Op. cit., 32,gennaio 1975

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Op.cit. rivista quadrimestrale di selezione della critica d'arte contemporanea

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Edizioni e Il centro •


U. Eco,

Chi ha paura del cannocchiale?

G. RAPISARDA TAFURJ,

R. DE Fusco R. VINOGRAD, E.

s.

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SEPLIARSKY,

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L'Eccentrismo, un momento dell'avan­ guardia sovietica

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Nota sul segno urbanistico

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I segni e le e figure » del Padiglione di Barcellona Libri, riviste e mostre

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Alla redazione di questo numero hanno collaborato: Paolo Carpeggiani, Bruno Discepolo, Giulio Filippini, Adele Maglione, Agata Piromallo Gam­ bardella, Maria Luisa Scalvini.



Chi ha paura del cannocchiale? UMBERTO ECO

Una immagine può rappresentare relazioni che non vi sono!!! Com'è possibile? (W1rr-· GENSTEIN, Quaderni, 30-9-74).

La semiotica contemporanea si è riposata per lunghi anni su una tripartizione che sembrava soddisfare le esi­ genze del buon senso, quella tra simbolo, indice e icona. La triade appariva così comoda che si tendeva a dimenticare l'origine peirciana, la si mutuava piuttosto dalla trattazione morrisiana, e in ogni caso non la si problematizzava troppo. Era chiaro, il rapporto tra la parola / sedia / e una sedia è convenzionale e arbitrario; quello tra una immagine di una sedia e una sedia è iconico, perché la sedia raffigurata ha qualche proprietà delle sedie reali; e il rapporto tra il mio dito puntato sulla sedia e la sedia è indicale, perché implica la compresenza. Naturalmente permanevano perplessità cir­ ca la nozione di indice ( quale è la differenza tra il dito che punto su una bandiera, per mia iniziativa, e la direzione del vento che la bandiera, garrendo, suggerisce per forza di inferita causalità?) e rimanevano oscuri i rapporti tra indice e icona (una foto sembra una icona, ma è il risultato di impronte lasciate da un oggetto reale, dunque è l'indice di una causalità inferibile), ma tutti erano piuttosto tranquilli circa i rapporti tra arbitrario (convenzionale e magari per­ sino «digitale») e motivato (o analogico, o iconico). La foto di Brigitte Bardot è diversa del nome / Brigitte Bardot /. Nessun dubbio. Infatti sui passaporti delle bri­ gate rosse si può lasciare un nome falso ma occorre met- S


tere una foto vera. Il linguaggio verbale è arbitrario e le immagini disegnate sono iconiche. Non si rifletteva molto sul fatto che la differenza tra / Tamburino arresta Miceli / e / Miceli arresta Tamburino / non è soltanto politica, è anche iconica, perché lo spostamento di posto, da destra a sinistra, implicherebbe un deprecabile spostamento di signi­ ficato: dunque l'iconico si nasconde anche in seno ai sistemi detti arbitrari. Ma non si rifletteva neppure sul fatto che posso interpretare una foto di Giannettini come il volto di un pacioccone innocente o come quello di un astuto intri­ gante, e che quindi la convenzionalità culturale (i prima e i dopo non iconici) mi orientano nell'interpretazione delle im­ magini: la convenzione si annida all'interno di quel trionfo dell'iconismo presunto che sono le immagini visive 1• Credo di essere stato il primo, almeno in questo paese, con Appunti per una semiologia delle comunicazioni visive (Milano, Bompiani, 1967) e poi con La Struttura assente (Mi­ lano, Bompiani, 1968), sezione B, a porre in dubbio la no­ zione di iconicità e ad avanzare il sospetto che essa coprisse una rosa di fenomeni ben più complessi. Una serie di discus­ sioni su varie riviste, da Op. Cit. a Versus, ha portato avanti il discorso 2• Ora debbo ammettere che questo discorso aveva dei punti di forza che costituivano altrettanti pericoli. Per met­ tere in dubbio l'iconicità occorreva elaborare una semio­ tica antireferenziale, che facesse cioè dipendere la verifica del significato da sistemi di organizzazione della cultura (e cioè da sistemi di pertinentizzazione del campo semantico) e non dal ricorso al presunto oggetto a cui un segno si rife­ riva. E porre in contatto un'espressione (o un significante) con una porzione di campo semantico implicava vedere le iconi come risultato di processi in gran parte convenzionali. Di qui due rischi: l'uno, affermare che una indagine se­ miotica non ha nulla a che vedere coi referenti e quindi con gli atti di riferimento !mediante i quali applichiamo i segni all'indicazione di oggetti e di stati del mondo; l'altro, affer­ mare che i segni iconici sono del tutto convenzionali. Due 6: rischi che nei miei scritti, dalla Struttura assente alle Forme


del contenuto, ho corso e di cui farò pubblica ammenda nel mio imminente Trattato di semiotica generale (Milano, Bom­ piani, 1975). Perché si può asserire che vi è molta conven­ zione culturale nel disegno di un cane che morde un uomo, ma nulla potrà definitivamente farci abbandonare l'idea che tra quella immagine e il fatto designato vi è molta più pa­ rentela che non tra il fatto e la frase / un cane morde un uomo /. E quindi si tratterà di stabilire come vi siano dei segni in qualche qual modo motivati da stati di cose e tut­ tavia capaci di mediare quegli stati di cose attraverso pro­ cessi di trascrizione governata da regole convenzionali. Ciò che spero di aver fatto in modo soddisfacente nel mio nuovo lavoro. E tuttavia nulla ormai può convincermi che il disegno di un cane che morde un uomo è tranquillamente « simile ,. al fatto raffigurato. Una volta messa in dubbio, la nozione ingenua di similarità deve essere criticata a fondo. � un dovere scientifico. A questo dovere scientifico avrebbe potuto portare un grande contributo Tomas Maldonado col saggio « Appunti sull'iconicità » che appare in conclusione della sua raccolta di scritti Avanguardia e razionalità (Torino, Einaudi, 1974). E in effetti questo scritto arreca vari contributi alla que­ stione, non ultimi quegli spunti critici che io stesso avevo fatto miei nella stesura del Trattato di cui parlo (terminato sfortunatamente nel luglio 1974, prima che potessi prendere visione del saggio di Maldonado e ormai già in bozze sia in italiano che in inglese). Ma Maldonado, mentre richiama - e giustamente - alla considerazione di alcuni fatti che si tende a trascurare, conduce la sua argomentazione in modo criticabile, rischiando di far tornare indietro un lavoro di revisione a cui egli stesso, invece, è chiamato per dovere scientifico, per esperienza e capacità tecniche e analitiche. La critica che pertanto ora condurrò della critica di Maldo­ nado mira, al di là di qualche inevitabile perorazione pro domo mea, a richiamare l'autore a un compito di comune ri­ cerca al quale lo so interessato e al quale tra l'altro (a di­ sdoro dei cronisti culturali che leggono le dispute scienti- 7


tiche come dichiarazioni di incompatibilità di carattere) stiamo in questi tempi collaborando, guidati dagli stessi in­ teressi di chiarificazione. 1. Il fantasma di Cremonini

Afferma Maldonado (contro coloro che criticano il rap­ porto di similarità tra una forma significante e l'oggetto a cui rinvia) che l'iconismo è una costante ineliminabile degli stessi processi conoscitivi e che persino le descrizioni ver­ bali delle icone diventano a loro volta delle icone. Afferma che noi costruiamo modelli della realtà che funzionano ope­ rativamente in virtù dei loro rapporti iconici e che chi lo pose in dubbio è un idealista che nega un rapporto stabile, oggettivo e verificabile tra conoscenza e realtà. Anzi, chi, at­ traverso fumose argomentazioni dette « semio-linguistiche », tende a porre in dubbio l'oggettività di tale rapporto è come coloro (penso che Maldonado alluda al povero Cremonini) che si rifiutarono di guardare nel cannocchiale di Galileo per timore che la nuova esperienza confondesse loro le idee. Pesante accusa, perché non c'è nulla che irriti di più uno studioso moderno che l'essere paragonato a Cremonini, e non c'è nulla che addolori di più uno studioso delle ultime generazioni, almeno in Italia, che essere tacciato di ideali­ smo. Se Maldonado voleva operare come quei campioni di catch che terrorizzano l'avversario roteando gli occhi, digri­ gnando i denti e lanciando urla terribili per fiaccarne la com-· battività, in principio ci è riuscito. t:. duro risalire questa china di disperazione quando si ha di fronte un avversario che ti dice: « tu, sporco idealista, non guardi nel cannoc­ chiale di Galileo e io invece sì, ora vedrai cosa ti mostro! ». L'unica cosa confortante, che mi sprona alla discussione, è che Maldonado, dopo aver minacciosamente agitato il can­ nocchiale di Galileo come arma contundente, lo posa sul tavolo, si avvia agli scaffali della sua biblioteca e si mette a citare Wittgenstein, con gran copia di parafernalia critici, di studi su Wittgenstein e di studi sugli studi degli studiosi 8 di Wittgenstein.


La mia coda di paglia, dovuta al fatto che avevo con­ dotto la discussione critica sull'iconismo appoggiandomi a dati di esperienza empirica e quasi familiare (osservazioni del comportamento di mio figlio quattrenne, esame di im­ magini già commentate da Gombrich, descrizioni del modo in cui si disegna una casa o un cavallo, discussioni sulla natura iconica del manico di scopa e della mano del bam­ bino che si atteggia a pistolero e puntando il dito fa « pum! ") si è fatta meno sentire quando mi sono reso conto che Maldonado, dopo un appassionato richiamo all'esame tecnico della strumentazione scientifica produttrice di ico­ nismo, conduce tutta la sua dimostrazione appoggiandosi a citazioni dal Tractatus e dai Collected Papers di Peirce. Cu­ riosa esigenza di « ipse dixit" da parte di uno studioso che ha avuto, una così lunga carriera di operatore e program­ matore di oggetti (si pensi alla scuola di Ulm) e dal quale ci saremmo aspettati dialoghi con Sagredo sulle osserva­ zioni da lui cdrnpiute scrutando il cielo dell'iconismo, non citazioni da pensatori che (in termini di proporzione storica, e absit iniuria verbis) stanno alla pratica della produzione iconica come il Cremonini (non ignobile filosofo aristotelico) stava alla pratica dell'esplorazione celeste. Ma è Maldonado che ha scelto, contro la via galileiana, quella aristotelica: e occorrerà, almeno per un tratto, se­ guirlo su questa strada, almeno per sapere cosa egli appren­ de dai filosofi circa il valore conoscitivo dell'iconisrno. Quan­ do ci parrà opportuno, gli faremo il torto di tornare a Galileo. 2. Mostrare o mostrarsi? Non vorrei tradire, mentre discuto su di un testo, la correttezza del metodo avvalendomi di affermazioni perso­ nali dell'autore (questa mia rispostà è stata preceduta da un amichevole dibattito a Bologna), in base alle quali si deduce che tutta la sua argomentazione è gravata dall'esi­ genza di reagire alle tentazioni idealistiche contenute nella stessa tradizione neo-positivistica a cui si rifà, così da ecce-

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dere talora in affermazioni di materialismo meccanicistico. Ma anche chi.legga le pagine di Maldonado non può non vede­ re come egli accanitamente reagisce contro ogni sospetto che ponga, tra la realtà oggettiva e le immagini che noi ne for­ muliamo, lo scherno di qualche mediazione vuoi « a priori ,. vuoi dovuta all'influenza degli schemi storico-tradizionali. Per cui di Wittgenstein lo affascina, prova ne siano le sue pagine, la teoria della modellazione (così Maldonado deci­ de di tradurre « Abbildungstheorie,. e conseguentemente « Bild» come « modello » ): ogni proposizione si mostra in una immagine modello, « la proposizione è una immagine della realtà» (Tractatus, 4.01), una natura iconica è insita nelle stesse formule matematiche e vi è (secondo Lichten­ berg) qualcosa nella forma « 2x2 = 4» di analogo al fatto che la terra sia simile a una arancia. In altri termini, è pro­ prio della mente umana saper costruire modelli che ade­ guano per similarità, in qualche misura, la realtà oggettiva, e in tal senso le iconi sono proposizioni di immagini, né queste immagini sono di tipo mentale, bensì concreto, come accade per i diagrammi in elettronica, per la cartografia, la fotografia. Tutti sappiamo che Wittgenstein stesso ebbe fieri dubbi a proposito della teoria della modellazione, con conseguente crisi di una teoria lineare del significato: ma Maldonado decide di considerare come attendibile legato wittgensteiniano solo gli aspetti della teoria che gli paiono rimaner immutati nel passaggio tra il Tractatus e le Philosophische Unter­ suchungen (il che ci pare più tipico del Cremonini che di Galileo), e tra gli aspetti che «resistono» annovera la fiducia nelle capacità conoscitive del modello. A questo punto osserveremo che, asserire che la cono­ scenza costruisce modelli operativi della realtà, non ci dice in che modo il modello funzioni, né ci pare lo dica il Wittgenstein del Tractatus, dal momento che « il carattere raffigurativo della proposizione consiste nella circostanza che la proposizione stessa è un fatto il quale possiede certi caratteri in comune con l'altro fatto che essa raffigura » 3• Wittgenstein sa che nel rapporto tra proposizione e fatto si


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stabilisce qualcosa cli simile alla proiezione geometrica, la quale tuttavia stabilisce quali proprietà rimangano inalte­ rate e costanti e quali invece non siano essenziali per la riconoscibilità del proiettante nel proiettato. Ma la geome­ tria stabilisce appunto regole di proiezione, e permette di stabilire la similitudine esistente tra il modello geometrico di una piramide e la piramide di Cheope, astrazion fatta, per esempio, della grandezza, della materia in cui entrambe sono costruite, dello stato di conservazione del materiale (così che il solido scolastico è simile al monumento egizio per il professore di geometria, ma non, poniamo, per l'ar­ cheologo, il quale cerca altre relazioni di modellizzazione). Il problema consiste pertanto nel sapere quali sono le re­ gole, convenzionate, di similitudine (e la similitudine è re­ golata da principi geometrici, mentre la «similarità,. è con­ cetto assai più vago) in base alle quali si vuole stabilire che un qualcosa sia modello di qualcosa d'altro. Per esempio, se Lichtenberg afferma che c'è un rapporto tra l'espressione «2x2 = 4 » e il suo contenuto matematico, da un lato, e la somiglianza tra la terra e un'arancia, non ci spiega invece perché lo stesso contenuto matematico possa essere espresso da 22, né perché 8 possa essere espresso da 23, attraverso variazioni operative che sarebbe assai difficile ricondurre alla similarità tra un'arancia, un mandarino e la terra; la terra sembra più a un'arancia che non a un mandarino, senza che 2x2 sembri più a 4 di quanto non lo sembri 22• E. chiaro che sono in gioco rapporti di modellizzazione che ri­ posano su diversi meccanismi mentali, oltre che percettivi, e che parlare di modellizzazione o di rapporto iconico in entrambi i casi è pura licenza metaforica. Tuttavia ci deb­ bono essere radici comuni di queste possibilità metaforiche, ed esse richiedono cli problematizzare la nozione cli iconi­ smo, o cli similarità tra modelli e oggetti di conoscenza. Al­ trimenti si cade nel limite già riconosciuto alla posizione wittgensteiniana, che cioè la connessione tra proposizione e fatto non può essere oggetto cli una nuova proposizione ma si mostra semplicemente nel confronto 4• Non è chi non veda il pericolo (almeno per chi voglia far una scienza espii- 11


cativa dei segni) di questa posizione: è iconico ciò che raf­ figura iconicamente qualcos'altro. Può darsi che asserire questo non sia idealismo: ma non dovrebbe neppure esserlo il tentare di mettere in crisi questa assunzione. Perché si tratta di domandarsi cosa esista nell'universo materiale tale che certe immagini possano significarlo permettendo quindi di modificarlo. Problematizzare al tempo stesso la struttura della realtà conoscibile e le nostre modalità di conoscenza. Ora Maldonado ammette che la logica non riesce a dirci se e come una icona abbia valore proposizionale. Ma attri­ buisce questa carenza all'eccesso di sviluppo positivo del pensiero logico. Quindi afferma che neppure la linguistica o la cosiddetta semio-linguistica sono riuscite a risolvere questo problema; e attribuisce la carenza al difetto di svi­ luppo della disciplina. Ora, a parte la gratuità della contrapposizione (di due scienze che non sanno risolvere un problema, una non ci riesce perché è troppo brava e l'altra perché è troppo rozza), Maldonado ha ragione ad accusar la linguistica di non aver dato risposte sufficienti sul problema dell'iconismo: perché o non lo ha considerato, assumendolo come dato estraneo al meccanismo della lingua, oppure ha cercato di definirlo sovrapponendogli il modello della lingua (coi suoi principi di arbitrarietà, articolazione e così via; e io stesso, almeno sino a La struttura assente, non sono stato immune da que­ sta tentazione). Ma non si può dimenticare che proprio la se­ miotica di origine linguistica, sia pure a causa del fascino che esercitava su di essa il modello delle strutture verbali, ha preso la decisione di mettere in questione i fenomeni di iconismo, .mentre il pensiero logico-filosofico li ha continuati a prendere per scontati 5• 3. Wittgenstein contro Wittgenstein Ma è poi vero che il « buon ,. pensiero filosofico (com­ preso quello di origine wittgensteiniana) ha preso questi problemi come scontati? Anzitutto non è chiaro che se Wittgenstein nel Tracta12


tus, quando parla di « modello », pensi a qualche cosa di simile a una immagine iconica, nel senso in cui lo è una fotografia. E questo Maldonado lo sa benissimo, tanto è vero che ricorda che, anche se l'icona va vista come proposizione ( « un termine capace di significare uno stato di cose», pag. 256, da I.C. Lewis) e anzi come forma proposizionale dichia­ rativa (pag. 267), risultato di un processo di categorizzazione percettuale che si pone in uno spazio affine a quello logico (pag. 274), tuttavia icone e proposizioni organizzano in modo diverso il loro tessuto dichiarativo (pag. 274): l'icona non dispone di connettivi, di equivalenti dei termini sincatego­ rematici o, come ha suggerito recentemente Sol Worth, le immagini non possono dire « io non sono ». Ma è proprio qui che comincia la questione. In un suo libro sul Tractatus, Erik Stenius 6 cerca di interpretare la teoria del modello in termini di isomorfismo. Anche in topo­ logia, si ha isomorfismo quando, data una chiave di lettura, si trasportano a livello di connessioni spaziali delle .connes­ sioni logiche: una serie di ramificazioni può esprimere rap­ porti di parentela, rapporti di comando-obbedienza, rapporti .. di amicizia o conoscenza; si tratta di conoscere quella che Stenius chiama la « chiave» (ma si tratta di « codice») per cui una certa relazione logica andrà riempita in un dato modo. Come si vede la parte della realtà raffigurata dal mo­ dello è proprio la meno percepibile sul piano sensibile-mate­ riale, riguarda delle relazioni poste, ed è solo in virtù della· chiave che a una data successione o gerarchia spaziale cor­ risponde una data gerarchia logica. Tutto questo non ha nulla a che vedere coi rapporti percettivi. Cosa sarà allora questo « spazio logico»? Perché è chiaro che se esiste uno « spazio iconico» delle immagini (come le fotografie o i ·quadri) esso avrà anche qualcosa dello spazio logico, ma lo spazio logico non ha nulla dello spazio iconico, e dunque avvertire la possibilità di modellizzazione sul piano logico non risolve affatto la questione delle possibilità di ripro­ duzione iconica. Stenius infatti si chiede cosa accadrebbe applicando gli stessi principi a una foto o a un quadro di paesaggio, e ammette che qui dovrebbero entrare in gioco 13


altre « regole » percettive e culturali; e conclude che sfor­ tunatamente nel Tractatus questi problemi non sono suf­ ficientemente considerati (e che forse molte debolezze della posizione wittengensteiniana sono dovute a questa omis­ sione, pag. 112). f:. che tutta la teoria del modello riguarda solo rapporti categoriali: ora, non vorremmo dire che abbia ragione Ste­ nius rispetto agli altri commentatori wittgensteiniani che Maldonado cita - ma lo si è detto, è Maldonado che ci invita al gioco aristotelico-scolastico delle auctoritates - ma è sin­ golare che Stenius riconduca tutta la teoria wittgensteiniana dello spazio logico e dei modelli categoriali a un kantismo rinnovato. Il solipsismo del Tractatus altro non sarebbe che un trasferimento della questione dei limiti e delle possibi­ lità a priori della ragione ai limiti e alle possibilità dello a priori linguistico. La « forma logica » è la forma che il linguaggio conferisce al mondo: la foI!Illa a priori dell'espe­ rienza è mostrata nel e dal linguaggio e non può essere detta (4.12. del Tractatus), e cioè non può essere che (inseriamo noi termini kantiani) « appercepita trascendentalmente ». E così la presunta teoria dell'icona che si mostra, altro non sarebbe che una trascrizione contemporanea dell'apperce­ zione trascendentale dell'Io Penso. Ma forse non è vero, Wittgenstein non voleva dire . questo. Vediamo allora cosa dice quando si critica, e cioè nelle Ricerche. Maldonado dice che ciò che rimane valido delle ricerche è ciò che appare immutato rispetto al Tracta­ tus. Poiché questa è una affermazione da Cremonini, allora, Cremonini per Cremonini, faccio il Cremonini anch'io e assumo che ciò che resta valido delle Ricerche è ciò che mette in questione il Tractatus. Cosa fa Wittgenstein nelle Ricerche? Non fa altro che mettere in dubbio, non appena può, la teoria del modello. Ma non la mette in dubbio perché pensa che le immagini non rappresentino la realtà: ma perché avverte che questa « rappresentazione » è continuamente mediata da circo­ stanze concrete, presupposizioni contestuali, e regole cul14 turali. E lo dice proprio analizzando (questa volta sl) le


immagini, i disegnini, le fotografie, eccetera. Anzi, fa persino dei disegnini di visi umani, di cubi, di anatre e conigli, per rendersi conto di cosa accade quando guardiamo una im­ magine. Che poi non ne tragga una teoria definitiva come accadeva nel Tractatus, questo è coerente con tutta la inlpo­ stazione delle Ricerche, in cui l'autore non cerca certezze ma semina dubbi. L'iconico non « mostra » mai per forza nativa. Persino nella comunicazione « per ostensione », in cui pare così fa­ cile esprimersi mostrando oggetti, occorre una previa stipu­ lazione di pertinenza, una regola (v. 30 e sgg.). Perché anche l'ostensione mostra un significato contrattato culturalmente, che non è l'oggetto: « è importante mantenere fermo che, se con la parola ' significato', si designa l'oggetto che 'corri­ sponde ' alla parola, allora la parola viene impiegata in modo contrario all'uso linguistico. Ciò vuol dire scambiare il significato di un nome con il portatore del nome. Se il signor N.N. muore si dice che è morto il portatore del nome, non il significato del nome. E sarebbe insensato parlare in questo modo, perché se il nome cessasse di avere un signi­ ficato, non avrebbe senso dire' il signor N.N. è morto '» (40). Questa nota è di fondamentale importanza per capire ciò che contesteremo a Maldonado nel paragrafo seguente, e cioè la sua incapacità di concepire una semantica non-refe­ renziale. Ora per il secondo Wittgenstein anche l'iconismo ri­ manda a significati, indipendentemente dagli oggetti, per via di mediazioni culturali; criticando una proposizione del Tractatus (la 4.5) che suona « La fouma generale della pro­ posizione è: E così e così», Wittgenstein osserva: « Si crede di star continuamente seguendo la natura, ma in realtà non si seguono che i contorni della forma attraverso a cui la guardiamo,. (114). Infatti l'immagine è vaga, si presta a diverse interpretazioni (141,526) - ed è naturale, se essa è come un grafo, offre delle relazioni generali ma attende una chiave perché quelle relazioni possano essere riempite di contenuti di esperienza, padri e figli, rapporti algebrici, pere e mele, lepri e anatre ... Non è che Wittgenstein non si chieda ,15


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come sia motivata una icona, e studia a lungo le ragioni per cui, fatto un segno sulla carta, se ne può riprodurre uno «uguale» (175 sgg.). Ma si rende conto che a istituire simi­ larità intervengono anche delle regole (199 sgg.) e si domanda se il modo migliore per capire queste regole non sia lo studio della prassi operativa (che è poi, come vedremo, la proposta finale di Maldonado, proposta a cui egli malaugu­ ratamente, per tutto il suo saggio, non si attiene). Non si tratta di negare l'immagine, ma di scoprirne le modalità produttive: « l'immagine c'è, non contesto la sua corret­ tezza. Ma che cos'è la sua applicazione?» (424). Ed è chiaro che chiedersi « che cos'è» significa abbandonare la pretesa (kantiana?) del Tractatus dell'impossibilità di spiegare le modalità di rappresentazione del modello. Infatti alla do­ manda «come fa la proposizione a rappresentare?» la ri­ sposta è: « Non lo sai? Lo vedi bene come fa, quando la usi », subito corretta da un dubbio, che è un progetto, non una rinuncia o un invito al silenzio: «Già, ma tutto passa così in fretta, e i vorrei vederlo dispiegato, per così dire, su una superficie più ampia » (435). � chiaro che queste proposte di Wittgenstein potreb­ bero essere interpretate anche in senso opposto: ma tale è la fecondità delle Ricerche. In ogni caso è indubbio che Wittgenstein in questo testo ritiene che le icone siano com­ prensibili (in quanto modello) solo in virtù di regole cultu­ rali stipulate: « Non sono abituato a misurare la tempera­ tura in gradi Fahrenheit. Per questo una indicazione di tem­ peratura nella scala Fahrenheit non mi 'dice' nulla» (508). E perché? Perché Wittgenstein comprende la natura di ciò che Peirce chiama interpretante, un altro segno, o compor­ tamento, che mi chiarisce il significato del primo segno, senza che intervenga la natura dell'oggetto a chiarirmi la natura del segno: « L'uomo distratto, che al comando ' Fian­ co destri ' si volta a sinistra e poi, aggrottando la fronte, dice: 'Ah, fianco destri ', e si volta a destra. Che cosa gli è passato per la ·testa? Un'interpretazione?» (506). Certo, poteva essere solo distratto; ma potrebbe avere sbagliato regola, potrebbe avere applicato male la regola che associa


il segno a un contenuto: così da restituire un referente er­ rato ... Bel problema. E d'altra parte, una immagine rimanda a un oggetto o a un dato culturalizzato di contenuto che media la mia comprensione? « Ebbene, qual è l'oggetto del dipingere: l'im­ magine di un uomo (per esempio), o l'uomo che l'immagine rappresenta (darstellen)?» (518). E, mirabile dimostrazione di come Wittgenstein distinguesse il significato dal refe­ rente, subito dopo: « Si direbbe che un comando è una im­ magine dell'azione che è stata compiuta in conformità al comando; ma anche che è una immagine dell'azione che si deve compiere obbedendo al comando,. (519). Ecco, il pro­ blema è tutto qui. Vogliamo parlare solo del rapporto tra segni e oggetti o anche del rapporto tra segni e regole di contenuto culturalizzato che mediano il rapporto con gli oggetti? Wittgenstein che ci invita a questa indagine, anche a proposito delle icone. Cosa si deve allora fare, usan­ do Wittgenstein in un modo che a Maldonado non pare familiare? Si tratterebbe dunque, se così stanno le cose, di chie­ dersi in che modo le icone sono proposizioni circa il mondo, in che modo riflettono le cose, secondo quali modalità ven­ gono istituite o riconosciute come modelli · di fatti reali. Il farlo implicherebbe un discorso sulle modalità culturali me­ diante le quali questi modelli sono costituiti. Per esempio, già nella Struttura assente, io avevo proposto che la realtà, in quanto percepita e culturalizzata, si organizzasse in per­ tinentizzazioni del campo semantico che assegnano a ogni unità culturale determinate proprietà. Queste proprietà, ai fini della rappresentazione visiva, si manifestano come semi di riconoscimento che, attraverso convenzioni grafiche, dan­ no luogo a trascrizioni iconiche. Facevo l'esempio della ze­ bra, che per noi è anzitutto riconoscibile in virtù del tratto pertinente «striscia», inserito su un corpo vaga.mente qua­ drupede, e per una comunità africana che conosca solo zebre e jene, entrambe dal manto a striscie, sarà riconoscibile in_. vece in virtù della pertinentizzazione di altri dati formali. chiaro che tale teoria serviva solo per le rappresentazioni 17

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schematiche e stilizzate, ma c'è da chiedersi quanto non potesse essere estesa anche a casi di iconismo più «forte», posto che nel mio libro si parlava anche di simulazione delle condizioni percettive, mediante realizzazioni in altra ma­ teria, e quindi non più di stilizzazione ma di operazioni tecniche motivate dall'esperienza percettiva diretta del­ l'evento da raffigurare. Ma tutto questo richiedeva una teoria del significato come sistema di unità culturali pertinentiz­ zata e sistematizzata: e quindi una icona, prima di ripro­ durre un oggetto reale, riproduce anzitutto un insieme di proprietà che la cultura ha assegnato a quell'oggetto in quanto catalogato e riconosciuto. In altri termini, l'icona doveva anzitutto essere messa in contatto con un conte­ nuto (nel senso hjelmsleviano del termine) e non con degli oggetti concreti (ai quali poteva rinviare solo attraverso la mediazione del contenuto espresso). Che tale impostazione lasciasse in ombra problemi di motivazione, che ora credo di aver ricuperato, sono d'accordo. Ma per criticarla oc­ corre passare attraverso la critica di una semiotica che ri­ conosca, come oggetto di una semantica strutturale, il contenuto sistemato come cultura. 4. Due semantiche � su questo punto che Maldonado inizia un singolare discorso tra sordi. Perché, mentre afferma che l'icona è proposizione, e che occorre studiare come essa organizzi il suo tessuto dichiarativo, invece di approfondire queste modalità, passa all'esame critico delle mie posizioni, con un'argomentazione che potrei riassumere come segue: Eco afferma che una semiotica non deve occuparsi dell'esistenza oggettiva dei referenti, ma solo delle condizioni di comu­ nicabilità e comprensibilità dei messaggi che studia; ma non occuparsi dei referenti significa rifiutare l'esistenza di una realtà extralinguistica, ovvero l'oggettività del mondo esterno (pag. 276); criticare la definizione di iconismo come similarità significa lasciarsi spaventare dalla materialità 18 della realtà extralinguistica a cui tale definizione fa ri-


corso (pag. 277); occuparsi solo della comunicabilità e com­ prensibilità significa porsi banali problemi di teoria del­ l'informazione, lasciando da parte il problema del signifi­ cato, su cui la semiotica allora pare non abbia più nulla da dire (pag. 281). Anche se il mio riassunto può avere radicalizzato l'ar­ gomentazione, ciò non toglie (e si vada a controllare alle pagine citate) che essa si presenti come un sorite di para­ logismi, la maggior parte dei quali dovuti a banale equi­ voco sui termini in gioco da entrambe le parti. Punto primo, cosa significa voler fare una semiotica non referenziale? Significa individuare condizioni di funzio­ nalità di una espressione, indipendentemente dagli oggetti o stati del mondo ai fini dell'indicazione o menzione dei quali può essere usata. In altri termini, significa vedere se a una espressione corrisponda una porzione di contenuto culturalizzato e se questo contenuto può essere in qualche modo descritto da una semantica strutturale. Esiste una semantica, in quanto opposta a sintattica e pragmatica, che si occupa, specie in filosofia, del rapporto tra segni e og, getti che questi segni menzionano; ed è quella a cui sta pensando Maldonado. Ma esiste un'altra semantica, che as­ sume per lo più la forma di semantica strutturale, che si presenta come descrizione o tassonomia del contenuto, ov­ vero approccio antropologico al modo in cui una cultura organizza il mondo. Dire che una semiotica non è referen­ ziale non significa dire che non si occupa del momento se­ mantico, significa anzi privilegiare questo momento seman­ tico perché la validità dell'espressione viene stabilita solo per mezzo dell'esistenza di un contenuto descrivibile, os­ servabile e opportunamente segmentato. Come si descrive questo contenuto? Qui i problemi sono molti, e ne Le forme del contenuto avevo fatto ricorso alla teoria peirciana degli interpretanti come garanzia della descrivibilità del signifi­ cato senza attuare un passaggio indispensabile agli oggetti. � vero che Peirce in varie parti dei suoi scritti àncora i segni agli oggetti, ma è pur vero che egli sviluppa una teoria vastissima e feconda della interpretabilità dei segni


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attraverso altri segni che ne circoscrivono il contenuto. Di questo aspetto della teoria peirciana non vi è traccia nel saggio di Maldonado, e non a caso: quando egli, nel 1961, pubblicava un dizionarietto di semiotica 7 su basi eminente­ mente peirciane, tra le sue varie voci la nozione di « inter­ pretante» non appariva. Come si spiega questa assenza? Col fatto che per Maldonado esiste un'unica semantica, che è la semantica referenziale; Maldonado riconosce una seman­ tica estensionale ma è scarsamente sensibile ai problemi di una semantica intensionale. Infatti nel suo attacco alla tradizione linguistica nessuna citazione specifica dimostra che egli abbia mai riflettuto sull'esistenza di analisi di semantica strutturale (o che per lo meno queste abbiano mai risvegliato il suo interesse) 8• Sia chiaro che ne Le forme del contenuto io limitavo l'interesse semiotico all'aspetto non referenziale dei segni e escludevo implicitamente dall'orizzonte semiotico il pro­ blema del riferimento o menzione di oggetti o stati del mondo: lacuna di cui ho fatto ampia penitenza non solo nel mio prossimo libro ma anche nel saggio pubblicato su VS 1, « Is the Present King of France a Bachelor? » Ma un conto è affermare che nell'ambito problematico di una di­ sciplina semiotica deve entrare anche una teoria del riferi­ mento o menzione, e un conto è affermare che una teoria delle funzioni segniche (e cioè del modo in cui una espres­ sione si correla a un contenuto indipendentemente dall'esi­ stenza attuale o dalla presenza di oggetti a cui sia riferi• bile) può e deve fare astrazione dai referenti. Altrimenti non si spiegherebbe la possibilità che i segni hanno di es­ sere -qsati per mentire. Una semiotica non referenziale deve spiegarmi perché, ricevuta una data espressione, io ne comprendo il conte­ nuto, in base a quale sistema sociale di regole. Non co­ gliendo questo punto metodologico fondamentale, Maldo­ nado estrapola una mia frase in base alla quale io affermo che « la semiotica deve solo studiare le condizioni di comu­ nicabilità e comprensibilità del messaggio ( codifica e decodifica) » e compie una curiosa operazione: trascura la pa-


rentesi, da cui si evince che associando comunicabilità a codifica e comprensibilità a decodifica, dato che per co­ dice intendo un sistema di funzioni segniche, sto parlando del modo in cui socialmente è possibile trasmettere dei contenuti; e si sofferma invece sui termini, indubbiamente vaghi, di « comunicabilità e comprensibilità ». Li intende come riferiti alla teoria dell'informazione (la quale si oc­ cupa della natura fisica delle espressioni intese come se­ gnale e a cui Maldonado attribuisce, e giustamente, « neu­ tralità semantica ») e ne conclude che la mia semiotica è « a-semantica e a-pragmatica ,. (poi chiedendosi intelligen­ temente come mai questo avvenga a me, che sono cosi inte­ ressato ai problemi dell'ideologia e delle comunicazioni di massa; e infatti, la cosa non ha senso, ma non è colpa mia se Maldonado intende « semantica » solo come « teoria dei rapporti tra i segni e le cose »). Ma una volta messosi su questa strada, Maldonado non può che arrivare alle ultime conclusioni: una semio­ tica che non si interessa agli oggetti, non si interessa a ciò che « si dice effettivamente• (pag. 280) (secondo Mal­ donado dunque si « dicono effettivamente • solo gli oggetti), e se non si interessa a ciò che si dice, non si interessa della realtà; se non vi si interessa, dunque la nega, ed eccoci al « vecchio spettro della gnoseologia idealistico-soggettivisti­ ca » (pag. 281 ). Ora si può essere diffidenti verso la formulazione che io o altri diamo di una possibile semantica strutturale, ma non si può negare che l'oggetto di tale semantica, detto « contenuto », è la stessa organizzazione del mondo operata da una società. E dunque l'oggetto di una scienza delle ideologie e della stessa organizzazione sociale. Cerchiamo di interpretare questo modo d'approccio dal punto di vista di un materialismo non volgare: cosa interessa al manti­ smo, sapere che ci sono dieci mele e due uomini, e che uno produce le mele e ne mangia una e l'altro non le produce e ne mangia nove? Oppure il rapporto di proprietà che coordina la distribuzione dei beni tra i due, e il rap­ porto di nove a uno che regola la distribuzione delle mele 21


e che rimane inalterato anche se, in caso di carestia, le mele prodotte fossero cinque, o se in luogo di mele si pro­ ducessero radici? :e. ovvio che ad una analisi materialistica dei rapporti di produzione e di proprietà interessano dei rapporti legalizzati e non il contenuto empirico di tali rap­ porti, a meno che la sostanza di tale contenuto non in­ fluisca sulla variazione dei rapporti (come quando si passa dai telai meccanici ad altre e più elaborate forme di pro­ duzione). Ma allora interessarsi all'organizzazione del contenuto, e a come i segni ne veicolano porzioni, non sarà idealismo soggettivistico, ma un modo di occuparsi dei fatti mate­ riali nella misura in cui generano leggi sociali, come sono appunto le leggi di sistematizzazione del contenuto. Op­ porre a queste i diritti immediati della esperienza sensi­ bile che si rifletterebbe senza mediazioni nei modelli di conoscenza sarà al massimo materialismo meccanicistico. Ma per Maldonado porre la mediazione del contenuto socializzato tra le espressioni modello e la realtà da model­ Iizzare significa rifiutare l'esistenza della realtà. E coloro che si !macchiano di tale peccato, e cioè i semiolinguisti, « nel loro ostinato idealismo... contestano tutto ciò che in un modo o nell'altro può costringerli ad ammettere che la realtà... esiste» (pag. 290). Frase che pare tratta di peso da un tazebao contro Lin Piao, Confucio e Beethoven: e manifesta una tecnica della contestazione che ameremmo vedere più articolata­ mente diluita in un libro che si dilunga, con possibilità di riflessione, per trecento pagine complessive.

5. Conoscere per similarità e conoscere la similarità Ora è chiaro che Maldonado non è sensibile ai fascini della semantica strutturale e rimane fedele alla semantica referenziale proposta dai neopositivisti del Circolo di Vien­ na. E va bene. Ma siccome Maldonado è studioso attento, sarebbe troppo facile dire che tutta la polemica di cui 22: sopra è dettata da insensibilità verso un settore così ampio


della meditazione contemporanea sui linguaggi. Deve esserci qualcosa d'altro che giustifica il suo atteggiamento. E que­ sto qualcosa d'altro, ad essere onesti, esiste, e inclina a considerare con maggior attenzione le sue contestazioni. Il fatto è che sembra facile parlare di organizzazione del contenuto e di rapporti tra espressioni e contenuto quando si ha a che fare con sistemi semiotici ad alta dose di arbitrarietà, come la lingua verbale, ma tutte le specula­ zioni sul contenuto appaiono molto più deboli quando si parla di un indice o di una icona. uno connesso causalm.ente a un oggetto singolo, l'altra ad esso presuntivamente legata da rapporti di proiezione. E infatti uno dei problemi per una semiotica non imme­ diatamente referenziale è come definire il contenuto di una icona. Qui potrei liquidare il problema dicendo che costituisce l'oggetto di circa duecento pagine del mio nuovo Trattato: e questa è senz'altro una buona ragione per cui io non tenti di riassumere in poche pagine ciò che sono appena appena riuscito ad impostare in una serie alquanto noiosa e tor­ mentata di capitoli. Ma occorre almeno dire perché la risposta di Maldonado mi lascia insoddisfatto e in che senso essa apra invece a un necessario approfondimento della que­ stione. Maldonado conduce anzitutto una interessantissima analisi del pensiero peirciano per dimostrare che io avrei troppo sbrigativamente accusato di petizion di principio la sua definizione di iconicità per similarità. Il discorso di Mal­ donado è molto complesso, e probabilmente ha ragione lui nell'asserire come nella prospettiva logica di Peirce una ac­ cusa come quella di circolarità non sia applicabile. Ma è anche vero che egli trae questa mia accusa da testi prece­ denti il 1973. Egli non considera i capitoli che ne Il segno (Milano, !sedi, 1973) ho dedicato ai vari esempi di similarità offerti da Peirce, specie nel trattatello sui Grafi esistenziali, e in cui dò conto della varietà di sensi che la nozione di simi­ larità e iconismo assumono nel pensatore americano. Il succo dell'argomentazione di Maldonado è tuttavia che la similarità ha valore conoscitivo: da Galileo in poi « per la

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conòscenza scientifica si trova sempre l'idea di similarità: modellare e simulare significano costruire similarità; ca­ tegorizzare e classificare significano ordinare similarità » (pa. 288). Ora il punto è che io non nego il valore conoscitivo della similarità, dato che è esperienza comune che l'esistenza di una fotografia mi permette di riconoscere qualcuno che non ho mai visto, e che le carte topografiche mi permettono di muovermi in una data zona senza finire in un burrone. Quel­ lo che io nego è che la categoria della « similarità » abbia va­ lore conoscitivo. Il che è ben diverso! Io suggerisco sem­ plicemente che la nozione di similarità non chiarisce per­ ché i segni detti iconici mi dicano qualcosa circa gli oggetti. Dico che ogni icona ci offre dell'oggetto solo alcune caratte­ ristiche prescelte filtrate da convenzioni ulturali. E dico (ma specialmente nel nuovo libro a venire) che anche quando una espressione visiva nasce dalla proiezione di caratteri­ stiche di un oggetto, anzitutto si tratta di caratteristiche già selezionate e quindi organizzate in un modello di con­ tenuto di quell'oggetto, e in secondo luogo che le modalità di proiezione, con le selezioni che comportano, si basano su regole culturalizzate. E che pertanto il problema della co­ noscenza attravers·o le cosiddette icone si pone come il pro­ blema dell'intervento culturale umano sui dati percettivi. Madonado sa che ottimizzare la similarità (ma anche la sua spiegazione scientifica) significa « trovare, sul piano tecni­ co, il migliore adeguamento tra le richieste convenzionali che provengono dall'osservatore e quelle non convenzionali che scaturiscono dall'oggetto osservato» (pag. 281). Ma il di­ scorso può apparire troppo difficile. Facciamo una cosa, guardiamo nel cannocchiale di Galileo, e guardiamoci in­ sieme.

6. L'icona di Saturno

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Diciamo subito che il mondo in cui vi guarda Maldonado (sia pure per un solo momento) non mi convince. Egli corre un grosso rischio, e a fare della filosofia si potrebbe dire che


l'origine ne è in certe pagine di Peirce, dove nel suo deside­ rio di trovare iconismi dappertutto questi parla anche delle immagini mentali come di. icone; e perché no, visto che la conoscenza - per Peirce come per Maldonado - è essen­ zialmente iconica? Ma il rischio è proprio questo: di con­ fondere l'iconismo della percezione (è ovvio che per muo­ vermi nel mondo devo supporre che in qualche modo il con­ tenuto delle mie percezioni corrisponda all'organizzazione degli. eventi esterni) con l'iconismo della rappresentazione segnica. Perché il disegno di un cane non è la percezione di un cane: al massimo è o l'icona del percetto o l'icona del­ l'oggetto, ma il problema di chi vede il disegno è di .risa­ lire da esso - ricordando il percetto - all'oggetto. Quindi ciò che dobbiamo sapere è con quali mezzi dei segni mate­ riali permettono di proiettare all'indietro verso un percetto e quindi verso l'oggetto che in circostanze idonee potrebbe produrre quel percetto. Ora Maldonado parla del cannocchiale come qualcosa che permette di avere sulla lente (o nell'occhio, non so) una immagine iconica della luna: « c'è una similarità tra l'im­ magine che ci offre lo strumento e l'oggetto raffigurato da quell'immagine» (289). Francamente non so a cosa alluda Maldonado quando parla dell'immagine offerta dallo stru­ mento: dell'immagine virtuale che si forma sull'oculare e che potrebbe essere fotografata in assenza di occhio umano? dell'immagine retinica corrispondente? dell'immagine « men­ tale» prodotta dall'immagine retinica? Per tutti questi fe­ nomeni si potrebbe porre una serie di questioni di « semiotica della percezione », ma ora non vorrei farlo. Il fatto è che, in quest'ambito, lo strumento non è veicolo di signi­ ficazione, è pura protesi; così come con una pinza articolata posso afferrare oggetti che il mio braccio non raggiunge­ rebbe, così come ponendomi uno specchio dietro alla testa e uno davanti posso guardarmi la nuca là dove i miei occhi non possono arrivare, così come mettendomi i trampoli posso compiere passi più lunghi, mettendo l'occhio a una lente vedo le cose più grandi. Qui l'iconismo non c'entra. Dove entra invece? Nel momento in cui Galileo, vista per la 25


prima volta una realtà ancora ignota (e cioè la luna o altri corpi celesti) cerca di comunicare le caratteristiche di ciò che ha visto attraverso un disegno. I disegni dei corpi ce­ lesti tracciati da Galileo sono icone dei corpi celesti (e che egli li abbia visti col cannocchiale o perché ci si è appros­ simato a volo, non iimporta gran che). E allora guardiamo cosa succede a Galileo quando, con la protesi del cannocchiale, riesce a guardare più dappresso non la Luna, su cui tutti avevano già una qualche idea, ma Saturno. Ora, la ·prima volta egli si accorge che Saturno non è fatto come gli altri pianeti, perché vi vede qualcosa intor­ no. Siccome la sua cultura non lo ha provveduto con schemi interpretativi adatti (la nozione di anello gassoso intorno a un corpo celeste è assente dal suo universo culturale) egli opera una pertinentizzazione che corrisponde al sistema di contenuto di cui dispone : se non è un pianeta saranno tre, uno accanto all'altro. E scrive a Belisario Giunti nel 1610 che « la stella di Saturno non è una sola, ma un composto di tre, le quali quasi si toccano, né mai tra loro si muove o mutano »: e disegna un cerchio maggiore con accanto, a guisa di orecchiette, due cerchi minori. Negli anni seguenti guarda meglio, e in migliori condi­ zioni astronomiche 9• E nel 1616 scrive a Federigo Borro­ meo che i due compagni di Saturno non sono più due pic­ coli globi rotondi, ma corpi maggiori, « et di figura non più rotonda, ma come vede nella figura appresso, cioè due mezze ellissi con due triangoletti oscurissimi nel mezzo di dette figure, et contigui al globo di mezzo di Saturno ». La storia potrebbe continuare: e si potrebbe seguire la vicenda delle rappresentazioni di Saturno presso gli astronomi successivi. Buona idea per una semiologia delle rappresentazioni astro­ nomiche. Fatto sta che, ammesso che Saturno sia come ce lo rappresentano le icone contemporanee (e ci rimarrà sem­ pre un dubbio sulla « forma reale» di questo pianeta), esso non era come appare nei disegni di Galileo. Occorrerebbe andare a prendere il cannocchiale di Galileo al Museo della 26 Scienza di Firenze per controllare se Saturno lo si vede


come egli lo ha rappresentato, o se noi oggi, anche col can­ nocchiale di Galileo, saremmo portati a vederlo secondo le rappresentazioni attuali, o se Galileo lo ha visto come lo vedremmo noi e tuttavia non poteva che disegnarlo così, per­ ché gli mancava il modello culturale adatto per pertinentiz­ zare gli anelli gassosi; eccetera eccetera. Sta di fatto che il Saturno di Galileo non è iconico; e tuttavia è più iconico degli eventuali disegni convenzionali pregalileiani che aves­ sera rappresentato un Saturno di maniera, stella tra le stelle. Ma, ultimo fatto da non trascurare, pur con una rap­ presentazione iconicamente così imperfetta Galileo è riu­ scito cionondimeno a mandare avanti la scienza astrono­ mica, così come Eratostene riuscì a calcolare la lunghezza dell'equatore pur avendo l'idea di una terra assai più pic­ cola di quanto realmente fosse. Abbiamo qui il modello di un aspetto della realtà che la riflette in modo improprio; che la riflette essendo determi­ nato da modelli culturali precedenti; e che tuttavia funziona per operare sulla realtà. Ma allora il problema non consiste nel dire che l'iconismo è un modo di conoscenza, ma che la conoscenza mette in opera modelli organizzati in modi diversi, e che molti di questi modelli si attengono a regole di proiezione culturalizzata, che non prescindono dall'espe­ rienza di oggetti reali, e che tuttavia il nostro rapporto con gli oggetti e gli stati del mondo è mediato da questi modelli, nati dall'interazione di dati di esperienza e di schemi cul­ turali (organizzazioni del contenuto) precedenti. E se è così che l'uomo, animale culturale, si rappresenta il mondo, la critica all'iconismo dogmatico e ingenuo è l'unico modo per poter studiare le modalità materiali del rapporto del­

l'uomo col mondo. Allora criticare l'iconismo non significa negare la realtà, ma porre in chiaro che, per capire quell'aspetto della realtà che è la vita sociale, occorre studiare i modi in cui l'uomo socializzato filtra i dati della realtà e costruisce immagini che, anche se non _« ingenuamente » iconiche, tuttavia per­ mettono ad altri uomini di maneggiare la stessa realtà. La realtà permanendo oggetto di conoscenza ulteriore, abbiamo· 27


come materia di scambio immediato una espressione ma­ teriale che veicola un contenuto organizzato, il quale con­ tenuto si rivela, se non «giusto», almeno «sufficiente», nella misura in cui permette operazioni socializzabili, comunica­ bili, sulla realtà. Se la semiolinguistica « idealistica» credesse che la luna non esiste, come inclina a pensare Maldonado, non si preoc­ cuperebbe di dire che il Saturno di Galileo non è iconico (non « riflette» proprietà reali dell'oggetto, bensì trascrive aspetti di un percetto incompleto e stabilisce un modello di contenuto). Se Saturno non esistesse, il Saturno di Ga­ lileo sarebbe quello vero. Ma è proprio perché i « semiolin­ guisti idealisti» credono che Saturno esista in barba alla semiotica, che essi pongono in dubbio la nativa rivelatività delle icone. Perché, a credere che le icone riflettono la realtà, si finisce di restar vittima delle rappresentazioni, e di non criticare neppure i propri strumenti di modellizzazione. Non sono così impietoso e rozzo da ritorcere su Maldo­ nado l'accusa di idealismo, ma sento il bisogno di avvertirlo che, benché io sia fermamente convinto che lui crede nel­ l'esistenza della Luna, a credere con pari forza nell'iconismo si rischia di credere più al lunario che alla luna. Quale, tra le nostre due, è la semiotica più lunatica?

7. L'impronta della tigre

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Maldonado sa che l'isomorfismo predicato dalla logica, se pure ben definito, non è quello, altrettanto ben definito, della ch.lmica, come non è quello, malissimo definito, della psicologia e della linguistica (pag. 292). Ma se allora termini come « isomorfismo » sono casi vaghi e polivoci, perché non sottometterli a critica e a definizione operativa? Io "'.°" glio che Maldonado mi dica cosa differenzia l'iconismo pre­ sunto di una formula algebrica o di un diagramma di Venn (è Peirce éhe cita questi casi) da quello di un grafo, da quello di una costruzione di triangoli simili, da quello che può rendere un ritratto di Diana similissimo a Diana ma


- basandosi sui trattati di anatomia e sulle foto delle ri­ viste di moda - pochissimo simile una donna vera. Prendiamo il caso delle impronte, che Maldonado af­ fronta più avanti, quando discute su alcuni passi leibniziani e sul problema della compresenza proiettiva. Le impronte sarebbero iconi dell'agente impressore perché proiettate in compresenza, o meglio, diremmo noi, per connessione cau­ sale coll'agente. Ben, nel momento in cui l'agente imprime; l'impronta è invisibile, e non è iconica per nessuno. Lo diventa quando l'agente è passato. A quel punto la compresenza è sempli­ cemente inferita (e infatti potrebbe trattarsi di una im­ pronta falsa). L'impronta mi permette di inferire la natura dell'agente perché, diciamo, proietto all'indietro, rifaccio il cammino inverso, e dai tratti dell'espressione risalgo all'og­ getto. Anzitutto, per risalirci, mi abbisognano regole culturali. L'impronta di un bicchiere sul tavolo è più grande del fondo del bicchiere, quella della zampa di un gatto più piccola, perché solo alcune parti si sono impresse: di entrambi gli oggetti ho il contorno, e null'altro. Per proiettare all'indietro devo applicare alcune regole di trasformazione, quindi ag­ giungere idealmente i tratti che l'impronta non reca e che caratterizzano invece l'oggetto. Se non sono stato istruito con modelli precedenti, se la zampa è di coccodrillo e invece del bicchiere si trattava di un particolare tipo di vaso cinese, non posso passare dall'impronta all'oggetto se non possiedo modelli culturali adeguati. In ogni caso, alla fine di questo lavoro proiettivo all'indietro, non ho ottenuto quel bicchiere, quel gatto, quel vaso, o quel coccodrillo: ma dei contenuti, un bicchiere, un vaso, un gatto, un coccodrillo. Solo attraverso la mediazione di questi contenuti posso az­ zardare atti di riferimento. Quando Robinson trova l'orma di Venerdl sulla sabbia non pensa e è passato Venerdl • ma al massimo « uomo a piedi nudi •· E così via. L'iconismo indessicale delle impronte è frutto di precisi legami causali con oggetti concreti, nasce in forza di trasformazioni proiettive, mi aiuta certo a conoscere qualcosa circa la 29


realtà, ma al tempo stesso si presenta semioticamente come una espressione che rimanda a un contenuto in forza di al­ cune regole culturali. Che queste regole siano diverse da quelle che stabiliscono il rimando tra la parola / gatto / e il contenuto corrispondente, è verissimo. Se in altri miei scritti è sembrato che lo dimenticassi (ma semplicemente non lo mettevo in evidenza dato che era di per sé pacifico) ho fatto male; ma dire che certi segni hanno una meccanica diversa da altri non significa che non possano essere teoriz­ zati gli aspetti in comune. Le icone (ma quale differenza tra una impronta e una foto, tra una foto e un disegno di Raffaello, e tra questo e la pianta della metropolitana) servono certo a conoscere. Ma in

che modo?

8. Che fare? Maldonado decisamente afferma (pag. 295): « per noi ri­ mane come punto fermo il valore conoscitivo dell'iconicità ». Troppo fermo. Tanto fermo che si evita di discuterne in concreto le modalità, preferendo riferirsi ai testi di Wittgen­ stein o di Frege. Ma facendo questo Maldonado non solo af­ ferma il valore conoscitivo dell'iconicità ma di fatto sottin­ tende il valore iconico della conoscenza concettuale! Mentre si tratta di due cose diverse. Dire che una �agine mi peJimette di conoscere la cosa rappresentata è una afferma­ zione di buon senso che richiede poi approfondite verifiche sulle modalità di questa conoscenza. Dire che la conoscenza, e non solo quella percettiva, è di natura iconica, fornisce certo la risposta alla domanda « perché le iconi mi fanno conoscere?», ma non risponde alla domanda « in base a quali meccanismi conosco?». Eppure è Maldonado stesso che ci indica la soluzione. La parte più interessante del suo saggio è data dalle ultime due pagine. Le quali sfortunatamente avrebbero dovuto es­ sere le prime: nel senso che è di lì che bisogna cominciare, e tutto il resto è ancora da scrivere e probabilmente nes30 suno meglio di Maldonado potrebbe scrivere questo saggio,


eluso, su cosa sia l'iconicità. Quando· Maldonado avverte che « ci manca una storia delle tecniche di iconicità indes­ sicale ... una storia critica della tecnologia in genere ... fino all'esame della tecnica più recente: la produzione ologra­ fica di immagini traJmite i raggi laser» (pagg. 295-97), ci in­ dica la strada da seguire. Analizzare le modalità di riprodu­ zione e gli effetti operativi che esse consentono, per vedere come si procede a queste riproduzioni, cosa si sceglie, cosa si lascia, sino a che punto la presenza dell'oggetto determina l'espressione, sino a che punto i modelli culturali determi­ nano il tratto dell'espressione, sino a che punto chi non conosce l'oggetto risale dall'espressione a un dato di conte­ nuto, sino a che punto una espressione « più iconica» riesce a criticare un contenuto convenzionalizzato e a sostituirvi un nuovo contenuto. E indubbiamente la storia della stru­ mentazione scientifica e dei mezzi riproduttivi potrà aiutare molto a fare una tipologia dei modi di produzione segnica (che, en passant, è delineata in sede teorica, ma non veri• ficata in sede sperimentale, nel mio Trattato). È in questo campo, forse più che nelle querelles filoso­ fiche, che Maldonado potrebbe darci il meglio della sua esperienza di operatore visuale sorretto da una vigile co­ scienza teorica. Una strada su cui sarebbe grave non seguirlo, perché o si va in questa direzione o si continuano inutili diatribe che, al di là di una certa soglia, non producono più nulla di nuovo. Pertanto sono d'accordo per continuare a guardare in­ sieme (ma insieme, senza dirlo e poi non farlo) nel cannoc­ chiale.

1 Ci rifletteva invece WITIGENSTEIN, nelle Ricerche filosofiche (539): « Vedo un quadro che rappresenta un viso sorridente. Che cosa faccio se concepisco quel sorriso ora come un sorriso amichevole ora come un sorriso cattivo? Non accade spesso che lo immagini inserito in un ambito spaziale e temporale amichevole o cattivo? Cosl potrei com­ pletare il quadro, immaginando che il volto sorrida a un gioco di bambini, oppure alle sofferenze di un nemico"·

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2 Ma oltre ai saggi su queste due riviste, vorrei ricordare le revisioni compiute da Metz della sua prima teoria dell'analogicità (si veda in particolare il numero di Communications 15, con l'articolo « Au-delà de !'analogie: l'image ,.), le ricerche di Gombrich e il recente, singolare e problematico libro di un logico, NELSON GoooMAN, Language of Art, New York, Bobbs Merrill, 1968. 3 Juuus R. WEINBERG, Introduzione al positivismo logico, Torino, Einaudi, 1950, pag. 54 . • « La proposizione può rappresentare la realtà tutta, ma non può rappresentare ciò che, con la realtà, essa deve avere in comune per poterla rappresentare • la forma logica» (Tractatus, 4.12). s Si veda com'è al postutto buonsensatamente banale l'affemar­ zione di Price che Maldonado cita a pag. 261. Dove si ammette che noi per comprendere certi fatti ricorriamo ad immagini, ma si assume come soluzione quello che invece è il problema. Cosa che il WITIGENSTEIN delle Ricerche logiche, come vedremo, non fa. Tutti questi logici e questi filosofi che, quando si trovano di fronte al problema dell'iconismo, lo manovrano come cosa tranquilla, usando problemi a mo' di spiega­ zioni per il solo fatto che i lettori faticano a problematizzare osserva­ zioni come e la gobba della luna assomiglia alla gobba di un cam­ mello», sembrano aver assunto come motto l'opposto dell'ultima sen­ tenza del Tractatus: « su ciò di cui è facile parlare, si parli senza risparmio». 6 ERIIC STENIUS, Wittgenstein's Tractatus, Oxford, Blackwell, 1959. 1 Beitrag zur Terminologie der Semiotik, Ulm, Korrelat, 1961. • :t:. possibile che Maldonado disdegni la tradizione semiolinguistica « alla francese »; e concediamogli di non aver preso in considerazione, che so, Guiraud, Greimas, o il vecchio Matoré. Ma la tradizione tedesca gli offriva Trier, quella anglosassone i recentissimi Lyons o Leech; e poi c'è la tradizione sovietica; e tutta la tradizione antropologica, ec­ cetera. Perché opporre questo fin de non recevoir? 9 Galileo in effetti, non poteva afferrare, con l'ingrandimento di cui disponeva, la vera forma dell'anello. Ma ad un certo punto si stupisce nel vedere Saturno « solitario». :t:. che e ogni quindici anni, quando il piano dell'anello passa attraverso la terra, l'anello di Saturno è tanto sottile da sparire quasi completamente dalla nostra vista e poiché detto piano impiega quasi un anno ad attraversare l'orbita terrestre, la terra in questo intervallo può attraversarlo una o tre volte secondo le circo­ stanze» (cfr. GIORGIO ABETII, « Le scoperte astronomiche di Galileo•• in Scientia, VI, 54, 1960). Con tutto ciò Galileo azzarda la previsione che i due presunti satelliti debbano tornare. E infatti nell'osservazione del 1616 il fenomeno si manifesta di nuovo, e questa volta in una forma che permette a Galileo di azzardare una ipotesi più affine a quella dell'anello che a quella dei due satelliti. In tutta questa esplorazione ciò che gioca un ruolo formativo è l'ipotesi teorica della costanza del fenomeno; quello che Galileo vede e riproduce è solo una cauta approssimazione allo stato effettivo delle cose.

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L'Eccen trismo, un momento d ell'avanguardia sovietica GIUSI RAPISARDA TAFURI

Il dilemma centrale di tutta l'avanguardia storica è la creazione di un "' ponte » fra la sfera estetica e la vita quoti­ diana e non esiste forse campo di osservazione più adeguato, per misurare le contraddizioni e le conquiste di quell'utopia, della vicenda vissuta dal teatro e dal cinema sperimentali nell'Unione Sovietica immediatamente dopo la Rivoluzione d'Ottobre. Qui, infatti, quella generica « vita » deve uscire dalla indeterminatezza in cui i gruppi europei prima del '17 l'avevano confinata. Vita, ora, significa esplicitamente azione politica delle grandi masse: l'arte come guida di comportamento deve assumere il volto dell'organizzazione di tale azione. D'altra parte, per Majakovskij, per Mejerchòl'd, per i futuristi in genere, rivolgersi al teatro e al cinema aveva assunto un significato preciso. Tutta l'avanguardia si era posta come riduzione a zero della distanza fra « azione » artistica e « prodotto » artistico. Gli happenings di un Ball, di uno Tzara, o dei futuristi russi avevano assunto come loro luogo naturale il cabaret e come oggetto di rappresentazione il gesto assurdo del vate-buffone: la verità era divenuta per loro espressione vitalistica di quella realtà irriducibile ad altri significati, che è l'irrazionale fluire delle sensazioni. Per le avanguardie sovietiche, dopo il '17, si aprono quindi nuovi

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probl�mi. Il compito distruttivo delle prime esperienze, lo aveva dichiarato Majakovskij già nel 1915, in « Una goccia di fiele», è ormai esaurito. Ora si tratta di riorganizzare i materiali fatti scaturire dalle dissacrazioni prerivoluzio­ · narie, senza perderne la carica eversiva; quest'ultima sarà piuttosto tanto più effettuale, quanto più sarà capace di indirizzare comportamenti di massa plasmati sulla coppia di valori apparentemente antitetici: anarchia vitale-raziona­ lizzazione dell'esistenza. Solo nell'insensata società borghese vitalismo e razionalizzazione si oppongono: questo è l'as­ sunto base comune a intellettuali come Majakovskij, Ehren­ burg, Lisickij, Tatlin, Rodcenko; la società socialista è, allo stesso tempo, rivoluzione permanente contro le sclerotizzate forme di vita ereditate dal passato e tensione verso modi di organizzazione talmente completi da comprendere e con­ tenere in sé ogni istanza eversiva. Ma, prima di riorganizzare la vita, bisognerà scomporla: bisognerà esplorarne minuta­ mente gli elementi in un laboratorio scientifico di analisi del comportamento. È quanto si propongono di fare le avan­ guardie teatrali e cinematografiche, da Mejerchòl'd, a Dziga Vertov, all'Ejzenstejn del « montaggio delle attrazioni», alla « Fabbrica dell'Attore Eccentrico» (Feks). Nel presente saggio, non ci proporremo di tracciare sintesi scontate quanto distorcenti, ma tenteremo piuttosto di leggere, nel modo più documentato possibile, un mo­ mento di tale fondamentale coacervo di esperienze. Ci inte­ resserà, cioè, fissare l'attenzione sulla fase iniziale dell'atti­ vità della Feks, seguendo l'attività dei suoi protagonisti prin­ cipali - Leonid Trauberg e Grigorij Kozincev - nel passag­ gio dai manifesti iniziali, alle prime esperienze teatrali, al cinema (dal 1921 al 1926, dunque), per riconoscere, in tale fase di gestazione di un nuovo linguaggio, un momento culminante di scomposizione e rielaborazione del materiale spettacolare. Per storicizzare, in altre parole, il momento in cui l'avanguardia mette a nudo i propri procedimenti, elen­ cando e riesaminando i propri nuovi strumenti di comuni­ cazione. E va subito detto, che tale fase compositiva e ana34 litica si presenta già ricca di fermenti ideologici. La vita


esige un'arte iperbolicamente rozza, sbalorditiva, che sferza i nervi, apertamente utilitaria, meccanicamente precisa, istantanea, rapida. Altrimenti non sentiranno, non vedranno, non si fermeranno ... L'arte del secolo XX, l'arte del '22, è l'arte dell'ultimo istante, cioè l'eccentrismo. Cosl Grigorij

Kozincev sintetizza, nel 1922, i principi che lui stesso, in­ sieme a Leonid Trauberg, Georgij Kryziokij e Sergeij Jutke­ vic, aveva posto alla base di uno dei più singolari laboratori dell'avanguardia sovietica: la « Fabrika ekscentriceskogo aktora» (Fabbrica dell'attore eccentrico). Il 5 dicembre 1921, i quattro protagonisti del nuovo movimento tengono alla « Commedia libera » di Pietrogrado un convegno in cui i Feks vengono ufficialmente lanciati, e nell'anno successivo il manifesto dell'Eccentrismo precisa gli obiettivi del nuovo movimento teatrale: ECCENTRISMO (biglietto da visita) / Varietà Kinematografovic Pinkertonov / Un anno di età! / Per informazioni rivolgersi sotto. / LA CHIAVE DEI FATTI / 1. Ieri: comodi uffici. Fronti pelate. Pensavano, ri­ flettevano, valutavano. / Oggi: segnale. Alle macchine! Cin­ ghie, catene, ruote, mani, piedi, elettricità, ritmo della produzione. / Ieri: Musei, cattedrali, biblioteche. / Oggi: fabbriche, officine, cantieri navali. / 2. Ieri: la cultura del­

l'Europa. / Oggi: la tecnica dell'America! L'industria, la produzione sotto la bandiera stellata. O l'americanizzazione,

o l'ufficio delle pompe funebri. / 3. Ieri: salotti, Inchini, Ba­ roni. / Oggi: grida dei giornali, scandali, il manganello del poliziotto, rumore, urla, calpestio, corsa 1•

Il convulso ritmo della vita metropolitana, dunque, e il mondo tecnologico: sin dalle prime battute, l'Eccentrismo dà per morto e sepolto il mondo del rituale, delle strutture permanenti, dei valori immutabili. La tecnica americana contro il funerale della Kultur europea, la fabbrica contro la biblioteca, il lavoro contro il pensiero improduttivo: Kozincev, Trauberg e i loro collaboratori si inseriscono di­ rettamente nel solco di una « tradizione del nuovo», trac­ ciato dall'insieme delle avanguardie russe, dal 1910 almeno in poi. Cubofuturismo, Suprematismo, Produttivismo, Co­ struttivismo, Feks convengono nel riconoscere come proprio 35


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referente il mondo della dinamica industriale, e i suoi ri­ flessi nell'universo scompigliato della grande metropoli. Non a caso, i Feks si pongono come una « fabbrica dell'attore». L'attore è colui che, per definizione, si assume un compito pedagogico nei confronti del pubblico, che rappresenta, sti­ mola o incarna ideologie che saltano ogni ostacolo fra arte e vita. Già Futurismo e Dada avevano scoperto che forma suprema di sintesi vitalistica è lo spettacolo incontrollato: l'azione provocatoria coinvolge attore e spettatore in un ten­ tativo di recupero del fluire della vita, mentre, per l'artista, esporsi personalmente in scandalistiche pantomime-buffonate ha il valore di un esorcismo mistico: l'ultimo concesso alla tradizione dell'ozio intellettuale. La trasformazione · dell'ar­ tista in clown ha quindi, prima del '17, un significato ango­ scioso. Ma dopo il '17, nella Russia Sovietica, tale angoscia sembra ingiustificata: il clown liberato dall'ansia è Chaplin, è Mack Sennett, è Fred Karno, è l'eroe della slap-stick. L'at­ tore della comica americana ha un fascino preciso, per il teatro sovietico: con lui, l'impossibile entra nel mondo quo­ tidiano, attraverso il supremo distacco dell'ironia. Tutte le utopie costruttivistiche si accumulano nella Russia del CO· munismo di guerra - dai progetti strabilianti che Ehren• burg fa elaborare al suo Maestro Julio Jurenito, ai poemi in ferro-cemento di Kamenskij, alle città supertecnologiche di Lavinskij - convergono nel fare del teatro il proprio luogo privilegiato. Se la macchina è il nuovo niito chiamato a collaborare all'edificazione del socialismo, bisognerà pie­ gare la macchina stessa a prendere la forma dell'uomo. Ciò è ancora dentro la tradizione futurista. t:: invece nuovo attri­ buire alla macchina le caratteristiche del tipo alto bor­ ghese, del dandy, del flaneur distaccato. t:: quanto avviene nelle scenografie teatrali della Popova o dei fratelli Vesnin (pensiamo al « Cocu magnifique » e ali'« Uomo che fu Ve­ nerdì » ), con un risvolto significativo: una precisa tendenza a creare nell'attore la perfetta sintesi uomo-macchina. li mondo della macchina è sentito, dal teatro di avanguardia sovietico degli anni '20, come mito, ancor prima che come detertninazione economico-materiale: un mondo - come no-


tano nel '25 Grosz e Herzfelde 2 - in cui i segreti della tecni­ ca, che confinano per il profano con le meraviglie celesti, divengono un punto di contatto con le masse, portate a rea­ gire più sentimentalmente che razionalmente. L'artista - essi continuano - è, magari inconsapevolmente, media­ tore e propagandista dell'idea della espansione industriale. La riscoperta delle potenzialità liberatorie e psicologi che legate alle tecniche linguistiche vale ancora ad ali­ mentare l'illusione di potersi servire dell'arte per padro­ neggiare la moderna civiltà del lavoro. Ciò significa consi­ derare la macchina quale elemento catalizzatore, capace di intervenire a molteplici livellt di comportamento. Sul piano psicologico, si realizza una sorta di proiezione sulla macchina da parte dell'individuo che da essa sente depauperata e imba­ nalita la sua esistenza, di attributi di onnipotenza, velocità, ritmo, capacità di continua rottura degli schemi prestabiliti, che generano una vera e propria euforia liberatoria. Sul piano etico-sociale, d'altra parte, si assiste a un'autentica esorciz­ zazione della macchina assoggettatrice, quale era stata per­ cepita dall'angoscia espressionista, attraverso la mitologia di un universo meccanico portatore di un generico pro­ gresso e, di conseguenza, di un lavoro, che, identificandosi con esso, si sente liberato. Un secondo di pausa - scrive Ehrenburg 3 - è la morte. Tutto fuori. Non più movimenti dell'intimo. Zio Vanja e sorelle restate a casa! Piuttosto gli acrobati! II salto è estasi, il salto è tragedia. Le riviviscenze, putredine. Ed ecco, puntualmente, la Mastfor di Foregger, in cui gli aspiranti attori studiano la boxe, la ritrnometria insegnata da Boris Ferdinandov, sotto forma di calcolo me­ ticoloso dei gesti e dei ritmi, nel suo teatro Eroico-Sperimentale, ed ecco, di nuovo i Feks 4: 1) la rappresentazione: colpi ritmici sui nervi; / 2) il culmine: trucco; / 3) l'autore: Inven­ tore-ciarlatano; / 4) l'attore: un movimento meccanizzato, niente coturni ma pattini a rotelle, niente maschera ma un naso che si accende. La recitazione: non movimenti, ma· smancerie, non mimica, ma smorfie, non parole, ma urla; / S) l'opera teatrale: un accumularsi di trucchi. Velocità: 1000 cavalli-vapore; Inseguimento, fughe. Forma: divertimento; / 37


6) gobbe che crescono, pance che si rigonfiano, parrucche rosse che si rizzano, ecco l'inizio del nuovo costume scenico, fondato su una ininterrotta trasformazione; / 7) sirene, spari, macchine per scrivere, fischi, musica eccentrica. Il tip-tap è alla base del nuovo ritmo ... ; / 8) sintesi dei movi­ menti: acrobatico, sportivo, di danza, costruttivo-mecca­ nico; / 9) cancan sul filo della logica e del buon senso. Attra­ verso I'« impensabile e l'impossibile» verso l'eccentrico 5•

L'eccentrismo si mostra quindi parente stretto della Biomeccanica di Mejerchòl'd e delle « danze di macchine» dei commedianti della Mastfor. Ma con la differenza, che il sogno di una completa mecca�izzazione della vita, che Fer­ dinandov e Foregger traevano sia dal teatro Sintetico futu­ rista - si pensi alle « Sedie» e a «Vengono», di Marinetti che dalle « danze di macchine» di un Ivo Pannaggi, viene dai Feks rovesciato in un'utopia di assoluta liberazione dell'uo­ mo attraverso la meccanizzazione cosmica. Il movimento meccanizzato come gag, l'opera come accumularsi di truc­ chi: la pantomima esplode sotto la pressione di un vitalismo controllato, in cui l'acrobazia è sintesi di totale anarchia e di totale pianificazione. Anarchia + pianificazione. È bene notarlo subito: si tratta di un'utopia ben diffusa fra gli intellettuali sovietici, fra il comunismo di guerra e la NEP. È ben cniaro, che tale sintesi di meccanodramma e slapstick mira, come gran parte dell'arte sovietica di avan­ guardia, a realizzare uno-stravolgimento della vita quoti­ diana, un'estraneazione costruita, sulla traccia delle teorie dei Formalisti 6• Nello stesso anno 1922, Boris Arvatov cerca una spiegazione non storicistica per tale diffuso ingresso nel tea­ tro del circo e del cabaret. « La differenza del circo e, in parte, del cabaret, dal teatro consiste in questo: mentre in teatro l'attore fa solo vista di essere coraggioso, abile, ar­ guto, pronto, audace e così via, nel circo e nel cabaret egli è effettivamente tale. E quando Ejzenstejn, Mejerchòl'd, Radlov, e altri motivano, ciascuno a suo modo, l'utilità del circo e del cabaret in teatro, essi adempiono di fatto il me38 desimo cQmpito, quello di vivificare il teatro».


Ma non basta - continua Arvatov 7 -: senza la pianifi­ cazione, senza la scientificità, tale vivificazione potrebbe tra­ sformarsi in una nuova forma. Sorge allora la questione della taylorizzazione del teatro, della applicazioné in esso della psicoterapia, dello studio reazionale dei movimenti, ccc. ( ...) La vita porta con sé nel teatro non soltanto i propri procedimenti di azione, ma anche una propria tecnica mo­ derna: il cinematografo, le macchine, l'elettricità, l'ascenso­ re, l'aereo; tutto ciò, sotto l'insegna soggettiva dell'america­ nizzazione (Jutkevic, Kryzickij, Trauberg, Kozickij, Ejzen­ stejn e altri), rivoluziona il teatro, adattandolo alla contem­ poraneità, rendendolo atto per il successivo passaggio, non dalla vita nel teatro estetico, ma dal teatro già vivificato nella vita. Teatro come produzione, dunque, e, più precisamente, produzione di modi di vita. Ma qui si apre il problema: il passaggio dell'arte alla vita non entra forse in conflitto con una necessaria relazione di estraneità fra le due? Il Forma­ lismo - cui i Feks si rifanno esplicitamente - non aveva forse parlato dell'arte come scarto, ostranenje, distorsione del quotidiano? In realtà, i Feks debbono insegnare a ri­ portare nell'azione corrente la dimensione iperbolica cui essi costringono l'attore: non solo « fabbrica dell'attore ec­ centrico» ma anche « fabbrica di un pubblico eccentrico». La meccanizzazione dell'azione teatrale, come meccanizza­ zione della vita comune; con la promessa che accettare

quella resa senza condizioni alla macchina condurrà a una gioia superiore. Nella vita comune - scrive Nedobrovo ana­ lizzando l'attore nella concezione dei Feks 8 - ogni processo dell'attività umana si compone di una serie di movimenti obbligati. Movimenti massimi, quando le estraneità del corpo si agitano in disordine. Movimenti minimi, quando es!li sono coordinati in modo tale da tendere esclusivamente al loro fine, per raggiungerlo senza indugi. Dunque, l'eccentrismo è economia di mezzi, non loro dispersione: I Feks, at­ tribuendo all'attore un compito estremamente preciso, si sforzano anzitutto di stabilire il numero minimo dei movi­ menti necessari all'esecuzione di quel compito. A tale piano,

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tale precisa messa in opera. I movimenti dell'attore, nel piano generale, non debbono essere né imprecisi né scoordi­ nati (...) I Feks chiamano « scheletro del tema » la serie dei movimenti indispensabili. Una volta costnrlto lo scheletro del movimenti, un ritmo preciso è messo in esecuzione. I moti dell'attore saranno percepiti dallo spettatore tanto più velocemente quanto maggiore è la loro forza di impressio­ ne (... ) Nel momento in cui egli agisce, l'attore deve rendere il ritmo attraverso una serie di impulsi nervosi. Tali impulsi, al medesimo titolo dei movimenti, debbono dar luogo a ripe­ tizioni. I movimenti dell'attore nel piano non debbono essere né meccanizzati né stereotipi. Debbono distinguersi da quelli dell'uomo nella vita corrente. Un ,modo preciso di comunicare, dunque: attraverso un alfabeto psicofisico ridotto all'essenziale, attraverso un esperanto che si indirizza direttamente all'energia nervosa. Come negli esperimenti che Ladovskij compiva con i suoi studenti del Vchutemas, i Feks mettono in cantiere un pro­ getto di « comunicazione abbreviata», basata sulla pura per­ cezione. Indirizzarsi ai sensi puri significa anche cercare un pubblico di massa, al di fuori di ogni intellettualismo. La avanguardia tende - ma tende solamente - a farsi stru­ mento di comunicazione. Del resto, l'uso della gag e del grot­ tesco è già un mezzo rivolto a tal fine. Ma la gag e il grot­ tesco non sono forse strumenti già usati dai primi « bu­ detljane ,. per comunicare la loro propaganda del nuovo, aggredendo, con il loro COiffiportamento informale e provo­ catorio, la folla delle strade centrali di Mosca o Pietroburgo? :E:. chiaro, che ci troviamo di fronte a diverse accezioni del tema attore-pubblico. Per i futuristi, il pubblico è massa inerte da violentare, ma, principalmente, è massa generica, priva di volto. Per gli intellettuali del Proletkult, il pubblico ha un volto univoco: è la classe operaia come portatrice di valori inediti. Per la Feks, il pubblico è un interlocutore oggetto di un'operazione di coinvolgimento attivo: l'aggres­ sione futurista, sostanziata dalla nuova tecnica dell'attore eccentrico, viene indirizzata a proiettare su di un pubblico 40 di nuovo generico l'autoliberazione operata dalla coscienza


intellettuale. L'intellettuale, dunque, ormai pacificatosi con « l'universo della precisione », sente ora come suo dovere morale chiamare tutti a partecipare al rito scenico della sua propria liberazione. L'attore è posto, così, al pari di un ingranaggio, nella nuova machine à communiquer costituita dal teatro eccentrico, per realizzare, attraverso le « nuove tecniche di produzione », un nuovo alfabeto del comporta­ mento. U problwna sarà come conciliare creatività e preor­ dinata strutturazione del gesto: a ciò vale la gag, come inter­ ruzione di un'ideale catena di montaggio scenica: i Feks si contrappongono quindi sia all'informale futurista, che alla rigida regia dell'ultimo Mejerchòl'd. Nella Fabbrica dell'at­ tore eccentrico - lo riconosce esplicitamente Sklovskij in un suo scritto del '28 9 - l'interesse si sposta dal prodotto finito al processo di produzione del fatto spettacolare, accen­ tuando la determinazione di tutti i suoi elementi, di tutti i suoi artifici: la gag, il perfezionismo ginnico del numero da circo, l'esatto calcolo dei movimenti, il dominio della mi­ mica, l'iperbole dei travestimenti, - ecc. L'artificio non è più un accessorio dello spettacolo; ora, esso è 'messo a nudo ed esposto come protagonista impersonale della comunica­ zione teatrale. I Feks bagnano così il loro attore nell'irreale più assoluto. Il sentimento d'irrealità di un paesaggio fanta­ smagorico - ricorderà Kozincev 10 - aveva le sue origini non solamente nella vita notturna e nella gelida nebbia delle strade, altre ragioni rendevano più pregnanti le impressioni visive. Il passato, al contrarlo del presente, sembrava invero­ simile fino alla estraneità. I fili che univano le epoche si erano spezzati. Per i giovani, l'aristocrazia era morta non da qualche anno, ma da un secolo. La rivolta dei gladiatori rap­ presentava un avvenimento più comprensibile, e anche, in una certa misura, più ordinario, di un ricevimento alla corte o del servizio in un dipartimento ammlnlstrativo. Non solo l'idea della monarchia, ma tutto ciò che nell'esistenza quo­ tidiana si rifaceva ad essa arretrava in una lontananza inac­ cessibile, riemergeva da una zona di cupe tradizioni. La rottura del reale significa quindi rottura del tempo sto­ rico, significa assimilare la rivoluzione teatrale alla rivolu- 41


zione politica, la rivoluzione della coscienza alla ricerca bergsoniana del fluire della vita, il senso di estraneazione del passato all'estraneazione formalista. L'emozione è la chiave di volta in volta di tali relazioni arbitrarie, ma, per quel mo­ mento storico, estremamente pregnanti. L'emozione - os­ serva Nedobrovo 11 - per i Feks, può essere acuita in due modi: mostrando l'emozione stessa con il ricorso a nuovi mezzi di rappresentazione plastica; ricorrendo alla sua in• cidenza sugli oggetti. Mostrare l'emozione ricorrendo a nuovi mezzi di espressione significa concentrare l'emozione su uno qualsiasi dei movimenti fisiologici apparenti, che, in condi­ zioni normali, apparirebbe simbolo non dell'emozione vo­ luta, ma di un'altra ad essa opposta. Mostrare l'emozione ricorrendo alla sua incidenza sugli oggetti, significa che l'at­ tore non trasmette l'emozione solo con i moti del suo corpo. Egli fa anche uso delle relazioni che Io legano agli oggetti e riporta su questi, per trasmetterlo meglio, l'accento del­ l'emozione 12• Una teoria tendenzialmente scientifica della sti­ molazione sembra essere l'obiettivo su cui si concentrano i Feks, nella prima fase della loro ricerca. Rimane da vedere come una tale teoria delle emozioni, un tale progetto di « te­ rapia da chocs » possa essere calato in una struttura teatrale o cinematografica. Quando i Feks iniziarono a lavorare - scrive Nedo­ brovo - non avevano ancora un possesso completo del pro• cedimento eccentrico. Non erano retti da regole. Il processo aveva avuto origine a partire da una tecnica di confronto fra materiali. E continua, notando acutamente, che, « fra l'ap­ parire del procedimento e la sua fissazione, esiste lo stadio del· gioco ». La deformazione del reale prende quindi la forma del grottesco: per evitare di perdere completamente il senso della forma, i Feks approdano al ccmico, in quanto sintesi di informe e di ironia. Non è certo questo, il solo elemento che lega i Feks al Futurismo e a Dada; ma, ora, è del tutto assente il polo « negativo » di quelle avanguardie. Il « confronto fra materiali», di cui parla Nedobrovo, ri­ corda molto le ricerche cubofuturiste: un quadro come « Un 42- inglese a Parigi», di Malevic, o un controrilievo di Tatlin


avevano già delineato il campo sperimentale della opposi­ zione degli oggetti. Ma ora non è più in ballo un problema di immagini; si tratta piuttosto di definire un modello di azione. Certo, lo spettacolo provocatorio delle serate futu­ riste costituisce il punto di partenza; ma niente più che questo. Ciò che nelle «scandalose» passeggiate per le vie di Mosca di Majakovskij o di David Burljuk con la faccia dipinta e un mestolo all'occhiello è di anarchico e « scapi­ gliato», va ora piegato a divenire linguaggio codificabile. Ciò che è di altamente drammatico nelle buffonerie di Hugo Ball e di Tristian Tzara al Cabaret Voltaire di Zurigo va placato in una visione pacificata delle relazioni fra l'uomo e il mondo artificiale, il mondo delle cose. Lo stesso Maja­ kovskij, nel passaggio da « Vladimir Majakovskij» a « Mi­ steria-buff», non rappresenta forse il riappaesamento del­ l'uomo nell'universo tecnologico vinto dalla rivoluzione so­ cialista? 13 La « rivolta degli oggetti» può, dopo il 1917, cessare di essere fonte di angoscia: . quella rivolta può ora essere letta come analoga della rivolta di ottobre e, come tale, può essere ripr9dotta e riproposta come modello di comportamento. L'attore eccentrico come modello di una società che rende inutile e anacronistico l'uomo eccentrico per eccellenza: il dandy. Ma una società che si plasmi sulla tipologia di azione dell'eccentrismo sarà una società che ha fatto propria e introiettata la rivolta permanente degli og­ getti - l'innovazione continua, sia nel campo della tecno­ logia, che in quello dei modi di vita - e che, quindi, domini la propria interna dinamica. Senza una rigorosa disciplina, non è possibile raggiungere tale obbiettivo. Ciò è chiaro sia ai Feks che a Mejerchòl'd. Nel futuro - scrive Mejerchòl'd 14 l'attore deve andare oltre nel rapportare la propria tecnica alla situazione industriale Poiché egli lavorerà in una so­ cietà dove il lavoro non è più guardato come una maledi­ zione, ma come una gioiosa necessità vitale (... ) L'arte do­ vrebbe essere basata su principi scientifici; l'intero atto creativo dovrebbe essere un processo consapevole. L'arte del­ l'attore consiste nell'organizzare il suo materiale: cioè nella sua capacità di utilizzare correttamente i mezzi di espres- 43


sione del suo corpo. La consapevolezza ctel procedimento non è ancora un fatto specifico: appartiene alla maggior parte delle avanguardie russe legate al Formalismo. Lo sner- vamento dello spettatore, cui tendono i Feks, passa, in un primo momento, per l'iperbolica caricatura e per gli effetti di « primo piano » degli artifici e dei divertissements da music hall. Si tratta quindi, di una particolare messa a nudo dei procedimenti teatrali, che Nedobrovo assimila al « mon­ taggio delle attrazioni » di Ejzenstejn. Fra il « Matrimonio » dei Feks e il parodistico « Saggio » di Sergei Ejzenstejn, dal punto di vista formale si può piazzare un segno di ugua­ glianza. Nel suo articolo di prefazione, Sklovskij non dice che « Il Saggio » di Ejzenstejn è uscito un anno dopo il « Ma­ trimonio » dei Feks. L'opera d'arte spostava l'antico mate­ riale. Essa si era scissa in diversi temi in gioco, che si sostenevano reciprocamente. Ivan Kuzmic Podkoliocin do­ veva trovare un certo numero di legami con Irma Datsar. E in mezzo a tutto ciò, si poteva ancora scoprire Charlie Cha­ plln. Molte persone incrociano, nel « Matrimonio ». L'ope­ retta. Il melodramma. La forza. Il cinema. Il varietà. Guignol. Il film « Charlle Chaplin e la bella Betsie ». La dimostrazione della teoria della relatività del professore Einstein. Il music hall. (Danze americane. Canzonette. Circo. Animazione). Tutto ciò era stato chiamato: « Gag in tre atti ». Era stato provvisto di un post-scriptum: « Elettrificazione di N. V. Gogol! »15• g chiaro, che, nel « Matrimonio », i Feks si preoccupano quasi unicamente di assumere lo scompiglio linguistico come materiale, sperimentandone tutte le diverse possibilità e sfaccettature. Cinema, circo, music-hall, comiche di Charlot convergono nella « elettrificazione di Gogol». Vale a dire, nella messa in moto della convenzione teatrale, nella sua esplosione. La mescolanza dei generi accentua la dinamica scenica; ma principalmente confonde le acque, rimette in causa l'intera concezione dello spettacolo, pone un punto interrogativo sul linguaggio teatrale. Il comico e il music­ hall: da un lato, la sintesi uomo-macchina rappresentata 44 da Chaplin (il riso come reazione meccanica a un « inci-


dente» che distorce il reale); dall'altro, l'homo ludens, che può anche assumere la maschera del clown: ma non per commuovere, bensì per ridurre a un velo di continuo squar­ ciato il tradizionale sipario ideale che distanzia il pubblico dall'azione teatrale. Il «Manifesto del teatro di varietà» futurista viene di solito citato a tale proposito 16• Nel 1913, Marinetti afferma che « il futurismo vuole trasformare il teatro di varietà in teatro dello stupore, del record e della psicofollia ,., e gran parte della critica moderna rileva tale affinità fra Marinetti e i Feks. Ma i primi tentativi teatrali dei Feks così· come la biomeccanica mejerchòl'diana · o il « montaggio delle at­ trazioni » ejzenstejniano fanno i conti, storicamente, con una concezione del « Teatro totale,. che proviene diretta­ mente dalle riflessioni - a loro quasi sicuramente ignote del giovane Lukàcs. Recuperare al teatro la sua funzione sa­ crale e iniziatica, il suo ruolo di condensatore sociale, di consacrazione di una comunità organica e collaborante: questo è l'obbiettivo che il giovane Lukàcs intende perseguire, individuando, nella piccola dijmensione del teatro sperimentale, il germe di un rinnovato contatto fra attore e pub­ blico 17• Ora, andrà salvato il principio del teatro totale di­ struggendo in esso la ritualità di élite sottesa nelle pagine di Lukàcs. La « provocazione scenica » è esattamente il contrario di un rito iniziatico: è piuttosto una tecnica di crudele coinvolgimento di massa; il ricorso al circo si giustifica una volta di più. Negli spettacoli teatrali dei Feks del 1922 e del 1923 - oltre al «Matrimonio,., « Commercio estero sulla torre Eiffel,. - la combinazione di materiali eterogenei ha appunto la funzione di sperimentare la possibilità di una sintesi teatrale fatta di successioni ossessive di provocazioni organizzate. Il problema è quello della messa a punto di una tecnica di comunicazione basata su emissioni discon­ tinue di messaggi visivi e auditivi, diretti a colpire in modo elementare il sistema nervoso dello spettatore. Un vero e proprio appello all'emotività naturale al suo grado zero: la stimolazione non è tanto diretta all'intelletto, quanto al sistema fisiologico, alla ricerca di una tecnica sperimentale 45


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dì eccitazione. Il problema, ancora una volta, è quello del controllo dei materiali scelti per tale ricerca di contatto di­ retto attore-spettatore. Commercio estero - scrive Nedobrovo 18 - era costi­ tuito sulla base dell'opposizione di due concetti antagonisti. Tali concetti passavano poi in secondo piano e divenivano progressivamente due simboli sociali. II commercio e la Torre Eilfel erano due nozioni veicolate dall'attualità. Esse venivano concepite come prodotti di due mutazioni stori­ che colossali: la prima nel campo dei rapporti sociali, la se­ conda nel campo tecnico. L'opera iniziava a prendere forma, avendo qualcosa su cui appoggiare. L'operazione extra-este­ tica rendeva concreta la tendenza estetica e la dimostra­ zione. « Commercio estero » era costruito sul rapido sosti­ tuirsi l'una all'altra di certe scene. Se ne contavano qua­ ranta in tutto. Tutte le situazioni straordinarie, le gags, i personaggi eccentrici e meccanizzati, i numeri di music-hall e le entrate da circo si appoggiavano su solide fondamenta. I principi del montaggio risultavano eccitati dal fini che presiedevano allo spettacolo. Il materiale cambiava funzio­ ne. D'altra parte, il procedimento eccentrico era concepito esteticamente. Nedobrovo scrive il suo libro sui Feks nel 1928, ed è naturale che cerchi di conciliare « l'accumulazione dei truc­ chi » dell'eccentrismo con un vago contenutismo. Ciò che in realtà dà più da riflettere è quello che il Ripellino ha defi­ nito la « smania d'americanismo » dei primi spettacoli di Kozincev e Trauberg. In America, le nuove forme di arte legate allo sviluppo tecnologico tendono a determinarsi come proposte di un nuovo rituale da proporre a un pubblico che sia ad esso omogeneo; ma la· natura stessa dell'invenzione e le tecniche del suo linguaggio vengono finalizzate a una funzione recla­ mistico-spettacolare. Sul supporto di una ideologia pionie­ rista, si innestano altri motivi che contribuiscono a dare il ritmo e il senso dell'avventuroso alla nuova società in espan­ sione: la libera iniziativa e la speculazione in Borsa. Il laissez-faire come avventura. Si tratta di un'avventura cui il


pubblico è chiamato solo a fare da spettatore. Americani­ smo + Chaplin: vale a dire avventura priva di limiti + le­ galità dell'illegalità, logica dell'assurdo. E, del resto, solo una logica dell'assurdo permette una reale avventura che non voglia ridursi a mera fuga dal reale. Ma, nella Russia degli anni della NEP, il reale stesso può essere letto da­ gli intellettuali come grande avventura. La parola d'ordine leninista della elettrificazione stava divenendo realtà tecnica attraverso il piano GOERLO: la nuova dinamica economica investe direttamente il territorio sovietico e la grettezza del Nepman è solo il prezzo pagato a tale sconvolgimento strut­ turale. Se l'universo dell'artificio, lo « spostamento delle in­ segne», è simbolo di un ben diverso spostamento del reale, il mito della dinamica regolata, dell'America in cui un pro­ cesso di pianificazione acceleri e non spenga l'eccitante « corsa verso il nuovo», risponde a una nuova ideologia del lavoro: un lavoro la cui disciplina acuisce la liberatoria follia degli oggetti, un'azione di continua reinvenzione tecno­ logica, una gioiosa danza che coinvolga insieme l'operaio e la macchina in un vitalismo iperbolico. L'ideologia nascosta non è difficile da scoprire. Si tratta, l'abbiamo già avvertito, di un nuovo sogno di accordo fra anarchia e pianificazione: si tratta di dimostrare al grosso pubblico che esiste la pos­ sibilità di realizzare,. nel paese del socialismo, la e gaia scienza», la sfrenata partecipazione individuale al pianifi­ cato destino collettivo. Il « cancan sul filo della logica e del buon senso » è una sfida alle abitudini piccolo borghesi e contiene una proposta indirettamente politica. Il piano ap­ pare, dialetticamente, il luogo della massima acrobazia in­ tellettuale e dell'eroe ludico. In ciò, i Feks, come per aspetti diversi e con linguaggi fra loro contrastanti, il Teatro di Mejerchòl'd e di Tairov, sono indicativi di una nostalgia che pervade gli intellettuali sovietici di avanguardia per il pe­ riodo del « comunismo di guerra», letto come momento della anarchia realizzata. Piano + anarchia: è l'utopia della controllata sregolatezza dei Feks e. del « montaggio delle at­ trazioni». Ma tutto ciò va analizzato nei suoi risvolti specifici. Nello stesso anno 1927 - l'anno successivo alla famosa 47


mostra costruttivista «5 X 5 = 25 » - mentre Kozincev e Trauberg mettono in scena il «Matrimonio», Tairov pre­ senta la sua riedizione dell'operetta di Lecocq « Giroflé - Gi­ rofla », con scene di Yakulov, e, a distanza di un solo mese, Mejerchòl'd fa seguire al suo « Cocu magnifìque », dell'aprile dello stesso anno, la rappresentazione della « Morte di Tarlkin», una satira di Sukovo-Kobyliu sui metodi della po­ lizia zarista, con scenografie di Varvara Stepanova, la moglie di Rodcenko. :e ben noto, che la Stepanova disegna per Mejerchòl'd un assortimento di «macchine per azioni» do­ tate di vitalità propria: ognuna di esse era un oggetto truc­ cato, destinato a frustrare l'attore che tentasse di usarlo. I bianchi e costruttivistici oggetti della Stepanova erano in realtà delle trappole: la gamba del tavolo si rompeva, la sedia rifiutava l'uomo scaraventandolo sul pavimento, chi sedeva sullo sgabello provocava lo scoppio di una cartuccia a salve, la gabbia che simulava una cella di prigione era do­ tata di un congegno somigliante a un gigantesco tritacarne, attraverso il quale si passava il cibo al prigioniero 19• Lo straniamento è qui totale. Non solo Mejerchòl'd fa imper­ sonare vecchie donne a ragazzi giovani e fa fuggire Tarelkin, nel finale, ondeggiando su un trapezio sopra il palcoscenico, ma fa annunciare gli intervalli a un «assistente di laborato­ rio » che spara una pistola sul pubblico urlando «Entr' actel •· Come nelle «attrazioni• di Ejzenstejn, Mejerchòl'd non concede tregua al pubblico, lo forza ad astrarsi dal reale, lo costringe nella morsa dell'artificio più reificante. Il pubblico è costretto, cioè, a far « lavorare • la propria energia ner­ vosa, come l'attore è costretto a moltiplicare le sue acro­ bazie. Entrambi usciti dalla fabbrica reale e raccolti nel _tempio dell'irreale - il teatro - vengono sottoposti a un bombardamento di azioni che ripropongono, sublimato, esat­ tamente l'universo del lavoro e dell'alienazione, lasciati fuori della porta. L'ideologia sottesa è la stessa dei Feks: «Labor ludens »: il gioco come modo accelerato di produzione. Ma fra il e Matrimonio • e la «Morte di Tarelkin » esiste una 48 profonda differeIWl. Per i Feks, le spericolate gags degli at-



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tosto all'empiria magmatica della rivoluzione, come è o come si crede che sia, nella sua essenza dinamica. Nel cinema, Kozincev e Trnuberg possono così speri­ mentare fino in fondo le capacità persuasive della tecnologia. Non c'è più bisogno di introdurre il meccanico nella finzione teatrale e di far reagire tale finzione con l'accumularsi dei trucchi e delle invenzioni eccentriche. Il film porta al dia­ pason il primato della regia. E già sappiamo come la regia significhi per i nostri autori metafora del piano, evocazione di un principio di Ragione, coordinamento globale dell'espe­ rienza: tanto globale da non poter escludere l'accidentale, il casuale, il caotico dell'esperienza quotidiana. Usando la tec­ nica cinematografica, quella che abbiamo chiamato la sin­ tesi piano + anarchia passa a un livello superiore. Ora - e specie nel primo film dei Feks, «Le avventure di Ottobrina», rappresentato per la prima volta il 9 dicembre 1924 - è l'intero mondo della NEP che si rispecchia nella struttura stessa del cinema. Non era forse stata, la NEP, una grande invenzione politica di Lenin, che, invece di identificare tout court il Socialismo con la pianificazione economica, aveva fatto dell'intera Russia un enorme campo di sperimentazione politica? Gli intellettuali - da Esenin a Majakovskij, agli stessi rivoluzionari tedeschi del gruppo «Die Aktion» - ve­ dranno nella NEP solo una «ritirata» e si scaglieranno con• tro la restaurazione di modi di produzione e di scambio capitalisti nella Russia sovietica. Ma essi non riescono a leggere il fondo della grande invenzione di Lenin: un ingab• biamento di strutture capitaliste nel quadro di una gestione politica operaia, la riapertura di conflitti a tutti i livelli, la visione di un sistema essenzialmente dinamico. Una piani• ficazione rigorosa, nella NEP, è pura utopia. Lo sottolineerà con forza lo stesso Lenin, scrivendo al presidente del Goerlo, Krzizanovskj, che il danno maggiore sarebbe di bu­ rocratizzare la cosa con un piano dell'economia statale. È un grosso pericolo. M. non lo vede (...) Siamo poveri, affamati. Poveri in canna. Un vero piano completo, integrale, è oggi, per noi, un'utopia burocratica. Non corretegli dietro! 20• Al contrario, gli intellettuali, proprio durante la NEP, formu•


lano una martellante « richiesta di Piano»: ché tali sono i programmi produttivisti, costruttivisti, biomeccanici. In tale quadro, la poetica dei Feks appare duplice. Da un lato, essa fa coro con la generalizzata evocazione di una pianificazione catartica; dall'altro, enuncia il fine che essa intende attri­ buire a quella pianificazione. Vale a dire l'instaurazione del

regno dello scatenamento corporeo, come esaltazione di una libido eccitata dalla macchina e dalla vita metropolitana. La disciplina non è costrittiva, ma liberatoria: tale è l'utopia politica sottesa dai Feks, e che nel cinema trova un mo­ mento di chiarificazione. « Le avventure di Ottobrina»: un film che parte dai problemi minuti della vita di un caseg­ giato e che vede Ottobrina lottare contro un Nepman e un ministro delle potenze capitaliste. Ma la trama è solo il supporto per una successione scoppiettante di trovate fil­ miche. Il Nepman è condannato a vivere sul tetto della casa, ma riesce a pescare una bottiglia da un negozio sottostante; dalla bottiglia salta fuori il ministro, e insieme riescono a saltare su un aereo in volo; scaraventati giù dall'aereo dal pilota, che esige la loro tessera dell'Associazione Amici dj!lla Flotta Aerea, i due cadono sulla statua di Alessandro III e pretendono di far galoppare il cavallo di marmo; cercano di fare una passeggiata con un trattore, saltano su un tram, infine il ministro si mette a cavallo del Nepman e corrono alla banca; la svaligiano e cercano di entrare nella cattedrale di S. Isacco; alla fine, perseguitato da Ottobrina, il ministro si trasforma in un pallone da foot-ball, che l'eroina può lanciare fuori da Leningrado. L'intera opera - scrive Nedo­ brovo - è costruita sulla misura di un confronto eccentrico. Nel film, il materiale è utilizzato e manipolato in modo nuovo. Lo sfruttamento degli oggetti è funzione del contra­ sto stabilito per la loro utilizzazione tradizionale e il loro significato, in quanto materiale del film. Il realismo degli oggetti non subisce mutamenti. Ma l'oggetto risulta « reifi­ cato», essendo stato posto in un luogo che non gli è pro­ prio. La cattedrale di S. Isacco è confrontata al personaggio di Ottobrina, a un nepman e a un ministro interventista: Coolidge Cursonovic Poincaré. Il comportamento di tali per- 51


sonaggi è realista ma non è familiare, dato l'ambiente in cui sl muovono. La grandiosa costruzione di Montferrand distruggeva il piano abituale della percezione. I tre perso­ naggi marciano a un'altezza di 47 sagene, come su di uno stadio. Si inseguono, saltano, eseguono ridicoli capitomboli e salti pericolosi. Uno di essi passeggia con noncuranza sul parapetto di un balcone, aggiustandosi con cura la cravatta. Un altro rischia di schiacciarsi al suolo arrampicandosi sul tetto con una corda. Un terzo gioca a pallone sulla cupola. Ma la « reificazione • della cattedrale non è invocata solo sul piano estetico. Il fine del procedimento è sociale. La stessa cattedrale gioca un ruolo. In quanto opera d'arte, essa perde il suo significato primario per trasformarsi in rapporto a trucchi eccentrici. t:. in tal modo, che l'accento viene messo sull'ironia. La cattedrale, che, secondo l'idea del suo costruttore, doveva simboleggiare la grandezza del­ l'impero russo, schiacciare la coscienza degli abitanti del­ l'impero per mezzo dell'imponente immagine del sistema statale, si trasforma all'improvviso in qualcosa di grandioso e di assurdo, inadatto alle preoccupazioni quotidiane del­ l'uomo. L'unico uso utile di tale cattedrale è nella possibilità che essa offre al nepman di trovare un luogo elevato per appendersi, disprezzando l'umanità. Le bretelle che si spez­ zano sotto il suo peso sono il punto culminante di tale rea• lizzazione eccentrica. Quando due ladri trascinano un'enor­ me cassaforte, nelle scale circolari di S. Isacco; ciò non è solo la realizzazione di un processo di confronto eccentrico, ma suggerisce altresì la seguente associazione: in quale modo possono essere trainati alla sommità della cattedrale 24 colonne pesanti decine di milioni di chili? La cassaforte, al sommo della cattedrale, è il mostruoso simbolo dei 23.2S6.8S2,80 rubli argento impiegati per la sua costruzione.

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Nedobrovo combina insieme, nella sua analisi, opposi­ zioni di immagini e opposizioni di associazioni mentali. E, a nostro parere, offre una lettura certo settaria, ma non priva di acutezza, di un film in cui l'eccentrismo deve fare i conti con una tecnologia non artigianale del montaggio come con-


tinuo spostamento di elementi linguistici: sia che si tratti di immagini pure, che di immagini evocate per associazione o illusione. Fino a che punto tali allusioni pesano in un prodotto cinematografico, che, come riconosce Io stesso Ne­ dobrovo, è fatto di alternanze di tempi accelerati e rallen­ tati, di ritorni all'indietro e di esagerate accelerazioni dei tempi, di sovraimpressioni, di un « montaggio breve»? Il priem, la distorsione semantica, è costretta a passare dalla poetica del cabaret e del clown elettrificato alla tecnologia. Ora è la stessa tecnica a essere posta come oggetto di reifi­ cazione. La « grande alienatrice » viene così a sua volta alie­ nata. Ma è anche vero che i Feks - come nota Nedobrovo si sforzano di tradurre nella propria opera i metodi dell'af­ fiche. E i segni fondamentali dello stile dell'afliche sono: la planlmetricità / l'omogeneità del toni / il contrasto del co­ lori / la schematizzazione del disegno. Il tema della propaganda balza, qui, in primo piano. L'intero campo in cui i Feks avevano trovato i motivi della loro ricerca ritorna come oggetto di celebrazione. Il «mon­ do nuovo » della metropoli elettrificata è la tematica di cui l'affiche di Kozincev e Trauberg è imbonitrice: il circo im­ possibile in cui si muovono pericolosamente i personaggi di « Ottobrina» non è altro che la città tecnologica, luogo di incal­ colabili pericoli per chi non sappia usarla. Insegnare tale « uso corretto » è quindi l'obbiettivo dei Feks: insegnare, principalmente, che il dire sì all'universo senza centro della dinamica produttiva non conduce all'alienazione, ma salda il sogno alla vita. Chi passeggia con noncuranza sul parapetto di un balcone ha imparato a dominare lo spazio e ad accor­ dare scientificamente i moti del proprio corpo a situazioni « innaturali ». Ma l'intera città tecnologica è «innaturale»; lo stesso lavoro è «innaturale». Presentando l'universo del­ l'artificio come nuova naturalità, Kozincev e Trauberg vo­ gliono appunto persuadere che il massimo della libertà può essere raggiunto nel massimo dell'assenso alla dinamica tecnologica. L'attore. eccentrico è divenuto modello concreto di un cdmportamento di massa, proprio sfruttando i ridotti limiti che separano, nel cinema, realtà e finzione. 53


Il problema, dopo « Ottobrina», è quello dell'efficacia degli strumenti di linguaggio prescelti: Nedobrovo afferma che l'esperienza del loro primo film porta i due attori a ri­ flettere sulla negatività di un montaggio barocco ed eccessi­ vamente rapido. Bisogna quindi allontanarsi dalla purezza dei materiali. Un nuovo tipo di ricerca prende forma nella « Strada del diavolo»; il montaggio tende a realizzare una sequenza dinamica utilizzando scene statiche. Il procedimento sem­ bra basato su un voluto rallentamento, per accentuare l'im­ paziente attesa dello spettatore di una risoluzione della ten­ sione accumulata. Analizziamo uno dei passi più significativi di tale film. Il tema: il marinaio Vania Sorin non ammette la presenza di una banda di malviventi nel club operaio, la marmaglia intende regolare i conti con il marinaio. Il mon­ taggio è il seguente: 1. Le porte del circolo degli operai. / 2. Sui giardini che conducono alle porte, Vania e un gruppo di teppisti. / 3. Un teppista compie un lento movimento verso Vania. / 4. Il teppista mette la mano nella tasca. / 5. Il viso di Vania. / 6. L'insieme dei teppisti. / 7. Più da vicino, alcuni elementi della marmaglia. / 8. I teppisti soffiano zaf­ fate di fumo. / 9. Dietro Vania, la silhouette di un teppista ingrandisce lentamente. / 10. Uno dei teppisti inghiotte una boccata di fumo. / 11. Il teppista che si trova dietro Vania fa uscire lentamente la sua mano dalla tasca. / 12. Primo piano della mano con una mazza. / 13. La nuca di Vania. / 14. I volti della teppaglia. / 15. Il viso di Vania. / 16. La mano stringe l'impugnatura della mazza. / 17. Il teppista strizza lentamente gli occhi (sequenza molto lunga). / 18. La mano che stringe la !mazza si alza. / 19. La nuca di Vania. / 20. I visi dei teppisti. / 21. Il teppista abbassa il suo brac­ cio. / 22. Vania rotola sugli scalini. / 23. Uno dei teppisti porta alla bocca la sua sigaretta. / 24. La mano scuote la cenere della sigaretta. / Il montaggio non è più fine a se stesso, non viene esibito, come nelle « Avventure di Otto­ brina », nel pieno del suo potenziale dinamico ed estra­ niante. Nella « Strada del diavolo», anzi, il montaggio tende 54 alla metafora. Se nei primi spettacoli dei Feks la messa


a nudo del procedimento è l'essenziale, ora tutta l'atten­ zione si è spostata su un uso allusivo del montaggio. e interessante rilevare, che Kozincev ricorda come molti elementi di riflessione, dopo l'esperienza di «Ottobrina», vennero, a lui e a Trauberg, da un articolo del critico Adrian Ivanovic Piotrovskij, che aveva citato, descrivendo il film, un « Tramway presentato come geroglifico del­ critico Adrian Ivanovic Pietrovskij, che·aveva citato, descri­ vendo il film, un « Tramway presentato come geroglifico del­ la piccola borghesia» 21• Nulla del genere era in realtà in quel film e Kozincev conclude, che Piotrovskij aveva forse inteso « rilevare il significato filosofico » di quell'opera prima. Ep­ pure, Piotrovskij - non a caso autore della sceneggiatura della « Strada del diavolo» - riporta a significati metaforici il gioco tutto costruito di «Ottobrina», esattamente come Nedobrovo. Evidentemente, l'autonomia linguistica della di­ namica delle immagini non appare sufficientemente elo­ quente. Nel 1925, l'anno in cui Trauberg e Kozincev pongono mano all'elaborazione della sceneggiatura di Piotrovskij, l'età della NEP è finita, e infuria il dibattito sui modi di industria­ lizzazione. Se fra il '18 e il '25 all'intellettuale che si pretende « rivoluzionario» si offre ancora l'occasione di presentare le proprie rivoluzioni linguistiche come analoghe della rivo­ luzione politica, dopo il 1924 tale semplificazione non è più possibile. O si entra all'interno del dibattito politico-econo­ mico, con adeguati strumenti disciplinari, o si è respinti nel ruolo del propagandista: la terza strada è chiudersi nella perfetta autonomia delle tematiche linguistiche. Trauberg e Kozincev rifiutano tale terza strada - imboccata da altri protagonisti delle avanguardie russe, come Malevic o Leo­ nidov - sono logicamente esclusi dalla prima, e tentano di salvare i principi dei Feks adeguandoli a un ambiguo im­ pegno realistico. Lo sguardo retrospettivo di Kozincev è esplicito al proposito. Nello « Schermo profondo», che Ko­ zincev pubblica nel 1971, è scritto, a proposito della realiz­ zazione della « Strada del diavolo »: All'eccesso del gioco tea­ trale, noi opponemmo la forza dell'emozionalità dissimulata,

ss-·


l'esattezza del gesto, l'espressività del dettaglio, il laconismo dei tratti caratteristici. Il prestigiatore (interpretato da S. Gerassimov) aggiustava l suol polsini, con gesti professio­ nali, prima dell'esibizione. E quando egli muore, coperto di sangue, nel fango, a pezzi, egli compie di nuovo il gesto tradizionale - rettifica la posizione dei suoi inesistenti pol­ sini e cade. In un film, questo si pensava in quell'epoca, ogni cosa doveva risuonare sullo schermo: non esistono « luoghi dell'azione », ma luoghi in azione. Le strade, il ponte di una nave-scuola, la strada, le rovine, gli artisti debbono incarnare tutto ciò! (...) Gli oggetti non sono, in alcun modo, « acces­ sori del gioco », sono piuttosto cose che giocano. Una palla da bigliardo cade nella buca non solo grazie alla precisione del colpo, ma perché questo decide il destino dell'eroe. Jl montaggio come metafora ha ancora il compito di spezzare i legami naturalistici, di rivelare la possibilità di nuove connessioni. A questo punto, potrà essere ripreso il tema relativo al rapporto Feks-Formalismo. � a tale proposito di grande interesse confrontare due giudizi sulla attività dei Feks di due maestri della critica formalista, per molti aspetti diversi fra loro. I Feks - scrive Tynjanov 22 - non si sono fatti le ossa su « epopee » monu­ mentali, ma su un comico rudhnentale, in cui si trovano an­ cora delle tracce di cinema, di inversioni o di elementi cine­ matografici, che permettono, senza timidezza, né rispetti eccessivi, di procedere ad osservazioni, ad esperienze, di toccare con mano quanto le celebrità considerano un tabù: l'essenza stessa del cinema, in quanto arte. I Feks hanno dominato ciò che fino ad oggi costituisce il loro pregio: la libertà rispetto al genere, il non rispetto delle tradizioni, la facoltà di scegliere gli oggetti nel loro opporsi. L'accento è posto sul tema dell'opposizione fra temi formali ridotti al loro grado zero; cosl legge Tynjanov il ricorso dei primi Feks al materiale « degradato • del quotidiano. � il mede­ simo riconoscimento fatto ai Feks da Sklovskij. Adesso è dlfficile dire perché proprio l'eccentrlsmo, per tramite di Ejzenstejn, del Feks, e in parte di Mejerchòl'd, abbia dato 56"_ vita ai metodi dell'arte post-rivoluzionarla - scrive Sklov-


skij 23 - Forse l'eccentrismo spostò l'attenzione dalla co­ stnizione sul materiale. Ad ogni modo la teoria del montag­ gio delle attrazioni è connessa con la teoria dell'eccentrismo. Quest'ultimo è fondato sulla scelta del momenti più signi­ ficativi, e su una correlazione, non automatica, fra essi. L'ec­ centrismo è la lotta contro la routine della vita, il rifiuto della percezione e della resa tradizionale della vita ... L'ec­ centrismo, poi, non considerato quale metodo di resa del materiale ma come un suo aspetto particolare, oggi è ormai un fenomeno esclusivamente storico. Quale fenomeno di acquisizione di un materiale nuovo, dobbiamo dargli il ben­ venuto. Al di là della dialettica che scaturisce dalla sem­ plice contrapposizione empirica degli oggetti, come una prima emergenza della forza del linguaggio cinematografico, Sklovskij tende ad esagerare la funzione del puro scontro dei materiali. Ciò ha per lui un significato preciso. In Teoria della prosa 24 scrive: « Per resuscitare la nostra percezione della vita, per rendere sensibili le cose, per fare della pietra una pietra, esiste ciò che noi chiamiamo arte ». :t:: quindi il processo di straniamento che permette al lettore di perce­ pire nel modo originario l'essenza stessa della pietra, na­ scosta sotto Io stereotipo sostantivo pietra, si tratta di co­ gliere il senso primigenio delle cose perduto a causa dello automatismo della vita quotidiana. In ciò Sklovskij sembra in qualche modo rifarsi al primo futurismo letterario russo, e in particolare al manifesto La parola come tale del 1913 e alle poesie di Clébnikov e Krucenych, là dove entrambi dichiarano la parola creatrice del mito: « la parola morendo genera il mito e viceversa,. 25• Proprio nella « Parola come tale ,. Krucenych scrive: Le parole muoiono, il mondo è estremamente giovane. L'artista ha visto il mondo con occhi nuovi e come Adamo dà i suoi nomi a tutte le cose. Il giglio è bello, ma la parola « giglio ,. è insozzata da dita e violen­ tata. Perciò io chiamo il giglio « eny • e la purezza iniziale viene cosi ristabilita. Aggiungendo al paragrafo 1, posposto al precedente, una frase che Sklovskij terrà ben presente: « una nuova forma verbale crea un nuovo contenuto e non viceversa • 26• Per il gruppo e Gileja • e per Sklovskij, dun- 57


que, il problema è il recupero di un'originarietà perduta: anche se nei primi prevale il tono messianico e mistico comune a tanta parte delle prime avanguardie russe, l'ansia di un approccio tecnico e materialistico al linguaggio pra­ tico. Vogliamo dire, che l'alleanza prerivoluzionaria fra Sklovskij e i futuristi russi non,è priva di conseguenze sul primo, che rimane a una considerazione tutta formale della comunicazione. Non a caso, Sklovskij e Nedobrovo vedono nello stra­ niamento adottato dai Feks un rimando a una materia estra­ nea alla comunicazione semiotica 27• I materiali in opposi­ zione dei primi Feks, celebrati nei brani sopra riportati da Sklovskij e Tynjanov, sembrano così essere non un punto di partenza, ma un punto di arrivo. Il ritorno alla radice delle cose attuato dal ricorso al cabaret, al circo, a Chaplin, è già un modo di rileggere il mondo quotidiano eliminando ogni automatismo percettivo. Si tratta - l'abbiamo visto di una tecnica « pedagogica» che ha di per sé un nuovo con­ tenuto, giuste le parole di Krucenych. La « scuola formale» non si ferma a tali enunciazioni iniziali, il problema è quello dell'organizzazione semiotica della nuova tecnica linguistica elaborata. La « fabula» per Tynjanov, si badi bene, il col­ laboratore di Kozincev e Trauberg (sua è la sceneggiatura de « Il Cappotto» del '26) non può essere estranea all'orga­ nizzazione formale di un'opera sia poetica che cinematogra­ fica. Quando Tynjanov parla di « correlazione semantica» fra le inquadrature filmiche, egli intende dare corpo a ciò che egli stesso definisce « la ripianificazione semantica del mondo» attuata dal cinema. Ripianificazione semantica dun­ que, non recupero di percezioni primitive come Sklovskij. :li. più giusto considerare - scrive Tynjanov 28 - non il « piede » schema bensl l'Intero Impianto accentuativo dell'opera. Al­ lora, quale ritmo avremo la dinamica dell'intera poesia, for­ mata dall'interazione del metro (impianto accentuativo) con i nessi discorsivi (sintassi) e con I nessi fonetici (iterazioni). Altrettanto vale per la «fabula » e per il soggetto. O ri.; schiamo di creare degli schemi che non rientrano nell'opera 58. in questione,· o dobbiamo definire la «fabula» come l'intero


impianto semantico dell'azione. Allora si definirà il soggetto quale dinamica dell'opera, formata dall'interazione di tutti i nessi insiti nel materiale (compresa la fabula quale nesso dell'azione): stilistico, della « fabula» e via di seguito. (...) II concetto di soggetto non si esaurisce in quello di « fabula ». II soggetto può essere eccentrico in rapporto a quest'ultima. Il concetto viene sviluppato ulteriormente da Tynjanov che distingue due categorie di nessi tra soggetti: un primo, in cui il soggetto si fonda essenzialmente sulla fabula, sulla se­ mantica dell'azione; un secondo, il cui soggetto si sviluppa al di fuori della fabula: «Quest'ultima è proposta come in­ dovinello - egli scrive 29 - e sia la proposta sia la solu­ zione servono soltanto a motivare Io sviluppo del soggetto, mentre la soluzione può anche non esserci». L'aggancio con il significato dell'esperienza dei Feks è indicato dallo stesso Tynjanov: Nella comica lo sviluppo del soggetto si svolgeva al di fuori della fabula (...) la comica non somigliava ad una commedia, ma piuttosto ad una poesia umoristica, poiché il soggetto vi scaturiva palesemente dai procedimenti semantico stilistici 30• Il richiamo dei Feks alla comica assume quindi un senso preciso: essa permette di non interporre alcun osta­ colo tra il soggetto e il processo linguistico. Ma l'esperienza iniziale dei Feks traeva le sue radici da una programmata ricerca dell'immediatezza, da un tentativo di riorganizzazione del materiale filmico che si conclude con «Ottobrina», mentre la sperimentazione del linguaggio fil­ mico raggiungerà il suo apice ne «Il Cappotto», del 1926. Una volta precisato come linguaggio, che abbia assorbito in sé la fase dell'invenzione, il cinema può tornare a farsi «opera», ricercando una dialettica con soggetti estranei alla propria organizzazione semantica. Tale svolta coinciderà, per i Feks, con l'elaborazione di film quali «SVD» del '27 e con la « Nuova Babilonia» del 1928. La funzione pedagogica del cinema, negli anni del primo Piano, non può più venire affidata « all'eroico spostamento delle insegne» dell'avan­ guardia eccentrica. L'eccentrismo seleziona dalla propria esperienza delle indicazioni tecniche l'uso del mezzo; la «fabula » eccentrica vuole attuare un'opera di composizione con 59:


il soggetto epico, con la Storia, per motivazioni ideologiche. Si tratta ormai di una storia diversa, che corrisponde a una diversa realtà: non più la programmata anarchia dell'uomo eccentrico che ha introiettato l'idolatria per la macchina, ma la coralità polifonica della « Nuova Babilonia ». Il linguaggio dello choc visivo non può più essere esclusivamente funziona­ lizzato ad un processo insieme associativo e mimetico del reale: esso è ora sulla via di divenire strumento metaforico capace di comunicare (anche al di fuori· del puro montaggio dell'attrazione) un piano pedagogico di ammaestramento e di propaganda 3t.

60.

1 Cfr. GRIGORIJ K0ZINCEV, GEORGU KRYZICKIJ, U!ONID TRAUBERG, SERGllJ JUTICEVIC, Ekscentrizm, Ekscentropolis (byvs. Petrograd), 1922. 2 GEORG GR0SZ e WIELAND HERZFEU>B, Die Kunst ist in Gefahr, Berlin 1925. 3 IL'JA EHRBNBURG, A vse-taki ona vertitsja (Eppur si muove), Moskva­ Berlin 1922, p. 114. 4 Cfr., su tali argomenti, ANGELO MARIA RIPELLIN0, Il trucco e l'anima. I maestri della regia nel teatro russo del Novecento, Torino 1965, pp. 273 e ss. (I trionfi della Biomeccanica), e, dello stesso autore, Majakovskij e il teatro russo d'avanguardia, Torino 1959. Sui Feks, oltre ai testi generali di Lebedev, Leyda, ecc., sul cinema russo, cfr. VLADIMIR NEDO­ BR0V0, Feks, Grigorij Kozincev, Leonid Trauberg, (con un'introduzione di VIcrOR SKLOVSKIJ), Moskva-Leningrad 1928; JURIJ TYNJAN0V, Feks, in « Sovietskij Ekran ", 1924, n. 14 (2 aprile); MA.Rio VERDONE, I Feks, la fab­ brica dell'attore eccentrico, in « Marcatré », 1966, n. 19/22 pp. 100-111; in numeri speciali dei « Cahiers du Cinéma "• Russie, années vingt, 1970, n. 220/221. e Potemkine, 1971, n. 226/227; GRIGORIJ KozINCEV, Lo schermo profondo, Mosca 1971. Importanti sono anche gli atti del seminario sulla Feks tenuto a Venezia nel 1972 a cura del centro franco-italiano di dram­ maturgia. Una pubblicazione integrale a cura dell'Autrice del presente saggio, dell'opera di V. Nedobrovo sulla Feks, del Manifesto dell'Eccen­ trismo e di altri documenti inediti sull'argomento è in corso di stampa per i tipi della casa editrice Officina. 5 Cfr. Ekscentrizm, cit. 6 Scrive Kryzickij nel 1922: · « Costringeremo Hauptmann a cam­ minare sulla testa, appenderemo lbsen per le bianche fedine alla cu­ pola del circo, e Maeterlinck ballerà per noi il cancan! "· Cfr. GEORGIJ KRVZICKIJ, Filosofskij balagan: teatr naoborot, Pietroburgo 1922, p. 7, cit. in A. M. RIPELLIN0, Il trucco e l'anima, cit., pp. 292-293. 7 BORIS AI>.VATOV, Il teatro come produzione (1922), ora nel volumetto antologico Arte, produzione e rivoluzione proletaria, Rimini 1973, pp.

118-119.


8 VL. NEOOBROVO, ·Feks, cit. Cfr. l'introduzione di Viktor Sklovskij al volume di Nedobrovo cit., tradotto in italiano con il titolo Nascita e vita dei Feks, nel volume, a cura di GIORGIO KRAISKI, I formalisti russi nel cinema, Milano 1971, pp. 215 e ss. IO GR. KOZINCEV, Lo schermo profondo, cit. Il VL. NEJJOBROVO, op. cit. 12 e Il punto di vista dei Feks - aggiunge Nedobrovo - si avvicina alla concezione del modello proprio alla scuola di Kulesov. Uno degli elementi più significativi del gioco, così come lo intende tale scuola, risiede nel lavoro delle mani. Molte scene di effetto, nei modelli di Kulesov, sono costruite esclusivamente sul gioco delle mani. Fra gli esempi più brillanti: le sequenze del Raggio della morte, in cui la figlia dell'autista, in un'incommensurabile tristezza, si torce le mani davanti al cadavere del padre (... ) L'insufficienza degli allievi della scuola di Kulesov è nel fatto che essi limitano tale procedimento alle mani solamente. Nei Feks, esso va più lontano, inglobando l'intera periferia del corpo ». Una traduzione francese di tale settore del libro di Nedobrovo è nel numero unico dei e Cahiers du Cinéma », Russie années vingt, 1970, n. 220-221 (L'acteur de la Feks, pp. 109-112). Il Cfr. A. M. RIPELLINO, Majakovskij e il teatro russo d'avanguar­ dia, cit. 14 EMIL F. MEJERCHOL'D, L'attore e la biomeccanica, trad. it. in Art in Revolution, Arte e design sovietici 1917-1927, Catalogo della Mostra al Museo Civico di Bologna 1971, p. 57. 16 Cfr. A. M. R!PELLINO, Il trucco e l'anima, cit. p. 168; M. VERDONE, I Feks, cit., p. 101; M. VERDONE, Teatro del tempo futurista, Milano 1969, p. 83; e il recente volume di CESARE G. DE MicHELis, Il Futurismo ita­ liano in Russia, 1909-1929, Bari 1973, p. 53. 11 Ci riferiamo allo scritto giovanile di G. LUKAcs, Zur Soziologie des modernen Dramas, scritto nel 1909 come tesi di laurea ma pubbli­ cato solo nel 1914, dalla rivista e Archiv fiir Sozialwissenschaft und Sozialpolitik "· 18 VL. NEOOBROVO, op. cit. 19 Cfr. EDWARD BRAUN, Costruttivismo nel teatro, in Art in Revolution, cit. pp. 52. 20 V. I. LENIN, Opere scelte, Roma, 19683, p. 333. 21 G. KozINCEV, Lo schermo profondo, cit. 22 JuRIJ TYNJANOV, Feks, cit. 23 V. SKLOVSKIJ, Nascita e vita dei Feks, cit. p. 217. 24 V. SKLOVSKU, Iskusstvo kak priem, 1946, trad. it. Una teoria della prosa, Bari 1966, pp. 16-17. · 25 Sadok sùdey II, 1913, cfr. VLADIMIR MARKov, Russian Futurism: a History, Berkeley 1968, trad. it. Storia del futurismo russo, Torino, pp. 50 e ss. 26 A. E. KRUCENYCH, Deklaracija slava kak takovogo, 1913, trad. it. in VL. MARKov, op. cit., p. 129 e in G. KRAisKI, Le poetiche russe del No­ vecento, dal simbolismo alla poesia proletaria, Bari 1968, p. 105. TI A conclusioni analoghe alle nostre è giunto, per vie diverse, PmRo MONTANI, nella sua Introduzione alla lettura del «Cappotto» di Kozincev e Trauberg: il problema della traduzione intersemiotica, in corso di stampa. 28 Y. TYNJANOV, Ob osnovach Kino, in Poetika kine, Moskva 1927, trad. it. Le basi del cinema, in I formalisti russi nel cinema, cit., p. 78. 29 Y. TYNJANOV, op. cit., p. 80. .61 9


30 Y. TYNJANOV, op. cit., p. 85. 31 Il destino delle avanguardie sovietiche si configura cosÏ con carat­ teri tutti calati nel diverso rapporto Partito-intellettuali istituito come corollario ideologico dello sforzo per l'industrializzazione accelerata. Su tale tema, riteniamo fondamentali i due saggi di ALBERTO AsoR RosA, Letteratura e rivoluzione (1968), e Lavoro intellettuale e utopia del­ l'avanguardia nel paese del Socialismo realizzato (1971), ora nel volume

Intellettuali e classe operaia. Saggi sulle forme di uno storico conflitto e di una possibile alleanza, Firenze 1973, pp. 179 e ss. e pp. 200 e ss.

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Nota sul segno urbanistico RENATO DE FUSCO - ROBERTO VINOGRAD

Oggetto della presente nota è una ripresa e possibil­ mente una più esatta impostazione di quanto nel libro Segni, storia e progetto dell'architettura è detto a proposito del segno in urbanistica. Nel capitolo dedicato a questo tema si afferma che vedendo dall'alto un brano di città, ovvero dise­ gnandolo planimetricamente osserviamo un sistema com­ posto da due fattori: un tracciato di spazi scoperti fra loro comunicanti ... e una massa più o meno compatta di fab­ briche ..• che delimitano, recingono o comunque condizio­ nano gli spazi scoperti suddetti. Da questa visuale risulta che le due parti descritte sono complementari: le possiamo leggere l'una come il negativo dell'altra, perché di fatto si conformano vicendevolmente. Inoltre, poiché la caratteri­ stica esponente del tracciato degli spazi scoperti è quella d'essere un organismo fatto di « vuoti », possiamo acquisire la prima nozione del segno urbanistico dicendo che ogni am­ biente vuoto, a cielo scoperto ed aperto planimetricamente su uno o più lati, indica la presenza di un segno urbanistico, il cui « significato » è dato da quel vuoto, mentre il • signi­ ficante » che lo conforma è dato dalla massa del fabbricato al contorno. Tutto ciò resta vero e nelle altre parti del capitolo, che

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non riguardavano soltanto la visuale planimetrica, veniva ul­ teriormente precisata la natura del segno urbanistico. Tut­ tavia, sebbene si parlasse di un solo sistema composto di due parti, queste, contrariamente a quanto si diceva con esattezza nel passo citato, in qualche a�tro punto, venivano impropriamente chiamate tout court « architettura » e « ur­ banistica ». In altri termini, pur volendo studiare un unico sistema, si finiva inconsapevolmente per considerare i due fattori componenti come altrettanti sistemi, quello degli spazi esterni o urbanistico e quello degli spazi interni o architettonico. Ora, a parte la ridondanza di chiamare siste­ ma urbanistico quello che s'intendeva esaminare e di defi­ nire allo stesso modo una parte di esso, cioè gli spazi sco­ perti e continui, l'esperienza ed il senso comune ci dicono che non si dà un autonomo sistema urbanistico, né come un tutto, né come una parte; esso senza la componente archi­ tettonica o rientra nella sfera del paesaggio o si riduce, al l'interno dell'organismo urbano, ad un mero tracciato viario, ad una «figura» bidimensionale, ma non ad una catena di continui invasi spaziali esterni. Pertanto, a maggior precisione di quanto scrivevamo nel saggio citato, va detto che il sistema semiotico-urbanistico è un sistema in cui ciascun segno è datò da due componenti: a) un invaso a cielo scoperto ed aperto su uno o più lati, in­ vaso che chiamiamo e significato » e b) un sistema di segni architettonici, quello della massa del fabbricato al contorno di detto invaso, sistema che chiamiamo «significante » del segno urbanistico.

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Il sostegno teorico della suddetta definizione trova con­ ferma in un ragionamento analogo a quello della semiotica connotativa indicata da Hjelmslev; analogo, come vedremo, ma non identico. Infatti, la semiotica connotativa riconosce che un primo sistema diviene il «significante» di un se­ condo sistema e che quando ciò si verifica il primo sistema costituisce allora il piano di denotazione e il secondo si­ stema (estensivo al primo) il piano di connotazione. Si dirà quindi che un sistema connotato è un sistema il cui plano dell'espressione [significante] è esso stesso costituito da un



tativa, la considerazione emergente fra quelle che stiamo esponendo e in sostanza la parte di nuovo che intercorre tra la definizione del segno ipotizzata nel libro e quella che qui proponiamo sta in ciò che per avere un solo segno urbani­ stico occorre un intero sistema di segni architettonici. Tale conclusione, non solo renderà più agevole il discorso sulle articolazioni e sui sottosegni urbanistici, ma anche, riman­ dando le «figure» del «significante» del segno urbanistico a quelle del sistema di segni architettonici, ci servirà a su­ perare qualche aporia o quanto meno quel grado di empiria che appariva nel libro sopra citato, allorché si discuteva di questo particolare. Quanto alle « figure» del « significato» del segno urba­ nistico, tra esse emerge in primo luogo la «figura» di pianta, che risulta la più privilegiata perché è un elemento costitutivo del tracciato, esprime tutta la dinamica del si­ stema urbano, perché rimane quasi inalterata al passaggio dal progetto alla realizzazione, fino alla fruizione percettiva; non a caso il termine «piano.» urbanistico deriva proprio da questa particolare «figur�» bidimensionale. Le altre «fi­ gure» o sottosegni del «significato» urbanistico coincidono quasi sempre con i sottosegni o «figure» del sistema dei «significanti» architettonici, grosso modo con i piani di facciate delle fabbriche al contorno. Ma come definire le «figure» del «significante» del se­ gno urbanistico? Nel libro Segni, storia e progetto dell'ar­ chitettura, rispondendo alla stessa domanda, si rimandava ad una fruizione dinamica degli spazi esistenti oltre la massa del fabbricato al cont9rno e si lasciavano imprecisati il ca­ rattere e la tipologia di tali spazi: potevano essere le fac­ ciate opposte a quelle che prospettavano sull'invaso-«signi­ ficato» del segno urbanistico; · 1a proiezione a terra della massa fabbricata; il vuoto lasciato da questa nei casi di edifici sospesi su colonne o pilotis, ecc. Qui, una volta assun­ to il principio che ad un solo segno urbanistico corrisponde un intero sistema di segni architettonici, diremo che alle poche « figure» della componente «significato» del segno 66 urbanistico corrispondono come «figure» del «significante»


tutte quelle del sistwna architettonico conformative dell'in-· vaso-« significato ». Quanto alla massa del fabbricato al contorno, va preci­ sato che essa contiene tutte le sue particolarità semantico­ architettoniche, basti pensare alle diversità storiche, tipo­ logiche, funzionali, espressive dei vari momenti del gusto, ecc. degli edifici che la costituiscono; caratteristiche tutte che segnano più o meno fortemente, conferiscono un senso piuttosto che un altro, agli spazi esterni urbanistici. Reci­ procamente ogni ambiente all'interno di tale massa al con­ torno degli invasi urbanistici presenta caratteristiche di in­ dividualità e unicità: la camera dove ora ci troviamo non può prescindere dalla città, dal quartiere, dalla strada sulla qua­ le prospetta perché ad essa è legata da un ben definito rap­ porto sintagmatico, visualizzabile attraverso le aperture, ad una precisa, forse irripetibile scena urbana. Quale può dirsi il grado di articolazione del sistema ur­ banistico? La prima articolazione di un tale sistama può identificarsi col segno stesso, quella di un invaso con un sistema di fabbriche al contorno; la seconda con una parte di quest'ultimo; le ulteriori articolazioni con quelle relative al sistema architettonico, così come sono state pro­ poste nel libro citato. Evidentemente anche qui il termine «articolazione » non può assimilarsi a quello della lingua, dove la prima ha valore semantico mentre la seconda ha solo valore opposizionale. Infatti, nel sistema urbanistico, le successive articolazioni oltr<! quelle del segno (dotato di «significato» perché contenente una interna spazialità) con­ servano tuttavia una loro marca semantica, quella propria all'architettura e, come s'è detto, via via ai sottosegni di essa. Va però precisato, a parte la dissimiglianza con le articolazioni della lingua, che non tutta la massa del fab­ bricato al contorno dell'invaso urbanistico è da prendersi come, sottosegno, altrimenti si ·rischierebbe di identificare un sottosegno col «significante», ovvero col sistema architet­ tonico. Sottosegno, per così dire, di seconda articolazione rispetto al sistema urbanistico è - del resto come nella lingua - solo una parte del «significante» del segno che 67


studiamo, come ad esempio un volume architettonico, una serie di fabbricati contigui, ecc. Molti autori negano la legittimità al discorso sulle arti­ colazioni per i sistemi semiotici non linguistici; manche­ rebbe peraltro a loro avviso l'obbiettivo principale di una simile operazione, quello di individuare il numero minimo di elementi discreti, fonnalizzabili, contabilizzabili in modo che poi si possa con la combinazione di tali elementi riuscire a ricomporre ogni sorta di messaggio. Per parte nostra, quale che sia il nome da dare alle articolazioni, alle segmen­ tazioni o come altro si vuol chiamarle, riteniamo invece assai utile occuparci di esse: scomporre le unità segniche - spe­ cie in presenza della semiotica urbanistica dove interven­ gono fattori eterogenei quali un invaso e un sistema di segni architettonici - al fine di conoscere in maggiore dettaglio le strutture in esame, ma soprattutto a quello di trovare un certo numero di «figure» basilari, ovvia.mente non esau­ stive del linguaggio urbanistico, con le quali rendere possi­ bile o almeno facilitare sia la lettura semiologica di preesi­ stenti brani di città, sia la progettazione di nuovi, ci sembra una operazione discutibile fin che si vuole, ma tutt'altro che oziosa. Per quanto concerne la semiologia architetto­ nica un tentativo del genere, basato su apposite premesse - che nel caso dell'urbanistica andrebbero totalmente ri­ formulate - è già stato da noi esposto sul n. 28 di questa rivista.

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I segni e le « figure» del Padiglione di Barcellona ELINA SARA SEPLIARSKY

L'analisi semiologica di un'opera architettonica neces­ sita generalmente di ogni elemento che ne rende la completa conoscenza: i grafici di progetto, quelli esecutivi, le im­ magini fotografiche o filmiche, le relazioni tecniche e so­ prattutto la visione diretta, la percezione dei suoi spazi interni ed esterni. Molte di queste esperienze ci sono im­ pedite nel caso d'una lettura del Padiglione tedesco che Mies van der Rohe costruì all'esposizione Internazionale di Bar­ cellona del 1929. Infatti, non solo la distruzione dell'opera, che pure essendo in materiali stabili (acciaio, vetro, marmo e travertino), fu demolita al pari delle altre opere provvisorie alla fine della manifestazione - il che ci priva della sua esperienza diretta - ma anche l'inesauriente ma­ teriale illustrativo e le scarse informazioni ci rendono la conoscenza dell'opera incompleta. E ciò va premesso alla presente nota che risentirà evidentemente delle suddette carenze. Tuttavia il Padiglione di Barcellona riveste una tale importanza sia come autonomo messaggio, sia come tappa della evoluzione linguistica della architettura con­ temporanea, da giustificare il nostro tentativo, pur basato su i pochi elementi disponibili. La prima osservazione da fare sul senso dell'edificio 69




piani orizzontali non si limitano soltanto alla chiusura supe­ riore dei tre spazi delimitati dagli otto montanti - ognuno di questi spazi quadrati considerabile come ideale unità segnica - ma vanno ben oltre tali montanti a formare una sorta di pensilina che su i lati lunghi coincide con la linea perimetrale del" Padiglione e su uno dei lati brevi, quello contenente la vasca minore con la scultura di George Kolbe, copre parzialmente l'invaso del patio che si forma in questo lato. Come i suddetti piani orizzontali fuoriescono dal li­ mite degli spazi racchiusi, così i piani verticali fuoriescono, in conformità del gusto neoplastico, dagli spazi che essi stessi delimitano lateralmente. Così la parte coperta è tutta una serie di figure bidimensionali verticali che con il loro dissimmetrico incontro a 90° conformano angoli e prospettive; mentre una delle figure-chiave della intera conformazione è il muro cui è addossata la panchina, il quale unifica due aree coperte del Padiglione slittando al di sotto dei due solai di copertura. Il valore di tale muro, rivestito in lastre di travertino, così come la maggior parte dei muri perime­ trali e il basamento della intera costruzione, è notevole dove si osserva che esso si eleva nel punto più scoperto e per così dire più nudo dell'intero Padiglione, fiancheggiato uni­ camente dallo specchio d'acqua più grande. Tale muro, in­ fatti, unifica figurativamente la doppia serie di segni degli spazi coperti, determina un collegamento fra essi dal lato del perimetro, determina un altro passaggio lungo la pi­ scina e forma con il suo lungo sedile addossato uno spazio da stare prospiciente lo specchio d'acqua. La natura per così dire sottosegnica dei principali ele­ menti costitutivi del Padiglione non è data soltanto dai piani descritti e dalle due figure anch'esse bidimensionali delle vasche rivestite di vetro nero, ma anche da altri sottosegni questa volta unidimensionali che sono i pilastri, sebbene in dettaglio fossero costruiti in modo da avere una sezione a croce. Cosicché, chiamando articolazioni questi vari ele­ menti a seconda della loro dimensione, abbiamo che nel­ l'opera in esame vi sono segni, elementi di prima articola72 zione, formati da invasi tridimensionali (e abbiamo visto



del muri tipici del movimento olandese ... ma murature che piegandosi a 90° formano, compongono appunto dei volumi. Si può dire che Mies abbia voluto limitare verso il peri­ metro il padiglione con tali elementi per meglio concentrare nella sua area il gioco di libere lastre formanti, all'interno di quell'area, interni ed esterni sia reali che virtuali. Questa differenza tra perimetro ed area ci sembra la chiave migliore per intendere l'opera in esame, specificando i « luoghi » dove l'edificio si affida o si discosta dalla poetica neoplastica. (Cfr. Storia dell'architettura contemporanea, Laterza, Bari, 1974, p. 314). Lo stesso autore nota che le parti del Padiglione non ispirate al neoplasticismo possono definirsi di gusto classicistico e in particolare accostabili al linguaggio di Loos. Infatti se le architetture di Van Doesburg e di Rietveld si articolano in piani colorati artificialmente in blu, giallo e rosso, qui i piani hanno il colore proprio dei materiali, la lucentezza del metallo cromato, la grana del travertino, la venatura dell'onice. Siamo insomma nella logica dell'unica « decorazione » ammessa da Loos, quella appunto derivante dalla natura del materiali. (Ibidem pp. 314-315). Queste considerazioni di ordine stilistico, questo acco­ stare un codice-stile come quello neoplastico ad un altro che può considerarsi il suo opposto ossia il gusto classici• stico (e notiamo per inciso che nelle opere successive Mies si rifarà più al secondo che al primo) denota il suo porsi come deroga rispetto a qualunque langue architettonica. Pe­ raltro, oltre all'insolito accostamento dei due stili suddetti va ribadito che anche laddove le conformazioni del padi­ glione richiamano l'uno o l'altro esse sono sempre adesioni sui generis a tali codici-stili, il che indica l'estrema polisemia di questa opera-messaggio. Quale è dunque la significazione del Padiglione tedesco all'Esposizione di Barcellona? Rispondiamo che è la mas­ sima novità o informazione d'un messaggio rispetto ad un minimo di riferimento ad un codice. Infatti, dal punto di vista funzionale abbia,mo osservato che il fattore funzione è quasi di grado zero; rispetto alla tipologia esso richiama 74 assai labilmente il riferimento ad una casa; rispetto ai co-


dici linguistici si è detto già della sua eterodossia; persino rispetto ad una strutturazione segnica - almeno per quanto si riferisce alla nostra teoria semiologica - esso è una de­ roga nel senso che i sottosegni prevalgono sui veri e propri segni. In definitiva, ogni legame ad un fattore di riferimento, ad una ridondanza, è ridotto al minimo, quel tanto che basta alla decodificazione d'un messaggio, tutto il resto della va­ lenza semantica essendo affidato al nuovo, all'inedito, all'im­ previsto, al massimo della deroga, come è proprio ad ogni processo di comunicazione estetica.

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