Op. cit., 33, maggio 1975

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Op.cit. rivista quadrimestrale di selezione della critiĂŠa d'arte contemporanea

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Edizioni e Il centro •


S. RAY, M.

PICONE •

F. RISPOLI,

Architettura come istituzione R.

RICCINI,

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Il • ritorno. alla pittura

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Università: le parole e le cose

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Libri, riviste e mostre

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Alla redazione di questo numero l1anno collaborato: Gabriella D'Amato, Benedetto Gravagnuolo, Giangiorgio Pasqualotto, Agata Piromallo Gam­ bardella, Maria Luisa Scalvini.



Architettura come istituzione STEFANO RAY

:e. noto che Piranesi, benché architetto, praticò quasi esclusivamente l'incisione, eseguendo un numero invero limi­ tato di architetture. :E. del pari noto come ciò sia da mettersi soprattutto in relazione con difficoltà di ordine economico legate alle condizioni del momento, ma non è azzardato rin­ tracciare nell'esercizio dell'incisione anche il segno di una scelta deliberata, il sintomo di un disagio acutamente avver­ tito nei confronti della pratica dell'architettura, in rapporto agli stessi fondamenti teorici della disciplina. Allorché, nel Parere, Didascalo si trova amaramente ri­ stretto alla «campagna rasa» la sfiducia coinvolge insieme l'architettura e la realtà tutta intera. La colonna, simbolo e presenza tangibile del Bello, a una critica serrata si è rivelata «irragionevole», e pertanto è stato dimostrato che non sempre in architettura Bello e Ragione coincidono. Posta la Ragione come regola e legge assoluta del reale, scoprire un solo topos ove essa sia inefficace è· sufficiente per metterne in crisi l'intero sistema: costruire in queste condizioni una cosa qualsiasi, un edificio o un congegno sociale, costituisce dunque un patetico tentativo di evadere il Destino (unica alternativa alla Ragione), un puerile nascondere a se stessi le contraddizioni della natura umana in cerca di una «casa», 5


di un «rifugio», che in nessun modo può riparare e garan­ tire l'uomo dalle antinomie e dalle lacerazioni che egli reca in sé. L'affidarsi, allora, alle impossibili prospettive e alle sim­ metrie sofisticate delle incisioni significa, è stato già più volte notato, esporre per metafora questo cupo pessimismo. D'altronde è ovvio che, qualora si pretenda che la realtà in generale e l'architettura in particolare debbano sottostare alla categoria della razionalità, pena il caos, le conclusioni alle quali Piranesi approda sono inevitabili e incontrover­ tibili. Il tempo, nel consumarsi dell'esperienza storica, ha va­ nificato questo tipo di razionalismo. Ciò che invece del cri­ ticismo di Piranesi resta affidato al futuro si individua nelle strette connessioni, da lui colte con chiarezza, esistenti fra un'attività dedicata in prevalenza alla forma, alla « bellezza», dell'ambiente, quale sotto il profilo storico senza dubbio si era costituita l'architettura, da un lato, e i problemi del com­ portamento individuale e dei rapporti interpersonali, sia a livello antropologico che sociale, dall'altro. Si tratta infatti, anche questa è cosa nota, di uno dei principali fili conduttori delle discussioni moderne sulla fun­ zione e sulle strutture profonde dell'architettura. Se gli ar­ chitetti si erano a lungo proposti di dare forma a ambienti che riproducessero e restituissero la bellezza razionale del cosmo, intorno alla metà del Settecento l'ago della bussola si sposta decisamente in direzione dell'uomo materiale, sulla sua vita concreta, sulle misure da adottare per garantirgli, o quanto meno facilitargli, un'esistenza rispondente alle sue esigenze e alle sue attese. Piranesi marca di certo lo spar­ tiacque tra i due universi: il suo pessimismo lamenta la morte di un'antica e illustre tradizione; la sua passione cri­ tica affonda salde radici nella speranza di un futuro che gli eventi si incaricheranno di deludere puntualmente. Nel corso di due secoli, abbandonato il mondo del clas­ sicismo non solo come repertorio di forme e di prescrizioni compositive ma soprattutto come maniera di pensare la realtà 6 innervata da stabili gerarchie, gli architetti hanno cercato


di progettare pensando a quell'uomo materiale, a quella pro­ blematica del comportamento e dei rapporti: persuasi che un ambiente costruito in funzione dei bisogni materiali dell'uomo dovesse di necessità indurre un rivolgimento nei compor­ tamenti e nei rapporti medesimi. Questa è, schematicamente, l'idea-guida del Movimento Moderno, il momento unificante di operazioni per altri versi tanto dissimili tra di loro come quelle condotte, per non richiamare che gli esempi più ovvi, da un Frank Lloyd Wright, da un Walter Gropius, da un Le Corbusier. Ancora dall'irrequieto Settecento, all'atto dello scontro fra Tradizione e Futuro, perviene un messaggio che consente di mettere in luce un ulteriore ma non secondario aspetto di ciò che è stato e ha significato, soprattutto per i suoi protagonisti, il Movimento Moderno. Nel trattato di architettura civile J. J . Lequeu, dopo aver esposto le regole di una « science des Ombres naturelles et du lavis dans le genre fini», passa a descrivere gli Edifici Dei Differenti Popoli Disseminati Sulla Terra. Sono tavole scritte e disegnate dove si giustappongono e si collocano senza alcun ordine evidente, .se non arbitrario, composizioni via via de.finite etrusche, toscane, fiamminghe, europee, egiziane, cinesi, persiane, indiane, gotiche, e così di seguito. Si tratta di un bricoler, non solo nel senso enci­ clopedico di « artigianato intelligente »; sibbene anche e so­ prattutto sotto il profilo dell'irrisione, di un trasferimento della sterilità storica dell'architettura, quale essa appariva agli occhi di una certa cultura settecentesca traumatizzata dalle esperienze contemporanee, nel gioco e nell'ironia. Che si apparenta senza dubbio da un lato alle irrisioni del Campo Marzio di Piranesi, ma che, a differenza di Piranesi, non cova lo stesso fuoco di passione che percorrerà poi il filone « co­ struttivista » del Movimento Moderno. Al contrario, siamo qui di fronte al rifiuto radicale di ogni specie di ottimismo, che possiamo rintracciare sia negli sberleffi di Dada e dei surrealisti quanto nel rigorismo di molta critica attuale. L'appariscente frivolezza del gioco, il compiaciuto sar­ casmo, sembrano negare qualsiasi attenzione a quella pro­ blematica antropologica e sociale che costituiva l'oggetto 7


della disperata speranza di Piranesi. In realtà, proprio un simile disinteresse cela sì la sfiducia nell'uomo e in una ri­ forma dei costumi, ma pone con forza la questione del demi­ stificare la struttura ideologica dell'architettura. Il discorso, insomma, diventa politico; e da questo punto di vista meglio si intenderanno opere come quelle di un Bruno Taut prima maniera o, anche, del più ironico Olbrich - e sino di un particolare eclettismo ottocentesco. Politica in che senso? Nel prendere coscienza del fatto che l'uomo non è «buono»; né, a rigore, neppure «cattivo )): più semplicemente, oggetto e insieme attore di una vicenda che ha nell'esercizio del po­ tere e nel possesso dei mezzi di produzione dei beni, nonché nel controllo dei modi in cui il potere e la produzione si esercitano, il proprio fulcro e il proprio fine. In altri termini, nel riconoscere la specificità dei «ruoli», a evitare confu­ sioni e illusioni: in base a cui si sia indotti a sperare in un futuro migliore, sempre generico e sempre rinviato, trascu­ rando di operare su quelle strutture e su quei modi. Tutto questo è stato più volte fatto materia di medita­ zione da parte della critica. Era tuttavia opportuno richia­ mare alcuni dati fondamentali al fine di mettere a fuoco con la maggior chiarezza possibile i problemi teorici che l'archi­ tettura propone oggi. E per far ciò è certamente necessario avere ben presente la doppia anima del Movimento Moderno; proprio in un momento, come l'attuale, in cui il Movimento Moderno costituisce un riferimento d'obbligo e, al contempo, si colloca in una prospettiva storica conchiusa, che consente di analizzarne correttamente gli svolgimenti e il significato. Quali sono le concezioni globali dell'architettura che emergono dal dibattito condotto in Italia nel corso degli ul­ timi anni? In sintesi, le seguenti: 1) l'architettura, in quanto ideologia urbana del potere borghese, ha esaurito la propria funzionalità rispetto alla riorganizzazione del capitalismo con­ temporaneo - di conseguenza il suo ciclo storico sin è con­ cluso, è morta (Tafuri); 2) l'architettura è insieme valore artistico e strumento efficace per la costruzione di una società democratica; a patto che la sua artisticità si inveri in un 8 linguaggio che tutti possano parlare, perché radicato nelle


funzioni concrete, fisiopsicologiche e storiche - utilizzando a questo scopo il lessico approntato dai Maestri moderni, nello spirito degli « eretici » della tradizione classicista (Zevi); 3) l'architettura è autonoma creatività, la cui legittimità si misura sulla capacità di confrontarsi con le contraddittorie istanze della storia nel suo divenire - testimonianza, critica e superamento di esse (Portoghesi). Due posizioni teoriche debbono ancora essere ricordate; entrambe, per ragioni diverse, entrano, sotto più aspetti, nel­ l'articolazione delle precedenti. Si tratta della ricerca semio­ tico-strutturalistica (Koenig, De Fusco) e della verifica di una continuità nei confronti dei postulati razionalisti del Movi­ mento Moderno (Benevolo, Quaroni). La prima implica una dislocazione dell'architettura nel più vasto ambito delle strut­ ture della significazione, dell'informazione e della comunica­ zione; pertanto, se la definizione della storia come analisi di eventi irregolari che mettono in crisi i modelli antropologici e sociologici è corretta, tale posizione coinvolge un sistema sostanzialmente alternativo rispetto alla storia, sebbene a essa tangente. I teorici di una continuità critica del Movimento Moderno ipotizzano invece per l'architettura un compito or­ ganizzativo, nel controllo qualitativo delle operazioni che si compiono sullo spazio materiale; in quanto metodologia di un progresso che si realizzi a livello delle dimensioni dell'am­ biente - identificando il progresso in uno scioglimento razio­ nale dei nodi prodotti dalle distorsioni sociali. 1=:. quasi un luogo comune il ripetere che gli architetti svolgono un'attività che interessa soltanto gli architetti, che nessuno riesce a capire il significato e ad apprezzare il valore dei prodotti dell'architettura contemporanea; e che, intanto, la speculazione edilizia e fondiaria ha mano libera sul terri­ torio, ricavando il massimo profitto dai terreni e dalle co­ struzioni a detrimento e a danno di tutti. In sostanza, che i territori costruiti sono luoghi dove è impossibile condurre una vita accettabile a causa della speculazione; mentre da un lato i pubblici poteri assistono impassibili a tale forma di rapina, paghi di esercitare anche per questa via la propria violenza e il proprio controllo regressivo, e dall'altro gli ar- 9


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chiletti si smarriscono in disquisizioni e progetti privi di senso, tentando magari, quando ciò loro riesca, di trarre una parte di utile dalla generale catastrofe. Il protagonista della città, l'autentico proprietario dell'ambiente urbanizzato, l'uomo che ivi vive e lavora, si riduce a mero oggetto del potere, della speculazione economica e delle elaborazioni teo­ riche degli architetti. � necessario riconoscere apertamente che un quadro del genere corrisponde abbastanza bene alle circostanze reali. La domanda è dunque la seguente: cosa si deve e cosa si può fare per ribaltare la situazione? Perché le esigenze indivi­ duali e sociali, così come si configurano concretamente qui e ora, trovino nel territorio l'ambiente, cui hanno diritto e di cui hanno bisogno, capace di soddisfarle? La risposta è sem­ plice e immediata: la gestione dell'ambiente deve essere tra­ sferita direttamente nelle mani del cittadino, di colui che ne fruisce e che al tempo stesso ne rappresenta la ragione di essere. Un proposito, è chiaro, più facile da formulare che da realizzarsi; in funzione del quale si richiederà uno sforzo tenace e complesso, cui sono chiamati a concorrere opinione pubblica, forze politiche, operatori culturali; uno sforzo che è irresponsabile utopia prospettare a breve tennine e forse fatalmente destinato all'insuccesso. In ogni caso occorre soddisfare una condizione preli­ minare, che non può essere disattesa: tutti e ciascuno, senza distinzione, debbono prendere coscienza con la massima chia­ rezza dei motivi che hanno determinato la situazione attuale, e dei meccanismi che regolano tuttora questa situazione. In primo luogo, allora, è necessario capire le responsabilità pro­ prie degli architetti, e il contributo che essi sono in grado di offrire. Intere generazioni di architetti moderni hanno visto fallire i loro programmi per non aver voluto, o saputo, analizzare freddamente il significato e le caratteristiche del « mondo migliore » su cui puntavano, in una con la loro con­ dizione rispetto ai procedimenti di sfruttamento e di reifi­ cazione del territorio. Il tema della responsabilità dell'architettura pertanto non riguarda soltanto gli architetti, ma, al contrario, si rivela un


· argomento che coinvolge tutti senza distinzione; occorre me­ ditarlo a fondo, in quanto costituisce un primo passo in dire­ zione della presa di coscienza generale che, lo si è detto, è condizione indispensabile di una rifondazione dei modi di ge­ stione dell'ambiente costruito. Ne consegue, è ovvio, che una verifica della congruenza e dell'attualità storica delle propo­ sizioni teoriche sull'architettura si profila anche come un passo e uno sforzo intrapresi in tale direzione. Si è detto che il Movimento Moderno si prospetta oggi quale riferimento d'obbligo. A ben vedere, infatti, le con­ cezioni teoriche richiamate sopra si innestano tutte sul corpo della tradizione del Movimento; privilegiandone secondo i casi l'uno o l'altro aspetto, e conducendo a conseguenze estreme spunti in essa già impliciti, quando non apertamente dichiarati. Tafuri liquida sì in blocco il Movimento come ideologia architettonica capitalista, ma non ne disconosce le ragioni storiche in base alle quali non poteva darsi altra alternativa se non nell'Utopia. Alternativa illusoria però, non meno eva­ siva di quella offerta dal bricolage di matrice illuministico-li­ bertina cui si è accennato; e di questo tanto più mistificante in quanto, ancora una volta, svuota la questione di ogni con­ tenuto pratico, nel riproporre il mito dell'uomo buono natu­ rale. Ebbene, non mancano certo riferimenti nella vicenda del Movimento Moderno ai quali rifarsi per motivare il rifiuto dell'Utopia: da un Sullivan sino a un Hannes Meyer, pas­ sando per un Benjamin e un Behne. La stessa proposta che Tafuri avanza in chiusura di Progetto e utopia, di assegnare cioè come compito alla critica dell'architettura l'analisi delle condizioni in cui prestano la propria opera gli architetti, alla stregua di quanto è corretto pretendere per ogni altro pre­ statore d'opera - fatta astrazione dagli specifici programmi e dai relativi contenuti politici - trova un precedente illu­ stre proprio nella pedagogia del Bauhaus: ove la figura del­ l'architetto, benché in un contesto storico del tutto diverso, veniva a dissolversi nell'analisi dei singoli momenti del pro­ cesso di produzione del progetto e dell'oggetto. Il rapporto della posizione di Zevi con il Movimento Mo- 11


derno è immediato. Il codice linguistico ipotizzato ne Il lin­ guaggio moderno dell'architettura è, in effetti, per intero estratto dal lessico elaborato dal Movimento, di cui si tra­ scelgono quegli elementi che appaiono suscettibili di essere elevati al ruolo di « costanti » intorno alle quali organizzare il suddetto codice--non codice. L'atteggiamento di Portoghesi, per proprio conto, appare a tutta prima più eterodosso in questo senso; e puntare semmai su di un ritorno a una concezione pre-moderna del­ l'architettura. Tuttavia, se è vero che l'insistenza sulla crea­ tività individuale rappresenta una spia in tale direzione, è vero altresì che la concezione di un'architettura intesa come controllo critico e testimonianza del divenire storico non tocca solo gli estremi dell'esperienza borrominiana e della teoria dell'informazione - poiché la lastra di vetro, il prisma riflettente, dalle non troppo lontane radici Dada, di Mies van der Robe, per quanto paradossale possa parere, introducono concretamente nel reale un'analoga creatività che si fa specchio e testimonianza delle contraddizioni storiche: nel vuoto e nel riflesso del prisma dandosi carico del disordine e del caos; e ironizzando, all'atto stesso di proporlo, sull'or­ dine che sembra voler ·rappresentare e imporre. La ricerca semiotico-strutturalista e la verifica del razio­ nalismo nella condizione contemporanea offrono tanto a Ta­ furi quanto a Zevi e a Portoghesi una serie di ben forgiati strumenti per la messa a punto delle rispettive teorie; con­ sentendo di chiarire problemi inerenti alle strutture di co­ municazione che si producono attraverso e nell'architettura da un lato, e questioni riguardanti il rapporto tra forma, spazio e funzione dall'altro. Circa i precedenti del filone semiotico-strutturalista, mette appena conto di far cenno alle connessioni tra le avan­ guardie sovietiche e gli studi a suo tempo condotti nell'am­ bito della cultura slava sui temi della lingua, del linguaggio, dei segni e della comunicazione. Anche a una rapida analisi dei tratti più vistosi, dunque, non è difficile rendersi conto dell'innesto che le attuali teorie 12 sull'architettura derivano dalla complessa matrice del Movi-


mento Moderno. Se una constatazione di questo genere con­ sente in qualche modo di ritrovare per ciascuna di esse un titolo di legittimità, in quanto si costituiscono non in peti­ zione di principio, ma, tutto al contrario, in riflessioni su una tematica a lungo dibattuta e passata al vaglio di un confronto sistematico con la realtà durante il corso di poco meno di due secoli; è altresì vero, d'altro canto, che proprio le incon­ ciliabili antinomie che le diverse teorie esibiscono denun­ ciano la sofferta insufficienza, già peraltro spesso constatata, del Movimento Moderno - che, una volta di più, a una ulte­ riore verifica appare piuttosto un insieme empiricamente co­ struito su risposte immediate a esigenze che mano a mano venivano imponendosi all'attenzione; e non, certo, un sistema coerente, una rifondazione della disciplina architettonica. In altri termini, è corretto affermare che l'azzeramento, indispensabile a una revisione globale del concetto medesimo di architettura, non si sia prodotto, come ancora talvolta si è indotti a credere, in concomitanza della prima o della seconda Rivoluzione Industriale. Precisamente, il secco di­ vergere delle teorie attuali, che pure, lo si è veduto, si inne­ stano sulla tradizione del Movimento, sta a dimostrare che una profonda, e consapevole rimeditazione ha luogo solo a partire dagli anni più recenti. 1=. a prima vista paradossale che ciò accada in una fase nella quale il disorientamento e, addirittura, il disinteresse prevalgono senza dubbio nella prassi per quanto riguarda l'esercizio coerente e convinto della disciplina; e tuttavia conviene prenderne atto. Tutto ciò propone una serie di interrogativi: se le ma­ trici del pensiero contemporaneo si rintracciano nella tra­ dizione del Movimento Moderno, e se il Movimento a sua volta non offre un'accettabile piattaforma teorica; e se, per di più, le recenti teorie sembrano allontanarsi dalla prassi nella stessa misura in cui la realtà si scrolla di dosso l'ingombrante fantasma disciplinare dell'architettura - ha ancora senso meditare intorno ai problemi che la riguardano? Se sì, si può ancora parlare di architettura, o non è piuttosto oppor­ tuno identificare un termine libero da connotazioni pesante­ mente condizionate? E se, per finire, sarà ancora lecito im- 12




riodo, è in tal senso eccezionalmente rivelatrice. Poiché, tut­ tavia, l'uso delle macchine, produttrici degli oggetti deprecati, non poteva arrestarsi, gli architetti, respinti in margine in quanto ancora incapaci di elaborare un sistema formale ade­ guato ai procedimenti produttivi meccanici, scoprivano, come campo di loro specifica competenza, la problematica sociale inverata nell'ambiente. Dai riformatori religiosi anglosassoni, passando per i socialisti utopisti, su su fino a Ruskin, Morris, Muthesius e ai socialdemocratici austro-tedeschi, la questione della forma passa in secondo piano; sino a quando, fatti esperti delle tecniche produttive contemporanee, gli archi­ tetti non la ripropongono da capo, in anni che press'a poco si possono far coincidere con la fine dell'Ottocento e l'inizio del nostro secolo. Con l'Art Noveau. D'ora in poi il problema sociale verrà sempre più a costituire uno sfondo d'obbligo, derivato dai dibattiti precedenti, mentre l'interesse rimarrà sostanzialmente centrato sulla forma. Lo stesso Adolf Behne, certo tra i più lucidi esegeti del razionalismo internazionale, riconosceva che l'assenza di uno stile preferenziale, conse­ guente alla vocazione sociale del razionalismo medesimo, non poteva in alcun caso non costituirsi in stile; poiché la scelta formale in base a cui tradurre i contenuti andava comunque compiuta. E quando Walter Benjamin attirava l'attenzione sul momento della produzione, in considerazione dello scadimento della fase di imitazione, legata alla « riproducibilità tecnica », non faceva altro che ribadire l'urgenza di un metodo proget­ tuale capace di configurare in una i nuovi prodotti e la conte­ stazione critica dell'organizzazione di quella produzione. A questo punto è possibile avanzare un'ipotesi sul perché, quasi all'improvviso, sul volgere degli anni sessanta di questo secolo, il problema dell'architettura è stato reimpostato a par­ tire da zero, sino all'elaborazione di teorie alternative quali quelle che si sono ricordate. In realtà, proprio gli anni ses­ santa, mentre vedevano giungere a sotterranea maturazione una nuova crisi - la crisi della imposizione violenta ai più ampi livelli - apparivano anche in superficie gli anni della massima espansione e del maggior succeso del « mo16 dello di sviluppo » fondato cinque secoli addietro. Sembrava,



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ralistica, d'altra parte, trova le proprie evidenti motivazioni precisamente in una reazione all'appiattimento del panorama politico e culturale descritto; così come la fedeltà alla tradi­ zione del Movimento Moderno, nell'accezione razionalista, si spiega nella volontà di opporsi allo scollamento definitivo tra strutture economiche e politiche e sovrastruttura architet­ tonica, proprio a evitare il decadimento a livello di ideologia. Tuttavia noi oggi constatiamo che una crisi, e di estrema gravità, si è verificata nello scorcio degli ultimissimi anni all'interno del sistema capitalista; coinvolgendo per molti aspetti anche la fase, che sembrava « avanzata », dei regimi politici di matrice socialista. Mette appena conto di ricordare che questa crisi si impernia su di una ridistribuzione dei ruoli e dei compiti, in rapporto diretto con il dislocamento delle fonti di energia. Il problema che il capitalismo viene risolvendo, con rapidità maggiore di quanto non si potesse prevedere, è quello di conservare il dominio e il controllo anche al cambiare del tipo di energia impiegata nella produ­ zione; traendo altresì il massimo dei profitti dal momento di transizione. Tutto ciò premesso, è evidente che le teorie ela­ borate in argomento di architettura in questi ultimi tempi debbono fare i conti con la nuova realtà; che, in altri termini, si tratta di teorie capaci di innescare, sostenere o distruggere uno specifico modo di pensare l'architettura, riferito però a un momento che, nella sua particolare accezione, è ormai conchiuso. In sostanza, queste teorie sembrano rappresentare la più lucida meditazione critica intorno ai problemi che la storia presentava non più tardi di ieri. In esse, certo, fer­ menta una serie di proposte, di spunti, di chiavi di lettura, tuttora validi e niente affatto sorpassati; quel che occorre sottolineare, però, è la novità di ciò che potremmo chiamare la « controparte strutturale », repentinamente trasformatasi in un lasso di tempo brevissimo. Ci eravamo ripromessi sopra di trovare adeguate risposte a due ordini di domande. Innanzi tutto, di capire in che modo (e se fosse possibile) gli architetti dovessero contribuire a modificare l'assetto dell'ambiente abitato. In secondo luogo ci eravamo chiesti se oggi si potesse ancora parlare di archi-



Il "ritorno,, della pittura MARIANTONIETTA PICONE e RICCARDO RICCINI

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La pratica della pittura ha da due o tre anni riguada­ gnato in Europa l'attenzione critica, dopo essere stata tra il '68 e il '71 messa in margine rispetto a una serie di ricerche impegnate, ideologicamente, nel superamento 'politico' delle barriere disciplinari e in una tendenziale equiparazione del­ l'arte alla vita. Mutata la situazione politica ed economica, costretto sulla difensiva il movimento popolare, è emerso evidente l'attuale limite di agibilità di quelle ipotesi, che rimanevano confinate negli spazi, loro 'impropri', del mondo dell'arte. Si è così riproposta per le operazioni culturali la strategia dei tempi lunghi e la necessità di accettare la dimen­ sione sovrastrutturale e le mediazioni dei linguaggi discipli­ nari specifici. L'ultima pratica della pittura, in Europa in atto in più casi già dagli anni 1966-68, fa professione di specificità in una disciplina artistica storicamente determinata e, se pure si tratta di fare di necessità virtù 1, la maggior parte degli operatori converge, di qua come di là d'Atlantico, nel voler centrare l'attenzione sulle qualità e proprietà materiali degli strumenti impiegati e sulla fattualità dell'operazione come procedimento fabbrile, limitandone e sospendendone ogni uso strumentale ai fini della produzione di immagine; si differenziano così dall'astrazione storica, dal formalismo sim­ bolico e neocostruttivista, informale, neoastratto. La spontanea convergenza di ricerche in Europa e in



scrive Angelo Trimarco, mentre in America sfrontatamente e senza inibizioni si riparla di astrazione lirica, di astrazione o, come semplicemente dice Dore Ashton, di « Drawings by New York Artistes», in Italia, che la sappiamo lunga, ab­ biamo intanto inventato formule più sofisticate per reimmet­ tere in circuito merce· già in deposito. Naturalmente non è sempre così. Il succo, comunque, in America come da noi, è che non c'è, alla radice, un nuovo discorso teorico. 3 E ag­ giunge che diversamente vanno le cose in Francia. E stata peraltro proprio Parigi con alcune grosse gallerie 4 a cogliere questa occasione per rispondere alla sfida commerciale ame­ ricana, che aveva scelto anche questo terreno con l'offensiva della «pittura fredda» post new abstraction a partire dalla mostra del '68 «L'art du Réel. USA 1948-68 », tenuta prima a New York e poi a Parigi.

Le reazioni della critica

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Il primo riconoscimento critico di quest'area di ricerche nell'impegno a rilevarne i comuni denominatori fa centro del problema della percezione oggettivante e analitica del colore, non senza discordanze riguardo alla definizione dei suoi caratteri: materialità tautologica, «azzeramento», o evo­ catività emozionale, associatività metaforica. Caratteri com­ presenti nell'area globalmente intesa e che valgono ad iden­ tificare due dei diversi versanti. La scelta dell'uno o del­ l'altro fa fede di diversità d'ottica che emergono anche nei primi collegamenti storici istituiti 5 e nella scelta delle pre­ senze nelle mostre. Già la presentazione di Goossen nella mostra «L'Art du Réel. USA 1958-68 » nel novembre del '68 a Parigi 6 puntava sui problemi di percezione: a misura che quest'arte diveniva sempre più concettuale essa poggiava su reazioni fondamentali quali la semplice percezione, l'azze­ ramento dei sensi, la cinestesia e il riconoscimento dell'esi­ stenza tangibile ed obbiettiva dell'opera in presenza di cui ci troviamo. ( ... ) L'esperienza ·della percezione in luogo d'es­ sere considerata un mezzo è divenuta fine in sé. La Presentazione di Douglas Crimp della mostra di pittura ameri-


cana « Arte come Arte » a Milano nell'aprile del '73 7 pone ancora, con quelli dell'antillusionismo e della oggettività, il problema della percezione (con la concretezza empirica ti­ pica della critica americana) 8• Egli giudica centrale per questa pittura l'antillusionismo e, in tal senso, considera de­ cisivo l'esempio della scultura minimal che rinnovò nei pit­ tori l'aspirazione alla muta oggettività della superficie di­ pinta. Il rivelare solo se stesse di queste superfici che chiama opache rimanda a considerare la struttura della percezione stessa: l'inespressività rivela .formato, dimensione, propor­ zione, linea, materia, ciascun carattere subordinato ai ma­ teriali e al modo di adoperarli. La mostra livornese dell'aprile '73 si intitola addirittura « Tempi di percezione » e in questa chiave confronta presenze americane, nord-europee e italiane 9 comportando perciò qualche nome poi riconosciuto esterno all'area della' pittura­ pittura '. Lara Vinca Masini delinea in catalogo alcuni carat­ teri: ricorso alla sensibilizzazione; il piano usato come strut­ tura aperta e dilatabile; la contemplatività; l'emotività; la luce usata come fattore dinamico; il colore usato in funzione di quantificazione luminosa che fa discendere da due con­ notati centrali l'impostazione mentale aprioristica e l'am­ biguità. Caratteri i primi per noi pertinenti al lavoro di Battaglia (ma anche di Vago) per il quale il colore evocando la luce ritorna ai limiti dell'illusionismo spaziale e di una pittura naturalistica 10 sia pure in senso Iato, di associazione mentale, o di atmosfera e non di rappresentazione. La con­ traddizione che si delinea tra l'ottica di Crimp e questa, che ha basi reali in radici diverse di nuova pittura, non è irre­ solubile per Klaus Honnef che tende a comporla sotto il segno del colore, della sua virtuale ambivalenza. È difficile dcavare un concetto razionale dai quadri ( ...) - dice Honnef - che liberano effetti emozionali a volte anche irra­ zionali. Benché in nessun quadro il colore possegga qualità atmosferiche, per cui la pittura qui presentata è in grande antitesi con il lirismo di J. Olitski e la sua scuola, esso non è misurabile nei suoi impulsi dallo spettatore n_ Le ultime ricerche sul colore si muovono secondo Honnef, tra il polo 23


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della non materialità (Girke, Teraa: ricerche neoastratte, colore-luce mentale) e quello materiale (Ryman: colorante­ pittura). Anche quando il colore è evocativo dello spazio o della luce, per lui, non si pratica alcun illusionismo. I feno­ meni che vengono mostrati non rappresentano nient'altro che la loro stessa realtà ( ...), l'uso del colore nei lavori di quelli che lo fanno comparire nelle sue qualità non materiali non è meno autentico di altri nei cui lavori vengono sottoli­ neate le sue qualità materiali. Il colore ha due facce: esso è ambivalente 12 . Anche Marisa Volpi Orlandini sottolinea antillusionismo e rigore di metodo come caratteri comuni e primi di tutte queste pitture, che rimandano l'attenzione ai procedimenti mentali e artigianali con i quali sono state pensate e rea­ lizzate 13, la cui esperienza è tutta nella loro sottile processua­ lità. Di critica serrata al concetto di « rappresentazione », di abolizione di ogni riferimento estrinseco, parla Daniela Pa­ lazzoli, avvertendo che non è alle illusioni dell'illusionismo che si deve rinunciare ma alle illusioni della propria condi­ zione, criticando l'accezione statica, astorica di contesto im­ plicita in tanti discorsi di nuova pittura; precisa inoltre, che all'atteggiamento dogmatico della fondazione del progetto si sostituisce quello processuale di una creazione continua del significato esplicata nell'agire, differenziando così americani, autori di progetti di quadri che il fruitore afferra immedia­ tamente nella loro monolitica aderenza all'ipotesi di ricerca, e europei in cui lo spazio del quadro è quello fisiologico in cui si realizza un comportamento 14• Dopo il primo approccio che ha rilevato l'analiticità sul piano percettivo, la processualità è un altro carattere su cui la critica ha concordato: essa emerge già nei titoli di alcune esposizioni come « Fare pittura », « Io non rappresento nulla, io dipingo » 15; ambigui entrambi, è stato notato, poiché si tratta di definire i modi e i fini di un fare, di una pratica, molto diversa nei casi in oggetto 16• Come ammette Fagone, diverse sono le ragioni dei francesi di Supports/Surfaces e quelle di una Rockburne o della Tanger e, in Italia, c'è differenza tra la tensione puristica dell'area romana (Verna,




astratta sensorletà 31• All'opposto Contessi sbrigativamente afferma: non hanno senso i tentativi di attribuire un signifi­ cato ideologico-politico a operazioni che possono essere con­ siderate soltanto in base al parametro intrinseco della fat­ tualità perché il problema è, come sempre, un problema d'uso 32• Opinioni significative del disagio, riflesso nella cri­ tica, che caratterizza la dimensione dell'operare in Italia in conseguenza di ciò che è anche un sintomo, l'assenza della mediazione di un quadro teorico specifico di riferimento, di una analisi ideologica delle dimensioni professionali quale si tenta, invece, dai pittori francesi. Però l'antinomia è reale, si tratta di un'ambiguità centrale del fare pittura come atto conoscitivo del soggetto: teso tra sperimentazione testuale dei limiti del linguaggio specifico e svalutazione di questa e del suo risultato, referente testimoniale di un valore che è il comportamento o la coscienza dell'operatore; polarità tra analisi dello specifico e comportamento espressivo e/o ana­ litico del soggetto, tra materialismo e idealismo, riscontra­ bile anche in Francia e in Devade, se si isolano alcune affer­ mazioni dal suo pensiero che resta dialettico: Il colore in sé non mi interessa ( ... ) ciò che importa è il godimento che produce a tale e tale istante del suo trattamento 33 e altrove la pittura non ha « interesse » che come riflesso produttore dialettico materialista della esistenza sociale, cioè del pen­ siero, dell'organizzazione del cervello, e delle loro trasfor­ mazioni 34. L'aspetto più interessante del dibattito condotto finora è quello del confronto che si è tentato tra l'autoanalisi delle ricerche pittoriche e le analisi di tipo linguistico. Già con la scultura minimal, per Marisa Volpi Orlandini, si ha la ridu­ zione del linguaggio a se stesso, l'ipostasi dei suoi elementi concatenanti, l'identificazione in esso di un assoluto. Si spa­ lancano le porte ad ,una grammatica e ad una sintassi · che elevano se stesse a significato così che anche la pittura usa mezzi dimostrativi tautologici, diviene pittura esemplifi• cativa 35• La nuova astrazione americana apre la via a una analisi empirica e fredda della pittura come disciplina, autonomia, 27


specificità, analisi linguistica condotta nella fattualità. La pit• tura americana, da Reinhardt a Marden, designa le capacità di isolamento dell'artefatto e la sua valutazione della pittura è legata al punto di vista unico della spiegazione genetica della applicazione del dipingere. L'artefatto si decompone nelle singole nonne particolari (li precedente è Mondrian) e mostra le condizioni interne per riferirsi al suo formarsi programmatico e rituale 36• La pittura sceglie come obbiettivo l'analisi delle condizioni della sua possibilità, diviene soggetto di rappresentazione reale, lasciando il linguaggio solo campo di indagine. Si tratta di una autoanalisi; il che pone prelimi­ narmente alla critica, come ricorda Menna, la domanda meto­ dologica posta da Carnap: se cioè sia possibile accertare le regole che governano la sintassi di un linguaggio senza uscire dallo stesso linguaggio 37• Per Carnap le possibilità autoanali­ tiche di un linguaggio dipendono dalla ricchezza dei suoi mezzi espressivi e Menna dice di difficoltà per un medium come la pittura meno logicamente articolato del linguaggio verbale. In realtà, la pittura ha articolazioni di livello di­ verso, ancora da chiarire, in ragione di una funzionalità differente, e non ci pare possibile, seguendo il modello della lingua, isolare un telaio strutturale di tipo puramente logico e convenzionale, che preceda l'impiego grammaticale e sin­ tattico dei suoi elementi, mentre sono da rivedere, per le arti figurative, col concetto di «segno» quelli di «testo» e «contesto». :È chiaro che- non solo non si può adattare la doppia articolazione del segno linguistico ad un tipo di lin­ guaggio che sembra richiedere altri livelli di analisi, ma nem­ meno la nozione normativa di codice trattandosi di opera­ zioni testuali su lessici in progress. :È proprio per queste ragioni che il tentativo di indagine linguistica della nuova pittura, nello sforzo di individuare delle unità minime signi­ ficanti vicine a quelle del linguaggio verbale, non riesce ad andare al di là del catalogo degli elementi materiali, tela e colore, in una sorta di nomenclatura in cui già i co_ncetti di « pennellata» e «stesura» escono dall'oggettivo, coinvol­ gono il modo del loro uso, le possibili tecniche del corpo della pittura, per dirla con Fossati, e rimandano ad «una» acce28


zione 38• Si tratta di una induzione semplicistica di· articola­ zione elementare priva di funzione referenziale, e in una sorta di livello ortografico più che sintattico, operazione questa tipica di una prassi fatta di riduzioni deduttive cui sfuggono, in parte, solo i francesi più dialettici. In tal modo, lungi dal penetrare il sistema della pittura mancando una risemantiz­ zazione degli elementi del fare pittorico si incorre, secondo Bernardi, nel pericolo di una morfologia elevata a sistema, col rifiuto non di una sintassi, ma ' della ' sintassi 39• Più avanti nel suo discorso, Menna propone il trasferi­ mento della distinzione di Carnap tra linguaggio-oggetto e linguaggio-sintattico in pittura a quella tra Peinture e Ta­ bleau, tra le ragioni della superficie e quelle della rappresen­ tazione (la cui dialettica analizza, cercando di tracciare una linea analitica della pittura moderna, iconica e no, a partire da Seurat). Ma, richiamando la distinzione di Prieto tra fi­ gure (unità di elementari prive di significato), loro combina­ zione in segni (unità significative elementari) e successiva­ mente in semi (enunciati iconici equivalenti alle frasi), non può esimersi, riguardo alla pratica pittorica che analizza gli elementi primari del suo linguaggio, dal citare Garroni che definisce la semplice scomposizione di unità più complesse in segmenti puramente materiali un approccio pseudo-se­ miotico, materiale e non formale 40• Inoltre va notato come nella maggior parte degli americani e in molti pittori ita­ liani (a differenza dei francesi) l'interesse per la specificità porti a restringere la nozione divenuta centrale di « con­ testo,. al solo testo pittorico41• La riduzione cli spessore, l'az­ zeramento rigettante ogni riferimento eteronomo all'azione del dipingere, sia rispetto a ogni simbolismo metaforico che a ogni articolazoine ideologica complessiva, risulta ancora una metafora, più che di una autonomia, di una separatezza sociale. D'altra parte, anche sotto il profilo della analiticità linguistica, l'operazione cli individuare dei significanti in pit­ tura isola solo un segmento del processo del significare, e questa riduzione alla materialità del significante si priva dei suoi moventi generatori: soggetto, funzione, significato. Come ha visto Julia Kristeva, la nozione di pratica significante 29


rischia di diventare una descrizione empirica e inerte dell'atto linguistico se esclude dei termini del moto dialettico di pro­ duzione linguistica, ricadendo nell'idealismo come « pratica materiale» significante fuori dei suoi soggetti storici: il fatto di prendere in considerazione la pluralità dei sistemi signifi­ canti e del loro carattere di pratiche, rischia di diventare una descrizione empirica, una nomenclatura, quando non ri­ torna semplicemente ai presupposti mentalisti che intendeva inizialmente evitare in mancanza di una teoria generale del­ l'attività significante... 42• Pertanto nell'ambito italiano la critica della postula­ zione di autonomia della pittura rimanda immediatamente, per la scarsa specificazione teorica delle ricerche, alle cause concrete di questa autolimitazione di campo, alle ragioni vere del ritorno alla professionalità, alla «ideologia», ai rap­ porti sociali. Ha osservato Pleynet che quando una disciplina tende a ripiegarsi su se stessa e sui suoi strumenti «scien­ tifici», nella difesa di una illusoria autonomia, sta in realtà obbedendo al decentramento ideologico operato dalla rivo­ luzione industriale 43. Tornando al discorso di Menna, dalla ricerca di unità elementari prive di significati denotativi e delle loro sintat­ tiche relazioni combinatorie procedono nella nuova pittura la letteralità, l'impersonalità, l'antillusionismo come antime­ taforicità e antipolisemia. Ma potremmo considerare, su un piano meno formale di quello, teorico, scelto da Menna, il tentativo autoanalitico della pittura come rivolto non tanto a determinare invarianti linguistiche, quanto a tentare di dipingere la pittura stessa nella oggettività di disciplina spe­ cifica e categoria storica mentale; notando che questo ten­ tativo è impossibile nella misura in cui ciò che è dipinto è comunque una metafora, l'immagine analogica di una idea di pittura o meglio ( di) una definizione di pittura. Dopo la rilevante annotazione che la nuova pittura nella sua concretezza fisica, costituita di un tempo-lavoro reale (l'esecuzione), stabilisce una relazione di ordine esecutivo con l'idea che ha fissato, a monte, la struttura dell'operazione 30 pittorica, Menna .ne inferisce che, nel rapporto idea-esecu-


zione-opera nonostante la concretezza materiale del procedi­ mento ( ... ) ciò che conta è soprattutto l'assunto iniziale, l'atto mentale che istituisce le linee del procedimento e gli stessi risultati da raggiungere 44; si compie, in tal modo, una ecces­ siva generalizzazione, giacché quanto vale per la Rockburne e Mangold o per Griffa non può similmente valere per Pozzi, per Olivieri e solo limitatamente può dirsi per Ryman, Verna, Devade distinti tutti tra loro su questo ed altri punti. Così che Menna, pur parlando di carattere assiomatico, de­ duttivo della nuova ·pittura deve ricorrere all'esempio rigo­ rosamente sistematico di Lewitt, pur rilevandone la posi­ zione atipica, anche rispetto al concettualismo, ma di rife­ rimento per l'intera area dell'arte analitica 45•

La situazione americana Quando da questo panorama teorico si passa ad esami­ nare la specifica situazione artistica si avverte come uno stacco e una sostanziale estraneità reciproca. Molti critici soprattutto italiani, sempre tentati dal demone idealistico, sono stati condizionati dall'esperienza del concettualismo e hanno cominciato a leggere minimal e nuova pittura come ap­ plicazioni pratiche dell'arte concettuale, che pure si è affer­ mata tardi, solo verso il '67-'68 46• Quest'ottica invertita in realtà trova qualche giustificazione nel fatto che le ricerche italiane in realtà trova qualche giustificazione nel fatto che le ricerche italiane sono tarde rispetto a quelle francesi e ancor più americane e che a livello di mostre e di consa­ pevolezza critica del fenomeno se ne è cominciato a parlare dopo il concettualismo, intorno al '72-'73. In America una tradizione astratta non espressionista, molto omogenea, risalente addirittura al soggiorno ameri­ cano di Mondrian dal '40 al 44 47, è stata messa nel giusto risalto proprio dalle esperienze più recenti 48, appoggiate dal mercato molto interessato al rilancio della pittura. Attraverso fasi diverse si è passati dall'adesione alle teorie neoplastiche 49 alla fusione, fra gli anni '40 e '50, di Mondrian e Matisse e all'uso del neoplasticismo come cor- 31





spessore, la trasparenza, i rapporti facciata-retro (San­ derson), tela-colore (Rosenthal e Tanger), perimetro-centro del quadro ( Buchwald), oppure la relazione fra zone con mani diverse di colore (Tanger, Pozzi) o fra quadri mono­ cromi con una sola stesura (Hafif). Si tratta per lo più di giovani che hanno cominciato la loro attività dopo il concet­ tualismo e hanno maturato una maggiore coscienza teorica dell'operare artistico: non a caso alcuni di loro scrivono di arte e sono attenti ai problemi teorici (Pozzi, Buchwald). Nella pratica hanno sviluppato la linea sperimentale di Ryman accanto a lavori sul paesaggio (Heizer) o di tipo concettuale con l'uso di scritte, film, foto.

La situazione francese e Supports/Surfaces 70 In Francia la nuova generazione 71, giunta in scena nel culmine della crisi artistica, quando ormai la società dei consumi si è consolidata, provoca la rottura di una situa­ zione chiusa in un provinciale nazionalismo. Isolatosi dalle esperienze prodottesi in USA e Gran Bretagna, il milieu ar­ tistico parigino si attardava nella distillazione della eredità lirico-astratta della ormai devitalizzata seconda Ecole de Pa­ ris ( informe!, tachisme, paesaggismo astratto) restando so­ stanzialmente intatto dalla aggressione dei Nouveaux réa­ listes. Rovescio di questo immobilismo era il modernismo meccanicista dell'arte op e cinetica diffusa dalla galleria Denise René. Secondo Jean Clair 72, la nuova generazione in luogo di saggiare la profondità dell'immaginario ricercando una in­ teriorità, non fa più che percorrere delle superfici per esten­ derle e delimitarle; ciò che l'opera persegue non è tanto la la fuga indefinita dei significati attraverso lo sparpagliamento dei segni quanto il funzionamento del sistema che essa impiega 73. Si passa dall'ordine della metafora a quello della metonimia e ad una sorta di interrogazione dell'opera nel su:o autonomo farsi come scrittura e lavoro secondo una esigenza specifica, cosa che trasforma il pittore da autore in lettore dell'opera. Questo cambiamento di clima e pro- 35


spettiva avviene intorno al '66 mentre ancora all'inizio del '65 i neo-figurativi con prestiti pop Aillaud, Arroyo, Recal­ cati, etc._ fanno scandalo e per essi si coniano i termini di anti-arte e non-arte 74• t:. tuttavia nel '67 al VII Salon che avviene la rottura: sotto uno striscione con la frase Buren Mosset Pannentier Toroni n'exposent pas, la tela a bande verticali dipinta cli bianco sui lati da Buren, quella dipinta a strisce orizzontali bianche e grige da Parmentier, l'anello nero al centro della tela vuota di Mosset e la impronta quadra di pennello a in­ tervalli regolari di Toroni, ben più che dei problemi dell'ico­ nismo o meno, fan giustizia di quelli del messaggio, della ' sensibilità pittorica e dell'individualità del pittore. Per ac­ centuare l'anonimato di opere già formalmente neutre 75 i membri del BMPT in mostre successive si scambieranno per­ fino la paternità delle tele 76• Sottolineando la provocazione negativa, Clair osserva che il gruppo BMPT implicitamente afferma da una parte la materialità della pittura fuor d'ogni contenuto apparente, dall'altra la specificità della pratica ar­ tistica fuori dalla relazione soggetto-predicato, entrambe ir­ riducibill per conseguenza a ciò che sarebbe una metafisica della comprensione 77; non rileva tuttavia la posizione del problema del contesto, socialmente e culturalmente conno­ tato, che viene dalla neutralità dei lavori in relazione al luogo di presentazione e che sarà da Buren saggiato costantemente nel prosieguo delle sue esposizioni in ambiti istituzionali e no 78• Miche} Claura scriverà che la pittura del BMPT non è più la benda che si mette davanti agli occhi dello spetta­ tore, che gli permette di non voltarsi sulla realtà 79• Diversa nell'angolazione la visione che Pleynet ha della si­ tuazione, condivisa da Peinture. Per Pleynet le ricerche della nuova generazione, estranea alla morente Ecole de Paris e collegata per contraddizione all'attivismo primi anni '60 che liquida la prima, sorgono dalla problematica postasi con la negazione-riappropriazione novorealista, con Klein, Raysse e con il negativismo avanguardista degli eredi di Duchamp (Bu­ ren, Ben, etc.). Resta da sapere, infatti, ciò che diviene la forma negativa dell'ideologia quando comincia a fare scuola 36



niche e i materiali della pittura. Questi ultimi (accusati di carrierismo) tacciano gli altri di empirismo e meccanicismo e si volgono ad elaborare una teoria materialistica del lavoro pittorico più rigorosa e politicamente discriminante (anli­ revisionismo) e fondano la rivista Peinture/Cahiers théo­ riques 90• La caratteristica originaria del lavoro di quanti nel set­ tembre '70 si trovarono a esporre sotto il titolo Sup­ ports/Surfaces è indicata da Bioulés nel catalogo: svilup­ pare la pittura come realtà materiale ( ... ) resa visibile nel suo stesso moto. Quattro anni dopo scrive ancora che un aspetto del moderno è mettere in evidenza Io sviluppo formale dell'esecuzione delle pitture, perché la pittura non è ridu­ cibile al mostrare né è solo da vedere, cosa che limiterebbe la sua percezione a un problema visuale 91• Mentre Bioulés si interessa della successione degli strati di colore sulla tela 92, Dezeuze fin dal '66 si occupa soprattutto della deco­ struzione del telaio 93• A questi rapporti diretti con gli stru­ menti e le materie prime, che scavalcano la colta istituzio­ nalità delle pratiche specifiche per ritrovarne un uso proprio, avverso alla strumentalizzazione iconica, suggerimenti sono forse venuti da Fontana e dall'arte povera che, per discorsi metaforici, usava le materie prime in senso proprio e non mimetico 94• Affatto caratteristico del nuovo clima in Francia è il rimando alla storia professionale in una prospettiva cri­ tica focalizzata sui modi operativi, le tecnologie artigianali, e la proposizione con ciò del problema del contesto in un ambito materiale, spaziale e storico-sociale più ampio della mera contestualità interna all'opera, tipica del fare ameri­ cano. Scrivono Beauffet e Ceysson che questi lavori si propon­ gono in un primo tempo l'inversione del processo creativo idealista, processo caratterizzato da una pratica speculare - dal pensiero verso la materia - privata ( ... ) di ogni potere di trasformazione 95 essendo la mimesi già formata da un co­ dice rappresentativo sicché non riproduce che le forze domi­ nanti la vita sociale. Invece questa pittura produce attraverso la decostruzione del suo proprio reale le condizioni della sua 38 trasformazione mediante un lavoro a partire dal materiale




con la scissione il gruppo che fonda Peinture e si collega a Tel Quel 1177 accentua sempre più riflessione teorica e im­ pegno politico, contrariamente agli altri che scelgono di lavorare in provincia quasi solo alla sperimentazione tecnico­ disciplinare. Un intervento di Devade, poco dopo la scis­ sione, riassume il progetto di Peinture e i suoi riferimenti culturali e politici: 1) Pratica sperimentale; 2) linguistica, semiotica; 3) pensiero/scrittura cinese come rivelatore in­ sieme a; 4) marxismo-leninismo; 5) pensiero di Mao Tse Tung; 6) psicanalisi devono permettere di produrre un certo numero di concetti costituenti la scienza della pittura, di produrre le armi di lotta contro l'idealismo e il suo corol­ lario, l'imperialismo 108• Un programma come si vede, molto ambizioso e che sembra superare l'annosa irrisolta que­ stione dei rapporti fra marxismo, psicanalisi e linguistica, senza dire del pensiero-scrittura cinese che completa il quadro. In realtà, se è possibile conciliare tutto ciò, è perché la teorizzazione non va ancora oltre qualche postulazione generica. Tuttavia Peinture si propone di definire teorica­ mente i criteri non di una pittura che sia essa stessa materia­ lista ma di una pittura che poggi su una concezione mate­ rialista del mondo e della società ovvero pittura che la teoria non isoli in .una autonomia trascendentale ma che sia l'effetto dell'attraversamento del tutto sociale, ma mediante i mezzi a lei propri e con la sua storia specifica... 1001• Pertanto, con l'aiuto delle nuove scienze, si deve svelare la dialettica sto­ rica con cui la tradizione idealista si oppone al fondo mate­ riale degli uomini (sessualità) e al fondo materiale stesso della pittura (soprattutto il colore per Devade), dialettizzare il processo della pittura, svelando ciò che la comprime, la filosofia idealistica cui si è sempre appoggiata. Viceversa restare nell'empirismo del discorso sulla pittura ( ...) come storia formale ed evoluzionista ( ...) esterna alla lotta di classe che produce questa storia� questa pittura 110 permette questa compressione. D'altra parte la negazione tout court della tradizione pittorica quale è perseguita dalla linea comportamentista-concettuale (Duchamp, Buren, Ben, Flu­ xus, Body) e dall'anti-arte è giudicata meramente sintoma- 41


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tica, indeterminata, utile al sistema, in quanto obbediente alla logica mercantile e consumistica del « nuovo » che ha trasformato l'avanguardia in un avanguardismo di pseudo­ rivoluzionamenti a ciclo continuo. Pertanto Devade polemi­ camente afferma: l'aspetto «convenzionale» (tela su telaio etc.) delle mie tele è conservato per superarlo perché si tratta di fare l'esperienzà dei limiti del linguaggio pittorico, e per essi di dissolverli-produrli attraverso il lavoro del suo fondo materiale, il colore m. :f=. la riscoperta del fondo mate­ riale della pittura che permette di risalire al fondo materiale (sessualità) dell'uomo e, rivoluzionando il livello sovrastrut­ turale, creare le condizioni ideologiche per mutamenti strut­ turali. II rapporto tra pittura e inconscio è strettissimo in quanto questo è il motore di quella, come appare dalle ana­ lisi di Pleynet cui Devade fa seguito. La dialettica costitutiva (biografica) fra il soggetto e il suo inconscio interviene sul linguaggio pittorico storicamente determinato, trasforman­ dolo 112• Pleynet ritiene che la valorizzazione sociale della pit­ tura si fondi proprio sul prodursi-sublimarsi di pulsioni ses­ suali arcaiche (orale e anale), la cui sublimazione è senza prezzo per il sistema repressivo della produzione di merci 113• Le sue letture della storia della pittura coniugano strumenti di analisi visibilisti nell'interpretazione francasteliana (centro sulle trasformazioni dello spazio e loro valore sintomatico, sociologismo) e strumenti psicanalitici rapportati continua­ mente a un'analisi materialista dell'economia del sistema ideologico e dei suoi spostamenti interni in rapporto al si­ stema economico u4_ In effetti questa concezione analitica fa centro sulle trasformazioni del linguaggio specifico, storica­ mente costituentesi, ma ogni volta aperto a più possibilità trasformative su cui agisce l'inconscio, a sua volta strut­ turato, secondo Lacan, come un linguaggio. In essa va sotto­ lineata la centrale nozione di possibilità e la disposizione ad analizzarla come campo problematico aperto dalla compre­ senza di fatti e delle loro virtualità. Siamo all'opposto della parafrasi dell'esistenza che non fa che usare le opere come illustrazione-dimostrazione dei propri giudizi di valore 115• Esaminando il senso delle trasformazioni avvenute in rap-



razione 125 e dunque con tutta la tradizione dell'astrattismo classico, ma anche con l'empirismo e il meccanicismo di Supports/Surfaces e dei suoi epigoni. Per parte sua, di contro, afferma che la funzione del disegno a partire dal formato è la possibilità di rendere leggibile il colore perché esso non sia solamente fuga indifferenziata in tutti i sensi 126• Vuole con ciò sfuggire ai limiti soggettivi dell'espressionismo astratto e ai pericoli di edonismo, che è tuttavia presente nei suoi quadri: in essi il moto pulsionale che attiva le geste de la couleur è riassorbito da un gusto raffinato, tutto fran­ cese, degli effetti cromatici e della profondità tache del co­ lore che si oppongono agli apparenti squilibri della composi­ zione, di recente fattasi più semplice e quasi araldica. Devade, che non considera «rappresentabile,. l'inconscio, ritiene la pittura non rispecchiamento ma il luogo dove passa una cor­ rente di transfert ( inconscio, colore, corpi, superficie, pen­ siero, spazio, storia del soggetto, storia sociale) e afferma che essa va pensata fuor d'ogni antropomorfismo non come espressione-riproduzione dell'io ma come processo di un sog­ getto, cioè suo rapporto con la storia 127• Quanto sia la pittura che il pensiero di Devade su di essa come conoscenza pos­ sano sfuggire all'antropomorfismo (dell'inconscio e del cer­ vello almeno) e al pericolo di futuri fraintendimenti in senso espressivo, non possiamo ora dire. Quello che è certo è che restano aperte le questioni sollevate da Bioulés, alle soglie del suo distacco dalla rivista Peinture: si domanda come esser teorico senza dipinger meno, dal momento che si tratta di convertire in scrittura, stornandola dalla pittura, una parte delle energie e pulsioni che assicurano la vitalità di quest'ultima; poi, si chiede come non tener conto che ogni ricerca teorica ricopre a sua volta un altro discorso inconscio e dimenticare che noi non possiamo liberamente « lavorare le nostre nevrosi ,. quando sono esse che ci lavorano ( ... ) Di più, pretendere di fare della Pittura un solo mezzo di cono­ scenza, cioè una scienza, sbarazzandola completamente degli effetti dell'ideologia, sottintende l'evacuazione del soggetto quale lo concepisce la psicanalisi, cioè agito dagli effetti del44 l'inconscio, o vederlo nel quadro di un pensiero fenomeno-


logico m; ciò non apparendogli possibile, la pittura sarebbe abbassata a falsa coscienza. La cura analitica, infatti, non modifica l'inconscio,· per­ mette solo di padroneggiarne gli effetti e i processi inconsci messi a nudo ritornano all'inconscio che ci agisce, luogo dove insiste l'immaginario 129 • Ora, se a Devade e Cane im­ porta meno il rango della pittura che la scientificità della teoria che si produce attraverso di essa, come conoscenza, niente la garantisce contro il pericolo di falsa coscienza, se non la capacità di autocriticarsi e di confrontarsi alla situa­ zione sociale. È quanto Devade fa 130, in parte, nel novembre '73 avvertendo i pericoli e l'equivocità per la pittura nuova della scelta-compromesso del circuito delle gallerie più com­ mercialmente avanzato in senso avanguardista e neo capita­ lista, che, solo al prezzo del riassorbimento mistificato dei prodotti nel sistema permette un'efficace propaganda al di­ scorso ideologico. Citando Mao, afferma perciò che in certe circostanze è la teoria che è l'aspetto principale da sviluppare (sulla base di una pratica), essendo le ideologie il freno prin­ cipale alla trasformazione dei rapporti di produzione e pro­ spetta la lotta su due fronti: contro il recupero ideologico­ economico dei piccoli monopoli capitalisti del circuito com­ merciale-critico e contro la proliferazione marginale d'ecto­ plasmi della pittura-pittura rn. Il pericolo di ideologia resta; ma come un dato che comunque, si pone per tuttL Quello che è rilevante per la pittura è il ritorno a una riflessione teorica autogestita, che si interroga sul senso, anche politico, di una pratica esplicitando il significato per il soggetto dei processi di mediazione tra il visivo e il logico (la logica della sessualità e quella della coscienza critica della storia della disciplina per Devade) producendone la coscienza, ideologica comunque, ma un po' più oltre della mera sottoscrizione del fenomeno oggi in uso. Ora, che questo impegno teorico valga proprio ai redattori della ri­ vista Peinture una posizione privileggiata, producente oltre che sul piano culturale anche su quello del mercato, può anche essere un osservazione banale, ma va notato come del sistema avanguardistico internazionale si avvantaggi per 45


primo Louis Cane, sicuramente meno consistente nella teoria quanto più appariscente nell'opera pittorica, nella logica della novità in cui, dopo più contraddittori e lenti inizi, appare oggi godibilmente fastoso e sufficientemente ameri­ caneggiante m_ Se in Devade è sempre presente una compo­ nente (ammessa-negata) di narcisismo, di sensibilismo nel colore, ben maggiore è ormai l'edonismo degli apparati di Cane. La contraddizione tendenziale e oggettiva tra le pra­ tiche dei due è tanto palese quanto taciuta dalla critica. Quanto agli interessati, Devade non la nega ma dichiara inopportuno politicamente, per la vitalità e incidenza del discorso condotto attraverso Peinture, metterla fin d'ora in luce.

Nota sulla situazione italiana Rispetto all'America e alla Francia la situazione italiana

è differente; qui si è continuato a dipingere ma con motiva­

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zioni diverse e rifacendosi a varie tradizioni: dall'informale (punto di partenza di Battaglia, Guarneri e Olivieri 133) al neocostruttivismo (Zappettini, Guarneri, Verna nella fase ini­ ziale e nell'ultima 134), al minimal (Aricò), all'arte povera (Diego Esposito 135) fino al recupero del filone americano di tipo atmosferico Rothko-Poons-Olitskj (Battaglia e Vago 136). Ora non c'è da stupirsi se, accanto a questi giovani, critici e mercanti hanno riscoperto artisti già noti da tempo, per solo fatto che hanno continuato a dipingere, come Dorazio, Calderara, Nigro, Scialoja. I tentativi più nuovi sono quelli aggiornati su Ryman e Marden· che isolano la superficie-sup­ porto da ogni immagine (non dalla visibilità), per renderla luogo di verifica dei procedimenti operativi (Verna nella sua fase centrale, Griffa, Cotani, Morales 137) l'opposto, cioè, del­ l'immagine-in-finestra e dei suoi significati evocativi, in ciò riducendo le valenze sinestetiche del colore. Per costoro è decaduta la nozione di quadro, l'opera ha perduto la sua aura, né si parla più di poetica ma di ricerca aperta e di opera come traccia di un'operazione che è stata fatta 138• Anche esteriormente talvolta scompare qualche elemento struttu-



Ma la pratica, privata della sua funzionalità rispetto a un contesto sociale, rischia di diventare una enfasi retorica del lavoro e dell'artigianato 145, una esaltazione indiscriminata del fare, non meno idealistica del vitalismo neoromantico dei comportamentisti come della deoggettualizzazione dei concettuali. I francesi di Peinture, d'altra parte, nel tenta­ tivo di sfuggire al pericolo di meccanicismo e di feticismo del lavoro producono un'ambiguità di duplice livello: in primo luogo, poggiando sulla psicanalisi il loro intento cono­ scitivo, possono riaprire un varco all'espressione come ten­ denza ad estetizzare il prodotto (rapporto pulsioni-colore, scarico di piacere sia pure in una sessualità surdeterminata e analizzata freddamente); in secondo luogo, tendendo alla critica ideologica storico-sociale attraverso una identifica­ zione di strumenti produttivi e forze produttive, finiscono col considerare quasi solo la genesi del manufatto e non il suo esito sociale (comunque di scacco anche per Buren). In realtà, come nota Prandstraller, la coscienza di una carenza funzionale dell'attività artistica vive come un malessere sot­ terraneo nella società attuale, ed è ancora presente in quanti non accettano il modo del mercato di attuare la mediazione con il pubblico 146• Da questo punto di vista il rifiuto della teoria di un Griffa e l'ossessiva, e spesso ridondante, teoriz­ zazione dei francesi Cane e Devade esprimono la stessa cat­ tiva coscienza borghese e l'imbarazzo di una fedeltà militante alla pittura e all'arte, nella non ignoranza di quella cattiva coscienza.

G. P. PRANDSTRAI.IJ'll, Arte come professione, Marsilio, Padova, 1974. Ibidem, p. 73. 3 A. TRIMARCO, L'arte dopo la filosofia (una riflessione), in • Propo-

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sta » n. 8/9, 1973. 4 Templon, Lambert. s In genere con l'astrazione « classica ». 6 Erano presenti tra gli altri delle ultime leve: André, Parker, Ban­ nard, Hout, Humphrey, Johanson, Martin, Poons. 7 Raccoglieva opere di Humphrey, Baer, Newman, Ryman, Mangold, Martin, Stella, Tuttle, Rockburne, Reinhardt, Novros, Kelly, Marden. s Corrispondente alla metodologia non storicista, organicista e psicologico-genetica degli studi di teoria e storia dell'arte in America.


9 Aricò, Battaglia, Calderara, Erben, Gaul, Geiger, Girke, Guarneri, Jochims, Leveret, Van Severen, Teraa, Verna, Zappettini; testi di L. Lam­ bertini e L. Vinca Masini. 10 G. DRUDI, La pittura come paesaggio, in «Data• n. 4, 1972. Il K. HONNEF, Geometria e colore, in «Data• n. 10, 1973. 12 Ibidem: dello stesso cfr. anche la presentazione alla mostra Geplante Malerei, Galleria del Milione, novembre 1974 gennaio 1975; erano presenti: Berthot, Calderara, Erben, Gastini, Gaul, Geiger, Girke, Gonschior, Graubner, Griffa, Guarneri, Ofschen, Mangold, Marden, Martin, Mields, Morales, Nigro, Olivieri, Renouf, Ryman, Van Severen, Tcraa, Zappettini, Zeniuk. 13 M. VOLPI ORUNDINI, presentazione alla mostra Glossario, Galleria Qui arte contemporanea, Roma, 1973; erano presenti sei italiani e sei americani: Aricò, Battaglia, Cotani, Griffa, Morales, Verna, Beli, Hafif, Kaufman, Marden, Ryman, Zakanych; il testo del catalogo è stato ripub­ blicato su « Fuoricampo» n. 4, 1973. 14 D. PALAzzou, Arte come arte e arte come processo, in «Data », n. 7 /8, 1973. 1s Fagone e Passoni hanno organizzato la mostra Fare piltura, Bas­ sano del Grappa, estate 1973; M. Fagiolo ha organizzato e presentato la mostra lo non rappresento nulla, io dipingo, Galleria La Città, Verona, febbraio/marzo 1973, con la partecipazione di Aricò, Battaglia, Griffa, Verna; il testo del catalogo è stato ripubblicato in «Fuoricampo» n. cit. 16 Ad esempio la ricerca di Aricò di una matrice architettonica nella pittura è assai lontana, nella critica della prospettiva, dal rifiuto di questa che appare acquisito agli altri e semmai lo avvicinerebbe, ma con difficoltà, al disegno di geometria topologica della Rockbume; per Aricò cfr. le sue dichiarazioni su « Flash Art» n. 46/47, 1974; G. CON· TESSI, li rigore dell'illusione di Rodolfo Aricò, in e Qui arte contempo­ ranea », n. 9, 1972. 11 V. FAGONE, La riflessione sulla pittura, in « NAC» n. 2, 1974; dello stesso cfr. pure Ripetizione o crescita?, in « NAC» n. 4, 1973, ripubbli­ cato in «Fuoricampo» in n. cit. 1s G. CoNTESSI, Pillura come progetto in « NAC » n. 1, 1974. 19 0. PALAZZOLI, op. cii. 20 G. CORTENOVA, presentazione alla mostra Un futuro possibile: la nuova pittura, Ferrara, settembre 1973, con la partecipazione, con altri assai meno pertinenti, di: Aricò, Battaglia, Cotani, Erben, Gastini, Gaul, Girke, Griffa, Guameri, Hoyland, Leveret, Marchegiani, Morales, Ryman, Teraa, Van Severen, Verna, Zappettini. 21 V. FAGONE, recensione alla mostra di Ferrara, Un futuro possibile ma augurabile?, in « NAC» n. 11, 1973. 22 G. CONTESSI, op. cit. 23 Ibidem. 24 Ibidem. 25 Per il primo, Poons, per i secondo Cordioli e Ciussi, per il terzo Olivieri. 26 G. CONTESSI, Nuova pittura. Arte concettuale, in «Flash art• n. 44/45, 1974. 27P. FOSSATI, Nuova pittura: Gastini e Griffa, su «Data• n. 10, 1973. 28 P. FOSSATI, Un ritorno alla pittura, in «Fuoricampo» n. cit.; nello stesso num. interventi di A. C. Quintavalle, G. Di Genova e A. Natali. 29 Ibidem. 30 Ibidem. 31 P. FOSSATI, op. cit., in «Data», n. cit. 32 G. CONTESSI, Lo spettro della pittura, in « NAC• n. 12, 1973.

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13 M. DE\1ADll, intervista di C. Millet, su « Arte Press • n. 9, 1974. :w M. DllVADE, Note sur la situation idéologique et politique en pein­ ture, in « Peinture Cahiers théoriques • n. 8/9, 1974. 35 M. VOLPI ORLANDINI, Conferenza sulle Strutture primarie e minimal art, tenuta alla Galleria Nazionale d'Arte Moderna, Roma, 8 aprile 1973. 36 G. CELANT, La pittura fredda europea, in « Domus • n. 527, 1973. 37 F. MllNNA, Per 1111a linea analitica dell'arte moderna, presentazione alla mostra La riflessione sulla pittura, VII Rassegna internazionale d'arte, Acireale, settembre/ottobre 1973; alla mostra hanno partecipato: Battaglia, Cane, Cohen, Cotarù, Devade, Erben, Esposito, Gastini, Griffa, Leverett, Marden, Morales, Nigro, Palermo, Pozzi, Reinhardt, Rockburnc, Ryman, Sanderson, Tanger, Umlauf, Vago, Verna, Viallat;. nello stesso catalogo cfr. anche I. MUSSA, Colore/ Tela/ Pennellata/ Pittura, e T. TRINI, Il quadro della pittura, oltre alle dichiarazioni di quasi tutti gli artisti presenti. 38 Secondo P. FossATI, op. cit. in « Fuoricampo• n. cit., si tratta di un « trucco» nel sostituire « agli elementi primari gli strumenti primari (colore, pennello, tela) della pittura•; si può dubitare che i moventi reali della nuova surdeterminazione della coscienza del dipingere ab­ biano centro in contraddizioni più reali che il formalismo della ideo­ logia semiologica; moventi che si manifestano come tensione a reiden­ tificare, partendo dagli strumenti e dalla pratica, un ruolo, uno statuto, una professione (il pittore) e una categoria storica (la pittura) minac­ ciati nelle funzioni che li costituiscono. 39 L. BllRNARDI, Contraddizioni della « nuova pittura», in « NAC» n. 6/7, 1974. -40 F. MENNA, op. cit. 41 G. CllLANT, op. cit., in « Domus» n. cit., è di opinione diversa sulla pittura fredda europea, ma si riferisce ad un ambito parzialmente di­ verso da quello qui considerato e vi estende connotati propri ai fran­ cesi di Supports / Surfaces e Peinture. Cita con Griffa, ad esempio, anche Palermo e Buren, centrale per il suo discorso che risulta nella nostra diversa angolazione piuttosto un erede di Duchamp fra concet­ tualismo e comportamento. 42 J. KRISTllVA, Semanalisi: condizioni di una semiotica scientifica, colloquio con J. Cl. Coquet, su « Nuova corrente» n. 59, 1972. ◄l M. PLEYNET, L'insegnamento della pittura, Mazzotta, Milano, 1974, p. 59, edizione originale L'enseignement de la peinture, Editions du Seuil, Parigi, 1971. 4-1 F. MllNNA, op. cit. 4S Un discorso analogo su un piano ancora meno specifico, andrebbe fatto per la posizione di Paolini in Italia. Vedi F. MllNNA, Sol Lewitt, un sistema della pittura, su « Data • n. 4, 1972. 46 Ad esempio il discorso di F. MENNA, op. cit., è tutto in una pro­ spettiva concettuale. 47 B. RosE, Mondrian in New York, in « Artforum » dicembre 1971. 48 Cfr. G. CELANT, catalogo della mostra Arte come arte, Milano aprile-maggio 1973; secondo C. Millet, non è casuale il silenzio che per anni nella critica c'è stato su Reinhardt e il filone minimal rispetto alla notorietà clamorosa che ha arriso ai pop-artistes: « Warhol ( ... ) è ben più facilmente recuperabile dalla società, che peraltro mette in stato di accusa, che non le opere mute di Reinhardt, di Tony Smith, di Ellsworth Kelly, Sol Lewitt ». In Ad Reinltardt, su « Flash art• n. 32/34, 1972. 49 B. ROSE, op. cit.; si tratta di llta Bolotowsky, Michael Loewc, Han-y Holtzman, Charmion von Wiegang, Fritz Glamer. so Ibidem.


51 Ibidem: « La preoccupazione di Mondrian della 'realtà' - filo­ soficamente contrapposta a 'rappresentatività' dell'opera d'arte fu ( ... ) il suo contributo centrale alla formulazione dell'estetica della scuola di New York»; va notato come in eccezionale anticipo anche sulle ori­ gini della tradizione americana negli anni '20, l'esperienza polacca di Strzeminski e Stazewski, col movimento unista traeva dal purismo conseguenze radicali, individuando con la pratica e con la teoria i punti nodali delle recenti ricerche, cfr. W. B0R0WSKI, Le musée de Lodz et l'avantgarde artistique polonaise, in « L'art vivant • n. 50, 1974. 52 A. REINHARDT, Twelve rules for a new academy, su « Art ncws •• maggio 1957, ripubblicate per estratti su The new art. A criticai antology, cd. da G. Battcock, New York, 1966; prescrivevano: niente struttura, nessun compiacimento calligrafico col pennello, nessun disegno, niente forme, niente progetto, niente colore, niente luce, niente spazio, niente tempo, niente movimento, nessun soggetto. Fra gli scritti recenti su Reinhardt vedi: C. MILLET, Ad Reinhardt, su « Flash art• n. 32/34, 1972; G. C. ARGAN, Ad Rheinhardt, la percezione non percepita, su « Data• n. 10, 1973; C. MILLIIT, Ad Reinhardt par Ad Reinhardt, su « Art press• n. 4, 1973. 53 G. CE.LANT, cat. cit.: « Lo studio delle leggi necessarie al pensiero artistico stimola in Reinhardt e Newman l'indagine sull'universo delle forme pure ( ...) le loro condizioni di esistenza oscillano da zero a infinito ( ... ). I dati azzerati e negativi vengono questionati da Reinhardt e i tratti infiniti e positivi da Newman •. Fra gli scritti recenti su Newman vedi: C. MILLIIT, Barnett Newman, su « Art press • n. I, 1973; P. RESTANY, Barnett Newman, su « Domus • n. 519, 1973. SI M. KozLOFF, Jasper Johns, Harry N. Abrams, New York. 55 C. MILI.ET, Kelly Noland Olitskj Poons Stella. Après l'expression­ nisme abstrait, su « Art press • n. 7, 1973. 56 D. CRIMP, Superfici opache, nel cat. cit., Arte come arte. 57 Per la prima cfr. C. MILI.ET, Donald Judd, Sol Lewitt: à propos du minimal, in « Art press ,. n. 2, 1973, e per la seconda, S. LEWIIT, Sentences on conceptual art, su « Art Language • n. 1, 1969 e R. BARILI.I, Le due anime del concettuale, su • Op. cit. » n. 26, 1973. 58 Cfr. ad esempio, R. Prncus WIITEN, Ryman, Marden, Manzoni, su « Artforum », giugno 1972. 59 C. VIVAIDI, Ryman e il neoinformale, in « Nac• n. 5, 1974; dove ne dà una lettura completamente informale. Su Ryman vedi anche: B. REISE, Senza titolo /, ll, lll, su « Studio intemational•, febbraio, marzo e aprile 1974; P. TucHMAN, intervista a Ryman, su « Artforum •, maggio 1971. 60 A. BONITO 01.IVA, intervista a Ryman, su « Domus• n. 519, 1973. Recentemente Bonito Oliva ha fatto un confronto fra le avanguardie europee e americane, Europa-America, su « Bolaffì arte• n. 47, 1975, in cui tende a radicalizzare molto la vecchia contrapposizione fra l'aspetto pragmatico dell'arte americana e quello più mentale e ideo­ logizzato delle ricerche europee. In realtà, rispetto al problema della nuova pittura, questa classificazione non regge più: come vedremo in USA l'ultima generazione ha una maggiore consapevolezza critica ri­ spetto alla precedente, e in Europa solo la Francia corrisponde all'im­ magine ideologizzata fornita da Bonito Oliva, mentre il resto non ha alle spalle nessuna ricerca teorica. 61 R. PINCUS WIITEN, op. cit. 62 D. CRIMP, Agnes Martin: numero, misura, rapporto, in « Data »

n. 10, 1973. 63 G. CELANT, Agnes Martin, in

«

Flash art,. n. 41, 1973; su Martin

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vedi anche: L. ALWWAY, Agnes Martin, A. MARTIN, Reflection, L. BARDEN, Early work, in «Artforum» aprile 1973. 64 C. MILLET, James Bishop, de la revision de quelques modernismes, su «Art press » n. 10, 1974. 65 Mangold dopo inizi vicini alle esperienze minimal, è passato ai pannelli di masonite coperti di un solo colore, che ha il compito di evidenziare il disegno geometrico apparentemente regolare, animato da sottili inganni ottici: cerchi che non si chiudono, circonferenze eccen­ triche rispetto al quadrato in cui sono inscritte e così via; su Mangold vedi ·1. MASHECK, A humanist geometry, su « Artforum», marzo 1974, e L. PozzI, Colore e superficie, su « Data» n. 10, 1973. 66 Dorothea Rockburne ha iniziato alla fine degli anni '60 e risente sia del clima concettuale che dell'arte povera. Dà molta importanza ai materiali, anche se non se ne lascia soggiogare: usa carta, legno, trucio­ lato, grasso, carboncino etc. Per le sue composizioni ricorre alla teoria degli insiemi della matematica e alle relazioni astratte del linguaggio verbale. Alcune sue opere sono organizzate come «set», cioè gruppi, classi e corrispondono esattamente alle relazioni linguistiche « se •• «o», «e,. e così via. Recentemente ha cominciato ad usare carta car­ bone su carta bianca con tracce di linee a matita che sono • il prodotto della misura, della forma e della relativa posizione del carbone e della carta bianca»; vedi B. BoICll, li nuovo lavoro di Dorothea Rockbumz, su "Data,. n. 7/8, 1973. 67 J. LICHT, An interwiew with Dorothea Rockburne, su • Artforum », marzo 1972, nello stesso numero vedi anche M. BOCHNER, A note 011 Dorothea Rockburne, e D. ROCKBURNE, Works and statements. 68 R. KRAus, un'intervista a R. Mangold, su • Artforum», marzo 1974. 69 Oltre gli artisti citati nel testo vi appartengono Berthot, Hart, Haubensak, Shapiro, Levinson, Hartschwager, Golberg, Dearing, Umlauf. Vedi L. Pozzr, Autopittura, su «Bolaffi arte» n. 40, 1974 e il catalogo della mostra Per pura pittura (III parte dedicata agli USA), a cura di G. Contessi, Centro La Cappella, Trieste, maggio 974. 70 Abbiamo ritenuto di dedicare maggiore spazio alle ricerche fran­ cesi in quanto sono meno note delle vicende americane e certamente più articolate e ricche di interessi teorici rispetto· alla situazione ita­ liana. Per quanto riguarda i riflessi che di questi problemi si sono avuti nel nordeuropea, bisogna dire che nelle varie aree non si presen­ tano situazioni omogenee, ma tentativi sparsi e frammentari che non ci è sembrato opportuno esaminare dettagliatamente. In Italia si sono avute notizie dei fatti nordeuropei attraverso la partecipazione di artisti inglesi tedeschi o belgi alle mostre: La riflessione sulla pittura, Per pura pittura, (la seconda parte dedicata all'Inghilterra), Un futuro possibile, Geplante Malerei.

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11 Uscita intorno al '62 dalle Beawc Arts di Parigi e dalla Provenza soprattutto. 7Z J. CLAIR, Art en France. Une nouvelle génération, Chene, Paris, 1972; sulla situazione francese in generale vedi anche A. TRONCHE.", L'art actuelle en France. Du cinétisme à l'hyperréalisme, Balland, Paris, 1973. 73 Ibidem, p. 23 e 25. Cfr. J. DERRIDA, De la grammatologie, Ed. de Minuit, Paris, 1967, ed. ital. Jaca Book, Milano 1969, stralci della prima parte su « Critique» fin dal '65. 74 Ibidem, p. 13. 1s Ibidem, p. 18;, Clair equivocamente ne parla come di un • forma­ lismo assoluto •· 76 Sull'attività del BMPT cfr. O. HAHN, La mort supposée de l'art, su e Art press ,. n. 12, 1974.


n J. C�IR, op. cit., p. 16. Per questa metafisica vedi anche J. DER· RIDA, Op. Clt., pp. 14-17. , 78 Esso costituisce la tangenza concettuale del lavoro di Buren, a 11 �poca forse non del tutto consapevole. Oggi l'artista pur rifiutando gm parentel<;1 �on ! concettuali (ma ancor più con la nuova pittura) �he acc_ usa d1 1deahsmo per la materializzazione dell'opera e la sua . S<;>slltuz1one con documenti in sé irrilevanti e permutabili dichiara di. <;1ver esp�sto insieme a concettuali perché interessato al' rapporto cn,llco �h� 11 suo lavoro istituiva sul loro: da un colloquio avuto ali esposm�me alla Modem Art Agcncy. Napoli, dicembre 1974. Su Burcn vedi: D. BUREN, Mise en garde n. 3 in « VH 101 » n · 1 ' 1970·' D. BUREN, Posizione-proposizione, su « Da la�. n. 5/6, 1972. 79 M. CIJ\URA, catalogo della V Biennale di Parigi, settembre 1967. 80 �- PLEYNCT, Forme et couleur découpées de la peinture de Louis Cane, m « Art press » n. 3, 1973. 81

Ibidem.

82 ��IR, op. cit., p. 17; questa espressione è spia della lettura evoluz1omsttca e non dialettica, rimproveratagli da Peinture. � _un es�mpio _ della ricerca di fonti antiche della attuale pittura anah�1ca è I . mtervista a L. Cane, M. Devade e D. Dezeuze, On va partir de Cezanne, su « Artitudes », n. 6, 1972. 8-1 J. CLAIR, op. cit., p. 18. 85 Ibidem, p. 99; l'enunciazione di Clair in proposito è però molto schematica. Il riferimento ad Hantai è palese in Rouan e producente anche per Viallat e Jaccard. 86 Alla lmpact di Ceret, oltre al BMPT si trovano Bioulés, Rouan, Viallat, a cui nel '67 al Festival delle Arti Plastiche si aggiunge Dezeuze. 87 Compaiono Della, Pagès, Saytour, Pingemin, Cane e infine Valensi. 88 Spesso ospitati da Ben a Nizza. Bisogna notare che la contrap­ posizione capitale-provincia è un dato culturale tipicamente francese, risalente almeno agli anni del nouveau réalisme. 89 Appoggiandosi a una galleria a conduzione manageriale avanzata come la Templon. 90 Il teoricismo e l'esclusivismo politico della linea di Peinture di fatto gestita da Cane e Devade, porterà nel 72 al distacco prima di Bioulés e poi di Dezeuze. Intanto in Provenza emerge Isnard e a Parigi Jaccard e il già noto per lavori teorici concettuali e sociologici, Kirili. I primi due sulla linea di lavoro di Rouan, Viallat, Della e Valensi, il terzo più prossimo all'ambiente teorico di Peinture e inte­ ressato a verificare il rapporto segno-colore. In posizione indipendente sono la messicana trapiantata a Parigi Edda Renouf e Cristian Massot che lavorano la trama della tela. 91 Nouvelle peinture en France-pratiques I théories, mostra itine­ rante nei musei di St. Etienne, Chambéry, Lucerne, Aachen, Bordeaux. Sono presenti: Bioulés, Dezeuze, Dolla, Jaccard, Meurice, Pagès, Pin­ cemin, Saytour, Valensi, Viallat. Cane e Devade invitat_i hanno rifiutato per ragioni ideologiche. Catalogo con premessa d1 J. Beauffet e B. Ceysson, prefazione di C. Millet e testi degli espositori. 92 Bioulés tende la tela al telaio in piano; la divide in campi con nastri adesivi e vi distende il colore come successione di strati, esi­ bendo didatticamente per smontare l'illusione naturalistica di profon­ dità gli effetti ricavabili dall'impiego del pennello in vari modi. Il suo lavoro nel colore sembra riproporre, fuor d'ogni icona, nell'esibizione esemplare della pennellata il tizianismo di Jasper Johns. 93 Dezeuze si serve di mescolanze di pigmenti e ricoprimento di superfici, oltre che della d�ostruzio�e. del telaio i_n sottili �ame!Je di legno congiunte in un reticolo fless1bile e potenzialmente infinito, a 53


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volte parzialmente dipinto; l'analisi sul telaio, che ne esibisce nuove virtualità dì impiego spaziale e ne conosce topologicamente la natura pieno/vuoto, concavo/convesso), è accompagnata da un'analisi teorica e politica sulle valenze ideologiche e psicanalitiche della tecnica di impiego degli strumenti nella pittura antica; vedi D. DEZllUZll, Sit11atio11 et travail du groupe Supports/Surfaces, in « VH 101 » n. 5, 1971; per le ragioni del suo distacco da Peinture vedi le sue dichiarazioni in Sainte Catherine de Millet vole au secours de Supports/Surfaces, in « Artitudes », n. 8/9, 1972. 9-1 Per Dezeuze in particolare è testimoniato un interesse verso i feltri di Robert Monis, poi trasferito a Viallat. 95 J. BEAUFFET e B. CEYssoN, Avant-propos, nel catalogo Nouvelle pei11111re en France cit. 96 Ibidem. "'Ibidem. 9S Su Valensi: A. VALENSI, Pl'Opositio11s. Notes pour 1111e rec/1erclir., in « VH 101 » n. 5, 1971; su Dolla: B. Li\MARCHE-VADEL, Noiil Dolla, su « Art press • n. 16, 1975; nello stesso numero vedi anche S. Cow,1, Vivian Isnard. 99 I riferimenti culturali sono prevalentemente nella linea francese dell'arte da Cézanne e Matisse ad Hanta'i a Parmentier e Toroni e in contiguità di lavoro con Dezeuze e Rouan. C'è inoltre un dichiarato ma generico interesse per l'all over di Pollock e la sua derivazione dalle sabbie dipinte Navajos e la pittura su tela non apprettata di Noland; vedi intervista nel catalogo dell'antologica di Viallat al Museo di St. Etienne, dicembre 1974. 100 Ibidem; su Viallat vedi anche C. VIALLAT, Notes de travail, in « VH 101 » n. 5, 1971; A. TRONCHE, Viallat, in « Opus international », n. 46, 1973; C. STOULUG, Claude Viallat, su e Art press » n. 4, 1973; C. VIALLJIT, Penser la peinture, su « Art press• n. 4, 1973. 101 Il modo mediterraneo di imbiancare le cucine con un procedi­ mento di impronta gli apparve appropriato alla tela non tesa, impli­ cante cioè l'impressione di una forma casuale: estratto da Fragme111s, in pubblicazione da J. Fournier, comparso su « L'art vivant• n. 49, 1974. 102 ]. LEPAGE, Peinture: peinture? in « L'art vivant » n. 49, 1974. 103 J. WAGE, presentazione alla mostra antologica di Vìallat cit.; pertanto considera regressivi tutti i ritorni alla tela tesa avutisi in Francia nel 71. Questi massimalismi storiografici ci paiono esprimere la risacralizzazìone dì un'operazione brutalmente eversiva di inveterate abitudini culturali, riacculturandola precocemente per accettarla. 1 04 Ibidem. 1os M. PLEYNET, op. cit., p. 253: « questo modello dell'impronta ripe­ titiva ( ... ) rinvia ad una infinità della superficie che richiede, per essere del tutto convincente una certa proporzione tra l'impronta e le dimen­ sioni della tela, in mancanza della quale ( ...) l'impronta si sostituisce come forma, e si finisce per ritrovare il quadro proprio là dove non ce lo aspettavamo,;� non a caso nei lavori recenti di Vìallat sì notano involuzioni nel senso di una esornativa policromia nelle impronte e con graduazioni alla Cane che lo portano verso le banali riduzioni della sua opera effettuata da epigoni come Ristori. 106 Oltre Ristori Barre, Péricaud etc. 101 I rapporti di Devade con « Te! Quel• sono molto precoci: pub­ blica sue poesie nel '64, prima della politicizzazione della rivista, e dal '67 rimane in contatto per la riflessione sulla pittura. Supports/ Surfaces stabilisce i rapporti con la rivista intorno al '70: da un col­ loquio con Devade in occasione della mostra alla Galleria Rumma, Napoli, marzo 1975.


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M. DEVADE, Pourquoi une revue?, in « VH 101 • n. 5, 1971. M. DEVADE, Come vedere la Cina in pittura, in « Peinture • n. 2/3,

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Ibidem.

111

Ibidem.

1972.

M. DEVADE, intervista di C. Millet, in « Art press • n. 9, 1974. M. PLEYNET, Il sistema di Matisse, saggio di prospettiva genetica del '70-'71 in L'insegnamento della pittura, cit. M. PLEYNET nell'Elogio della pittura, in «Data» n. 10, 1973, affer­ ma, ad esempio: « t:. impossibile fare il conto delle forme ideologiche in cui rientra il sovrappiù sessuale. Sembra tuttavia che esse si fissino più o meno tutte nell'ambito del concetto di spazio»; in Perché la pit­ tura, su « Peinture » n. 2/3, 1972, ritiene che la riuscita sociale della pittura poggi « sul (suo) carattere di rappresentazione (...) sulla quale di conseguenza il soggetto investe una organizzazione narcisistica (cioè postornle e postanale) •· 115 Vedi M. DEVADE, La peint11re vue d'en bas, in « Peinture » n. 8/9, 1974; in cui l'artista polemizza con l'empirismo della critica americana. 116 M. DrovADE, Passages, catalogo della personale da Templon, Parigi, 1974. 117 Intervista di C. Millet cit. 118 La Kristeva e Pleynet non privilegiano sugli altri aspetti formali­ materiali (spaziali e segnici) il colore come base pulsionale/materiale della pittura quanto sembra fare Devade, per difesa forse da tentazioni informali gestuali e per polemica contro la concezione artigianale del fare che promana dai seguaci « provenzali • di Supports/Surfaces. Ma Devade stesso a nostra domanda ammette che la sessualità, anale soprattutto, in pittura, si manifesta in modi diversi presso altri pittori. ad esempio nella grafia-gesto di Twombly. In generale ritiene che contro il ruolo liberante pulsioni giocato dal colore « tutto il proce­ dimento ossessionale che c'è nella pittura passa per la forma»: dal colloquio cit. avuto con noi da Rumma. 119 Intervista di C. Millet cit. 120 M. DE.VADE, op. cit., Templon, 1974. 121 Intervista di C. Millet cit. 122 M. DEVADE, op. cii., Temp)on, 1974. 123 J. KRISTEVA, Espace Giotto, in « Peinture • n. 2/3, 1972; per l'ana• lisi dell'organizzazione spaziale si riferisce al testo di J. White, Nascita e rinascita dello spazio pittorico, trad. ital. Il Saggiatore, Milano, 1971, che cita. 124 Ibidem; la Kristeva partendo dal rilievo di Freud di una scis­ sione tra percezione e pensiero mediata dalla rappresentazione-parola, nota in quest'ultima un carico pulsionale di triplo registro indicante: un di fuori/legato al proprio corpo/segno (significante). Questo triplice carico di investimenti narcisistici più che un segno è un « dispositivo formale » di processi primari elementari di spiazzamento, ripetizione, condensazione, giocante sulle possibilità di una lingua. Analogamente si può dire del colore « articolantesi su tale triplo registro per l'ambito della percezione visiva: carico pulsionale legato agli oggetti esterni/ stesso carico pulsionale occasionante l'erotizzazione del corpo proprio via la percezione visiva e la gestualità/inserzione di questo carico pul­ sionale, sotto l'impatto della censura, in quanto segno di un sistema ideologico ». 125 Intervista di C. Millet cit. 126 Ibidem; Devade divide la tela bianca d'imprimitura industriale, che lavora in orizzontale, in campi geometrici secondo combinazioni di moduli a partire dal formato, ciò vale come convenzione cosciente 114

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che il colore deve contraddire. Nelle zone che destina al colore, lo cola liquido (sono inchiostri trasparenti) in pozze che poi stende col pen­ nello, lasciando corso alle irregolarità di assorbimento comportate dalla trama e dalla liquidità semovente del liquido. L'operazione è ripetuta alcune volte e le sovrapposizioni ultime (talvolta di colore diverso) avvengono, inclinando la tela, per colatura del colore sul sottostante ancora fresco, ottenendo un libero gioco di velature e diffusioni. Su Devade vedi anche: M. PLEYNET, Quelques problèmes de la peinltlre moderne: Mare Devade, cat. della mostra da Templon, Parigi, giugno 1972. 127 M. DEVADE, Passages, cit. 128 V. B10uw, Un texte oìt me situer? ..., in « Peinture » n. 2/3, 1972. 129 Ibidem. l.30 M. DEVADE, Notes sur la situation idéologique et po/itique en peinture, in e Peinture • n. 8/9, 1974. 131 Ibidem. 132 Louis Cane nel '66-'67 dipingeva con tecnica gestuale carte che poi ritagliava in strisce sottili e incollava in fogli più grandi, nel '68-'69 si è rivolto alle avanguardie fine anni 'SO e ha cominciato a coprire le tele con la ripetizione del suo nome, mediante un timbro. Dal '70 ha cominciato la riflessione teorica e alla fine del 70, ripensando la lezione di Pollock sulle superfici dipinte à plat, e quella di Rothko sul colore, decide di abbandonare il telaio e dipingere grandi tele (lenzuoli) che dispone in modo da coprire una parte del muro e il pavimento, con la graduazione sfumata di un unico colore fino al bianco del fondo. Su Cane vedi: D. Dezeuze e M. Devade, presentazione alla mostra da Templon, febbraic>-marzo 1971; M. PLEYNET, op. cit., in • Art press » n. 3, 1973; nello stesso numero anche l'intervista a Cane di C. Millet; inoltre L. CANE, Per terra, piegata, con il colore, su «Data• n. 7/8, 1973; L. CANE, Qualche contraddizione nel campo della pittura, dichiarazioni del 1973, ciclostilate dalla Galleria Rumma in occasione della personale del 1973. 133 Su Battaglia: T. TRINI, Finché la luce sostituisce il colore, su «Metro• n. 16/17, catalogo della Galleria Peccolo, Livorno, 1972, con ampia bibliografia; C. BATTAGLIA, dichiarazione su • Flash art » n. 39, 1972; G. BAUO, Ambiguità visionaria, su • Arte Milano•. marzo 1973. Su Guarneri: catalogo della mostra alla Galleria Morone, Milano, novembre-dicembre 1974, con ampia bibliografia. Su Olivieri: C. Ou­ VIERI, lA continua alterità, su « Data• n. 9, 1973; C. OLMERI, dichiara­ zione su e Flash art• n. 48-49, 1974; D. PALAzzou, presentazione alla mostra presso Stufidre / Arte contemporanea, Torino, febbraic>-marlO 1975, organizzata in collaborazione con la Galleria del Milione di Milano; nello stesso cat. breve dichiarazione di C. Olivieri e bibliografia. 134 Zappettini, Gaul e Olivieri nel num. unico del 1974 della rivista « Paint• hanno presentato con dichiarazioni le loro posizioni mode­ rate, da pittori e classici•• mantenendosi per lo più sulla stessa linea critica di K. Honnef. Su Verna: C. VERNA, intervista di M. Volpi Orlan­ dini, su e Marcatré" n. 37/40, 1967;, C. VERNA, Quale pittura?, dichiara­ zione su « Flash art• n. 38, 1973; Come e perché dipingono, intervista a Battaglia, Griffa, Verna su e Data• n. 7/8, 1973; cat. della mostra presso Stufidre/Arte contemporanea, ottobre-novembre 1974, organizzata in collaborazione con la Galleria del Milione di Milano, con ampia bibliografia. 135 Su Diego Esposito: Pitture, su «Data• n. 10, 1973; D. ESPOSITO, dichiarazione su e Flash art• n. 44-45, 1974; L. M. VENTURI, Diego Espo• sito, e Chisel Book •, voi. 8, ed. Masnata, La Bertesca Genova/Milano, 56 maggio 1974.


136 Su Vago: cat. della mostra della Galleria Morene di Milano, maggio 1973, con bibliografia. 137 Su Griffa: M. FAGIOLO, Giorgio Griffa, su « Arte Milano » n. 2, 1973; T. TRINI, Giorgio Griffa, su « Art press » n. 15, 1975; E. CRISPOLTI, intervista a Griffa, Gastini, Magnoni, presentazione alla collettiva presso lo Studio d'arte Condotti 85, Roma, gennaio 1975. Su Cotani: G. CORTE· NOVA, Cota11i: una discussione, su « Flash art» n. 46-47, 1974. Sulla Mo­ rales: N. PONF..NTE, L'assoluto di una semplificazione, in « Qui arte con­ temporanea» n. 11, 1973; C. G. MORALES, dichiarazione neJ. cat. della personale alla Galleria Ferrari, febbraio 1974; N. PONENTE, presentazione alla mostra presso lo Studio d'arte Condotti 85, Roma, novembre­ dicembre 1974. 138 G. Griffa, dichiarazione in G. P. PRANDSTRALLER, op. cit., p, 114. 139 Vedi intervista a Paolini di C. LoNZI, Autoritratto, Dc Donato, Bari, G. CruNr, Giulio Paolini, Sonnabend press, Parigi, 1972; T. TRINI, Paolini: un decennio I parte, in « Data » n. 7 /8, 1973, e Il parte in « Data» n. 9, 1973; N. ORENGO e G. PAOLINI, Dipingere la pittura, in Fuoricampo n. 2, 1973; T. TRINI, Giulio Paolini, su « Art press" n. 4,

1973.

140 E. Crispolti, nell'intervista cit. per la mostra allo Studio Con­ dotti, riferisce questo giudizio come espresso da C. G. Morales. 141 f:. uno dei temi di fondo di G. P. PRANDSTRALLER, op. cii.; in propo­ sito cfr. l'intervista a Dorazio di Falzoni, Grassi, Rosselli, Gelmetti, Rubini, Bortolotto, Battisti, Di Vito, su e Marcatré" n. 16/18, 1965. 1◄Z Ibidem, p. 105. 143 Ibidem, p. 114. 144 G. Griffa, lettera aperta a Politi su « Flash art " n. 24, 1971. 14s P. FOSSATI, op. cii., in «Fuoricampo" n. 4, 1973. 146 Vedi le dichiarazioni di Olivieri e Morales in G. P. PRANDSTRALLER, op. cit., pp. 119-120.

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Università: le parole e le cose FRANCESCO RISPOLI

Le epoche storiche potrebbero quasi essere classificate per ll tipo di costruzione che è l'archetipo o il paradigma - secondo il punto di vista - di tutto quello che viene co­ struito in quella età. Così fu il tempio per l'antica Grecia, la città in genere per Roma repubblicana e i bagni per Roma imperiale, la cattedrale per il medioevo, il palazzo per il di­ ciassettesimo secolo e così via fino ad arrivare all'agglome­ rato d'abitazioni del periodo 1920-40. E per noi, oggi, è l'Uni­ versità 1•

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Questo giudizio di Rykwert appare sempre più ' cen­ trato', nonostante la sua perentorietà, allorché si considera che, a partire dagli ormai lontani anni cinquanta, la inci­ denza della tematica universitaria è divenuta man mano più forte ai vari livelli (riflessione teorica, ipotesi e analisi socio­ logiche, proposte progettuali), e che in prospettiva questo stesso tema, proprio per la sua capacità di coinvolgimento generalizzato, continuerà a costituire un ' nodo' problema­ tico con cui dover fare i conti in vista di bilanci - più o meno provvisori, più o meno strettamente disciplinari che investano insieme passato prossimo e futuro remoto della nostra società. Che « Op. cit. ,. quindi, a distanza di cinque anni 2, ritorni sull'argomento università, non può certo stupire. Inoltre, anche se sugli stessi aspetti allora affrontati sarebbe oggi


in qualche misura possibile riprendere il discorso in termini originali, di fatto invece il taglio che si è preferito dare alla presente rassegna è alquanto diverso. Da un lato, infatti, ci proponiamo qui di fare il punto sulla problematica che sta a monte del fatto progettuale, cercando di mettere in luce, per quanto è possibile, diversità di contenuto - a volte anche profonde - cui può invece corrispondere ( e di fatto in taluni casi corrisponde) un'' etichetta ' unica, trattandosi in sostanza di più significati veicolati da un medesimo signi­ ficante. Dall'altro lato, e contrapponendole implicitamente una ben nota 'realtà di prassi ', tipicamente inglese, vor­ remmo tentare qui un esame di quella 'realtà di teorie ' che è la situazione italiana, analizzando alcune ipotesi progettuali che ci sembrano particolarmente significative proprio alla luce del discorso, prima richiamato, sul significato e sul ruolo che la struttura universitaria assume, calandosi in spe­ cifici contesti socioculturali e ambientali. Di conseguenza, anche se apparentemente articolata attorno a due temi fon­ damentali, questa rassegna si propone di svolgere un di­ scorso unitario, nella misura in cui gli asserti e le proposte che emergono dal panorama di ipotesi progettuali su cui si incentra la seconda parte, vanno ' letti ' - e trovano il loro reale' significato ' - alla luce dell'analisi svolta nella prima. O almeno, questo è stato il punto di vista dal quale si è cercato di collocarsi; essendo convinti, in ogni caso, dell'opinabilità di molte tra le affermazioni che riporteremo, meritevoli cia­ scuna di uno specifico dibattito, che meglio ne potrebbe chia­ rire e mettere a confronto i più generali presupposti. E cer­ tamente il discorso che affronteremo non ha velleità defini­ torie, ma, per quanto possibile, vuole 'discernere ' dei punti di tendenza, che sono poi il principio attivo della ricerca e della sperimentazione. A fare dell'Università « l'archetipo istituzionale del nostro tempo », ad attribuirle valore paradigmatico nei confronti dell'intera opera architettonica è essenzialmente la mutata dimensione quantitativa, e di riflesso qualitativa, che con­ ferisce oggi all'università un ruolo particolarmente impor­ tante nei processi di assetto territoriale. Di qui l'esigenza di 59


individuare una chiave di progettazione relativa alla qua­ lità e al tipo dell'architettura dell'università in relazione non solo al suoi contenuti quantitativi o funzionali, ma soprat­ tutto ai suoi significati 3• Che tale esigenza sia avvertita con diversa ansia dai go­ vernanti dei differenti paesi, lo dimostra il consuntivo del­ l'edilizia universitaria negli anni del dopoguerra. Di fronte ai vari interrogativi che comporta l'intrapresa di una politica di rinnovamento e di potenziamento delle strutture univer­ sitarie - interrogativi circa la localizzazione, il numero, la qualità, il tipo - gli atteggiamenti dei vari paesi, che pure vedevano porsi il problema pressoché in contemporaneo, sono stati talvolta estremamente diversi; essi oscillano tra due casi limite: da una parte la situazione italiana, dove fin troppo spesso arrogate tradizioni di impostazione critica hanno procurato ai politici un comodo alibi nel dilatare i problemi oltre misura alla ricerca di una soluzione ottimale; dall'altra l'esperienza inglese, dove la forza di consolidate tradizioni di impostazione pragmatica ha condotto ad ope­ rare intorno ad un'idea base consistente nella previsione di università di dimensioni tali da consentire una massima spe­ rimentazione sia negli organismi architettonici che nei me­ todi: solo cosi esse rappresenteranno dei centri di rinnova­ mento atti ad assolvere i bisogni, sia a breve che a lungo termine 4. D'a"ura parte, in Inghilterra si verifica un incontro dia­ lettico tra esigenze pianificatorie a livello nazionale, ed ini­ ziative locali che non si mortificano a vicenda. Ciò parti­ colarmente perché le università sono dotate di un'ampia autonomia nello stabilire i loro programmi e nel sollecitare la partecipazione degli enti locali. La classe accademica as­ sume un atteggiamento sperimentale nei confronti dell'istru• zione superiore sì da rendere la progettazione di ogni nuova università, in un certo qual modo, un fatto sperimentale 5• Sarebbe tuttavia ingeneroso, nei confronti della scuola italiana di architettura, non riconoscere il suo sforzo, spes­ sissimo frustrato in sede politica, di considerare il modello 60 di università non un fatto assoluto, da realizzare una volta


per tutte, ma un fatto relat ivo, da scegliere e da mutare 1n base alle esigenze concrete che si sviluppano dalla dialettica fra l'assetto port· 1 1co-sociale esistente e quello a-uspicato, che qualifica il modello 6_ · L'o peraz1o ne d1· feed-back diviene una costante del nuovo processo architettonico e, in una realtà così estrema­ mente 'cinetica ', essa mette continuamente in crisi assunti e d esperienze: l a formulazione di paradigmi, quando non è _ gratuita, è rapidamente contraddetta. L'ignorare il valore di una tale sperimentazione sortisce effett i estremamente dannosi, tali da porre l'Italia in coda al gruppo dei paesi impegnati in questo sforzo di adegua­ mento del le vecchie strutture alle nuove esigenze e qualita­ tive e quantitative. L'università diviene quind i segno tangibile sul terri torio della effettiva vol ontà di cul tura e, conseguentemente, di progresso di una nazione: essa può benissimo prosperare indipendentemente dalla struttura edilizia di cui si serve; m a la qualità architettonica di una sede universitaria costi­ tuisce la palese testimonianza dell'importanza che un regime politico attribuisce all'istituzione universitaria 7• I diversi significati, nei differenti contesti in cui l 'uni­ versità si colloca, derivano da due divergenti impostazioni scaturienti, l a prima, da assunti secondo i quali _ il compito dell'università si esaurisce con la produzione del laureato e, la seconda, dall'esigenza di un più attento sguardo alla realtà in un processo di tendenza verso una 'scolarità' perma­ nente. La concezione di un'università intesa come un'organiz­ zazione pubblica che serve soltanto ai bisogni tecnici della società; cioè una fabbrica per la produzione della conoscenza e dei tecnici necessari a mandare avanti le varie burocrazie della società a, tipica di modelli di programmazione rigida­ mente dirigistica, segna 'il passo di fronte ad una società che richiede individui non vincolati ad un unico settore di studio, ma aperti ad una critica sempre vigile, capaci di co­ gliere i rapporti tra le varie specializzazioni in un continuo arricchimento delle proprie esperienze. Occorrono quindi università nelle quali le facoltà siano abolite e sostituite da

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continui scambi interdisciplinari; ...l'organismo universitario non è più settoriato in edifici indipendenti corrispondenti ai vari corsi di studio, (le facoltà), ma organizzato in com• plessi compatti ed urbanizzati 9•

La coscienza di tali esigenze non si è tuttavia, fino a questo momento, tradotta in risultati sostanziali sul piano pratico, per cui, ripercorrendo il cammino delle realizzazioni universitarie dalle più antiche alle più recenti, è possibile astrarre, pur nella diversità dei linguaggi architettonici ado­ perati, certi canoni che informano tanto gli antichi qua­ drangles quanto i campus e i Centri Universitari di oggi: si tratta infatti di strutture che, per il presupposto della contemporaneità dell'emissione e della ricezione dei messag­ gi educativi, che devono avvenire in un unico luogo, - l'edi­ ficio universitario -, rinviano a modelli improntati all'au­ tonomia, alla privatizzazione e all'incontaminazione nel senso che le attività sono rivolte prevalentemente all'osservazione di fenomeni che non hanno diretto rapporto col contesto immediatamente circostante 10•

, Il nuovo modello nasce dall'inversione di quello prece­ dente e dovrà quindi essere: non autonomo, e cioè permea­ bile e collegato al suo esterno; diffuso nel tempo e nello spazio...; pubblico... ; coinvolto nel contesto circostante. Agglomerando i caratteri enunciati, si può dire che dal punto di vista fisico-spaziale il nuovo modello universitario

deve dar luogo ad un organismo aperto e diffuso; o in altre

parole, deve dar luogo ad un organismo capace di favorire un processo ( trasformare l'educazione, da quel meccanismo che è, in un processo) sensibile alle variazioni dell'evoluzione scientifica e della dialettica politica 11•

62

D'altronde, questa esigenza di una maggiore 'apertura', è possibile riscontrarla, perlomeno allo stato di tendenza, in tutta la storia dell'architettura per l'università; tuttavia quasi mai si è sanata la lacerazione tra l'esigenza di un'aper­ tura sostanziale, oltre che formale, ed il perpetuarsi di mo­ delli di gestione improntati alla 'chiusura'. Certe 'forme' più 'aperte', in contrapposizione a quelle 'chiuse' caratterizzanti l'architettura delle università di un





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A questa, che Eco riteneva essere una manifestazione nel campo delle arti plastiche del fenomeno dell' ' opera in movimento', sono succedute esperienze più recenti per l'or­ ganizzazione del sistema universitario estremamente stimo­ lanti. Una prima, molto significativa, pare quella inglese della 'Open University '. Si tratta di un'università che nasce per venire incontro alle esigenze degli studenti-lavoratori che non possono studiare a tempo pieno in una università tradizio­ nale. Lezioni televisive integrano un materiale didattico in­ viato per corrispondenza; gli studenti possono poi rivolgersi ad assistenti e consulenti presso uno dei dodici 'centri di studio ' dislocati in dodici regioni in cui è stato diviso il territorio nazionale; esiste poi un'organizzazione centrale che provvede alla programmazione della didattica e presso di essa esistono laboratori e spazi per corsi estivi e seminari in modo da integrare la didattica a distanza con delle attività sperimentali e di comunicazione diretta. Gli obiettivi più utili che si perseguono in questa esperienza sono evidente­ mente l'apertura a tutta la popolazione utente (e non solo a quella in età scolare) e soprattutto lo sforzo di accogliere ed integrare in un modello informativo-formativo globale tutte le potenzialità presenti nelle nuove tecnologie di comu­ nicazione 19• Una seconda esperienza, anch'essa significativa, che si sta attuando a Filadelfia in Pennsylvania, è quella del ' Parkway Program ': si tratta di una High School che si prefigge lo scopo di fornire una preparazione professionale e culturale agli studenti attraverso l'uso di tutte le risorse che la città può offrire (biblioteche, circoli culturali, uffici, studi professionali, officine, industrie, ecc.) valendosi della collaborazione di cittadini esperti nei vari settori attraverso la creazione di gruppi di ricerca. Questi gruppi sono poi in contatto con le facoltà, da cui ricevono contributi special­ mente a livello di formazione di base e metodologica. Si tratta quindi di gruppi che coinvolgono le facoltà, le isti­ tuzioni cittadine, attraverso l'apporto dei loro specialisti sui problemi concreti, e i cittadini impegnati nelle ricerche.






Contraddizione, allora, antinomia? Probabilmente no. :t?: possibile che invece proprio qui stia il nodo della questione: una volontà progettuale tesa verso il futuro, da una parte; le reminiscenze di numerosi esempi e di trascorse imposta­ zioni fortemente condizionanti il tipo di approccio, dall'altra. E, se tutta l'architettura realizzata delle università appare fortemente carica di attributi simbolici, non è pensabile che l'architettura di tendenza riesca a liberarsi d'improvviso di tutta una realtà esperita, dalla quale essa riceve ancora stimoli a ricercare nuovi valori da tradurre in nuovi simboli. Ma, probabilmente, la via da intraprendere è quella che porta alla dissoluzione dell'' emergenza figurativa e simbolica', in favore di una università che sia una dimensione, un modo di essere della città e del territorio: si tratta allora di un processo che nasce dalla crisi di una università intesa come 'città della cultura', vestale posta a custodia di I beni' acces­ sibili a pochi, e si sviluppa nella tendenza verso una univer­ sità che sia una 'forma' della città - e perciò stesso acces­ sibile a tutti -, la 'cultura della città'. In fondo, sembra che la risposta di L. Kahn: « cos'è una scuola? Un uomo sotto un albero che parla con un bam­ bino», meglio di ogni altra possa valere a chiarire la necessità, che spesso si presenta nel modo di affrontare l'architettura, di demolire o ignorare i tabù tipologici per un continuo bisogno di rifondazione disciplinare 32• Che se poi avesse avuto con lui il 'bambino' di turno sotto il fatai melo, oggi Sir Isacco offrirebbe, non al solo Aymonino, valida testi­ monianza di « indissolubile unità tra funzione didattica ed attività di ricerca ».

in in

t «

J. RYKWE.RT, Universities as /nstitutional Archetypes of Our Age, Zodiac •, n. 18, 1968.

2 Cfr. L. DE

ROSA

e M.

PICA

CIAMARRA, L'architettura per l'Università,

Op. cit. •, n. 18, maggio 1970. J U. Srou e associati, Concorso per la Nuova Università di Cagliari, in « Controspazio • n. 3, sett. 1973. • A. BRIGGS, The Thinking behind Britain's New Universities, in « Architectural Review •, ott. 1963. «

71


5 G. P. CUPPINI, in Università e territorio, a cura dell'Istituto di Architettura ed Urbanistica dell'Università di Bologna, cd. La Nuova Italia, Firenze 1969, p. 51. 6 G. SIMONCINI, Università e società, in « Scuola e città "• n. 4, 1972, p. 163. 7 L. QuARONI, L'università: una crisi nella crisi, in « Università, dia­ gnosi e terapia"• AA.VV. Officina edizioni, Roma 1974, p. 56. 8 C. K.ERR in HAL DRAPER, La rivolta di Berkeley, Einaudi, Torino 1968. 9 P. COPPOLA D'ANNA PIGNATEU.I, L'Università in espansione, Etas Kompass, Milano 1969, p. 290. 10 G. DE CARLO, Università diagnosi e terapia, AA.VV. Officina ed., Roma 1974, p. 71. Il Ibidem. 12 P. COPPOU D'ANNA PIGNATEU.I, L'Università in espansione, Etas Kompass, Milano 1969, p. 290. 13

Ibidem.

e Sembrerebbe che l'unica forma veramente flessibile possa deri­ vare da uno spazio indeterminato, buono a qualsiasi uso: una sorta di involucro amorfo in cui sia stabilito soltanto un congruo ingombro di superfici. Ma il nostro scopo è proprio quello di dimostrare che la flessibilità implica un discorso a monte ed, a questo punto, avanzare un'ipotesi e dimostrarla: la flessibilità implica innanzi tutto una diversa concezione del sistema funzionale e della problematica della fo1·ma che può condurre ad un risultato che non coincide affatto col concetto di 'spazio indeterminato•"· R. D,\LISI, Forma (intervallo) spazio, Stam­ peria Napoletana, Napoli 1967, p. 104. 15 R. DALISI, cit., pp. 102-103. 16 P. COPPOI.A D'ANNA PIGNATBLU, cit., p. 291. 11 F. CLEMENTE, Ipotesi di un modello insediativo per l'Universit,ì di Parma, Etas Kompass, Milano 1973, p. 17. 1a U. Eco, Opera aperta, Bompiani, Milano 1962, p. 38. 19 F. CLEMENTE, cit., p. 18. 20 R. NICOLINI, Astuti come colombe, in e Controspazio ,. n. 3, sctt. 14

1973.

21 P. PORTOGHESI, Paura a Montecitorio, in e Controspazio,. n. 3, sett. 1973. 22 Una documentata rassegna dei progetti per la Nuova Università di Cagliari è apparsa sul n. 3, sett. 1973, di « Controspazio "· ll « Controspazio" n. 3, sett. 1973. 24 U. Eco. Apocalittici e integrati, Bompiani, Milano 1973, p. 55. 25 « Controspazio ,. n. 3, sett. 1973. 26 Ibidem. 21

Ibidem.

28 B. CROCE, Filosofia della pratica, Laterza, Bari 1963, p. 168 . 29 « Controspazio" n. 3, sett. 1973.

30 Ibidem. 31 Ibidem.

32 B. ZEvI, su e L'Espresso" • 7/4/1974.

72




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