale delimitazione periodica non si parlerà di codice prospettico e, se per le opere anteriori si può genericamente parlare di codici o me­ glio di strutture della rappresentazione spaziale in senso lato, variabili di epoca in epoca in rapporto alle diverse Weltan­ schauungen (dallo «spazio curvo» degli antichi allo spazio de­ formato dai ribaltamenti sul piano dell'arte tardo-romana e paleocristiana e così via), per l'arte contemporanea non esiste, praticamente, una comune e generalmente condivisa struttura della rappresentazione spaziale, perché nell'opera degli artisti contemporanei, ormai coscienti che la rappresentazione spa­ ziale è una operazione di stile e, praticamente, per così dire, una' scelta ideologica ', lo spazio si configura in maniera ogni volta diversa a seconda della poetica che ciascuno si è creato o, comunque, cui ciascuno ha aderito: sarebbe quindi più appropriato parlare di idioletti spaziali, il che - ovviamen­ te - non implica che i fruitori non possano decodificare lo spazio implicato in quell'opera: se il fruitore infatti conosce la poetica dell'artista, potrà accedere alla decodifica di quel «linguaggio» [spaziale] parlato da un solo individuo. 24


3. Aspetti semiotici della prospettiva nell'architettura rinasci­ mentale Della prospettiva nella fase prearchitettonica o proget­ tuale abbiamo già detto - per quanto indirettamente - nel precedente paragrafo, ma i termini del problema sembrano al­ largarsi qualora ci si volga a considerare la realtà architetto­ nica e urbanistica in rapporto alla prospettiva. Data l'am­ piezza del problema, ci limiteremo semplicemente a qualche appunto sul rapporto fra la prospettiva e l'architettura e l'ur­ banistica rinascimentali. La prospettiva del Rinascimento, come si è visto, pre­ suppone uno spazio statico e ne organizza gli elementi entro uno schema matematicamente preordinato, in modo tale che tutto l'insieme possa essere guardato da un solo punto di vi­ sta, fisso ed immobile, tale da condizionare ed abituare l'os­ servatore a strutture compositive concettuali: come tale essa, a livello dei codici architettonici, mostra la sua maggiore pre­ gnanza funzionale limitatamente a quel codice particolare che presiede alla progettazione e quindi poi alla realizzazione di una città uniformemente e coerentemente rinascimentale, come quel caso rarissimo che è Palmanova. Nel tessuto di qualsiasi altra città si trovano, fra loro intrannodate, molte­ plici strutture, stratificatesi e sovrappostesi nel tempo, sicché « le immagini» della città si organizzano e sono lette, volta per volta, in maniera assai diversa e complessa 63• Per chi si pone ad osservare, da un punto di stazione, la prospettiva di una piazza o di una strada del Rinascimento, ben studiata negli effeti di organizzazione spaziale e nei rap­ porti fra gli oggetti della scena urbana sintagmaticamente relazionati fra loro, è tutto l'insieme ad agevolare l'intuizione di quei rapporti : mentre i marcapiani, i cornicioni, le varie quinte create dalle pareti degli edifici concorrono verso un punto finale che tuti gli elementi raccorda ed uni.fica, la scan­ sione esatta dei singoli elementi entro la piramide prospettica suggerisce l'esatta valutazione delle distanze degli oggetti rispetto all'osservatore e degli oggetti fra di loro, nonché la valutazione delle loro qualità geometriche e delle loro rispet-

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tive proporzioni rispetto alla scala umana, consentendo in tal modo di risalire alle loro misure oggettive. L'architettura include la terza dimensione, la quale, a dif­ ferenza della larghezza e dell'altezza, che sono immediata­ mente conosciute dall'occhio, richiederebbe, per esser real­ mente conosciuta, un'effettiva esperienza della sua entità ma­ teriale. Ma la terza dimensione, a partir dal Brunelleschi 64, appare esattamente calcolabile a trasferibile sul piano me­ diante mezzi matematico-geometrici, senza bisogno di speri­ mentare la reale profondità dello spazio. L'opera architetto­ nica nasce, ovviamente, dotata di tre dimensioni, la cui cono­ scenza effettiva e completa si attua in un'esperienza che è ottica e tattile insieme, ma tale conoscenza può risolversi nella percezione ottica quando l'architettura sia solo veduta: grazie alla prospettiva la terza dimensione può esser valutata con certezza anche senza esperirla direttamente, senza per­ correrla fisicamente o temporalmente, in quanto la prospet­ tiva riduce otticamente il fatto spaziale tridimensionale a fatto bidimensionale, il quale non ha valore di certezza cono­ scitiva se non per chi possieda effettivamente le regole del codice prospettico. La prospettiva dunque, come processo di convenzionalizzazione per la quale traduciamo sul quadro prospettico, quasi come in un'operazione di tipo metalingui­ stico, la tridimensionalità degli oggetti reali, e, in particolare, degli oggetti architettonici (che a loro volta costituiscono un sistema semiotico), una volta entrata a far parte dei nostri sistemi di attese, condiziona anche il codice percettivo; anzi si può dire che, a partire dal Brunelleschi, il codice prospet­ tico (che rinvia direttamente, come abbiamo visto, ad un co­ dice soggiacente, più generale, di tipo matematico-geometrico) diventa anche codice percettivo 65• Per questa identificazione, praticamente, di codice percettivo e di codice prospettico è lecito affermare che, per il caso-prospettiva, il modello geo­ metrico è al tempo stesso modello percettivo e che questo modello geometrico-percettivo è comune - in uguale ma­ niera - alla lettura di fatti artistici diversi, cioè tanto allo spazio rappresentativo grafico e pittorico quanto allo spazio, 26 ridotto a mera virtualità, della percezione soltanto 'ottica',


cioè a livello dell'immagine staticamente contemplata, dell'ar­ chitettura costruita. Infatti, nella prospettiva rinascimentale, che è poi anche la prospettiva classicistica in generale, vale, per dirla con E. Garroni, proprio la nozione di « spazio rap­ presentato », o, che è lo stesso, « formato secondo schemi e procedimenti » 65, nozione che si dimostra comune in questo caso, e in questo periodo particolare, all'architettura e alla pittura e alla scultura, cosicché un simile tipo di spazio non richiede necessariamente l'introduzione - da parte nostra di un « criterio specificatamente architettonico» per esser analizzato. (E si pensi alla riduzione, allora avvenuta, di tutte le arti - pittura, scultura, architettura - sotto il comune denominatore di « Arti del Disegno», poiché è proprio nel disegno che si risolve, per i trattatisti e per gli artisti del Ri­ nascimento, il valore ideale di ogni opera d'arte). Pertanto, anche per la prospettiva nell'architettura del Rinascimento, propenderemmo per il mantenimento del con­ cetto di codice prospettico quale si è da noi individuato per la fase progettuale dell'evento architettonico e delle opere d'arte figurativa in generale (secondo caso esaminato nel pa­ ragrafo 2.). t:. ovvio - ribadiamo - che questa interpretazione può accontentarci solo se si resta nell'ambito di una lettura cir­ constanziata della prospettiva rinascimentale, che in fondo non è che uno, e forse anche uno dei più limitati fra i molti problemi di semiotica architettonica; ma non ignoriamo - anche se ciò non investe direttamente il nostro settore di lavoro così da intaccarne, in qualche modo, i risultati - che, nel­ l'avanzare questa nostra ipotesi abbiamo in un certo senso emarginato due problemi collegati a quello del codice prospettico, cioè il problema di un'articolazione specificatamente ar­ chitettonica e, più a monte ancora, quello complementare, e, anzi, inclusivo del primo, riguardante l'individuazione di un segno specificatamente architettonico. Ma va chiarito che l'as­ senza di una nostra precisa presa di posizione a questo proposito è dettata, oltre che da ragioni pratiche di contenimento del nostro intervento entro certi limiti, soprattutto dall'esi­ genza di sventare qualsivoglia definizione dell'« essenza» e 27


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della «specificità» di ogni manifestazione artistica, ciò che è sempre, secondo noi, una questione, per così dire, fuori luogo, anche se sembra rispondere a una legittima istanza. Inoltre, essendo il modello geometrico pur sempre solo « un » modello possibile e tuttavia capace di cogliere la struttura architetto­ nica 67 in maniera adeguata e stringente, si giustifica, infine, anche la nostra definizione del codice prospettico, codice che si mostra adeguato, strutturalmente funzionale e quindi perti­ nente alla particolare struttura dell'arte e segnatamente del­ l'architettura del Rinascimento (e non è il caso di ripetere che matematica e geometria furono due cardini del codice umanistico e rinascimentale di ' lettura e interpretazione del mondo ' e che la nozione di spazio matematico ne fu un lo­ gico complemento). Se infatti possiamo non restar indifferenti alle polemiche di Zevi contro la riduzione dell'architettura alla geometria 68, nel caso dell'architettura che qui si sta esami­ nando, l'operazione criticamente più corretta è proprio quella di leggerla essenzialmente, anche se non esclusivamente, se­ condo modelli geometrici. Col che si conferma la necessità, sottolineata da Sergio Bettini, di un continuo controllo della funzionalità ed operatività del mio discorso in quanto stru­ mento dl critica 69, per evitare quanto più è possibile « sfasa­ menti», fraintendimenti delle opere prese in esame 70• � ben vero che lo spazio architettonico non si riduce alla geometria, ma è altrettanto vero che esso non si riduce allo spazio «interno», e se è vero che l'architettura è essenzial­ mente «spazio vissuto», essa è però anche spazio «veduto», anzi, nel Rinascimento gli architetti, dopo aver scoperto la na­ tura della terza dimensione e convinti di possedere completa­ mente, in tal modo le dimensioni dell'architettura (che include, invece, come sappiamo, anche la quarta dimensione ed anzi la supera nel «vissuto» dello spazio- reale), crearono un'archi­ tettura che rendesse con evidenza, a livello meramente « ot­ tico», cioè dell'architettura « veduta », 1a loro scoperta. Quindi per l'architettura, che - in ogni caso - mette in gioco nu­ merosi codici e non si riduce perciò a questo o a quel modello di lettura, spetterà al critico scegliere di volta in volta i modelli più adatti a « far parlare» meglio, cioè quanto più cor-


rettamente ed esaustivamente è possibile, i singoli fenomeni architettonici presi in esame e, fra i vari codici, compresenti in una stessa opera, porre l'accento su un codice piuttosto che su un altro, ricorrendo ad operazioni storico-filologiche che consentano il massimo di fedeltà interpretativa 71• Tornando alla prospettiva nell'architettura e nell'urbani­ stica, osserverò dunque che, da un punto di stazione tenuto fisso e mantenendo l'occhio immobile, il riguardante vede, scanditi in profondità, una serie di elementi aventi valore de­ notativo preciso ed espressivi delle plurivoche relazioni spa­ ziali appartenenti ai singoli elementi incatenati entro la strut­ tura prospettica. Possiamo quindi considerare anche la pro­ spettiva architettonica secondo l'ipotesi c) del primo caso dei codici visivi, cioè come un codice che comprende tanto ele­ menti di prima quanto elementi di seconda articolazione, per­ ché ogni elemento costitutivo del sistema prospettico possie­ de, sotto il profilo del codice strettamente prospettico, valore semantico, sebbene sotto il profilo del codice geometrico-per­ cettivo - inteso come supporto comune ai vari codici visivi lo stesso elemento possa essere considerato anche come tratto asemantico, di valore simile a quello dei fonemi della lingua verbale. Inoltre, poiché - come si è osservato - le distanze fra gli oggetti e le varie relazioni spaziali, cariche di valenze semantiche, studiate dalla prossemica, sono incluse, con le de­ bite riduzioni, nel quadro prospettico, sì che da esse siamo in grado di risalire, per rapporto alla scala umana, alle loro misure reali (cfr. l'ultima parte del paragrafo 3), si prova an­ cora una volta che la prospettiva non è in alcun modo e in alcuna sua parte una struttura geometrica di forme insignifi­ canti. I valori semantici di cui esse è mediatrice, messi in luce dall'analisi semiotica che ne tratta come studio di sua perti­ nenza, anziché restare confinati entro i termini dello specifico semiologico, possono esser offerti alla storia dell'arte e in par­ ticolare all'iconologia per ampliare o, almeno, per confermare ovvero smentire i diversi contributi esistenti sul fenomeno. 1 Per un'esauriente informazione bibliografica sugli studi relativi alla rappresentazione spaziale anteriori al Panofsky, si veda la nota

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di MARISA DAI.Al, La questione della prospettiva, nella traduzione italiana del testo panofsk.iano (E. PANOFSKY, La prospettiva come « forma sim­ bolica• e altri scritti, a cura di G. D. NERI, con una nota di M. DALAI, Milano, 1%1, 2• ed. 1%6}. 2 Si vedano, di A. RIEGL, Die spèitrèimische Kunstindustrie, Wien, Oesterreichisches Archaologisches Institut, 1901 (traduzioni it.: Firenze, Sansoni, 1953 e Torino, Einaudi, -1959) e anche Das lwlliindische Grup­ pen Portrèit, Wien, 19312 (pubblicato per la prima volta nel 1902). Nella prima traduzione italiana de L'industria artistica tardoromana va ri­ cordata l'importante nota introduttiva di Sergio Bettini, che delinea in maniera penetrante gli aspetti essenziali del pensiero riegliano, l'at­ tualità del cui insegnamento viene indicata, fra l'altro, anche nella defi­ nizione del concetto di spazio in rapporto alle diverse epoche. 3 Il Cassirer definì i caratteri dello spazio matematico, contrappo­ nendoli a quelli dello spazio percettivo, fin dal 1910, nel suo libro Substanzbegriff und Funktionsbegriff, Berlino, 1910 (specie nel c. III, paragrafo Spazio matematico e spazio sensibile}. Il materiale dell'Isti­ tuto « Warburg,. fu usato da Cassirer per alcune sezioni della sua Philosophie der symbolischen Formen, Oxford, 1923, dalla quale il Pa­ nofsky derivò direttamente la concezione della prospettiva come « for­ ma simbolica •· • E. PAN0FSKY, Die Perspektive als « symbolische Form •• « Vor­ trage der Bìbliothek Warburg •, 1924-25, Leipzig-Berlin, 1927. s Per sintetici, ma esaurienti ragguagli sulla questione della pro­ spettiva e relativa bibliografia rimandiamo alla nota dì M. DALAI, La questione della prospettiva, cit., ed inoltre alla rassegna della stessa M. EMILIANI DALAI, La questione della prospettiva 1960-1968, in «L'Arte•, n. 2, 1968, pp. 96-105. 6 A. M. G. LITILE, Scaenographia, in e The Art Bulletin•, XVIII, 1936 pp. 407 e segg.; Io., Perspective and Scene Painting, in « The Art Bulletin », XIX, 1937, pp. 478 e segg. 7 M. SCHILD BUNIM, Space in Mediaeval Painting and the Forerun­ ners of Perspective, Columbia Universìty, New York, 1940 (Tesi di lau­ rea). a J. WHITE, Developments in Renaissance perspective, in « Joumal of the Warburg and Courtauld Institute », 1949, XII, pp. 58 e sgg.; 1951, XIV, pp. 42 e sgg.; Io., Perspective in Ancient Drawing and Painting, in « Supplement of the Journal of the Hellenic Socìety », 1956; Io., The Birth and Rebirth of Pictorial Space, London, 1957. 9 P. FRANCASTEL, Espace génétique et espace plastique, in « Revue d'Esthétique », IV, 1948, pp. 349-380; Io., Peinture et société. Naissance et déstrnction d'un espace plastique. De la Renaissance au Cubisme, Lyon, Audin, 1951 (ed. it., Lo spazio figurativo dal Rinascimento al Cu­ bismo, Torino, Einaudi, 1957}. 10 Si vedano soprattutto: D. GrosEFFI, Perspectiva Artificialis • Per la Storia della Prospettiva • Spigolature e appunti, Trieste, Ist. di Sto­ ria dell'Arte Antica e Moderna, 1957; Io., Complementi di Prospettiva, in « Critica d'Arte», XXIV, 1957, pp. 468-488; Ibidem, XXV-XXVI, 1958, pp. 102-139; Io., voce 'Prospettiva' in « Enciclopedia Universale dell'Arte•, voi. XI, Firenze, 1%3. 11 Si vedano La questione della prospettiva, nota in calce al testo del Panofsky, cit., ed. it., 19662, e Art. cit., 1968. 12 M. EMILIANI DAI.AI, Art. cit., 1968. Londo�, u C. K. ODGEN e I. A. RICHARDS, The Meaning of Mea�in�. Routledge & Kegan Paul, 1923 (tr. it., Il significato del significato, Mi­ lano, Il Saggiatore, 1966).


14 U. Eco, La struttura assente, Milano, Bompiani, 1968, p. 34. 15 U. Eco, La struttura assente, cit., 1968, particolarmente le pp. 107148; ID., Sémiologie des messages visuels, in «Communication "• n. 15, 1970, pp. 11-51; ID., lntroduction to a semiotics of iconic signs, in «VS», n. 2, 1972, pp. 1-15. Sulle nozioni di segno iconico si vedano inoltre: Contributi sui segni iconici (con interventi di U. VOLLI, D. OsMoND-SMITH, F. CASSETTI, A. FARASSIN0, G. BET'll!TINI, M. BENSll), in «VS», n. 3, 1972, pp. 13-63; M. KRAMPEN, lconic signs, supersigns and models, in «VS», n. 4, 1973, pp. 101-108; infine, in sede di analisi applicativa, E. CRESTI, Oppositions iconiques dans une image de bande dessinée reproduite par Lichtenstein, in « VS », n. 2, 1972, pp. 41-62. 16 Si vedano, ad esempio, il famoso libro di R. ARNHEIM, Art and Visual Perception. A Psychology of the Creative Eye, University of Ca­ lifornia Press, Berkeley and Los Angeles, 1954 (tr. it., L'Arte e la perce­ zione visiva, Milano, Feltrinelli, 1962); e soprattutto l'altrettanto famoso libro di E. H. GoMBRICH, Art and lllusion. A Study in the Psychology of Pictorial Representation, Trustes of the National Gallery of Art, Wa­ shington, 1959 (tr. it., Arte e illusione, Torino, Einaudi, 1965, pp. 348349). 11 C. M0RRIS, Segni, linguaggio e comportamento, Milano, Longanesi, 1949, p. 257 (titolo originale: Signs, Language and Behavior, New York, Prentice Hall, 1946). 1s U. Eco, Op. cit., 1968, p. 121. 19 Ibidem, p. 111. 20 Sulla natura transazionale della percezione si vedano AA.W., La psicologia transazionale, Milano, Bompiani, 1967; AA.VV., La perception, Paris, P.U.F., 1955; ANGIOLA MASUCC0 CoSTA, li contributo della psicolo­ gia transazionale all'estetica, in «Atti del III Congresso Int. di Est.•• Venezia, 1956; J. PIAGET, Les mécanismes perceptifs, Paris, P.U.F., 1961, U. Eco, Modelli e strutture, in « Il Verri», 20, 1966. 21 I due diversi modi di considerare la percezione, rispettivamente da parte della teoria della forma e da parte della teoria transazionista, sono sinteticamente messi a confronto e discussi in maniera persuasiva da U. Eco nelle sezioni Informazione e transazione psicologica, Transa­ zione e apertura e Informazione e percezione di Opera aperta, Milano, Bompiani, pp. 122-143 (1• ed. 1962). 22 Si vedano soprattutto: M. MERLEAu-PoNTY, La structure du com­ portement, Paris, P.U.F., 1942 (tr. it., La struttura del comportamento, Milano, Bompiani, 1963); ID., Phénoménologie de la perception, Paris, Gallimard, 1945 (tr. it., Fenomenologia della percezione, Milano, Il Sag­ giatore, 1965); ID., Signes, Paris, Gallimard, 1960 (tr. it., Segni, Milano, Il Saggiatore, 1967). Inoltre si vedano: E. HussERL, Meditazioni cartesiane, Milano, Bompiani, 1950; ID., ldeen zu einer reinen Phiinomenologie und phiinomenologischen Philosophie, Den Haag, M. Nijhoff, 1965 (tr. it., Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, Torino, Einaudi, 1965); J. P. SARTRE, L'etre et le néant, Paris, Gallimard, 1940 (tr. it., L'essere e il nulla, Milano, Il Saggiatore, 1958). 23 J. PIAGET, Op. cit., 1961; ID., L'épistémologie génétique, Paris, P.U. F., 1970 (tr. it., L'epistemologia genetica, Bari, Laterza, 1971). 24 J. J. GIBS0N, Tlze Perception of the Visual World, Boston, Hough­ ton Mifllin, 1950; ID., Pictures, Perspective and Perception, in «Daeda­ lus "• inverno 1960; ID., Ecological Optics, in «Vision Research», voi. I, 1961, pp. 253-262; ID., Observations on Active Touch, in « Psychological Review •• voi. 69, n. 6, 1962, pp. 447-491. 25 E. T. HAU.., The hidden dimension, New York, Doubleday & Co.,

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1966 (tr. it., La dimensione nascosta, Milano, Bompiani, 1968), p. 238 del­ l'ed. it. 26 Per un'impostazione generale dei problemi relativi ai rapporti fra analisi iconologica e analisi semiologica, si veda, come prima lettura, M. TAFURI, Teoria e storia dell'architettura, Bari, Laterza, 1968; 2• ed., 1970 (Cap. V - Gli strumenti della critica); più specifico, invece, il sag­ gio di R. DE Fusco, Storia e struttura, E.S.I., Napoli, 1970 (Cap. IV -

Storicismo e strutturalismo). 21 U. Eco, Op. cit., 1968, p. 95. 2ll Usiamo il termine denotazione per indicare « un rapporto diretto e univoco rigidamente fissato dal codice», mentre « il rapporto di con­ notazione si pone quando una coppia formata dal significante e dal si­

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gnificato denotato diventano insieme il significante di un significato ag­ giunto»; le definizioni sono tratte da U. Eco, Op. cit., 1968, p. 37; per le definizione dei termini si veda anche ID., Segno, Milano, ISEDI, 1973, pp. 152-153. 29 Osserva UMBERTO Eco: « L'apparato segnico rinvia all'apparato ideologico e viceversa, e la semiologia, come scienza del rapporto tra codici e messaggi, diventa al tempo stesso l'attività di identificazione continua delle ideologie». (Op. cit., 1968, pp. 34-95). .lO E. PAN0FSKY, Iconografia e iconologia. Introduzione allo studio dell'arte nel Rinascimento, in li significato delle arti visive, Einaudi, To­ rino, 1962, p. 31. 31 Infatti il lessico iconologico si appoggia connotativamente al co­ dice iconografico (più analitico del codice iconologico) e al codice ico­ nico (a sua volta più analitico del codice iconografico), in quanto « un lessico connotativo assegna altri valori ai significati del codice denota­ tivo soggiacente, ma accetta le regole di articolazione previste da que­ sto» (U. Eco, Op. cit., 1968, p. 50): cosicché, a livello puramente icono­ grafico, l'analisi si limita al campo dei codici denotativi, con le loro regole di combinazione dei simboli che costituiscono, in un sistema di differenze e opposizioni, i codici dati, ma quando l'analisi si sposta a livello iconologico, si sposta oltre i codici iconografici e i codici iconici (nel senso di Eco, Op. cit., 1968, pp. 143-144 e pp. 146-147), che, con le loro regole di articolazione, costituiscono il supporto per l'ulteriore let­ tura (iconologica) di codici connotativi delle idee, dei valori filosofici, religiosi, culturali o, in altri termini, connotativi delle ideologie di un certo periodo in una certa nazione. l2 Le accezioni recenti e remote dei termini segno e simbolo rico­ prono un'area di interessi estremamente ampia e, nelle correnti del pen­ siero contemporaneo, sono particolarmente studiate nel campo semio­ tico e in quello psicoanalitico. Per il campo semiotico rimandiamo a F. DE SAUSSURE, Cours de linguistique générale, Paris, Payots, 1922 (ed. it., Corso di linguistica generale, Bari, Laterza, 1967, 2• ed., 1968), a C. S. PEIRCE, Collected Papers, Cambridge, Harvard Un. Press, 1931-1935, a C. K. ODGEN e I. A. RxcHARDS, Op. cit., a R. BARTHES, Eléments de sé­ miologie, in « Communications », n. 4, 1964, (tr. it., Elementi di semiolo­ gia, Torino, Einaudi, 1966), e così via: insomma, praticamente, a tutti - o quasi - i principali testi di semiotica; per la nozione di simbolo nel campo particolarmente psicanalitico, �i rinvi�, inve �e, all'altrettanto nota bibliografia da Freud a Lacan (Ecnts, Pans, Seui!, 1966). Per una prima informazi�ne, sintetica e pr<:<= !sa, s� ve�a? o i�oltre le voci 'Se­ _ gno ' e • Simbolo ' in A. LAI.ANDE, D1zwnano critico d1 filosofia, Milano, ISEDI, 1971, la voce • symbolique' in J. LAPLANCH� et J. B. P0NTAUS, Vo­ cabulaire de la psycanalyse, Paris, P. �.F-, 1967 e, infine, T. LLORENs, Note di terminologia semiotica, in « Op. c1t. », n. 24, 1972, pp. 16 23.


33 U. Eco, Le forme del contenuto, Milano, Bompiani, 1971, p. 8. 34 Per un primo approccio a concetti e problemi collegati al bino­ mio Lingua/Parola si leggano: F. DE SAUSSURE, Op. cit.,; A. MARTINET, Elements de li11guistique générale, Paris, Colin, 1960 (ed. it., Elementi di linguistica generale, Bari, Laterza, 1966; 2• ed., 1967), specialmente Cap. I; R. B,\RTHES, Op. cit. (specialmente pp. 17-25 dell'ed. it.). 35 La nuova esperienza dello spazio del Quattrocento, come tendenza maturata gradatamente attraverso il precedente tessuto culturale e le ricerche pittoriche specialmente del Trecento è stata studiata soprat­ tutto da G. K.ERN nel saggio Die Anfange der zentralperspektivischen Konstruktion in der italianischen Malerei des XIV Jahrhunderts, in • Mitteilungen des Kunsthist. Institutes in Florenz•, 1912, pp. 39-75, e, in seguito, sulle linee obbozzate da Panofsky, dalla BuNIM (Tesi cit.) e da J. WHITE (articoli cit.) ed infine da A. PARRONCHI in alcuni saggi nel volume· Studi su la dolce prospettiva, Milano, Martello, 1964. Utile per la conoscenza dei testi di Ottica medioevale, indubbiamente da colle­ garsi all'origine della perspectiva artificia/is del Quattrocento, è anche il libro di G. FEDERICI VESCOVINI , Studi sulla prospettiva medievale, To­ rino, Giappichelli, 1965. 36 L. HJELMSLEV, Prolegomena to a Theory of Language, University of Wisconsin, 1961 (ed. it., Fondamenti della teoria del linguaggio, Tori­ no, Einaudi,1968; 2• ed. 1970), p. 128 dell'ed. it. 37 R. DE Fusco, li codice dell'architettura. Antologia dei trattatisti, Napoli, E.S.I., 1968. 38 Si vedano: A. PARRONCHI, Leon Battista A/berti pittore, in Studi su la dolce prospettiva, cit., pp. 437-466 e F. ZERI, Due dipinti, la filo­ logia e un nome. li Maestro delle Tavole Barberini, Torino, Einaudi, 1961. J9 Si veda la puntuale analisi di F. CASAUNI, Corrispondenze tra teoria e pratica nell'opera di Piero della Francesca, in •L'Arte•, n. 2, 1968, pp. 62-95. "° « Definiamo paradigmatica un'opera che, dotala di alto valore espressivo o comunque artisticamente rinnovatrice ed emergente, tra­ sforma violentemente il precedente codice fino ad instaurare con la sua influenza, con il suo imporsi come paradigma o modello, un nuovo stile». Sono emblematiche le opere che « invece di smentire o porre in crisi il codice, la confermano, lo riflettono, esplicitano ed incarnano lo stile della propria epoca; detto diversamente, tali opere si pongono al­ l'interno della dialettica codice/messaggio non per mutare il primo ter­ mine, ma per fissarlo e riassumerlo• (R. DE Fusco, Segni, storia e pro­ getto dell'architettura, Bari, Laterza, 1973, p. 195). 41 Per un primo approccio ai problemi delle logotecniche si veda R. BARTIIES, Op. cit., pp. 31-32 della tr. cit. 42 Per la distinzione dei codici artistici, e in particolare dei codici architettonici, in codici fondamentali, codici derivati e sottocodici, e per il concetto di Classicismo come codice fondamentale, si veda M. TAFURI, Op. cit., p. 251. 43 Ci si riferisce alla classificazione dei codici visivi già proposta da U. Eco in Op. cit., 1968, pp. 145-148. 44 LUIS PRIETO, Messages et signaux, Paris, P.U.F., 1966 (ed. it., Li­ neamenti di semiologia. Messaggi e segnali, Bari, Laterza, 1971). 45 Si vedano in particolare: U. Eco, Op. cit., 1968; Io., Art. cii., 1970, pp. 31-35. 46 U. Eco, Op. cit., 1968, p. 146. � Ibidem, p. 146. 33 48 R. DE Fusco, Op. cit., 1973, p. 121.


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50 Per queste definizioni e per i principali concetti della prospettiva centrale si veda la voce 'Prospettiva ' dell'Enciclopedia Italiana, a cura di A. FRAJESE, voi. 28. s1 Cioè siamo in presenza di un codice con la sola prima articola­ zione, come nell'esempio dei segnali stradali a sema decomponibile in segni comuni ad altri segnali (U. Eco, Op. cit., 1%8, p. 139 e Op. cit., 1973, pp. 87-88). Vogliamo incidentalmente osservare, a proposito del­ l'esempio di Eco, che i codici dei segnali stradali si appoggiano a codici più generali, quali i codici geometrici e i codici iconici che, con le loro regole di combinazione, rendono possibile il riconoscimento ad es., del segno « bordo rosso" e del segno « bicicletta "• i quali poi, per via, si può dire, di connotazione, significano « divieto ai ciclisti " rispetto ad un certo codice stradale aggiunto). 52 Infatti, se i segmenti, le curve, ecc. cioè gli elementi della geome­ tria, sono portatori di segno nel contesto-prospettiva, essi coincidono però anche con i tratti discreti, non ulteriormente divisibili, che ogni rappresentazione, per potersi realizzare, deve attingere da un comune codice geometrico-percettivo sotteso ai vari codici figurativi. Osserva infatti Hjelmslev in sede linguistica - e il parallelismo fra gli elementi semantici ed asemantici della lingua verbale e quelli visivi ci sembra, in questo caso, opportuno per suffragare ed illustrare il concetto da noi testé sostenuto -: « da un certo punto di vista la i finale di grand­ issim-i è un'espressione di segno, da un altro punto di vista esso è un fonema. I due punti di vista portano a conoscere due oggetti diversi. Possiamo conservare la formulazione secondo cui l'espressione di segno i comprende un solo fonema., ma questo non equivale ad identificare l'espressione di segno col fonema; il fonema i entra in altre combina­ zioni, in cui non è espressione di segno, per esempio nella parola ti1·are "· (L. H.JELMSLEV, Op. cit., ed. it., 1970, p. 50). 53 M. BENSE, Semiotica della fonna e dei colori. li problema del linguaggio visivo, in «VS», n. 3, 1972, p. 60 (tr. di Ugo Volli di un ca­ pitolo del libro di M. BENSE, Zeichen und design. Semiotische .ìi.sthetik, Baden-Baden, Agis Verlag, 1971). 54 Ibidem, p. 61. ss U. Eco, Segno, cit., p. 57. S6 Ibidem, p. 55. ST Per la prossemica si vedano, in particolare E. T. HALL, The silent language, New York, Doubleday & Co., 1959 (tr. it., li linguaggio silen­ zioso, Milano, Bompiani, 1969); Io., A System for the Notation of Proxe­ mic Eel;avior, in « American Anthropologist », n. 65, 1963 (tr. it., in «VS», n. 2, 1972); Io., The Hidden Dimension, cit.; Io., Proxemics (con commenti di R. Birdwhistell, R. Diebold, Dell Hymes, Weston La Barre, G. L. Trager e altri), in e Current Anthropology », n. 9, 1968 (tr. it. in e VS"• n. 2, 1972); inoltre: P. FABBRI, Considerations sur la proxemique, in « Langages •, n. 10, 1968; V. GANGEMI, La prossemica: un nuovo ap­ porto all'architettura, in « Op. cit., », n. 14, 1969; O. M. WATSON, Proxemic Behavior, The Hague, Mouton, 1970 (ed. it., li comportamento prosse­ mica, Milano, Bompiani, 1972). 58 U. Eco, Op. cit., pp. 55-56. S9 La concezione dell'oggetto fisico, e in particolare dell'oggetto ar­ chitettonico, come inclusivo di marche semantiche, studiate dalla pros­ semica e dalla socio-antropologia, appare nel saggio di U. Eco, Analisi componenziale di un segno architettonico, cit., con il titolo Per una analisi semantica dei segni architettonici, pp. 157-179). 60 E. T. HALL, Op. cit., 1966, pp. 150-151 dell'ed. it. 1969.


61 Per la definizione di lessico si rinvia ad U. Eco, Op. cit., 1968, p. 50 (riportata nella nota 31 di questo stesso saggio). 62 Un esempio di lettura di questo tipo è quella condotta da Jl!AN Lou1s SCHEFER in Scénographie d'un tableau, Seuil, Paris, 1969. Segna­ liamo in particolare l'analisi de La partita a scacchi di Paris Bordone perché vi è ampiamente trattata la prospettiva, relazionandola costante­ mente agli altri sistemi segnici del quadro. Tuttavia dobbiamo anche precisare che, personalmente, non condividiamo né i presupposti dello Schefer (ciò che non accettiamo è la sua quasi paradossale tesi di partenza che la pittura non sia un sistema comunicativo al pari della lingua, e che, tuttavia, sia analizzabile in termini semiotici, come si­ stema) né, quindi, parecchie delle conclusioni cui perviene. Un'ottima recensione del libro dello Schefer è quella di Lou1s M,\RIN, apparsa in « Critique », novembre 1969, con il titolo di Le discours de la figure. Inoltre sulle tesi di Schefer si veda S. BEITINI, Lezioni di Storia della Critica d'Arte, A.A. 1969-70, Istituto di St. dell'Arte dell'Un. di Padova (dispense ciclostilate). 63 Per il problema della formazione dell'immagine ambientale e, collegatamente, per quello dell'esperienza percettiva dello spazio urba­ no, occorrerebbe un'analisi la cui vastità non ci consente di trattarne nelle note in calce di questo lavoro. Ci limitiamo, pertanto, ad una sola indicazione bibliografica, quella del fondamentale testo di KEvIN LYNCH, The image of tlze city, Cambridge, The MIT Press and Harvard Un. Press., 1960 (tr. it., L'immagine della città, Padova, Marsilio, 1964). Alla possibilità, invece, di costruire una semiotica della città, già nel 1967, aveva dedicato un breve ma stimolante saggio R. BARTHES (Semiologia e urbanistica, in « Op. cit.», n. 10, 1967, pp. 7-17); in esso, come si ri• corderà, Barthes aveva dimostrato di apprezzare parecchie feconde pro­ poste contenute nelle analisi di Lynch, ma, a ragione, aveva criticato negativamente il fatto che « malgrado il vocabolario, Lynch abbia della città una concezione che resta più gestaltica che strutturale"· Nello stesso 1967 usciva anche l'interessante articolo di F. CHOAY, Sémiolo­ gie et urbanisme, in « Architecture d'aujourd'hui•, n. 132. 61 Per la « riforma della visione spaziale• operata dal Brunelleschi si veda, in particolare, E. LUPORINI, Brunelleschi. Forma e ragione. Ed. di Comunità, 1964. 65 Per convenzioni della rappresentazione che instaurano i cosid­ detti « campi percettivi», si veda Sez. B cap. I, pp. 117-120 di U. Eco, Op. cit., 1968. 66 E. GARRONI, Progetto di semiotica, Bari, Laterza, 1972, p. 93 (sullo stesso argomento: ID., Semiotica e architettura. Alcuni problemi teo­ rico-applicativi, in « Op. cit.•• 1970, n. 18, pp. 5-33). 61

Ibidem, p. 94.

68 Si veda soprattutto: B. ZEVI, Verso una semiologia architettonica, in « L'Architettura cronaca e storia•• n. 47, anno XIII, gennaio 1968. fH S. BETTINI, Critica semantica e continuità storica dell'architettura europea, in e Zodiac•• n. 2, 1958, p. 7 e segg., saggio che precorre di una quindicina d'anni i dibattiti odierni. 10 Per il problema del fraintendimento dei significati che l'architet­ tura, in particolare, può subire nel corso storico si veda U. Eco, Op. cit., 1968., e soprattutto la distinzione, da questi introdotta, tra funzioni pri­ me e funzioni seconde (nella Sez. C: La funzione e il segno, pp. 189-249). 71 Sull'opportunità di un e atteggiamento operazionistico "• cioè ela­ stico e al tempo stesso 'orientato ', nell'uso dei « modelli strutturali•• si veda ancora U. Eco, Op. cit., 1968, in particolare pp. 371-374 e pp. 379380.

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Elementi di una tendenza del l'architettura italiana F. DOMENICO MOCCIA - ITALO FERRAR:>

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L'architettura intesa come fatto permanente, collettivo, costituisce una sequenza nel tempo che nel procedere acqui­ sisce e trasmette ciò che definisce. Dalla necessità di trasmet­ tere i principi dell'archltettura nasce la necessità di una teoria della progettazione, intesa come sforzo di fissare alcune operazioni fondamentali, in relazione all'analisi urbana, allo studio tipologico, all'analisi formale all'interno di un discorso di tendenza. Rispetto a questa questione, oggi si fronteggiano due atteggiamenti: il primo, favorevole alla definizione di una teoria della progettazione considerata come momento di una teoria dell'architetura, guarda all'architettura come fatto auto­ nomo di tecnica e di cultura, alla città come oggetto di una scienza urbana e indica nella rifondazione disciplinare il mezzo per il superamento dell'attuale situazione. Vanno con- . siderate interne a questo atteggiamento, che si configura come una tendenza, anche quelle posizioni che, pur non condivi­ dendo alcune questioni e abbracciando indirizzi particolari, storico-critici, linguistici ecc., sono favorevoli ad una orga­ nizzazione esatta della progettazione. Delega interdisciplinare, professionalismo, utopia caratterizzano come filoni portanti l'altro atteggiamento che Nino Dardi definisce efficacemente l'internazionale del pittoresco. Esso raggruppa i derivati se ­ condi dell'espressionismo e del costruttivismo, le proposte di Sacripanti e le aggregazioni di Moshe Safdle, i plasticismi di Michelucci e le capanne di Scharoun, le architetture pop degli


Archigram, le piastre intarsiate di Candilis e i geometrismf di Venturi, le strutture di Frei Otto, gli anamorfismf di Paolo Soleri, le costruzioni di Gunnar Bickerts, le capsule spaziali di St. Florian, sulla base di valutazioni ottico-percettive e riduce inevitabilmente l'esperienza dell'architettura ad una serie di preconcetti formali nei quali la libertà apparente del gesto è in realtà chiusura entro scelte non motivate 1• Su alcune questioni di fondo differentemente affrontate trovano le loro radici i due atteggiamenti che abbiamo indicato come fonda­ mentali. Per il primo il Movimento Moderno viene inteso come un periodo storico da cui ereditare quanto vi è di posi­ tivo, ma da sottoporre ad un bilancio critico. Per il secondo spesso è un dogma che significa talvolta assunzione del me­ todo empirico e rifiuto della teoria, talvolta identificazione di razionalismo e funzionalismo. La critica dei primi al prer fessionalismo si deve intendere critica alla spaccatura tra attività pratica e ricerca teorica. Sulla questione della inter-· disciplinarietà, alcuni hanno visto in essa un alibi per delegare ad altre discipline la soluzione dei problemi dell'architettura, fino ad arrivare talvolta a negare ogni sua autonomia, altri invece hanno diretto i loro sforzi alla comprensione dell'ap­ porto che nuove realtà, nuove discipline potevano fornire ad una chiarificazione dei problemi della progettazione senza mai perdere di vista lo specifico architettonico. Nella presente rassegna ci occuperemo delle posizioni di alcuni architetti italiani, dal dopoguerra ad oggi, che hanno lavorato per una teoria della progettazione. Il discorso che qui vogliamo fare si pone oggi con una sua centralità ed è importante notare come alla sua costruzione abbiano con­ corso fatti ed esperienze condotti prevalentemente nelle Fa­ coltà di Architettura, per cui i momenti più significativi della sua genesi li abbiamo ricercati nell'attività didattica o nelle posizioni di quegli architetti che hanno considerato cosa fondamentale la trasmissione dell'esperienza dell'architettura. E. N. Rogers, visto da qualcuno come esponente di una metodologia empirica, modificò gradatamente il suo giudizio su alcune questioni come la diffidenza verso l'esigenza di regole per la progettazione e l'adozione di un insegnamento 37


basato sulla disponibilità al dialogo continuo. Era ferma in lui la convinzione della autonomia dell'architettura: la cultura di un architetto deve essere la più complessa possibile, ma · ogni apporto culturale ha significato concreto soltanto se si traduce nel fenomeno architettonico Il quale riduce le diverse leggi alla sua propria legge 2• Rogers diceva che non si può in­ segnare l'arte ma solo Il metodo e Il mestiere 3, ma non per questo aveva una concezione individualistica del fare archi­ tettonico; ciò si può capire da queste parole, in cui il pro­ blema della trasmissibilità dell'esperienza e quello della lotta contro il soggettivismo nella progettazione appaiono molto chiari: noi crediamo che non basti all'architetto il costruire ma sentiamo il bisogno di dire, di esprimere, con la sintesi dell'opera nostra, oltre che la vita contingente il pensiero e il carattere dell'epoca attuale. E poiché per dire occorre un linguaggio Intellegibile ai più, cl slamo messi di buon accordo Insieme a cercare la strada maestra nel labirinto dell'arte. La personalità individuale non cl interessa tanto, ci preoccupa assai più la personalità dell'opera. Poco cl im­ porta se si dice che un edificio « è del tale » o « è del talaltro » se il monumento non comunica la propria anima. Una casa ba da essere prima di tutto casa, e meno interessa se sia mia o tua... Dopo le esperienze romantiche estremamente soggettive, è tempo, se non si voglia ricadere In una pericolosa Babele, che le parole dei singoli si organizzino In lingua viva e comune•. Molto utile la lettura di uno scritto di Giuseppe Samonà del '47 sull'insegnamento della progettazione: ho concluso che oggi... fosse assai utile Instaurare un metodo di studio... che venisse Incontro con molta maggiore efficacia al bisogno pe­ renne della fantasia creatrice di cercare del concreti limiti, per oggettivarsi In rappresentazioni spaziali di architettura, riducendo la ricerca plastica entro un cerchio di possibilità sufficiente a determinarla come espressione 5• Su questa posi­ zione Samonà costruisce una visione molto chiara, per quegli anni, del rapporto intercorrente tra analisi e progetto: la ri­ cerca dei dati generali - egli dice - non è che il primo passo 38 per la progettazione di un edificio moderno, la parte più


viva, più delicata e più difficile consiste nel riportare questi dati generali entro gli elementi del progetto, quando questi siano stati individuati con meticoloso attentissimo esame; e consiste infine, nella operazione più difficile che è l'analisi di tutti questi elementi individuati, visti alla luce dei com­ plessi valori umani, che solo un senso critico controllatissimo può scoprire, e che, una volta fissati vivificheranno gli ele­ menti concreti del tema, trasformandoli in una sensibile realtà capace di far determinare quella sintesi che conduce alla definitiva progettazione 6• Questa riflessione ha il merito di tracciare un rapporto quasi diretto tra risultati dell'analisi e progettazione architettonica, di battersi contro l'approssi­ mazione e il formalismo nello studio e nella progettazione. Riferendosi allo studio dell'architettura egli lo definisce: un fatto empirico, che presuppone un metodo, una logica, o me­ glio una serie di processi logici, ... Bisogna però intendere che lo studio dell'architettura contemporanea in una scuola deve svolgersi con progetti che siano definitivi, minuti, analitici, in­ finitamente dettagliati 7• Risulta evidente un salto di qualità: analisi e progetto non appaiono più prevalentemente come due fasi distinte del processo cli progettazione, una oggettiva e l'altra intuitiva, fantastica; ma l'analiticità è indicata come una qualità del progetto, quasi una proprietà della buona ar­ chitettura. Questa questione espressa da molti ha in Grassi lo stu­ dioso più attento: la caratteristica analitica dell'architettura può essere vista come un aspetto di essa relativo al problema della conoscenza, può essere intesa cioè come un mezzo della conoscenza; oppure può essere riconosciuta come un prin­ cipio dell'architettura, può essere assunta come il principio fondamentale di essa: l'analiticità in questo caso è l'espres­ sione della struttura logica stessa dell'architettura 8• In realtà se si guarda alla complessità degli studi affrontati da Grassi a molti anni di distanza dalle parole di Samonà ci si rende conto dell'importanza di quelle affermazioni nella polemica odierna tra teoria e rifiuto della teoria. A. Rossi toglierà ogni ambiguità al problema del rapporto analisi-progetto affer-

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mando: Ricerca e progetto devono essere strettamente uniti in un'unica formulazione architettonica 9• Intorno agli anni '60 vengono a maturazione alcune que­ stioni specifiche, che preparano la crisi delle ipotesi empiri­ che del Movimento Moderno nei suoi vari aspetti; su di esse si formeranno quelle condizioni nuove che daranno avvio, dopo il '64-'65 alla linea della rifondazione disciplinare del­ l'architettura e del suo insegnamento. Riteniamo si possano indicare in tre avvenimenti di quegli anni i segni evidenti dt questa crisi: il libro di G. Samonà L'urbanistica e l'avvenire della città 10; il Concorso CEP alle Barene di San Giuliano a Mestre 11; il « Corso sperimentale di preparazione urbani­ stica,. tenuto ad Areu.o sotto la direzione di L. Quaroni 12• Il libro di G. Samonà apre la strada ad un nuovo modo di conce­ pire la città e gli studi urbani. La città è guardata nella sua concretezza storica, nel suo essere luogo di stratificazione e di trasformazione dell'architettura, senza idealismo ma nella concreta dialettica tra permanenze e mutamenti. In questo periodo Quaroni influisce sulla scuola non per la sua produ­ zione teorica ma piuttosto per la sua produzione progettuale; del resto ciò caratterizza in generale questi anni. In realtà Quaroni ha sempre guardato alla città in modo originale ed i suoi scritti su « Comunità » possono a ragione essere consi­ derati i precedenti per il libro di Samonà: Nell'organismo della città i monumenti sono i punti di maggiore coagula­ zione della materia vivente che i secoli vi hanno stratificato ... Tutto fa la città, tutto è la città: è una architettura totale, che non è solo quella delle chiese e dei palazzi; c'è uno spazio della città; c'è un ordine, una scala, una proporzione, una di­ mensione, un ritmo per ogni città u. Ma il filo che va da Qua­ roni a Samonà troverà il suo più reale interprete in A. Rossi nel suo libro del '66 L'architettura della città. Quanto alla questione dei progetti di quartiere, Samonà, qualche anno prima, così si era espresso: Poiché la scuola deve proporsi il compito di procedere oltre nel cammino della civiltà, facendo ricerche originali e feconde, quale tema può essere per lei più originale e fecondo di questa ricerca 40 di relazioni fra case? 14• La critica che Samonà fa all'urba-


nistica è quella di aver prodotto una spaccatura tra « il pia­ no» inteso nei termini generali dei problemi della viabilità, del verde, delle attrezzature e via dicendo e il momento del­ l'architettura, quello della costruzione delle « case» intese in senso lato. Così egli propone di affrontare il tema delle· re­ lazioni fra le case: considerando il complesso di case come una sola casa, e l'esterno come l'interno... Certo, la scuola non può studiare un progetto di città, ma un quartiere resi­ denziale può studiarlo, un quartiere che sia per esempio li• mitato a due o trecento famiglie 15• La progettazione del quar­ tiere è vista proprio come possibilità per la scuola di supe­ rare la dicotomia che si andava delineando tra architettura e urbanistica. In realtà da allora quella per l'unità tra archi­ tettura e urbanistica diverrà una tendenza culturale, con molti aspetti positivi per quanto si riferisce alla difesa del­ l'architettura che sempre più veniva abbandonata a favore di studi extra e poi interdisciplinari. L'importanza del progetto di Mestre consiste nel tenta­ tivo di Quaroni di trovare una nuova qualità urbana. Egli, di fronte a mutamenti che appaiono ampi, alla tecnologia che appare capace di ogni mutamento della realtà e alla introdu­ zione di innumerevoli nuovi parametri nel fare architetto­ nico, affronta il tema del controllo archltettonico in un pro­ getto urbano e quello del rapporto tra il nuovo progetto e l'altissimo livello formale del concreto campo morfologico. In un saggio di poco successivo al progetto scrive: Ma non dobbiamo soltanto preoccuparci di raggiungere il controllo dell'industria e di realizzare Il controllo interno dell'organiz­ zazione di progettazione progettuale; tutte e due queste cose infatti non servirebbero a nulla se non fosse possibile anche, per l'architetto di domani, per l'architetto dell'industrializ­ zazione edilizia e delle nuove dimensioni delle strutture fi. siche urbane, conquistare Il possesso di un metodo di con­ trollo della progettazione 16• La questione fondamentale affrontata dal seminario di Arezzo è quella dell'unità di architettura ed urbanistica sul piano proprio, disciplinare, autonomo dell'architettura; la pianificazione territoriale è altro da questo, le viene tanto 41


più riconosciuta autonomia, appunto, dall'architettura. Pro­ gettazione architettonica e pianificazione territoriale sono in­ dipendenti sul piano disciplinare. Ad un avanzamento concretamente e scientificamente di­ sciplinare sul tema dell'unità tra architettura e urbanistica condurranno poi soprattutto agli studi di Aymonino. Nelle conclusioni del suo libro Origini e sviluppo della città mo­ derna egli dice: Nel momento in cui si riconosce alla stessa pianificazione economica la validità di una sua storia e quindi una sua autonomia con leggi oggettive che le competono, non si vede perché anche l'urbanistica non debba essere ri­ vista e studiata nel suo formarsi come disciplina specifica e come, in tale formarsi, sia appunto giunta a ulteriori diffe­ renziazioni per avviarsi, nei due campi presunti, a metodolo­ gie critiche diverse, di tipo scientifico e di tipo estetico. In questo senso gli studi sulla forma della città e soprattutto sui rapporti tra la morfologia urbana e la tipologia edilizia ci sembrano i più pertinenti per fondare un metodo di ana­ lisi che, ponendo in relazione processi anche diversi, consenta di giungere anche a delle previsioni attinenti i fatti urbani stessi 17• Così anche negli studi sulla città preme l'equivoco interdisciplinare fondato su tutti i problemi che pone la pia­ nificazione nella nuova società dei consumi dove professio­ nalismo e « design » vorrebbero soppiantare l'architettura. Quaroni continua ad intervenire nel dibattito cercando di individuare le diverse forze che determinano i fatti urbani distinguendo la specificità della progettazione architettonica. Ad esempio, parlando del rapporto tra i vari tecnici ad­ detti alla costrnzione della città e degli apporti che tra di loro possono scambiarsi, dice: Ma l'urbanista-architetto do­ vrà anche cercare di ritornare ... al suo naturale campo d'azione: il disegno, inteso il termine nel senso antico e an­ glosassone della parola 18 • Nel senso cioè della progettazione architettonica. L'interesse per la città influenza lo studio dell'architet­ tura: A. Rossi studia la Milano neoclassica e molti altri da allora iniziano una lunga catena di studi urbani che ha il suo 42 momento più interessante intorno al '68, anno in cui Rossi





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storia, quindi, per sua natura è un gioco di equilibrio, che la critica operativa forza facendo precipitare la dimensione del presente 26• De Fusco, da anni attento studioso di problemi semiologici, riconosce autonomia all'architettura e al fare ar­ chitettonico ma mette l'accento sul fatto che tale autonomia deve significare: l'esistenza di uno specifico architettonico che, quando entri in rapporti con altri campi, autonomi anche essi, necessiti di una sintesi dello specifico con l'aspecifico, ma tuttavia ricondotto al primo 27• Interessante la sua pro­ posta per l'individuazione di un codice progettuale contempo­ raneo. Assunta l'intera esperienza dell'architettura moderna come unitario processo, se saremo in grado di riconoscere, di ricostruire, di ipotizzare il corrispondente sistema, avremo il codice-stile-lingua che cerchiamo. In particolare ... la gran parte consiste nell'operare le opportune riduzioni, nell'indivi­ duare in primo luogo un limitato numero di invarianti, nel­ l'ipotizzarne la classificazione, nello sperimentarne la combina­ zione, nel pretenderne la possibilità di tradursi in eventi, ar­ rivando appunto ad una organizzazione esatta, sistematica e generalizzata della progettazione. Proponiamo dunque una ti­ pologia formale? Si, ma più esattamente una tipologia di ele­ menti costitutivi delle forme; non tanto dei segni quanto dei fattori in cui essi si articolano e una tipologia delle relative regole combinatorie. Pensiamo, ovviamente con larghissima approssimazione ma non metaforicamente, ad un alfabeto, ad un lessico, ad una sintassi dell'architettura 28• Avendo tracciato un quadro sintetico degli atteggiamenti che si sono maturati sull'argomento di una teoria della pro­ gettazione, cerchiamo ora di puntualizzare meglio gli aspetti centrali della questione. Molti principi e idee cui abbiamo finora accennato confluiranno nell'insegnamento di una spe­ cifica disciplina, « Caratteri distributivi degli edifici », che intanto entrava in crisi nella sua vecchia formulazione dello studio tecnicistico degli schemi distributivi, assumendo per ­ tanto il ruolo di studio per l'individuazione degli elementi di una « teoria della progettazione ». Aymonino ad esempio pro­ durrà, come risultato delle sue lezioni nei corsi degli anni '63'64 e '64-'65, dei contributi fondamentali sulle questioni della


formazione del concetto di tipologia edilizia e del rapporto tra tipologia e morfologia: La disciplina di caratteri distribu­ tivi degli edifici prende corpo e si precisa in forma autonoma come tentativo di catalogare e raffrontare tutto il materiale (riguardante l'attività edilizia) prodotto in quasi cinquanta anni di storia per individuare le costanti oggettive (tecnolo­ giche, normative, ecc.) da assumere quali schemi minimi, ne­ cessari e non sufficienti, per la progettazione architettonica o giungere - nei casi più sperimentati - a delle « regole ,. di impostazione della progettazione stessa 29• Tale posizione ci sembra concreta, in particolare per il superamento del vizio funzionalista di ogni discorso vecchio sui « Caratteri »; essa può ancora apparire rigida ma definisce con chiarezza la ne­ cessità e la possibilità di alcune certezze su cui fondare la progettazione, ed afferma il rapporto analisi-progetto come costitutivo per una teoria della progettazione. Del resto il giudizio critico di Aymonino sul Movimento Moderno lo ha comunque portato al riconoscimento che vi e stato in esso uno sforzo costante per la definizione di standards ottimali specie per quanto concerne la residenza: tutto il materiale riguardante la residenza, sia sotto forma dell'alloggio-tipo che delle possibilità combinatorie dello stesso, costituisce la parte più impegnativa delle classificazioni, in quanto imposta e pre­ cisa quell'importantissimo settore che è costituito dagli edi­ fici-tipo di carattere residenziale 30• E più avanti, sempre a proposito dei caratteri distributivi, Aymonino sostiene che essi contengono cioè un elemento di e verità ,. che, nella mi­ sura in cui non è storicizzato ma viene presentato come de­ finitivo, tende a divenire la « verità », il passaggio necessario di impostazione e di verifica perché un'architettura sia perlo­ meno esatta, se non bella 31• Il carattere di tendere a risul­ tati livellati non è solamente un'esigenza attuale in relazione • all'incremento degli studenti nelle Facoltà diventate di « mas­ sa», ma una caratteristica stessa della progettazione archi­ tettonica. Ciò elimina una distinzione tra cultura di massa e cultura d'alto livello di elaborazione. Passando da questi assunti teorici agli aspetti che carat­ terizzano la metodologia della didattica in una Università di 47


massa, esaminiamo altre testimonianze. A proposito di due progetti di laurea del '72 A. Rossi scrive: Credo che il loro interesse principale, rispetto alle questioni dell'insegnamento della composizione architettonica, stia nel mostrare li carat­ tere didascalico che si voleva bnprimere ai progetti. Non in­ tendo soffermarmi sui meriti specifici dei singoli lavori ma indicare il loro carattere comune di appartenenza ad un'unica tendenza; è evidente che esistono differenze notevoli nei ri­ sultati ma queste son messe in luce dal riferimenti generali. Inoltre non è compito della scuola sviluppare le differenze 32• Viene qui attribuito al carattere della uniformità un senso trainante positivo soprattutto come riferimento a principi comuni; il fatto che la scuola non debba mettere in luce la distinzione tra genialità e mediocrità è dato come definizione positiva della scuola, non come rinunzia. In un recente se­ minario sulle questioni della composizione è stato esteso an­ che alla scelta del tema, dell'oggetto della ricerca e della progettazione il senso positivo dell'uniformità: ho l'impres­ sione che sia obiettivo da perseguire quello di far ripetere allo studente quante più volte è possibile la stessa cosa, tutti gli anni, piuttosto che individuare anno per anno delle cose diverse da fargli assimilare. Oggi, se io potessi fare un corso dal primo al quinto anno, cioè un corso di composizione al­ l'interno di una Facoltà sbloccata dalla divisione per anni di corso, farei un corso unico dal primo al quinto e farei un corso con gli stessi contenuti dal primo al quinto anno ri­ chiedendo allo studente di frequentarlo cinque volte, pun­ tando sul diverso grado di assimilazione di coscienza che lo studente finirebbe con l'avere cinque volte diverso all'interno della sua esperienza quinquennale 13• Tale posizione è signifi­ cativa, oltre che per il contenuto, per il suo carattere di « exempla ficta che tende a togliere ogni carattere di astra­ zione, ponendo alla scuola una prospettiva opposta a quella attuale, ma possibile, nella sua paradigmaticità. Del resto essa è legata a questioni che già erano state trattate non in riferimento stretto alla scuola. Il primo prin­ cipio di una teoria credo che sia l'ostinazione su alcuni temi 48 e che sia proprio degli artisti e degli architetti in particolare l)



di architettura e la sua priorità su ogni altra ricerca è in­ contestabile. Una teoria della progettazione rappresenta il momento più importante, fondativo, di ogni architettura, e quindi un corso di teoria della progettazione dovrebbe porsi come l'asse principale di una scuola di architettura 36, Un significativo contributo in tal senso viene dal libro di Grassi, La costruzione logica dell'architettura. In esso l'au­ tore dice: mi propongo di considerare e di descrivere alcuni sistemi teorici, alcune tecniche esemplari di indagine e di sistemazione del dati analitici, formulati nel campo dell'ar­ chitettura, e di valutarli nella loro portata sul piano metodico e nella loro efficacia sul piano conoscitivo n. Nell'indicare nel razionalismo il filone di pensiero con cui egli metterà costan­ temente in relazione il suo studio, introduce la questione dell'esigenza di certezza, generalità, elementi costanti, nor­ me 38; dalla quale egli fa dipendere il patrimonio di cono­ scenze che oggi abbiamo. Riteniamo che questa esigenza di certezza non sia estranea al movimento culturale all'interno del movimento politico che si maturava negli anni che vanno dal '67 ad oggi. La semplice attività di negazione non è stato l'aspetto prevalente della lotta di questi anni ma piuttosto l'ansia di una costruzione positiva nel campo dell'architettura che, contrapponendosi a tutte le correnti che tendevano a tro­ vare le ragioni dell'architettura nella sociologia, la politica, la pianificazione o altre scienze, rivendicava per l'architettura la sua rifondazione come disciplina autonoma con un suo pro­ prio corpus teorico. La questione « architettura o rivoluzio­ ne » fu ed è un tema mal posto. Come è stato osservato: L'ar­ chitettura partecipa della natura dell'ideologia, ma non è solo veicolo di valori; essa è parte della società civile intesa come totalità, e quindi può essere investita dell'azione politica senza che sia strumentalmente utilizzata per azioni o discorsi ester­ ni all'architettura 39• Senza il riconoscimento dell'autonomia dell'architettura non vi è possibilità di rapporto dialettico tra essa e la politica ma solo reciproca strumentalizzazione; l'ar­ chitettura verrà sempre intesa come strumento da usare per realizzare fini esterni ad essa. Chi è di questo avviso rifiuta SO



tura e una indicazione di quali siano i suoi riferimenti: la città, la storia, le architetture. Il cardine è l'immutabilità dei principi; le regole, le norme della progettazione appartengono alla storia, in essa trovano e perdono le loro ragioni; i ma­ nuali e i trattati punteggiano la storia dell'architettura ma non si sono rivelati immutabili. Abbiamo sin qui insistito su quelle posizioni che tendono a definire una teoria della progettazione come struttura lo­ gica e perciò trasmissibile attraverso la didattica. Ma è certo che esiste nella progettazione la necessità di un elemento au­ tobiografico. Dobbiamo in ciò guardarci da due pregiudizi, come ammoniva Rogers: il primo è che i prodotti architet­ tonici siano un meccanico succedersi di equazioni risolvibili con la sola applicazione dell'intelligenza; il secondo è, all'op­ posto, quello di credere che ogni prodotto architettonico sia il risultato repentino d'una felice intuizione individuale 43• Cre­ diamo che il primo pregiudizio sia quello che ci interessa più da vicino e per esso vale la distinzione che Rossi fa tra ra­ zionalismo esaltato e razionalismo convenzionale 44, attribuito il primo a maestri come Boullée, Loos, Le Corbusier, i quali, pur nella continua ricerca di fissare un sistema razionale per l'architettura, lo hanno saputo superare dall'interno per espri­ mere quei bisogni dell'uomo che non sono solo logici e in­ tellettuali. Quanto all'esigenza autobiografica essa, pur acuendo la contraddizione tra la costruzione scientifica di una teoria del­ l'architettura e l'arte, interviene tuttavia come contenuto nella definizione della tecnica. La critica all'accademismo, nel senso deteriore, si riferisce alla mancanza di un'autentica parteci­ pazione a tutti i momenti del fare architettonico, sia nell'ac­ cettazione passiva di un procedimento logico, sia nell'assenza di ogni forzatura di questo per concretizzare una vissuta espe­ rienza emozionale. Certamente ogni tecnica cresce su se stes­ sa e elabora un proprio discorso autonomo: ma i contenuti autentici del discorso progressivo sono nella società e nel con­ flitti sociali, cosi come nella biografia delle persone. :I!: appena il caso di ricordare come spesso i grandi artisti rlinventino 52 la tecnica per esprimere nuove situazioni e nuovi sentbnen-


ti 45• In questa direzione condizionamenti ed espressione per­ sonale possono essere i due termini capaci di esaltarsi reci­ procamente: l'eliminazione di ciascuno di essi comporterebbe un errore. In forma di conclusione e nella convinzione che molte delle questioni sollevate all'interno del tema trattato siano ancora aperte e ricche di contraddizioni, vogliamo qui soste­ nere l'importanza della battaglia culturale in questo campo e la necessità di considerare il progetto come forza materiale di trasformazione della realtà, purché le idee che lo sotten­ dono siano nate dalla realtà che si trasforma. In questo modo l'analisi diventa scienza e scelta contemporaneamente e può porre con validi fondamenti il carattere progressivo dell'arte. 1 N. DARDI, Il gioco sapiente, tendenze della nuova architettura, Pa• dova, Marsilio, 1971, p. 21. 2 E. N. ROGERS, Ragionamenti sull'architettura, in « Casabella conti• nuità », dicembre 1961. 3 E. N. ROGERS, Esperienza dell'architettura, Einaudi, Torino, 1958 p. 78. 4 Ibid. 5 G. SAMONÀ, Lo studio de/l'architettura, in « Metron •, 1947. 6 Ibid. 7 Ibid. a G. GRASSI, La costruzione logica dell'arclzitettura, Marsilio, Pado­ va, 1967, p. 7. 9 A. Rossi, Introduzione al voi. Architettura razionale, XV Triennale di Milano, Sezione internazionale di Architettura, F. Angeli, Milano. 1973, p. 20. 10 G. SAMONA., L'urbanistica e l'avvenire della città, Laterza, Bari, 1959. 11 Il concorso per la progettazione di un quartiere di case popolari a S. Giuliano, Mestre, si tenne nel '59 e vi parteciparono, oltre a molti altri, L. Quaroni, G. Samonà, Astengo, Muratori. 12 Il corso sperimentale di preparazione urbanistica fu tenuto ad Arezzo ed organizzato dal Centro Studi della Fondazione A. Olivetti, sotto la direzione di L. Quaroni. 13 L. QuARONI, Il volto della città, in « Comunità» n. 25, 1954. 14 G. SAMONÀ, Lo studio dell'architettura cit. 15 Ibid. 16 L . QuARONI, La torre di Babele, Marsilio, Padova· 1967, p. 42. 11 C. AYMONINO, Origini e sviluppo della città moderna, Marsilio, Pa• dova, 1965, p. 53. 1a L. QuARONI, Metodologia del coordinamento interdisciplinare, in « Urbanistica » n. 38, 1963. 19 A. Rossi, Architettura per i musei, in Teoria della progettazione architettonica, Dedalo, Bari 1968, p. 136.

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20 L. QUARONI, Cronaca di un corso di composizione. (Facoltà di ar­ chitettura di Roma, Istituto di Progettazione), in « Controspazio • n. 5-6,

1972.

21 M. TAFURI, Il problema dei Centri Storici all'interno della nuova dimensione cittadina, in La città territorio, Leonardo da Vinci, Bari, 1964, p. 29. 22 A. SAMom, L'ordine dell'architettura, Il Mulino, Bologna, 1970, p. 113. 2.1 lbid. p. 123. 24 S. BISOGNI, Introduzione al corso di analisi dei sistemi urbani (di­ spense ciclostilate) Palermo, Facoltà di Architettura, 1972-73. 25 V. GREGOITI, Il territorio dell'architettura, Feltrinelli, Milano, 1966, p. 131. 26 M. TAFURI, Teorie e storia dell'architettura, Laterza, Bari, 1968, p. 179. Xl R. DE Fusco, La riduzione culturale nella progettazione architet­ tonica, in « Op. Cit. » n. 26, 1973.

28 Ibid. 29 C. AYMONINO, La formazione del concetto di tipologia edilizia (atti del corso di caratteri distributivi degli edifici 1964-65), CLUVA, Venezia, 1965, p. 16. 30 lbid., p. 18. 31 ldid., p. 18. 32 A. Rossi, Due progetti di laurea (Facoltà di architettura del Poli­ tecnico di Milano), in « Controspazio » n. 5-6. 1972. l3 U. S1O1.A, Intervento al primo seminario di Gibilmanna, 1971, in Si può insegnare a progettare? (atti del primo seminario di Gibilmanna a cura di A. Samonà, Il Mulino, Bologna, 1973, p. 176. 34 A. Rossi, Architettura per i musei cit., p. 124. lS A. Rossi, Introduzione al voi. Architettura razionale cit., p. 21. 36 A. RossI, Architettura per i musei cit., p. 123. 37 G. GRASSI, Op. cit., p. 17. 38 lbid., p. 23. 39 A. RENNA, Architettura e pensiero scientifico, in Analisi urbana e progettazione architettonica, Facoltà di architettura del Politecnico di Milano - Gruppo di ricerca diretto da A. Rossi, CLUP, Milano, 1970, p. 129. 40 F. BERLANDA, Intervento al primo seminario di Gibilmanna, in Si può insegnare a progettare? cit., p. 254. 41 A. RENNA, Op. cit., p. 130. 42 G. GRASSI, Op. cit., p. 29. 43 E. N. ROCERS, Esperienze dell'arcftitettura cit., p. 225 44 A. Rossi, Introduzione al val. Boullée, Saggio sull'arte, Marsilio, Padova, 1967. 4S A. Rossi, Le teorie della progettazione, in Analisi urbana e pro­ gettazione architettonica cit., p. 111.

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XV Triennale ALMERICO DE ANGELI$

È diventato costume ormai diffuso, dovendo affrontare un argomento in chiave critica, assumere un atteggiamento ne­ gativo. Spesso gli stessi responsabili di una mostra, di una architettura, di un qualsiasi altro avvenimento, prima ancora di averlo portato a termine, ne iniziano a parlare in termini denigratori. Esemplificativo di quanto andiamo dicendo fu l'atteggiamento assunto dai responsabili della precedente edi­ zione della Triennale dopo la contestazione promossa dagli stu­ denti di architettura. Ora, se è vero che un atteggiamento di puro compiacimento è spesso negativo, o quanto meno inu­ tile, è pur vero che all'interno di un dibattito, anche nel pro­ posito di ricerca di soluzioni alternative, la sola critica distrut­ tiva crea spesso più confusione che altro, e difficilmente si trasforma in contributo. Premesso questo, tentiamo di fare una lettura della XV Triennale chiusasi il 20 novembre scorso a Milano, con il pro­ posito di individuare quelli che possano essere stati i suoi aspetti positivi anche nella prospettiva di un chiarimento, al­ l'interno della « disciplina » architettonica. L'edizione presente, a parte il padiglione della sezione ita­ liana curato da Eduardo Vittoria, che costituisce un po' l'ec­ cezione alla regola, ci è apparsa essenzialmente una mostra di idee. Diciamo anche però che chi l'avesse visitata senza averne la chiave, vale a dire senza essere in possesso di tutti quegli elementi che concorrono a formare l'attuale dibattito archi-

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tettonico, sarebbe rimasto quanto meno sconcertato. L'impres­ sione che se ne riceveva, superato l'ingresso funereo - forse un'anticipazione dell'attuale austerity - come lo ha definito Bruno Zevi, era quella di un grande disordine, forse di una cosa improvvisata, sicuramente incerta in alcune parti. Ma a questo punto c'è da chiedersi perché mai una mostra realiz­ zata in un momento come questo, quanto mai incerto, con­ fuso, provvisorio, debba apparire con tutt'altre caratteristi­ che, quasi fosse una sorta di limbo, di zona franca, rispetto ai drammi di cui tutti siamo partecipi. Diciamo subito che questo è uno degli aspetti che riteniamo positivi dell'attuale Triennale: quello cioè di costituire uno specchio abbastanza fedele dell'attuale momento di generale riflessione. Se mai, una critica potrebbe farsi proprio al concetto di mostra. Andrea Branzi, in risposta ad una domanda sull'utilità di una mostra di architettura, ha detto: il termine mostra e il termine architettura combinati insieme danno luogo alla conferma di un equivoco storico: l'equivoco è quello secondo il quale l'architettura è ancora una cosa da vedere, cioè una struttura visuale e non una struttura d'uso. L'idea di fare una mostra di architettura rivela dunque una mancata com­ prensione di queste cose, che sono oggi le cose fondamentali da capire. Credere che disegnare una facciata o presentare un plastico di un edificio significhi ancora qualcosa, vuol dire essere totalmente fuori del tempo, e in maniera pericolosa. Viceversa Aldo Rossi nel suo libro, Architettura Raziona­ le, edito proprio in occasione della recente Triennale, scrive: Ho sempre creduto all'utilità di una mostra di architettura. E alla domanda citata prima, tra l'altro rispondeva .•.credo che la rappresentazione dell'architettura abbia una validità in sé. Ritengo che essa - a parte come sempre il valore di­ dattico che può avere una mostra di architettura - dia un tipo di rappresentazione ormai codificata. I plastici di archi­ tettura, quelli realizzati secondo l'intenzionalità dell'architet­ to, sono una forma di espressione che si può esaurire in sé, proprio per le parentele strutturali, per le affinità che l'ar­ chitettura ha con la scultura, con la pittura, con le arti fi. gurative. Lo stesso vale anche per il disegno; anche se que56



sempre per vie strettamente disciplinari, quasi corporative, di portare ad una rivoluzione sociale; una professione presun­ tuosa arrivata alla crisi assieme alla Triennale, come ebbe a scrivere Carlo Guenzi. Tuttavia l'attuale edizione, pur con tutti i difetti, tra cui la ermeticità e il senso di disordine, cui si accennava prima, si presenta con le caratteristiche proprie del tipo di mostra auspicato: mostra-workshop. Diremo anzi che proprio quelli che possono apparire come difetti, quali l'indeterminatezza, la provvisorietà, le contraddizioni, sono aspetti tipici di quel genere di mostra ' in progress '; proprio come il senso di compiutezza, di finito appartiene al concetto tradizionale di mostra come esposizione di un prodotto, e basta. Se questo indubbiamente è un aspetto positivo della XV Triennale, pure noi crediamo sia stata percorsa soltanto metà della strada. I materiali esposti, le attrezzature, le stesse idee, non sono riuscite a creare un dibattito, non hanno rappresen­ tato la base su cui operare, ma hanno agito semmai soltanto come ripetitori e amplificatori d'impulsi. Sarebbe stato au­ spicabile invece che il materiale o meglio ancora gli indirizzi culturali presenti in questa edizione, fossero serviti come punto di partenza per una ricerca approfondita da operare nel campo dell'architettura considerata nella accezione più ampia del termine. Quanto alla struttura della mostra, essa si componeva di tre sezioni ognuna relativa ad un aspetto emergente della cul­ tura architettonica contemporanea: quello strettamente di­ sciplinare, che viene comunemente indicato come « monu­ mentalismo», quello e esistenziale-antropologico » del cosid­ detto e antidesign», presente con Ettore Sottsass, ed infine quello e tecnologico » del product-design rappresentato in triennale da Eduardo Vittoria. Coerente con gli indirizzi era l'immagine che ne deri­ vava nelle singole sezioni. Così, decisamente rigorosa, fredda, la prima, quella curata da Aldo Rossi incasellata in una serie di cubicoli soffocanti, adatti forse ad un convento, ma assai più ad una prigione, ha scritto Bruno Zevi in « Cronache di Sulle pareti una serie di disegni, di modelli di Architettura». 58



sto fragore alcune cose, notevoli per i significati di cui erano cariche, come la sedia in vetroresina di Gaetano Pesce, o quella di Alessandro Mendini, si siano perse, o abbiano ac­ quistato significati affatto diversi. Ma quello di Vittoria si presentava anche come il padiglio­ ne dell'efficienza: « gli altri pensano, io faccio», potrebbe es­ sere il suo motto. Al di là di questa discutibile « volontà spe­ rimentatrice", una cosa appare evidente in questo padiglione, il desiderio di accontentare tutti: le industrie che hanno bi­ sogno di produrre, i designers desiderosi di entrare nel mondo della produzione, i possibili fruitori di queste stranissime macchine per non pensare, adatte a creare un clima soft, tran­ quillante. Come era d'altronde il clima di tutto il padiglione: all'insegna della semplificazione, dell'efficienza, dello slogan:

lo spazio vuoto dell'habitat: una cosa, un nome, un'immagine.

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Con l'aiuto di una lente rosa e di una celeste si risolvono final­ mente tutti i contrasti sociali presenti nelle nostre città; con l'ausilio di poche diapositive si è creato un parco costiero per l'uso alternativo dell'ambiente marino, con una rete metallica una cucina. Alla fine, su un grande schermo, il discorso « mo­ rale» contro la centralità e le gerarchie. Dopo aver fatto ve­ dere meravigliose immagini di praterie sconfinate e splen­ dide nudità hippies si concludeva quasi dicendo: tutto que­ sto non è un sogno, non è una meta irraggiungibile, basta munirvi degli strumenti che vi abbiamo presentano per ot­ tenere tutta la libertà di cui avete bisogno. Fin qui la descrizione di quelle che erano le tre mostre principali della Triennale. C'era ancora la significativa mostra storica curata da Filippo Alison, su Mackintosh; la retrospet­ tiva, abbastanza confusa, sui cinquant'anni della Triennale; fra i padiglioni stranieri, da segnalare quello scandinavo sul gioco e sui bambini. Ancora, una stranissima presenza dal titolo magniloquente « I problemi del territorio•, dove si cer­ cava di mostrare come con l'uso di un impianto televisivo a circuito chiuso si potesse ' gestire ' il territorio. Il ' contatto arte-città' curato da Giulio Macchi presentava alcune cose davvero egregie come il ' Teatro continuo ' di Burri. Tra le mostre temporanee molto interessante quella dedicata a Rie-


cardo Dalisi, che tra l'altro è servita a pretesto per un di­ battito sul mestiere del designer e dell'antidesigner, svolto in prima persona da alcuni dei principali protagonisti: Sott­ sass, Mari, Mendini, ecc. Rimangono degli equivoci che non sono giustificati dal carattere sperimentale e di laboratorio, cui si accennava pri­ ma. Non si capisce il perché di certe fratture, non si capisce perché nel 1973 l'arte debba ancora essere una cosa affatto di­ versa dall'architettura, per cui un teatro, o un podio per or­ chestra, solo perché progettati e costruiti da artisti, non sa­ rebbero «architetture» bensì delle «opere». Ma a questo punto cominceremmo ad assumere la veste di censori che avevamo rifiutato all'inizio. Perciò concluderemo ribadendo che la Triennale, attraverso le sue tre sezioni, pur tra le incom­ pletezze e le contraddizioni, ha messo a fuoco quelli che sono i principali problemi da affrontare e dibattere in questo mo­ mento. È importante però che questo avvenga, meglio se nel­ l'ambito stesso dell'istituzione in modo da poter riproporre nella prossima edizione il risultato di questo lavoro, anziché ripartire come sempre da zero.

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