Op.cit. rivista quadrimestrale di selezione della critica d'arte contemporanea
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Te!. 7690783
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Grafica: Almerico de Angelis
Edizioni  Il centro•
B. ZEvI,
Sei postille su chitettura»
G. DAL CANTON,
Problemi di semiotica dell'arte contemporanea
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M. PICONE,
Alcune opinioni sull'iperrealismo
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Libri, riviste e mostre
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«
Il linguaggio moderno dell'ar
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Alla redazione di questo numero hanno collaborato: Cesare de' Seta, Benedetto Gravagnuolo, Andrea Mariotti, Maria Teresa Perone, Agata Piromallo Gambardella, Maria Luisa Scalvini.
Sei postille su «Il linguaggio moderno dell'architettura» BRUNO ZBVI
1. L'età adulta
La codificazione del linguaggio segna l'avvento della ma turità nella storia architettonica. Quale fenomeno separa in fatti la situazione preistorica da quella evoluta? La scrit tura, cioè un modo istituzionalizzato di comunicare. Prima della scrittura, vi erano strumenti comunicativi, ma a basso grado di propagazione. Analogamente, gli architetti hanno scambiato idee ed esperienze anche durante il lungo periodo in cui il linguaggio non era stato formulato; tuttavia solo ora si può leggere, scrivere, parlare architettura fuori di un am bito specialistico ed élitario. Tale conquista esorbita dal qua dro disciplinare, implica una svolta democratica, una nuova stagione sociale dell'architettura, basata su una partecipazio ne non di tipo paternalistico, populista o velleitario - in cui i bisogni reali si confondono continuamente con quelli in dotti dalla pubblicità - ma autentica e diretta. Molti architetti temono l'età adulta, preferiscono restare nell'infantilismo, in uno stato ambiguo, dipendente dal padre o dalla madre. Negli anni cinquanta e sessanta, però, i padri - Wright, Le Corbusier, Gropius, Mies van der Robe, Men delsohn - sono morti; e, del resto, alcuni di essi, ben prima della loro scomparsa anagrafica, avevano cessato di alimen- 5
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tare i figli. Mies, ad esempio, da quando aveva optato per i prismi chiusi, tradendo la poetica delle fluenze spaziali inca nalate fra lastre De Stijl e ricadendo nel classicismo prospet tico del Seagram Building; o Gropius che, nel team-work americano, aveva obliterato il metodo della scomposizione funzionale dei volumi, gloria del Bauhaus. Lo stesso Le Cor busier, dal gesto eversivo di Ronchamp, si era sottratto ai compiti didattici isolandosi, ripudiando figli e nipoti, costrin gendoli alla « maniera corbusiana » del convento La Tourette e dei lavori di Chandigarh. Non ci sono dunque più padri. Occorre diventare adulti, emanciparsi dalla tutela dei ,e grandi », parlare un linguaggio autonomo, cioè codificato, che deriva naturalmente dall'opera dei maestri, ma affrancandosi dalle loro poetiche individuali e dall'ipoteca delle loro schiaccianti personalità. Esiste forse un'alternativa? Nessuna che non reiteri l'in fantilismo fino al ridicolo. Orfani, smarriti per la mancanza di un riferimento al padre, alcuni tentano un rientro nel grembo materno, rassicurante e anonimo, dell'accademia, del l'ideologia classicista del potere, dei dogmi geometrici, del l'assonanza e della proporzione; insomma, si suicidano. Altri, pur di non accettare il linguaggio moderno, esaltano l'azzera mento, il caos, l'anticultura, il rifiuto di qualsiasi sistema di comunicazione e verifica; anche questa, malgrado le appa renze, è una reazione infantile. Le tappe dello sviluppo musicale sono chiare: atonalità, caos espressionista; poi, razionalismo dodecafonico; infine, ciclo post-dodecafonico che si svincola dal rigore razionalista, ma non per rifarsi al caos. In architettura queste tappe sono meno evidenti, perché l'azzeramento espressionista (Gaudi e, più tardi, Mendelsohn) non precede, ma s'intreccia col razio nalismo. Ciò fa sì che l'esperienza post-razionalista, la ten denza organica, sia intrisa di recuperi espressionisti, specie nelle serpentine di Alvar Aalto. La stessa Chapelle di Ron champ è una miscela di espressionismo e di informale, con qualche ingrediente di « persuasione occulta » barocca nelle stravolte o carezzevoli fonti luminose. Bisogna stare in guardia: i rifugi nel grembo materno sono due: il classicismo
accademico e il recupero espressionista-barocco; quest'ultimo può sembrare più complesso ed ipnotico, ma non è meno puerile.
2. Manierismo e linguaggio È proprio indispensabile possedere un linguaggio codifi cato? se le sue invarianti sono tratte dai capolavori dei mae stri, non basta ispirarsi ad essi? in altri termini, perché su bire la mediazione necessariamente riduttiva del linguaggio, anziché rivolgersi alle fonti originarie? Quesiti legittimi. Indubbiamente, finché il linguaggio mo derno non era stato formulato, l'unica strada giusta consi steva nel manierismo. A livello teorico, inno al manierismo: laicizza e diffonde le poetiche dei maestri, spogliandole dalla carica messianica di un Wright e dal dottrinarismo di un Le Corbusier; se il manierismo, quello . storico del Cinque cento come quello moderno, fosse capace di tradurre e ren dere disponibili a tutti le metodologie creative dei maestri, non ci sarebbe davvero bisogno di codificare un linguaggio. Purtroppo, in concreto, non è così. Il manierismo non divulga e non democratizza, anzi costituisce un'operazione di altis simo intellettualismo, assai poco trasmissibile. Si pensi a Rosso Fiorentino e al Pontormo, ai rari seguaci di Michelan giolo o di Borromini, ai wrightiani, ai corbusiani: assom mano a qualche decina, in tutto il mondo. Per quale motivo? I manieristi agiscono sui risultati, sui prodotti finiti, trascu rando i processi che li hanno determinati. Il loro, come si ripete, è « un discorso sul discorso »: lavorano sulle forme, non sulla struttura e sulla formazione; le commentano e di storcono, perciò la loro azione è positiva, ma limitata e ari stocratica. I testi dei maestri sono dedotti dalla realtà della vita; quelli dei manieristi dai testi. I maestri destrutturano continuamente il codice, azzerano, tornano all'elenco, cioè alle funzioni interpretate in presa diretta. I manieristi per cepiscono la realtà solo attraverso il filtro di immagini de cantate; e presto si stancano, vengono risucchiati dall'accade-
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mia sempre in agguato (neocinquecentismo, neoclassicismo). Non c'è, non ci può essere un passaggio diretto, privo di mediazioni, tra la scrittura dei maestri e il linguaggio popo lare. Non si può dire alla gente: leggete « La Divina Com media » e imparerete l'italiano. Se una lingua deve essere parlata da tutti, è necessario derivare dalle opere dei poeti al cune invarianti che consentano di comunicare anche nella prosa quotidiana.
3. Successione e storicità delle invarianti
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La sequenza delle sette invarianti è modificabile a capric cio? possiamo anteporre, per esempio, la reintegrazione alla tridimensionalità antiprospettica, o la temporalizzazione dello spazio all'elenco? Un'ipotesi del genere non tiene conto dello sviluppo sto rico di queste invarianti, della crescita graduale del linguag gio. Le invarianti non sono assiomi atemporali, verità asso lute; nascono da precise esperienze. William Morris destrut tura il linguaggio classico, lo azzera, propugna l'elenco, l'in ventario delle funzioni, l'indipendenza da ogni canone di sim metria, propor.rione, ordini, assi, allineamenti, rapporti di pieni e vuoti. La dissonanza segna uno stadio più avanzato: non si appaga, come l'elenco, di registrare le differenze fun zionali, ne prende coscienza e ne marca i contrasti. Eviden temente, queste due prime invarianti non possono essere in vertite. La tridimensionalità antiprospettica matura con l'espressionismo e soprattutto con il cubismo, quando l'og getto non è più osservato da un punto di vista statico ma dinamicamente, da infiniti punti di vista. Ne consegue la scomposizione quadridimensionale, sintassi analitica del gruppo De Stijl. :E!. mai pensabile che De Stijl preceda il cu bismo, quando ne è una delle applicazioni, sia pure la più rigorosa? Forse la quinta invariante, cioè il coinvolgimento di ogni membratura architettonica nel gioco strutturale, po trebbe essere spostata, poiché attiene all'intera vicenda dell'ingegneria moderna; ma Wright la legò alla poetica delle
strutture in aggetto, alla scompos1z1one della scatola in la stre dissonanti, più tardi codificata da De Stijl. Quanto alla temporalizzazione dello spazio, le compete il sesto posto, né può essere diversamente: in sostanza, trasla l'operazione vo lumetrica del cubismo nelle cavità, nel luoghi specifici del l'architettura, nei vuoti vissuti. Infine, è inutile ripetere che non si reintegra senza aver prima scomposto; altrimenti si integra a priori, precipitando nel classicismo. In conclusione, la sequenza delle sette invarianti, nata da un processo storico sviluppatosi lungo l'arco di oltre un se colo, non sembra modificabile senza gravi inconvenienti. Ogni architetto deve ripercorrere le tappe di questa storia, ripor tandosi costantemente alle invarianti precedenti, senza sal tarne nessuna, fino alla prima, all'elenco, all'azzeramento di ogni convenzione o frase fatta, alla destrutturazione del di scorso architettonico. Il linguaggio moderno consente una critica precisa, quasi spietata; offre una cartina di tornasole per misurare scien tificamente l'attualità o meno di una poetica. Si consideri il caso di Alvar Aalto: elenco, dissonanze, tridimensionalità an tiprospettica, strutture in aggetto, temporalizzazione spazia le, reintegrazione - sei invarianti splendidamente concreta te. Manca però la scomposizione quadridimensionale, sicché, come si è accennato, la reintegrazione aaltiana risulta dub bia, in quanto poggia su rievocazioni espressionistiche e ba rocche. Non occorre applicare tutte le invarianti. Mackintosh è sommo poeta, pur fermandosi all'elenco. Gropius si caratte rizza nell'elenco, nelle dissonanze, nella tridimensionalità an tiprospettica e nella scomposizione volumetrica; ignora lo spazio temporalizzato e la reintegrazione. Mies, nei testi eu ropei, trionfa nella scomposizione e nella temporalizzazione spaziale che ne consegue; in America, dimentica l'elenco e le dissonanze, poi anche la tridimensionalità antiprospettica, e quindi torna all'accademia. Le Corbusier? Esplora tutte le invarianti, ma non simultaneamente: nei lavori razionalisti mancano l'elenco e la reintegrazione (magnificamente pre sente, però, nel piano di Algeri); scompone raramente, e 9
nella circoscritta accezione purista; a Ronchamp elenca e reintegra, attua la tridimensionalità antiprospettica, tempora lizza lo spazio, squassa ma non scompone. Le sette invarianti sono reperibili contemporaneamente solo in alcune opere di Wright: senza dubbio, in grado mas simo, nella Casa sulla Cascata, la « Divina Commedia » del linguaggio moderno. 4. Equivoci sul rapporto langue/parole
Non di rado, le ricerche semiotiche utilizzano strumenti nuovi per finalità vecchie, favorendo così, senza volerlo, i rigurgiti accademici. Un primo equivoco consiste nell'esclu dere dall'analisi linguistica i capolavori, le opere d'eccezione, i prodotti dei geni creativi, per prendere in esame soltanto gli edifici definiti « paradigmatici» che rappresentano lo stan dard medio dell'architettura moderna. Si trascura così il fatto che, in assenza di una codificazione, il linguaggio mo derno non ha potuto permeare la produzione media, la quale si limita a comunicare pensieri incerti e scarsamente significanti. Escludendo i capolavori, si castra il linguaggio moderno; resta la mediocrità, che è sempre accademica. Il procedimento quindi va rovesciato: bisogna trarre le regole dalle eccezioni, perché solo in esse s'incarna a pieno il nuovo linguaggio. Del resto, l'italiano è stato codificato sulla base dei mas simi testi, a cominciare dalla « Divina Commedia»; poi, una volta strutturata, la lingua è stata usata a tutti i livelli, anche nella prosa comune. Lo stesso può avvenire in archi tettura: acquisite le invarianti derivate dai capolavori, anche i più modesti costruttori potranno applicarle correttamente; ma è vano tentare di trarre le invarianti linguistiche da opere paradigmatiche, che tali sono perché non le con tengono. Si può obiettare: l'italiano come lingua formale discende dalla « Divina Commedia», ma in realtà era parlato dal po10 polo anche prima di costituirsi in linguaggio. Giusto: accade
lo stesso in architettura. Nelle case contadine, negli edifici utilitari, nei vernacoli, in breve nelle « architetture senza ar chitetti » si trovano spesso le sette invarianti, istintivamente adottate. La « Divina Commedia » nasce dal volgare, legittima un fenomeno spontaneo che, una volta codificato, diviene l'italiano. Ebbene, la Casa sulla Cascata nasce da un lungo travaglio democratico volto a destrutturare il linguaggio ac cademico, codifica una lingua nuova e popolare, utilizzabile da parte di tutti. Alcuni insistono: l'architettura è fatta di regole e di de roghe; noi possiamo codificare solo le regole. Ma quali? Se il linguaggio moderno è fatto di deroghe, le regole sono quelle accademiche: si rischia così di tornare alle Beaux-Arts, cioè alle assonanze come regola, e alle dissonanze come de roga. Il contrario di quanto attesta la musica moderna: dissonanze come regola. Lo spiega chiaramente Theodor Adorno: « Lo stadio più progredito dei procedimenti tecnici musicali delinea compiti di fronte ai quali gli accordi tra dizionali [leggi : classicisti] si rivelano come impotenti cli chés. Ci sono composizioni moderne nel cui contesto sono occasionalmente disseminati accordi tonali; ebbene, sono questi accordi perfetti ad essere cacofonici, non le dissonanze... ». In termini architettonici: le regole accademiche, non le in varianti moderne, sono arbitrarie e repressive. Ancora: « Il predominio della dissonanza sembra distruggere i rapporti ra zionali ' logici ' all'interno della tonalità [leggi : simmetria, proporzione, schemi geometrici, armonia di pieni e vuoti, equi librio di masse, assialità e allineamenti prospettici, ecc.], cioè le relazioni semplici di accordi perfetti. In questo però la dissonanza resta ancora più razionale della consonanza: essa pone infatti dinanzi agli occhi, in maniera articolata seppure complessa, la relazione dei suoni in essa presenti, invece di conseguirne l'unità mediante un impasto 'omogeneo', cioè distruggendo i momenti parziali che essa contiene... ». In ter mini architettonici : le frasi fatte, convenzionali, prive di valore semantico, sono consonanti, tonali, classiciste; mentre i messaggi significativi, che comunicano cose, realtà, compor tamenti concreti, sono sempre dissonanti. E va evitato il gros- 11
so errore di credere che la dissonanza sia possibile solo per contrasto alla consonanza, riducendosi così ad una deroga del la tonalità. Non è affatto così: « I nuovi accordi non sono gli innocui successori delle vecchie consonanze, ma se ne diffe renziano in quanto la loro unità è totalmente articolata in sé: i singoli suoni dell'accordo si uniscono per conformarlo, ma nel suo interno essi vengono contemporaneamente distinti l'uno dall'altro come suoni singoli. Così continuano a ' dis sonare ': e non rispetto alle consonanze eliminate, ma in se stessi». Quanti anni, quanti decenni occorreranno per convincere gli architetti di ciò che in musica è da tempo acquisito? Han no paura della libertà, pretendono la coerenza armonica a tutti i costi e, siccome la vita è carica di dissonanze, prefe riscono inibirla mediante un ordine a priori. Invero, dovreb bero affiggere sulle pareti dei loro studi questo brano di Ador no: « Il culto della coerenza diventa idolatria. Il materiale non viene più plasmato e articolato per servire all'intenzione artistica, ed invece è il suo stesso allestimento preordinato a diventare intenzione artistica: la tavolozza prende il posto del quadro •· In architettura, la tavolozza è tutto l'armamen tario idolatrico della simmetria, della proporzione, della pro spettiva, della monumentalità voluta dal potere. Alcuni senùologi affermano: non ci interessano le diffe renze tra il linguaggio architettonico classico e quello anti classico, ma le affinità, gli elementi che li accomunano. Tesi logica solo in apparenza, perché non tiene conto del fatto che il linguaggio classico non esiste: è semplicemente un'ideo logia linguistica che non trova riscontri nell'architettura con creta del mondo greco-romano e del Rinascimento. Ecco il pericolo: non capire il distacco, anzi il contrasto fra teoria architettonica e fenomenologia reale dell'architettura rinasci mentale, e ancor più tra i linguaggi greco e romano, del resto diversissimi tra loro, e precettistica classicista Beaux-Arts, si gnifica porsi nelle condizioni di portare la semiotica a soste nere la reazione. Il classicismo non coincide col passato, tanto è vero che la maggior parte della produzione edilizia contem12 poranea è classicista. Viceversa, l'anticlassicismo non attiene
agli artisti moderni, ma a tutti gli autentici spiriti creativi: basti pensare al manierismo storico che, sin dal Quattrocento, indica una volontà di destrutturazione del discorso classicista ideologizzato e cristallizzato dai trattatisti. Non si tratta quindi di reperire un'area comune al classicismo e all'anticlassicismo, ma di constatare che gli architetti validi sono tutti anticlas sici, in qualsiasi epoca, mentre il classicismo è una sovra struttura artificiosa e dispotica, forse assimilabile al latino rigoroso ed aulico riesumato nel Quattrocento ad uso di un'élite che eludeva i problemi di un linguaggio vitale. Non sarebbe assurdo ricercare cosa accomuna l'italiano del Quat trocento e quel latino da cortigiani? Il nodo di questi problemi sta nel rapporto langue/pa role di Saussure, che ha ingenerato innumeri equivoci nella linguistica architettonica. Per due motivi: a) perché per « lan gue» si è intesa non la lingua concreta delle opere, ma il suo contrario, l'ideologia linguistica Beaux-Arts; 2) perché, in tal modo, le « paroles », cioè gli atti creativi, sono stati tutti interpretati come deroghe o anomalie, non da assimilare nella « langue» ma da obliterare al più presto. Ecco il divario: nel linguaggio verbale, le « paroles», dal livello iniziale di eccezioni, passano a quello normale della « langue»; in ar chitettura, invece, restano sempre eccezioni perché la « lan gue» classicista non è una «langue», ma solo un'astrazione teorica di una «langue». Verifichiamo: quali e paroles » di Michelangiolo o di Borromini sono riuscite a penetrare nel linguaggio classicista? Nessuna, com'è logico trattandosi di un linguaggio sovrastrutturale, indisponibile ad ogni svolgi mento, cristallizzato per sua natura. Lo stesso vale per Wright e per Le Corbusier, le cui «paroles » non hanno mai scalfito il classicismo. Le difficoltà che s'incontrano nelle discussioni con i saus suriani dipendono da questo: essi assumono che la e langue » architettonica sia quella del classicismo; noi, all'inverso, sappiamo che è quella opposta, nel passato come nel pre sente. Perciò il linguaggio architettonico, per noi, è composto solo di «paroles», di deroghe, di dissonanze; mentre, per loro, le « paroles » non possono esistere senza una « langue»
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e, in mancanza di essa, le riferiscono alla classicismo, con effetti disastrosi.
«
non langue » del
5. Le sette i11varianti in urbanistica
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L'attività urbanistica s'identifica con quella architettonica, tanto da giustificare il termine « urbatettura ». Dunque le sette invarianti si applicano non solo all'edificio, ma alla città e al territorio. L'elenco non è il primo atto da compiere nel redigere un piano regolatore? La dissonanza non è indispen sabile per rompere la monotonia alienante dello zoning? Ana logamente, la tridimensionalità antiprospettica serve a vin cere la mania degli assi monumentali, delle scacchiere viarie, delle piazze a forma geometrica predeterminata, quadrate o rettangolari, circolari o esagonali. Scomporre la scatola edi lizia equivale a scomporre l'impianto chiuso della città clas sicista. La temporalizzazione degli spazi? Vale a scala urbana come nella dimensione architettonica. Quanto alla reintegra zione, in urbanistica appare anche più urgente e pregnante, per revitalizzare un organismo settorializzato ad un grado sclerotico. Urbatettura. Infatti reintegrare la città significa reinte grare il suo tessuto architettonico incentivandone la polifun zionalità. È stato detto più volte: una scuola è una struttura che lavora a bassissimo regime se il piano regolatore la con fina in un lotto separato; rimane inutilizzata per molte ore del giorno, durante la notte, nelle festività e nei lunghi mesi delle vacanze. Un simile spreco, che caratterizza tutti gli edi fici pubblici (teatri, cinema, ministeri, chiese, ecc.), potrà es sere evitato solo reintegrando le funzioni educative, ricrea tive, sociali, direzionali, commerciali, produttive in un assetto alternativo della città. In urbanistica, come in architettura, il linguaggio moderno aborre gli sperperi, a cominciare da quelli economici. Tra i suoi plurimi effetti, la codificazione del linguaggio moderno dovrebbe avere anche quello di guarire gli urbanisti da una frustrazione che dura almeno dalla metà del Quattro-
cento, quando iniziarono a progettare « città ideali» conce pite secondo schemi geometrici perfetti, a griglia o radiali. Disegni oppressivi, dispotici, totalitari, istigati dal potere per imbrigliare la vita sociale in un «ordine» ferreo e implaca bile; per fortuna, non vennero mai realizzati, se non in tra scurabili episodi. La « città ideale» ha danneggiato grave mente, per secoli, la psiche degli urbanisti. Poiché i loro pro grammi megalomani e ibernati erano respinti dalla società, essi si sono crogiolati in un nevrotico complesso di persecu zione : nessuno li comprendeva; lo sviluppo urbano non te neva conto dei loro piani; politici, amministratori, impren ditori, ricchi e poveri mostravano la più profonda indifferenza per la loro attività. Salvo poche eccezioni, gli urbanisti non sospettavano che il loro fallimento derivava da ben altra cau sa: non era la società a non capirli, erano loro a non capire la società; perciò, con demiurgica smania di grandezza, vole vano incapsularla in orditi statici, inumani, soffocanti ogni libertà. Lo attesta il fatto che «città ideali» furono costruite per quattro funzioni: a) caserme, b) manicomi, e) carceri, d) cimiteri. I tracciati quadrangolari, circolari, esagonali, stel lari hanno trovato piena espressione negli insediamenti mili tari e nelle case di pena, insomma dovunque gli uomini ve nivano irreggimentati o detenuti: dalla romana Regina Coeli al San Vittore di Milano. La « città ideale» è tale soltanto per il potere. Non è un caso che, anche nel campo delle fortificazioni militari, gli spiriti ribelli annientino il codice geometrico: si pensi a Sanmicheli e, ancor più, ai disegni michelangioleschi per i baluardi fiorentini del 1529. Particolarmente sintomatico è poi il fatto che i grandi eretici della storia architettonica, Brunelleschi, Michelangiolo, Palladio, Borromini, non abbiano mai redatto un piano regolatore. Configurarono intere città, ma senza disegnarle a priori. Il loro è stato un dialogo efferato e appassionante con l'organismo urbano: lo hanno stu diato, ne hanno ipotizzato gli sviluppi per poli e coaguli, attenti a non paralizzarne la dinamica. Paradossalmente si potrebbe dire che gli unici personaggi ridondanti nella vi cenda urbanistica siano gli urbanisti. Si può immaginare Fer- 15
rara estense costruita da un urbanista, e non da un urba tetto come Biagio Rossetti? Allora, il linguaggio moderno nega la pianificazione urba nistica? No, certo: nega quella classicista, non basata sul l'elenco, le dissonanze, la visione antiprospettica, la scompo sizione, la temporalizzazione spaziale e la reintegrazione. Come dobbiamo redigere i piani, come possiamo gestire le città e i territori? Un'indicazione può venire dall'arte moderna che ri fiuta l'oggetto «finito», da contemplare, e compie soltanto metà dell'itinerario necessario alla rappresentazione dell'im magine, lasciando al fruitore il compito di integrare il pro cesso iniziato dall'artista. Come l'architettura, e più di essa, l'urbanistica deve nascere da un colloquio fondato su ipotesi aperte, che la società possa suffragare, modificare, riorien tare secondo le proprie complesse, pluralistiche esigenze. Si tratta di partecipare alla vita della città dall'interno, non passivamente, anzi intervenendo ogni giorno con estrema energia, ma senza gli a priori autoritari, anelastici, illuministi dell' «ordine » geometrico. 6. Sulla didattica architettonica: domande e risposte
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D. La codificazione del linguaggio moderno non rischia di sfociare in una nuova accademia? le sette invarianti non sono sette nuovi «ordini»? R. Tipica mentalità italiana: pur di non sperimentare niente, agitiamo spettri immaginari. Ma perché non provate a fare un progetto, o a tenere un corso di progettazione ba sato su queste invarianti? Il vostro dubbio scomparirà im mediatamente, all'atto di elencare o inventariare le funzioni. D. Il linguaggio riguarda le forme, ma il vero problema oggi non riguarda i contenuti, da cui dipende lo stesso ruolo dell'architetto nella società? R. La prima invariante, l'elenco, investe le funzioni, il programma edilizio, i contenuti sociali dell'architetura. Di menticando la prima invariante, cade tutto il discorso. 0 1 meglio, risulta insensato, perché non c'è più nulla da espri-
mere in dissonanza, da scomporre e da reintegrare. Ciò di mostra che il linguaggio moderno non ammette scappatoie o alibi. O si affronta il tema dei contenuti, oppure si torna al classicismo. D. Una critica basata sulle invarianti serve a giudicare un'opera realizzata; ma un progetto? specie un progetto ur banistico? R. La critica serve in ogni fase progettuale, dallo schizzo preliminare al progetto di massima e a quello esecutivo. Lo abbiamo verificato in cento casi. Naturalmente, un pro getto di massima non consente di giudicare il grado di ap profondimento delle dissonanze, tanto per fare un esempio. Ma il controllo è sempre valido: quel progetto, a quello sta dio, ammette di essere sviluppato rispettando il principio delle dissonanze? Se non lo consente, è un progetto chiuso, reazionario, classicista, e va condannato. In una fase preli minare, in altre parole, può bastare l'elenco; ma occorre accertarsi che la soluzione sia abbastanza aperta da poter recepire le altre invarianti. D. La progettazione non avviene per gradi. Le invarianti sono momenti analitici, ma spesso noi architetti agiamo per sintesi, intuendo la soluzione globale. A che servono allora le invarianti? R. A controllare che questa sintesi, perfettamente legit tima, non sia una sintesi a priori, una soluzione chiusa. Non è necessario partire dall'analisi, ma se la sintesi non è pas sibile di analisi, è proprio quella del classicismo. D. Perché il linguaggio moderno è stato codificato solo adesso? perché questo inspiegabile ritardo che ha precluso di adottarlo su larghissima scala, nella professione e nella scuola, come sarebbe accaduto se il codice anticlassico fosse stato formulato, ad esempio, nel 1945, all'indomani della guerra? R. Quesito angoscioso, ossessivo. Nessuna risposta che non sia meramente consolatoria. Certo, si possono addurre varie giustificazioni: a) nel 1945 erano vivi i maestri del movimento moderno, quindi vigeva l'illusione che una « ma niera» legata alle loro poetiche potesse sostituire un lin-
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guaggio codificato; b) nel 1945, ed anche nel 1955, gli studi linguistici, strutturalistici e semiologici non erano abbastanza evoluti per scuotere il mondo architettonico; e) occorreva un azzeramento globale, non solo architettonico ma esisten ziale, come quello della primavera parigina del '68, per ren dere possibile, dopo un quinquennio, la codificazione di Wl linguaggio democratico. Queste e altre spiegazioni sono pos sibili, ma risultano tautologiche: non è avvenuto perché non è avvenuto. Il quesito resta. Schonberg creò e codificò il linguaggio musicale moderno. Wright e Le Corbusier crea rono quello architettonico, ma non lo codificarono. Perché? perché nessun altro lo fece, risparmiando all'architettura de cenni di sperperi e massacri, di falsi ideologismi e fughe? Interrogativo disarmante, privo di risposta. Ma ora non si perda neppure un giorno nella lotta per popolarizzare il lin guaggio democratico dell'architettura.
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� chiaro che una semiotica della pittura figurativa, an che più vicina a noi, trova la strada preparata da pochi, ma importanti saggi applicativi ai quali può rifarsi, non solo per utilizzarne certi modelli di lettura, ma anche, e soprat tutto, per modificare gli stessi modelli rendendoli più elastici e più operativi o per arricchirli, ovvero, infine, per contro proporne altri di nuovi. E in questo ambito non si può trascu rare il doveroso riferimento ai contributi della semiotica sovietica sulle icone, cioè ai saggi di Zegin I e di Uspenkij 2, noti anche in traduzioni italiane, o agli interventi di Louis Marin, di Jacques Bertin, di Jean-Louis Schefer, di Violette Morin e di vari altri su riviste come « Communications » 3 e « Tel Quel », o, infine, al libro di Schefer, Scénographie d'un
tableau 4• Ma una semiotica dell'arte aniconica, pur tenendo conto, sul piano metodologico, di questi testi, deve rifarsi ad altre ipotesi di lettura, collegate, sotto il profilo teorico, anche ad altri filoni del dibattito sul linguaggio artistico. 1.
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Oltre Lévi-Strauss •
Sebbene le arti visive siano un aspetto secondario delle ricerche di Lévi-Strauss, circa tredici anni fa l'antropologo aveva espresso una sua precisa teoria sull'arte 5, dalla quale presero le mosse alcuni fra i più importanti problemi del dibattito tuttora in atto. Senza esporre punto per punto le concezioni artistiche di Lévi-Strauss, ricordiamo almeno quella che fu, forse, la sua obiezione più grave e più importante per il nostro di scorso sull'arte contemporanea: la pittura astratta, come la musica atonale, non possedendo unità di articolazione di pri mo grado, non avrebbe possibilità di comunicare 6• Lévi Strauss era infatti caduto nel dogma della doppia artico lazione 7 e aveva concluso che le configurazioni visive anico niche sfuggono ad ogni codificazione, non propongono segni, ma realtà fisiche e naturali, per il fatto che presentano il solo livello delle unità di seconda articolazione, cioè quelle
che, secondo la terminologia più usata per i codici visivi 1, chiamiamo figure ( equivalenti ai fonemi della lingua verba le), ossia forme e colori, che sono unità differenziali sfor nite di significato autonomo. Ma Prieto 9 ed Eco 10, tanto per fare due nomi, hanno in seguito esaurientemente dimo strato che ci sono codici comunicativi con vari tipi di artico lazione o addirittura nessuna e che ci sono codici i cui li velli di articolazione sono permutabili, sicché le tesi di Lévi Strauss sulla pittura astratta sono state in larga parte con trobattute u. Ma se le concezioni di Lévi-Strauss a proposito dell'arte non figurativa, che sembra ridursi sul piano dell'inarticolato e percio"stesso dell'arbitrario, ci appaiono ormai superate dal le teorie più recenti sui codici non verbali, sono tutt'altro che pacifici e scontati - come è dimostrato da vari inter venti di questi ultimi anni 12 - alcuni problemi di comuni cazione estetica da quelle implicati, e cioè Io stesso problema del codice e quello del significato e, con ciò, anche il pro blema del destinatario rispetto alla sorgente. Ma poiché sia mo convinti che il momento della riflessione teorica tragga apporti vitali proprio dal momento pratico-applicativo, nel quale si inverano e perciò si chiariscono e si approfondi scono, si confermano ovvero si smentiscono gli assunti teo rici, riteniamo che debbano essere finalmente offerte ipotesi operative o, quanto meno, che debbano essere rese applica tive al più presto proposte già esistenti, come quelle di Prieto e di Eco. Esse possono venir utilizzate per un progetto ge nerale di lettura delle opere d'arte, sia che queste si fondino su segni iconici, sia su segni aniconicl, sia infine su segni appartenenti a quella nuova «iconicità» che si manifesta a partire dagli anni sessanta, dopo la «crisi dell'informale ».
2.
Dall'informale alla pop art
Un'opera pittorica, tanto che sia costituita da segni iconici quanto da segni aniconici, è sempre analizzabile, per dirla con Max Bense 13, in percettemt, cioè in « unità percet-
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propria lingua, attualizzata di opera in opera, di fruizione in fruizione da diverse parole 25). Quindi al critico è sempre possibile ritrovare e ricostruire, quantunque con difficoltà, l'idioletto o gli idioletti che costituiscono ogni singola opera, cioè, praticamente, il diagramma strutturale che presiede a tutte le sue parti: ciò che porta ad introdurre il concetto, sostenuto da Pareyson, di « stile » come « modo di forma re», con un processo di progressive generalizzazioni strutttu rali, che si instaura tra l'idioletto dell'opera, lo stile .e la maniera che si codifica 26• E veniamo ad alcune tendenze ancor più v1cme a noi, come la pop art, il new dada o il Nouveau Réalisme. Con queste correnti ci troviamo - in linea di massima - di fronte ad opere che lavorano sullo sfondo dei codici conven zionali, conferendo ad essi usi e valori nuovi. L'artista crea le proprie opere con elementi oggettuali della società in cui vive: i vasi di pomidoro con le relative etichette, il tubetto di pasta dentifricia, le scarpe, il letto, la stoffa di tappezzeria con gli arabeschi e i fiori, l'hamburger ed altri cibi, cucchiai e forchette, la riproduzione di una celebre opera d'arte del passato e così via. Si tratta di elementi che nell'uso abituale parlano agli utenti un preciso linguaggio, poiché, come spiega Barthes, per il solo fatto che c'è società, ogni uso è conver tito in segno di quest'uso 27: la moda femminile, la bandiera americana, l'animale impagliato, il pollo arrosto o la lattina di· birra comunicano dunque precisi significati. Ma gli ar tisti utilizzano tutti questi elementi del quotidiano e li fanno diventare segni di un altro linguaggio, istituendo così, nel l'opera, un nuovo codice che il fruitore decodificherà in rap porto alle singole poetiche (e la corretta decodificazione av verrà, come per l'opera aniconica, solo a condizione che il fruitore conosca le regole di questo nuovo tipo di comunica zione, cioè la poetica dell'autore, legata metallnguisticamente, come sistema complementare, alla lingua « parlata » dal l'opera: altrimenti il -fruitore impreparato ne darà un'inter pretazione aberrante, ovviamente non a livello dei codici di partenza (oggetti e materiali riutilizzati), ma del lessico, ov24 vero del linguaggio secondo) 28• •
Il pittore dunque, decontestualizzando l'oggetto e confe rendogli nuove significazioni, procede ad .una « fissione se mantica », per usare un'espressione di Lévi-Strauss: come l'orinatoio di Duchamp viene assunto in un contesto diffe rente da quello abituale e pratico, acquistando valore seman tico diverso, mentre il suo uso consueto e banale viene con notato ironicamente, così gli oggetti degli artisti pop o dei nouveaux réalistes, raccolti dal mondo moderno, tecnologico e consumistico, accumulati o smembrati (si pensi agli assem blages e ai dissemblages di Arman, alle combinazioni ogget tuali di Spoerri o ai décollages di Heinz e di Rotella), non sono semplicemente oggetti del nostro contesto sociale, ma, per il fatto stesso di esser stati prelevati dal loro ambiente o, quanto meno, sottolineati da una certa operazione artistica, pur rimanendo nell'ambiente usuale (come accade con gli em paquetages di Christo), acquistano ai nostri occhi una nuova evidenza e perciò nuove pregnanze semantiche, mettendo così in luce - acriticamente o, più spesso, criticamente o polemi camente - alcuni aspetti della società in cui si trovano in seriti. Così anche l'olio su tela di Lichtenstein, riproducente un gomitolo di spago (1963 - Darmstadt, coll. Karl Stroher), non denota tanto « gomitolo di spago», quanto piuttosto « brano di fumetto» estrapolato dal contesto, ingrandito e ricostruito in un'operazione artistica, e connota comunque, fra gli altri significati, l'immagine di un « gomitolo di spago così come viene rappresentato nei comicstripes», con, in più, le nuove intenzioni e perciò tutta la rete di significati che l'operazione artistica ha voluto conferire a quel brano (la proposta di nuove modalità di percezione e di resa spaziale, proiezioni cioè di uno spazio « topologico», come ha osservato Ma�io Calvesi 29, l'interesse prevalente per il medium anziché per il messaggio, ecc.). È proprio su un brano di fumetto disegnato da Lichten stein che si appunta l'analisi semiotica di Emanuela Cresti 30, interessante oltre che per l'applicazione di una griglia inter pretativa precisa e puntuale ad un fenomeno di « fissione se mantica », anche perché si inserisce nel cuore del dibattito
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più vivo e p1u ricco di apporti, almeno teorici, quello cioè sui segni iconici 31 • La lettura della Cresti si basa su una cor retta applicazione del noto grafico hjelmsleviano, per cui il segno, associando un significante (o espressione) ad un signi ficato (o contenuto), li organizza secondo la quadri partizione: s C f f E s Dell'operatività del modello hjelmsleviano, con i debiti adattamenti caso specifico per caso specifico (come del resto della produttività dell'albero di Katz e Fodor, utilizzato in altra sede da Umberto Eco 32), non si può dubitare: il suo impiego non solo ci sembra fornire una lettura corretta e ben articolata dei fenomeni in esame, ma ci fa convinti della sua utilizzabilità non solo per altre opere dello stesso tipo, ma anche per espressioni artistiche di altri filoni contempo ranei, come quello concettuale e in particolar modo per il filone del cosiddetto « concettualismo puro ».
3. Fra concettualism o e comportamentismo Un discorso sulla semiotica di fronte ad esperienze come quelle dell'arte comportamentale e dell'arte concettuale im plica sovente anche un discorso su altri episodi che possono esser fatti confluire entro queste due categorie fondamentali, pur non identificandosi, di fatto, con esse. Mentre, in una sede più specificatamente storica, è neces sario cercar di rispettare le opportune distinzioni fra termini che, pur indicando esperienze con parecchi punti in comune (come nel caso dell'arte povera, della land art o earth art, i cui operatori confluiscono nel concettualismo ), tuttavia non 26 si equivalgono e non sono perciò usabili_ sinonimicamente,
ciznte; diversamente, avverte Catherine Millet 35, si cade in
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una pratica che potenzia al massimo proprio i poteri evocativi insiti nel linguaggio, fino a produrre qualcosa di equivoca mente vicino alla peggiore « sottoletteratura» (si pensi alle operazioni di certo concettualismo · italiano, da Calzolari a Scheggi). Afferma Kosuth che arte è la· ricerca della natura del l'arte e che fondamentale per questa idea dell'arte, è la com prensione della natura linguistica di tutte le proposizioni ar tistiche, siano esse passate o presenti, e senza riguardo al cuno agli elementi usati nella loro elaborazione 36; e Burn e Ramsden addirittura osservano: forse una forma di analisi semiotica, la cui validità non dipende soltanto dal nwnerosi scambi di applicazione ma dall'osservanza indotta nel campo delle connessioni ( forme proposizionali, per esempio) « è un'opera d'arte ». Questo costituisce un genere di meta-arte o, si potrebbe anche pensare, « l'arte dell'arte,. 37• Se «l'idea dell'arte» e l'arte dunque si identificano, l'arte, risolvendosi nella sua predicabilità metalinguistica, si ripiega - come accennavamo sopra - in un'analisi che prolifera tautologicamente. Ma come realizzano questi artisti la loro semiotica in atto? Kosuth, ad esempio, nel 1965, accosta ad una sedia la re lativa fotografia e la relativa definizione, ricavata da un di zionario, con l'intento non di conferire una qualche importan za alla presenza della sedia o della foto o della definizione, ma con quello di sottolineare il «processo» che porta all'idea di sedia e l'intercambiabilità dei linguaggi (ed è• proprio per non turbare con suggestioni e connotazioni la germinazione della pura «p6iesis» che usa la definizione del vocabolario e non altre, meno comuni e risapute). Dunque,nel considerare l'oggetto-sedia di One and three chairs, dobbiamo renderne pertinenti solo alcune qualità convenzionali, le stesse cioè contemplate dalla definizione di «sedia» del vocabolario e, usando una terminologia appropriata, possiamo quindi dire di essere in presenza di un referente semiotiu.ato o, più correttamente,. di· un segno ostensivo 38, accostato ad un segno
iconico 39 e, se vogliamo, anche indicale 40 (o, meglio, ad un si stema di segni iconico-indicali a cui, per una credenza piut tosto ingenua, si attribuisce una «reale » somiglianza con l'oggetto corrispondente e che costituiscono la foto); ai primi due elementi è stato inoltre accostato il termine «sedia», dal linguaggio verbale, cioè il segno sostitutivo 41 «sedia», che a sua volta viene spiegato metalinguisticamente, con il ricorso ad altri segni del linguaggio verbale (quelli della de finizione riportata accanto al termine). Dopo il 1965 Kosuth passa a presentare ingrandimenti fotografici con le sole definizioni del vocabolario; sparisce del tutto l'opera-oggetto, facilmente fraintendibile, e si pre para la strada alla pura «p6iesis », all'arte dopo la filosofia 42 • Kosuth non conduce mai, comunque, un'analisi seman tica dei segni presentati, siano essi verbali o no, ma si limita ad esporli. A questo punto ci pare già di poter affermare che le sue ricerche e quelle di altri « analitici » sono senz'altro positive sotto il profilo dei contributi al rinnovamento radi cale dell'arte, della sua funzione e della sua stessa definizione, ma anche che esse non si identificano con le analisi semio tiche secondo quanto auspicato, invece, dalla Millet 43• La semiotica, infatti, mira a fondare nel modo più rigo roso possibile il proprio oggetto e a dirci perciò anche se e come i segni siano strutturati e come funzionino. Inoltre, secondo noi, è sempre possibile instaurare un linguaggio se condo, cioè un discorso critico che si avvalga del metodo se miologico, come discorso ben distinto rispetto ai discorsi artistici che si qualificano espressamente come semiotiche in atto; e, in questo caso, non si tratta - precisiamo - di voler mantenere in vita il mito della critica a posteriori e della sua funzione di mediatrice tra opera e fruitore, ma solo dell'esigenza di non confondere alcune ricerche aspiranti ad identificarsi con la «semiotica », o, talvolta, peggio, vaga mente echeggianti le pratiche semiotiche, con la scienza dei segni, tesa a spingere sempre più a fondo le ricerche sui lin guaggi. Per Kosuth e altri concettuali, invece, perseguendo l'arte la propria autoanalisi, artista e critico coincidono, sicché la i9
funzione critica, - come ha annotato giustamente Angelo Trimarco - pure riscattata dal banale, comodo (per il mer cato) ruolo di intermediaria (artista• galleria - pubblico dei collezionisti), torna a essere inventario o catalogo di « vi sioni », il registro sul quale il sacerdote-artista annota il si lenzioso discorso con il « Logos » 44• Ma il « 16gos » - spiega Migliorini a proposito del misti cismo finale del lavoro teorico di Kosuth - come in Plotino, ha solo la funzione di indicare l'anéldon, quel privo di forma che è, qui, la vecchia nozione di arte 45• Pur essendo forse le tesi di Kosuth fra le più lucide e le più coerenti della poetica concettuale, non si vede, a questo punto, come esse, dopo lo « scacco mistico » e il tuffo finale nell'ineffabilità e nell'impredicabilità (il linguaggio diventa « mistero » di cui partecipano l'artista e il pubblico formato da artisti!) possano ancora consentirci di parlare di arte concettuale come di semiotica dell'arte 46 e di sostenere che le modalità di ricerca del concettualismo, in quanto aspi rano a qualificarsi scientifiche, bastano da sole a conferirgli lo statuto di una vera e propria semiotica. Piuttosto è lecito instaurare una lettura semiotica delle stesse analisi concettuali, e, come si accennava alla fine del paragrafo 2., questa potrà attuarsi particolarmente sulla base delle indicazioni hjelmsleviane e degli « alberi » di Katz e Fer dor e di Katz e Postal, ma anche sulla base di altre ipotesi da sperimentare. Ben si sa che i concettualisti « ortodossi » e la loro mag gior teorica, Catherine Millet, hanno mostrato, invece, di pre diligere i modelli analitici dello strutturalismo più rigida mente « formalistico », incentrato cioè sull'analisi del signi ficante; ma tali scelte nel campo semiotico sono direttamente collegabili a ben detenninati assunti estetici e non si com prendono se non in rapporto a quelli. Il discorso della se miotica come metodologia, si identifica quindi, a questo li vello, con il discorso della semiotica come ideologia e la scelta metodologica di un certo tipo di semiotica piuttosto che di un altro diventa anche scelta ideologica. Spieghiamoci me30 glio. Se l'arte è un ripiegamento formalistico sulla propria
sintassi interna, se essa non stabilisce rapporti metaforici fuori di sé e si esaurisce nell'ordine della propria contestua lità assoluta, e se, quindi, viene ·demolito il concetto saussu riano di valore 47 , non resta allora altra dimensione che quella del significante per se stesso, autogiustificantesi. Ma rifiutare l'indagine sul significato equivale a rifiutare l'indagine su tut to ciò che rimanda all'universo ideologico (che è sempre ester nità, rapporto con l'altro da sé). Inoltre, come l'atteggiamento dei concettualisti « ortodossi », facenti capo alle teorizzazioni della Millet, aspira alla non integrazione nel sistema, me diante la chiusura dell'arte nella propria autoriflessione, nel proprio universo separato e solipsistico, che la garantisce da ogni contatto contaminante, così la scelta di un modello se miotico di « autoanalisi » non può che essere quella di una semiologia volta a studiare e ad analizzare soltanto l'aspetto morfologico dei segni e non il loro aspetto semantico. Ma alla Millet sembra sfuggire come l'ideologismo si nasconda, so vente, anche e proprio dietro all'asettica incontaminatezza ideologica o, quanto meno, come il nichilismo, frutto magari di una scelta perfezionisticamente radicale e totalmente astratta dalla prassi, finisca col fare il gioco proprio della ideologia (nel senso marxiano del termine) e del sistema a quello sotteso. Questa obiezione, trasferita sul piano della critica semiologica puramente formalistica, implica l'equivo cità e la pericolosità di un'analisi che eviti di occuparsi del significato, il quale finisce sempre col portare allo studio dell'universo dell'ideologia 41• Ed è chiaro inoltre che fin che si continua a non rendere conto della componente ideolo gica dei linguaggi - cosa che non fanno né i concettuali sti « puri » né le semiotiche formalistiche - o, in altre pa role, si escluda il problema della produzione linguistica in rapporto alle sue determinazioni sociali 49, la semiotica non solo rimane una scienza staccata dalla prassi, ma addirittura trasforma la propria assoluta « neutralità • in una perfetta funzionalità al sistema capitalistico 50• Ma veniamo al concettualismo definito « comportamenti stico » o « vitalistico », di cui nulla finora abbiamo detto. :t1. ancora possibile una critica che si avvalga del metodo semio-
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tico per quelle tematiche che non solo si legano all'arte po vera o alla land art, ma che addirittura danno luogo alla bo dy-art (contrapponibile al concettualismo puro)? Questa pos sibilità appare senz'altro realizzabile, nel caso soprattutto della body-art, col ricorso alla prossemica 51, alla cinesica 52 e perfino a taluni aspetti della paralinguistica 53• Azioni sul tipo di quelle che, accanto ad oggetti, propo neva Kounellis (si pensi agli ultimi « quadri viventi») o i ge sti di Vito Acconci o di Klaus Rinke non possono esser presi in esame prescindendo dalla scienza che studia appunto il si gnificato dei gesti, degli atteggiamenti motori, delle espres sioni del volto, delle posture corporali, che si qualificano con tratti cinesici per lo più codificati (indipendentemente dal fatto che molta body-art si prefigga uno scopo liberatorio e consideri « il gesto» non codificato e non codificabile), o prescindendo dalla prossemica, grazie alla quale ormai sap piamo che non vi è distanza spaziale tra due o più individui né modo di usare lo spazio che non abbiano un preciso signi ficato; infine non si potrà prescindere dalla scienza che va sotto la denominazione di paralinguistica, anch'e·ssa già en trata a buon diritto nel panorama di studi semotici e che si occupa delle intonazioni, delle inflessioni di voce, del diverso significato di un accento, di un'inflessione, di un sussurro, di un lamento, di una spezzatura di voce, perfino di un sin ghiozzo o di uno sbadiglio. Si pensi all'utilità che può mo strare la paralinguistica per accostarci, ad esempio, ad « ope re» come « la stanza per voci» di Alfano (1971). . A questo punto potrà venirci obbiettato da qualcuno che non occorrono le scienze semiotiche per penetrare gli ele menti vitali che sono alla base delle operazioni comportamen tistiche, raggiungibili per « naturale» e « spontanea» com partecipazione esistenziale: ma allora, a questo punto, biso gna interrogarsi sulla valutazione da dare al binomio arte/ vita, cui si ispirano queste esperienze, e chiedersi se non sia puramente illusorio parlare di totale identificazione fra i due· termini del binomio. Inoltre, se già, nella vita reale, nella nostra quotidianità, 32 ogni nostra frase; ogni nostro gesto fa scattare un meccani-
smo che inserisce il nostro «io » in un circuito di segni, che fa cioè del soggetto qualcosa che si definisce attraverso segni offertigli dalla cultura e non già una mera esistenza, non è difficile immaginarsi che cosa accada, sotto il profilo semio tico, quando un gesto, una frase, un'azione vengono «rita gliati » dalla vita reale e proposti come arte, cioè, in una pro spettiva che è pur sempre lecito definire «estetica ». Per il fatto stesso che l'artista ostenta il proprio compor tamento in una galleria - ma anche se il gesto si inscrive in un ambiente diverso, fuori dallo spazio convenzionale delle mostre, per le strade o in mezzo alla natura, il discorso non cambia o, meglio, cambia solo in apparenza - converte in segno, o in un fascio di segni, la propria presenza e la pro pria azione. Né ci pare che la dimensione dello spazio comu nitario, cioè la partecipazione attiva del pubblico, il suo coin volgimento nell'azione dell'artista, e perciò la realizzazione di un'arte che dovrebbe esser vita ed autoliberazione insieme, sostenute da artisti e teorici di questo filone, bastino a far concludere che nelle loro azioni è del tutto assente l'elemento di «rappresentazione » o, meglio, l'elemento segnico che ne fa non già dei dati biologici originari, ma eventi pur sempre definentisi e definibili in termini culturalizzati. Se pensiamo che anche i segni cosiddetti espressivi, cioè emessi involon tariamente, sono « leggibili» cioè «interpretabili» da qual cuno, indipendentemente dalle intenzioni comunicative del l'emittente, non si può certo concludere che le operazioni de gli artisti poveri e dei comportamentisti si diano come puro «esserci». Anche se essi artisti non hanno come obbiettivo il pro cesso di rappresentazione della vita, ma vogliono solo senti re, conoscere, agire la realtà e cercano di ricondursi agli elementi primigeni della natura, noi siamo in grado di leg gere comunque i loro, diciamo, segnali ( dato che i segni com portano un'intenzionalità comunicativa dell'emittente e i se gnali no). Spiega Germano C.elant che per questi artisti comunicare con le persone e le cose vuol dire essere in comunicazione estatica e simpatetica col mondo, vuol dire cioè recuperare 33
il momento fantastico-immaginativo, la propria totalità al l'interno della vita dell'universo e vuol dire anche fare, come opera, qualcosa che si costituisce come una specie di prolun gamento del proprio essere immaginativo e corporeo e che non presenta perciò che il livello metonimico. E non diciamo poi del particolare esercizio di lettura che comporta quel singolare filone concettuale che suole ri correre, come spiega Renato Barilli 54 al « pulchre cogitare », con una pratica avvicinabile alle trovate del concettismo. Il gioco dell'analogia tra cose dissimili o, viceversa, la restitu zione del suo significato letterale ad un traslato ormai di venuto comune e logoro (si pensi, ad esempio, alle opera zioni di Gino De Dominicis sui segni zodiacali o sulla morra cinese), si possono analizzare anche mediante il ricorso ai codici retorici 55• Per concludere: fra la proposta di « azioni ,. esistenziali, mistiche ed « autoliberatorie ,. che tuttavia non sfuggono - come s'è indicato - ad una lettura che ne mette in luce, a loro dispetto, le modalità di significazione (attraverso la negazione di alcuni codici e la loro ristrutturazione - come accade, del resto, per ogni messaggio estetico-), e la propo sta, che era già stata di Piero Manzoni 56, dell'autosignifica zione non solo dell'entità-quadro ma di ogni entità-oggetto, la semiotica, dal proprio punto di vista ribadisce che, seb bene l'arte, giunta a questo punto, non voglia dire, né spie gare, ma soltanto essere, essere pura presenza così come noi siamo, non è possibile pensare «presenze ,. che l'uomo non converta in «segno» sr. 1 L. F. :lEGIN, Le ' montagne delle icone ' unità spazio-temporale del l'opera pittorica, in AA.VV., / sistemi di segni e lo strutturalismo sovie tico, a cura di Remo Faccani e Umberto Eco, Milano, Bompiani, 1969,
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pp. 211-239. 2 B. A. USPENSKIJ, Per l'analisi semiotica delle antiche icone russe in AA.VV., Ricerche semiotiche. Nuove tendenze delle scienze umane nell'URSS, a cura di Jurij M. Lotman e Boris Uspenskij (ed. it. a cura di Clara Strada Janovié), Torino, Einaudi, 1973. 3 Segnaliamo in particolare « Communications "• n. 15, 1970, total mente dedicato alla semiotica dell'immagine (con saggi di C. Metz, U. Eco, E. Ver6n, J. Durand, G. Péninou, V. Morin, S. Du Pasquier, P. Fresnault-Deruelle, J. Bertin, L. Marin, J. L. Schefer). 4 J. L. SCHEfER, Scénographie d'un tableau, Paris, Seuil, 1969 (che
riporta, in appendice, il saggio, Lecture et système du tableau, apparso in « Information sur les scicnces sociales », VII, 3, 1968). Un esam� critico circostanziato delle basi teoriche e metodologiche dei saggi di Schefer si trova nell'ampia recensione di Lou1s MAiuN, Le discours de la figure, in « Critique•, novembre 1969 e, inoltre, in S. BEITINI, Lezioni di Storia della Critica d'Arte, A.A. 1969-70, Istituto di St. dell'Arte del l'Un. di Padova (dispense ciclostilate). s Si vedano: G. CHARBONNIER-C. LM-STRAUSs, Entretiens avec Uvi Strauss, Paris, Plon-Juilliard, 1961 (tr. it., Colloqui, Milano, Silva, 1966) e successivamente C. Uvr-SrRAuss, Le pensée sauvage, Paris, Plon, 1962 (tr. it. li pensiero selvaggio, Milano, Il Saggiatore, 1964) e Le cru et le cuit, Paris, Plon, 1964 (tr. it., Il crudo e il cotto, Milano, Il Saggiatore, 1966) - Ouverture. 6 Per questa tesi si legga, in particolare, l'Ouverture de Le cru et le cuit, cit. 7 Secondo una definizione ricorrente in U. Eco, La struttura assente, Milano, Bompiani, 1968, sez. B - cap. II. Il Mito della doppia articola zione, pp. 131-135. s Ci riferiamo, in particolare, alla terminologia usata da Luis Prieto (Messages et sig11aux, Paris, P.U.F., 1966 - ed. it., Lineamenti di !;e,niologia. Messaggi e seg11ali, Bari, I.aterza, 1971) e ripresa poi da Umberto Eco (Op. cit., in particolare sez. B • cap. 3, e Io., Sémiologie des messages visuel, in « Communications•, n. 15, 1970, pp. 11-51). 9
Op. cit.
10 Op. cit., 1968, ed Art. cit., 1970. 11 Cfr. soprattutto U. Eco, Op. cit.,
pp. 131-135 ed Io., Art. cit., pp. 28-31. Osserviamo, per inciso, che le posizioni di Eco nei confronti dello strutturalismo dogmatico di Lévi-Strauss - posizioni che noi evi dentemente condividiamo - in parte sono state precisate, in parte invece criticate in due articoli di Franco Bernabei, l'uno apparso in « Marcatré �. nn. 46/47 /48/49, 1969, pp. 198-211, intitolato Strutturalismo e critica d'arte, l'altro apparso in « I.a Biennale di Venezia•• nn. 64/65, 1969, pp. 23-32, col titolo Lévi-Strauss e la critica delle arti figurative. 12 In particolare ricordiamo T. LLORENS, Sul concetto di comunica zione estetica, in « Op. cit. "• n. 27, 1973, pp. 46-60 (comunicazione pre sentata al �emiotics Intemational Workshop, Ulm-Donau, ottobre 1972). Il M. BENsE, Zeichc11 un und design. Semiotische if.sthetik, Baden Baden, Agis Verlag, 1971 (in italiano, esiste - per ora - solo una tra duzione di un capitolo del libro, a cura di Ugo Volli: Semiotica della forma e dei colori. Il problema del linguaggio visivo, in « VS ", n. 3, 1972, pp. 60-63 ). 14 Il termine è usato nel senso di Prieto (sulla linea di Buyssens) e di Eco. 1S Questa ipotesi è già indicata da U. Eco, Op. cit., 1968, p. 160. 16 « Un lessico si costituisce come sistema di opposizioni significa tive, ma può non contemplare le regole di combinazione, rinviando per queste al codice di cui è lessico. Cosi un lessico· connotativo assegna al. tri valori ai significati del codice denotativo soggiacente, ma accetta le regole di articolazione previste da questo•· (U. Eco, Op. cit., 1968, p. 50). 11 Definizione mutuata da E. GARR0NI, La crisi semantica delle arti, Roma, Officina, 1964. 1s U. Eco, Opera aperta, Milano, Bompiani, 1962; 2• ed. 1967; 3• ed. 1971, (si rilegga, ìn particolare, il capitolo L'opera aperta nelle arti vi sive e, soprattutto, il paragrafo Forma e apertura). 19 U. Eco, La struttura assente, cit., p. 160. 20 Ibidem, p. 161. 21 U. Eco, Op. cit., 1968, p. 68. Lo stesso RoMAN JAKOBSON (Essais
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de Linguistiq11e générale, Paris, Ed. de Minuit, 1963, p. 54; tr. it. Saggi di linguistica generale, Milano, Feltrinelli, 1966), del resto, ha dimostrato l'illusorietà del concetto di idioletto, dal momento che il linguaggio,
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in quanto tale, « è sempre socializzato ». Tuttavia, se è pressoché im possibile parlare di un idioletto puro, fatta eccezione, se si vuole, per il linguaggio dell'afasico, la nozione di idioletto, presa nell'accezione più generale, è per Barthes ed altri ben utilizzabile tanto per designare lo « stile» di uno scrittore quanto, in senso lato, per designare « il linguaggio di una comunità linguistica, cioè di un gruppo di persone che interpretano allo stesso modo tutti gli enunciati linguistici» (cfr. R. BARTHES, Eléments de sémiologie, in « Communications», n. 4, 1964; tr. it., Elementi di semiologia, Torino, Einaudi, 1966; p. 23 dell'ed. it.). 22 Ibidem, p. 123. 23 Nel senso indicato da I. FoNAGY a proposito del linguaggio verbale (L'information du style verbal, in « Linguistics», n. 4, 1964). 24 G. DoRFLES, Ultime tendenze nell'arte d'oggi, 19732, p. 24 (1• ed. 1961). 25 Cfr. G. C. ARGAN, L'arte moderna 1770/1970, Firenze, Sansoni, 1970, p. 7'}5, 26 Cfr. U. Eco, Op. cit., 1968, p. 68; in nota Eco fornisce anche una. soddisfacente bibliografia per il problema della considerazione semio tica dello stile; ad essa rimandiamo direttamente. Inoltre, per il pro, blema dello stile è assai utile il paragrafo 2 della Parte l• di C. SEGRE, i segni e la critica, Torino, Einaudi, 1969 (2. La sintesi stilistica, pp. 29-35). n R. BA1tllil!S, Op. Cit., p. 39 dell'ed. it. 2B Non ci troviamo quindi del tutto d'accordo con Umberto Eco, quando, nelle varie tendenze post informali come la pop e il Nouveau Réalisme, che e lavorano di nuovo sullo sfondo di codici precisi e con venzionali», intravvede la soluzione del problema delle possibilità e delle modalità comunicative di certa arte contemporanea, incapace altri menti di comunicare pienamente e direttamente « se non appoggiandosi a sistemi complementari di comunicazione linguistica» (enunciazioni delle poetiche, presentazioni di catalogo, ecc.) (U. Eco, Op. cit., 1968, p. 162). 29 M. CALVESI, Le due avanguardie, Milano, Lerici, 1966;, 2• ed. Bari, Laterza, 1971. 30 E. CRESTI, Oppositions iconiques dans une image de bande des sinée reproduite par Lichtenstein, in «VS », n. 2, 1972, pp. 41-o2. 31 Sull'iconismo si vedano: U. Eco, Introduction to a semiotics of iconic signs, in «VS», n. 2, 1972, pp. 1-15; C. METZ, Cinema e ideografia, in e VS», n. 2, 1972, pp. 17-28; A.A. M0UlS, Teoria informazionale dello schema, in «VS", n. 2, 1972, pp. 29-40; Contributi sui segni iconici (con interventi di u. Vow, D. OSM0�MITH, F. CASETII, A. FARASSIN0, G. BETIETINI, M. BENSE) in «VS "• n. 3 1972, pp. 13-o3; M. CoRVIN, A la recherche du signifìant iconique, in « Revue d'esthétique», n. 4; 1972; M. K.RAMPEN, lconic signs, supersigns and models, in «VS», n. 4, 1973, pp. 101-108; D. OSM0NO-SMITH, Formai iconism in music, in «VS», n. 5, 1973, pp. 43-52; J. P. BoNTA, Notes for a theory of Meaning in Design, in «VS», n. 6, 1973, pp. 26-57; W. P. Mc LEAN, Propositions for a Semiotica! Defìnition of the Photograph, in e VS», n. 6, 1973, pp. 59-o7; G. BETIETINI, F. CASETII, La sémiologie des moyens de communication audiovisuels et le problème de l'analyse, in « Revue d'esthéthique», nn. 2/3/4, 1973; pp. 87-96; C. MALTESE, Per una semiologia dell'iconismo, in e Qui Arte Contemporanea"• n. 10, 1973, pp. 10-13. 32 Si vedano, sopratttuto, le utilizzazioni del modello di Katz-Fodor Postal nei saggi raccolti ne Le forme del contenuto, Milano, Bompiani,
1971, e nel saggio Analisi componenziale di un segno architettonico, in e Op. cit. », n. 22, 1971, pp. 5-29. l3 La bibliografia sull'arte concettuale è molto vasta, cosl che non è possibile darne una rassegna in questa nota. Rimandiamo pertanto a due saggi specifici sull'argomento apparsi in questa rivista, chiarifica tori, ben informati e corredati di un apparato bibliografico adeguato: D. DEL PESco-M. PICONE, Note sull'arte concettuale, in « Op. cit. », n. 25, 1972, pp. 5-34 e R. BARILLI, Le due anime del concettuale, in «Op. cit. », n. 26, 1973, pp. 63-88. Inoltre segnaliamo Bibliografia essenziale su: arte povera • land art • arte comportamentale • arte concettuale . iper realismo • nuova pittura, a cura di NICOLA SCONTRINO, in «Proposta•• nn. 8/9, 1973, pp. 59-61. 34 E. M!GLIORINI, Conceptual Art, Firenze, Il Fiorino, 1972 (il testo del Migliorini è, in Italia, il primo studio ampio ed organico sui pro blemi cli questa tendenza). 35 C. MlLLET, Prefazione al catalogo della Biennale di Parigi, 1971; lo., Note sur Art-Language, in « Flash Art"• n. 26, 1971. 36 J. Kosunr, Introductory, Note by the American Editor, in « Art• Language », n. 2, 1970 (la traduzione da noi citata è riportata da G. DOR· FLES, Op. cit., 19732, pp. 184-185). 37 I. BoRN·M. RAMSDEN, Il grammatico (estratti in • Concept-Théo rie•, 1970) (la traduzione qui citata è riportata da G. DoRFLES, Op. cit., 19732, p. 183). 38 « Si avrebbe un segno ostensivo quando un oggetto viene usato per significare se stesso, esibendosi in quanto oggetto singolo o in quan to membro di una classe" (A. FAR'lSSINO, Richiamo al Significante, in «VS », n. 3, 1972, p. 50). 39 Per la nozione di segno iconico si rimanda alla bibliografia indi• cata nella nota 31. Per un primo approccio ai problemi dell'iconismo e relative definizioni vedasi U. Eco, Segno, Mi,lano, ISEDI, 1973, special. mente pp. 116-124. 40 Per la definizione cli indice: C. S. PEIRCE, Collected Papers, Cam bridge, Harvard Un. Press, 1931-1935. Sul valore indicale delle immagini nel cinema, in particolare: G. BETIETINI, L'indice del realismo, Milano, Bompiani, 1971. 41 Nel senso di Eco, Op. cit., 1973, p. 57. 42 J. Kosunr, Art after Philosophy, in «Studio International "• ott., nov., dic. 1969. La prima parte del saggio è stata ristampata in tradu zione italiana (a cura di Anna Perroni) in «Data», n. 3, 1972, pp. 39-45. 43 C. MILI.ET, L'art conceptuel comme sémiotique de l'art, in « VH 101 », n. 3, 1970. 44 A. TRIMARCO, L'arte dopo la filosofia, in • Proposta•, nn. 8/9, 1973, p. 41. 45 E. MtGLI0RINI, Op. cit., p. 163. 46 C. M1LLET, Art. cit. 47 F. Dll SAUSSURE, Cours de linguistique générale, Paris, Payot, 1922 (ed. it. Corso di linguistica generale, Bari, Laterza, .1967; 2• ed. 1968; Parte seconda • cap. IV. 11 valore linguistico). 48 «L'apparato segnico rinvia all'apparato ideologico e viceversa, e la semiologia, come scienza del rapporto tra codici e messaggi, diventa al tempo stesso l'attività di identificazione continua delle ideologie• (U. Ec.o, Op. cit., 1968, pp. 34-35). Afferma inoltre risolutamente Eco: « Se una semiotica si ha da fare, essa dovrà occuparsi anche dell'uni verso del contenuto• (Op. cit., 1971, p. 8). <49 Il problema delle strutture ideologiche e storico-sociali ·del pro cesso di produzione linguistica viene affrontato da AUGUSTO PONZIO nel libro Produzione linguistica e ideologia sociale. Per una teoria marxista
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1973. Ponzio, che nel suo saggio approfondisce la categoria del lavoro linguistico già stu diata da Ferruccio Rossi-Landi (Il linguaggio come lavoro e come mer cato, Milano, Bompiani, 1968; Semiotica e ideologia, Milano, Bompiani, 1972), spiega infatti: • Un'analisi linguistica che [ ... ) non voglia limi tarsi alla constatazione e alla descrizione degli usi delle parole, deve prendere in considerazione il lavoro linguistico mediante il quale certi significati si costituiscono, le sue motivazioni, l'organizzazione dei rap. porti sociali, gli interessi, le condizioni sociali ed economiche, i bisogni storicamente precisati dei soggetti che impiegano determinate parole • (p. 188). 50 Si veda, al riguardo, M. TAFURI, Progetto e utopia. Architettura e sviluppo capitalistico, Bari, Laterza, 1973 (Cap. 7. L'architettura e il s110 doppio: semiologia e formalismo). L'accusa mossa da Tafuri alla se miotica è infatti quella di porsi oggi « come ideologia; e più esatta mente come ideologia della comunicazione• (p. 154). Infatti, secondo l'A., le ricerche orientate in senso semiotico sono, significativamente, contemporanee « all'uso capitalistico della scienza e dell'automazione • e direttamente connesse ai • sistemi di comunicazione nati a partire da un piano di sviluppo• (p. 140). Ma il tipo di semiotica attaccato da Tafuri si identifica, in realtà, con la semiologia più formalistica, di sgiunta, quindi, da alcune operazioni correlative e indispensabili di critica sociale ed eludente il problema della produzione linguistica. SI Per la prossemica rammentiamo: E. T. HALL, The silent language, New York, Doubleday & Co., 1959 (tr. it. Il linguaggio silenzioso, Mi lano, Bompiani, 1969); Io., A System for the Notation of Proxemic Behavior, in « American Anthropologist », n. 65, 1963 (tr. it. in «VS•, n. 2, 1972); Io., The Hidden Dirnension, New York, Doubleday & Co., 1966 (tr. it., La dimensione nascosta, Milano, Bompiani, 1968); lo., Pro xernics (con commenti di R. Birdwhstell, R. Diebold, Dcli Hymes, Weston La Barre, G. L. Trager e altri), in « Current Anthropology », n. 9, 1968 (tr. it. in « VS •, n. 2, 1972); inoltre: P. FABBRI, Co11sidérations sur la proxernique, in • Langages•, n. 10, 1968; V. GANGID.U, La prossemica: un nuovo apporto all'architettura, in « Op. cit. », n. 14, 1969; R. SUMMER, Personal Space: The Behavioral Basis of Design, Englewood Cliffs, N.J .. Prentice-Hall, Inc., 1969; O. M. WATSON, Proxemic Behavior, The Hague, Mouton, 1970 (ed. it., Il comportamento prossemico, Milano, Bompiani,
del lingllaggio e delta comllnicazione, Bari, De Donato,
1972).
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S2 Qualche breve indicazione bibliografica sulla cinesica: R. L. BIRD· WHISTELL, ilttroduction to Kinesic, Louisville, Ken., University of Louis ville Press, 1952; Io., The Kinesic Level in the lnvestigation, in P. H. KNAPP [a cura di), Expression of the Emotions in Man, New York, Jntemational Universities Press, 1963; H. HECAEN, Approche sérniotique des troubles du geste, in « Langages•, n. 5, 1965; C. METZ, Langage gestuel, in « Supplément Scientifique à la grande Encyclopédie Larous se », 1968; AA.W., Approaches to Semiotics, a cura di T. A. Seboek, A. S. Hayez e M. C. Bateson, The Hague, Mouton (tr. it., Paralingui stica e cinesica, Milano, Bompiani, 1972; introduzione di Umberto Eco e Ugo Volli); D. EFRON, Gesture, race and culture, The Hague, Mouton, 1972, (tr. it. Gesto, razza e cultura, Milano, Bompiani, 1974). Per una bi bliografia più esauriente si rinvia al saggio di W. LA BARRE contenuto in AA.VV., Approaches to Serniotics, cit. S3 Per la paralinguistica la bibliografia è vastissima perché lo studio di questo aspetto della semiotica è presente, più o meno estesamente, in molti studi linguistici. Tuttavia, sull'argomento specifico, possiamo rammentare: G. L. TRAGER, Paralanguage; A First Aproximation, in Language in Culture and Society, ed. da Dell Hymes, New York, Harpcr
and Row, 1964; Io., The Typology of Paralanguage, in « Acta linguistica», IJI, 1, 1961. Si vedano inoltre i saggi contenuti in AA.VV., Approaches to semiotics, cit., nei quali si può trovare una soddisfacente rasseg-qa di rimandi bibliografici. � R. BARILLI, Art. cii., e, inoltre, lo., La rivincita dell'estetica, in • Marcatré ", nn. 4/5/6, 1970 (i termini usati da Barilli. si rifanno al l'estetica baumgarteniana). 55 Nel campo degli odierni interessi per la retorica e soprattutto in quello degli studi di ispirazione semiotica alla retorica si vedano: R. BARTHES, Réthorique de l'image, in « Cornmunications», n. 4, 1964; G. BoNSIEPE, Retorica visivo-verbale, in « Marcatré», nn. 19-22, 1965; U. Eco, Op. cit., 1968, sez. A - capp. 4-5 e sez. B - cap. 5; mentre invece risale al 1958 la prima edizione francese (Paris, P.U.F.) del testo di Chaim Perelman: c. PERELMAN e L. OLBRECHTS-TYTECA, Trattato del l'argomentazione, Torino, Einaudi, 1966. Si vedano infine: R. BARILLI, Poetica e retorica, Milano, Mursia, 1969; G. Co1''TE, Attualità della reto rica, in « Op. cit. », n. 16, 1969, pp. 41-54. 56 Spiega GERMANO CELANT (Piero Manzani, Genova, Manetti-Rebora, 1972, 1973): « Quello che interessa a Manzoni non è tanto essere dentro un oggetto, una tela, una materia, ma essere, far sl che le cose siano e vivano autonomamente, per cui non si proietta, ma vive su un con tinuo rapporto di identificazione tra le cose e le cose (un quadro è una tela, è uno spazio totale) e tra sé e sé. L'arte diventa per lui essere in atto» (p. 10). E ancora: « Non c'è nulla da dire, c'è solo da essere, c'è solo da vivere. L'assunto di Manzoni è diventato categorico. La sua opera taumaturgica tocca con la Base del mondo i confini terrestri, ogni cosa animale, vegetale o minerale è trasformata, definitivamente, in opera d'arte e l'arte diventa fenomeno allo stato puro, non dice e non spiega, ma soltanto è. Siamo noi• (p. 33). ;, U. Eco, Op. cii., 1968, p. 280.
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Alcune opinioni sull'iperrealismo MARIANTONIETTA PICONE
La mostra di Kassel di due anni fa, Documenta 5, ha portato bruscamente l'attenzione del pubblico europeo sul fenomeno dell'iperrealismo 1, di cui offriva una panoramica piuttosto ampia e tentava, se non un'analisi critica. almeno una presentazione in antitesi alle ricerche concettuali e com portamentistiche 2• Tuttavia l'iperrealismo non nasce al tem po della mostra di Kassel, ma ha origine verso la metà de gli anni '60 negli Stati Uniti con artisti che ora sono fra gli anziani del gruppo: Morley, Laderman, Leslie, Pearlstein, Sarkisian, Nesbitt. Con Documenta 5 nasce, invece, in Europa una polemica sull'iperrealismo, che dividerà la critica fra accettazione e denigrazione. Il termine iperrealismo ha gradualmente soppiantato quelli di realismo radicale, superrealismo, sharp-focus rea llsm, realismo fotografico, evidenziando la tendenza ad una rappresentazione più vera del vero. Gli amanti di John de Andrea, in poliestere a grandezza naturale, i ritratti di Close, i personaggi di Duane Hanson, gli interni di auto di Salt denunciano subito l'intento di produrre un effetto di trompe l'oeil, a tal punto, da indurre talvolta gli spettatori a toccare per distinguere la finzione dalla realtà. Le tecniche e i materiali 3 adoperati derivano in parte 40 dagli artisti pop (colori acrilici su tela), oppure sono tradì-
zionali (pittura ad olio, gesso); di nuovo c'è, invece, l'uso dei calchi in poliestere e fiberglass. L'influenza della pop è, in ogni caso, determinante, ancor più che per i materiali 4, per l'uso del supporto fotografico comune sia alla pittura che alla scultura. Mentre però i pop artists inserivano il linguag gio fotografico in un'indagine più vasta sui mezzi di comu nicazione di massa (linguaggio televisivo, pubblicità, fumetti, ecc.). gli iperrealisti se ne servono come modello esclusivo da contraffare mediante la pittura su tela, oppure da tra sporre in tre dimensioni. In tal modo torna la distinzione tra pittura e scultura di tipo tradizionale, e viene del tutto abbandonata la problematica sviluppata da Johns, Dine, Rauschenberg di una tela-supporto che stabilisce una rela zione dialettica con gli oggetti-sculture che accoglie. Nonostante i numerosi debiti che l'iperrealismo ha con la pop sono d'accordo con Linda Chase nel dire che la sen sibilità iperrealista non è una sensibilità pop ... La pop con sidera un soggetto banale come banale. Il pittore iperrealista non dice allo spettatore come deve sentire il soggetto, af ferma semplicemente che esiste e che vale la pena di guar darlo perché esiste 5• Parallelamente anche l'iconografia subisce delle alterazioni: l'indagine sugli oggetti - ad es., gli interni d'auto di Salt o gli elementi d'arredo da bagno di Bruce Everett o le im magini da libro di botanica di Don Nice. Alex Katz, Joseph Raffael - si è estesa anche nel campo naturale, quasi del tutto tralasciato dagli artisti pop. Nello stesso tempo gli ingrandimenti o i tagli cui sono sottoposti talvolta gli og getti, insieme all'uso di una luce fredda, recuperano le radici surrealiste al di là della stessa pop. Quando lavoro - di chiara Klapheck - mi lascio guidare dal mio istinto, ma anche però da delle regole intelligibili che, di nuovo, utilizzo sistematicamente per esplorare il mio inconscio. Grazie al l'impiego sistematico della sezione aurea nelle mie macchine, creo involontariamente dei mostri nel quali ritrovo l desideri e le angosce della mia infanzia 6• In questo recupero del surrealismo artisti come Lowell Nesbitt 7 e Alfred Leslie prescelgono gli effetti lunari, spaesanti, determinati dall'uso 41
di luci laterali. toni metallici, chiaroscuri insistiti, lontani dalle fantasmagorie dei colori acrilici a campiture unitarie dei quadri pop. In generale, il colore usato dagli iperrealisti in pittura presenta toni freddi più vicini a Dalì o Delvaux, o anche alla Neue Sachlichkeit 8 che a Warhol o Lichtenstein. Ma, tornando all'iconografia, secondo Linda Chase ci sa rebbe l'assenza quasi totale della figura nella pittura iper realista, e quando essa appare ... è integrata nella scena e considerata semplicemente come un altro aspetto dell'am biente 9• Viceversa, ricompaiono sia i ritratti che i paesaggi della tradizione ottocentesca, anche se svuotati di ogni ele mento romantico di tipo intimista, grazie all'effetto imper sonale e congelato creato dalla finta fotografia. Gli uomini di cui fanno il ritratto - dice Kultermann - sono individui che hanno un nome, un'età e dei caratteri personali precisi. Non si tratta dell'uomo in generale ... dell'immagine della « star », così lontana dagli esseri che rappresenta, ma al con trario un'attenzione particolare si applica al viso che deve essere descritto il più fedelmente possibile... i:: il caso di pittori come Kanowitz, Bechtle, Nesbitt, Gasiorowski, Pearl stein, Close e Goings, di scultori come Hanson, de Boer, Haworth, de Andrea 10• Tuttavia Kultermann, che in Europa rappresenta uno dei primi illustratori e difensori dell'iper realismo, respinge l'accusa di ritorno al passato rivolta a questo movimento e afferma che non è un fenomeno di « rea zione » ... ma piuttosto di uno stile '60 a fianco di altri stili '60 ... più vicino alle altre forme di arte attuale che ai di versi realismi del passato, al punto che bisogna ammettere che artisti come Duane Hanson, John de Andrea, Close, Morley, Mohaffey e Everett appartengono all'epoca e alla generazione di Stella, Judd, Flavio, lrwin e Ron Davis, che è con questi ultimi che hanno problemi comuni e non con i grandi artisti della tradizione realista, illustrata dai nomi di Courbet, Dix, Balthus, Sheeler Hopper 11• Anche Linda Chase è dell'idea che l'iperrealismo è pieno di riferimenti alla pittura astratta 12• Personalmente, invece, non me la sento di condividere tale accostamento; un problema di 42 radici astratte c'era, semmai, nella pop, ma è proprio que-
sto che ora non si ritrova più nell'iperrealismo. Basti pen sare al ritorno del chiaroscuro - schematizzato e congelato quanto si vuole, ma chiaroscuro -, al virtuosismo con cui è trattato il tema dei riflessi di luce e alla ricostituzione del sistema prospettico, grazie al lasciapassare della foto grafia, per capire come Stella e Leslie operino su due bi nari opposti. Secondo Kultermann, il terreno comune di in tesa riguarda i problemi fondamentali di percezione e di· conoscenza della nostra situazione attuale nella sua totalità ... la ricostituzione di una realtà oggettiva che li conduce a esplorare il movimento, Io spazio, ... e inoltre la struttura di superfici animate o no 13• Mi sembra evidente che mentre lo spazio, il movimento, la struttura di superfici rientrano nella problematica degli astrattisti come elementi a sé stanti, sganciati da ogni riferimento a realtà figurative, non altret tanto avviene per gli iperrealisti, cui meglio si addice un altro punto della proposizione di Kultermann, quello della conoscenza della nostra situazione attuale nella sua totalità. Pertanto l'unico elemento comune potrebbe essere quello della visione obbiettiva che in un altro scritto lo stesso Kulter mann definisce percezione della realtà come prefigurata, se rializzata, anti-emotiva, anti-psicologica 14• E tuttavia tale percezione negli astrattisti investe l'analisi dei colori, delle forme geometriche, dei concetti dell'arte, negli iperrealisti si piega a inventariare la realtà fenomenica con la pretesa di rispecchiarla fedelmente nella sua globalità come nelle oleografie ottocentesche. Nonostante le proteste in contrario di Kultermann, gli iperrealisti si riallacciano proprio alla tradizione naturalistica, che ha stabilito una continuità fra '800 e '900: le analogie fra i temi botanici di Don Nice e i fiori di Giorgia O'Keeffe sono sorprendenti; così pure la città solitaria di Hopper 15, quasi senza personaggi, colta di sorpresa in un'ora pomeridiana col sole che disegna lunghe ombre, rivive nelle inquadrature di Sarkisian o Lader man o Goings, solo più obbiettivata e meno evocativa, ma ugualmente desolata. Tuttavia anche la visione fredda e pre cisa, estranea alla pittura regionalistica di Hopper, ha un precedente nell'America dei primi trenta anni del '900: 43
Scheeler, che con le immagini di una megalopoli tentaco lare, quasi un grande meccano, rappresenta uno dei primi tentativi della cultura americana di assimilare la lezione costruttivista europea senza rinunciare alla tradizione natu ralistica. Il passo decisivo verso l'astrattismo, però. l'arte americana lo ha fatto solo con l'action painting e l'espres sionismo astratto; rispetto a queste esperienze già la pop rappresenta un compromesso e l'iperrealismo un vero e proprio ritorno all'ordine 16• II tipo di soggetti è da pittori della domenica - osserva Eugenio Battisti - e se non ci si avvicina alle grandi tele ... non ci si accorge di quanta cui .tura da musei cl sia dentro (insieme a quintali di scorie accademiche) 17• Secondo Menna, i manichini di de Andrea e di Hanson appaiono ... interessati non tanto alla rappresentazione quan to a una sorta di nominazione delle cose, a costituire un in ventarlo o dizionario o thesaurus in cui le immagini e gli oggetti della realtà perdono tutta la loro consistenza e il loro peso e assumono l'asciuttezza del lemmi e delle defi nizioni 18• La rinuncia alla rappresentazione si manifeste rebbe nel fatto che l'iperrealismo non si affida ..• alla refe• renzialità diretta e immediata del segno iconico, ma ne mostra, invece, le intrinseche difficoltà: il che vuol dire proporre, nello stesso tempo, un'arte iconica e un discorso metalinguistico sull'iconismo. Di qui l'operazione di divaricamento ... tra immagine e oggetto ... che accentua il senso di irrealtà ... di molte opere iperrealiste... 19• Tale paradosso costituirebbe, sempre secondo Menna, l'unica alternativa pos sibile dopo l'altro paradosso linguistico, quello di Duchamp, che, sostituendo la presentazione della cosa alla rappresen tazione, si pone in bilico, come uno spericolato ma esperto giocoliere, sul filo di ciò che divide ciò che appartiene al l'arte ( e al linguaggio) da ciò che appartiene alla esistenza reale 20• Tuttavia, se è vero che dopo Duchamp non è più possibile mettere i baffi alle Gioconde, è anche vero che non si possono fare di nuovo, tranquillamente, Gioconde; e l'ope razione degli iperrealisti, invece, è proprio di questo tipo. 44 Del resto, cosa significa che essi accettano di operare den-
tro la convenzione linguistica - sia pure quella particolar mente mimetizzata - del trompe-l'oell 21, se non che accet tano proprio il criterio della rappresentazione che Menna, invece, vede eluso? Grazie alla restaurazione dell'elemento rappresentativo, si verifica, secondo Dorfles, il coagularsi di tentativi da sempre serpeggianti in molti paesi e che si riallacciano al vieto principio di un'arte illusionistica e mimeti� per eccellenza, Ed è questa la ragione per cui tanti artisti accademici, quanto neorealisti frustrati, naifs che hanno perduto l'ingenuità, e finalmente surrealisti ravveduti, hanno finito per aderire a questa tendenza 22• Se questa confusione di livelli si registra in modo preoccupante negli Stati Uniti, la situazione è molto meno rassicurante in Europa. Qui il fenomeno iperrea lista è stato piuttosto marginale e, secondo i critici europei che se ne sono occupati, sostanzialmente indipendente ri spetto a quello americano, così come, a suo tempo, il nou veau réalisme, si era differenziato dalla pop art. Ora, come allora, al tautologico oggettivismo americano si contrappone un orientamento soggettivo, visto come costante europea. Al di là della parte di verità contenuta in questa afferma zione, non si può ignorare che è proprio in seguito al boom iperrealista americano che si sta tentando di ricucire le fila di un discorso « realista » europeo, e che tale « realismo » è solo l'occasione per mettere sotto la stessa etichetta esperienze diversissime: basti pensare che fra gli anticipatori europei vengono spesso menzionati Domenico Gnoli o Pistoletto 23, e che, accanto a Jean Olivier Hucleux, Franz Gertsch, Gasiorowski, dovrebbero allinearsi anche Klapheck e Nellens con il loro macchinismo surrealista, Botero che è una specie di naif, gli olandesi Lahaut e Selen che vengono da esperienze gestuali e che hanno un senso del colore molto particolare e così via. E questo, per parlare degli �sempi migliori. La cosa diventa paradossale e denuncia immediatamente i suoi risvolti mercantilistici, quando si passa a giri di gallerie di livello · inferiore, dove, sotto i nomi di realismo fotografico, iperrealismo ecc., si contrab bandano ancora le vecchie pastoie tardo-impressioniste o i. 45
residui di un surrealismo morboso quanto stantio, esperien ze, in ogni caso, figurative nel modo più scadente e provin ciale. In tal senso, l'iperrealismo sta creando equivoci molto simili a quelli della nuova figurazione sorta dopo l'informale. Stando così le cose, si capisce bene perché, pur essendo tutti d'accordo sulla matrice soggettiva delle esperienze eu ropee, nei fatti poi ognuno la individui in caratteri diversi. L'autore del catalogo della mostra « Realisti e iperrealisti belgi », ad esempio, sottolinea il diverso uso del colore e afferma che i realisti americani richiameranno la società di consumo, mentre gli Europei si abbandonano piuttosto alla fantasia... Mentre i primi rischiano per la eccessiva purezza dell'entromissione fotografica, di ricadere nel freddo, i se condi sono invece favoriti da una calda e profonda sensi bilità coloristica 24• Viceversa, Restany mette in evidenza il modo differente di usare il linguaggio fotografico, grazie alla mediazione della mec art: gli iperrealisti europei, che pure usano nella pittura gli stessi processi di oggettivazione - derivati dalla mec art - dei loro colleghi americani, esprimono in verità una realtà diversa e specifica... Lo « sharp focus » europeo rivela questa differenza, col metterci, per così dire il reale più direttamente alla portata della mano e del cuore 25• E infine Anne Tronche e Hervé Gloaguen vedono come preponderante l'aggancio a temi surrealisti: Contraria mente alla tendenza americana, che cerca di situare i suoi lavori a un semplice livello di evidenza visuale, l'hnmagine che essi ci propongono lascia filtrare le loro ossessioni. E più avanti parlano di una sorta di messa in scena dipen dente dal feticismo: le membra fpmminiH ... in Schiosser, i vestiti abbandonati in Gafgen, ... le pietre tombali in Hu cleux... 26• Tornando alle esperienze americane, un aspetto su cui si è appuntata l'attenzione della critica è stato quello mi metico e illusionistico. Mentre Menna, come abbiamo visto, scopre nell'ambiguità dell'icone un margine di irrealtà, Ar gan afferma che l'immagine non è più prodotta dall'hnma ginazione la cui funzione viene alienata alle tecniche iroago46 poietiche dell'apparato industriale. Poiché l'immagine è tal-
mente precisa e circostanziata da non poter essere inter pretabile è escluso ogni processo di approfondimento o di sviluppo 27 • Questo calo dell'immaginazione è, secondo Argan, direttamente correlativo alla situazione artistica del nostro secolo che presenta la separazione dell'artistico dall'estetico. In questa prospettiva giunge ad accomunare Duchamp, la pop, e l'iperrealismo sul versante dell'artisticità, mentre su quello dell'esteticità pone i movimenti che discendono dal costruttivismo, il design e la progettazione architettonica. Questo secondo filone è caratterizzato dalla prevalenza del l'elemento formale e progettuale, che è come dire della fase intellettuale; viceversa, il primo presenterebbe un carattere integralmente operativo insieme a una regressione delle tec niche artistiche al livello pre-progettuale e perfino pre-arti gianale della manipolazione 28• Tuttavia, secondo Argan, nel caso dell'iperrealismo, non solo il progetto ma lo stesso elemento tecnico viene annullato perché, anche se si reintegra la tecnica tradizionale dell'arte, non si ottiene altro ri sultato che dimostrare che essa è ormai assolutamente in capace di produrre valori in quanto si tratta della riprodu zione meticolosamente precisa di immagini prodotte da apparati meccanici industriali: fotografie e diapositive 29• Tale scrupolo di diligenza tecnica finisce con l'insospettire Argan anche sul piano del significato politico del movimento, tanto da ricordare la condanna nazista del procedimento e unfleissig » (non-diligente) degli artisti che si richiamavano alle tecniche immediatamente espressive degli impressionisti e degl espressionisti 30• Alla fine Argan sintetizza la sua analisi del fenomeno iperrealista in cinque punti: 1) l'iperrealismo riflette una volontà di restaurazione facilmente inquadrabile nella cornice di una politica illiberale ed i.mperiallstica ... ed è pertanto un fenomeno tipicamente politico, di estrema destra intellettuale; 2) ad un massimo di artisticità convenzl� nale (tecniche tradizionali, restaurazione del quadro) con trappone un minimo anzi un nulla di esteticità, poiché l'opera non elabora, ma semplicemente manipola il dato; 3) la stessa tecnica artistica mentre viene imposta ... viene svalutata in quanto non produce valore ...; 4) questa medesima tecnica 47
viene destoriclzzata ••• non deve nulla alla storia dell'arte ... ; 5) il processo è ... antistoricistico, perché si limita a fissare, evitando ogni interpretazione, notizie prelevate dai normali circuiti dell'informazione 11 • . A questa analisi fatta da Argan ad apertura del ciclo di conferenze della Galleria Nazionale d'Arte Moderna di Roma per il 1972-73, ha risposto Maltese nella stessa sede a chiu sura del medesimo ciclo di incontri: ... non possiamo essere d'accordo con l'affermazione che l'opera iperrealista «a un massimo di artisticità convenzionale contrappone un minimo, anzi un nulla di esteticità, poiché l'opera non elabora ma semplicemente manipola il dato• (Argan). Intanto tra ma nipolazione ed elaborazione nel campo della semiosi figura tiva non c'è gran differenza. Se poi per elaborare s'intende schematizzare, ridurre, deformare o trasformare, allora è chiaro che non è l'iperrealismo che si condanna ma l'iconi smo in quanto tale ... che in questo Argan sia coerente è confermato dalle affermazioni successive... Il pensiero di Ar gan è chiaro: il significante «produce valore », cioè diviene «estetico », solo se altera, riduce ... cioè si allontana dal l'iconicità; solo così facendo rimane nella storia dell'arte, che viene concepita come continuo processo di allontana mento dall'iconicità... Riportata a una prospettiva culturale la logica adottata da Argan è quella antichissima dell'«in venzione» contrapposta alla «mimesi» 32• Fino a questo punto credo si possa condividere la posizione di Maltese: non basta l'accusa· rivolta all'iperrealismo di mero rispec chiamento iconico della realtà per tacciarlo di reazione; e questo, in primo luogo perché non è vero, e in secondo luogo perché, ammesso che sia vero, accanto alla logica della diversità Maltese giustamente pone quella della iden tità. Che non sia mai possibile un totale ribaltamento della realtà oggettiva nell'arte è stato an1piamente dimostrato sia dall'esperienza del naturalismo ottocentesco, che dalla fo tografia e dal cinema, se non altro perché nell'immenso mondo oggettivo non possiamo mal abbracciare la totalità ma siamo obbligati sempre a scegliere. Anche se decidiamo di «copiare ,. 33• Al limite, la stessa operazione di Duchamp, 48
basata sul prelievo dell'oggetto, mentre da un lato riduce molto l'intervento dell'artista, sotto il rispetto tecnico e formale, dall'altro lo enfatizza al massimo, celebrandolo in se stesso, in quanto gesto arbitrario che decide con una firma ciò che è arte e ciò che non lo è. Tutto questo rap presenta senz'altro una notevole riduzione dell'elemento este tico, nel senso che certamente la « fontana » o lo « scola bottiglie » di Duchamp non hanno un valore formale, tut tavia una sorta di formalizzazione sussiste nel momento in cui l'oggetto cambia contesto ed è firmato. Duchamp vuole mostrare il rovescio della medaglia, vuole demistificare l'arte, dimostrando che, se il pubblico borghese chiede solo una firma, l'artista può accontentarlo, quasi che abbia veramente qualità magiche. In tal modo, procedendo per contraddi zioni, crea una rottura con il passato: annulla l'opera d'arte, come frutto di ricerca estetica, e concentra la sua atten� zione sull'artista, figura risibile ed eroe tardo-romantico nello stesso tempo. Rispetto a tale complessità di operazione, le ricerche pop e iperrealiste risultano molto meno ambigue e, tutto sommato, reintegrate in pieno nel registro linguistico dell'arte che prevede valori tecnici e formali con il corri spettivo di un atteggiamento contemplativo nel fruitore, il quale, dopo il primo momento di stupore, rimane soggio gato, soprattutto nel caso dell'iperrealismo, dall'abilità di contraffazione del pittore. Non è dunque lecito, a mio av viso, porre, come fa Argan, sullo stesso piano Duchamp, la pop e l'iperrealismo, dal momento che gli ultimi due hanno restaurato proprio quei valori messi in crisi dal primo. A questo punto è evidente che se, come ha dimostrato Maltese, l'illusionismo mimetico in quanto tale non è ne cessariamente reazionario, è vero anche che non è necessa riamente progressivo. Ogni volta si tratta di giudicare una esperienza in base al contesto specifico in cui si inquadra. Innanzitutto è indimostrato l'assunto di Kultermann che la base di ogni arte è il dialogo dell'uomo con la natura ed il suo tentativo di esistere in armonia con essa 34; il manierismo per il passato e le avanguardie contemporanee sono esempi lampanti del contrario. In secondo luogo, se non si
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determinano le situazioni specifiche, c'è il rischio di fare molta confusione, mettendo, per ipotesi, sullo stesso piano il naturalismo di Caravaggio e quello di Duane Hanson. E non a caso faccio il nome di Caravaggio, in quanto è stato coinvolto direttamente in questa faccenda: in occasione della mostra di Cleveland 35 si è parlato sia di un Caravaggio iper realista ante litteram, che di una riattualizzazione di Cara vaggio grazie all'iperrealismo, dove in ogni caso i due feno meni sono stati visti in connessione, nonostante intercorra fra loro una enorme differenza temporale, ideologica e di «manifattura». Kultermann non fa il nome di Caravaggio, eppure il giudizio globale che dà del movimento iperrealista sembra ritagliato su quelli già sentiti a proposito dell'arte caravaggesca: Queste immagini non mirano alla propaganda politica ... esse non sono che un tentativo per presentare l'avvenimento così come si è effettivamente prodotto. E la grande serietà di questo atteggiamento che gli dà un signi ficato politico 36• Provando a sostituire il termine propaganda politica con quello di polemica antireligiosa, che è più cal zante rispetto ai tempi relativi, potremmo adattare tranquil lamente questo brano a Caravaggio. Ma si può veramente fare la stessa affermazione per gli iperrealisti? la presenta zione dell'avvenimento così come si è effettivamente pro dotto ha la stessa incidenza sul contesto socio-politico in Caravaggio e negli iperrealisti? Caravaggio, quando decideva di inserire nella « Conversione di San Paolo» il bellissimo brano naturalistico del cavallo visto da dietro, in primo piano, contravveniva ai precisi dettami controriformistici del Pa leotti n, laddove persino«Riot» di Duane Hanson, una delle rare opere iperrealiste«impegnate», non ha la stessa carica dirompente, nella misura in cui non infrange alcun canone prestabilito e trova anzi un contesto disposto ad accettarla come bene di consumo. Gli straccioni di Hanson o « Riot », con la ricostruzione di una scena di pestaggio di un negro da parte della polizia, riproducono, almeno nei termini ge nerali, la situazione di alcune opere pop come la « Blue electric chair » o «Pink race riot » di Warhol in cui non c'è alcuna volontà di prendere posizione verso gli oggetti o gli
avvenimenti in questione, ma in realtà si vuole sperimen tare il mezzo di comunicazione impersonale che finisce col livellare, in Warhol i miti della società dei consumi, in Hanson personaggi ed eventi individuati secondo il criterio dell'« hic et nunc » della tradizione naturalistica. C'è dunque una precisa ricerca sul medium fotografico impersonale, ri spetto a cui i contenuti specifici, senza arrivare alla generi cità dei prototipi pop, hanno l'indifferenza degli elementi che entrano in uno schedario. Non mi interessa l'argomento co me tale, - dice Morley - o la satira, o il commento sociale o qualsiasi altra cosa sia unita all'argomento... Io accetto l'argomento come un sottoprodotto della superficie 38• � evi dente allora che non è possibile leggere le opere iperrealiste come denunzia; pertanto dei tre eventuali modi di lettura individuati da Eugenio Battisti solo i primi due trovano corrispondenza nei prodotti iperrealisti: Il playboy ... ammi rerà la bravura dell'imitante; il borghese la banalità del rappresentato, cioè se stesso nella sua totalità d'ambiente e di contesto urbano; il contestatore ( che spesso è il pittore stesso) si sentirà soddisfatto dall'averne fatto denunzia 39• Probabilmente Battisti inquadra se stesso proprio nella ca tegoria dei contestatori, tuttavia moderati (alla parola 'de nunzia ' sostituisce le espressioni più blande di 'memoria' e 'specchio politico '), dal momento che poco prima ha · scritto: Ora questo mondo artificiale, assai più brutale In quanto meno ambiguo delle Coca cola o delle scatole d'im ballaggio degli artisti pop, pur sempre esempi di buon 'in dustriai design ', ci è proposto non tanto come oggetto este tico da appendere In salotto, ma come memoria: cioè come storia ' nostra ', come specchio politico d'un continente ri visitato dall'est all'ovest, ... puntato �ontro una vacuità to tale di valori morali, che però non costituisce ... un'esperienm da escludere dal ricordi di viaggio -IO. Secondo Maltese, invece, la rottura dell'iperrealismo non dipenderebbe tanto da una presunta volontà di denuncia quanto piuttosto dalla sua totale spersonalizzazione ... che è riuscita ancora una volta ... a essere provocante 41• A mio av viso, l'iperrealismo non giuoca sulla provocazione né riesce
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a scuotere il corpo insensibile del pubblico 42 , dal momento che è venuto dopo i ready made, quelli sì veramente pro vocanti, di Duchamp e dopo la poetica pop, già molto meno provocante. L'iperrealismo ha trovato un pubblico piccolo borghese, nostalgico del naturalismo ottocentesco, addestrato ai linguaggi impersonali dalla pop, per di più stanco delle iniziatiche esperienze povere e concettuali, per cui, lungi dallo scatenare rifiuti o indignazione, ha registrato un no tevole successo di massa, come si è potuto verificare a Kassel dove gli stand iperrealisti erano fra i più affollati. Il pubblico che compra fotografie fatte a mano nel più fleis sig dei modi - dice Argan - è un pubblico di piccoli-bor ghesi conformisti che vogliono in esclusiva qualcosa che è nell'esperienza di tutti: ciò che potrebbe spiegare l'inclina zione degli iperrealisti per la pornografia... 43 • Questo aspetto era stato già rilevato da Celant: L'iperrealismo, oltre che su uno spirito nazionalista e patriarcale, basa la sua presa di forza sul pubblico su certa carica sensuale... La compo nente sessuale è riscontrabile oltre che nell'iconografia ... an che nella tecnica, nella lucentezza ' fallica ' dei quadri, nella precisione morbosa dei particolari e nel misticismo dei co lori puri; un modo di operare che asseconda totalmente il concetto di pittura della maggioranza silenziosa, frustrata da Duchamp in poi da tematiche a lei incomprensibili 44• Si tratterebbe dunque di una grossa operazione di mercato che, approfittando del successo economico degli artisti pop, ha puntato sulla utilizzazione dei loro mezzi visivi per ripro porre, in una forma appena più ammodernata, un vieto rea lismo oleografico perfettamente rispondente al gusto di un pubblico piccolo-borghese come a quello del potere ufficiale. Nixon con l'iperrealismo veramente trova la sua arte uffi. ciale e riempie uno spazio vuoto, il mercato che l'arte con cettuale non può riempire perché ha una sua difficoltà di fruizione 45• L'iperrealismo fornisce cosi al sistema capitali stico americano la sua celebrazione in una forma paradossal mente simile a quella del realismo socialista in URSS 46• . . . Tuttavia bisogna convenire con Maltese 47 che l'iperreali52 smo non è l'unico movimento «gonfiato» dal mercato; con-
cettualismo e comportamentismo non sono da meno. Cam biano i giri di gallerie, cambia il tipo di pubblico, ma le leggi del mercato restano identiche. In realtà nessuna forma d'arte sfugge alla morsa mercantile, e ognuna, a suo modo, è funzionale al sistema. Il sistema, infatti, non ha bisogno solo di celebrazioni, ma anche di aree riservate per il gioco o la pazzia, non dimentichiamolo! Questo lo ha detto molto bene Argan: ... i comportamenti artistici o le proposte alter native non hanno avuto e non hanno effetto. Non disturbano affatto il sistema capitalistico; anzi, presentandosi come l'espressione di una creatività connaturata e insopprimibile, coprono ... la non-creatività intrinseca del sistema. Il quale, d'altra parte, non respinge la proposta ma l'adotta in via subordinata, come soluzione mistificata del problema del « tempo libero » 48• Peccato che alla fine Argan si lasci sog giogare dalla ' ricerca pura ' dei concettualisti! ... il loro di simpegno è simile a quello degli intelletuali e degli scienziati che rifiutano di mettere la cultura e la scienza al servizio del potere. ... le sole operazioni artistiche che hanno un peso politico nella situazione odierna sono obbiettivamente quelle che, respingendo ogni sorta di compromesso, tengono fermo il « concetto » di arte, nella sua nuda strutturalità, in un si stema che negando i valori, nega i concetti 49• Viene fuori in questo brano la vera chiave di Argan: i valori sono i concetti; ed è solo rispetto a questo schema mentale che è possibile attribuire un peso politico ai concettuali, che, viceversa, non ce l'hanno né vogliono averlo. L'operazione riduttiva dei concettuali riferita sia alle tecniche che ai campi d'indagine, ha accentuato a tal punto lo stato di separatezza fra arte e vita, da costituire una vera e propria evasione dai problemi reali, senza peraltro risolvere quelli dell'arte. Paradossal mente l'iperrealismo, che è il rovescio esatto del concettua lismo, raggiunge risultati analoghi attraverso procedimenti opposti: l'uno arriva al vuoto per sottrazione, l'altro per ec cesso, l'uno elimina l'oggetto o ne lascia a stento sopravvi vere il nome, l'altro lo riproduce con tale ricchezza di par ticolari da smarrirvisi 50•
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I Prima della mostra di Kassel c'è stata anche la 7• Biennale di Parigi del 1971 che ha fatto conoscere in Europa l'iperrealismo. Cfr. D. ABAl>IE, Hyperréalisrne, catalogo della 7• Biennale, Parigi, 1971; per la mostra di Kassel cfr. il catalogo dell'esposizione Documenta 5, Kassel 1972. Negli USA l'iperrealismo si è affermato molto prima con mostre importanti a partire dal 1964, cfr. U. KuLTERMANN, Hyperréalisme, Edi tion du Ch�ne, Parigi 1972, pp. 8-9 (ed. tedesca, Verlag Ernst Wasmuth, Tiibingen 1972). Fra le più recenti ricordiamo: Sharp-focus realism, Sidney Janis Gallery, New York, 1972; The realist revival / Realism now, New York Cultural Center, New York, 1972-73. In Europa dopo la Bien nale di Parigi e la mostra di Kassel ricordiamo: Hyperréalistes améri cains, Galerie des 4 mouvements, Parigi, 1972; Amerikanischer fotorea lismus, Wiirttembergischer Kunstverein, Stoccarda, 1972-73 e Kunstve rein, Francoforte, 1973; Hyperrealismus, Aktionsgalerie, Berna, 1973; New realists, DM, Londra, 1973; Photo-realism, Serpentine Gallery, Londra, 1973; Hyperréalistes américains, réalistes européens, CNAC, Parigi, 1973; Hyperréalistes américains, Arditti, Parigi, 1973; Hyperréalisme et art con ceptuel, Musée d'art moderne, Parigi, 1974; Hyperréalistes USA, réalistes européens, CNAC, Parigi, 1974. In Italia hanno avuto particolare rilievo le mostre: Iperrealisti americani, La Medusa, Roma, 1973;, Combatti mento per un'immagine. Fotogra"{ì e pittori, Galleria Civica d'Arte Mo derna, Torino, 1973, in cui però erano presenti pochi iperrealisti; Realisti c iperrealisti, La Medusa, Roma, 1973. 2 Come giustamente ha messo in evidenza G. CELANT, Iperrealismo come imperialismo, in « Qui arte contemporanea», n. 9, ottobre 1972, la contrapposizione è stata sottolineata anche dal fatto che mentre le ricerche realiste o iperrealiste erano esposte alla Neue Galerie la danza, i video-tapes, la conceptual art, la body art, l'arte povera hanno trovato ospitalità nel Museum Fridericianum. Cfr. anche G. MARM0Rl, Più vero del vero, sull'Espresso/colore n. 29 luglio 1972. l U. KULTERMANN, op. cit., pp. 17-20, cui rimando soprattutto per i numerosi brani sull'uso del mezzo fotografico, tratti da interviste o let tere degli artisti. Ibidem anche bibliografia fino al 1970. 4 Anche gli artisti pop hanno usato la pittura ad olio, ma in modo diverso dagli iperrealisti: Dine e Johns unendola spesso a oggetti o col fages e, comunque, con una determinazione materica completamente assente negli iperrealisti; Lichtenstein e il primissimo Warhol l'hanno usata per contraffare l'uno i fumetti, l'altro i cartelloni pubblicitari con una scelta di colori festosi che non si trova mai negli iperrealisti; l'unico che si avvicina di più a questi ultimi nella gamma dei colori è forse Rosenquist, il quale tuttavia si serve della pittura ad olio per le sue combinazioni di immagini assolutamente libere. Il gesso è stato usato anche da Oldeoburg che però lo rivestiva di colori squillanti, volutamente kitsch, e ancora Oldenburg si è servito di materiali pla stici, come il vynil, per le sue sculture, peraltro flosce e lontane dagli effetti illusionistici di quelle di De Andrea e Hanson. s L. CHASE, Les hyperréalistes arnéricains, Filipacchi, Parigi, 1973, p. 12. 6 K. Klapheck, dichiarazione su « Arte 2000 », marzo-aprile 1973. Bi sogna tuttavia notare che Klapheck è tedesco, è nato infatti nel 1935 a Diisseldorf, dove vive e lavora. 1:. la matrice culturale tedesca che de termina il suo accentuato simbolismo che lo differenzia notevolmente dagli artisti americani iperrealisti a lui contemporanei. 7 I quadri di Lowell Nesbitt con pochi oggetti o un solo personaggio in stanze vuote ricordano molto l'atmosfera sospesa della metafisica. Tuttavia manca l'incontro fra oggetti strani e contrastanti, e questo dà un tono molto più banale alla composizione.
s Cfr. L. TRUCCHI, li realismo in Germania: aspetti della 'Neue Sach lichkeit ', in « Qui arte contemporanea», n. 10, febbraio 1973. La Truc
chi vede la nuova oggettività come un ponte fra il naturalismo ottocen tesco e i movimenti pop e iperrealista. Per l'iperrealismo, ancor più che per la pop, la nuova oggettività deve essere stata senz'altro un punto di riferimento, soprattutto per l'uso del colore; ma quello che negli iperrealisti appare banale e squallido, una volta sottoposto a un'inda gine perspicua e micrografica, negli artisti tedeschi si rivela tragico e denso di presagi funesti. Tale accento tragico è in stretta relazione con il carattere politico della Neue Sachlichkeit, carattere che, invece, L. Trucchi tende a ridimensionare, attribuendolo soltanto « all'area più impegnata; la sola che, registrando la febbrile tensione del paese, presagì l'avvento del Nazismo"· 9 L. CIIASE, op. cit., p. 9. IO U. KULTERMANN, op. cit., pp. 14-15. Il Ibidem, p. 11. 12 L. CHASE, op. cit., p. 10. 13 u. KULTERMANN, op. cii., p. 8. 14 IDEM, Nuove correnti realistiche, su « Qui arte contemporanea,. n. cit. 1; J. R. MELLow, Un pittore per la città: Edward Hopper, su « Qui arte contemporanea», n. cit. 16 P. REsTANY, Sharp-focus, su « Domus,. n. 525, agosto 1973, ripub blicato su « Proposta » n. 8/9, luglio-ottobre 1973. 11 E. BATTISTI, I due estremi: il dipinto vuoto e il dipinto come spec chio, in « Dove va l'arte», della serie « I problemi di Ulisse•, Sansoni, Firenze, novembre 1973, pp. 130-131. 18 F. MENNA, Paradosso dell'iperrealismo, su « Il Mattino», 6 feb braio 1973. La posizione di Menna è stata ribadita e articolata più det tagliatamente nel catalogo della mostra La riflessione sulla pittura, Acireale, settembre-ottobre 1973. 19 Ibidem. 20 21
Ibidem. Ibidem.
22 G. DoRFLES, Ultime tendenze dell'arte oggi, II edizione aggiornata e accresciuta, Feltrinelli, Milano, 1973, p. 156. 23 Pistoletto viene menzionato come anticipatore europeo dell'iper realismo da U. KULTERMANN, op. cit., ed è comparso con uno dei suoi « specchi » nella mostra Realisti e iperrealisti, Galleria La Medusa, no vembre-dicembre 1973. 24 H. VAN DE VOESTYNE-VANAGT, catalogo della mostra Realisti e iper realisti belgi, Rotonda di Via Besana, Milano, novembre 1973. 25 P. RESTANY, op. cii. 26 A. TRONCHE e H. GLOAGUEN, L'art actuel en France. Du cinétisme à l'hyperréalisme, Balland, Parigi, 1973, p. 289. 21 G. C. ARGAN, L'artistico e l'estetico, conferenza introduttiva al ciclo delle attività didattiche della Galleria Nazionale d'Arte Moderna di Roma per l'auno 1972-73, tenuta il 3 dicembre 1972 e pubblicata in « Arte e società» n. 6, 1973. 28 Ibidem. 29 Ibidem.
Ibidem. Ibidem. 32 C. M.\LTESE, L'iperrealismo, conferenza tenuta alla Galleria Nazio
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nale d'Arte Moderna di Roma il 10 giugno 1973; dello stesso autore cfr. anche Per una semiologia dell'iconismo su e Qui arte contemporanea», n. cit.
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33 Ibidem. 34 U. KULTERMANN, art. cit.; nello stesso numero di « Qui arte con tt:mporanea "• oltre gli art. cit., sull'iperrealismo cfr. anche M. Nov1, Un caso di iperrealismo settecentesco, J. LEERING, Il realismo relativisca, J. VAN DER MARCK, Il reale in trappola? lS La mostra Caravaggio and his followers, si è tenuta al Museum of art di Cleveland da ottobre 1971 a gennaio 1972. Anche in Europa si sono avuti echi della relazione che è stata operata dalla stampa ameri cana fra arte caravaggesca e arte iperrealista: cfr. M. GREGORI, Cara vaggio dopo la mostra di Cleveland, su « Paragone», n. 263, gennaio 1972. Si legge in questo articolo: « sebbene non fosse certamente nelle previsioni degli ordinatori della mostra di Cleveland dedicata a 'Cara vaggio and his followers • la prima reazione del pubblico, come risulta dall'articolo di John Canaday sul 'New York Times • del 7 novembre, è stata di vedervi significative anticipazioni per un nuovo e auspicabile realismo americano... •· E più avanti: « ••• è forse prossimo il momento che l'America ritrovi nella pittura caravaggesca un ponte ideale delle proprie affermazioni artistiche in nome di quel realismo di cui ... essa riconosce nella propria tradizione, come espressione della ' middle class •. una persistenza sia pure a molte facce». Questa connessione ha avuto fortuna tanto da essere estesa a caravaggeschi come La Tour: si chiede infatti P. FAVETON, La révolte des réalistes, su « Connaissance des arts •• n. 244, giugno 1972 « •.. è interessante porsi questo problema al momento dell'esposizione di Georges La Tour: il caravaggismo non ha praticato, ante litteram, il realismo fotografico?•· 36 u. KULTERMANN, op. cit., pp. 21-22.
37 F. BOLOGNA, Il Caravaggio nella cultura e nella società del suo tempo, comunica7Jone al convegno Caravaggio e i caravaggeschi, Acca
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demia Nazionale dei Lincei, Roma, 1973. Atti in corso di pubblicazione. 38 Intervista pubblicata da U. KULTERMANN, New realism, Greenwich, 1972, p. 15, e citata dallo stesso autore in e Qui arte contemporanea », n. cit. Altre interviste ad artisti iperrealisti americani sono state fatte da L. Chase e T. Mc Burnett, e Art in Ameri� •• novembre-dicembre 1972. 39 E. BATTISTI, op. cit., p. 134. 40 Ibidem, p. 132. 41 C. MuTESB, op. cit. 42 Ibidem., 43 G. C. ARGAN, op. cit. 44 G. CELANT, op. cit. 45 A. Bonito Oliva, intervista rilasciata a « Proposta"• n. cit.; dello stesso autore si ricorda la conferenza sull'Iperrealismo all'American Studies Center, Napoli, 1973. � Si legge in P. R.EstANY, op. cit.: e Al realismo socialista sovietico manca solo un granello di 'sha.rp.focus • per identificarsi con Io stesso processo di autogiustificazione». Mentre di parere contrario è P. FAVE TON, op. cit., che vede l'iperrealismo e contemporaneamente troppo ag gressivo e troppo derisorio... I; là sembra la linea di demarcazione più netta tra questo iperrealismo d'oggi e il realismo socialista così come i paesi dell'Est lo praticavano poco fa e lo praticano ancora... L'arte dell'URSS, arte 'diretta•, doveva celebrare le lodi del paese e dare l'illusione della felicità. Il 'radical realism • dell'America attuale, al contrario, è un'immagine-constatazione precisa "· 47 C. MALTESE, op. cit. 41 G. C. ARGAN, I due stadi della critica, in « Dove va l'arte», n. cit., p. 16. 49 Ibidem, p. 26. so i; interessante a tale riguardo la posizione di D. MICACCHI, La ri-
cerca degli iperrealisti, in «L'Unità», 12 febbraio 1973, il quale sospende il giudizio su questo movimento affermando che: « Sarebbe un grosso errore, però, considerare frettolosamente l'iperrealismo nord-americano come un fenomeno di mercato e basta: con l'iperrealismo l'arte ame ricana dimostra una grossa vitalità, anche se molto ambigua ». Ma di fronte alla valutazione del loro atteggiamento mimetico non può fare a meno di osservare che: « Nella minuzia fiamminga dell'immagine foto grafica c'è una specie di stupidità americana o, se preferite, di cecità di fronte alla vita. E la magia tecnica è la sublimazione della mediocrità e dell'appagamento ».
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