Op. cit., 34, settembre 1975

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Op.cit. rivista quadrimestrale di selezione della critica d'arte contemporanea

Direttore: Renato De Fusco Redazione e amministrazione: 80123 Napoli, Via Vincenzo Padula, 2

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Edizioni e Il centro ,.


A. PIROMALLO GAMBARDELLA, Dall'estetica alla semiologia C. LENZA,

F. SPIRITO,

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La teoria di Hjelmslev e l'architettura: alcuni problemi

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Il • realismo • di Giuseppe Samonà

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Libri, riviste e mostre

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Alla redazione di questo numero hanno collaborato: Gabriella D'Amato, Daniela del Pesco, Maria Teresa Perone, Italo Prozzillo.



Dall'estetica alla semiologia AGATA PIROMALLO GAMBARDELLA

La crisi dell'estetica La crisi dell'estetica è stata ampiamente dibattuta già da alcuni decenni e quindi non è il caso i'.n qu·esta sede di continuare un discorso che tra l'altro ha avuto come inter­ locutori grossi nomi della cultura contemporanea. Vogliamo soltanto accennarvi brevemente, e l'accenno sembra capitare particolarmente a proposito se - stando a quanto afferma Katharine Gilbert - il 1925 sarebbe l'epoca approssimativa in cui avvenne quel mutamento nella storia dell'estetica che fu Io spostarsi dell'interesse verso i problemi del simbolismo e della semantica 1; e quindi in quest'anno cadrebbe appunto il cinquantènario di questo evento culturale che, insieme ad altri, ma con maggiore pertinenza a causa delle premesse metodologiche, ha contribuito a spostare l'interesse dell'og­ getto o messaggio artistico dalla sua presunta essenza al suo modo di significare, evidenziando quindi la crisi già in atto. Alla domanda: « Che cosa è l'arte?,. cominciava a sostituirsi l'altra « Che cosa significa l'arte?,. o più esattamente ci si domandava che .cosa significassero le varie manifestazioni che genericamente si riportavano alJa parola arte. Perché, pur non sottovalutando· a riguardo l'importanza dell'apporto della fenomenologia; bisogna riconoscere che l'interesse linguistico­ semantico contribul notevolmente a recuperate il significato specifico degli oggetti artistici dall'indistinto ed equivoco con­ cetto di arte; come osserva anche Gattoni è probabilmente proprio da questo ampio settore di studi che sono giunti a noi gli stimoli più numerosi, più acuti e più pertinenti in 5


ordine all'esigenza di articolare e pluralizzare la nozione unitarla di arte 2• La crisi dell'estetica sorge dalla consapevolezza della difficoltà di ·poter fondàre un'estetica filosofica. L'estetica può acquistare carattere di vera scienza soltanto se è in grado di definire la essenza categorica dell'arte. Ma allora è chiaro che l'estetica filosofica deve seguire il destino stesso del concetto di categoria e costituirsi o non costituirsi, a seconda che sia o non sia possibile riconoscere all'arte il carattere di una particolare categoria 3• Ora, proprio l'estetica crociana e quella gentiliana, che sono state le espressioni più signifi­ cative della generale crisi dell'estetica nei primi decenni di questo secolo, offrono la dimostrazione più evidente della impossibilità di organizzarsi in una scienza filosofica auto­ noma. Croce, malgrado una elaborazione più che trentennale, non ha definito un criterio sufficientemente valido per distin� guere l'intuizione artistica da quella non artistica o la poesia dalla non poesia, mentre Gentile,· per ovviare all'empirismo a cui conducevano fatalmente le posizioni crociane, ha risolto completamente l'estetica nella filosofia. Tuttàvia bisogna rico­ noscere a Croce il merito di aver contribuito al sorgere degli interessi linguistici in relazione all'estetica con la nota iden­ tificazione. da lui compiuta tra linguistica. generale e scienza dell'arte. Anche se egli parte da una posizione che non , possiamo condividere - quella cioè del linguaggio esclusiva­ mente espressione e quindi creazione individuale - attraverso il ridimensionamento compiuto da Vossler e poi da Spitzer, si giunge, congiuntamente ·ad altri fattori, a porre in primo piano l'attenzione sul valore intersoggettivo del linguaggio e sulle sue possibilità di comunicazione e di interprètazione della realtà. Contemporaneamente in · Europa altre correnti di pen­ siero, seppure di ispirazione diversa tra loro, ponevano il problema del linguaggio alla base delle loro ricerche. Oltre alla svolta decisiva operata nel campo degli studi stretta­ mente linguistici da Ferdinand de Saussure, il quale ha con­ tribuito in maniera notevole a porre la scienza del linguaggio in una posizione chiave nel pensiero contemporaneo, è utile 6 =


sottolineare, ai fini del nostro discorso, da un lato l'impor­ tanza del concetto di funzione introdotto da Cassirer in sostituzione del concetto di sostanza, e dall'altro l'analisi del linguaggio identificata dal neo-empirismo con la filosofia tout-court o più esattamente considerata il solo metodo valido per ogni indagine filosofica. A proposito di Cassirer bisogna specificare che con la prevalenza del concetto di funzione si determina altresì il riconoscimento del valore del segno; e con questo riconosci­ mento appare decisiva la funzione costitutiva del linguaggio rispetto agli oggetti di cui la scienza si occupa 4• Quindi la funzione del linguaggio non è soltanto comunicativa ma con­ siste soprattutto nel dar forma all'esperienza, nel rivelare cioè il suo significato che è sempre in relazione all'attività del­ l'uomo, il quale è definito da Cassirer animai symbolicum, cioè creatore di simboli. Simbolo è infatti il linguaggio e come tale esso non serve soltanto allo scopo di comunicare un contenuto concettuale già bello e pronto ma è Io stru­ mento in virtù del quale questo stesso contenuto si costi• tuisce ed acquista la sua compiuta determinatezza. L'atto della detenninazione concettuale di un contenuto procede di pari passo con l'atto del suo fissarsi in qualche simbolo caratte­ ristico 5• Per quanto riguarda il neo-empirismo è opportuno soprat­ tutto sottolineare la posizione del secondo Wittgenstein per cui il significato d'una parola è il suo uso nella lingua. Questo enunciato, oltre ad influenzare direttamente il metodo. delle analisi semantiche, in quanto il significato d'una forma non viene più descritto partendo dal dato di fatto · ( cosa o con­ cetto) poiché è l'uso stesso della forma una componente del costituirsi della cosa o del concetto come unità 6, stabilisce un legame sottile ma profondo con la nuova concezione della lingua e quindi dell'uomo esplicitata da Cassirer. · Attraverso una lingua così concepita l'uomo non è più in sicuro e stabile rapporto con gli universali logici e reali, poiché egli stesso, proprio mentre costruisce il suo parlare e i suoi voca• boli, costruisce • concetti • e « cose •; non spira nel parlare la grande voce dell'arte, come meravigliosa e necessaria cate- 7


goria a priori, ma le opere d'arte sl costruiscono con li parlare e nel parlare 7, Mentre Cassirer si è interessato in maniera specifica al problema dell'arte ( essendo essa una delle forme assunte dalla attività simbolizzatrice dell'uomo) ed ha esercitato un note­ vole influsso sulla Langer, una delle esponenti più significative della scuola semantica americana, il neo-empirismo o empi­ rismo logico ha avuto dei riflessi su Richards e Morris, esponenti tra i maggiori della medesima scuola. Richards insieme con Ogden appartiene a quel neo-empirismo estetico che considera fine dell'arte il dominio delle emozioni ed opera una netta distinzione tra significato emotivo e signi­ ficato conoscitivo delle parole. I rapporti di Morris col neo­ empirismo sono più complessi: da un lato egli ha tentato la unificazione delle scienze o del sapere in genere sulla base di una teoria dei segni o semiotica - ripresa in massima parte dalla semiotica di Peirce - realizzando così una esi­ genza particolarmente avvertita dagli studiosi del Circolo di Vienna; ed inoltre ha stabilito una tripartizione dell'analisi linguistica in pragmatica, sintattica e semantica, tripartizione accettata dai neo-empiristi e dallo stesso Carnap che aveva precedentemente riconosciuto al linguaggio solo una dimen­ sione sintattica.

La scuola semantica americana

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Nella linguistica attuale esistono due indirizzi filosofici che hanno cercato di definire il significato: l'indirizzo « ana­ litico » o « referenziale » e quello « operazionale ». Il primo fa capo ad Ogden e Richards che con il loro famoso trian­ golo hanno i1lustrato la relazione esistente tra il simbolo e il pensiero e tra il pensiero e la cosa designata. Il secondo indirizzo risale al Wittgenstein delle Ricerche filosofiche di cui abbiamo già riportato l a celebre proposizione: il slgni­ ficato dl una parola è il suo uso. nella lingua. Ullmann è dell'opinione che le due teorie non debbano escludersi tra loro ma considerarsi complementari. Egli aggiunge che il rapporto tra l due metodl ò pluttosto tra le


due fasi dell'indagine, è in ultima analisi lo stesso che esiste tra lingua e atto linguistico; la teoria operazionale si applica al significato nell'atto linguistico; la referenziale al significato nella lingua 8• Nel dare la sua definizione di significato Ull­ mann sottolinea che il triangolo di Ogden e Richards rappre­ senta il processo di comunicazione dal punto di vista di colui che ascolta ma non da quello del parlante. C'è quindi una relazione reciproca e reversibile tra nome e senso: se uno ode la parola pensa alla cosa, e se uno pensa alla cosa dice la parola. � questa relazione reciproca e reversibile tra suono e senso che lo propongo di chiamare « significato » della parola 9• Ricollegandosi anche alle conclusioni a cui è giunto Hjelmslev - per il quale il segno è una funzione e il rapporto tra significato e significante è una relazione tra funtivi - Rosiello inoltre sottolinea lo stretto legame tra il pensiero filosofico e logico moderno e la concezione struttu1·ale e funzionale della lingua nel considerare il significato non più come identificantesi col contenuto concettuale dei segni linguistici, bensì come una relazione ( o funzione) tra il piano dell'espressione linguistica e quello della sostanza concettuale 10• L'interesse semantico di Richards applicato al campo dell'estetica fa di questi il fondatore dell'estetica semantica. L'accenno iniziale sulla problematica sorta intorno a1la seman­ tica è servito a mostrare come parallelamente o meglio ante­ riormente alla domanda « Che cosa significa l'arte?» si pone l'altra « Che cosa è il significato?»; e come non è possibile rispondere in maniera univoca e definitiva alla seconda do­ manda, ancor più problematico diventa rispondere alla prima. Tanto è vero che i maggiori rappresentanti dell'estetica se­ mantica americana - Richards, Morris e Langer - mentre da un lato partono da una medesima esigenza di considerare il principio artistico sempre un principio d'espressione-emo­ zionale, che sbocca nel concetto contenutistico di « slgnifi­ cance,. 11, peraltro si muovono in ambiti di ricerca spesso diversi. Anche se il significato dell'arte non è esattamente definibile, tuttavia è fuor di dubbio la sua funzione comuni­ cativa che l'estetica semantica appunto ha contribuito ad 9


evidenziare. Osserva giustamente Garroni che l'arte - qua­ lunque cosa s'intenda con questa nozione - non può sfuggire ad una caratterizzante determinazione comunicativa 12• In prima istanza tale comunicazione si realizza a livello percet­ tivo. Secondo Raffa soltanto la percezione estetica può offrire il terreno appropriato per fondare l'autonomia scientifica dell'estetica semantica, vale a dire la base per definire con precisione concettuale la natura peculiare ( sui generis) della semanticità artistica, senza confonderla con altri tipi di se­ manticità 13• Se questa precisazione ha il merito di voler evitare la confusione tra discorso scientifico e discorso arti­ stico, ci mostra tuttavia in maniera inequivocabile che il fenomeno su cui fa perno l'estetica semantica è la percezione estetica, cioè un fenomeno psichico 14 e questo ci appare al­ quanto limitativo per una teoria che, pur fondandosi su un concetto che può presentare delle ambivalenze, aspira ad elaborare un metodo di maggiore rigore oggettivo. Richards distingue due tipi di significato: uno espressivo o emozionale che viene riferito all'arte e un altro referenziale di pertinenza della scienza. E molto a proposito ci pare la critica mossagli da Morris per cui l'espressività... non costi­ tuisce un modo di significare, ma semplicemente un elemento psicologico che l'accompagna 15• Analogamente Richards di­ stingue due tipi di comunicazione: le asserzioni che appar­ tengono alla scienza e le pseudo-asserzioni all'arte. Le prime sono verificabili e possono essere vere o false, le altre invece non sono verificabili ed attingono ad una foro verità solo in quanto sono capaci di suscitare emozioni. Osserva Morpurgo­ Tagliabue: La demande: « qu'est-ce que signifie cette oeuvre d'art?• se traduit pour lui dans l'autre: « quel effet produit­ elle?•· E l'effetto è sòprattutto une aptitude, une réponse à des élans qui commencent, à des anticipations d'impuisions, provoquées par des signes ... 16 • .

Questo psicologismo conduce Richards in Science and Poetry a risolvere nella poesia ogni significato referenziale (sense) in un significato puramente emotivo (emotion). Tuttavia nella sua opera più matura Practical Criticism egli 10

mitiga in parte Ja sua posizione così radicale. Infatti, dopo


aver affermato che è di capitale importanza per lo studio della letteratura o di qualunque altra forma di comunica­ zione il fatto che vi siano parecchi generi di significato 11, suddivide il « meaning » in quattro generi: il senso, il senti­ mento, il tono e l'intenzione. Quindi alla dicotomia sense­ emotion si sostituisce una visione più articolata e ricca del­ l'universo semantico. Queste ultime rettifiche pertanto non inficiano Jo scientismo di base di Richards secondo il quale solo alla scienza spetta la vera conoscenza in quanto ci for­ nisce asserzioni verificabili. È questo il punto di maggior debolezza della teoria di Richards: prendere il particolare tipo di riferimento riscontrabile in sede scientifica e il parti­ colare tipo di verifica attuato nella medesima sede, a innal­ zarli a modelli assoluti 18, e creare nel campo dell'estetica semantica quella dicotomia tra conoscenza scientifica e cono­ scenza artistica che costituirà il problema di fondo di gran parte dell'estetica successiva. Il merito principale di Morris è stato quello di aver stu­ diato i fenomeni artistici in stretta relazione con la teoria dei segni, allontanandosi quindi in parte dalle posizioni soggettivistiche di Richards e creando il presupposto per una valutazione più rigorosa dell'analisi estetica; perché, se il discorso estetico deve differenziarsi da ogni altro tipo di discorso, l'estetica, però, quale teoria del discorso estetico rientra nello stesso campo della teoria del discorso scien­ tifico o tecnologico: quale parte della teoria dei segni essa è cioè un settore della scienza, e come tale le compete nel sistema della scienza il posto che viene assegnato alla semio­ tica, qualunque sia tale posto. L'approccio all'estetica in termini di teoria dei segni, pertanto, ha importanza non solo per l'arte, l'estetica e la semiotica, ma per l'intero programma della scienza unificata 19• La semiotica di Morris è di derivazione peirciana anche nella sua impostazione pragmatistica di fondo. Infatti uno dei capisaldi della teoria di Peirce consiste nel ritenere fine di ogni procedimento razionale il raggiungimento di una « credenza » che è soprattutto una regola d'azione la quale rende possibile un determinato comportamento; il significato 11


di una credenza si può cogliere solo attraverso gli effetti che essa credenza ha sull'azione; quindi la regola per ottenere la chiarezza di un'Idea prescrive semplicemente la conside­ razione degli effetti pratici che l'oggetto dell'idea può avere. La « concezione ,. dell'oggetto si riduce interamente alla con­ cezione di questi effetti posslbllt 20 • Da qui il passo è breve al comportamentismo di Morris il quale è strettamente colle­ gato alla impostazione della sua teoria dei segni che vengono considerati soprattutto sulla base del comportamento che essi determinano. Inoltre, come s'è detto, egli distingue in seno alla semiotica tre aspetti fondamentali: la dimensione pragmatica che studia appunto il rapporto tra veicolo segnico e interprete, cioè, in definitiva, il comportamento segnico di esseri umani che stabiliscono tra loro una qualunque forma di comunicazione; la dimensione $emantica che stabilisce le relazioni dei veicoli segnici con i loro denotata o designata; la dimensione sintattica che studia i rapporti intercorrenti tra i veicoli segnici. Nel campo generale della semiotica poi Morris distingue una semiotica estetica che a sua volta si suddivide in pragmatica estetica, semantica estetica e sintat­ tica estetica. A questo punto è utile precisare che il significato è pre­ sente in tutte e tre le dimensioni della semiotica. Molto opportunamente Rossi-Landi sottolinea che nella semiosi c'è una differenza tra segno e veicolo segnico, nel senso che il primo è la somma delle tre dimensioni mentre il veicolo se­ gnico ( ossia ciò che agisce in qualità di segno, vale a dire funziona in maniera significatorla) 21 stabilisce, all'interno del segno, un rapporto con un designatum o un denotatum, con altri veicoli, con un interprete. La riduzione del significato alla sola dimensione sei:nantica porterebbe come conseguenza da un lato la degradazione del segno-come-totalità a quella sua parte che è il rapporto di designazione o denotazione, e dall'altro l'esclusione di tutti l significati che sorgono dai rapporti dei segni fra loro e con gli Interpreti 22• Questa tripartizione avrebbe il grande vantaggio di risol­ vere, all'interno stesso del processo segnico; i vari rapporti 12 che un veicolo segnico può stabilire con i diversi livelli della


realtà, nell'ambito di un medesimo significato che non può essere ,limitato solo al rapporto unilaterale segno-denotatum ma deve articolarsi nell'ambito di una struttura più vasta. Questa impostazione contribuisce in parte a fargli superare la netta dicotomia stabilita da Richards fra le asserzioni (appartenenti alla scienza) e le pseudo-asserzioni (apparte­ nenti all'arte). Anche se egli opera una sottile e articolata distinzione fra i vari tipi di discorso, essi tuttavia vengono riportati a quattro disposizioni di fondo e cioè: designativa, apprezzativa, descrittiva, formativa che, in quanto comporta­ menti, rientrano nella più generale teoria dei segni. Infatti egli può affermare che mentre l'opera d'arte non è vera essa stessa nel senso semantico del termine, le affermazioni di ordine semantico fatte intorno ad essa sono vere o false nello stesso modo in cui lo sono quelle scientifiche 23• In che cosa il segno estetico si differenzia da un segno non estetico? Innanzitutto Morris lo definisce icone nel senso che contiene in sé immediatamente alcune proprietà del clesignatum. Esso è sempre presentativo anche quando non è rappresentativo di un oggetto o di una situazione effettivi 24, e incorpora in sé i valori che designa e li trasmette diretta­ mente non referenzialmente, attraverso gli stessi veicoli se­ gnici 25• Per questo l'arte si può considerare come quel lin­ guaggio che serve alla comunicazione di valori 26• Ma• che cosa intende Morris per valore? Egli lo risolve in un atteggiamento apprezzativo, coerentemente con la sua teoria comportamentista. Tuttavia la sua teoria dei segni, applicata all'estetica, gli evita in parte di cadere nello psico­ logismo di Richards. Infatti, egli afferma che il valore non deve venir localizzato negli oggetti separati dagli interessi e neppure negli interessi ( e quindi non negli aspetti « emozionali ,. degli interessi durante il soddisfacimento) separati dagli oggetti che permettono il soddisfacimento degli inte­ ressi medesimi. I valori sono proprietà soddlsfattlve di og• getti o situazioni che rispondono al compimento di atti interessati -n. La teoria dei segni applicata all'estetica, soprat­ tutto nella sua triplice articolazione, permette quindi a Morris di valutare contemporaneamente l'opera d'arte nel 13


suo funzionamento oggettivo (piano sintattico) e in quanto sistema di valori (piano pragmatico). D'altra parte la distin­ zione del segno estetico, sia come segno iconico sia come segno che presenta il valore relativo al designatum, spetta , al piano semantico. Morris tuttavia è ben lungi dal ritenere di avere risolto ogni problema relativo all'estetica. In uno scritto del 1939 fatto in collaborazione con Hamilton egli afferma che la formulazione originaria di una semiotica per l'estetica può esser considerata come una proposta generale di una tenni­ nologia per parlare dell'arte... :I:: anzitutto evidente che la misura di applicabilità di una semiotica all'estetica è que­ stione aperta. Allo stadio attuale non si vuole sostenere che l'estetica possa venire esaurientemente analizzata attraverso una semiotica. Risulta però che in arte funzionano segni, e sotto questo aspetto una semiotica aiuterebbe 28• Anche se l'apporto di Morris nell'ambito della scuola semantica americana appare il più interessante e soprattutto quello che ha influito maggiormente sugli ulteriori sviluppi dello studio dell'estetica in relazione alla lin guistica, tuttavia restano nella sua teoria alcuni punti irrisolti, specialmente quello riguardante la distinzione da lui operata tra segni iconici e segni non iconici. Anche Della Volpe ha evidenziato questo punto debole e infatti nella Critica del gusto sottolinea che Morris si contraddice... nelle conclusioni particolari con­ cernenti la semantica artistica: per cui oscilla tra li ricono­ scimento del segno estetico come quel segno « iconico ,. il cui designatum è un « valore » ... e la ammissione che « nessun segno è estetico come tale,. 29 • La nozione di segno o simbolo iconico è ripresa dalla Langer, limitatamente però alle arti figurative, e ribattez­ zata « simbolo presentativo ». Tuttavia contro il tentativo di Morris di inglobare i segni artistici in uno schema linguistico, ella nega del tutto all'arte la possibilità di essere linguaggio. Partendo dall'esempio della musica, che è la forma d'arte da lei privilegiata e da cui ha tratto in gran parte l'ispira­ zione per il suo discorso estetico, ella afferma che la musica 14 non è linguaggio perché i suol elementi non sono parole:


non sono simboli associativi indipendenti dotati di un rife­ rimento stabilito da convenzione. Solo come forma artico­ lata essa può riferirsi a qualcosa; e poiché non v'è alcun significato assegnato a nessuna delle sue parti, essa è priva di una delle caratteristiche fondamentali del linguaggio: una stabile associazione, e perciò un riferimento unico ed ine­ quivoco 30• Poiché l'arte non è linguaggio, di conseguenza non si può parlare neanche di significato, inteso nel senso di significato referenziale. D'altra parte la Langer non potrebbe ridurre completamente il concetto di arte ad un significato emotivo poiché per lei l'arte non suscita emozioni ma le rappresenta attraverso i simboli: l'arte è la creazione di forme simboliche del sentimento umano 31• Uno dei timori, e del resto non del tutto infondati, di questa autrice è quello di cadere nelle secche dello psicolo­ gismo - ciò che le impedirebbe di fondare, come lei del resto tenta, una disciplina estetica sistematica. Donde il suo insistere sul concetto di forma, di articolazione, di tecnica attraverso la quale è possibile creare la forma: la costru­ zione di forme espressive è sempre una tecnica... la tecnica è il mezzo per la creazione della forma espressiva 32• Tuttavia rimane nella Langer netta la dicotomia tra il « regno del sen­ tire » e quello del pensare, tra la struttura concettuale di questo e la « forma significante », in cui il fattore della signi• ficanza non è discriminato logicamente, ma sentito come qua­ lità piuttosto che riconosciuto come funzione 33• Se possiamo concordare con la Langer quando, a proposito del simbolo artistico, asserisce che le qualità entrano direttamente nella forma stessa, non come suo contenuto, ma come suol elementi costitutivi 34 - e in ciò ella ha accolto una delle più feconde indicazioni di Morris per cui un segno iconico ha in sé le proprietà di ciò che significa senza dover fare riferimento ad altro - non possiamo però accettare che ella abbia dissolto il significato dell'arte nella ineffabilità del sentimento. De meme qu'elle veut soustralre l'art à la séman• tique du langage, S. Langer veut aussl le soustralre à la pratique de l'expression 35 e quindi in conclusione ad ogni possibilità comunicativa. La dicotomia da lei operata tra 15


sentimento e pensiero, il netto rifiuto di veder nell'arte l'ar­ ticolazione di un pensiero oltre che di un sentimento, la conducono molto lontano da quelle che erano state le pre­ messe e le esigenze dell'estetica semantica.

Alcuni contributi italiani all'estetica semantica La scuola· semantica americana ha avuto un'importanza fondamentale nell'identificare il ruolo dell'arte soprattutto nella .sua « significatività » e nella possibilità che questa possa venir comunicata. Tuttavia sono rimasti aperti alcuni pro­ blemi che in gran parte sono stati ripresi dal pensiero suc­ cessivo e hanno costituito degli spunti fecondissimi di analisi e di ricerca. Il primo problema è rappresentato dall'uso ambiguo che è stato fatto della parola «semantica» e dalla conseguente dicotomia che si è venuta creando tra significato referenziale .e significato emotivo, tra conoscenza scientifica e conoscenza artistica. Escludendo Morris e il suo sforzo di risolvere tutto il discorso estetico nell'ambito della semiotica, abbiamo un'oscillazione da una posizione spiccatamente empirista come quella di Richards all'altra sistematica e formalizzante della Langer. Tuttavia un altro problema che emerge a proposito di Morris e poi della Langer è quello del simbolo non consu­ mato; cioè il simbolo artistico, poiché non viene riferito ad un significato a sé esterno ossia ad un significato univoco e codificato dall'uso come è quello del· simbòlo linguistico, non esaurisce la sua significatività e quindi non viene mai fruito completamente. Partendo da questa premessa, difficil­ mente confutabile, la Langer arriva ad asserire che l'opera d'arte non giunge a stabilire una vera e propria comunica­ zione tra l'artista e i fruitori. Dorfles, che è particolarmente sensibile al problema estetico dal punto di vista e della co­ municazione e del consumo - spinto dall'esigenza di creare una discriminazione fra opere d'arte e opere legate ad una particolare moda o ad un determinato significato del mo16 mento proprio in base al minore o maggiore « consumo »


delle medesime - approva la distinzione operata dalla Langer tra la qualità individuale e discorsiva della comuni­ cazione linguistica e quella generalizzatrice e simbolica del­ l'arte. In tal modo egli ritiene non illegittimo ricavarne la nozione che esiste in ogni opera d'arte un quoziente lingui­ stico a cui è devoluto il compito comunicativo attuale e che va incontro ad una precoce usura ( ed è il quoziente più legato alla moda, al costume..•) e, per contro, un quoziente più universale, più direttamente legato al processo formativo ubiquitario dal quale l'opera d'arte prende l'avvio; tale quo­ ziente sarà «incomunicabile » in senso linguistico stretto, sarà solo intuibile nella sua accezione simbolica, e come tale non deperibile né consumabile 36• Il problema rappresentato dalla dicotomia: conoscenza scientifica - conoscenza artistica troverà una soluzione molto interessante nell'opera di Galvano Della Volpe. Il punto focale del suo discorso critico consiste nell'intrinseca razionalità che egli riconosce al discorso poetico e quindi nella sua pos­ sibilità di trasmettere significati non meno validi, sul piano gnoseologico, di quelli del discorso scientifico. Dovremo am­ mettere ... che la poesia e l'arte in genere, è ragione (concreta) come la storia o la scienza e che in questo non differisce affatto dalla storia e dalla scienza in genere: non differisce, cioè, negli elementi conoscitivi, gnoseologici, generali, sensi­ bilità (fantasia o che altro) e ragione, che sono in comune 37• La base comune su cui si articolano il discorso poetico e il discorso scientifico è il pensiero che sia nell'un caso che nell'altro ubbidisce ai medesimi procedimenti logici come, ad esempio, l'astrazione e la categorizzazione; e che rivela la sua ineliminabile presenza anche in quelle che sembrano essere le espressioni privilegiate della poesia e cioè le immagini che sono sempre « immagini-concetti», altrimenti man­ cherebbero della «icasticità» e della pregnanza necessarie a conferire alla poesia il suo valore conoscitivo sui generis, risolvendosi in un «gratuito nonsenso ». Quelli che sembrano essere i caratteri peculiari della poesia e cioè l'universalità, l'un ità, la coerenza derivano da operazioni eminentemente razionali al punto che, se così non fosse, non si potrebbe

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parlare nemmeno di «forma» dell'arte: dove non c'è eidos o dianoia o Idea o concetto (giudizio) che si dica non c'è forma degna del nome, ma solo il caos, lo informe della materia o molteplice 38• E proprio partendo da questi pre­ supposti egli ribalterà il significato tradizionale dei termini: forma e contenuto, intendendo come forma il pensiero-stile e come contenuto le immagini etc., cioè la materia 39 ; lad­ dove vengono sottolineati energicamente, da un lato la indis­ sociabilità del pensiero dal mezzo espressivo e la sua fun­ zione formativa, e dall'altro il carattere tendenzialmente em­ pirico, casuale e molteplice del mondo delle immagini. Conseguentemente risulteranno ribaltati anche i concetti di «contenutismo » e «formalismo», indicando il primo il di­ fetto di idee ossia di forma nell'opera in questione, la pre­ senza in eccesso - senza misura o forma - della materia fantastica etc. e quindi la tendenza semantica allo equivoco e banale; e intendendosi invece col termine « formalismo » il difetto di fantasia etc., il prevalere di idee o concettismo e quindi la tendenza semantica allo univoco "°· I termini « equivoco» ed «univoco» ci riportano alla fondamentale tripartizione operata da Della Volpe nel più vasto ambito della semantica per cui «equivoco» si riferisce al discorso « comune, volgare» per i,I quale l'A. usa il ter­ mine che gli sembra più rigoroso di «letterale-materiale» e cioè l'insieme di elementi-base che compaiono casual­ mente e indeterminatamente in ogni testo, e perciò «onni­ testuale». «Univoco» è invece il discorso scientifico in cui viene usato Io stesso termine per Io stesso genere di cose o concetto 41 e come tale « onnicontestuale » perché, una volta fissata la univocità dei termini, questi possono fungere in ogni contesto. Il discorso artistico, invece, è « polisenso» poiché vengono usati più termini per lo stesso genere o concetto contenuto nel letterale-materiale... e quindi più ter­ mini per più generi o concetti 42 • Ma questi molteplici signi­ ficati acquistano valore espressivo per il fatto che si trovano in un determinato contesto la cui struttura è data dalla rela­ zione indissociabile dei vari elementi; per cui da questa « contestualità organica» deriva al discorso poetico una


pluralità aggiunta di significati. Quindi ciò che distingue real­ mente la scienza in genere dalla poesia ( e l'arte in genere) non è la « astrattezza » del pensiero nell'un caso e la « con­ cretezza » della fantasia nell'altro: bensì... la onnicontestua­ Iità o tecnicità del linguaggio usato ( dal pensiero) nel primo caso e la contestualità organica del linguaggio usato ( dal pensiero) nel secondo caso 43. L'importanza di Della Volpe non risiede solo nel fatto di aver rivendicato al discorso poetico la sua piena razionalità ma anche e soprattutto di aver compiuto una rivalutazione della semanticità del pensiero... della lndisgiungibilità di . pensiero e parola. Di qui il fondamentale carattere semiotico della estetica dellavolpiana, con il pieno reinserimento del pensiero nel significato, e del significato nel segno 44• Garroni, pur riconoscendo questo merito fondamentale a Della Volpe, sottolinea che nella sua estetica esiste la ten­ denza a considerare l'« oggettualità» pertinente solo al segno non linguistico. L'oggettualità è inerente alla natura del segno, poiché questo non è immediatamente dato nella na­ tura ma esiste in quanto portatore di una intenzionalità. In questo senso noi possiamo dire che l'oggettività è scom­ parsa. Pertanto la funzione del segno è di essere portatore di una intenzionalità non esterna ma intri_nseca al suo esser segno, onde la sua « trasparenza » in quanto « immagine di sé». Quando Della Volpe insiste sull'« arbitrarietà» del segno linguistico ( che nello stesso tempo è anche conven­ zionale), sulla sua « biplanarità » e sulla incorporeità del significante, sembra a Garroni che egli separi la strumen­ talità del segno dal suo supporto fisico 45 e non tenga molto conto del fatto che nella lingua il significato... concresce con il suo veicolo segnico e... quest'ultimo attribuisce a quello, con il suo semplice esserci ed essere adoperato, quelle ulte­ riori determinazioni significative che, da sé solo, il significato non possiede 46• Laddove, invece, Della Volpe riconoscerebbe il carattere di oggettualità agli altri linguaggi artistici non verbali in quanto in essi il rapporto significato-significante cesserebbe di essere arbitrario e si risolverebbe in una inci­ denza reciproca dei due termini, in un rimando continuo ,19


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dell'uno all'altro. Donde Garroni conclude che le due esigenze (della semanticità e della oggettualità) sono presenti senza alcun dubbio nel pensiero del Della Volpe, ma come separate su due versanti linguistici di cui non si sia ancora riusciti a trovare l'unità •1. Di Garroni risulta particolarmente interessante il con­ cetto di « istituzionalità » del segno, per cui vengono sotto­ lineati la non gratuità del segno e il suo carattere, appunto, di mediazione. Istituzionalità, inoltre, che ribadisce il carat­ tere di intenzionalità e di oggettualità del segno il quale presenta due aspetti diversi e indisgiungibill: Il suo essere « ciò che significa» (l'essere portatore di una intenzione; il suo carattere istituzionalizzante) e il suo essere « ciò che è significato • (l'essere portato da una intenzione e da un passato di intenzionalità; il suo carattere di segno istituzio­ nalizzato) 41• E quando Garroni parla di crisi semantica delle arti si riferisce soprattutto alla perdita di istituzionalità da parte del segno, al suo regredire da segno oggettuale ad oggetto naturalistico. Quindi non più il segno che è nello stesso tempo se stesso e il segno di se stesso ma l'irrompere dell'immediatezza e il rischio per il linguaggio di diventare direttamente cosa. Per cui ci muoviamo in un universo di simboli muti, tra il tentativo, da un lato, di risemantizzare il linguaggio artistico e il rifiuto, dall'altro, di ridare incisività e pregnanza al segno reinserendolo in una« koinè culturale» nella quale soltanto può ritrovare la sua funzione comu­ nicativa. A questo punto è opportuno ricordare Ja posizione di Jakobson sulla « vexata quaestio • dell'arbitrarietà del segno, che egli riconosce solo al segno linguistico e non, invece, a quello artistico dove il rapporto significato-significante di­ venta strettissimo, inscindibile e tramite di una valenza semantica che si sviluppa proprio dal suddetto rapporto senza alcun riferimento estrinseco al segno. Il problema sollevato dalla Langer del mancato parallelo fra arte e linguaggio trova in Italla una particolare rispon• denza in Cesare Brandi, il quale distingue il segno dall'immagine, riconoscendo solo al primo la semanticità e quindi la


possibilità comunicativa, laddove la seconda, invece, si ri­ solve in una pura « astanza "· La distinzione avviene a livello di coscienza per cui un segno può essere interpretato come simbolo di qualcos'altro o assurgere all'autonomia e all'iso­ lamento dell'immagine solo in quanto viene caricato di una diversa intenzionalità, anche se l'immagine, nel passaggio dalla fase percettiva a quella compiuta dell'opera d'arte, si allontana sempre di più dalla comune matrice simbolica che ha col segno. Questa comune matrice viene posta da Brandi in uno stadio preconcettuale dove appunto la percezione dell'oggetto si articola in due direzioni diverse: l'una che conduce ad .w1a precipitazione della sostanza conoscitiva in valore semantico 49 e quindi al segno e l'altra che conferisce all'immagine sempre più il suo valore figurativo, formale non strumentale. Quindi segno e immagine sono all'origine la stessa cosa che la coscienza rivolge in due direzioni diverse 50• Malgrado questa comune origine segno e immagine restano nettamente separati, anzi devono restare tali perché solo lo sviluppo indipendente e conseguente della immagine come segno e della immagine come figuratività, possono assicurare un equilibrato sviluppo della civiltà 51; con la conseguenza inevitabile che il mondo dell'arte e quello dei segni, dei signi­ ficati, del linguaggio e quindi della realtà storica restano definitivamente separati, con scarse possibilità di comunica­ zione e di scambio. Ma l'arte, allora, non è linguaggio? Se nel caso di Brandi non ci sono dubbi sulla risposta, il problema resta aperto per Morpurgo-Tagliabue il quale in un saggio intitolato appunto: L'Art.e è linguaggio?, partendo da una divisione delle arti in rappresentative e presentative, riconosce soltanto alle prime un valore linguistico e quindi semiologico, mentre le altre non si esauriscono in un tipo di rapporto considerato estrinseco, per cui l'aspetto incon­ fondibile della comunicatività estetica avviene a livello pre­ sentativo 52. Tuttavia in ogni genere artistico, anche in quelli che più spiccatamente appartengono all'una o all'altra area di definizione - come ad esempio la letteratura o l'architet­ tura - è possibile riconoscere un aspetto presentativo o 21


intransitivo e uno rappresentativo o transitivo. L'opera d'arte, comunque, ha sempre una vocazione comunicativa anche se in essa bisogna distinguere il non-linguaggio dal linguaggio: cioè il processo intenzionale (semantico-fenomenologico) dal discorso linguistico (semantico-semiologico); quindi qualun­ que genere d'arte è sempre anche linguaggio che è certo ben altra cosa dal dire che è linguaggio 53 tout-court. È tut­ tavia importante aver riconosciuto a queste due dimensioni presenti nell'opera d'arte una comune base semantica per cui essa attinge sempre a un valore conoscitivo; anche se poi viene operata una distinzione tra sensi o « Sinne » che si riferiscono al liYello presentativo e non superano i limiti strettamente estetici, e « Bedeutungen » cioè denotati, rappre­ sentativi di una dimensione extra-estetica cioè storica, sociale, mitica, etc. In questo modo il valore estetico viene ricono­ sciuto solo all'aspetto non linguistico dell'opera d'arte, mentre il livello più genericamente semiologico assolve solo una funzione di tipo retorico. È già tuttavia molto importante, da parte di chi si muove in ambiti speculativi diversi, aver riconosciuto l'importanza della semiologia nell'analisi dell'opera d'arte e, anche se ad essa è stata assegnata una funzione extra-estetica, ciò forse potrebbe significare che la identificazione compiuta da taluni tra estetica e semiologia non a caso si verifica in un momento in cui l'arte emergente tende ad essere sempre più sommersa dall'artisticità diffusa, ossia da1la retorica (nel senso migliore del termine). lierso una semiologia dell'arte L'analisi fin qui condotta ha mostrato che la ricerca del significato dell'opera d'arte, anche se ha rappresentato un notevole passo avanti rispetto ad una problematica �stetica legata a presupposti metafisici ed ontologici, non è approdata a nessuna soluzione definitiva (ammesso che nel divenire della cultura si possa arrivare a soluzioni definitive) soprat­ tutto per -la stessa ambiguità del concetto di « significato » 22 e per un'atavica resistenza a considerare l'opera d'arte un


prodotto, anche se con tutte le mediazioni possibili, della società e quindi come tale articolato in una infinità di rife­ rimenti e rapportabile a più livelli di analisi. Tuttavia la ricerca semantica, anche se in taluni autori si limita all'ana­ lisi della percezione estetica e quindi si risolve spesso in un fenomeno psichico, ha contribuito in maniera decisiva a sottolineare il valore conoscitivo dell'opera d'arte, nel senso che attraverso la sua funzione simbolica è possibile attingere fasce sempre più larghe di realtà. Ma, come osserva Eco in maniera molto pertinente, nel momento in cui il messaggio estetico viene sottoposto a indagine semiologica occorre tra­ durre gli artifici detti « espressivi » in artifici di comunica­ zione sulla base di codici (osservati o messi in crisi) 54. Il tentativo di Morris di inscrivere i fenomeni artistici in una più generale teoria dei segni denota l'esigenza d'im­ postare il discorso estetico in termini più rigorosi, anche se poi il suo comportamentismo sembra limitare l'esperienza estetica ad un riconoscimento esclusivo del valore del mes­ saggio, riscontrabile, appunto, attraverso un determinato atteggiamento. Sotto l'influenza della linguistica strutturale di de Saussure la ricerca semantica diventa esigenza di conoscere il funzionamento dell'oggetto estetico, la sua strut­ tura, le sue possibilità di uso, ancorando questo oggetto solidamente alle coppie di dicotomie che de Saussure aveva evidenziato nel sistema della lingua: significato-significante, langue-parole, asse associativo-asse sintagmatico, per citare le più pertinenti al nostro discorso. Quindi alla domanda: « Che cosa significa l'opera d'arte?», si è andata sostituendo l'altra « Come è strutturata l'opera d'arte? ». Lo strutturalismo, che Barthes ha definito ogni ricerca sistematica subordinata alla pertinenza semantica e ispirata al modello linguistico 55, ha contribuito in maniera decisiva a questo cambiamento di prospettiva. Infatti la decisione strutturalista interviene proprio per eliminare l'impasse del­ l'ineffabilità che gravava sul giudizio critico e sulla descri­ zione dei modelli poetici 56, impasse non sempre evitabile nell'ambito di un'estetica semantica in cui l'espressività - termine che può sconfinare nella ineffabilità - è ritenuta 23


condizione essenziale alla percezione estetica. Tuttavia il cri­ tico strutturalista sa benissimo che l'opera non si riduce allo schema o alla serie di schemi che esso ne trae: ma la irrigi­ disce in schemi per poter stabilire cosa sia Il meccanismo che permette la ricchezza delle letture, e quindi la continua attribuzione di senso di cui l'opera-messaggio sarà caricata 57• Poiché una struttura è un modello come sistema di diffe­ renze e caratteristica di questo modello è la sua trasponibilità da fenomeno a fenomeno e da ordini di fenomeni a ordini di fenomeni diversi 58, il modello linguistico si offre come modello privilegiato per l'applicazione della metodologia strutturalista, in quanto da un lato si presenta come un sistema di differenze e dall'altro rende possibile la traspo­ nibilità delle sue coppie di dicotomie ad altri sistemi. E poi­ ché la lingua è un sistema di segni possiamo, a proposito del­ l'opera d'arte, che è a sua volta un sistema di segni o se si vuole anch'essa ipotizzabile come tale, parlare di analisi se­ miologica tout-court. Pertanto il significato diventa solo una parte dell'opera d'arte, la cui specifica funzione non è più quella di trasmettere significati ma di venire recepita essa stessa come una struttura, come un insieme di rapporti e di livelli di riferimento, il cui equilibrio garantisce la comuni­ cazione. Dobbiamo inoltre tener presente che il termine struttura indica generalmente due nozioni: la prima è quella di un sistema di parti coordinate immanente all'oggetto in esame. La seconda di un modello costruito con delle operazioni sem­ pllficatrici, angolato da una certa visuale, e tale da cogliere, anche per via ipotetica, i caratteri invarianti di sistemi dif­ ferenti. Nell'un caso struttura equivale ad organizzazione, nell'altro ad astrazione 95• De Fusco chiarisce la prima no­ zione portando l'esempio, nel campo specifico dell'architet­ tura, della symmetria teorizzata da Vitruvio. La seconda no. zione, invece, ci sembra che trovi una esemplificazione per­ tinente nel concetto di « simulacro » introdotto da Barthes, ossia la ricostruzione di un oggetto, attraverso la quale l'attività strutturalista evidenzia le regole di funzionamento 24 (le « funzioni ») di questo oggetto. Lo scopo è quello di an-


corare la capacità riflessiva e quindi creativa dell'uomo a delle situazioni reali di tipo conoscitivo: tra i due oggetti (quello reale e l'altro ricreato dall'uomo) si produce del nuovo, e questo nuovo è niente meno che l'intelligibile gene­ rale: il simulacro è l'intelletto aggiunto all'oggetto 60• Siamo molto lontani dal concetto di « fantasma» che viene esposto da Raffa nel suo saggio già citato, dove il fantasma - la cui funzione nell'ambito della percezione estetica è quella di operare il passaggio dal segno al significato - è un « og­ getto psichico», un'apparizione dell'oggetto irreale (imma­ gine) nella percezione (reale) e quindi un «quasi-concetto». A questo punto occorre precisare che quando parliamo di processo dall'estetica alla semiologia non intendiamo un passaggio da quella a questa, né una riduzione dell'una al­ l'altra, ma vogliamo solamente evidenziare un nuovo atteg­ giamento verso la fenomenologia artistica che si è andato maturando in concomitanza con un progressivo sfumarsi delle distinzioni tra sfera della scienza e sfera dell'arte e relative applicazioni della metodologia scientifica ai problemi este­ tici. Quindi non si tratta di ipotizzare la fine dell'estetica, ma di contribuire a rivedere la sua indubbia crisi con l'ap­ porto della semiologia sottolineando la possibilità che la integrazione fra questi due campi di studi porti, se non ad una soluzione, per lo meno ad una chiarificazione dei termini del problema. Uno degli esempi più vistosi di applicazione di una metodologia scientifica alla problematica estetica ci è offerto dagli studi di Abraham Moles e in special modo dalla sua opera, Teoria della informazione e percezione estetica. La teoria dell'informazione parte dall'esame di una catena di comunicazione - cioè un emittente che trasmette un segnale il quale attraverso un canale giunge a un ricettore - e si basa essenzialmente sul,la «quantità d'informazione», per­ tanto matematicamente misurabile, contenuta nel messaggio, che in tal modo giunge al destinatario. Moles tuttavia avverte che l'essenza della teoria della informazione consiste nel­ l'aggredire la complessità reale per trovarvi una intelligibilità che non può essere che schematica· e che come ogni

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nuova ,teoria, la teoria dell'informazione si presenta come una tesi e non pretende d'avere validità universale 61• Per informazione dobbiamo intendere da un lato la libertà di scelta che si ha nel costruire un messaggio 62 e dall'altro il grado d'improbabilità del contenuto del messaggio. La possibilità di scelta esistente alla fonte del processo comuni­ cativo viene, però, limitata daU'imposizione di un codice il quale rende attuabile la stessa trasmissione del messaggio e ne permette la decodifica da parte del destinatario. Il rap­ porto codice-messaggio è simile alla dicotomia saussuriana langue-parole: dove la prima garantisce appunto la stessa possibilità di comunicazione in quanto rappresenta la comune piattaforma socio-culturale dei parlanti, mentre la seconda corrisponde all'atto del singolo individuo che può spaziare attraverso una gamma di possibilità espressive molteplici ma non infinite data l'imposizione del codice-langue. D'altra parte il « valore » del messaggio risulterà dalla quantità d'informa­ zione, cioè dall'imprevedibilità e dall'originalità con cui si sono combinati i vari elementi che costituiscono il repertorio comune: ciò che invece è già inserito · nel sistema di cono­ scenze dell'individuo non può costituire una informazione. Moles cerca d'integrare i concetti elaborati dalla teoria della informazione in termini fisici e matematici da Shannon e Weaver con la psicologia, in quanto ogni messaggio serve a modificare il comportamento del ricevitore, e con l'estetica, poiché l'opera d'arte è soprattutto un « messaggio » tra artista e pubblico che presuppone un alto livello di originalità e quindi d'informazione. D'altra parte la comunicazione tra artista e fruitore è resa possibile dalla presenza di un codice comune di simboli col quale il messaggio estetico si pone in un rapporto dialettico norma-deroga e che serve a sfatare le consuete teorie d'un arte « insufflata » nell'uomo a prescin­ dere da ogni elemento sociale e culturale 63•

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L'esigenza tuttavia di dover conciliare l'originalità del messaggio con le bande di ridondanza necessarie ai fini del processo comunicativo e in inevitabile aumento in seguito alle ripetute fruizioni del medesimo messaggio, conduce Moles a distinguere due diversi tipi d'informazione nell'insieme del


messaggio: una informazione « semantica» che può essere espressa in simboli, traducibile, logica e che determina un'at­ tività decisionale; e un'informazione « estetica» intraducibile e che determina stati interni 64• Il rapporto informazione­ ridondanza trova un riscontro anche in quella che Moles chiama « natura del piacere estetico »: infatti un messaggio caratterizzato da un eccessivo livello di originalità sommerge l'attenzione del fruitore, il quale d'altra parte si mostrerà totalmente disinteressato dinnanzi a un messaggio altamente ridondante, cioè banale; quindi il piacere estetico appare legato al rapporto tra offerta di originalità e capacità di accettazione della stessa da parte dell'individuo 65. A questo filone di studi che applicano i risultati della teoria dell'informazione all'estetica è da ricollegarsi anche l'opera di Max Bense il quale allarga il suo discorso su prospettive più ampie che gli provengono dall'estetica hege� liana e dalla semiotica di derivazione anglosassone. La « fun­ zione triadica del segno» 66 è anzi considerata da Bense uno dei « requisiti di massima» dell'oggetto estetico e così anche la « relazione di valore », cioè la possibilità di valu­ tazione del medesimo oggetto che è rapportabile al sistema segnico poiché in generale il « valore» trasforma sempre una « cosa » in un « segno » 67• Da ciò si comprende facilmente come Bense riesca ad introdurre una « ontologia funzionale del segno » e come il « semantico » finisca per annullare defi­ nitivamente l'« antico». Questo passaggio dall'antico al seman­ tico si ricollega alla distinzione che egli opera tra « macro­ estetica» e « microestetica », distinzione che ricalca quella esistente tra « macro.fisica » e « microfisica». Egli intende con la prima l'approccio all'opera d'arte attraverso la rap­ presentazione della sua oggettualità che si esplica in rapporti e correlazioni caratteristici della fisica classica, mentre la microestetica, - analogamente alla microfisica moderna che non opera su oggetti ma su enunciati - si fonda sull'analisi dei segni e sulla modalità del loro funzionamento. L'arte segue in questo modo la direzione indicata dalla ricerca · scientifica. Osserva Morpurgo-Tagliabue: Des « objets » et des « proprlétés » il est parvenu aux « constantes », structures 27


et foncttons d'ensemble. Au lleu d'un art mimétique ou ab­ strait qui serait oriénté sur les objets et sur les formes, s'affirme de plus en plus un art qui est l'émancipation du moyen significatif 68• I:. a livello microestetico che Bense collega la sua estetica alla teoria dell'informazione. Qui, infatti, l'opera d'arte viene esaminata nelle varie « operazioni singole di selezione » e ri­ sulta pertanto « un sistema indeterminato » nel senso che la scelta degli elementi selezionati è libera. Questo grado di indeterminazione oggettiva mlcrocostruttiva può venire de­ terminato numericamente utilizzando il grado di « mesco­ lanza » con cui il repertorio degli elementi impiegati compare nell'opera. E questo grado di « mescolanza » può venir defi­ nito anche come il grado di « probabilità » della situazione finale realizzata 69• Ora Bense, dopo aver premesso che l'ap­ plicazione della teoria dell'informazione alla realtà estetica è resa possibile da due fattori: - a) l'astrattezza del concetto d'informazione; b) la distinzione fra « informazione seman­ tica » e « informazione estetica » - può collegare quest'ul­ tima al livello microstrutturale dove, appunto, sulla base di una situazione di equiprobabilità, si determinano le com­ binazioni più improbabili, informative e quindi originali tra i vari elementi e tutte riconducibili a quantità nu­ meriche. La teoria dell'arte di Max Bense è stata definita da Dino Formaggio l'ossessione della riduzione del mondo in opera­ zioni tecniche quantitative 10• Si tratta tuttavia di un'ossessione che trova riscontro nella realtà odierna dominata da un lato dalla strapotenza dell'elemento tecnologico e tendente dall'altro a fondere la sfera della scienza con quella dell'arte non solo a livello di metodologia ma anche di fondazione logica.

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Ci sembra opportuno concludere con il giudizio di Eco questo excursus sulla teoria della informazione in campo estetico: ottimo metodo per l'indagine sempre più accurata della forma dell'espressione sotto il suo aspetto di segnale fisico, essa non può avere che valore orientativo... per una teoria comunicativa più comprensiva che non può essere che


una semiotica generale (la quale si avvalga di strumenti matematici solo a certi livelli della significazione) 11. Nel suo recentissimo Trattato di semiotica generale Eco dedica un capitolo all'analisi semiotica del testo estetico. Qui, oltre alla formulazione di nuovi procedimenti metodo­ logici che mirano essenzialmente a rendere sempre più netti i contorni del messaggio estetico, il quale lungi dal suscitare soltanto «intuizioni», provvede invece un incremento di conoscenza concettuale 72 , vengono ripresi alcuni concetti già dall'A. trattati ne La struttura assente, come ad esempio l'« ambiguità» e l'« autoriflessività » dell'opera d'arte, ma analizzati in una prospettiva più articolata e quindi più esau­ stiva. Fondamentale è l'aver introdotto la bipartizione operata dalla glossematica di Hjelmslev fra piano dell'espressione e piano del contenuto, e di conseguenza partire non più dal concetto di segno ma da quello di funzione segnica, intesa come relazione tra due funtivi, l'uno appartenente appunto al piano dell'espressione e l'altro a quello del contenuto. Ciascuno dei due piani comprende tre elementi: la forma, la sostanza, la materia; e questa sestupla suddivisione si mostra particolarmente efficace soprattutto nella analisi del testo estetico il cui processo interpretativo assume l'aspetto di una approssimazione infinita. La suddivisione operata da Hjelmslev tra piano dell'espressione e piano del contenuto (non dissimile dalla dicotomia saussuriana significante­ significato) si rivela particolarmente efficace se partiamo dalla nozione relazionale di funzione segnica. Infatti le ulteriori suddivisioni che intervengono su ciascun piano (forma, so­ stanza, materia) servono a sottolineare, da un lato che ognuno dei due termini (espressione e contenuto) può articolarsi a più livelli e, dall'altro che la funzione segnica consiste proprio in una correlazione continua di un livello del piano dell'espressione con il livello corrispondente del piano del contenuto. Partendo da queste premesse, la definizione di ambiguità come e deviazione dalla norma » non apparirà più molto sod­ disfacente e dovrà essere ulteriormente specificata nel senso

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che si può parlare di ambiguità quando- a una deviazione sul piano dell'espressione corrisponde una qualche alterazione sul piano del contenuto 73 • Analogamente l'idioletto che pre­ siede al testo estetico si presenta come un sistema in cui le mutazioni che avvengono in un messaggio a un determinato livello trovano una immediata rispondenza in altri messaggi allo stesso livello. E poiché questo riassestamento strutturale costituisce uno e forse il più importante dei contenuti che il testo veicola 74 , ne consegue che questo attinge anche in massimo grado la caratteristica dell'autoriflessività. Alla base dell'analisi di Eco c'è l'esigenza di sottoporre ad indagine semiotica zone finora inesplorate del testo este­ tico, attraverso una graduale segmentazione del« continuum» del piano della espressione e di conseguenza del « continuum » del piano del contenuto, che conduca, con una adeguata e approfondita analisi a livello microstrutturale, ad una oppor­ tuna« pertinentizzazione» dello stesso continuum. E una delle conseguenze immediate di tale operazione per l'estetica e la critica artistica è che molti fenomeni decadono dal rango dei fenomeni « creativi » e di « ispirazione » e sono restituiti alla convenzione sociale 75•

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Di alcuni anni precedente a questa recentissima siste­ mazione teorica di Eco è un'opera molto interessante ai fini del nostro discorso, Semiotica e estetica di Garroni, la quale si pone come una delle teorizzazioni più valide in quel diffi­ cile passaggio dalla linguistica alla semiologia ( o alla semio­ tica non linguistico-verbale). Egli parte dall'analisi del lin­ guaggio filmico, ma il suo discorso può riferirsi a qualunque altro tipo di linguaggio artistico e tende a dimostrare come impropriamente si possa parlare di linguaggio dal momento in cui non è possibile far riferimento a un'unità di codice, come ad esempio la « ,langue» per quanto concerne l'analisi linguistica. Egli sottolinea, inoltre, la difficoltà di estendere la nozione di doppia articolazione a quei processi semiotici che, come il messaggio cinematografico ed architettonico, sono caratterizzati dalla «continuità» più che dalla «discre­ zione». Tuttavia esiste la possibilità di un'analisi semiotica in quanto la trasformazione del continuo in discreto, o la


modellizzazione del linguaggio ( più in generale, della semiosi) può essere operata, rispetto al livello dell'opera d'arte o del messaggio, solo ad un livello ulteriore dove gli elementi discreti individuati si pongono non più come « parti » del1 'opera o del messaggio stesso, ma come sue componenti for­ mali classificabili in campi di varianti, dall'insieme dei quali soltanto si può dire legittimamente che costituiscono un mo­ dello o w1 sistema 76 • Quindi non vengono più individuate

unità minime ma « costanti funzionali » analizzabili secondo un rapporto sia paradigmatico che sintagmatico. È opportuno sottolineare la fondamentale« eterogeneità» del « linguaggio cinematografico » in quanto segno complesso e come tale, analogamente agli altri segni complessi rappre­ sentati dalle altre arti, scomponibile in segni semplici che a loro volta si raggruppano in classi omogenee. In tal modo si ottiene non un « sistema delle belle arti » ma piuttosto un insieme di modelli costruiti ad un livello di astrazione notevolmente più elevato rispetto al piano del cosiddetto

« linguaggio » 77• Quindi appare un'illusione parlare di « lin­ guaggio specifico-semplice o omogeneo » o « specifico filmico » perché, nel momento in cui viene segmentato in unità minime il complesso messaggio cinematografico, non per questo si giungerà alla determinazione ultima della struttura di tale linguaggio, la cui complessità potrebbe essere risolta solo fa. cendo riferimento ad unità formali, omogenee e quindi non strettamente cinematografiche, le quali intanto si realizzano in quanto intervengono anche, simultaneamente, componenti eterogenee 78• Come acutamente sintetizza Christian Metz lo « specifico » è alcunché di eterogeneo e l'omogeneo è il non specifico. Ciò che caratterizza in proprio ciascuna delle arti è una certa combinazione di più codici: lo « specifico » è quindi l'eterogeneo. Ognuno di questi codici omogenei si ritrova in più arti differenti: l'omogeneo dunque è il non

specifico 79• Si può parlare di eterogeneità non soltanto per

alcune arti, come ad esempio il cinema considerato un'arte mista, ma anche per le cosiddette arti pure e per lo stesso messaggio verbale. Infatti che la « lingua » o il modello se­ miotico linguistico sia omogenea dipende non dal fatto che

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il linguaggio stesso sia omogeneo ma - come fu chiarissimo a Saussure e soprattutto a Hjelmslev - dal fatto che noi lo studiamo per ipotesi sotto un profilo formale omogeneo 80• La eterogeneità dei linguaggi in rapporto alla eterogeneità dei codici va anche intesa nel senso che un determinato mes­ saggio (nel nostro caso quello filmico) non può essere letto o interpretato in maniera univoca, sulla base, cioè, di un solo codice, perché è impossibile organizzare l'insieme degli elementi di un messaggio in un solo campo di opposizioni e di differenzialità; d'altra parte non si può sottrarre all'atto semiotico la sua funzione che è anche quella d'intervenire sul codice stesso, nel senso del suo arricchimento, del suo impoverimento, della sua trasformazione 81• I� relazione ai vari livelli di significato riscontrabili nei messaggi linguistico-verbali - cioè morfematico-grammati­ cale, lessematico, convenzionale-formalizzato - per quanto riguarda le semiotiche non verbali è opportuno far riferi­ mento al tipo di significato detto «contestuale», in cui i vari livelli semantico-linguistici si integrano complessivamente in un tutto che li eccede, li ricomprende e li rimodlfica 82• Parlare dunque di significato contestuale per un'opera d'arte significa soprattutto che essa non è semplicemente un insieme di elementi distintivi ma un'unità-totalità che si realizza in un rapporto di correlazione e di interdipendenza.

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Garroru si pone alla fine la domanda se non sia il caso di classificare il film tra le « semiotiche connotative » carat­ terizzate appunto dall'eterogeneità rispetto all'omogeneità delle « semiotiche denotative ». Poiché nel film possiamo di­ stinguere per lo meno due processi semiotici: uno linguistico­ verbale e l'altro percettivo-figurativo, riferendo il primo al piano dell'espressione e il secondo al piano del contenuto o viceversa - a seconda che l'uno o l'altro funga da semiosi­ guida - abbiamo realizzato appunto una semiotica connota­ tiva perché il suo piano dell'espressione è a sua volta una semiotica. Garroni tuttavia per le opere cinematografiche prende in considerazione un sotto-caso di semiotica conno­ tativa e cioè quel modello formale eterogeneo in cui non si può stabilire propriamente né un piano dell'espressione


né un piano del contenuto in quanto propri rispettivamente del linguaggio verbale e dell'immagine o viceversa, ciascuno dei quali fungerebbe invece contemporaneamente (secondo una funzione di indifferenza e non di ambiguità) da piano dell'espressione e da piano del contenuto 83• Quindi il mes­ saggio filmico si realizza attraverso l'eterogeneità di più modelli semiotici che raggiungono una omogeneità apparente nel momento in cui, confluendo simultaneamente in una determinata realizzazione, si specificano e si equilibriano in quell'unità di contenuto data dalla contestualità. Come viene confermato anche in Progetto di semiotica di qualche anno posteriore - in cui Garroni riprende in parte la stessa tematica dell'opera precedente accompagnata da una ulteriore, approfondita analisi della posizione teorica di Hjelmslev - perché il cinema possa essere considerato un linguaggio bisogna supporre soltanto una qualche, perti­ nente possibilità di modellizzazione, linguistica e non lingui­ stica M. Così, dal discorso sul linguaggio e sui vari modi d'inten­ derlo, siamo arrivati, attraverso il nostro excursus, a una posizione che supera anche il riferimento ad una «langue», intesa come sistema istituzionalizzato di segni, e ci rimanda alla costruzione di modelli astratti di riferimento nella cui convergenza o interrelazione soltanto è possibile cogliere il vivo e concreto e preciso senso del processo segnico che è poi il processo del nostro rapporto con la realtà. Per renderci conto del cammino percorso dall'estetica alla semiologia, rileggiamo un passo di Croce riguardante proprio il linguaggio artistico: Quando l'artista ha formato la sua immagine, quel precedente linguaggio, quella sintassi, quella metrica, quella psicologia e via dicendo, ossia tutta quella storia, sono già dentro la nuova immagine: vi sono, e insieme sono superati nella nuova immagine: la lingua è la vecchia lingua, eppure è nuova; il metro è il vecchio metro, eppure ha un movimento nuovo; agli altri uomini sl parla nei modi ad essi già familiari, ma anche non ancora familiari, perché quella poesia è insieme vecchia e nuova 85• Pur nel suo empirismo intuizionistico non si può negare

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che Croce abbia colto questa dimensione del linguaggio - individuale e sociale, come norma codificata e come de­ roga continua da questa norma -; egli però non ha saputo dirci come ciò avvenga e ha preferito dissolvere la concre­ tezza dell'atto linguistico nella irripetibilità del medesimo. Oggi, grazie all'estetica americana, allo strutturalismo, ai contributi della teoria dell'informazione, alla semiologia siamo abbastanza vicini a spiegarci tale apparente contraddizione. Il programma di affrancare l'estetica dalla sua crisi teoretica e di indirizzarla verso una più concreta fenomenologia del­ l'arte può realizzarsi dilatando sempre di più i campi d'in­ dagine, da un lato verso un recupero capillare di tutte le componenti che sembrerebbero esulare da una analisi estetica e dall'altro verso una riaffermazione continua della sua fon­ damentale funzione comunicativa. E non dimentichiamo che il comunicare è manifestazione di un insieme di valutazioni sociali che presuppongono la valutazione sociale e la comu­ nicazione come loro condizione 86•

1 A. PLEBE, Processo all'estetica, La Nuova Italia, Firenze 1959, p. 37 . E. GARR0NI, La crisi semantica delle arti, Officina Edizioni, Roma 1964 , p. 116. 3 U. SPIRITO, La mia prospettiva estetica, Brescia 1953, p. 185. 4 N. AIIBAGNAN0, Storia della filosofia, Utet, Torino 1966, voi. III, p. 546. s E. CASSIRER, Filosofia delle forme simboliche. La Nuova Italia, Firenze 1961, Voi. I, p. 20. 6 T. DE MAURO, Introduzione alla semantica, Laterza, Bari 1965, p. 183. 1 Ibidem, p. 203. a S. ULLMANN, La semantica: introduzione alla scienza del significato, Il Mulino, Mologna 1966, p. 111. 9 Ibidem, p. 96. 10 L. Rosrnu.o, ili semantica moderna e l'opera di Stepllen Ullmann, in introduzione al voi. S. ULLM.\NN, La semantica: introduzione alla scienza del significato, cit., p. IX. 11 G. MORPURGO-TAGLIABUE, Scuola critica e scuola semantica nella recente estetica americana, in « Rivista di Estetica•• a. 1956, f. 3° . 12 E. GARR0NI, Arte e comunicazione, relazione al XIV Convegno di Verucchio, settembre 1965. u P. RAFFA, Per una fondazione dell'estetica semantica, in « Nuova Corrente», nn. 28-29, 1963. 2

14 Ibidem.

1s Ibidem.

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16 G. MoRPURGO-TAGUABUE, lano 1960, p. 224.

L'esthétique contemporaine,

Marzorati, Mi-


17 J. A. R1c11,1nos, / q11a1tro ge11eri del significato, in « Nuova Cor­ rente•, nn. 28-29, 1963. 1s G. SERT0I.I, Le ambiguità di Empson e Ricllards, in « Nuova Cor­ rente•• nn. 42-43, 1967. 19 C�I. MORRIS, L'estetica e la teoria dei segni, in « Nuova Corrente•• nn. 42-43, 1967. 20 N. ADDAGNANO, Op. cii., p. 591. 21 CH. MDRRIS, Op. cii. 22 F. Ross1-L1NDI, Semiotica e ideologia, Bompiani, Milano 1972, p. 74. 2J Cli. MORRIS, Op. cii. 2� Ibidem. 25 MORPURGO-TAGLIADUE, Scuola critica e scuola sema111 ica nella re­ celll c estetica americana, cit. 26 G. DoRFLES, Simbolo, comunicazione e consumo, Einaudi, Torino 1962, p. 121. 21 CH. MoRRIS, Op. cit. 28 CH. MoRRis - D. J. HAMILT0N, Estetica, segni e iconi, in « Nuova Corrente•, nn. 42-43, 1967. 29 G. DF.LL\ VOLPE, Critica del gusto, Feltrinelli, Milano 19713, p. 188. .lO S. K. LINGER, Sentimentoe forma, Feltrinelli, Milano 1965, p. 48. 31 Ibidem, p. 57. 32 Ibidem. 33 Ibidem, p. 49. 34 Ibidem, p. 67. 35 G. MORPURGO-TAGLIADUE, L'estl1étique contemporaine, cit., p. 251. 36 G. DORFLES, Op. cit., p. 174. 37 G. DELLA VOLPE, Op. cii., p. 6. 38 Ibidem. 39 Ibidem, p. 120. <O Ibidem, p. 130. 41 Ibidem, p. 80. 42 Ibidem. 43 Ibidem, p. 73. 44 E. GARRONI, La crisi semantica delle arti, cit., p. 268. 45 Ibidem, p. 276. 46 Ibidem, p. 273. 47 Ibidem, p. 286. 48 Ibidem, p. 199. 49 C. BRANDI, Segno e immagine, Il Saggiatore, Milano 1960, p. 16. so Ibidem, p. 17. 51 Ibidem, p. 19. 52 G. M0RPURGO-TAGLIABUE, L'arte è linguaggio? in e Op. Cit. • n. Il, 1968. 53 Ibidem. s.1 U. Eco, La struttura assente, Bompiani, Milano 1968, p. 71. 55 R. BARTHES, in Strutt11ralis1110 e critica, Catalogo de e Il Saggiatore•• 1958-65, p. LIV. 56 U. Eco, Op. cit., pp. 278-279. 57 Ibidem. 58 Ibidem, p. 259. 59 R. DE Fusco, Storia e strut111ra, E.S.I., Napoli 1970, p. 161. 60 R. B,IRTHES, Saggi critici, Einaudi, Torino 1966, p. 246. 61 A. MoLES, Teoria dell'informazione e percezione estetica, Lerici, Roma 1969, p. 88. 62 U. Eco, Op. cit., p. 25

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fl 64 65

G. DoRFU!S, Op. et., p. 35. A. MoLEs, Op. cit., p. 249. A. MoLES, Analisi delle strutture del messaggio poetico ai diffe­

rcmti livelli della sensibilità. L'aspetto informazionale dei problemi di una poetica, in AA.VV., Estetica e teoria dell'informazione, Bompiani,

Milano 1972, p. 143. 66 M. BENSE, Fondamenti riassuntivi dell'estetica moderna, in AA.VV., Estetica e teoria dell'informazione, cit. Qui Bense dice: « La funzione triadica del segno ... abbraccia il segno in quanto tale, il segno in rap­ porto col suo oggetto, e il segno in rapporto col suo interpretante ». 67 Ibidem, p. 59. 6S G. MORPURCO-TAGUABUE, L'Esthétique conte111porai11e, cit., p. 477. 69 M. BENSE, Op. cit., p. 57. 70 D. FORMAGGIO, Arte, Isedi, Milano 1973, p. 158. 71 U. Eco, Introduzione ad AA.VV., Estetica e teoria dell'informa­ zione, cit., p. 26. n U. Eco, Trattato di semiotica generale, Bompiani, Milano 1975, p. 342. 73 Ibidem, p. 330. 74 Ibidem, p. 339. 1s Ibidem, p. 336. 76 E. GARRONI, Semiotica e estetica, Latcrza, Bari 1968, p. 29. 77 Ibidem, p. 70. 1a Ibidem, p. 95. 79 CH. METz, Specificità dei codici e specificità dei linguaggi, in e Informazioni Radio TV "• n. 8, 1971. 80 E. GAR.RONI, Semiotica e estetica, cit., p. 80. 11 Ibidem, p. 106. 12 Ibidem, p. 139. 83 Ibidem, p. 157. 84 E. GARRONI, Progetto di semiotica, Laterza, Bari 1972, p. 74. as B. CROCE, La critica e la storia delle arti figurative, Laterza, Bari 1946, p. 218. 86 E. GARRONI, Progetto di semiotica, cit., p. 264.

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La teoria di Hjelmslev e l'ar chitettura: alcuni problemi CETTINA LENZA

Ancora su Hjelmslev: e con ragione, se, come pare dimo­ strare la recente ed insolita fortuna critica, la sua teoria linguistica è divenuta un punto di riferimento inevitabile. Ci proponiamo, a nostra volta, di fare il punto; e cioè di verificare, rifacendoci nuovamente a Hjelmslev, le numerose proposte, da più parti avanzate, d'estendere i principi della glossematica ad ambiti diversi e, in modo particolare, all'ar­ chitettura; non tralasciando, con ciò, di sottolineare alcuni aspetti problematici e di formulare qualche ipotesi.

La nozione di segno nella glossematica Occorre dire subito che era nelle intenzioni, in varie occasioni rese esplicite, dello stesso linguista danese fornire un modello ricalcabile in molte e diverse discipline, di modo che la comune impostazione metodologica consentisse di superare l'atomismo culturale degli studi odierni, seguito all'alto grado di specializzazione, per produrre un'enciclopedia generale delle strutture di segni 1• Come Hjelmslev riformulasse la nozione di segno all'in­ terno della sua teoria è proprio quanto cercheremo di rias­ sumere brevemente in questo paragrafo. Ovviamente, in tale operazione, egli non poteva tralasciare di richiamarsi �l rove­ sciamento, già operato da Saussure, della concezione tradi1.ionale del segno come « segno di qualcosa �. alla quale ve- 37


niva, com'è noto, contrapposta l'idea del totale risultante dall'associazione di un significante a un significato 2• Ma quelli che erano gli elementi di una coppia (signifi­ cante / significato) venivano immediatamente trasformati da Hjelmslev in termini di un rapporto, nei due terminali o funtivi, cioè, (espressione e contenuto) della funzione se­ gnica; nel che sta l'idea giustissima che essi vivano di quel loro reciproco farsi e che non sia opportuno accertarne una « natura » a sé stante, anteriore e indipendente dal legame che Ii unisce 3• Infatti, non soltanto vi è solidarietà tra la funzione segnica ed i suoi terminali ( sicché la prima non può aversi se non in presenza dei secondi, i quali, a loro volta, sussistono solo grazie alla funzione segnica che li isti­ tuisce come tali); ma gli stessi due funtivi si presuppon­ gono a vicenda in maniera necessaria: un'espressione è espres­ sione solo grazie al ... contenuto, e un contenuto è un conte­ nuto solo grazie al fatto che è contenuto di un'espressione 4• Ne consegue che tali entità, definite, come sono, esclu­ sivamente in maniera relativa e oppositiva dalla loro reci­ proca solidarietà, così che nessuna di esse può essere identi­ ficata altrimenti, hanno denominazione del tutto arbitraria e non sussiste nessuna giustificazione per chiamare l'una piuttosto che l'altra... espressione o contenuto 5• Precisazione, questa, niente affatto marginale, se si considera la pregnanza di significato che caratterizza solitamente simili termini, e di evidente utilità proprio per quegli studi che vogliono richiamarsi al modello linguistico senza lasciarsi vincolare, però, da intuitive e superficiali analogie ai fenomeni del linguaggio.

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In effetti la terminologia di Hjelmslev richiede parti­ colare attenzione, proprio perché l'uso che egli propone dei vocaboli si discosta alquanto da quello più comune nella stessa pratica linguistica. Così è per la distinzione ulteriore che l'autore opera, tanto all'interno del piano dell'espres­ sione, quanto in quello del contenuto, tra forma, sostanza e materia. A questo proposito Guiraud 6 ci fornisce un esempio che, sebbene sia tratto non da un sistema biplanare, come la lingua, ma da quello monoplanare delle segnalazioni stradali,


chiarisce con efficacia didascalica la differenza fra i tre concetti. Consideriamo l'indicazione luminosa: arresto di circolazione: diremmo, secondo l'accezione tradizionale, che essa è sostanzialmente un segnale ottico elettrico e formal­ mente un disco rosso. Dal punto di vista di Hjelmslev, invece, il disco rosso luminoso che individua il segnale in se stesso costituisce la sostanza, mentre la forma non è che la relazione che esso contrae con gli altri segnali del sistema: nel caso particolare, cioè, il suo distinguersi oppositivamente da un disco luminoso verde o giallo; di qui la necessità di ricorrere ad un terzo termine per indicare la natura ottica ed elettrica del segnale, e potrà adoperarsi, appunto, materia. La sostanza, insomma, può considerarsi come generata dal calarsi della forma sulla materia: quest'ultima, quindi, che sussiste provvisoriamente come una massa confusa, amor­ fa e indistinta, viene ad essere organizzata, articolata e suddivisa dall'azione della forma che vi si proietta come una rete che proietti la sua ombra su una superficie indivisa 7• Solo dopo l'intervento della forma la materia diviene, così, sostanza, ovverosia materia semioticamente formata. Proprio ciò si verifica, per Hjelmslev, in ciascuno dei due piani della lingua: la forma dell'espressione, intesa, dunque, come struttura astratta di relazioni, trasforma il « continuum » dei suoni esprimibili dalla voce umana in unità di sostanza dell'espressione, in suoni linguistici ben identificabili, grazie appunto alla sua azione distintiva. E va chiarito che tale attività formatrice non è affatto condi­ zionata dalla materia su cui interviene, cosicché, al di qua e al di là di una data frontiera, è possibile individuare un differente numero di suoni linguistici fondamentali. La stessa cosa può dirsi per la materia del contenuto: è noto, infatti, come le varie lingue ritaglino, nello spettro solare, zone di colore non coincidenti. Si tratterà di una diversità di forma di fronte ad una identità di materia amorfa; insomma è chiaro, per riprendere il paragone prece­ dente, che la medesima superficie indivisa sulla quale il reti­ colo formale getta la propria ombra può articolarsi diversasamente, se variano, appunto, le maglie della rete stessa. 39


Come è stato giustamente obiettato 8, bisogna rilevare, però, un certo squilibrio tra i due piani, nel senso che la materia del contenuto resta un concetto assai più inclusivo di quella dell'espressione: se quest'ultima può, infatti, iden­ tificarsi nel «continuum » sonoro, la prima comprende non più un determinato settore dell'universo, ma l'intera realtà e, in aggiunta, l'intera massa confusa delle percezioni e ideazioni umane. Conseguentemente, la sostanza del conte­ nuto sarà costituita tanto da «cose» che da «concetti» 9, estratti dalla forma dai due «continua» della realtà e del pensiero. A questo punto è evidente in che modo vada revisionata l'ingenua concezione referenzialistica: il segno non può rimandare a qualcosa che, precedentemente alla formazione linguistica, risulti già distinto e identificabile; la lingua di­ verrebbe così una nomenclatura o .un mazzo di etichette da attaccare a cose preesistenti 10• Se è solo grazie alla forma che le due masse confuse del cqntenuto e dell'espressione si articolano e organizzano, il segno deve considerarsi segno delle formazioni operate dalla lingua stessa all'interno delle due materie: cioè segno della sostanza del contenuto e, ana­ logamente, segno della sostanza dell'espressione. Non resterà, allora, che sostituire all'usuale nozione di segno una definizione suggerita dalla proprietà, che abbiamo constatato, del segno stesso, di formare, tanto nel piano del­ l'espressione che in quello del contenuto, una data materia. I due funtivi della funzione segnica si sono rivelati, così, al­ l'indagine, entrambi di natura formale la loro interdipen� denza stabilisce proprio quella unità di forma dell'espressione e forma del contenuto che chiamiamo segno. In questo senso, quindi, possiamo attribuire ad Hjelm­ slev una conclusione che era già di Saussure: e cioè che la lingua è forma e non sostanza. La quadripartizione hjelmsleviana o le due tricotomie

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Proprio per il carattere riduttivo di questa rassegna ci è parso opportuno premettere al discorso più generale


un'esposizione, quanto mai breve e semplificata, che intro­ ducesse termini e illustrasse concetti meritevoli, peraltro, se non di un approfondimento, almeno di una più attenta consi­ derazione. Cosa che contiamo di fare nel corso di queste pagine, pur limitandoci a quegli aspetti della teoria che rivestano ai nostri fini, un particolare interesse. Occorre innanzi tutto evidenziare che, nella sommaria trattazione precedente, abbiamo immediatamente affiancato ai termini di forma e sostanza quello di materia, ove la più parte degli autori che in qualche modo si sono richiamati alle distinzioni hjelmsleviane si limitano ad opporre, nella disamina di ciascun piano, a forma, un'unica nozione nella quale vengono a confondersi e, a volte, non solo terminolo­ gicamente, tanto la sostanza che la materia. Il fatto è facil­ mente spiegabile e, anzi, la responsabilità di un tale equivoco va, in parte, attribuita allo stesso Hjelmslev che, nella sua opera principale, e quindi più conosciuta, I fondamenti della teoria del linguaggio, introduce accanto al termine sostanza quello di materia ( mening in danese e purport nella tradu­ zione inglese}, ma non ne chiarisce la differenza di signifi­ cato, avvalorando, anzi, con l'uso che ne fa, l'ipotesi che non si tratti d'altro che di sinonimi del tutto equivalenti. La distinzione fu resa esplicita solo più tardi, con quel saggio, cioè, La stratification du langage, che costi­ tuisce almeno 11 un completamento e un approfondimento dei principi esposti nei precedenti lavori, cui vengono, cosl, ad aggiungersi ulteriori ipotesi suscitate inevitabilmente da ta­ luni fatti evidenti che saltano agli occhi e che richÌedono una spiegazione. Dei quali fatti, appunto uno..., e forse il più saliente, è la molteplicità delle sostanze u e cioè la possi­ bilità che ha la forma di manifestarsi in diversi modi, come si può facilmente constatare, ad esempio, nel caso di una pronuncia e di una notazione fonetica corrispondente, dove una sostanza fonematica e una sostanza grafematica sono, dunque, entrambe coordinate alla medesima forma del­ l'espressione. Ma l'inverso non è vero: una stessa sostanza, proprio perché è già, per definizione, semioticamente formata, non potrà, OV\'.iamente, rivestire più forme semiotiche distinte. 41


Hjelmslev ricorre allora al vocabolo materia (o senso) per designare il manifestante in via più generale, vale a dire senza distinguere manifestante semioticamente formato e manifestante semioticamente non formato, che è una nozione del tutto differente 13; in tal modo si potrà appunto dire, correttamente, che una stessa materia, stavolta (fonica, gra­ fica, tattile che sia), può concorrere a manifestare diverse forme. Come si vede, quindi, il termine materia, da una parte, nel suo significato più ampio, include la nozione stessa di sostanza, ma, dall'altra, vi contrappone quella « nozione del tutto differente» di manifestante non semioticamente formato cui vogliamo rifarci e che, introdotta nella con­ sueta quadripartizione hjelmsleviana, la trasforma nelle due tricotomie forma / sostanza / materia. Sembrerebbe che con ciò Hjelmslev voglia ancora moltiplicare, per dirla con Barilli, i passaggi intermedi per allontanare indefinitamente il temuto momento di fissare un ancoraggio su qualcosa di altro dalle forme 14• E, in effetti, la materia, proprio perché costituisce ciò che è « altro» dalla forma, non rientra nelle definizioni della lingua e non inte­ ressa quella scienza linguistica che sulle sole forme può e deve concentrare la propria attenzione. t:. come se ci fossero due sponde di materia tra le quali si dispongono i passaggi intermedi di natura formale. Il sogno di Hjelmslev è che tutto questo segmento di operazioni meramente interne ( « sul ponte ») giunga a librarsi come nel vuoto, mantenendosi in piedi da sé, o riconoscendo un aggancio non più che nomi­ nale alle sponde materiche 15, sulle quali vengono abbando­ nati, perciò, fenomeni, percezioni, esperienze, idee o che altro siano, che la teoria linguistica si rifiuta di considerare, trat­ tandoli come degli ineffabili, o meglio degli inattingibili 16• Ma Hjelmslev ·vuole esclusivamente proclamare le ragioni della lingua quale totalità autosufficiente che può, quindi, essere adeguatamente descritta solo da una scienza linguistica disposta a liberarsi, in maniera definitiva, dalla pesante za­ vorra dei fattori eteronomi. Da ciò il rifiuto di ogni rimando esterno, di qualunque postulato non necessario che possa vin42 colare la teoria ad una realtà posta fuori dal linguaggio.


Così, egli si dimostra rigoroso nei riguardi dello stessL Saussure: all'affermazione del linguista ginevrino che la lin­ gua elabora le sue tmità costituendosi tra due masse amorfe, il piano indefinito delle idee confuse e quello non meno in­ terminato dei suoni 17 , ribatte che non è possibile proclamare la precedenza logica o cronologica, rispetto al linguaggio, del pensiero come della catena sonora. E De Mauro, nel suo commento al Corso, riconosce legittimo l'appunto che la tesi della nebulosità prelinguistica della « pensée» è dimostrabile solo dopo « l'apparition de la langue»... Infatti, proprio in coerenza con la tesi che si vuol sostenere, occorre dire che non incontriamo mai ,un possibile contenuto di pen­ siero linguisticamente ancora informe, e tale da consen­ tirci di dire che, prima deila lingua, il pensiero è o no informe 18• Nello spirito della stessa lezione di Saussure è evidente che la sostanza, dipendendo in maniera esclusiva dalla forma, non può sussistere autonomamente. Sicché, addirittura, la materia rimane, ogni volta, sostanza per una nuova forma, e non ha altra esistenza possibile al di là del suo essere so­ stanza per questa o quella forma 19• Un'affermazione radicale, quindi, che, ribaltando i ter­ mini, indurrebbe a pensare che si vogliano perfino subor­ dinare al linguaggio le condizioni stesse dell'esistenza o, al­ meno, della conoscibilità del reale. Ma, in effetti, come ha dimostrato il Graffi 20, Hjelmslev non esclude minimamente l'esistenza di una fonazione autonoma, la produzione, cioè, di suoni considerati non quali manifestanti di unità lingui­ stiche formali, ma come puri fenomeni fisici, in quanto tali passibili di analisi. E allo stesso modo sarebbe inesatto rite­ nere che si affianchi a Sapir e Whorf nel negare al pen­ siero un'esistenza indipendente dal linguaggio; infatti, come Hjelmslev stesso dichiara esplicitamente in un suo saggio, intitolato appunto Sprog og tanke (Linguaggio e pensiero), il linguaggio non costituisce · che la forma delle abitudini di pensiero; al di là, quindi, del pensiero linguisticamente arti­ colato rimane pur sempre un universo confuso di percezioni e ideazioni, il cosiddetto pensiero inarticolato, suscettibile 43


di uno studio psicologico del tutto svincolato da premesse linguistiche. In definitiva, la materia (tanto dell'espressione quanto del contenuto) sussiste indipendentemente dalla lingua e, ancora indipendentemente, può, anzi, deve essere formata, almeno a un grado che consenta di distinguerla dalle altre materie 21• E questo perché la formazione della materia diviene premessa necessaria per la sua esistenza; ma, si badi, per la sua esistenza scientifica. La « sostanza » in senso ontologico resta un concetto metafisico 22 e Hjelmslev è troppo avvertito per perdersi in considerazioni del genere: quello che, secondo la sua rigorosa impostazione strutturalista, gli interessa affer­ mare è che ciò che è conoscibile è proprio la rete di dipen­ denze istituita da una forma, senza pronunciarsi, però, sul fatto se tale struttura sia « in sé» nelle cose o ·non piuttosto nella mente umana. La materia è dunque In se stessa inac­ cessibile alla conoscenza, poiché la premessa di ogni cono­ scenza è un'analisi di qualche tipo; la materia si può cono­ scere solo attraverso una qualche formazione e non ha quindi esistenza scientifica indipendente da tale formazione 23• D'altra parte, però, la linguistica non può riconoscere precedenti formazioni della materia; in tal caso dovrebbe fondarsi su di esse, sacrificando cosl la propria autonomia: appunto ciò che Hjelmslev vuole assolutamente evitare. Sicché, i due « continua » dell'espressione e del contenuto potranno benissimo essere analizzati in base a premesse psi­ cologiche o acustiche che ne rivelino la forma; ma essi, total­ mente amorfi dal punto di vista linguistico, non avranno, proprio da tale particolare angolazione, alcuna esistenza scien­ tifica (nel senso di conoscibilità) e non resterà, allora, che considerarli esclusivamente come « potenzialità» di sostanza, come « insieme di possibilità» attualizzate dalla forma. In­ somma, la materia linguistica può definirsi in se stessa solo come ciò che è suscettibile di formazione, di qualunque for­ mazione 24• Cosl si legge nei Fondamenti, a proposito del­ l'espressione, che grazie In particolare alla straordinaria mobi­ lità della lingua, le possibilità sono indefinitamente ampie, 44 ma ciò che è caratteristico è che ogni idioma pone le proprie


suddivisioni particolari entro questo Indefinito numero di possibilità 25, il che viene interpretato, a nostro parere giusta­ mente, da Barilli, come l'invito a distinguere ... tra le mere potenzialità articolatorie fonatorie dell'uomo, e quelle stesse potenzialità una volta che vengano « attualizzate », vale a dire formate appunto dalla forma dell'espressione propria di cia­ scuna lingua u.. E lo stesso si verifica nell'altro piano, quello del contenuto, dove, come osserva De Mauro, ciascuna lingua, in un suo modo, secondo un suo sistema di forme, riduce a sostanza del contenuto ... la massa delle possibili espe­ rienze 27• Confrontiamo adesso quanto è emerso dalle considera­ zioni fatte e l'applicazione proposta da Eco del modello hjelmsleviano all'architettura; nel testo cui facciamo riferi­ mento, e cioè Le forme del contenuto, l'autore si limita a distinguere, all'interno di ciascun piano, una forma e una sostanza: cosa debba intendersi, nell'ambito particolare pre­ scelto, con tali termini è chiarito poco più avanti: in archi­ tettura il fatto di articolare un certo spazio in un certo modo significa suddividere tutte le possibili articolazioni e dispo­ sizioni spaziali (sostanza dell'espressione) secondo un sistema di opposizioni (forma dell'espressione) al fine di comunicare, tra tutte le possibili funzioni che l'uomo può espletare nel contesto della cultura (sostanza del contenuto) una serie di funzioni precisate e definite da un sistema di unità culturali (il sistema dei sememi) che rappresenta la forma del con­ tenuto 28• t:: immediatamente evidente, tralasciando per ora ulteriori considerazioni, come l'autore assegni alla sostanza . quel ruolo di « insieme di possibilità • (« continuum • delle possibili articolazioni spaziali, e « continuum • delle funzioni espletabili nel contesto culturale) che spetterebbe, più corret­ tamente, alla materia: è nella materia dell'espressione, infatti, che la forma relativa (un particolare sistema di opposizioni) trasceglierebbe una determinata articolazione spaziale, men­ tre, allo stesso modo, nella materia del contenuto un sistema di unità culturali individuerebbe e selezionerebbe una ben precisa funzione. Anche Koenig, come può dedursi dal suo articolo-

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intervento sulla linguistica architettonica, pubblicato nel gennaio scorso 29, si rifà alla «quadripartizione» hjelmsleviana partendo da premesse, per certi versi, analoghe a quelle di Eco; il che rende particolarmente interessante il confronto. Egli pure relega, infatti, l'aspetto funzionale dell'oggetto ar• chitettonico sul piano del contenuto ma, differentemente, sembra identificare la sostanza in una funzione specifica, cioè in una ben precisa occorrenza pratica cui il manufatto dovrebbe rispondere; ad esempio: dare una scuola ad un certo numero di ragazzi. Con l'intervento della forma per­ mane, però, ugualmente una scelta: non più stavolta tra le funzioni possibili, visto che la funzione è determinata, ma tra i possibili modi d'intendere tale funzione. Qui rientra la scelta intenzionale e, conseguentemente, la responsabilità dell'autore: sicché la stessa funzione su citata quale sostanza del contenuto si «trasforma» (il termine è di Koenig) in forma del contenuto (sottolineare lo sviluppo fisico e mentale delle alunne) nel liceo femminile di Liinen di Scharoun.

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La forma è intesa, quindi come il modo di organizzarsi della sostanza, e cioè: il modo in cui viene interpretata la funzione, e, analogamente, sull'altro piano, la maniera secondo la quale si strutturano i «choremi archici », ovverosia le unità spaziali significanti. Non senza una certa corrispondenza tra tali operazioni nei due piani, cosicché, richiamandoci al­ l'esempio precedente; le diverse esigenze (principalmente psicologiche) delle allieve del ginnasio, rispetto a quelle del liceo, si riflettono nelle stesse aule, differentemente conge­ gnate. Anzi, per Koenig, le due strutture - forma dell'espres­ sione e forma del contenuto - devono essere omologhe f. tale metodo di lettura si rivela, in realtà, un vero e proprio criterio operativo; l'importante è che la forma dell'espres­ sione segua quella del contenuto senza pregiudizio alcuno 31,, con una sequenzialità, quindi, logica prima che temporale. Si viene a perdere, così, l'indipendenza della forma dei1 'espressione che, da funtivo autonomo, si riduce al « rispec­ chiamento» (per dirla con Koenig) della forma del contenuto; una simile conclusione è estranea a Hjelmslev che, come sostiene l'arbitrarietà della forma rispetto alla materia, ovve-


rosia della funzione di manifestazione, la ribadisce anche per la funzione semiotica che riunisce le due forme. Secondo Brandi è appunto la resistenza ad accogliere il principio dell'arbitrarietà che ha portato a voler giustifi­ care l'origine della lingua con l'onomatopeia, quella delle arti figurative con la mimesi e quella dell'architettura con la rispondenza dell'edificio alla fwizione, donde una sua esegesi in chiave semantica 31• Ma qui non si tratta tanto di spiegare la motivazione originale del linguaggio architettonico, quanto di riproporre la iconicità del linguaggio stesso, che si arti­ colerebbe, quindi, in maniera per qualche aspetto simile o, comunque, in modo non del tutto convenzionale rispetto ai significati funzionali che veicola: iconicità che consisterebbe proprio nell'esprimere attraverso lo spazio la funzione, o meglio, nel denunciare, a livello di espressione architettonica, alcune scelte in fondo di carattere principalmente ideologico. Iconicità programmatica, dunque, che, al di là di un'ana­ lisi linguistica, diviene un modo più che di «vedere» l'archi­ tettura di « predicarla » nella realtà di oggi, con un richiamo, coraggioso e significativo, alla coerenza. E in quanto tale è un messaggio che non va sottovalutato.

Funzioni interne e funzioni esterne dell'architettura Cerchiamo, adesso, di esaminare quali problemi compor­ terebbe una più rigorosa applicazione dei principi della teoria hjelmsleviana all'ambito architettonico. Abbiamo precedentemente accennato a come l'autore di­ chiari più volte di ritenere utile e necessario che diverse di­ scipline si concentrino intorno a un'impostazione dei pro­ blemi, che sia linguisticamente definita ..., investigando entro che limiti ed in qual modo l propri oggetti possano subire un'analisi che si adegui alle esigenze della teoria linguistica. Cosi si potrà forse arrivare a illuminare in maniera nuova queste discipline, ed esse potranno arrivare ad un riesame dei propri metodi 32• Il principio che, comunque, Hjelmslev, coerentemente al suo credo strutturalista, ritiene immediatamente generalizza-

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bile è quello di pertinenza esclusiva delle funzioni per l'ana­ lisi 33: un qualsiasi oggetto, cioè (per la teoria linguistica un testo), non andrà scomposto materialmente in parti, a loro volta suddivise in parti ulteriori, ecc.; ma di esso si dovrà, piuttosto, cogliere quel reticolo funzionale che ne costituisce la struttura. Una totalità non consiste di cose, ma di rapporti; infatti le parti di un sistema possono definirsi soltanto in base alle dipendenze che contraggono con le altre parti e con il tutto; sicché, a ben guardare, gli oggetti non si rive­ lano nient'altro che intersezioni di fasci di tali dipendenze 34, o, per dirla in modo al tempo stesso più esatto, più tecnico e più semplice, una rete di funzioni 35 • Come si sarà già notato, il termine «funzione» 36, nel­ l'uso che ne fa l'autore, si discosta alquanto dal significato che abitualmente assume in linguistica; ad esempio, dal modo in cui l'intende il Biihler ( che riconosce nel linguaggio le funzioni di espressione, appello e rappresentazione) o Ja­ kobson (che individua, nella comunicazione, una funzione­ destinatore e una funzione-destinatario), lo stesso Martinet (funzione come modo di usare gli elementi linguistici) o, più in generale, la cosidetta linguistica funzionale che riporta i fenomeni linguistici alle funzioni (bisogni, istinti, ecc.) da cui si presume siano determinati. In Hjelmslev il vocabolo assume piuttosto il senso logico matematico di rapporto, con la conseguente distinzione ulteriore tra « funzioni in­ terne » caratteristiche di un oggetto, e cioè le dipendenze contratte tra le sue parti stesse, le sole di stretta competenza dell'analisi, e le assai più generiche « funzioni esterne», costi­ tuite, nel caso della lingua, da i suoi rapporti con i fattori non linguistici che la circondano 37, tra le quali rientrereb­ bero, secondo il Graffi 38, anche i tipi di funzione su nominati. Una simile differenziazione si rivela molto utile, ai nostri fini, proprio per chiarire il ruolo da assegnare, in una disa­ mina strutturale dell'architettura, alla funzione, in tutte le accezioni del termine storicamente determinatesi; eccezion fatta esclusivamente per la funzione intesa come «organizza­ zione interna del manufatto », viceversa la sua adeguazione 48 a certi usi, le occorrenze materiali o psicologiche cui si


suppone o si necessita che esso soddisfi si individuano me­ diante i modi della fruizione, si stabiliscono nei rapporti più generali con l'utenza, cioè nelle « funzioni esterne» che l'og­ getto stesso contrae. Occorrerà, insomma, tenere separati, per rifarci ad una distinzione operata da A. Moles per i prodotti del design, gli aspetti di « complessità strutturale» da quelli di « com­ plessità funzionale», le relazioni linguistiche che presiedono dall'interno alla costruzione dell'oggetto, e le relazioni ester­ ne ... al cui fine l'oggetto si costituisce come mezzo per, come strumento 39 • Se le lingue non si possono descrivere... in base al fine che loro generalmente si attribuisce... ma in base alla loro struttura interna 40, sono appunto le dipen­ denze che essa comporta a dover essere poste in evidenza e. prima d'ogni altra, la funzione segnica, la funzione principale, quella che serve a distinguere il sistema semiologico da ogni altro sistema e che ne costituisce la differentla specifica e il tratto fondamentale 41• Ciò comporta, ovviamente, l'individuazione preliminare, anche all'interno dell'ambito architettonico, dei due funtivi più generali che la istituiscono con la loro simultanea pre­ senza. Da quanto detto appare ovvio che non seguiremo qui quelle interpretazioni che identificano un piano con l'organiz­ zione del manufatto, e l'altro con la funzione che esso stesso consente o promuove. Voler introdurre la funzione all'interno della definizione formale di segno conduce, inevitabilmente, a due conclusioni: o a considerarla come un autonomo fat­ tore della struttura dell'oggetto, una sua proprietà « in sé » e non in relazione all'uso; o ad incorrere nelle difficoltà che già Eco registrava e che lo costringevano a concludere, tanto più considerando la funzione come unità culturale, che, mentre significanti e significati appartengono entrambi al­ l"area della lingua, viceversa, se le funzioni sono i significati dei significanti architettonici, il sistema delle funzioni non appartiene al linguaggio architettonico, bensì se ne sta fuori 42• Più corretto sembra allora assimilare i terminali della funzione segnica dell'architettura ai due piani dell'esterno e dell'interno, tornando, dunque, alle proposte di De Fusco 49


in Segni, storia e progetto dell'architettura. Com'è noto, l'au­ tore si richiamava al modello saussuriano, ma riteniamo che non poche ipotesi avanzate possano trovare, nella teoria di Hjelmslev, una conferma più rigorosa e uno sviluppo. Vogliamo subito sottolineare che proprio l'aver trasfor­ mato in termini relativi ed oppositivi di un rapporto quelli che erano gli elementi di una coppia consente di ribadire il legame di presupposizione reciproca tra interno ed esterno, sicché non sembra necessario relegarli; come fa Brandi, nello stesso piano e, addirittura, nel medesimo strato. Per tale autore, interno ed esterno, condizioni stesse inseparabili della spazialità architettonica ... separatamente non corrispondono, neanche per metafora, a un piano dell'espressione e a un piano del contenuto 43; viceversa, è proprio assumendoli come tali che se ne afferma quella solidarietà, per cui non ci può ... essere, tranne che per un'artificiale separazione, un contenuto senza un'espressione, né un'espressione senza un contenuto 44_

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Per la glossematica, infatti, la funzione che istituisce il segno non è, a differenza dell'opinione comune, un rapporto tra due entità l'una delle quali designi l'altra, ma un'inter­ dipendenza che non ci permette di analizzare un termine senza prendere in considerazione anche il suo correlato. Una tale definizione consentirà, dunque, di superare l'ovvia resi­ stenza specifica che oppongono ad ogni tentativo di esten• slone nozioni intuitive, legate all'esperienza linguistica in senso stretto, quali «senso», «significato», ecc. 45, annul­ lando conseguentemente l'impressione che l'equivalenza interno = significato, corrisponda a privilegiare ( come obietta Brandi) questa sola dimensione dell'opera architettonica, a tutto discapito dell'altra. Cosa che, d'altronde, abbiamo mo­ tivo di ritenere non essere affatto nelle intenzioni di De Fusco, dal momento in cui sostiene: nell'associare la dicotomia saus• suriana a quella spazio esterno-interno, non intendiamo sta· bilire una corrispondenza di termine a termine, bensi una equivalenza tra i due binomi nella loro valenza totale 46• Sembra coerente con tale assunto puntare, allora, per la determinazione del segno architettonico, sul risultante


complessivo del rapporto fra i due termini; ad esso toccherà formare, tanto nel piano dell'esterno che in quello dell'in­ terno, qualcosa di materiale, organizzare, cioè, un involucro e uno spazio mediante un opportuno sistema di relazioni. Le due facce di quell'unità che chiamiamo segno sono, in­ somma, entrambe di natura puramente formale, si identifi­ cano, cioè, in classi funzionali determinate esclusivamente dalle « funzioni » esistenti tra gli elementi delle classi stesse, i quali elementi andranno considerati, come dice Garroni, non come semplici derivati mediante l'astrazione di dati materiali, sebbene ad essi siano ovviamente coordinabili, ma come elementi definiti dalle loro mutue dipendenze 47• Occorrerà, cosl, nell'analisi, encatalizzare la forma alla so­ stanza, ovvero sia riconoscere, dietro a ciò che risulta imme­ diatamente percepibile con i sensi (l'involucro concreto e lo spazio interno praticabile), la relativa conformazione plastica e conformazione spaziale, la cui interdipendenza stabilisce il segno, mentre ciascuna è, a propria volta, individuata dalle reciproche relazioni tra i suoi componenti. La valorizzazione di questo aspetto formale, astratto, dall'analisi non può essere assolutamente trascurata nel ri­ chiamarsi alla teoria hjelmsleviana, e difatti l'autore si ri­ solse a coniare il nuovo termine di glossematica proprio per designare, polemicamente, un diverso modo di porsi di fronte alla lingua. In opposizione ai metodi descrittivi dei tradizionali studi linguistici, egli proponeva una scienza del­ l'espressione che non fosse una fonetica e una scienza del contenuto che non si identificasse con una semantica, ma che risultassero entrambe, costruite su base interna e funzionale; in definitiva, si postulava una scienza linguistica della forma, un'algebra della lingua che operasse con entità arbitrariamente denominate, senza designazione naturale. Gli elementi della stru.ttura della lingua ricordano a Hjelmslev i simboli con cui si opera in algebra: a, b, x, y, z, ecc. 48 Da qui, anzi, la preferenza accordata, secondo Barilli, agli aspetti dell'esercizio linguistico più affinati e spirituali, più algebrici, in tutto simili a brevi notazioni valide solo per U loro valore relazionale, prive di consistenza intrinseca,

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come sono in genere le varie forme di registrazione grafica, in contrapposizione, quindi, a Saussure, il quale, invece, come si sa, non ha alcuna esitazione a recuperare l'intero com­ portamento orale-aurale, nonostante la sua materialità 49• In realtà, quest'algebra della lingua, cui i Fondamenti non dovevano costituire che la sola premessa, non fu mai esplicitamente formulata da Hjelmslev; una tale operazione venne tentata dal suo collaboratore H. J. · Uldall nella seconda parte, intitolata, appunto, Glossematic Algebra, del suo Out­ line; esperimento che non incontrò, allora, il favore dello stesso Hjelmslev e che oggi non si esita a definire sostanzial­ mente un fallimento 50: • è il rischio implicito in tutte quelle costruzioni totalmente astratte, edificate con il rigore di una teoria matematica, che non si confrontino, però, continua­ mente con i fenomeni reali. Ma a noi qui interessa soltanto richiamarci al principio ispiratore del pensiero hjelmsleviano, e alla conseguente ne­ cessità di descrivere il manufatto architettonico in base ai rapporti, che lo regolano dall'interno, tra i suoi diversi com­ ponenti; i quali, a loro volta, andranno individuati, in un piano come nell'altro, esclusivamente sulla scorta di defini­ zioni funzionali, senza alcun riferimento alle loro proprietà intrinseche, prescindendo cioè dalla sostanza, dalla manife­ stazione concreta. ·

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Viceversa Eco, pur avendo assimilato la forma dell'espres� sione architettonica ad un sistema di opposizioni, propone un'analisi componenziale del segno /colonna/ in cui il morf fema complessivo (il significante) viene scomposto non in elementi che si colgano mediante le mutue dipendenze, ma in marche morfologiche descritte e catalogate in· base alle caratteristiche che presentano visibilmente, cioè secondo ·la loro forma esterna: si identificano così il (capitello), che può essere (dorico), (ionico), (corinzio), o (con figure), il (fu,sto), che avrà un'(altezza), un (peso), un (diametro) e sarà (liscio) o (ruvido) o (scanalato), ecc. 51 Ma un inventario si può compilare solo in conformità con le funzioni e Hjelmslev rimproverava, infatti, alle scuole di linguistica a lui contemporanee di operare divisioni in cate-


0gorie (ad es.· vocali e consonanti) richiamandosi a criteri fisiologici o fisici e, quindi, non linguistici. D'altra parte è comune a tutto l'indirizzo strutturalista l'identificazione degli ·elementi ... in quanto esercitano le loro funzioni all'interno di un sistema ... strutturato di rapporti reciproci, sia sin­ tagmatici ( cioè nella catena del discorso), sia paradigmatici (cioè nell'ambito delle scelte diverse che, ad ogni anello co­ ·stitùtivo della catena, si possono compiere) 52• Pertanto si potrà individuare l'entità « colonna » o « colonnato » solo per­ -ché « funziona » in una certa maniera (secondo il significato etimologico · del termine funzione), cioè assume un determi­ nato ruolo, occupa una certa posizione nella « catena », con­ traendo con gli altri componenti dell'involucro (di copertura, di calpestio, di contenimento laterale ecc.) con i quali coe­ siste, relazioni di vario genere:· di presupposizione reciproca, o di presupposizione unilaterale o dipendenze più libere, che ·si hanno quando due termini non entrano in rapporto di 'presupposizione ma sono, a differenza di altri elementi, tra loro compatibili. Anche la descrizione del piano del contenuto dovrà com­ .pièrsi con il solo uso dei tre rapporti fondamentali indivi­ duati (si pensi, per esempio alla presupposizione unilaterale tra transetto e navata o all'interdipendenza tra navata ed abside nella chiesa romanica), sebbene la ricerca degli ele­ ·menti dello spazio interno sarà resa più complessa dall'as­ senza di una adeguata terminologia che non si richiami, come avviene per lo più, alle « funzioni esterne » degli ambienti, 'alla loro destinazione pratica. Certo, un'analisi che si fondi esclusivamente sulle dipen­ .denze interne, senza riguardo al concreto manifestarsi degli · è priva, in generale, di difficoltà: tant'è che :elementi, non ·alcuni linguisti 53 hanno messo in dubbio la possibilità, o ·almeno l'utilità, di definizioni che prescindano dalla sostanza. Così, ad esempio, non potrebbe cogliersi, se non sul piano di considerazioni acustiche, la differenza tra « p » e « k », ·visto ·che entrambe · contraggono le medesime funzioni, e, ancora: di più; per · il contenuto richiamarsi al significato . parrebbe indispensàbile. ·53


Come che sia, cl sembra necessario considerare - come dice De Fusco - la possibilità di analizzare e descrivere l'oggetto architettonico tramite un numero limitato di ele­ menti, ordinandoli in classi, secondo la loro facoltà combi• natoria 54: ovvero sia la classificazione di tali figure - col quale termine hjelmsleviano si indicano i «non segni» o « sottosegni» che costituiscono « parti di segni» -, non può basarsi sulla loro forma (esterna), che varia da un edificio all'altro, dall'uno all'altro segno, bensi sulla natura che con­ ferisce ad esse la loro funzione, nel senso più _ ampio del ter­ mine; sopratutto la classificazione delle figure si fonda sulla loro costante presenza, sul fatto che molte di esse assumono il ruolo di invarianti del linguaggio architettonico 55• Insomma, l'analisi di un qualunque testo architettonico (inteso com'è nei Fondamenti, in senso ampio, non solo cioè come singola opera, ma anche quale gruppo di opere di un certo autore o come l'intera produzione di un determinato periodo, ecc.) mira a rilevare il sistema, la «lingua» che vi sottostà; sicché gli elementi, proprio perché sono stati indivi­ duati con un criterio funzionale, potranno essere ordinati in classi secondo le possibilità di combinazione e costituire, tutti coloro che hanno la facoltà di occupare la medesima posizione nella catena (ad es., pilastro, colonna, parete por­ tante, ecc.), dei veri e·propri paradigmi. Come invarianti, poi, si definiranno quei membri appunto di un paradigma il cui scambio nel piano dell'espressione, come del contenuto, de­ termina inevitabilmente un cambiamento nel piano opposto. Infatti, se abbiamo definito il segno . architettonico come «unità» di conformazione plastica e conformazione spaziale, le due classi funzionali, che abbiamo identificato fin qui, andranno, a loro volta, interrelate nella funzione segnica; sicché l'analisi che si era precedentemente differenziata per l'espressione e per il contenuto torna a considerare, come proprio oggetto specifico, appunto il rapporto tra le due forme. Ovviamente, nell'operazione di classificazione non si potrà non tener conto delle regole di costruzione, le quali impedi54 scono d'inserire un qualunque elemento in un qualsiasi para-


digma e, quindi, impongono certe restrizioni alla combinabi• lità dei componenti e, conseguentemente, alla formazione dei segni; regole che, nel nostro caso, di là dall'essere dettate esclusivamente da ragioni statiche e distributive, rispondono alla più generale convenzione culturale dell'epoca, per cui l'accostamento di due elementi viene avvertito come « scor­ retto» (L'Alberti sconsigliava, ad esempio, l'uso dell'arco su colonne, anziché su pilastri, ma anche da ambiti non capzio­ samente favorevoli quali l'architettura classica potrebbero trarsi numerosi esempi di norme combinatorie e compositive che, sebbene non esplicitamente codificate, non risultano, tuttavia, per questo, meno cogenti). Encatalizzando ad un testo il sistema corrispondente, si è così scoperto il meccanismo meravigliosamente pratico della lingua 56 i cui cardini restano, dunque, gli elementi primari e le regole di costruzione; una volta individuato il comune denominatore, sarà possibile la lettura di tutte le opere ri­ portabili al medesimo sistema; non solo, ma combinando variamente una « manciata di elementi», secondo le regole desunte, si avrà la possibilità di formare una serie infinita di nuovi segni. L'analisi sconfina, dunque, nella progettazione, sempre riconducibile, in definitiva, alla manipolazione di certi ele­ menti costanti secondo date norme culturali. Proprio _per rendere operativa la ricerca semiologica sarà necessario deter­ minare non solo gli elementi formali, ma anche le regole com­ binatorie del moderno linguaggio architettonico 57• Infatti è certo che ogni previsione sul futuro del fare architettonico... risulta impensabile senza... l'adozione di nuove norme 51; le quali, appunto per la proprietà d'introdurre un sistema di ostacoli, di costrizioni, di resistenze, che ordinano le infinite possibilità, divengono stimoli all'attività creatrice, si pongono, per dirla con Valéry, come le « condizioni stesse della co­ struzione». Del resto il fatto che la recente cultura architet­ tonica le abbia rifiutate non significa che abbiano costruito senza norme: sono state semplicemente imposte da un codice più ottuso, quello dell'economia di profitto e del potere ammi- 55 I


nistrativo. Sta a noi decidere se vogliamo occuparci seria­ mente di un tale problema o delegare altri 59•

Infine, per ciò che riguarda gli elementi primari, è ovvio che risulti proficuo, secondo le finalità individuate, sotto­ porre ad unicriterio di«economia» gl'inventari di non segni: per essere adeguata una lingua deve essere anche facile da hnplegare, pratica da apprendere e da usare 60; occorrerà quindi «ridurre » la sua illinùtata ricchezza al numero il più

ristretto possibile di invarianti minimi. Si badi, però, che tale operazione va compiuta, secondo Hjelmslev, per entrambi i piani di una lingua; cioè non ci si dovrà limitare all'indivi­ duazione delle figure dell'espressione (o cenemi, unità vuote) ma occorrerà integrarla con la ricerca delle figure del con­ tenuto (o pleremi, unità piene); e ciò mentre la doppia arti­ colazione del Martinet prevedeva, com'è noto, l'ulteriore ana­ lizzabilità della sola faccia significante dei segni minimi. C'è da chiedersi, comunque, se, conformemente al metodo illustrato, ovverosia mediante un analisi continuata in base alle funzioni, risulterà possibile risolvere anche il piano dello spazio interno in componenti con mutue relazioni, che siano più piccoli dei contenuti dei segni minimi 61• :e una questione, questa, che non affronteremo qui, limitandoci a ricordare che anche per il linguaggio tale ricerca degli «atomi» del conte­ nuto, che Hjelmslev si limitò ad auspicare, costituisce in effetti il punto più problematico della sua teoria. Come conclude Lepschy in realtà, non solo non si hanno analisi soddisfacenti, ma non si sa neppure se tali analisi siano possibili, se cl siano entità minime discrete di conte­ nuto, o se invece il contenuto non sia il dominio del continuo piuttosto che del discreto... Ma il problema dell'esistenza e dell'eventuale identificazione degli elementi pertinenti del contenuto è reale 62•

I livelli della sostanza

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Nel paragrafo precedente abbiamo molto insistito sul fatto che, secondo una corretta assunzione · del pensiero hjelmsleviano, l'analisi dovrebbe concentrarsi esclusivamente


sull'aspetto formale dell'oggetto, ovvero sia sulla sua strut­ tura relazionale interna, descritta in base alle sole dipendenze tra i diversi elementi e senza rimandi al modo in .cui questi ultimi si manifestano sensibilmente. È ovvio, a questo punto, obiettare che una simile inda­ gine si rivela assai limitata; e risulterebbe tanto più assurdo considerare proprio il manufatto architettonico, che sappiamo con quanto diritto vada inserito in più ampie considerazioni, esclusivamente come un meccanismo autonomo regolato da sue proprie leggi. In effetti, sviluppare in un senso così rigo­ roso i principi dello strutturalismo, e cioè limitare l'atten­ zione sul sistema, indipendentemente dalla sua realizzazione, può condurre a isolare il linguaggio dagli altri fattori umani, trasformandolo così, da elemento vivo, in qualcosa di assolu­ tamente astratto e immobile, rispetto ad una società, di cui pure è prodotto, ben altrimenti reale e costantemente in evoluzione. Non senza ragione si è potuto rimproverare agli strutturalisti di librarsi troppo spesso nella stratosfera senza preoccuparsi delle realtà concrete di cui la linguistica si sostanzia 63• Ma non è un appunto che può muoversi a Hjelmslev, il quale prevede che allo studio della forma della lingua, della quale si preoccupava di difendere l'indipendenza in quanto struttura « sui generis », si affiancasse, con piena legit­ timità, l'esame della stessa sostanza. In altri termini, la glos­ sematica non esclude dalla linguistica Io studio della sostanza come tale - né rifiuta un'indagine degli altri aspetti connessi al linguaggio - intende semplicemente ascrivere questi feno­ meni ad uno specifico livello dell'analisi linguistica 64• Si tratterà adesso di specificare cosa debba intendersi più precisamente con il termine « sostanza ». In effetti ci siamo già sufficientemente soffermati sulla necessità di distin­ guere la materia quale « non semioticamente formata » dalla sostanza che proprio come tale si definisce. Viceversa, ciò che fino a questo momento non risulta affatto chiaro è la diffe­ renza tra forma e sostanza, potendosi addirittura supporre, in base a quanto detto sin qui, che la forma venga riassorbita totalmente nella nozione di sostanza; costituisca, cioè, 57


semplicemente la forma della sostanza. Nello schema hjelms­ leviano si verificherebbe così una sovrapposizione e, appa­ rentemente, con la distinzione dei due termini, si peccherebbe contro il requisito di semplicità della trattazione. In realtà non è così: forma e sostanza vanno necessa­ riamente separate in quanto che costituiscono due diverse gerarchie relazionali. E spieghiamo meglio: individuando per la lingua, oltre alla forma e alla sostanza, anche una materia, non abbiamo però precisato che il ricorso a tale terzo ter­ mine, non è affatto necessario nella maggior parte delle scienze empiriche, che hanno lo scopo di enucleare un sistema di relazioni (forma) in -un materiale dato (materia o sostanza, indlfferentemente) 65• In tali casi l'accezione stessa dei due vocaboli (forma e sostanza) coinciderebbe con quella assai più generale in cui l'intese Saussure. La «forma », in questo senso generale, si definisce come l'insieme totale ma esclu­ sivo del tratti che, secondo l'assiomatica scelta, sono costi­ tutivi delle definizioni. Tutto ciò che non è compreso in una tale forma, ma che di tutta evidenza apparterrà a una descri­ zione esaustiva dell'oggetto studiato, è relegato a un'altra gerarchia che in rapporto alla «forma » gioca il ruolo di «sostanza» 66• Come può intuirsi «forma» e «sostanza», così definite, sono dei termini relativi e non assoluti, nel senso che, intrapreso, da un altro punto di vista, lo studio della «sostanza», questa diviene, a sua volta, una « forma», anche se d'un grado differente, il cui complemento è nuova­ mente una «sostanza», comprendente, ancora una volta, i residui che non stati accettati come i tratti costitutivi delle definizioni. Adesso forma e sostanza semiotiche non costituiscono, in effetti, che un caso particolare di questa distinzione gene­ rale 67, nel senso che anche alla sostanza semiotica è enca­ talizzabile, mediante l'analisi, una sua « forma » diversa dalla forma linguistica vera e propria. La sostanza, insomma, si rivela ancora come un tutto che è in sé funzionale 68, cioè dotato di una propria rete di dipendenze; sicché, nell'esame di tale strato, ciascuna unità dell'espressione fonica, ad esem58 pio, cioè, ogni singolo suono, andrà stavolta caratterizzato


in rapporto a categorie del tipo: sonoro: sordo, nasale: orale, ecc. Cosi facendo se ne coglierebbe però soltanto l'aspetto fisiologico (o articolatorio), trascurando gli ulteriori aspetti che esso invece presenta. Nei Fondamenti si legge: si può considerare la sostanza di tutti e due i piani, sia in termini di entità fisiche (suoni sul piano dell'espressione, cose sul piano del contenuto), sia in termini della concezione che di tali entità hanno gli utenti della lingua 69• Sicché la de­ scrizione fisiologica dell'unità di sostanza fonica prima con­ siderata dovrà essere integrata con la descrizione da apper­ cezione, stabilita in base a un differente repertorio di cate­ gorie quali, ad esempio, alto: basso, forte: debole, lungo: bre­ ve, ecc., e con la descrizione fisica od acustica vera e pro­ pria analogamente organizzata. Insomma, all'analisi ... il tutto si presenta giustamente comportante diversi aspetti o livelli che si corrispondono e si completano e che l'analisi deve rivelare 70• Tornando all'architettura e considerando, ad esempio, la scatola plastica di un edificio, vediamo come all'analisi fun­ zionale precedentemente illustrata sia adesso lecito aggiun­ gere una descrizione del livello fisico o tettonico, accompa­ gnata da una disamina in qualche modo legata alla percezio­ ne; anzi, secondo Garroni, la percezione in senso stretto po­ trebbe essere riportata alla considerazione della sostanza nel suo livello socio-biologico, ove tale dicotomia all'interno dello stesso livello sembrerebbe rispondere in qualche modo alle due direzioni della psicologia transazionale e della psicolo­ gia della forma, mentre il livello d'appercezione (trattandosi, appunto, di percezione cosciente) riguarderebbe la percezione in quanto più direttamente connessa a questioni di tipo se­ miotico o presemiotico 71• Inoltre, nell'esame di tale terzo livello, bisognerebbe tener conto, secondo Hjelmslev, di diversi fenomeni d'ordine psicologico o più generalmente culturale, quali, ad esempio, le sinestesi, ovvero sia le associazioni suggerite dall'appa­ renza esterna delle designazioni, dall'immagine sonora o grafica di una lingua. Ad esempio, le tre parole inglesi « little » piccolo, « bit » pezzetto, e « kid » bambino, potrebbero susci- 59


tare l'idea di una certa corrispondenza tra il suono «i» e l'idea della «piccolezza» 72• Gli antichi seguaci di Eraclito avevano, anzi, proprio tentato di attribuire alla sonorità un valore rap­ presentativo naturale (la «i» esprimerebbe la leggerezza, «d » e « t» l'arresto ecc.). E conosciamo ancora meglio quali implicazioni siamo soliti attribuire alle caratteristiche fisiche di un oggetto architettonico, interpretando, anche ingenua­ mente a volte, i « significati » di linee verticali e orizzontali, di colori o qualità materiche ecc., in base a tipi di associazioni più o meno stal;>ilizzatesi nell'uso collettivo. Insomma, in quella operazione che possiamo definire di «mediazione» 73 dal segno (formale) all'oggetto referente (concreto), compiuta dai diversi livelli della· sostanza, sem­ bra esista un certo ordine gerarchico, secondo il quale, come livello primario e immediato, andrebbe considerato quello valutativo che, anzi, per Hjelmslev, costituisce la sostanza per eccellenza, la sola sostanza... che dal punto di vista semio­ tico sia Immediatamente. pertinente 74 • Passiamo infatti ad esaminare la sostanza del contenuto: avremo anche qui un li­ vello fisico che è quello proprio della «cosa » significata ( ca­ vallo, cane, montagna, ecc.), ma non è affatto mediante la descrizione fisica della cosa significata che si arriverà a ca­ ratterizzare utilmente

l'« uso

semantico» adottato

in

una co­

munità linguistica e appartenente alla lingua che si vuole descrivere,

è

viceversa mediante le valutazioni adottate da

I giudizi collettivi, l'opinione sociale 75• Riportata nel nostro ambito una simile affermazione ci stimola a chiarire i rapporti tra dimensione semantica e di­ mensione d'uso dell'oggetto architettonico. Ci riferiamo alla sostanza, ad un contenuto, cioè, non più considerato formal­ mente, ma che è, finalmente, spazio interno, penetrabile, agi­ bile, spazio in tutta la sua concretezza che l'uomo « vive » e modifica vivendo. Uso semantico dell'architettura potrà, allora, equivalere a « fruizione significativa » nelle intenzionalità di quelle· avan­ guardie che hanno compreso la necessità di recuperare l'utenza, da semplice destinatario passivo, al ruolo di attivo 60 e cosciente gestore dello spazio. Ma, nella più ampia genequesta comunità,


ralità dei casi, l'aggettivo semantico assume comunque valore causativo, nel senso che è appunto l'uso a conferire signifì­ caziçme a uno spazio; ipotesi, quindi, che si richiama a posi­ zioni già del Dewey della Logica, e più chiaramente espresse dal Wittgenstein delle Ricerche Flosofiche, che portavano a riconoscere nel significato una variabile per larga parte deter­ minata dalla rete di comportamenti che si intrecciano intorno a un referente nell'ambito della società. Quest'ultima, inoltre, provvederà essa stessa, come ci insegna Barthes, ad un ulte­ riore processo di semantizzazione, per cui quell'uso che indi­ viduava il significato di uno spazio, è, a sua volta convertito in segno di questo uso 76• Come che avvenga tale passaggio �a uso semantico a uso semantizzato, la valenza significativa di un oggetto architettonico, così determinatasi, va ricondotta in seno alla comunità e rapportata alle tradizioni, ai miti, alla « cultura » del gruppo. Il « cane »· nota Hjelmslev riceverà una definizione seman­ tica del tutto differente tra gli Eschimesi, dov'è essenzialmente bestia da tiro, tra i Parsi dove è l'animale sacro, in quelle so­ cietà indiane dov'è condannato come paria e nelle nostre ci­ viltà occidentali, in cui è soprattutto l'animale domestico ad­ destrato alla caccia o alla guardia 77• Solo richiamandosi inol­ tre alle valutazioni collettive e all'opinione sociale sarà pos­ sil?ile cogliere una « parola » non soltanto nel suo « senso proprio », ma anche nei suoi numerosi rimandi metaforici, e soprattutto giustificare la storicità dei significati, ovverosia quelle stratificazioni di senso, che, pur restando invariata la struttura formale del segno, si verificano allorché la società, proprio evolvendosi e mutando valori, viene ad alterare il li­ vello primario della sostanza. Sappiamo infatti che una lingua può subire un mutamento di natura puramente fonetica, sen­ za che ciò tocchi il sistema dell'espressione dallo schema lin­ guistico e, analogamente, essa. può subire un mutamento di natura puramente semantica senza che ciò tocchi il sistema del contenuto. Solo così è possibile distinguere tra e sposta­ menti fonetici ,. e e semantici ,. da un lato e e spostamenti for­ mali ,. dall'altro 11. Nel rapporto che lega la forma alla sostanza, -la prima è la costante mentre la seconda è l'�lemento va- 61


riabile, per cui abbiamo già visto come la stessa forma può manifestarsi in sostanze diverse (e non escludiamo che la medesima struttura relazionale di un oggetto architettonico si possa riscontrare, ad esempio, nei disegni, in quelli, ovvia­ mente, che ne rispettano l'organizzazione linguistica); ed ag­ giungiamo, adesso, la considerazione che la sostanza può an° cora modificarsi nel suo livello valutativo, senza che ciò si ripercuota minimamente sulla struttura formale. Da qui si può comprendere, ad esempio, la possihilità per un'opera, cli conservare inalterati i propri rapporti interni e mutare, però, le sue valenze semantiche, se cambia il con­ testo non solo sintattico, ma anche situazionale. Si obietterà che in simili casi la dimensione d'uso è, però, scomparsa, pur essendosi addirittura accentuata la componente della signi­ ficazione (essere monumento di un'epoca). In realtà non si verifica mai la completa caduta del significato in quanto uso ... Il che significa comprendere, per esempio, la piena « capacità di attualità d'uso » del monumento antico, non solo come le­ gittimità del mutamento dell'uso originale, ma anche come nuova funzione nel contesto urbano e territoriale del monu­ mento stesso... come significazione speciale di quel contesto, come dialettica col tessuto circostante, come punto di accu­ mulazione speciale 79• Concludendo, il primo dovere del semlotista che si ac­ cinge a trattare la sostanza del contenuto consisterà nel de­ scrivere quello che abbiamo chiamato il livello di valutazione collettiva, seguendo i corpi di dottrina e di opinione adottati nelle tradizioni e negli usi della società considerata 80, riavvi­ cinando, così, la lingua alle altre istituzioni sociali e deter­ minando il punto di contatto tra la linguistica e le altre bran­ che dell'antropologia. Senza tralasciare, però, così facendo, di considerare gli altri livelli e, cioè, nel nostro caso quello fisico (lo spazio volumetricamente inteso) e quello socio-biologico (lo 'spazio definito nelle sue stesse proprietà: direzioni, di­ stanze, ecc. non più fisicamente, ma, per dirla con Lewin, psicobiologicamente, cioè in base alla sua struttura quasi fi. sica, quasi mentale, quasi sociale). E questo perché spazio, 62 percezione e cultura sono tre termini che, come c'insegna la


prossemica, devono necessariamente rapportarsi l'uno al­ l'altro. Diviene adesso ben altrimenti significativa ·1•affermazione hjelmsleviana che il segno è segno di una sostanza dell'espres­ sione e di una sostanza del contenuto, rivelatesi entrambe, all'indagine, realtà piuttosto complesse e comprensive di più aspetti. L'analisi glossematica che in un primo tempo, proprio per garantire l'autosufficienza della lingua, si era chiusa in un ambito puramente formale, ha finito poi, con successivi allargamenti, per cogliere il fenomeno linguistico nella sua globalità. Nella descrizione della sostanza saranno infatti legit­ timi tutti quei rimandi eteronomi precedentemente sacrificati al carattere di autonomia sistematica di un campo semio­ tico ..., che costituisce quel criterio di pertinenza considerato uno dei principi-base del metodo strutturale. 81• Trova così una soluzione l'esigenza di salvaguardare l'in­ dipendenza del segno architettonico dal « qualcosa d'altro » senza rinunziare al compito di approfondire, allargare, espli­ citare il processo di significazione, inclusivo dei parametri più eterogenei 82• Proprio ciò aveva spinto De Fusco a distinguere un asse sintagmatico e un asse associativo, concentrando cosi l'attenzione sui valori strutturali, conformativi, « interni» di un'opera e dando conto, allo stesso tempo, anche di quelli « esterni », simbolici, metaforici, associativo-mentali e del più generale contesto storico-sociale in cui la fabbrica s'inserisce. Ma una tale interpretazione della dicotomia sintagmatico­ associativa andava, come già era notato, oltre il pensiero « ufficiale » di De Saussure 83 riferendosi, pur sempre, il lin­ guista a rapporti semiologici ( ovvero sia segno-segno) con­ tratti all'interno dell'enunciato o del paradigma ( e lo stesso esempio architettonico ne è una conferma). Viceversa la distinzione di· Hjelmslev tra lo studio dello schema e quello dell'« uso», ovverosia fra la descrizione della forma e quella della sostanza, sembra assegnare un giusto ruolo all'esame di quei fenomeni che si trovano inevitabil­ mente connessi all'architettura e conseguentemente consente di giustificare quegli apporti extra disciplinari che contribuiscono ad una più esauriente comprensione. 63


La nozione di semiotica connotativa e la sfera estetica

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Abbiamo visto, dunque, come nel corso della trattazione Hjelmslev si sia andato convincendo della necessità di tra­ sformare l'atteggiamento limitato, pratico e tecnico ... dello specialista, in uno sempre più comprensivo 84• Pertanto, al ter­ mine dei Fondamenti, incoraggiato dai risultati della sua ri­ cerca, egli enuncia, come dice Barilli, due possibilità d'esten­ sione ravvisate rispettivamente dalla parte dell'espressione e da quella del contenuto 85• Infatti, al caso più semplice, esaminato fin qui, della semiotica denotativa 86, che si ar­ ticola su due piani, nessuno dei quali risulta, a sua volta, una semiotica, si viene ad aggiungere l'ipotesi più com­ plessa di un ulteriore organizzazione biplanare dello stesso contenuto ( e parleremo, allora, di metasemiotica o meta­ lingua) o della stessa espressione ( è il caso della semiotica connotativa). Ora, è abbastanza ovvio che la lingua divenga contenuto, ad esempio, della scienza linguistica che la esamina; quello che risulta invece particolarmente sorprendente 87, a detta dello stesso autore, è che essa possa considerarsi espressione di un ulteriore contenuto. L'esempio subito evidente è quello della letteratura, che si « esprime » attraverso i lessemi ed i morfemi della lingua 88; sicché si spiega facilmente la parti­ colare fortuna critica della nozione di se.miotica connotativa nell'ambito degli studi estetici. Fra i vari tentativi di utilizzazione, particolarmente inte­ ressante ci sembra quello operato dal danese Svend Johansen nel suo saggio La nozione di segno nella glossematica e nella estetica del 1949, non solo perché riteniamo sia lecito con­ siderarlo il primo, cronologicamente, di tal genere ( e, infatti, viene pubblicato appena sei anni dopo la versione originale in lingua danese, dei Fondamenti, prima ancora che la tradu­ zione inglese del 1953 garantisse all'opera una certa notorietà e diffusione); ma sopratutto in quanto si inserisce all'interno dei dibattiti di quel Circolo Linguistico di Copenaghen 89, la cui fondazione era stata promossa dallo stesso Hjelmslev, e quindi tenta anzitutto uno sviluppo e un approfondimento


delle piuttosto ellittiche considerazioni del linguista riguar• danti il concetto di connotazione. Per chiarirlo Johansen ricorre subito ad un esempio dive­ nuto ormai « classico »: supposto che nell'analisi di un testo si vengano a registrare le due parole : « cavallo » e « corsiero », la nozione di segno denotativo non sarà sufficiente a moti­ vare la differenza tra le due che, pure, è innegabile; presen­ tando la medesima sostanza del contenuto (il ben noto qua­ drupede), i due vocaboli andrebbero, infatti, classificati come sinonimi. Eppure « corsiero » possiede, in aggiunta allo stesso contenuto di « cavallo·» un contenuto specifico, « espresso » dal segno globale « corsiero » ed « espresso » in modo diffe­ rente da come sarà, diciamo, « espresso » il contenuto ordi­ nario. Tale contenuto ulteriore, inoltre, risulterà legato al segno da un vero e proprio rapporto di solidarietà reciproca; infatti, sostituendo « cavallo » a « corsiero » muterà il con­ tenuto specifico, mentre, sostituendo il contenuto specifico di « ronzino » a quello di « corsiero », tale cambiamento si ripercuoterà sul segno stesso, modificandolo. Si ha, quindi, la formazione di nuovo segno, detto appunto connotativo, nei confronti del quale il segno comune gioca il ruolo di espressione: esso pure si definirà come una interdipendenza, tra la forma del contenuto connotativo, manifestata dalla re­ lativa sostanza, e la forma dell'espressione connotativa la cui sostanza è, appunto, l'usuale segno denotativo. Anche Johansen è suggestionato dalle possibili implica­ zioni di una simile nozione: che cos'è, in effetti, la definizione di segno connotativo se non la formulazione precisa dell'opi• nione mille volte espressa, formulata in diversi modi, il più spesso assai confusi, che nell'opera d'arte letteraria, il Ifn. guaggio ordinarlo, vale a dire il linguagg io denotativo, serve ad esprimere qualche cosa... che ·sia differente dalla usuale funzione denotativa del linguaggio?... Intravediamo, dunque, la possibilità di identificare segno estetico e segno conno­ tativo 90• Insomma, la nozione di semiotica connotativa, esempli­ ficata, nell'uso comune, con la letteratura, viene corrente­ mente riferita all'ambito estetico. Questo consente a M. L. 65


Scalvini di equiparare architettura e letteratura sullo stesso « livello secondo » delle semiotiche connotative, a differenza di lingua naturale e tettonica, che permangono a « livello di base ». La tettonica, per l'autrice, nata come semplice « adeguazione pratica ad un bisogno », ed avente quindi la funzione come proprio obbiettivo fondamentale, apparterreb­ be alla sfera extraestetica, mentre l'architettura, caratterizzata da una precisa intenzionalità di comunicazione, che finisce per inglobare del tutto la finalità funzionale, sarebbe ripor­ tabile a quella estetica; sicché, tralasciando l'ulteriore distin­ zione tra estetico ed artistico, meno significativa, per la sem­ pre verificata presenza... di uno stesso tipo di « intenzionalità di comunicazione »... anche se con diversi gradi di compiu• tezza nel raggiungimento di certi risultati 91, viene· teorizzata l'opposizione tettonico/architettonico quale opposizione tra extraestetico ed estetico. Per l'architettura, insomma, la tetto­ nica costituirebbe il « medium semiotico » di base, come la lingua lo è per la letteratura; da cui la liceità di considerare appunto, com'è programmaticamente dichiarato fin dal titolo, l'architettura come semiotica connotativa. Ora, una corrispondenza tra livello secondo della semio­ tica connotativa e sfera estetica, è almeno non direttamente ricav�bile da quanto Hjelmslev stesso sostiene nei suoi Fon­ damenti, dove è ribadito che, a qualunque testo non sia di estensione così limitata da non costituire una base sufficiente per la deduzione di un sistema generalizzabile ad altro testi 92, è possibile coordinare un contenuto. ulteriore, un piano di connotatori; i quali, per il linguista, sono i membri individuali (tra loro combinabili) di categoria del tipo: forma stilistica (versi o prosa), stile (creativo, imitativo, normale), stile come valore (superiore, inferiore), tono (irritato, gioioso), idioma ( lingue nazionali o regionali, dialetti, gerghi) ecc. Cioè, quan­ do diciamo qualcosa in italiano, dall'esame dei nostri enun­ ciati si ricava « non solo » che abbiamo detto quella cosa, ma « anche » che l'abbiamo detta in italiano, e che l'abbiamo detta in un certo tono, con un certo stile, ecc. 93• Insomma, non solo un testo letterario, ma anche un comune atto lingui66 stico della conversazione quotidiana, legato, quindi, ad in-


tenti pratici di comunicazione immediata, può considerarsi esempio di semiotica connotativa, nel momento in cui è data la possibilità d'individuarne gli specifici connotatori, e cioè il particolare timbro, tono, stile o incidenza dialettale, a se­ conda della matrice culturale del soggetto parlante, del suo stato emotivo, del contesto situazionale in cui viene emesso il messaggio. Diverso è ovviamente il caso in cui uno stile o un tono particolare rivestono «intenti letterari »; così lo stesso ap­ proccio, tante volte addirittura mimetico, al «parlato» o al dialetto della saggistica neorealista in Italia, negli anni del dopoguerra, rispondeva ad una scelta intenzionale, suggerita da finalità più o meno complesse, che non è qui il luogo di esaminare. E ciò collima perfettamente con quanto è ribadito, con grande chiarezza, dalla Scalvini stessa, allorché, rifacendosi a Prieto, sostiene che si è in presenza di una manifestazione appartenente alla sfera estetica, nel momento in cui, essendo possibile la scelta fra strumenti diversi i quali implicano diverse concezioni di esecuzione e ... di obiettivo ( « concezioni ideologiche»), tale scelta viene effettuata con l'intento consapevole di ' comunicare ' attraverso di essa una data concezione di esecuzione ed una data concezione di obiettivo 94• :E:: quindi innegabile che esista un siffatto «salto di livello » tra testi particolarmente « intenzionati» o meno; quello che è invece dubbio è che esso possa farsi corrispondere al pas• saggio dal « livello primario », o « di base », della semiotica denotativa, a quello « secondo» della semiotica connotativa. Insomma, l'introduzione di questa ulteriore nozione risponde a quello slargamento proposto da Hjelmslev, del quale si è parlato all'inizio, che porta a concepire ogni singolo atto lin­ guistico come una totalità non chiusa, ma dotata di coesioni interne con una materia connotativa che spiega la totalità nella sua unità e varietà 95• Di qui la necessità di passare dal­ l'esame dei contenuti immediatamente correlati all'espres­ sione linguistica a quelli veicolati dall'interno segno o da gruppi di segni, o da tutto il testo, il cui inventario è approntato nel corso dell'analisi denotativa, mentre il relativo studio 67


spetta, come la classificazione, ad una successiva analisi, detta, stavolta, connotativa. Anche il manufatto architettonico, che abbiamo conside­ rato sinora articolato sui due soli piani dell'involucro e dello spazio, andrà utilmente coordinato, come suggerisce la Scalvini, ad un ulteriore piano di connotatori tipologici, sti­ listici, ecc. Una simile interpretazione della nozione di semio­ tica connotativa riferita all'architettura, risulta, infatti, oltre che metodologicamente proficua, più vicina allo spirito della proposta hjelmsleviana di quella fornita da De Fusco e Vi­ nograd 96 allo scopo di trarne indicazioni per la identificazione del segno urbanistico (Com'è noto, gli autori consideravano ancora come spazio il contenuto connotativo, riscontrando così, seppure con le dovute riserve, una forte analogia tra semiotica connotativa e sistema urbanistico, i cui spazi in­ terni « significato » sono organizzati e conformati a loro volta, da un sistema; quello, appunto, dei segni architettonici).

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Ciò che sembra, invece, meno accettabile è che alla di­ stizione tra i due livelli non corrispondano solo « caratteri­ stiche diverse», messe in luce dalle successive analisi del medesimo testo, ma « prodotti di diversa natura » 'li in base ad una preliminare discriminazione tra testi complessi, ad esempio la Rotonda palladiana, e testi più elementari che non riescono ad emergere dall'ambito tettonico a quello più propriamente architettonico; quali, probabilmente, i prodotti della cosidetta edilizia spontanea o, meglio, e più in gene­ rale, tutti quegli oggetti architettonici in cui l'obiettivo della funzionalità pratica resta preponderante, se non esclusivo. Infatti, la stessa banale edilizia rurale ha una sua fisionomia, un suo vernacolo, ecc. ma, ancora con più evidenza, persino la massificata produzione odierna, che sembra costituire l'esempio più eclatante di totale assenza di « significazione architettonica », ecclissatasi a vantaggio di una funzionalità intesa nel senso più trito e pedissequo, è caratterizzata da de­ terminati connota tori ( e siano: un malinteso idioma inter­ nazionale, ereditato, in maniera distorta, dalla lezione del Movimento Moderno, uno stile imitativo, ripetitivo, ridondante, una tipologia standardizzata, ecc.).


In definitiva, com'è evidente anche dall'unico esempio che Hjelmslev fornisce di rapporto connotativo (la lingua danese quale espressione del connotatore « danese ») l'ambito della semiotica connotativa non è necessariamente quello letterario o estetico. Lo stesso Johansen, che abbiamo visto proporre addirittura un'identificazione di segno con­ notativo e segno estetico, è costretto a riconoscere l'im­ possibilità di trarre una simile conclusione sulla scorta delle sole indicazioni del linguista: se... cl rivolgiamo al « Fondamenti » 98 di Hjelmslev per delle precisazioni e degli esempi resteremo assai delusi, proprio perché non vi si ri­ scontra che un rapporto assai lontano 99 con i problemi della letteratura. Non rimane, allora, che postulare l'esistenza di altri segni connotativi, più strettamente pertinenti all'analisi estetica, che vengano ad aggiungersi a quelli già definiti. Si potreb­ bero, ad esempio, immediatamente proporre altri quattro tipi di segni connotativi il cui piano dell'espressione sia costituito, anziché dall'intero segno denotativo, a volta a volta da uno dei suoi quattro strati. t!. dalla sola sostanza dell'espressione denotativa (fonica o grafica che sia) che dipen­ dono, infatti, gli effetti della rima, i diversi valori fonetici, le sinestesi : essa, quindi, può veicolare un proprio conte­ nuto connotativo (e avremo i segni semplici del tipo Eds � Cc) 100, distinto da quello che sarà coordinabile alla forma dell'espressione che, in quanto relazione tra gli elementi dell'espressione denotativa, determina invece gli effetti del ritmo (segni della specie Edf p Cc). Sull'altro piano gli effetti speciali ottenuti mediante le gradazioni di contenuto denotativo (cioè con quelle particolarità sintattiche, quali: le licenze poetiche, la speciale costruzione adottata nella frase, l'alternanza dei tempi nei verbi, ecc.) sono ovviamente legati alla forma, che stabilisce, quindi, con il suo particolare con tenuto connotativo, segni semplici del genere Cdf p Cc. Infine, l'esame dell'ultima categoria di segni connotativi semplici (del tipo Cds � Cc) comporterà lo sudio delle idiosincrasie materiali ed intellettuali dell'a-utore, delle sue preferenze per certi soggetti o per pertl problemi intellettuali (materiale se 69


ne ricaverà dalle così dette biografie letterarie), e dell'effetto speciale di tali idiosincrasie sul lettore 101• Viene in tal modo teorizzata da Johansen l'utilizzazione di tutti e quattro gli « strati » considerati singolarmente, sicché non solo le forme dell'espressione e del contenuto possono essere correlate ad un ulteriore contenuto connota­ tivo, ma le due stesse sostanze relative risalgono, per dirla con Brandi, a forme dell'espressione connotativa. Il riferimento a Brandi non è casuale; infatti, l'autore, nel suo Teoria generale della critica, propone, pur partendo da diversi presupposti, un'analisi condotta sull'esempio di dis­ sezione stratigrafica di Hjelmslev; individuati i quattro stra­ ti, cioè, si avranno ... quattro aperture diverse che potranno sussistere a base dell'astanza sia isolatamente che in combi­ nazione 102• appunto questo il vantaggio che il modello hjelm­ sleviano presenterebbe rispetto al binomio saussuriano, dove invece la componente significato aveva aggio su quella signi­ ficante in quanto che, alla base della concezione di Saussure, permaneva pur sempre l'idea di comunicazione; anche i lin­ guisti che più si opponevano all'introduzione del significato nella linguistica, in realtà studiavano il linguaggio sempre con la presupposizione che il segno linguistico aveva un signifi­ cato e che nel significato si legittimava... Con la distinzione in piani e strati l'apertura che si realizza non è solo nella lin­ guistica ma anche nell'estetica 103 : la quadripartizione è appli­ cabile all'astanza, non solo perché prescinde dalla comunica­ zione, ma soprattutto perché, in conseguenza di ciò, riven­ dica il valore autonomo di forma e sostanza dell'espressione, come di forma e sostanza del contenuto, suscettibili, ciascuna; di svilupparsi indipendentemente e scalare l'astanza; dal mo­ mento in cui, citando proprio Saussure, il linguaggio poetico conferisce un secondo modo di essere ... aggiuntivo, per così dire, alla parola originaria 104• Ovviamente si tratterà, anche per Brandi, di individuare quali siano quelle caratteristiche che possano ascriversi a ciascuno strato e che, emergendo, contribuiscano « alla for­ mazione dell'astanza » (e non poche sono le differenze con 70 l'interpretazione di Johansen, per certi versi più aderente alla

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connotativo», senza riuscire, però, minimamente ad indivi­ duarlo. Essi vanno, allora, rapportati a « qualcosa d'altro » che colga valenze più generali e, nello stesso tempo, chiarisca . meglio i ruoli degli stessi segni semplici. Esiste, insomma, un segno connotativo complesso, legato ai precedenti da un rapporto di presupposizione unilaterale, nel senso che il suo contenuto si può definire senza prendere affatto in conside­ razione i segni semplici, i quali invece ne dipendono. In esso l'espressione non sarà c,ostituita da un singolo strato, ma dal­ l'intero segno denotativo, o da più segni, o da gruppi di segni; analogamente, quindi, a quanto detto per il segno connotativo glossematico. Quello che, però, differenzia totalmente connotatori este­ tici e connotatori glossematici è che i primi non si possono affatto rintracciare, come i secondi, mediante la consueta ana­ lisi denotativa. Quando l'analisi connotativa diviene il punto di partenza, l'aspetto dei problemi cambia radicalmente 108• Le due analisi differiscono del tutto, sicché gli stessi inven­ tari, approntati dall'una e dall'altra, risultano non coincidenti. Si consideri, ad esempio, la celebre strofa di Hugo: Ruth pensava, e Booz dormiva; l'erba era nera; i bubboli delle greggi palpitavano leggermente; un'immensa bontà cadeva dal firmamento; era l'ora tranquilla in cui i leoni vanno a bere. Se si vuol conoscere il senso della frase: « l'erba era nera •, non ci si può riferire all'analisi denotativa che non va al di là del senso letterale. L'erba era nera perché bruciata, o perché avvolta nel buio della notte? Evidentemente questa seconda interpretazione si confà meglio al tono di dolce illan­ guidimento di tutta la strofa, ma non potremmo andare oltre una così vaga spiegazione senza gli strumenti che ci fornisce · l'analisi connotativa. Ora, dei due connotatori del vocabolo denotativo «nero,. - « nero perché secco», « nero perché nascosto nel buoio della notte» - solo il secondo contrae dei rapporti (d'identità o di determinazione) con gli altri conno­ tatori del tipo « dolce illanguidimento» presenti, e va, quindi, 72 preferito al primo. Ma, volendo chiarire meglio, consideriamo



_semiotica possa riuscire a rendere conto anche di fenomeni più complessi è auspicabile, ma non sembra opportuno vinco­ larla fin dall'inizio ad ipotesi e premesse che investano defi­ nizioni assai più impegnative. Meglio un'analisi allora, che, volendosi garantire una mag­ giore legittimità, limiti il proprio livello di competenza: in fondo anche un simile tipo di approccio è, poi, nelle sue possibilità e prospettive, ancora tutto da esperire.

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1 L. HJELMSLEV, I fondamenti della teoria del linguaggio, Einaudi, Torino 1968, p. 116. 2 F. DE SAUSSURE, Corso di linguistica generale, Laterza, Bari 1970, pp. 85-86. J R. BARILLI, Tra presenza e assem:a, Bompiani, Milano 1974, p. 132. 4 L. HJELMSLEV, Op. cit., p. 53. s Ivi, p. 65. 6 P. GUIRAUD, La sémiologie, Presscs Universitaires de France, Paris 1971, p. 37. 7 L. HJELMSLEV, Op. cit., p. 62. a L'appunto è mosso a Hjelmslev da E. Fischer-J0rgensen; cfr. in proposito B. MALMBERG, La linguistica contemporanea, Il Mulino, Bolo­ gna 1972, p. 217. 9 A questo proposito Hjelmslev chiarisce « entro che limiti sia pos­ sibile considerare in ultima analisi come fisiche, o riducibili a fisiche, tutte le entità di qualunque semiotica, nel suo contenuto e nella sua espressione, è una questione puramente epistemologica di fiscalismo o di fenomenismo... su cui non prenderemo posizione, e su cui la teoria dello schema linguistico non occorre che si pronunci•; L. HJELMSLEV, Op. cit., p. 132. IO Ivi, p. 64. 11 Per Garroni, « se La stratification non costituisce un capovolgi­ mento radicale o una rivoluzione esplicita rispetto ai Prolegomena, certo in essa vi sono almeno i presupposti di una vera e propria crisi, o quanto meno di una risistemazione teorica tutt'altro che insignificante• (E. GARRONI, Progetto di semiotica, Laten.a, Bari 1972, p. 213). 12 L. HJELMSLEV, La stratification du langage, in «Word•• X, 1954, p. 173. 13 Ivi, p. 174. 14 R. BARILLI, Op. cit., p. 134. 1s Ivi, p. 136. ,� Ivi, pp. 132-133. 17 F. DE SAUSSURE, Op. cit., pp. 136-137. 1a T. DE MAURO, nota ivi, p. 437. 19 L. HJELMSLEV, I fondamenti della teoria del linguaggio, cit., p. 57. 20 Cfr. G. GRAFFI, Struttura, forma e sostanza in Hjelmslev, Il Mulino, Bologna 1974, pp. 21-27. 21 L. HJELMSLEV, La stratification du langage, cit., p. 174. 22 L. HJELMSLEV, I fondamenti della teoria del linguaggio, cit., p. 87. 23 Ivi, pp. 82-83. 24 Ibidem. 25 Ivi, p. 60.


26 R. BARILLI, Op. cit., p. 136. r, T. DE MAURO, nota cit., in F. DE SAUSSURI!, Op. cit., p. 438. 28 U. Eco, Le forme del contenuto, Bompiani, Milano 1971, p. 163; si noti che, nel più recente Trattato di semiotica generale (Bompiani, Mi­ laon 1975), l'autore, rifacendosi alla teoria di Hielmslev, introduce la di­ stinzione tra i due termini: sostanza e materia, non senza qualche perplessità; osserva, infatti, che « è solo la traduzione italiana di Hjelmslev (1943) che usa il termine /materia/ »; in realtà, come abbiamo detto, è lo stesso linguista a riferirsi, nel saggio La stratification, cit. ad una matière ou sens, chiarendo in che cosa si differenzi dalla subs­ tance: l'interpretazione che Eco dà dei due termini, non essendo in chiave architettonica, non interessa questa rassegna; si rimanda quindi alla diretta lettura del testo su citato, ed in particolare alle pp. 78-79. 29 Cfr. G. K. KoENIG, Sulla linguistica architettonica, in « L'architet­ tura cronache e storia », gennaio 1975, n. 231. 30 Ibidem. 31 C. BRANDI, Teoria generale della critica, Einaudi, Torino 1974,

Pi>- 62-63.

L. HJELMSLEV, I fondamenti della teoria del linguaggio, cit., p. 116. Ivi, p. 87. Ivi, p. 26. L. HJELMSLEV, La notion de rection, in e Acta linguistica•• I, 1939, p. Il. 36 Per chiarezza virgolettiamo il termine funzione quando è inteso nel senso hjelmsleviano. J7 L. HJELMSLEV, I fondamenti della teoria del linguaggio, cit., p. 51. 38 Cfr. G. GRAFFI, Op. cit., nota p. 9, dove l'autore si riferisce al Biihler e a Jakobson; per l'interpretazione del Martinet e della lingui­ stica funzionale cfr. M. LEROY, Profilo storico della linguistica moderna, Laterza, Bari 1969, p. 95 e p. 119. 39 V. GREGOTTI, Il territorio dell'arclzitettura, FeltrineUi, Milano 1972, p. 146; cfr. A. MOI..ES, La création scientifique, Paris, 1951 e Théorie de l'information et perception esthétique, Paris 1958. 40 L. HJELMSLEV, I fondamenti della teoria del linguaggio, cit., p. 51. ◄I L. HJELMSLEV, Essais scientifiques, in « Travaux du Cerclc Lingui­ stique de Copenhague•, XII, 1959, p. 116. ◄2 U. Eco, La struttura assente, Bompiani, Milano 1968, p. 234 (nel testo è in corsivo). O C. BRANDI, Op. cit., p. 310. ◄◄ L. HJELMSLEV, I fondamenti della teoria del linguaggio, cit., p. 53. ◄S E. GARRONI, Op. cit., p. 167. ◄6 R. DE Fusco, Segni storia e progetto dell'architel/ura, Laterza, Bari 1973, p. 104. ◄7 E. GARRONI, Op. cit., p. 163. ◄a L. HJELMSLEV, Il linguaggio, Einaudi, Torino 1970, p. 47. ◄9 R. BARILLI, Op. cit., p. 138. so Cfr. G. GRAFFI, Op. cit., il paragrafo L'c Outline of Glassematics• di H. J. ULDAU.. s1 Cfr. U. Eco, Le forme del contenuto, cit., pp. 169-179. 52 G. C. l.EPSCHY, Introduzione alla traduzione italiana, pp. IX-X, in L. HJELMSLEV, I fondamenti della teoria del linguaggio, cit: · s1 Cfr. quanto riferisce in proposito B. M\l.MBERG, Op. c1t., p. 216. S◄ R. DE Fusco, Op. cit., pp. 114-115. ss Ivi, p. 134. 56 L. HJl!LMSLEV, Il linguaggio, cit., p. 44, ma cfr. tutte le pp. 36-50. .75 32 33 34 3S


57 R. DE Fusco, E. SEPLIARSKY, R. VINOGRAD, Elementi semiotico-progettuali d'architettura, in « Op. cit. », ottobre 1973, n. 28. 58 R. DE Fusco, Op. cit., p. 5. S9 Ibidem. 60 L. HJELMSLEV, I fondame11ti della teoria del linguaggio, cit., p. 5 1

(cfr. l'utilizzazione della distinzione hjelmsleviana tra processo e si­_ stema a fini progettuali proposta, nel paragrafo Dalla « riduzione • alla previsione progettuale da R. DE Fusco, La «riduzione• culturale nella progettazione architettonica, in « Op. cit. •, gennaio 1973, n. 26). 61 L. HJELMSLEV, I fondamenti della teoria del linguaggio, cit., p. 73. 62 G. C. LEPSCHY, Introduzione, cit., p. XXXI. 63 M. UROY, Op. cit., p. 113 . 64 B. M,\LMBERG, Op. cit., p. 209. 65 G. GRAFFI, Op. cit., nota p. 28; in proposito lo stesso autore os­ serva: « non è probabilmente casuale che ...H. J. Huldall, che mirava a fare della glossematica non soltanto una teoria linguistica ma una più generale metodologia di tutte le scienze umane, non introduca la di­ stinzione tra materia e sostanza •, ivi, p. 27. 66 L. HJELMSLEV, La stratification du langage, cit., p. 172. fù Ibidem. 64 L. HJELMSLEV, I fondamenti della teoria del linguaggio, cit., p. 87. 18 lvi, p. 84. 10 L. HJELMSLEV, La stratification du langage, cit., p. 175. 71 E. GARR0NI, Op. cit., p. 128. 72 Cfr. L. Hm.MSLEV, li linguaggio, cit., p. 49. 73 Per ciò che riguarda una simile interpretazione cfr. E. GARRONl. Op. cit., nota p. 173. 74 L. HJELMSLEV, La strat1fication du langage, cit., p. 177. 7S Ivi, p. 175 (corsivo nostro). 76 R. BARmES, Elementi di semiologia, Einaudi, Torino 1971, p. 39. 77 L. HJELMSLEV, La stratification du langage, cit., p. 176; cfr. T. De MAURO, Introduzione alla semantica, Laterza, Bari 1970, che, nel para­ grafo li significato come uso: l'iposema, proprio rifacendosi a tale passo, mette in relazione le considerazioni di Hjelmslev con posizioni per qualche verso simili di altri linguisti. 71 L. Hm.MsLEV, I fondamenti della teoria del linguaggio, cit., p. 113 (corsivo nostro). 79 V. GREGOTII, Op. cit., p. 173; ma cfr. ivi l'intero paragrafo: La semantiuazione dell'uso. ao L. HJELMSLEV, La stratification du langage, cit., p. 177. 11 R .. DI! Fusco, Op. cit., p. 164.

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12 lvi, p. 165. &3 lvi, p. 170. 14 L. HJl!LMSLEV, I fondamenti della teoria del linguaggio, cit., p. 134. l5 R. BARILLI, Op. cit., p. 140. 16 Come si sarà già notato si è intenzionalmente tralasciato di di• scutere la definizione hjelmsleviana di semiotica quale struttura bipla­ nare-non conforme, risultando necessaria una minuta trattazione oltre­ tutto delle notevoli osservazioni di E. Garroni (Op. cit.) a riguardo. No­ tiamo comunque per inciso che le ipotesi da noi formulate per l'architet­ tura lasciano intravedere la possibilità di escludere che i due piani indi· viduali « presentino in ogni punto la stessa struttura, con un rapporto biunivoco fra i funtivi di un piano e quelli dell'altro• (L. HJELMSLEV, I fondamenti, cit., p. 120); e infatti ad un elemento dello spazio spazio interno corrispondono, di solito, più elementi dell'involucro. Diciamo questo perché Brandi (Op. cit.) sostiene, polemizzando con De Fusco,


che l'operazione di assimilare i due piani rispettivamente all'interno e all'esterno, non terrebbe conto della • struttura basilare• del segno • che è di essere biplanare e non conforme• (p. 310). Non possiamo astenerci dall'osservare, però, a questo punto, che Brandi intende in maniera eccessivamente semplificata la nozione di non<enformità (cfr. ad esempio: « due piani ... non conformi, nel senso, cioè, che non si rispecchiano l'un l'altro» (p. 128), e, soprattutto • il piano del conte­ nuto risulterebbe analogo, conforme, cioè, al piano del contenuto• (p. 309). Ma Hjelmslev sostiene appunto che i due piani sono « strut­ turati in modo analogo» (I fondamenti, p. 65), e, ancora che essi « han­ no una struttura categorica campletamente analoga» (ivi, p. 108), for­ mulando così l'ipotesi di un isomorfismo che, come ha dimostrato il Graffi (Op. cit., pp. 12-15), risulterebbe addirittura in contraddizione con la stessa nozione di non conformità, come non<errispondenza biunivoca tra gli clementi dei due piani. 87 L. HJELMSLEV, I fondamenti della teoria del linguaggio, cit., p. 12i 88 R. BARILLI, Op. cit., p. 140. 69 Oltre a S. J0HANSEN, La notion de signe dans la glossématique ei da11s l'estl1étiq11e, in • Travaux du Cercle Linguistique de Copenhague•, V, 1959, ricordiamo anche A. SrENDER·PETERSEN, Esquisse d'une tliéorit. struct11rale de la littérature, nella medesima rivista; tale ultimo sag­ gio, pur rifacendosi ancora ad Hjelmslev e alla nozione di semiotica connotativa, ci è parso, ai nostri fini, meno interessante. 90 S. J0HANSEN, Op. cit., p. 291. 91 M. L. SCALVINI, L'architettura come semiotica connotativa, Bompiani, Milano 1975, p. 29. 92 L. HJELMSI.EV, / fondamenti della teoria del linguaggio, cit., p. 123. 93 G. C. LEPSCHY, Introd111.ione, cit., p. XX (corsivo nostro). 9-1 M. L. SCALVINI, Op. cit., p. 33. 95 L. HJELMSLEV, / fondamenti della teoria del linguaggio, cit., p. 134. 96 Cfr. R. DE Fusco, R. VINOGRAD, Nota sul segno urbanistico, in e Op. cit.•, gennaio 1975, n. 32. 'li Questa è appunto la prop0sta di M. L. Scalvini. 98 Notiamo esplicitamente che, ovviamente, Johansen fa riferimento all'opera hjelmsleviana nella sua edizione danesei ma noi abbiamo usato ancora, per chiarezza, la stessa dizione abbreviata di Fondamenti tratta dal titolo della traduzione italiana. 99 S. J0HANSEN, Op. cii., pp. 291-292. 100 Le sigle corrispondono, ovviamente (Cc) a contenuto connota­ tivo, (Edf e Eds) rispettivamente a forma e sostanza dell'espressione de­ notativa, (Cdf e Cds) a forma e sostanza del contenuto denotativo. 101 S. J0HANSEN, Op. cii., p. 301. 102 C. BRANDI, Op. cit., p. 145. Nel corso della trattazione faremo ri­ . ferimento alle pp. 142-212 e per l'architettura, alle pp. 299-315, alle quali dunque si rimanda il lettore per una più approfondito esame delle po­ sizioni dell'autore. 100 Ivi, pp. 74-75. 104 Brandi si riferisce a F. DE SAUSSURE, Anagrammi, pubblicati nel volume Les mots sous les mots, Paris 1971. 105 C. BRANDI, Op. cit., p. 155. 106 Ivi, p. 156. 101 Ivi, p. 145. 108 S. J0HANSEN, Op. cii., p. 294. IO'il Ivi, p. 298. no A. DRAGHEITI, Strutturalismo, stilistica, critica d'arte, in e Aut Aut•, maggio 1960, n. 57.

77


Il «realismo» di Giuseppe Samonà FABRIZIO SPIRITO

� stato' pubblicato recentemente, per le edizioni Franco Angeli, il volume dal titolo L'unità architettura urbani­ stica. Si tratta di una raccolta di scritti e progetti di Giu­ seppe Samonà, curata e ordinata da Pasquale Lovero, del­ l'ultima generazione dei suoi numerosi allievi. Il primo scrit­ to riportato, apparso nel dicembre del 1929 in « Rassegna di architettura », è un intervento originale nella polemica tra tradizionalisti ed internazionalisti tentando una mediazione basata sui valori della razionalità intesa come uno dei mo­ tivi fondamentali di tutta l'architettura contemporanea. In quest'ottica si rimprovera ai primi di non essere sempre coscienti di questa loro facoltà, che sa adeguare le esigenze pratiche, numerosissime, con I bisogni artistici dello spi­ rito; ed ai secondi di ritenere di possedere essi soli il se­ greto della razionalità e per questo In teoria, esasperando un concetto ben naturale della vita moderna, proclamano ad oltranza la razionalità come esclusiva misura della bel• lezza 1• L'ultimo saggio scritto per questa occasione editoriale, è un testo di rimeditazione teorica sulle elaborazioni pro­ dotte negli anni '70, ed in particolare su quello che G. Sa­ monà stesso aveva definito il « disegno per una teoria del­ l'unità disciplinare dell'urbanistica e dell'architettura » 2• Nasce così il tema di questa nota, che consiste soprat­ tutto nel tentativo di spiegare il senso del saggio più recente, 78 posto come è ad introduzione dell'intera raccolta di scritt_i,



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opportunità (rispetto all'autodescrizione) che spetta ad una osservazione dall'esterno, che tenti in maniera propositiva di collocare e di rendere esemplificativa, e quindi, quasi didascalica, la figura dell'autore rispetto alla complessità del­ l'attuale dibattito di architettura. Dopo questa precisazione delle diverse competenze che si vanno èonfigurando per la critica, ci troviamo ancora di fronte ad un grosso problema che riguarda il tipo di contri­ buto che lo studio di una singola individualità può dare alla moderna storiografia. Infatti, il significato della figura di un maestro e del suo insegnamento va sempre misurato, ed a sua volta è espresso, dalle condizioni relative della situazione culturale propria di una determinata area in un determinato intervallo di tempo. L'osservazione e l'analisi sui nessi di relazione con le situazioni contestuali rappre­ sentano quindi il criterio di metodo più proprio in cui la ri­ cerca, · di fatto, esprime il suo potenziale di conoscenza e, quindi, il suo giudizio critico. All'interno di questo schema vi sono almeno due aspetti in cui va considerata la figura di una singola individualità: da un lato, l'atteggiamento di colui che esprime, attraverso una dichiarazione di poetica, la relazione, sia pur negativa e di rifiuto, che consegue dalla valutazione del proprio con­ testo sociale, dall'altro, l'atteggiamento di colui che si esprime tutto all'interno di una o più condizioni contestuali, rispetto -alle quali le sue affermazioni non si pongono come enunciati, ma costituiscono una ricerca che si sviluppa proprio attra­ verso le forme concrete del reale, e che, quindi, finisce con l'esprimere valori sempre relativi a precise circostanze di tempo e di luogo. Così, se da un lato abbiamo l'insegnamento del maestro che, contrapponendosi ad una prassi sociale, diventa solitario e ci comunica la sua intuizione lirica, attra­ verso l'affermazione di un discorso di poetica, quasi come descrizione dall'esterno delle contraddizioni che esprime il reale; dall'altro lato consideriamo l'individualità che diventa egualmente solitaria proprio nel processo inverso, vale a dire nell'esprimere la contraddizione assumendola in proprio, che si nega ricercando e sperimentando nelle diverse condizioni


contestuali i dati e le categorie per una possibile trasforma­ zione del reale. Questa premessa è necessaria per capire il senso del saggio introduttivo, che introduzione non è, ma che come scritto più recente è giustamente posto in chiave di lettura complessiva delle diverse problematiche affrontate. Infatti, un ulteriore merito di Giuseppe Samonà è che, negli scritti a partire dagli anni '70, riesce a condensare la sua stessa opera, il suo ruolo, il suo insegnamento in una teoria dell'architettura. Non si tratta di aver aderito ad una idea astratta o ad un principio stilistico, ma la continuità gli è restituita proprio dalla consapevolezza di una lunga coerenza ad inter­ venire in ogni campo, da quello professionale, a quello didat­ tico, a quello amministrativo, bilanciando sempre l'esame di una situazione contestuale, concreta, realistica, con l'ap­ porto di una originale capacità di sintesi in grado di indi­ viduarne le possibilità di trasformazione. Ed è proprio questo aspetto della sua ricerca paziente che gli permette di riassumere e di definire tutta la sua esperienza culturale in una formulazione teorica. Il continuo sforzo di attenzione per un tipo di conoscenza le cui espressioni numerali siano capaci di qualificare ed organizzare in senso storico le carat­ teristiche rigidamente quantitative del dato spaziale 4; la vo­ lonta di tendere ad individuare in questo dato spaziale J'occasione di una mediazione, ponendolo concettualmente tra i valori scientifici di una realtà assoluta fuori della dimen­ sione storica dell'uomo, e l valori empirici di una realtà immediata delle cose credibili dallo uomo perché fanno parte della sua presente dimensione storica 5, fanno sì che oggi, alla metà degli anni '70, pur avendo attraversato diversissime esperienze, adeguando sempre se stesso alle occasioni più stimolanti del dibattito di volta in .volta in corso, sia possi­ bile leggerlo come una figura esemplare ed esemplificativa di quelli che sono i temi nuovi, che cominciano ad investire ed investiranno sempre più la problematica dell'architettura -in questo decennio: le .attribuzioni di una nuova professionalità dell'architetto. 81


Di qui nasce il valore della sua presenza, che ha ancora molto da suggerirci e da dirci, se è vero, come è vero, che bisogna finalmente tornare a fare i conti con un ruolo del­ l'architetto, che, dopo una lunga assenza, iniziata con la immediata disillusione delle speranze suscitate dal primo centro sinistra, deve tornare a misurarsi con una condizione di concretezza storica, con i problemi della trasformazione e della crescita della città italiana e, in particolare meridio­ nale, con il problema della casa e della sua nuova formula­ zione legislativa, in una parola, con il problema dell'unità architettura urbanistica. Tale direzione di lavoro deve, infatti, poter mettere a punto realisticamente la logica del significato unitario di tutte le attività territoriali della vita insediativa che si rife­

riscono al fare architettonico e urbanistico posti come mo­ menti di un'unica realtà esistenziale 6• Questi due aspetti diversi dell'organizzazione delle attività di insediamento umano sono riconoscibili solo nella dimensione unitaria in cui assumono una posizione, una grandezza e un carattere tra loro interdipendente ed essenziali a significare la posi­ zione, la grandezza e il carattere di tutte le parti. La descrl• zlone di questo processo mette in luce la natura vincolante delle corrispondenze e dipendenze tra le parti, come dimen­ sione della loro partecipazione formativa all'interno del di­ scorso morfologico 7•

La domanda pregiudiziale da porsi è la seguente: è an­ cora valido il rapporto che si poneva una volta tra la persona umana e la dimensione dell'architettura nel suo insieme ur­ bano? 1 La risposta è implicitamente negativa. Giuseppe Sa­

rnonà la esplicita in una serie di passaggi: un primo momento di disgiunzione si è manifestato tra la cultura sociale e la cultura architettonica, determinando così le cause più imme­

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diate del preoccupante deterioramento che ha subito la sfera culturale e quella operativa dell'architetto. Il graduale pas­ saggio degli interessi della vita insediatlva dal comuni valori degli stati di cose hnmediatamente credibili nelle vicende quotidiane di ogni situazione di fatto, ad una serie di interessi di più alto valore per rilievo scientifico, ha rivelato


una realtà nascosta, in cui l'architetto perde funzione di attore e operatore per entrare in una dimensione storica che non gli consente più di contrapporsi con effi cacia dia­ lettica alla volontà del destinatario 9• Tale problema può essere ulteriormente scisso rilevando sia nel sociale che nell'architettonico la presenza di una relazione prevalente che va continuamente perdendo i propri momenti di coordinazione. Le due espressioni: quella di diri­ gere operazioni generali per la società e quella di ancorarle ai fatti pratici, hanno avuto sempre uno svolgimento inte­ g1·ato con contatti e distacchi che, in epoche precedenti erano quasi tutti rivolti a istanze del passato rappresentativamente presenti, mentre nella nostra epoca i distacchi e i contatti sono tutti rivolti al futuro per li ruolo assunto dalla scienza e dalla tecnica, e fanno vedere in che misura gli stati di crisi e le difficoltà di organizzare le grandi masse, in rap­ porto ad elementi di carattere strumentale politico e orga­ nizzativo, dipendano da questi distacchi col futuro che im­ pediscono alla storia del presente di trovare adeguata di­ mensione 10• Ma ancora, se si vuole cogliere il senso che l'opera pro­ gettata assume nel momento in cui si misura con le molteplici dimensioni di una determinata realtà, allora la dimensione tipologica, acquisita attraverso i modelli, viene bruciata in tutto ciò che non concorda con fatti e fenomeni di localiz­ zazione 11• Ci troviamo di fronte cioè ad un secondo pro­ cesso in cui si vanno coordinando, proprio per la loro com­ presenza, i diversi modi di formazione dell'ambiente. In ogni luogo si è creata così, attraverso il tempo, una correlazione fra le sedimentazioni della sfera tipologica, presenti nelle opere costruite, le idee diffuse dall'esperienza tecnica più generale, il panorama culturale dell'area di insediamento e la con.figurazione del luogo nella sua forma di spazio organiz­ zato. Si tratta di una correlazione, che imposta in forma concreta la realtà dello spazio organizzato al di là della di­ mensione astratta della tipologia,... Questa correlazione che localizza i fatti formali attraverso la volontà dei gruppi, valorizzandoli e assorbendo ciò che è vivo della dimensione 83


tipologica, è quel quid concreto e rappresentativo che ab­ biamo definito morfologia 12• Quindi non solo si tratta di ricercare una penetrazione nella sfera del sociale in grado di ridare credibilità all'ar­ chitettura, ma anche all'interno di questi due ambiti di ricer­ care la possibilità di istituire un rapporto congruente tra le vicende umane di importanza generale e quelle ordinarie della vita di ogni giorno 13. Il discorso teorico di Giuseppe Samonà si propone di descrivere ed esplicitare le relazioni ed i modi di aggrega­ zione in cui, attraverso diversi livelli di analisi e sintesi, le realtà fenomeniche presenti possono ritenersi appartenenti ad una sola dimensione disciplinare, che include tutta la attività insediativa del territorio nei due soli momenti pos­ sibili: quello urbanistico di moto e quello architettonico di quiete 14• Dopo questa prima schematica presentazione degli aspetti delle contestualità che entrano in gioco è possibile tentare di individuarli in formulazioni più strettamente disciplinari. I diversi livelli di analisi comportano un sistema di successive sintesi in cui troviamo sempre una contrapposi­ zione dialettica tra due condizioni: l'esperienza prettamente architettonica si esprime, in quanto materiale formalizzato, solo se, manifestandosi come fatto concreto, di volta in volta trova una sua · condizione di congruenza, di realismo. Vale a dire esiste sempre un dato esterno che per diverse possibili accezioni di utenza, in quanto organizzato nello spazio, diventa architettura. In questo senso è possibile leg­ gere complessivamente l'espressione unitaria architettura­ urbanistica come una sommatoria rispetto a diversi livelli eterogenei in cui si stabilizza una successione progressiva di momenti sintetici: si può definire compiut�ente il si• gnificato sempre complesso dello spazio organizzato pen­ sandolo meglio in termini gerarchici nei successivi livelli di analisi 15• Si tratta di una difficile operazione di ricucitura che tende ad avvicinare la sfera culturale e quella operativa dando così maggiore credibilità al ruolo dell'architetto. Ciò 84 significa ancora stabilire la necessità che il momento logico


e il momento storico siano dialetticamente integrati in unità nella fondazione del presente, senza per questo dedurre che la conoscenza del passato e del futuro dipenda esclusiva­ mente dal presente ma al contrario, che passato e futuro sono presenze vive soltanto in una concezione sincronica della storia: in una concezione diacronica, il loro ruolo sa­ rebbe di protagonisti e perciò, l'oggetto delle loro descrizioni si caricherebbe di immagini fantasiose e talvolta utopistiche 16. Così pure gli studi storici sulle .situazioni architettoniche di periodi passati vengono riproposti secondo una chiarezza intenzionale di riferimento al presente 17 • Inoltre, a livello operativo, le configurazioni progettate per le nuove esigenze insediative della società, non possono prescindere dalle caratteristiche di invariabilità delle forme dello spazio natu­ rale e di quello della struttura insediativa esistente, formata da volumi edilizi ed altri manufatti 1a. L'architettµra non può e non deve essere presenza soli­ taria nel piano urbanistico, così come lo spazio vuoto non può non essere pensato e progettato alla stessa maniera e con gli stessi strumenti dello spazio costruito unificando gli edifici e gli spazi esterni che li riuniscono secondo una unità formale e sostanziale 19 • Se l'architettura si cala sul territorio senza coordinamenti veri e propri con l'organizzazione infra­ strutturale di esso non potrà che provocare frammentarietà, disorganizzazione e contrasto 20• Questa successione di dualità investe tutti i settori che finiscono con l'avere un pox:tato diretto nel campo dell'architettonico. Vale a dire riguarda la necessità di formare idee pratiche per un'inversione di tendenza, che sia anche politicamente generalizzabile fra ciò che è privato e ciò che è pubblico in una diversa com­ posizione universale delle relazioni umane 21• E ancora, ri­ guarda la formazione di un processo in grado di ricucire ed unificare la realtà soprastorica dei comportamenti prescrittivi della scienza, con la realtà empirica dei comportamenti quotidiani in tutte le loro gravissime contraddlzloni 22• Infatti ciascuna delle dualità tende a risolversi dialetticamente in una sfera intermedia rispetto ai due processi di progetta­ zione e fruizione, che riesca a mediare ed integrare il giu- 85


dizio dell'architetto con l'aspettativa della massa dei frui­ tori. Così pure, per la tipicità, è possibile ritrovare due am­ biti: uno di creazione, l'altro di uso. Il primo è quello dei progettisti che sviluppano le immagini secondo W1 principio di esistenza evolutivo nel senso della creazione, la cui origine è l'immagine del prototipo e il punto di arrivo è la forma dell'oggetto creato, alla quale si perviene con W1a serie di immagini sempre più nitide verso la forma definitiva, e per­ ciò, sempre più soggettive e autonome. L'altro tipo di svolgi­ mento è quello dell'ambito della massa che deve usare l'og­ getto nuovo e vuol verificarne la congruità con l'immagine del prototipo a lei nota. Il processo delle immagini per la massa dei fruitori che useranno l'oggetto è inverso a quello dei progettisti: ha origine dal nuovo oggetto e inizia il suo svolgimento esistenziale alla rovescia verso l'immagine cono­ sciuta del prototipo 23• Uno dei temi salienti attraverso cui può essere letto il contributo originale di questa formulazione teorica riguarda la elaborazione della nozione di realismo. Essa si traduce nel rielaborare un metodo di osservazione e descrizione tale da esprimere, attraverso opportune categorie, una architettura che si misuri con le aspirazioni del quotidiano, ma che, con­ temporaneamente, riesca sul piano tecnico formale a confi­ gurare un ruolo nei confronti dell'intera società. Giuseppe Samonà è estremamente attento a misurare continuamente i rischi determinati dal privilegiare in maniera assoluta uno solo di questi aspetti, estrapolando ed isolando; dalla sfera dell'unità disciplinare, atteggiamenti singolari che propongono pratiche parziali e, in quanto tali, aberranti. In questo senso viene rivista la distinzione tra popolare e populista, rifiutando il folklore come cultura delle masse subalterne. Si mette in guardia contro il realismo latente da cui oggi è sostenuto un illusorio sentimento della tradi­ zione, fondato su pretese eredità nazionali alquanto nebulose, alle quali si devono le decadenti espressioni del rifiorito gusto folcloristico e la predilezione per l'intimità piccolo­ paesana che il neo-empirismo sostiene con W1 punteggio assai 86 elevato in fatto di vita comunitaria 2A.


II riferirsi continuamente alle aspettative della comunità insediata, esclude, d'altra parte, in maniera esplicita, il tema della partecipazione. Infatti la partecipazione alla vita di quartiere è diventata un problema di primaria importanza anche nel nostro paese; ma confonderla con un rinnovamento delle caratteristiche della città, e sostenere, perciò, che può costituire una base veramente utile per riattivare la forza creativa dell'unità urbanistica-architettura, significa creare nuova confusione nelle idee abbastanza fumose su questo problema ... Ricorrendo alla solidarietà come sola forma possibile di rinnovamento nel senso delle strutture abitative e dei servizi sociali, si scarica per l'ennesima volta sulle spalle delle classi meno abbienti il maggiore sforzo per dare loro una condizione di vita migliore 25• Bisogna, invece, sapersi appropriare delle conquiste e degli strumenti della cultura ufficiale, ma la sola introduzione dei risultati delle teorie scientifiche nel discorso di architettura serve unicamente ad aumentare la illusione, sempre viva in molti architetti di poter progettare meglio, e con maggior ricchezza di nuovi elementi anche formali, per il futuro della città e del ter­ ritorio, impiegando in modo idoneo i risultati degli studi condotti dagli specialisti, che a loro volta si ritengono capaci di indicare agli architetti chissà quali possibili organizza­ zioni dello spazio urbano e territoriale 26• In realtà, allo stato attuale, va rilevata la concreta impossibilità di esprimere nello spazio organizzato i nuovi contenuti della cultura scien­ tifica e tecnologica, che ha sostituito la conoscenza imme­ diata degli stati di cose recepibili intuitivamente dalle situa­ zioni concrete a cui la poetica degli architetti e i loro interessi culturali sono ancora legati rr. Tale appropriazione deve es­ sere in grado di sperimentare continuamente nuovi, originali, approcci alla realtà che, proprio perché in continuo movi­ mento, non può essere efficacemente e funzionalmente rap­ presentata con i vecchi modi poetici. Il rapporto con il reale non può essere, quindi, derivato da modelli precostituiti o da costanti formali ché possano da soli garantire di aver instaurato una tale positiva dialettica, ma è costituito da 87


una osservazione, sperimentazione continua e verifica con il reale stesso attraverso le sue diverse forme. La realtà di oggi non è la realtà di ieri, la storia del passato interessa nella misura in cui è ancora presente. Il « rispecchiamento artistico » della realtà sociale di Lukàcs, non può, quindi, essere interpretato in chiave mimetica, ma si tratta, piut­ tosto, di accertare i modi specifici mediante i quali si stabi­ lisce un riferimento alla realtà. Esso non può essere sola­ mente desunto da opere già realizzate, ma occorrerà piuttosto utilizzare in maniera viva tutti i mezzi, vecchi e nuovi, speri­ mentati e non, attinti all'arte e altrove, per consegnare nelle mani degli uomini viventi, affinché sappiano padroneggiarla, la viva realtà... Il realismo non è una mera questione di forma. Copiando lo stile di questi realisti, non saremmo più del realisti. Giac­ çhé li tempo scorre, e se non scorresse, l'andrebbe male per coloro che non siedono alle mense dorate. I metodi si logo­ rano, le attrattive si scontano. Nuovi problemi emergono e richiedono nuovi mezzi. Muta la realtà; per rappresentarla, deve mutare li modo di rappresentazione. Dal nulla viene li nulla, . li nuovo discende dal vecchio, ma nondimeno è nuovo 28. · Non si tratta tanto di affidare alla realizzabilità la ca­ pacità di verificare la bontà o meno di una ipotesi o di un progetto, ma. di ritrovare nella realizzabilità un carattere che esprime la presenza, anzi la · compresenza, di aspetti­ momenti diversi: reale o realistico non coincide con realiz­ zato o realizzabilità, in quanto l'archltettonico si presenta, nel suo aspetto complessivo, come l'insieme di tutte le co­ noscenze progressivamente trasmissibili sia realizzate, che progettate o solamente descritte come architetture. Questo insieme di materiali concreti, nella formulazione teorica del­ l'unità architettura urbanistica, hanno un primo livello di utenza specifico· da parte della cultura architettonica e del­ l'architetto nella capacità di formalizzare tale materia per renderla ancora agibile. Ed è il primo passaggio concreto­ astratto che riguarda l'attuale agibilità delle conoscenze e 88 dei valori stabili di architettura. Ma esistono ancora altri


livelli di utenza che permetteranno, a loro volta, l'ulteriore passaggio dall'astratto al concreto come l'unica condizione di realisticità nel presente. Ad esempio, la capacità del desti• natario di organizzare l'architettura nell'uso, o la capacità degli strumenti amministrativi di produrre architettura se• condo principi, norme ecc.: la caratteristica peculiare del• l'urbanistica sembra venir fuori da queste diverse condizioni di aggiornamento e di congruenza in cui si realizza, come interazione dialettica o scontro o contrapposizione, una con­ temporanea presenza tra cultura architettonica, comunità insediata e apparato istituzionale. Si potrebbe pensare che la realtà autentica dell'opera­ zione disciplinare si trovi e si esaurisca tutta quanta in questo primo livello di astrazione, vale a dire nel formulare un insieme di riferimenti, principi e norme prettamente di­ sciplinari; mentre il suo rapporto con la produzione e l'utenza, cioè la sua manifestazione concreta, sia, -per così dire, ines­ senziale. Se è vero che sul piano del soggettivo una stessa forma ammette diverse interpretazioni, possiamo considerare come un'ulteriore, diversa, interpretazione quella configura­ zione che è determinata dal coordinarsi ad una serie di condizionamenti oggettivi, che siano tali da renderla concre­ tamente manifesta. Una definizione formale di tipologia è l'unica adeguata perché in grado di riformulare principi e tecniche di archi­ tettura in modo ancora disponibile per tutte le coordinazioni possibili sia in senso specificamente fisico e figurativo, sia rispetto alle diverse esigenze della realtà. Si tratta di un livello di astrazione, e non· di astrattezza, in grado di stabilire una relazione tra il «repertorio» dei materiali di archi­ tettura e, nello stesso tempo, in grado di assumere una molteplicità di specificazioni concrete adeguandosi alle par­ ticolari esigenze-contenuti che il contesto esprime. Limitan• doci a .considerare solo le caratteristiche di queste diverse contestualità, è possibile individuare un insieme di sistemi di valori o occasioni diverse che possono anche venire con­ venientemente · descritte da un punto di vista prettamente disciplinare. Ne consegue, quindi, una ulteriore eterogeneità, 89


ma anche una maggiore duttilità del campo disciplinare per comprendere la quàle può risultare in qualche modo esem­ plificativa una opportuna generalizzazione del termine reper­ torio come occasione di successive scelte preferenziali, già organizzate secondo il principio analitico di formalizzazione, in grado di associare ai valori della trasmissibilità del dato disciplinare anche quelli volti alla realizzazione di oggetti. Si viene così a configurare un riferimento di materiali già predisposti a trasmettere una determinata competenza che abbia la consapevolezza dei livelli di eterogeneità che vuole riuscire ad investire, in modo da trasformarsi realmente, da repertorio generale, come un momento specifico complesso, in qualcosa di nuovo, in qualcosa in grado di formulare nuove proposizioni che si misurino con i livelli della produ­ zione e con i livelli dell'utenza. In questo caso, chiamare in causa il realismo, non signi­ fica tanto scavalcare il problema della definizione discipli­ nare e cercare nel rapporto con l'esterno la risoluzione di un'istanza generale, ma serve a determinare la stretta inter­ dipendenza tra aggiornamento disciplinare e trasformazioni contestuali, permettendo quindi di analizzare anche quelle condizioni che lo rendono valore relativo oltre che valore assoluto. In questo senso l'ipotesi di teoria di Giuseppe Samonà pur ponendosi come discorso specifico di architettura tiene presente nello stesso tempo una istanza analitica, specifica­ bile in un modello formale strettamente connesso ad un si­ stema logico statistico, e insieme una istanz� operativa che tende a determinare ed a qualificare il modello formale co­ struttivo nei sensi e nei ruoli più strettambente connessi ai modi di rappresentarsi del reale. Esso deve poter essere descrivibile come una forma che riassume tutte le altre possi­ bili quando si fosse in grado di provocare l'integrazione fra le rappresentazioni spaziali corrispondenti ad espressioni della realtà costruita dalla scienza e le relative rappresenta• zioni spaziali di espressioni della realtà costruita con le cose comuni e immediatamente credibili della vita di ogni giorno 29• 90 Questa correlazione esplicita, quindi, due diverse considera-


zioni formali che si influenzano reciprocamente, una, che si esprime nella tipicità come insieme di concetti che gene­ ralizza e diffonde le relazioni fra grandezze e funzioni di ogni espressione compiuta dello spazio organizzato di inse­ diamento, costruendo un mezzo per affermare universalmente le proprietà tipologiche di questo spazio, mettendone in evi­ denza le forme più adatte 30; l'altra rivolta alla specificazione della nuova concretizzazione di questi materiali proprio in quanto destinati a correlarsi a diversi livelli di utenza con un assetto produttivo. Se la prima è propria dell'ambito tipologico, la seconda, vale a dire la quantità di modificazione che l'oggetto archi­ tettonico può subire ai livelli di produzione e utenza è pro­ pria dell'ambito morfologico. Tipologia e morfologia diventano quindi, ciascuna con modi propri e specifici, caratterizzanti i due tempi del pas­ saggio concreto-astratto e astratto-concreto. Trovare tra que­ ste diverse componenti la giusta relazione significa esprimere proprio quella consapevolezza che rende di volta in volta funzionale la cognizione di realismo per la trasformazione di una particolare realtà in un determinato intervallo di tempo. II concetto di presenza si lega, pertanto, ai dati di luogo e di tempo: un tempo che appartiene alla dimen­ sione storica del presente nella globalità delle sue differenze, un luogo in cui gli stati di cose si condizionano alle diverse unità di tempo nel determinare la concreta credibilità delle variazioni dello spazio fisico nella corrispondenza con gli assetti insediativi, come espressione significante della cul­ tura architettonica e urbanistica nel nostro tempo 31• Viene così ripreso un tema che troviamo continuamente presente, sia pure in differenti formulazioni, nei momenti più fertili della progressiva riorganizzazione delle conoscenze di architettura,, vale a dire di assumere come caratteristica di fondo la relazione tra l'ambito teorico e l'ambito esterno del momento produttivo e riproduttivo di tale cultura. Oggi il contenuto politico di tale scelta, nel dibattito sul rinno­ vamentò delle facoltà di architettura, non sembra aver rag­ giunto ancora un sufficiente grado di autonomia, nel senso 91


di poter essere considerato più o meno progressivamente indipendentemente da una strategia più generale in cui si collocano differenti piani operativi. Consideriamo quindi alcuni giudizi di G. Samonà che sono tra i più indicativi della sua evoluzione di progettista e di docente. Una simile ipotesi di lavoro, infatti, doveva necessaria­ mente manifestarsi e concretizzarsi nel riassetto didattico dell'insegnamento della progettazione. Non era possibile uti­ lizzare la troppo labile organizzazione delle Facoltà di Archi­ tettura italiane prodotta dalla cultura eclettica cui si an­ dava generalmente adeguando l'impostazione funzionalista che, nel migliore dei casi, proponeva il recupero del modello gropiusiano. È di circa trenta anni fa uno dei suoi scritti più significativi che ha come titolo Lo studio dell'architet­ tura in cui già si parla di una diversa relazione tra archi­ tettura ed urbanistica. In esso vengono fatti rilevare gli equi­ voci di una urbanistica intesa come scienza e prassi a sé che definisce fino ad un certo punto, poi si ferma e la casa è niente altro che un profilo, un fantasma di casa 32 •

92

Questo significava colpire contemporaneamente una cer­ niera fondamentale dell'organizzazione del mondo. della pro­ fessione, nella specificazione delle competenze, e insieme sul piano dell'insegnamento l'aspetto più ideologizzante del di­ scorso del metodo. Ma, nello stesso tempo, la preoccupazione di rendere contemporaneamente applicabili le sue ipotesi sia al campo didattico che a quello operativo gli permetteva di rivedere e riproporre anche una- diversa funzione della pro­ fessionalità. L'architettura del nostro tempo è quasi solo quella legata alla vita intima quotidiana dell'uomo ... Ora, io mi son detto: se la nostra mentalltà, se il nostro sentire si sono tanto evoluti, se noi siamo stati capaci di mettere a fuoco i problemi dell'architettura secondo questi nuovi valori, perché non ·cerchiamo di abbandonare nei progetti il metodo dell'approssimativo, legato ad una mallntesa preoc• cupazione di carattere estetico, che tra l'altro cl conduce verso un pericoloso formallsmo? Perché non avvertire tutto l'artificio che si compie nelle varie fasi della nostra proget•


tazione, facendo prima gran parte delle sintesi, e poi le ana­ lisi, che quelle sintesi fatalmente compromettono nella loro obiettività? Io so che i crociani mi diranno che la sintesi a priori nella creazione è un atto possibile, anzi necessario, in virtù dell'intuizione: ma nel nostro caso non si tratta di creazione, poiché questa è al di fuori d'ogni controllo met� dologico, ma bensì di studio dell'architettura, cioè di un fatto empirico, che presuppone un metodo, una logica, o meglio una serie di processi logici, i quali per successive analisi arrivano a successive sintesi, e di qui a una sintesi generale, che può tradursi in creazione architettonica ll. Il senso fondamentale di questo scritto consiste nel pri­ vilegiare il momento conoscitivo. Viene affidata al metodo stesso la possibilità di formare un nuovo bagaglio di imma­ gini di architettura sempre che esso sia in grado di produrre tutti quei concreti elementi, di cui l'organismo architetto­ nico è composto, seguendoli nel loro processo di genesi, sia come elementi di funzione, e poi tutti farli vivere di quella espressione, che a loro conferiscono i valori umani sentiti in tutta la loro profondità con minuziosa e dettagliata analisi 34• Nel '61 nel programma del corso di composizione archi­ tettonica II, da lui tenuto a Venezia, è possibile riconoscere ancora i termini di una stessa problematica: metodo pertanto dello studio è la sostituzione di una ricerca svolta su fun. zioni e tecniche in edifici realizzati, con una indagine più profonda sul sistema delle attività umane nel suo contesto sociale, e la sua espressione nell'organizzazione degli inse­ diamenti umani, avendo per obiettivo finale l'organizzazione dello spazio interno ed esterno degli organismi in un quadro equilibrato di sviluppo delle attività e loro insediamenti 35• In seguito, intervenendo nel '64 a conclusione del semi­ nario su città-territorio, sulle tematiche della nuova dimen­ sione, che mettevano fuori gioco ogni preoccupazione di disegno o di valutazione del singolo edificio, egli si troverà a dire: non credo a queste grandi dimensioni, non ci ho mai creduto; penso che le dimensioni rimangono generalmente quelle che· sono sempre state, cioè le dimensioni fisiche che 93


ritornano continuamente in rapporto all'uomo, ma la rivo­ luzione è nelle dimensioni di carattere urbanistico, per i fatti nuovi di natura economica e sociale, ed è tale da determinare categorie di dimensioni straordinariamente ricche, ma non più grandi che per il passato nel senso della struttura fisica 36• E ancora nel '67 al convegno nazionale di urbanistica di Ancona, così concludeva la sua relazione su « I concetti di standard e di tipologia nell'urbanistica »: Tipologie terri• toriali o edilizie non possono più unicamente emergere dalla classificazione o da un riordinamento dei dati esistenti reali e realizzati come sarebbe a dire dal far tesoro e continuare le tecniche progettuali passate, ma fanno parte dell'indivi­ duazione, della natura delle relazioni; in funzione di tale individuazione tipologie e standards costituiscono un mate­ riale da sistemare, attraverso una teoria dell'architettura, entro una tecnica della progettazione, anziché ricavarlo da una pratica e da una media delle tecniche ( nel senso che una pratica disgiunta da una teoria ha perso le sue stesse capacità di incidenza sul reale) :ri. Nell'intuizione teorica di Giuseppe Samonà possiamo ri­ trovare un nuovo, attuale senso della frase « la macchina deve servire l'uomo non asservirlo », matrice unica di tutte quelle riduzioni poetiche da cui prese vita il Movimento Moderno in architettura. Là dove operiamo la traslazione, di fatto avvenuta, tra il concetto di macchina e il valore evo­ cativo che esso aveva agli inizi del secolo, e quello che oggi rappresenta la rigidità dell'apparato istituzionale e la vio­ lenza dei comportamenti prescrittivi delle verità scientifiche rispetto alla dimensione della vita quotidiana dell'uomo. E. questo il senso della prospettiva di rendere efficace il ricongiungimento dell'ideale col fare, delle forme con i processi di realizzazione. Rileggendo le osservazioni di G. Samonà su Bruno Taut in occasione del saggio introduttivo alla raccolta di fascicoli della rivista Friihlicht, possiamo dire che valga per la sua opera quello che egli dice dell'architetto tedesco. Questi dimostra, attraverso queste stesse opere, come il suo spirito estremamente realistico e legato all'immediatezza di vesia 94


rità che si sprigiona dalla conoscenza storica del presente: queste intime convinzioni lo portano a rifiutare le poetiche del momento culturale che si forma intorno a lui e che 8vrebbero potuto dargli quello slancio architettonico di cui sentiamo solo i barlumi nelle sue opere, che peraltro 1n senso stretto dimostrano, col suo rifiuto, il grande valore che ha per lui la professionalità. Lontana dalle grandi sintesi, dalle grandi verità rivelate dai maestri dell'architettura moderna, questa professionalità, messa in luce dall'interesse che egli ha di reificare gli stati di cose che circondano il suo lavoro di urbanista, rivela valori culturali che ancora oggi interes­ sano, sia per il senso nuovo che cominciamo a dare all'idea di storia intesa solo come storia del presente, sia per il senso di verità che hanno i metodi empirici da lui usati e teorizzati per risolversi nell'immediatezza dei problemi del presente 38•

1 G. SAMONÀ, L'unità architettura urbanistica, Franco Angeli editore, Milano, 1975. 2 G. SAMONÀ, Disegno per una teoria dell'unità disciplinare dell'ur­ banistica e dell'architettura, in Oggi, l'architettura, Feltrinelli, Milano, 1974. J P. LovERo, La disseminazione didattica, in L'unità architettura urbanistica, cit., p. 556. 4 G. SAMONÀ, L'unità architettura urbanistica, cit., p. 12. s Ibidem, p. 14. 6 G. SAMONÀ, in Oggi, l'architettura, cit., p. 26. 1 Ibidem, p. 28. a G. SAMONÀ, L'unità architettura urbanistica, cit., p. 437. 9 Ibidem, p. 35. 10 Ibidem, p. 31. 11 G. SAJ\,IONÀ, in Oggi, l'architettura, cit., p. 34. 12 Ibidem, p. 35. Il G. SAMONÀ, L'unità architettura urbanistica, cit., p. 37. 14 G. SAMONÀ, in Oggi, l'architettura, cit., p. 36. 1s Ibidem, p. 28. 16 G. SAMONÀ, L'unità architettura urbanistica, cit., p. 19. 11 Ibidem, p. 10. 1s Ibidem, p. 11. 19 Ibidem, p. 43. 20 Ibidem, p. 45. 21 Ibidem, p. 47. 22 Ibidem, p. 49. !I G. SAMONÀ, in Oggi, l'architettura, cit., p. 31. 24 G. SAMONÀ, L'unità architettura urbanistica, cit., p. 210. 25 Ibidem, p. 39. 95 26 Ibidem, p. 36.'


21 Ibidem, 28 B. BRECHT, Popolarità e realismo, in P. CHIARINI, L'avanguardia e la poetica del realismo, Laterza, Bari 1961. 29 G. SAMONÀ, L'unità architettura urbanistica, cit., p. 41. 30 G. SAMONÀ, in Oggi, l'architettura, cit., p. 32. JI G. SAMONÀ, L'unità architettura urbanistica, cit., p. 22. J2 G. SAMONÀ, Ibidem, p. 224. JJ Ibidem, p. 221. 34 Ibidem, p. 219. 35 Ibidem, p. 377. J6 Ibidem, p. 388. J7 lbiclem, p. 277. JS G. SAMOl\À, Saggio introduttivo a Friihliclll /920-1922, Mazzetta, 1974, pp. XXI e XXII.

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