Op. cit., 36, maggio 1976

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Op.cit. rivista quadrimestrale di selezione della critica d'arte contemporanea

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Edizioni • Il centro » di Arturo Carola


R. DE Fusco,

I centri storici nella prospettiva semiologica

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L. DE Fusco,

M. FUSill.O,

V. LuCARil!LLO,

B.

RODERTI,

A. Fusco,

Le idee di teatro, oggi

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Una riproposta del

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multiplo•

Libri, riviste e mostre

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Alla redazione di questo numero hanno collaborato: Renato De Fusco, Benedetto Gravagnuolo, Ermanno Guida, Giangiorgio Pasqualotto, Francesco Rispoli.



I centri storici nella prospettiva semiologica* RENATO DE FUSCO

Che l'analisi e gli interventi operativi sui centri storici o antichi possano trarre utili vantaggi dalla visuale semio­ logica ci sembra indubitabile, sempre che i teorici della scienza dei segni si decidano ad abbandonare le loro ellittiche trat­ tazioni, i loro disegni di wia semiotica generale, il loro feti­ cismo definitorio per passare all'applicazione concreta di questa disciplina. Già altri autori, non implicati in essa, parlando dei centri storici dichiararono esplicitamente che il nocciolo della que­ stione, i motivi della conservazione e della salvaguardia di tali ambienti risiedono in gran parte nel loro « significato » e nel loro valore di testimonianza « comwiicativa ,._ Benevolo scrive che essi ci interessano per una ragione più importante e più profonda che va al di là della ragione espressa dalla conservazione dei valori storici e del valori artistici. Sino a che la nostra cultura dovrà mettersi in comunicazione col passato per via della riflessione critica, e fino a che questa riflessione critica dovrà esercitarsi a partire dalle testimo­ nianze materiali del passato, la conservazione di queste testi-

. * Questo articolo è la riedizione di un precedente saggio Il « signi­ ficato"" dei centri antichi apparso nel vol. di AA.VV. Costruire ed abitare,

pubblicato a cura del Credito Fondiario, Roma 1973. Poiché tale opera è fuori commercio, abbiamo ritenuto utile riprendere l'argomento sviluppandone qui gli aspetti più pertinenti alla visuale semiologica.

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monianze materiali sarà, più ancora che la conservazione di certi valori emergenti, un elemento insostituibile di equilibrio della nostra stessa cultura: cioè senza questa comunicazione noi perdiamo la dimensione temporale della nostra cultura che oggi non ci sentiamo assolutamente di lasciar cadere 1• Ad analoghe conclusioni era già pervenuto Pane nei suoi numerosi interventi sull'argomento 2 e l'elenco delle citazioni potrebbe continuare, ricorrendo i termini «significato» e « comunicazione » in quasi tutti gli autori che si sono occupati del problema. Ma non sono solo queste affermazioni di carattere seman­ tico a legittimare la prospettiva semiotica per lo studio e gli interventi sui centri storici. Infatti, molti e forse tutti i pro­ blemi relativi a questo campo rientrano nell'ambito della sfera del segno e del senso e andrebbero inquadrati nella disciplina che studia appunto la vita dei segni nell'ambito della vita sociale. Inoltre, accanto all'obiettivo della comuni­ cazione e del significato, la visuale semiotica dovrebbe assi­ curare anche un modo più scientifico di accostarsi al nostro tema. Nel documento introduttivo al seminario di Gubbio del '70 si legge: Non si ritiene affatto che nell'ambito disciplinare ... tutto sia scontato e risolto. Anzi, al contrarlo, le più gravi carenze risiedono ancora in tale ambito. Le discipline archi­ tettonico-urbanistiche non hanno ancora sistematizzato e chiarito I loro strumenti di ricerca ed operativi al punto che non sono ancora in grado di fornire un prodotto scientifico: cioè a dire comprensibile in ogni sua fase di passaggio logico, comunicabile, esplicito per ciò che concerne l'analisi della situazione di fatto, il giudizio critico, il significato e gli obiettivi della proposta, verificabile nelle sue conseguenze. Un prodotto cioè che un qualunque operatore possa smontare e rimontare come un meccanismo si complesso e, se si vuole, « aperto », ma di cui è possibile conoscere il funzionamento. Dipende dalla costruzione di questo sistema il poter dare un contributo sistematico e globale sul problema dei Centri Sto­ rici da parte dell'architetto urbanista 3• Non è chi non veda che simili propositi rientrano perfettamente in una pròspettiva semiotico-strutturale.


Alcune proposte di applicazione semiotica Nei nostri precedenti studi 4 , poste alcune premesse teo­ riche, abbiamo tentato, servendoci di assunti semiologici, di effettuare analisi e « letture » di fabbriche già realizzate, avvertendo tuttavia che la stessa metodica poteva altresì utiliz­ zarsi a livello progettuale. Nelle presenti note ci soffermeremo prevalentemente su questo secondo aspetto o, meglio, discu­ teremo alcune ipotesi di scelte progettuali su un ipotetico modello di centro storico. Ma prima di far ciò è necessario richiamare le principali questioni emergenti dalla ricca let­ teratura sull'argomento. La prima riguarda il principio della conservazione attiva, preliminare, a nostro avviso, ad ogni ipotesi d'intervento, specie se effettuato dalla visuale semio­ logica. L'idea della conservazione attiva nasce dall'esperienza che l'antico patrimonio edilizio-urbanistico, poiché è soggetto a continua usura, poiché presenta generalmente delle parti nocive alle altre, poiché alcuni elementi o edifici non trovano giustificazioni per la loro conservazione, ecc., non può essere totalmente mantenuto allo status quo: cosicché per tener in vita quanto si ritiene più significativo è necessario operare delle scelte ed intervenire attivamente nel restauro e nella ristrutturazione di parti di fabbriche ed ambienti che s'inten­ dono tutelare. La seconda questione riguarda le nuove fun. zioni, le nuove ·destinazioni d'uso che s'impongono ad edifici o ad ambienti per assicurarne la sopravvivenza. Questo cam­ biamento di funzione sembra contraddire l'acquisito precetto che tra forma e funzione esista un rapporto inalterabile e che, in un certo senso si ripropone anche ad un'analisi semio­ tica, grosso modo nel rapporto che lega il « significante» al «significato» (termini che specificheremo meglio più avanti). Risolutiva di una simile contraddizione ci appare una indicazione espressa da Benevolo, che, se da un lato con­ ferma il criterio della conservazione attiva discussa sopra, dall'altro affronta il problema del binomio forma-funzione in presenza della necessità di un cambiamento di destinazione d'uso. Nel rispondere all'obiezione che conservare gli ambienti antichi equivarrebbe ad un'operazione museografica e non

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storico-urbanistica, Benevolo osserva: questo ragionamento sl fonda su premesse artificiose, perché suppone che i rap­ porti tra edifici e funzioni siano molto più rigidi del vero. Una delle prerogative più importanti dell'architettura - e una delle più ammirevoli, per chi sa intenderne il significato ( il corsivo è nostro) - è di non essere legata univocamente alla precisa funzione originarla, ma di contenere sempre un margine, più o meno vasto, per altre utilizzazioni. Si direbbe che l'architetto, progettando lm edificio, gli infonda una carica vitale più ampia di quel che occorre per le immediate neces­ sità. Ciò comporta una corrispondente possibilità di trasfor­ mazioni d'ordine formale, che l'edificio sopporta senza per­ dere la sua individualità e il suo carattere. È appunto su questo margine di libertà che si può far leva per attuare l'esigenza di conservazione, senza perdere i contatti con la mutevole realtà sociale ed economica... Conservare un edificio o un complesso edilizio significa contenere le trasformazioni - potenzialmente illimitate - nei limiti che l'edificio o li quartiere comporta, senza perdere la sua natura essenziale. Lo scopo è sempre di mantenere l'accordo fra le componenti formali e funzionali, ma l'ordine del fattori è l'opposto di quel che avviene nelle nuove costruzioni; in queste esiste una realtà economica e sociale di partenza, e si tratta di darle una forma fisica adeguata; per gli ambienti antichi è data la forma e si tratta di procurarle un fondamento economico e sociale compatibile coi valori formali 5• Oltre a condividere pienamente tale assunto, esso ci con­ ferma per altra via la convinzione che la funzione non è il significato (o almeno non è il solo significato) dell'architettura. E veniamo al nostro ipotetico modello di centro storico, ovvero alla « costruzione » di un brano di tessuto urbano. Esso può riduttivamente essere composto da tre fattori: un complesso monumentale, un brano della rete viaria, ossia gli invasi delle piazze e delle strade in essa confluenti, una

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serie di fabbriche minori destinate prevalentemente ad abita· zioni, che circoscrive gli invasi suddetti e contribuisce in larga misura a conformare il contesto dell'intero ambiente. Esaminiamo il grado di modificabilità di questi tre fattori.


Già per il restauro architettonico della sua parte monu­ mentale è stato da tempo bandito l'intervento « stilistico »; l'aforisma « dov'era e com'era» dovrebbe, stando ad acquisi­ zioni ormai largamente diffuse, essere abbandonato per far posto al criterio che le parti restaurate, ristrutturate, aggiunte dovrebbero manifestarsi, pur senza snobismi, come schiet­ tamente moderne, documentando così che un monumento è stato restaurato oggi e con il linguaggio più tipico del nostro tempo 6• Se questo vale per una fabbrica storico-artistica singola, non vediamo perché non debba valere, in linea teorica, per l'intero ambiente. Accantonato il primo fattore del nostro ipotetico modello, ritorniamo ad esso per suddividerlo in due sistemi, corrispon­ denti peraltro a ciascuno degli altri fattori che lo compongono: uno, quello degli invasi stradali comunicanti tra loro, ovvero un sistema aperto, e l'altro, quello delle fabbriche minori, cioè un sistema chiuso o meglio ad elementi chiusi. Definiamo, convenzionalmente e ai soli fini delle presenti note, il primo urbanistico ed il secondo architettonico 7• La complementa­ rità dei due sistemi a prima vista appare indubbia, non si dà l'uno senza la conformazione dell'altro e viceversa. Tuttavia questo è solo un dato di partenza, rispondente unicamente ad una condizione tettonica e percepibile solo in un disegno planimetrico o da una visuale dall'alto. Se consideriamo la stessa struttura-mod·ello da altri punti di vista, ci rendiamo conto che il legame tra gli spazi vuoti dell'urbanistica e quelli, per così dire, pieni dell'architettura è più labile di quanto s'è detto sopra. Infatti, da una visuale morfologica, alcune caratteristiche degli spazi urbanistici rimangono inva­ riate se immaginiamo di sostituire le fabbriche al contorno con altre di diversa altezza, carattere o stile. Analogamente, alcune caratteristiche _delle fabbriche al contorno rimangono costanti al variare della lunghezza o del,la larghezza, degli effetti visivi, dell'arredo urbano, ecc., degli invasi urbanistici. Ancora, all'interno della massa edilizia è possibile trasformare radicalmente gli spazi senza mutare -né l'aspetto esterno del sistema architettonico, né alcun fattore del sistema urba­ nistico. 9


Queste considerazioni ci dicono - posta la legittimità di definire urbanistica il sistema degli spazi aperti e archi­ tettura quello degli spazi chiusi (è comunque però sempre lecito sostenere che i primi sono più segnati in senso urba­ nistico e i secondi in senso architettonico) - che architettura e urbanistica, nella loro più ampia valenza, non stanno fra loro in un rapporto biunivoco di positivo-negativo. Fra i due sistemi esiste evidentemente un certo margine di indipen­ denza e quindi di modificabilità che ci consente varie pos­ sibilità d'intervento, riducibili a tre condizioni-limite di opera­ tività almeno nel nostro ipotetico modello di centro storico. Oltre a -lasciare tutto invariato, il che è stato escluso dal presupposto dell'intervento attivo, e tranne il caso di puro restauro di consolidamento, possono darsi le seguenti azioni operative: 1) scelta di conservare l'« immagine» planimetrica urba­ nistica, modificando esterni ed interni del sistema archi­ tettonico; 2) scelta di conservare l'« immagine» urbanistica sud­ detta e le « immagini» architettoniche, modificando solo le strutture interne alla massa del fabbricato al contorno; 3) scelta di conservare esterni ed interni di una parte del sistema architettonico (p.e. uno o più lati di una piazza) modificando la parte restante del sistema urbanistico e di conseguenza anche le altre parti del sistema architettonico. Evidentemente tali operazioni ne implicano altre che, sebbene ancora a livel,Io ipotetico, tenteremo di descrivere chiamando in causa altri fattori non previsti in questo primo elementare schema morfologico, coi quali lo amplieremo, modificheremo alcuni termini come quello di « immagine » usato nei punti 1 e 2, studieremo il nostro ipotetico modello dal punto di vista del senso, della significazione.

L'interpretazione semiotica del modello ipotizzato 10

· Altrove abbiamo definito come segno architettonico l'unità minima dotata di spazio interno, ovvero un organismo il cui


invaso abbiamo chiamato « significato» e il cui involucro « significante ». Per il segno urbanistico abbiamo definito « significato» l'invaso di una strada o di una piazza e « signi­ ficante» le strutture architettoniche che delimitano e con­ formano quegli invasi a cielo scoperto. Risulta di conseguenza che non possiamo modificare una delle due componenti del segno (architettonico o urbanistico) senza modificare anche l'altra; né, data la relazione fra i due sistemi segnici, alterare una componente del sistema urbanistico senza trasformare una componente del sistema architettonico. Ma se i due sistemi nei quali abbiamo diviso il nostro elementare schema-modello ipotetico sono soggetti ad una così ferrea dialettica di « significanti»-« significati », il nostro parziale intervento sull'uno o sull'altro sistema segnico, su una o l'altra di dette componenti, non sarà un'operazione inorganica del tutto -simile ad una sorta di protesi? Diciamo intanto che l'idea della protesi in presenza di un antico organismo (un dipinto, un edificio monumentale, un ambiente) da restaurare non va affatto considerata in senso negativo. Protesi in campo medico è un'operazione mirante a restituire artificialmente la forma e la funzione di un organo perduto; ma se questo è l'obiettivo ottimale, in realtà assai spesso le varie protesi restituiscono una sola delle sud­ dette proprietà, o la forma o il meccanismo funzionale del1'organo sostituito. In semiologia potremmo definire protesi di un segno la sua sostituzione con un altro avente del primo o il « significante » o il « significato », il nuovo segno ponen­ dosi appunto come artificiosa combinazione di dette com­ ponenti. Ma la stessa protesi non è fuori dalla linea del senso, dal processo di significazione. Infatti, la nozione di protesi comporta sempre l'idea di un intervento parziale, di qualcosa cioè che si sostituisce in un contesto, in un organismo che è comunque vivo. Non solo, ma sarà proprio la struttura e la vitalità di tale organismo a dirci se il nostro restauro­ protesi appartiene al sistema urbanistico o a quello archi­ tettonico e rispettivamente •alla componente « significato • o a quella « significante » dell'uno o deH'altro sistema. Tuttavia, nella stessa prospettiva semiologica, riteniamq 11


di poter andare ben oltre la realistica condizione ora descritta, oltre cioè la condizione di protesi, e che sia lecito, nel campo del restauro e della ristrutturazione architettonico-urbanistica, derogare proficuamente dalla rigida dialettica che lega i « significanti » ai « significati ». Per articolare il linguaggio architettonico in generale, abbiamo introdotto in altra sede la nozione di sottosegno; questa risulta particolarmente utile alla tematica degli inter­ venti nei centri antichi. Definiamo sottosegno o « figura » una parte del segno (nel caso di quello architettonico: la pianta, le pareti, la sezione, le aperture, ecc.; nel caso di quello urbanistico: la planimetria di un invaso, le facciate su esso prospicienti, i,l profilo che queste disegnano contro il cielo, l'arredo stradale, ecc.) che, in quanto bidimensionale o lineare è priva di interna spazialità, le manca la componente « signi­ ficato», ma non per questo è carente di una marca semantica. Questa è affidata ad una gamma vastissima di fattori: gli stilemi degli ordini, i tratti specifici delle tipologie, quelli derivanti dai sistemi costruttivi, i motivi del gusto, gli accenti iconologici, le indicazioni simboliche, ecc. Ora, la nozione di sottosegno giova al nostro discorso per almeno tre aspetti. Anzitutto, come abbiamo appena osservato, i sottosegni o « figure», pur contribuendo alla formazione dei segni, hanno una loro autonomia semantica legata ai fattori sopra elencati. In secondo luogo, alcuni sottosegni, proprio in forza di questo grado di autonomia, pur restando legati al proprio sistema, possono essere, per così dire, più marcati in senso urbanistico che architettonico e viceversa. In particolare, alcune « figure» come la facciata hanno la caratteristica invariante di essere in pari tempo « figura » del « significante » architettonico e « figura » del « significato » urbanistico, perché da un lato delimitano esternamente gli spazi architettonici, mentre dall'altro delimitano internamente quelli urbanistici. Infine i sottosegni, consentendo l'articola­ zione del linguaggio in termini più piccoli o « discreti», servono al riconoscimento e all'istituzione di un codice archi­ tettonico-urbanistico; ma su questo problema ci soffermeremo più avanti per ritornare ora, acquisite alcune nozioni semio-

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logiche, al nostro elementare modello ipotetico di centro antico. Quando al punto ( 1) scegliamo di conservare l'immagine planimetrica urbanistica, modificando esterni ed interni del sistema architettonico, risulterà che avremo affidato alla sola « figura » di pianta degli invasi urbanistici l'intera valenza comunicativa del,l'insieme, avremo ridotto la significazione del­ l'intero contesto ad un unico sottosegno, che solo virtual­ mente sarà in grado di restituirci l'originario significato del­ l'ambiente. Tuttavia, grazie alla introduzione dei nuovi parametri semiologici, quella iniziale scelta potrà essere per­ fezionata. Infatti, anche se il sistema urbanistico risulterà sempre privilegiato, l'intelligenza analitica delle forme preesi­ stenti e l'adozione di nuovi, opportuni sottosegni per le fab­ briche al contorno, ci restituiranno un'idea dell'ambiente antico e quindi il suo valore comunicativo. Quando al punto (2) sceglieremo di conservare sia la planimetria degli spazi esterni, sia le facciate delle fabbriche al contorno, modificando solo gli spazi interni del sistema architettonico, avremo conservato integralmente il sistema segnico urbanistico, ma in quello architettonico avremo scisso i « significanti », che restano quelli di prima, dai « significati,. che sono stati trasformati. In tal caso avremo deciso di privilegiare la struttura segnica urbanistica, affidando alla autonomia semantica delle facciate il compito di « rappre­ sentare,. il precedente sistema architettonico e in definitiva la comunicazione dell'originario equilibrio dell'ambiente. Certo, a livello architettonico avremo operato quella che abbiamo chiamato una protesi, ma questa potrà sempre farsi senza violentare il sistema dei segni dell'architettura. Infatti, trattandosi appunto di un sistema, esso potrà essere opportu­ namente articolato e graduato: affinché quelle facciate rimaste invariate non risultino un mero paramento, sarà necessario organizzare in maniera adeguata gli ambienti e i sottosegni immediatamente retrostanti ad esse, salvo a svincolarsi dalla loro originaria conformazione man mano che si opera negli spazi più interni. Quando al punto (3) scegliamo di conservare esterni ed

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interni di una parte del sistema architettonico, modificando il sistema urbanistico e quindi anche altre parti di quello architettonico, avremo solo nella prima parte di questo l'in­ tegrità segnica dell'architettura, mentre i segni urbanistici avranno « significanti » e « significati » dissimili da quelli primitivi. Tuttavia, nonostante il fatto che questa volta risulti privilegiata la parte architettonica dell'ambiente, non manca la possibilità, attraverso il recupero di preesistenti sottosegni urbanistici (il tracciato stradale riconoscibile attraverso la pavimentazione, la forma dei primitivi invasi ottenuta con l'introduzione di zone verdi, con gli elementi dell'arredo urbano, ecc.), di conservare un simulacro del primitivo am­ biente e con esso assicurare la sua comunicazione. Naturalmente, come abbiamo già osservato, quelli sopra descritti sono dei casi-limite ed estremamente schematici; la realtà operativa si presenta assai più ricca ed articolata attraverso una serie di esigenze e soluzioni intermedie; non tutta la massa fabbricata di un ambiente necessita sempre di una così radicale trasformazione interna; non tutto il sistema degli spazi esterni ha bisogno di tali modifiche; più frequentemente si tratta di sostituire qualche elemento del­ l'uno o dell'altro sistema, di operare dei diradamenti verticali, di modificare le destinazioni d'uso, quando non si tratta di puro e semplice restauro di consolidamento. In ogni caso, come s'è detto, è necessario riconoscere e dimostrare che stiamo operando sul sistema degli invasi urbanistici o su quello dei segni architettonici o su entrambi, nonché sapere che stiamo agendo sulle componenti « significato » o « signi­ ficante » dell'una o dell'altra struttura segnica. Inoltre nella vasta fenomenologia degli interventi possiamo sempre avva­ lerci delle menzionate autonomia e polivalenza dei sottosegni. Cosicché, specie per il sottosegno-facciata, che rimane, come s'è visto, sempre contemporaneamente una « figura » del e significante » architettonico e del « significato » urbanistico ( diciamo per inciso che ciò vale anche per alcuni tipi di piante, di coperture e di altri sottosegni che qui omettiamo per semplicità di discorso), il nostro intervento di restauro e di ristrutturazione utilizzerà l'una o l'altra valenza se


vogliamo marcare pm m senso urbanistico o architettonico il carattere dell'ambiente nel quale operiamo. Ma, se queste proprietà dei sottosegni ci consentono di andare oltre una operazione che abbiamo definito di protesi, la stessa auto­ nomia semantica dei sottosegni impone una loro attenta analisi e un loro adeguato recupero. Infatti, non basta riprendere o lasciare inalterata la dialettica · dei « significanti »-« signi­ ficati » originaria per conservare la primitiva comunicazione; occorre che quest'ultima venga assicurata anche dalle carat­ teristiche specifiche dei sottosegni e addirittura delle parti più discrete in cui essi possono essere ulteriormente suddivisi. Insomma, poiché riconosciamo che ogni fattore, elemento e dettaglio dell'ambiente architettonico-urbanistico possiede un suo valore semantico, partecipa al processo di significazione, sarà necessario - nel caso in cui non possiamo conservare tutto e siamo obbligati a compiere alcune scelte - riconoscere quali son i tennini più indispensabili alla conservazione del primitivo senso, dell'originario significato globale. I sottosegni giocano ancora un ruolo forse ancor più rilevante di quello sopra indicato. Anzitutto, se consideriamo ancora sottosegno qualcosa di più piccolo e « discreto » delle « figure » di pianta, di facciata, di sezione, ecc. e includiamo in essi i tipi di apertura, di coronamento, di copertura, gli elementi della plastica minore, l'uso ricorrente di determinati materiali, la loro grana, il colore, ecc., arricchiremo assai util­ mente il nostro campo semiologico in ordine sia all'impor­ tanza che questi tratti più discreti hanno nella significazione globale dell'ambiente, cui abbiamo appena più sopra accen­ nato, sia alla possibilità di una classificazione dei centri storici. Infatti, i tratti più discreti, avendo la proprietà di essere anche più ricorrenti, ci consentono di tentare una classifica­ zione degli ambienti antichi assai più completa e rigorosa di quella tipologico-urbanistica sul tipo, ad esempio, della clas­ sificazione in cui parliamo di centri storici inseriti nell'odierno contesto urbano, centri storici emarginati dalla città moderna, centri storici che erano addirittura coincidenti con la città e oggi non Io sono più, ecc. Peraltro va considerato che una classificazione sarà tanto più ricca e proficua quanto più sarà 15


basata su elementi discreti. Infatti, è prevedibile che l'auspi­ cato censimento dei centri antichi ci consentirà sl una clas­ sificazione, ma in primo luogo e soprattutto ci fornirà un elenco di tante storiche individualità, di tante situazioni, ognuna rappresentando un singolare caso con una sua speci­ fica significazione. Cosicché avremo una classificazione che non sarà un codice dei centri antichi - utile come suggeri­ mento per il pratico operare -, bensl un elenco di tanti tipi di messaggi 1• Viceversa, una classificazione non basata su segni, che sono già dei messaggi, ma su sottosegni, ci darà una sorta di lessico architettonico-urbanistico, vale a dire una parte note­ vole del codice dei centri antichi. Non è chi non veda che la definizione di un codice, con il suo lessico e le sue regole combinatorie, se appare ormai a tutti necessaria ad ogm tipo di analisi e di progettazione architettonica, risulta addi­ rittura indispensabile per gli interventi nei centri storici, sia perché si tratta di riconoscere la loro preesistente strut­ tura in ogni particolare, sia per innestarvi nuove forme che siano adeguate, sia perché in definitiva restauro e semiologia operano prevalentemente su « questioni di dettaglio ». A completamento dell'argomento di cui ci occupiamo, va fatta qualche osservazione ancora sull'utilità dei sottosegni nell'opera di intervento nei centri storici in ordine ad una questione, a suo tempo molto discussa, ma rimasta ingiudi­ cata. La vecchia disputa tra chi affida la salvaguardia del­ l'ambiente antico solo ad un'attività di consolidamento e chi sostiene la necessità di interventi da effettuarsi con opere linguisticamente e funzionalmente moderne, può trovare uno sbocco nella prospettiva semiologica e in particolare nelle caratteristiche dei sottosegni. Questi, grazie al fatto che conservano un certo grado di invarianza, specie se considerati nella loro dimensione più discreta, assicurano un grado di continuità da un codice-stile all'altro e quindi la possibilità della coesistenza di antico e nuovo. Infatti, ad eccezione degli ordini architettonici tradi­ zionali - che, sebbene abbiano avuto un ruolo notevole nel 16 linguaggio dell'architettura antica, rinascimentale, manierista


e barocca, in sostanza non lo esaurirono, essendo lo specifico di quelli come cli altri stili affidato soprattutto all'articola­ zione spaziale - non esiste forse alcun tipo cli sottosegno (copertura, apertura, riquadro, rapporto tra pieni e vuoti, uso -dei materiali, ecc.) dell'architettura del passato che sia incompatibile con analoghi sottosegni dell'architettura con­ temporanea. E ciò non solo e non tanto perché una finestra sarà sempre generalmente un rettangolo, né perché la coper­ tura sarà sempre a tetto inclinato o a terrazzo, ma soprattutto perché, ove si eccettuino alcuni effetti strutturistici ed alcune forme dell'architettura contemporanea legate essenzialmente allo sfruttamento visivo delle possibilità tecnologiche, l'archi­ tettura moderna ha inglobato i sottosegni preesistenti, ma in primo luogo non ha inteso creare uno stile basato sui sotto­ segni, bensì puntare ogni sua energia nell'evidenziare la sua conformazione spaziale, specie quella relativa agli spazi interni. Allora delle due l'una: o considerare l'architettura moderna in una sua propria e specifica « dimensione » - come ebbe ad indicare Brandi - e allora si dovrebbe evitare ogni sua collusione con l'ambiente antico, oppure considerare il suo linguaggio così duttile da non perdere la sua peculiare spa­ zialità interna (il suo « significato ») in un contesto preesi­ stente. In questo caso non dovrebbero esservi contraddizioni tra i sottosegni tradizionali e quelli moderni ove si abbia l'intenzione cli ricostruire l'antico ambiente. Tant'è vero che esistono esempi di architetture francamente moderne perlet­ tamente inserite in contesti preesistenti nelle quali appunto, a parte il talento dei progettisti, non si è puntato sui valori o stilemi di facciata, né sulla peculiare modernità di altri sottosegni. Analoghe considerazioni possono farsi per ciò che con­ cerne gli spazi urbanistici, ovvero l'intera scena urbana. Certo, le più tipiche immagini dell'urbanistica moderna sono quelle di un Le Corbusier o di un Sant'Elia, per citare i primi nomi che ci vengono in mente; sono quelle in cui dominano gli edifici multipiani a scheletro, le vie a scorrimento veloce, gli svincoli stradali incrociantisi a più livelli, i percorsi dif­ ferenziati, ecc.; ma sono altrettanto moderni quegli ambienti 17


in cui domina la cura del dettaglio, una percezione v1S1va meno e veloce », l'arredo urbano, in una parola ciò che carat­ terizza le città olandesi vecchie e nuove o la tradizione urba­ nistica inglese che si è incarnata nella nuova disciplina del townscape. Che forse il e significato» di questi spazi esterni ha tradito il suo e significante», vale a dire l'architettura, il senso moderno dell'architettura delle fabbriche al contorno? La verità è che, a nostro avviso, ove si eccettui la dimensione utopistica (assai spesso in collusione coi più realistici interessi dell'economia di profitto), nelle manifestazioni migliori del­ l'urbanistica moderna non si è affatto rinunciato al valore dei sottosegni, alle « questioni di dettaglio» cui si deve una sorta di invarianza e quindi di continuità fra l'antico ed il nuovo.

I « significati» dei centri storici

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Che senso diamo alla parola « significato» intesa come componente dei segni architettonici e urbanistici? Senza appesantire le nostre note con ulteriori riferimenti al modello della linguistica, ci limiteremo a dire che ogni sistema semio­ logico si sviluppa secondo due assi, uno sintagmatico e uno associativo. Il primo (dal greco syntagma cioè disposizione) studia le caratteristiche morfologiche e lessicali dei termini così come sono disposti in una frase o, nel nostro caso, in un brano architettonico-urbanistico. In quest'ultimo il « signi­ ficato » sintagmatico va ricercato nelle valenze spaziali. Altrove, pur avvertendo dei limiti della nostra definizione, abbiamo parlato di spazio dell'architettura come di uno spazio di natura delimitato artificialmente (con degli involucri ap­ punto e significanti ») al fine di rendere possibili alcune fun­ zioni e abbiamo aderito all'assunto che quello architettonico­ urbanistico è un sistema semiotico che non solo serve ad assolvere pratiche funzioni, ma che costituisce anche un sistema comunicativo. Cogliamo pertanto l'occasione per ritor­ nare a discutere il rapporto tra « significato » e funzione. Indubbiamente il motivo funzionale ha rappresentato la


ragione pratica per la quale è stata costruita una fabbrica o un invaso urbanistico, tuttavia, poiché le funzioni originarie sono state mutate, resta da verificare in che modo ciò si è ripercosso sulle forme o le strutture originarie che sono rimaste, viceversa, immutate. Attenendoci alla definizione funzionalista dovremmo ammettere due conseguenze: o con­ sideriamo l'originaria forma indissociabile dal suo significato­ funzione e allorquando si trasforma quest'ultimo dovremmo riconoscere che una fabbrica antica ha perduto ogni senso, ogni sua ragion d'essere e che quindi è lecito demolirla, oppure affermare (sulla scorta di quanto abbiamo visto anche riconosciuto da Benevolo), altrettanto logicamente, che la funzione non è il «significato» dell'architettura. Ora, volendo non contraddire e la definizione di spazio architettonico come spazio di natura artificialmente delimitato al fine di rendere possibili alcune funzioni e la definizione semiologica di architettura come sistema di comunicazione, possiamo dire che il motivo funzionale è stato un fattore generativo d'una conformazione architettonico-urbanistica, ma che successivamente si è eclissato a vantaggio del «significato sintagmatico», che è rimasto invariato e disponibile ad acco­ gliere nuove funzioni. Detto diversamente, l'originario valore funzionale dell'architettura equivarrebbe alla motivazione pri­ mitiva dei segni linguistici o all'etimologia delle parole che si sono perdute a vantaggio del senso, se è vero, come sosten­ gono alcune tendenze della linguistica, che i segni sono tanto più semanticamente ricchi e tanto più efficacemente artico­ labili quanto più sono arbitrari, quanto più hanno perduto la loro primitiva motivazione. Non è chi non veda l'importanza di questa tesi anche nel nostro campo e addirittura il suo fondamentale carattere nel settore del restauro, della ristrut­ turazione, del cambiamento nella destinazione d'uso degli ambienti antichi. Possiamo definire ora meglio il«significato» sintagmatico dell'architettura e finalmente rispondere alla domanda che cosa esso significa. Quanto alla definizione, il « significato » (ricordiamo che si tratta sempre di una delle due compo­ nenti) del segno architettonico e urbanistico è indipendente 19


dalla funzione; ha come carattere specifico quello della spa­ zialità; si contraddistingue dagli altri sistemi semiotici di natura iconica per il suo spazio interno; più esattamente la componente « significato » dei segni architettonici e urbani­ stici coincide con lo spazio interno agibile fisicamente e/o virtualmente di tali segni. Quanto alla sua significazione, esso significa, denota, trasmette, comunica, percezioni spaziali. Per convincersi che non proponiamo una tautologia, ma par­ liamo di un fenomeno realmente sperimentabile, basti por mente alle sensazioni, ai condizionamenti fisio-psichici, ai modi di comportamento che si producono in noi, quasi ad ogni livello d'informazione culturale, quando siamo in ambienti con definite caratteristiche spaziali. Così gli aspetti confor­ mativi di un invaso architettonico o urbanistico - la sua altezza, larghezza, profondità, la sua permeabilità alla luce, al calore, all'aria, il ritmo dei suoi elementi costitutivi, ecc. producendo in noi sensazioni, percezioni, stimoli e compor­ tamenti, possono a tutti gli effetti considerarsi come messaggi; possiamo parlare di comunicazione spaziale. Quanto al secondo modo di intendere il « significato », quello che abbiamo chiamato associativo, va detto che al tangibile senso prodotto dalla conformazione materiale di un invaso si associano tanti usi, valori simbolici, conoscenze storiche, motivazioni ideologiche, aspetti interpretativi, ecc. quante sono le categorie di persone interessate alla conoscenza e fruizione di un dato sistema di segni, nel nostro caso al tema dei centri storici. Anticipando una conclusione potremmo dire che la loro salvaguardia dipende dalla « riduzione » a pochi e principali significati associativi condividibili dall'intera sfera sociale. Ma tentiamo d i delineare meglio questo secondo tipo di « significato ». Fatta eccezione delle libere associazioni individuali, non perché prive di valore, ma troppo soggettive per essere gene­ ralizzate, se non per via poetico-letteraria (la letteratura è piena di queste lettw-e di città da Proust al più recente Calvino), i significati associativi dei centri storici possono ricondursi ad almeno tre categorie. 20 La prima è quella del significato che la cultura storico-


artistica attribuisce ad essi. Tale cultura vi riconosce una serie di valori estetici di testimonianze che vanno dalla storia dell'arte a quella civile, dalla storia della cultura a quella del costume, ai moti del gusto, ecc. Inoltre, essa vede nel• l'ambiente antico un patrimonio non solo utile alla continuita della tradizione ed al riferimento critico per le opere presenti e future, quanto soprattutto un patrimonio tanto più prezioso quanto irripetibile. Ai significati ora esposti la cultura storico­ artistica associa anche una valenza socio-politica: la difesa dei centri antichi è anche un modo per opporsi all'economia di profitto, al meccanismo consumistico delle tendenze in atto. Per tutte queste ragioni è snobistico ed ingiusto definire « borghese », idealistico ed elitario l'atteggiamento di quei gruppi che difendono i centri antichi in nome dei valori citati e va riconosciuto alla cultura storico-artistica, nonostante i fallimenti e gli errori, il maggior merito nella salvaguardia di quanto ancora resta dei centri storici. La seconda categoria di significati associativi è quella che la cultura popolare, antropologicamente intesa, attribuisce all'ambiente antico. Essi riguardano le destinazioni d'uso, la volontà degli abitanti di rimanere nel loro habitat tradizionale, di evitare il peggio sia residenziale che lavorativo qualora vengano trasferiti in nuovi quartieri periferici, ecc. Ma se i valori ed i significati prevalenti che i ceti popolari attribui­ scono agli ambienti di cui ci occupiamo sono giustamente di natura economica e sociale, a queste motivazioni pratiche se ne aggiungono altre, simboliche, mitopoietiche, religiose, nazionali, regionali, ecc., ossia a quelle più varie ed eterogenee che, alimentate dall'immaginario collettivo, risultano le più diffuse e condivise. A conferma di ciò sta il fatto che la gran parte del patrimonio antico è costituito da fabbriche religiose, dagli edifici che simboleggiano vicende epiche o la storia comunale e nazionale, da ambienti che ricordano - lo attesta anche la toponomastica - i momenti migliori delle arti e delle corporazioni, ecc. Cosicché la spinta che ha consentito la sopravvivenza di quanto vogliamo oggi difendere andava oltre o si univa al culto archeologico, all'erudizione wnanistica, alla considerazione di uno stile costruttivo, ecc. 21


La terza categoria di significati associati ai centri storici sta negli stessi criteri di politica, di strategia, di tattica per la loro difesa, conservazione e ristrutturazione. A questo punto il discorso diventa prettamente sociologico esulando dai limiti che abbiamo dato alle presenti note, ma non possiamo tron­ carlo perché parlare di semiologia non significa, come vuole qualche critico avverso, chiudersi in uno scientismo neutrale, ridurre i linguaggi a fantomatiche ed asettiche « algebre » di segni e sottosegni. Se il tipo di analisi e i suggerimenti operativi sopra esposti possono contribuire all'intelligenza migliore del pro­ blema, è auspicabile che da essi possano individuarsi anche alcune ipotesi di soluzione che tengano conto dei criteri latamente politici per la difesa dei centri storici. Il primo fra tutti è il principio dell'intervento attivo di cui già s'è parlato. Il secondo, riguardante le destinazioni d'uso, non dovrebbe dare per definitivamente acquisito che i centri storici siano necessariamente destinati alla funzione residenziale, in parti­ colare all'edilizia popolare. Se è giusto non modificare il tes­ suto sociale di tali ambienti, gli attuali abitanti dovrebbero essere liberi di scegliere tra il loro tradizionale habitat e le nuove residenze, non essere costretti ad accettare il primo per evitare il « peggio » dei nuovi quartieri. Inoltre, dovrebbe tenersi in grande considerazione da parte della politica per i centri antichi, accanto ai valori economici, quel coacervo di idee, di usanze, di miti e di riti che pure sostanziano la valenza sociale di tali centri, contribuendo al loro significato. Infine va ribadito che forse l'unica possibilità di successo nella difesa dei centri storici sta nell'alleanza fra i gruppi intel­ lettuali impegnati in questo compito e le masse popolari, ovvero nel rendere convergenti i valori-interessi della cultura storico-artistica e quelli della cultura intesa in senso antro­ pologico.

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1 L. BENEVOLO, in Il futuro dei centri storici e il PRG di Urbino, Argalìa ed., Urbino 1964, pp. 138-139. 2 Cfr. Città antiche edilizia nuova, E.S.I., Napoli 1959. 3 B. GABRIELLI, Documento introduttivo (proposte di lavoro per i\ seminario di Gubbio), in Per una revisione critica del problema dei


centri storici, Atti del seminario di studio promosso dall'Associazione nazionale per i centri storico-artistici, Gubbio 5-6 settembre 1970, p. 9. 4 Cfr. R. DB Fusco, Segni, storia e progetto dell'architettura, Laterza, Bari 1973. s L. BENEVOW, La conservazione dei centri antichi e del paesaggio, in « Ulisse», n. "1:1, a. 1957, ora in L'architettura delle città contempo­ ranee, Laterza, Bari 1972, pp. 144-145. 6 Tuttavia, questi principi trovano ancora divisi molti autori con­ temporanei. Per un orientamento opposto a quello enunciato, cfr. l'editoriale Per la tutela dei beni artistici (M. G.) del n. 257 di «Para­ gone », luglio 1971. 7 Per l'esattezza, almeno semiologica, non si tratta di due sistemi, ma di un sistema, quello urbanistico, che ingloba quello architettonico. In particolare, l'urbanistica può paragonarsi ad una semiotica con­ notativa, ovvero avente una propria parte « significato• e per e signi­ ficante» un altro sistema dotato di un proprio binomio «significato•/ « significante», qual è appunto l'architettura. Per tale argomento cfr. R. DE Fuseo-R. VINOGRAD, Nota sul segno urbanistico, in e Op. cit.•• n. 32, gennaio 1975. a Cfr. U. Eco, La struttura assente, Bompiani, Milano 1968, p. 224.

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Le idee di teatro, oggi a cura di LUCA Dll Fusco, MASSIMO FUSILLO, VITTORIO LUCARIELLO, BRUNO RODERTI

A voler compiere una indagine conoscitiva e divulgativa su quello che è stato il teatro di questi ultimi anni - e intendiamo per tale le operazioni e le ricerche che vanno dal '50 al '70 - va principalmente messo in evidenza come il teatro sia riuscito oggi a conquistare un suo linguaggio spe­ cifico mettendosi alla pari con il processo di autoriflessione già assorbito da altre forme d'arte. Il teatro in questi anni ritorna alle sue radici che sono quelle di una «lingua,. fatta propria dalla comunità che la adotta ed inoltre è un momento di comunicazione che ritorna alle sue matrici rituali. Il teatro svela oggi i suoi meccanismi al fine di un ricongiungimento e di una chiarificazione con i suoi interlocutori. In base a ciò l'operatore teatrale scopre la possibilità di agire in nuovi « spazi ,. che non sono più quelli stabiliti da una consuetudine risalente ad un teatro ottocentesco. Va riscoprendosi, da una parte, la funzione della commedia dell'arte, dall'altra, la pura ricerca sui nuovi mezzi di comunicazione, l'indagine appro­ fondita del dato storico e antropologico, del gesto in quanto uso del corpo; il tutto come momento cerimoniale. Ed è proprio servendosi di ravvivati studi, come quelli sul rito e sui sistemi di comunicazione che il teatro, dopo un tardivo adeguamento alle tendenze espresse da altre arti, si pone oggi come uno dei punti di riferimento per chiunque ricerchi nuove vie di comunicazione estetica. Nonostante queste nuove meto­ dologie della comunicazione ci diano un teatro rinnovato dai nuovi segni, quelle stesse agevolazioni tecnologiche, che ci

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consentono di ritrovare le culture arcaiche, ci impediscono d'altra parte di sbarazzarci definitivamente delle culture e moderne » per quanto uscite sbaragliate dal confronto 1• Da


questa progettualità utopica di una nuova via del teatro nasce l'esigenza di rideterminazione delle sue funzioni. Queste fasi della ricerca teatrale che andremo ad esaminare non presen­ tano quindi più dei prodotti ma delle testimonianze di spe­ rimentazione. Partendo dal concetto di teatro come avveni­ mento e non più come testo e quindi dalla messa in ombra della figura dell'autore a favore di quella del regista, si è passati ad un processo che, lungi dall'essersi risolto, tende comunque a riunificare le due funzioni puntando sul nuovo concetto di scrittura scenica. Vedremo attraverso una serie di testimonianze come questo discorso si venga ad attuare su due fronti: a) la trasformazione della struttura spaziale tradizionale; b) il concetto di scrittura scenica che annulla il testo scritto nell'azione teatrale.

Anni '50/'60: lo studio sul corpo Con il teatro di Grotowski per la prima volta la scena si interroga e si ripiega su di sé mettendosi al passo con le grosse scoperte linguistiche dell'avanguardia storica nel campo delle arti figurative. Jerzj Grotowski va formando in questi anni una specie di scuola-comunità il cui livello tecnico­ metodologico è altissimo. Grotowski, da un lato, è tentato di dare uno spettacolo perfetto nei suoi termini tecnico-formali, dall'altro, riduce la geometria dello spazio scenico a una sorta d'analisi psico-analitica dell'attore. C'è infatti in Grotowski un rifiutarsi alla tentazione dello « spettacolo ,. ricco di trovate registiche per arrivare a una concezione di teatro povero, cioè ridotto ai suoi segni primari, che sono gli elementi base del corpo e dello spazio. Grotowski carica i gesti del maggior numero di significati possibili... con una finalità di pubblico assai aderente ai temi e alle indicazioni di quelle forme di gesti non stanti a se stesse 2• Ciò ci fa capire come la ricerca grotowskiana non lavori nella felicità di per sé del segno gestuale, che richiede subito un suo abbellimento a scapito della scarnificazione linguistica, ma arrivi a convogliare e concentrare nell'uomo-attore tutte le possibilità segniche del teatro, essendo lo spazio scenico, nella sua concezione, una 25


diramazione relativa alla tensione gestuale dell'attore. Per questa messa a nudo di se stesso, l'attore si serve solo del proprio corpo, rifiutando Grotowski sia l'artifizio delle luci che quello del trucco. L'affermazione del regista polacco: per me il teatro è essenzialmente il rapporto attore-spet­ tatore 3, che parte da quest'aspetto di « scavo interiore», sintetizza in sostanza i due studi particolari svolti dal labo­ ratorio di Wroclaw: quello sul corpo e quello sullo spazio nel suddetto rapporto attore-pubblico. Lo spazio è usato, in quanto area scenica, in maniera da non prescindere dall'attore che lo occupa, e sempre in funzione del movimento degli attori in quello spazio, e non in altro, costruito su misura per ogni nuovo spettacolo. Questo particolare tipo di teatro così scevro di elementi spettacolari, così « puro», si inserisce in effetti in una delle grandi « costanti» del teatro d'oggi, quella del « rito». Critici come il Raimondo hanno rifiutato questo termine definendo l'opera del polacco come una cerimonia di autopenetrazione collettiva 4; francamente non vediamo contraddizione tra i due termini, perché se è vero che Gro­ towski si ricollega in maniera profonda e sostanziale alla psicoanalisi, e in generale agli studi più recenti sulla psiche umana, è anche vero che egli si rifà decisamente a miti e riti delle tradizioni polacche spesso difficilmente comprensi­ bili da spettatori stranieri. Opere come Il principe costante o Akropolis si rifanno, come lo stesso Grotowski ha più volte sottolineato, a testi largamente radicati nella coscienza popo­ lare e, del resto, anche il sapore di ritualità cristiana, presente in tutto il lavoro del laboratorio di Wroclaw, è un riflesso della forte tradizione religiosa della Polonia. Peraltro in alcuni studi sul corpo e sul movimento nei vari spettacoli sono pre­ senti forti influenze di gestualità popolare. Anche se la defini­ zione di teatro rituale lascia spazio ad equivoci sull'ideologia e la pratica del lavoro di Grotowski, ci sembra che il rito, inteso come origine del teatro, possa, nella sua pratica tera­ peutica, immaginativa, psichica, suggerire come il lavoro grotowskiano sembri andare oltre i segni ultimi della « pratica della scena» per giungere a quella freudiana « altra scena» 26 che è l'inconscio dell'uomo. L'elemento terapeutico nel labo-


ratorio di Wroclaw è sempre applicato all'esercizio prepa­ ratorio dell'attore, come risulta chiaramente dalle parole di Wanda Monaco, che individua principalmente l'esatta fun­ zione della scuola grotowskiana partendo da tre elementi: la rimozione dei blocchi psichici dell'attore, un allenamento fisico rigorosissimo, e la « parte »; ma quel che più conta è vedere secondo quall rapporti si connettono e si organiz­ zano questi tre elementi. Fra essi è privilegiato li momento psichico che condiziona e determina, In assoluto, la funzio­ nalità degll altri due; la soluzione del particolare blocco psichico di quel detenninato attore dovrebbe risolverne e scioglierne le resistenze corporee; questa prima fase del lavoro si svolge sotto la diretta, costante e quotidiana guida del regista che aiuta l'attore ad autoanalizzarsi In modo che, successivamente, l'attore possa individuare le motivazioni profonde dei processi psicosomatici scaturiti dal suo incontro colla « parte » s. In questi anni '50/'60 dunque, la presenza di Grotowski si pone all'attenzione del pubblico e della critica europea con tutti i suoi pregi metodologici e tutte le sue ambiguità. Una di queste è il « misticismo ». La parola è stata usata da Grotowski in maniera critica; rispondendo all'accusa di misticismo che gli veniva fatta, egli ha definito tale atteg­ giamento una ideologia dogmatica e grossolana. Ma se per misticismo intendiamo un proiettarsi al di là del dato mate­ riale in chiave metafisica, e diciamolo pure, religiosa, allora ci pare che non si possa fare a meno di ammetterne la pre­ senza nell'opera di Grotowski, anche se questi ha recentemente parlato di una religione terrena non proiettata verso il sopran­ naturale. In questi anni la sperimentazione teatrale è dominata oltre che dal gruppo del laboratorio di Wroclaw, dalla comu0 nità del Living Theatre finalizzata in senso utopistico-politico; Dopo che le poetiche degli anni '50 (Beckett, Jonesco) avevano denunciato la convenzionalità ed il vuoto esistente nel sistema di comunicazione tradizionale, il Living, attraverso un recu­ pero della psicoanalisi reichiana, di alcune teorie orientali, di miti della coscienza collettiva (Frankenstein), di un teatro 27


ritualistico e viscerale, alimenta una carica utopica che lo rende uno dei fenomeni sociali più tipici dell'America degli anni '60. Ma Bartolucci mette in luce alcuni limiti di questa esperienza già in un suo scritto del '68: è da dirsi con un certo sospetto o comunque riserbo che il valore teatrale delle operazioni di lavoro del Uving Theatre corre il rischio di arrestarsi o meglio di consumarsi proprio nelle soluzioni liberatrici, dal momento che queste ultime corrispondono meno a quanto uno spettatore, soprattutto europeo si atten• derebbe da una forma teatrale di rottura e più forse a esi­ genze tipicamente americane di sollevazione protestataria 6• Proprio di consumazione di una ricerca bisogna parlare quando fallisce il tentativo presente in Paradise now di coin­ volgimento mistico del pubblico per giungere ad una rivolu­ zione non violenta ma totale, attraverso la proposta di quello che Quadri definisce un ethos estetico. Ed è per questa man­ canza di sbocchi nell'attività del Living dopo un determinato periodo che ci siamo limitati ad analizzare solo le esperienze degli anni '60 che rappresentano senza dubbio un contributo valido alla definizione organica ed articolata dell'attuale idea di teatro. Dopo i primi anni di lavoro sul teatro « poetico », attraverso la rivalutazione e la rivitalizzazione di una produ­ zione testuale alquanto varia, con The Brig di K. Brown, che rappresenta l'esplosione del fenomeno Living, si affermano decisamente gli elementi delle loro scelte. Innanzitutto c'è la violenza come movimento drammatico sfrondato dal vecchio illusionismo e da tutti i residui letterari e gli interventi sullo spazio scenico di derivazione pirandelliana. Si arriva così alla distruzione del linguaggio parlato come comunicazione di idee, attraverso la totale frantumazione a livello visivo, di gesto, di suono e di movimento. In The Brig la cifra stilistica unitaria dello spettacolo, che ricuciva tutto il materiale delle azioni, era l'iterazione come espressione dell'universo frustrato degli americani. Fin da questo spettacolo il lavoro sul corpo si presenta come il punto focale dell'attività del Living, il corpo è l'elemento catalizzatore dei vari momenti innovatori della loro opera; il corpo quindi come momento di rottura 28 dell'unità dello spazio scenico. Perciò questo studio non av-


viene come operazione stilistica astratta, ma si riferisce ad un ventaglio di situazioni concrete. Pierre Biner scrive: mentre per Grotowski la macchina corporea è una macchina artico­ latissima con una propensione per il rapido movimento cigliare di una cellula, per il Living la mobilità del corpo si esaurisce spesso in una rigidità metafisica, tantrica, carica di una forza di perversione ibridante tutti gli oggetti che la circondano e questo perché la loro sfera gestuale è satura di altre cadenze e di altri ritmi 7• A volte questo discorso è estremizzato al punto da ridurre la carica significante alla sola presenza fisica degli attori sulla scena, come in Misteries and smaller pieces che è stato definito una lenta marcia verso la morte nella quale il corpo si addestra di volta in volta in urla, gesti e atteggiamenti per raggiungere la completa immobilità 8• Infatti tutto lo spettacolo è proteso verso il finale dove la morte per effetto della peste, in senso artau­ diano, porta ad una rarefazione della scena in cui silenzio, immobilità e presenza corporea dell'attore sono gli unici elementi significanti. L'azione radicalmente innovativa del Living Theatre rim­ balza in breve tempo in Europa, dove un maestro della scena ufficiale degli anni '60, rompe dal suo laboratorio di Londra ogni tradizione e scrive sul bisogno di cambiare il teatro che ogni sera in ogni parte del mondo, coinvolge gli spettatori in un atto sacro. Questo maestro è Peter Brook, direttore del laboratorio Royal Shakespeare Company, da cui vengono fuori Marat-Sade (1964), L'Istruttoria (1965) e Us (1966). Suc­ cessivamente, nel '70, tale laboratorio parte con un gruppo internazionale di ricerche teatrali e si trasferisce in Persia per studiare i riti e la cultura dell'antica Mesopotamia. Del gruppo fa parte il poeta inglese Ted Hughes che inventa un nuovo linguaggio e con esso si fanno due spettacoli. Orghast è il nome del nuovo linguaggio e consiste nella giustapposi­ zione di suoni la cui frequenza, lunghezza d'onda, quantità di decibel producono vibrazioni adatte alle sensazioni che si vogliono evocare. Hughes, inoltre, doveva continuare a distorcere ulteriormente nel corso delle prove, le parole, per man• tenerle aperte, invece di dilatare il glossario derivante da 29


una radice, dal suoni consonantici (t punti fermi) bisognava dare libero sbocco al flusso dei valori tonali delle vocali pre­ senti nelle parole date 9• Brook oggi è ancora oltre, egli è alla ricerca del « miracolo » teatrale. Dal suo fondamentale saggio Il teatro e il suo spazio, veniva chiara la sua estrema insoddisfazione del teatro « normale », di quel teatro oramai discreditato che bisogna sgombrare da personaggi privi di virtù, buoni artigiani, disposizioni non teatrali 10• Brook sente sempre di più il bisogno del rituale; con il memorabile Sogno di una notte d'estate, produce una celebrazione delle sue capacità, ma le sue esigenze restano inappagate. Nel '68 a « Sipario » concedeva una confessione: li teatro, l'attore sono invano alla ricerca di una eco di una tradizione scomparsa, e la critica e li pubblico gli fanno seguito. Abbiamo perso ogni senso del rito e della cerimonia - anche se questo è legato a ricorrenze natalizie, compleanni e funerali - ma le parole rimangono con noi e i vecchi impulsi si agitano ancora nella testa. Sentiamo che dovremmo avere dei riti, che dovremmo fare qualcosa per averli e biasimiamo gli artisti per non saperli trovare per noi 11• Ed infatti, dopo un periodo trascorso in Africa alla ricerca del rito perduto ritorna con uno spettacolo (Les Iks), rappresentato nel marzo '76 a Parigi. Anni '60/'70: lo studio sullo spazio

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La presenza di Luca Ronconi a metà degli anni '60 diventa in tempi brevissimi di peso internazionale. Il fatto che questo regista, che ha cominciato a fare teatro in compagnie ufficiali italiane, una volta diventato « metteur en scène » tende a smerciare i suoi prodotti « anomali » all'estero, dove è accolto sempre con successo, dimostra la sua appartenenza alla cor­ rente di riforma teatrale di cui ci stiamo occupando. Rispetto ai due riformatori della scena mondiale Beck e Grotowski, Ronconi matura il ruolo di artista come intellettuale su una linea diversa da quella dei due protagonisti degli anni 'S0/'60, non più romantico-finalistica ma analitico-polisignifìcante. Infatti, mentre gli spettacoli del Living e del laboratorio di Wroclaw puntavano ad una riforma drammatica basata sulla


improvvisazione empmca e su spettacoli « scritti ,. diretta­ mente dal corpo dell'attore, Ronconi riprende un testo preesi­ stente e ne fa una vivisezione drammaturgica di cui si servirà costantemente nella realizzazione pratica semplicemente scom­ ponendo in vari spazi tale operazione. Ma Ronconi senza l'esperienza di Beck e Grotowski non avrebbe potuto, nelle sue regie, immettere quella tensione utopistica e quella tra­ sformazione spaziale che gli derivano direttamente dalle utopie livinghiane e grotowskiane e dalla violazione del palcoscenico tradizionale attuata dall'happening americano. I due spet­ tacoli-chiave per entrare nei meccanismi delle concezioni teatrali di Ronconi, sono l'Orlando Furioso (1968) e l'Orestea (1972). È soprattutto dall'Orlando che emergono le idee sul teatro espresse da Ronconi: lo spettacolo è un itinerario alla scoperta del meraviglioso 12, una grande festa dell'immagina­ zione, e pur inserendosi nel filone della sperimentazione, si differenzia nettamente da tutte quelle esperienze legate in qualche modo alle teorie autodistruttive delle avanguardie storiche. Il teatro ronconiano ha ben poco a che fare con queste argomentazioni della fuga (dal teatro) e con le mistiche furorali che l'accompagnano; il suo problema non è mai stato quello di dare man forte all'erculeità dell'impresa dell'anti­ teatro 13• La cifra costante nell'opera di Ronconi è la pos­ sibilità di dare un materiale che si organizza soltanto nella fattualità dello spettacolo come un'opera aperta. Questa ricerca è evidentissima nell'Orlando dove Ronconi lavora non tanto sulla distruzione dello spazio teatrale quanto sulla sua per­ mutabilità. Riallacciandosi alle due forme tipiche dello spet­ tacolo medievale, quella inglese con la mobilità dei carrelli che vanno a raggiungere vari settori del pubblico e quella latina in cui gli spettatori si muovono da una posizione all'altra 14, Ronconi, come osserva Milanese, riprende questo discorso sul recupero dello spazio « ingegnoso» del Rinasci­ mento: Lo sviluppo della ratio interna della scena ronconiana sfocia nell'area mentale del Rinascimento e ha nella mac­ china leonardesca il suo punto di riferimento. Lo stesso autore introduce il concetto di «meccanismo» a proposito della scena ronconiana, inteso come una funzione autonoma che 31


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comprende in sé tutto il movimento dello spettacolo: ogni spettacolo ha il suo congegno, la sua architettura, il suo planetario che non possono valere per un altro successivo spettacolo 15 • Milanese vede dunque negli spettacoli di Ron­ coni la rinascita della cerimonia che non può mai essere ripetuta uguale a se stessa : lo spettacolo, essendo una affabu­ lazlone ripetitiva una reduplicazione, un ritorno è la ripro­ duzione speculare di un testo che è stato detto altrove. Nell'Orlando il rapporto tra spettatore e cerimonia è realiz­ zato secondo le regole della retorica che sono anche le regole della peripezia 17• Sanguineti a proposito dell'Orlando afferma che alla fine il testo risulta smontato e rimontato e « questo » Orlando risulta un vero e proprio saggio critico sull'Orlando ariostesco; per cui, ancora, attraverso un lavoro di analisi e di sintesi si mostra e si chiarisce come è fatto il poema, e qual è la sua sistemazione 18 • Si comprende pertanto come Ronconi sia continuamente affascinato dall'idea scenica di un « meccanismo »: far funzionare qualcosa di già dato. Anche Quadri sottolinea questo aspetto quando scrive: ecco quindi il superamento della reinterpretazione e la realizzazione di un Ideale ronconiano, quello di non trovarsi a lavorare su un testo scritto drammaticamente ma su un testo-spettacolo che deve piuttosto essere fatto 19• Con l'Orestea Ronconi estre­ mizza fino alla impraticabilità (lo spettacolo infatti sarà più volte interrotto per cause tecniche) l'idea di meccanismo spaziale. Inventa un contenitore di legno, disegnato da Enrico Job, una sorta di scatola in cui il pubblico è disposto su tre lati su montacarichi mobili che permettono di vedere lo spettacolo da diverse altezze. Milanese legge questo lavoro di regia come una parabola spaziale in movimento che pos­ siede la forma di un vortice che muove su se stesso ... che ha per effetto quello di accentuare l'ambivalenza dei significati, fino a far perdere il loro significato, fino a spingerli al cozzo con le loro contraddizioni, fa convergere il tutto verso una mutazione di valore. ti. questa mutazione di valore che con­ ferisce all'evento teatrale quel senso di estraneità dalla realtà storica che Io fa apparire come una realtà che sta « altrove ». Ed è un •altrove» enigmatico 20. A questo punto Milanese


definisce inattuale l'atteggiamento ronconiano, distaccandosi questo in maniera decisiva dall'illusoria finalizzazione di mes­ saggio mistico o sociale appartenuta al Living e a Grotowski, per limitarsi a regolare la fruizione di un avvenimento per riattivare la curiosità e l'attenzione e non pretendere di imporre modelli relazionali che esorbitino dal chiuso ambito teatrale 21• Nella presentazione dello spettacolo tratto da Eschi­ lo nel catalogo della Biennale di Venezia, Ronconi scriveva: come in tutti i miei precedenti lavori invece di puntare su una visione univoca del testo, preferisco organizzare lo spet­ tacolo sulla compresenza di diverse interpretazioni 22• Ronconi lavora su ipotesi di spettacolo che siano, con rigore critico, opere aperte ad una pluralità di fruizione. Egli riceve e sviluppa l'idea di spazio scenico totale, dall'esperienza ame­ ricana dell'Happening, che nacque dalla volontà precisa di coinvolgere lo spettatore e renderlo partecipe dell'accadimento. L'Happening ha realizzato in maniera radicale il crollo scena-pubblico tanto invocato dall'avanguardia storica. Dal dramma wagneriano e dalla filosofia hegeliana la modernità eredita l'idea dell'u opera d'arte totale». Idea di matrice romantica e idealista che presuppone una congiunzione delle arti in un prodotto unico organizzato completamente intorno alla figura di un creatore o artista-demiurgo. Ora questa idea tipicamente europea si trapianta dagli anni '50 in America e sopravvive fino ad oggi, ma viene progressivamente svuotata dalle sue valenze trascendenti per diventare quanto di più mondano, immanente e contingente esista oggi nel panorama delle arti. Il cosiddetto Happening, che comincia verso la fine degli anni '50 nei garage newyorkesi per iniziativa di artisti come Kaprov, Oldenburg, George Brecht, Rauschenberg, poi diventati protagonisti dell'arte contemporanea, si basa sull'uso dei mezzi artistici più svariati presi però non nel loro armonizzarsi come nell'opera d'arte totale, bensì nel loro disarmonizzarsi e darsi come mezzi semplici di stimolo estetico-percettivo in rapporto soprattutto alla relazione di spazio-temporalità. Scrive Richard Kostelanetz: nel vecchio teatro finanche nei balletti di Diaghilev gli elementi erano complementari, la musica accompagnava chiaramente il can- 33


tante-ballerino, il ritmo dell'uno coincideva con quello del­ l'altro; nel nuovo teatro le varie componenti generalmente funzionano senza sincronia indipendentemente l'una dal­ l'altra, e cosl come sono discontinue le linee seguite dalle varie attività cosl i ritmi di un particolare brano sono nor­ malmente irregolari 23• Un equivoco frequente quando si parla di Happening è quello cli credere che ci sia in questi eventi una_ successione alogica, casuale e soprattutto improvvisata, di azioni. Bisogna dire, invece, che questi eventi vennero realizzati con una intenzionalità specifica, quella di indagare sulle relazioni comportamentistiche dell'individuo con lo spazio e con il tempo, per cui le azioni sono inserite in una griglia strutturale preordinata, su un preesistente canovaccio da usare al momento. Questo si può capire da un dialogo tra Michael Kjrbj, il teorico americano degli Happenings e John -Cage, il noto musicista che ha introdotto nella musica eventi ed azioni quasi teatrali o legate a quella che oggi si definisce arte di comportamento: C.: ho l'impressione che la presenza dell'intenzione dentro una continuità alogica sia qualche cosa che non mi interessa, per questo motivo: il termine alogico non vuol dire forse che può accadere qualsiasi cosa? K.: pen­ savo che non dovesse esserci alcuna relazione intellettuale: non era quindi né logico né illogico... C.: è assai difficile da dimostrare. L'Happening, in ultima istanza, si dà come strut­ tura che metaforizza il quotidiano, in altri termini, simbolizza le azioni in maniera polisignificante e perciò usa una poli­ valenza di mezzi espressivi.

Anni '60/'70: lo studio sull'immagine Forse il cosiddetto teatro visivo americano, i cui rap­ presentanti più notevoli sono Robert Wilson, Richard Fore­ man, Meredith Monk, nonostante la sua profonda diversità dalle esperienze comunitario-utopiche degli anni '60 e i suoi cospicui elementi di novità, non nasce, come si è più volte pensato, dalle ricerche solitarie ed edonistiche di immagina­ zioni individuali. Cominciamo dagli elementi di novità; un 34 aspetto notevole da prendere in considerazione è la sua


antinarratlvità che non si limita alla recitazione, ma va fino alla struttura dello spettacolo, eliminando quasi completa­ mente i nessi logici sostituendoli con nessi estatici o, appunto, visuali 25• In effetti, nella esperienza più strettamente teatrale, quella di Wilson, il lavoro punta tutto sull'immagine, spazia­ lizzata e messa in movimento in maniera deformata al limite del metafisico. Altro elemento di novità è la resa strutturale che si dà allo spettacolo partendo da un frazionamento tem­ porale dell'azione del corpo, del movimento, dell'oggetto; il visivo si organizza in una profondità di campo in funzione dell'azione temporale simultanea, il gesto viene più volte interrotto, distorto, ripetuto, fino a perdere il significato temporale e ad assumere un senso rarefatto, eterno, rituale. Il movimento, inoltre, si dà quasi sempre come rallentato per mettere in evidenza il dato ipnotico dell'immagine che richiede allo spettatore non più una partecipazione improv­ visa e coinvolgente (Living), ma una facoltà contemplativa che deformi la sua normale percezione un po' come in sogno. È sui meccanismi della percettività e della comunicazione subliminale che infatti punta, in positivo, questo teatro che sollecita lo spettatore cercando di agire sulla sua capacità di percezione modificando in tal modo la sua tradizionale attitudine teatrale 26• Ma altre caratteristiche collegano questo teatro alle esperienze che lo hanno preceduto. Per esempio sopravvive il lavoro d'équipe. Wilson non gioca sulla sua immaginazione, è ben lontano dal farlo, ma su una sorta di inconscio collettivo. Wilson, partendo da una comunità di persone, non necessariamente teatranti (ci sono handicappati, bambini, vecchi, artisti, psicologi, animatori) giunge fino al serbatoio, mitico, profondo, di tutta un'area culturale ben precisa: l'America etnica vista dagli intellettuali e dai « diversi » in rapporto alla tradizione europea che l'ha gene­ rata. Il nostro lavoro, dicono all'équipe Wilson, non è solo teatrale, ma è una sintesi delle personalità, della vita, delle forme di lavoro che maturano dal nostro vivere e lavorare insieme. Ognuno di noi sta cercando di crescere e noi impa­ riamo l'uno dall'altro... Raymond, li sedicenne sordomuto, è riuscito a sviluppare un puro suono partendo dalla sua per- 35


sonale ricerca all'interno delle vibrazioni sonore. Molti di noi appresero il llnguaggio gestuale per poter parlare con Raymond, e impararono molte cose sulla comunicazione non verbale. � una comunità che sta esplorando i mezzi intuitivi di comunicazione e interpretazione"· Come si vede, anche se con la maschera delle scienze umane il comunitarismo ritorna. Un'altra caratteristica del nuovo teatro visivo ameri­ cano è l'accento concettuale dato all'evento teatrale. Prose­ guendo il discorso dei segni minimi teatrali, che era già nel teatro «povero» grotowskiano, il teatro visivo radicalizza l'aspetto minimale dello spettacolo. A proposito di Richard Foreman è stato scritto: l'influenza, dichiarata dallo stesso regista, di strutturalisti come Barthes e di Wittgenstein si riflette nel suo interesse per il funzionamento della sua imma­ ginazione e la struttura del suo pensiero che egli si sforza fedelmente di tradurre nella creazione scenica attraverso uno studio attento anche della percezione dello spettatore 28• Siamo, come si vede, alle soglie di un nuovo studio sulla psiche, e dobbiamo dire che oggi il teatro si pone, una volta analizzate le sue strutture, alla stessa stregua di tutti quei mezzi, anche nuovissinù, elettronici, come il video-tape, atti a stimolare la percezione secondo l'uso che ne fanno i nuovi « artisti », da considerarsi soprattutto come manipolatori di immagini, massaggiatori della percezione, operatori estetici. � presente in questo tipo di teatro, serpeggiante, tutta l'an­ goscia del vivere americano, e, per una strana forma di esorcismo, il regista di teatro visivo mette in scena la nevrosi, l'isteria, la catatonia, la paranoia, in una sintesi allucinatoria che sta tra il sogno e il manicomio psichiatrico. Tutto il meccanismo, scrive Bartolucci, del movimento a questo punto si fa portatore di una ossessione, di una ripetizione didat­ ticamente esposta per ottenere una anomalia permanente ed una contraddizione d'uso. L'anomalia si riferisce al bisogno di imprigionare il banale, la contraddizione alla necessità di regolare l'immaginazione 29• Altra caratteristica del teatro visivo americano è l'uso del movimento; l'attenzione si sposta dalle possibilità espressive pregnanti della corporalità, al dato 36 mentale rarefatto della mobilità; un movimento lentissimo,


come in sogno oppure velocissimo come in wi film muto, a larghe falcate e scatti come gli impeti improvvisi della schizofrenia. Meredith Monk, che viene dalla danza, introduce accanto al dato del movimento anche quello della vocalità portando il suo teatro visivo vicino agli esperimenti di quei performers che in Europa e in America sono, attraverso il gruppo Fluxus, gli epigoni degli animatori di Happenings, quando non sono, come Allan Kaprov e George Brecht, le stesse persone che si adattano alle nuove tendenze. La Monk realizza sì spettacoli pregevolmente finiti, ma alla stessa stregua presenta spettacoli altrettanto belli basati su sole due persone e della durata di una mezz'ora. Quando l'espe­ rienza di questo teatro americano di immagine giunge attra­ verso l'attenzione opportunamente didattica di Bartolucci in Italia, era il momento di riempire un vuoto che possedeva tutto il teatro e chi in esso navigava dovunque facesse riferi­ mento. Lo spettacolo Deafman's Ciance (Lo sguardo del sordo) arriva in Italia nei primi anni del '70, e dà una lezione da cui tutti compresero la fondata sicurezza di chi la impartiva: Robert Wilson. Questo spettacolo durava oltre quattr'ore e non era che il desiderio di riempire un vuoto esistenziale e culturale, i due termini hanno sempre più medesime indi­ viduazioni, facendo affiorare segnali che provengono dal pro­ fondo, ove i ragazzi di Wilson, ragazzi disadattati, collaborano nelle idee, applicando loro immagini necessarie. E Wilson non fa il pittore, non tenta di presentare dei quadri viventi, ma una sorta di cinematografo animato, cioè un creare un traumatico rapporto con le cose, un rapporto necessario, come è risultata necessaria l'immagine e non la parola. � dall'immagine che i gruppi sperimentali romani ripar­ tono alla scoperta di un nuovo teatro; un ripartire evidente­ mente non più riducibile ad oscillazioni tecnico-formali, a querelles tra il piano drammaturgico e quello scenico, tra i diritti della parola e quelli del gesto 30• Ma quasi dogma più che opinione è che in principio uno degli iniziatori della scuola romana teatro immagine sia stato Carmelo Bene. A proposito di Bene, Bartolucci rileva: la gran volontà del­ l'autore di affondare nel negativo e di proiettarsi nel costrut- 37


tivo proprio per una natura utopica del suo modo di lavorare e di sentire, di agire e di pensare. Naturalmente il costruttivo per lui vuol dire affondare surrealmente in se stesso; con una traiettoria continuamente al limite dell'immaginarlo ora • nero •, ora • bianco • dove letture nietzschiane e strlndber­ ghiane sulla linea Bataille si alleano a visioni mediterranee. E si giunge alla vislonarietà di Carmelo Bene, dentro la sua produzione-azione cinematografica 31• Scrive Maurizio Grande: nella sua produzione filmica Carmelo Bene tiene ovviamente presente l'esperienza del teatro materialmente inteso come esecuzione di un progetto 32• In Bene il fatto, il detto, in ogni dimensione, conducono inesorabilmente alla crisi della regola del racconto. Ma quale racconto? Carmelo Bene va inteso anche in questa accezione specifica cli coscienza, di linguaggio e revisione di esso e dei suoi condizionamenti. Un complesso di regole, dunque, quelle del linguaggio (genericamente usato e vissuto come tale almeno) che non fanno che ripetere e ripercorrere le regole dell'organizzazione sociale, dell'autori­ tarismo e del dogmatismo, che incidono violentemente pro­ prio su ciò che è proibito dire. Questo nuovo teatro comincia in un certo senso colla romantica impossibilità di fare. L'acquisto da parte della scuola di Roma di Carmelo Bene, e poi del Gruppo Teatro cli Marigliano che ne è una filiazione diretta, è acquisto della mediterraneità e del barocco come uscita cli scena, come coloro che fanno teatro anche se al teatro hanno rinunciato: è in questo « la loro bellezza ». Al centro cli queste sponde barocche, sta tutto il flusso di coloro che sono il teatro-immagine: Perlini, Ricci, Nanni, Il Carozzone, Vasilicò, che mediano lo stile attenti prima cli tutto a cavarsi la parola, la lingua per porre orecchio a quello che accade sulla scena americana o alla mostra che si tra­ sforma in messa in scena, alla preparazione di un rito. Ciò che in questo nuovo teatro ci attende non saranno le nozioni di senso, significato, valore, ma quelle, piuttosto, di sospen­ sione, rischio, scommessa, scacco, gioco, seduzione, morte. Ciò che verso questo centro cl conduce non potrà essere altro che una messa a morte del senso 33, o più precisamente 38 una sorta di cerimonia cli cancellazione che non progredisce,


che ritorna su se stessa. L'immagine che si costituisce al termine del procedimento di analisi presenta una sorta di trasparenza, mostra in filigrana il procedimento da cui deriva e gli elementi che la compongono. L'operazione artistica tende a diventare critica del prodotto, chiedendo allo spettatore di rivedere il ruolo di distratto commensale del banchetto estetico. Esperienza artistica ed esperienza teatrale trovano un primo punto d'incontro: la messa in scena si presenta anch'essa come critica del prodotto e tende a porsi come riflessione sul modo di procedere 34• La scuola di Roma designa significati e valori che un processo ancora in atto va analiz­ zando, trovando un senso solo nell'immaginario. Il Perlini di Locus solus dal romanzo di Roussel ha ancora in sé il neces­ sario rifiuto verso l'oggetto, verso la materia, dopo averne illuminata l'essenzialità. Per Memè Perlini l'azione teatrale diventa cerimoniale nero dove si esercita la violenza e l'ag­ gressività, ma dove violenza e aggressività sono strumenti di conoscenza e liberazione 15• Perlini ritaglia nel buio i segmenti significanti 36• Sempre con Perlini va identificato questo momento di messa in luce spietata del procedimento immaginario. Come osserva Bartolucci, parlando di Perlini, ma a chiarimento dell'intera tendenza, il lavoro di gruppo, mitizzato negli anni '60, accanto al lavoro di improvvisazione, dapprima per provocazione corporea e poi per provocazione visiva, non sa più dare spettacolo di sé, né sa più farsi rap­ presentazione, per gli altri; adesso questo lavoro di gruppo è indirizzato positivamente, per ambiguità, all'analisi del proprio modo di lavorare artisticamente ed alla ricerca di miti che riempiono certi modi di vivere sbagliati. D'altronde sol­ tanto agendo in questo modo, soltanto accettando la contrad­ dizione tra la corsa all'autentico e li bisogno della retorica, questa scuola di Roma può sopravvivere alle sue ripetizioni ed impedirsi di svuotarsi n.

Laboratorio tout-court Anche se abbiamo già parlato del ruolo di Grotowski come protagonista di quel primo ciclo di teatro sperimentale


che fa capo, appunto, al laboratorio di Wroclaw e al Living Theatre, non si può non accennare alla attuale posizione che il lavoro di Grotowski e dei suoi collaboratori ha raggiunto nel panorama dell'odierno teatro sperimentale, molto più vasto e articolato che negli anni '50/'60. E. noto, infatti, che dopo l'ultimo spettacolo, Apocalipsis cum figuris, Grotowski si è avviato verso un nuovo tipo di ricerca che non si basa più sulla « messa in scena » partendo dal presupposto che fare teatro è una cosa, produrre spettacoli un'altra 38• Questo nuovo tipo di ricerca si basa sui cosiddetti « stages », avvenuti nel '75 in Italia sotto gli auspici della Biennale di Venezia, in cui Grotowski e i suoi collaboratori danno vita a una serie di cripto-esperienze con i partecipanti 39 • Poco si sa di queste cripto-esperienze in quanto tra coloro che vi hanno preso parte si è stabilito un accordo sulla non divulgazione di alcuni esercizi. :e. certo comunque, come lo stesso teatrante polacco ha poi dichiarato in un incontro al Teatro Ateneo a Roma, che questi « stages » poco hanno a che fare con gli esercizi sul corpo di un tempo. Si tratta comunque di esercitazioni esoteriche che intendono aiutare coloro che lo vogliono a uscire dalla quotidianità per trovare una diversa e spirituale dimensione 40• Continuando il parallelo col Living fatto a proposito dell'attività del laboratorio di Wroclaw negli anni '50/'60 si potrebbe dire che in entrambi i gruppi il motivo del rapporto tra teatro e vita ha provocato gli sviluppi decisivi. Nel Living è prevalsa la soluzione favorevole all'esteriorizza­ zione, mentre nei polacchi è prevalsa quella tesa all'interioriz­ zazione. Il gruppo di Beck e Malina infatti, dopo un lungo periodo di crisi, si è lanciato con entusiasmo verso l'intervento nel vivo del tessuto urbano ( contribuendo al grande momento dell'animazione) puntando ad un sempre più stretto collega­ mento colle lotte politiche e sociali. Il gruppo di Grotowski ha invece realizzato un'operazione in senso opposto, cercando di « catturare » il pubblico in un rapporto che prende, a ben guardare, i connotati della comune « mistica ». In ambedue i gruppi c'è inoltre una rinuncia allo spettacolo. Nel Living è però evidente anche uno scarto rispetto alla valenza estetica; 40 collegandosi sempre più strettamente alle lotte politiche esso


costringe la metafora ad un didascalismo adatto alla sem­ plicità del suo intervento sul sociale. Nel gruppo di Wroclaw è evidente e proclamato il ripudio dello spettacolo, ma attra­ verso un lavoro di laboratorio tout court riguadagna l'esteticità diffusa liberata dalle remore del prodotto-spettacolo. Fonda­ mentale e chiarificatrice è una frase dello stesso Grotowski (pronunciata nell'incontro a Roma): Progetto speciale (è il nome dell'intera serie di stages attuata dai polacchi per la Biennale) è nato da un periodo di crisi, iniziata quando ci accorgemmo che per tutti noi il momento fondamentale del nostro lavoro non era la messa in scena ma le prove 41• Se si ricorda « l'ambiguità costante» avvertita da Bartolucci a pro­ posito del laboratorio polacco, combattuto tra i valori etico­ analitici e quelli estetici, si capisce come questo Progetto speciale non sia altro che la naturale soluzione di questa ambiguità.

1 R. BARILLI, Tra presenza e assenza, Bompiani, Milano 1974, p. 84. 2 G. BARTOLUCCI, L'ambiguità costante di Grotowski, in « Sipario », n. 255, luglio 1967. 3 J. GROTOWSKI, La profana'i.ione dei miti, in «Sipario•, n. 264, aprile 1968. 4 M. RAIMONDO, Un mese con Grotowski, in «Sipario », n. cit. s W. MONACO, Grotowski o della negazione, Samonà e Savelli, Roma 1972, p. 75. 6 G. BARTOLUCCI, La scrittura scenica, Lerici, Milano 1968, p. 104. 7 P. BINNER, /I Living Theatre, De Donato, Bari 1968, p. V. 8 G. BARTOLUCCI, La scrittura scenica, cit., p. 100. 9 D. HuGHES, Teatro come invenzione, Feltrinelli, Milano 1969, p. 41. IO P. BROOK, /I teatro e il suo spazio, Feltrinelli, Milano 1968, p. 57. 11 Intervista a P. Brook in «Sipario», n. 266, giugno 1968. 12 F. QUADRI, Questo Orlando è una festa del teatro, in «Sipario"• n. 268, agosto 1968. 13 C. MILANESE, Luca Ronconi e la realtà del teatro, Feltrinelli, Milano 1973, p. 70. 14 E. CAPRIOLO, E adesso piazza chiama teatro, in «Sipario», n. 281, settembre 1969. 15 C. MILANESE, Op. cit., p. 68. 16 C. MILANESE, Op. cit., p. 54. 17 C. MIUNESE, Op. cit., p. 55. 18 E. SANGUINETI, cit. in F. QUADRI, Il rito perduto, Einaudi, Torino 1973, pp. 87-8. 19 F. QUADRI, Il rito perduto, cit., p. 86. 20 C. MILANESE, Op. cit., p. 77. 21 F. QUAllRI, Il rito perduto, cit., p. 92. . 41 22 L. RONCONI, cit. in c. MI!ANESE, Op. czt., p. 94.


23 R. KosTBLANETZ, Il teatro dei metti misti, in « Sipario•, n. 272, dicembre 1968. 24 Intervista a A. Kaprov e J. Cage in «Sipario•, n. m, maggio 1969. 25 E. G. , cit. in G. BARTOLUCCI, Tre più uno manifesto 1974 di una sana malattia mortale, in e Proposta•, n. 12/13, giugno 1974. 26 E. G., cit. in G. BARTOLUCCI, Tre più uno manifesto 1974 di una sana malattia mortale, cit. Z7 B. Wll.SON, in G. BARTOLUCCI, Tre piiì UIIO manifesto 1974 di una sana malattia mortale, cit. 2B E. G., cit. in G. BARTOLUCCI, Tre più uno manifesto 1974 di una sana malattia mortale, cit. 29 G. B.'\RTOLUCCI, Tre più uno manifesto 1974 di una sana malattia mortale, cit. 30 G. PuPPA, Attorno a Mario Ricci, in AA. W., Uso, modalità e contraddizioni dello spettacolo immagine, Altro, Roma 1975. 31 G. BARTOLUCCI, Carmelo Bene, in « La scrittura scenica», n. 3, 1973. 32 M. GRANDE, Carmelo Bene, in « B/N•• n. 11/12, 1973. 33 F. TREBBI, Immaginario e trasgressione, in AA. VV., Uso, modalità e contraddizioni dello spettacolo immagine, cit. 34 G. BARTOLUCCI, La politica del nuovo, Ellegi, Roma 1973, p. 46.

35 F. MENNA, Memè Perlini, in Uso, modalità e contraddizioni dello spettacolo immagine, cit. 36 R. Mm.I!, Il cinema selvaggio di Perlini, in AA. VV., Uso, modalità e contraddizioni dello spettacolo immagine, cit. n G. BARTOLUCCI, Presentazione nel catalogo di Locus Solus. 38 C. GARBOU, Grotowski, ultima spiaggia, in « Il Mondo», n. 40. 39 Intervista a Grotowski, in « Sipario», n. 356, dicembre 1975. 40 Ibidem. 41 J. GRorowsKI, Atti del convegno Scienti-{ic Section, teatro Ateneo,

Roma 1975.

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Una riproposta del "multiplo" ANTONELLA FUSCO

In una recente manifestazione, svoltasi nel quadro della politica di decentramento culturale, è stato riproposto il tema delle opere d'arte moltiplicate, o del «multiplo» 1• Questo viene definito come l'oggetto artistico in originale non unico, ma appunto moltiplicato, con tecnica artigiana o industriale, in originali molteplici 2. La definizione è volutamente generica in ordine alle com­ ponenti strutturali, al genere estetico ed alle tecniche, in quanto la mostra comprendeva sia serigrafie e oggetti grafici che multipli propriamente detti, nell'accezione originaria del termine. Dovremmo invece definire più precisamente il mul­ tiplo come oggetto d'arte di struttura materiale e caratteri­ stiche stilistiche diverse da quelle, puramente disegnative o pittoriche, della grafica; oggetto riprodotto in molteplici esemplari, per permetterne una diffusione commerciale più vasta. Nascita del multiplo L'uso delle tecniche riproduttive dell'oggetto d'arte ha il più diretto precedente nell'area di quelle ricerche che vanno dal neoconcretismo all'arte cinetica, dalle opere realizzate in gruppo all'arte programmata 3• L'aspetto di tali ricerche che più direttamente ci interessa in questa sede, è l'uso della macchina, per quanto riguarda la possibilità di riproduzione seriale dell'oggetto. Vasarely, uno dei maggiori operatori d'arte ottica in Francia, così annotava, nel '55: Si l'Art voulait etre hier sentir et faire, il 43


peut etre auJourd'hul concevolr et falre faire. Si la conserva­ tion de l'reuvre résidait, hler encore, dans l'excellence des matériaux, la perfection de leur technique et dans la maitrise de la main, elle se retrouve auJourd'hul dans la conscience d'une possibilité de recréation, de multiplication, et d'expan• slon. Alnsl dlsparaitra avec l'artisanat le mythe de la pièce unique et triomphera enfin l'reuvre diffusable, grace à la machine, et par elle. Ne craignons pas les nouveaux outils dont les technlques nous ont dotés. Nous ne pouvons vlvre authentiquement que dans notre temps. Il faut pouvoir dif­ fuser largement pour répondre à l'immense appel qui nous parvient du monde 4• Le motivazioni che sostenevano le suddette esperienze non si limitavano, come più recentemente è accaduto, ad una autoriflessione sul linguaggio, ma cercavano agganci e giusti­ ficazioni, purtroppo talvolta illusorie, nella realtà sociale. Emblematico di questo clima è ciò che Fortini scriveva a proposito del design. Il compito di una politica di liberazione socialista può essere rivolto, oggi, solo alla utilizzazione fun­ zionale dell'arte figurativa; ossia a promuovere la produzione di beni economici umanizzati, capaci di alludere sempre più precisamente, e quindi implicitamente guidare, ad una con­ dizione umana liberata dalla mistificazione e dallo sfrutta• mento, in una pianificazione di bonifica figurativa 5• Nell'ambito della sperimentazione sulle opere program­ mate, il gruppo italiano T 6, detto dei Miriorama, si orienta decisamente verso l'identificazione fra Arte programmata e industriai design. Essi progettano infatti degli oggetti seriabili la cui riproducibilità in esemplari più o meno numerosi permetterebbe una diffusione ben diversa da quella che si ha con le consuete ' riproduzioni ' ( più o meno false e infedeli) delle consuete opere d'arte, ma s'accosta a quella dell'oggetto industriale, ogni esemplare del quale è identico al suo compagno 7. D'altra parte, la coincidenza fra design ed opera d'arte si era già, isolatamente, presentata nella progettazione, da parte di Bruno Munari, di « sculture da viaggio», prodotte 44 in molte copie uguali. Naturalmente non sono, come le stampe


d'arte, una copia economica di un capolavoro che costa un miliardo (di dollari), non esiste il pezzo unico. Le mille copie di questa scultura sono tutte uguali ... tutte allo stesso prezzo... Con l'uso delle opere moltiplicate cade la rarità del pezzo unico per il ricco che può pagare a. A questo punto il multiplo, come oggetto d'arte molti­ plicabile con tecniche riproduttive, e progettato dal designer come un qualsiasi prodotto industriale, è nato. L'ideologia del multiplo Ma l'utopia del multiplo, la cui validità poteva risiedere, come si è visto, più che nel valore estetico dell'oggetto, nella possibilità di riprodurlo infinite volte, scardinando il valore commerciale dell'originale unico, e dando al pubblico (la cui composizione sociale non venne mai meglio chiarita), la pos­ sibilità di fruire di sollecitazioni estetiche prima riservate ad una schiera di eletti, risentì di alcuni limiti, che la tradus­ sero quasi in una ideologia. In primo luogo, non si analizzarono a fondo le possibilità reali di diffusione a basso costo di questi oggetti, e, seconda­ riamente, non si discriminò massificazione da democratizza­ zione. L'errore di fondo consistette, sostanzialmente, nel socio­ logismo acritico dei sostenitori della moltiplicazione, che prestarono tranquillamente il fianco ad una facile operazione di assorbimento, da parte dell'industria culturale, di una metodologia operativa partita da premesse sostanzialmente positive. Resta quindi valida l'osservazione di Crispolti: Come si vede ogni principio di critica è cessato: l'individuo si arrende alla collettività comunitaria senza averne neppure prima indagato la misura. La collettività industriale è il nuovo nirvana, in cui l'artista s'abbandona, per partecipare e godere, sia pure con il contributo della sua partecipazione attivistica al bene comune. Ma la società attuale, e specialmente nel mondo capitalistico, è veramente cosi semplicisticamente omogenea, e soprattutto è cosi immediatamente accettabile? Nella certezza di tale agnosticistico abbandono un quesito di tanta Importanza è lasciato cadere 9• 45


In realtà alcuni gruppi abbozzarono un'ipotesi di con­ trollo sulla vendita delle opere, rivolgendosi ai musei e agli enti locali più che alle gallerie. Ma tale tentativo rimase marginale e senza seguito, per la scarsa rispondenza trovata nelle istituzioni pubbliche. Il multiplo e il mercato d'arte L'insufficiente controllo degli artisti sulla loro produzione porta all'uso indiscriminato della riproduzione da parte del mercato d'arte. L'operazione mercantile si realizzò in tre tappe fonda­ mentali, con l'obiettivo finale di affiancare il multiplo alla grafica, producendo su vasta scala oggetti di scarso costo produttivo, da vendere a prezzi relativamente alti, nonostante non siano dei pezzi unici. Si tratta, in effetti, di svuotare, passo dopo passo, il multiplo dalla sua pregnanza estetica, e farne un qualsiasi oggetto di consumo. La prima tappa è effettuata disgregando i gruppi di ricerca. Il mercato infatti non s'interessa al gruppo, ma ai singoli artisti che ne fanno parte; il suo approccio avviene in una direzione individuale 10• Questo avvenne intorno al '64, quando la gestione cooperativa dei gruppi aveva già dato segni di fallimento. Come asserisce A. Biasi, del gruppo N : Il rapporto che alcuni mercanti d'arte hanno tentato con gli artisti del gruppo è stato di natura individuale e non collettiva. Per esempio c'è stato l'intervento della Denise Renée, di un mercante americano, di qualche gallerista italiano come Gaspero Del Corso. Questi approcci furono sempre con l'uno o l'altro degli artisti 11• Compiuto questo primo passo, si passò a svincolare il multiplo da una precisa tendenza estetica. In altre parole, si applicò la moltiplicazione dell'opera ad oggetti di qualsiasi tipo, non più ad opere cinetiche o visuali, o programmate, permettendo cosl un'applicazione vastissima del criterio della riproduzione. Per la verità, tale processo di scissione era già stato avviato da certa critica, che riconosceva scarsa pregnanza all'Arte programmata, mentre auspicava, per oggetti destinati 46 a vastissima diffusione, un più intenso valore semantico. In


tale direzione, ad esempio, era orientato Crispolti, quando sottolineava che il problema resta non tanto quello della diffusione sociale dell'opera d'arte stessa, bensl quello del reale e richiesto apporto semantico di una manifestazione artistica destinata, in innumeri esemplari, alla comunità... D'altra parte, non c'è affatto una connessione di necessità fra riproduzione ad infiniti esemplari dell'opera d'arte e pit­ tura a repertorio concreto, o Arte programmata 12• In terza istanza, si passò dall'idea della riproduzione con mezzi industriali a quelli artigianali, più accessibili per la struttura e l'articolazione, sostanzialmente sottosviluppata, del mercato d'arte italiano, che non si giova né di mezzi di produ­ zione e distribuzione sufficientemente evoluti, né di un ade­ guato consumo medio. L'obiettivo centrale dell'operazione consisteva nell'affiancare il multiplo alla grafica, costituendo delle « centrali d'arte moltiplicata ». Per raggiungerlo, biso­ gnava che la riproduzione fosse ottenuta artigianalmente, in un limitato numero di copie, riprivilegiando i pezzi (dal pezzo unico ai pochi), attraverso la loro numerazione; identica­ mente, insomma, a quanto avviene da secoli per la grafica. Furono così costituiti piccoli laboratori, o si diede in appalto la riproduzione a terzi, sempre sotto l'egida di un mercante e della sua galleria. Va notato che l'assimilazione del multiplo alla grafica risultò conveniente per il mercato anche sotto un altro profilo. Dal punto di vista commerciale, la grafica era già da tempo sufficientemente tutelata. Nel 1960, ad esempio, al 3° convegno delle Arti Plastiche di Vienna, furono emanate precise disposizioni sulla riproduzione di opere grafiche; esse stabilirono che è di esclusivo diritto dell'artista incisore fissare il numero delle copie da stampare di ogni opera grafica ese­ guita nelle diverse tecniche; ogni stampa, per essere con­ siderata autentica, deve portare non soltanto la firma del­ l'artista, ma anche l'indicazione del numero di tiratura e del numero progressivo di stampa. L'artista, qualora lo desideri, può annotare se egli stesso ba proceduto alla tiratura del­ l'opera. Inoltre, a tiratura ultimata, la matrice (pietra, metallo, legno ecc.) viene biffata o cancellata, oppure segnata affinché sia evidente l'avvenuta tiratura e la sua inutllizzazione. 47


Le nonne sopra enunciate si applicano solo alle opere originali, cioè a quelle opere derivata da una matrice diret­ tamente incisa dall'artista. Le opere che non soddisfano a queste condizioni devono essere considerate « riproduzioni» 13• Inoltre, la convenzione cli Vienna si occupava cli altri particolari non irrilevanti: ad esempio, sanciva che le opere a tiratura superiore ai 127 pezzi non dovevano considerarsi opere grafiche, ma stampe. Evidentemente si procedeva in tal modo alla elitarizza­ zione dell'oggetto d'arte moltiplicata, soprattutto per le gal­ lerie meglio organizzate, disposte a seguire tale regolamenta­ zione per premunirsi contro le contraffazioni. Costituendo dei « centri d'arte moltiplicata », si estendeva l'« affare» anche ai multipli, e, in generale, a tutti gli oggetti d'arte riproducibili. Negli anni che vanno dal '67 circa, quando l'operazione può dirsi compiuta, a tutt'oggi, decine e decine di gallerie d'arte moltiplicata sono sorte nei maggiori centri italiani, ed in particolar modo a Milano. Ecco, ad esempio, come si pre­ senta una galleria d'arte moltiplicata, nella pagina pubblici­ taria su una rivista specializzata: Centro d'arte moltiplicata­ Two dimensionai and three dimensionai multiples-graphics­ records-books as artwork-videotapes-films as artwork-library text books and catalogues-directory of all art publishers in the world 14•

Crisi commerciale del multiplo

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Di questa rinuncia ( al carattere di mezzo di un nuovo rapporto artista-fruitore) che è chiaramente ideologica, ha subito immediatamente le conseguenze la natura qualitativa del multiplo stesso: cioè il multiplo ha assunto sempre più correntemente un carattere di opera di impegno creativo occasionale e marginale, e il più delle volte di desunzione e succedaneo dell'opera maggiore, unica originale 15• Il pro­ gressivo scadimento del prodotto portò ad una evidente crisi estetica e ad una caduta commerciale del multiplo. Da più parti tale crisi fu attribuita al decadimento della validità


della moltiplicazione, e alla rivalutazione dell'unicum. Dorfles, ad esempio, affermava: Abbiamo attraversato un periodo in cui si è decretata la morte dell'artigianato ed il trionfo del­ l'oggetto fatto in serie mediante mezzi meccanici. Oggi ve­ diamo che questo trionfo è già al suo declino, siamo già alla crisi di quest'oggetto. 1::. la stessa crisi che si sta verificando nell'architettura, nell'opera d'arte moltiplicata. Certamente ci sarà una reazione a questa crisi e, probabilmente, questa reazione porterà ad un ritorno alla produzione autonoma, diciamo, del singolo individuo... Noi assistiamo già al declino del multiplo. Il multiplo, che avrebbe dovuto diffondere la conoscenza e anche la proprietà dell'opera d'arte, si è dimo­ strato un mezzo insufficiente, proprio per la sua molteplicità e, cioè, per il fatto di escludere la proprietà di un unicum 16• Negli ultimi anni, ridottasi dopo la crisi del '72 anche la sua « presa » ideologica, il multiplo ha continuato a svolgere una funzione puramente commerciale, analoga a quella della grafica, senza alcuna innovazione. L' attuale ripresa dell'ideologia del multiplo Tanto più inaspettata e sorprendente giunge la riproposta del multiplo come veicolo di diffusione democratica dell'og­ getto d'arte, riproposta che ci ha offerto l'occasione per questo breve riepilogo della storia della moltiplicazione. Va premesso che il senso di quest'operazione sfuggirebbe se non si tenesse presente la mutata geografia politico-cul­ turale italiana, che ha visto, dopo le elezioni del '75, un massiccio apporto degli intellettuali al tentativo di rinnova­ mento e riforma delle strutture sociali. Tale tentativo viene compiuto con il preciso scopo di fornire alle classi subalterne i più validi strumenti culturali. L'intervento intellettuale e artistico nella crescita democratica del paese avviene quindi a livello operativo, di organizzazione delle nuove strutture, in vista del cambiamento di gestione del sistema. La riproposta del multiplo ha quindi un senso preciso se collocata nell'am bito del discorso di decentramento cui· turale che è ormai prioritario per le iniziative culturali della 49


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sinistra italiana. Si tratta di un'iniziativa della Casa del popolo di Ponticelli (NA), il cui gruppo arti visive, coadiuvato da E. Crispolti, propone una ipotesi di multiplo illimitato. Gli aspetti qualificanti, il senso di questa proposta consistono nell'arrivare ad un patrimonio di prodotti per una sorta di bancarella dell'arte in Festival dell'Unità, locale o altrove ... cosi come cl sono in quei Festival bancarelle editoriali - con volwni di vendite, cioè di divulgazione, impensabili di fronte alla cronica crisi del circuito librario tradizionale -, o ban­ carelle d'artigianato locale, o gastronomia tipica locale, ecc. Chiaramente si ricerca al prodotto artistico una commit­ tenza alternativa, e più radicalmente e con specificità d'indi­ rizzo rispetto alla vaga socialità iniziale - e poi appunto di fatto contraddetta - dell'intenzione dei multipli tradizionali. Esattamente attraverso una possibilità di rapporto di massa con il prodotto artistico si cerca una possibilità di commit­ tenza alternativa all'operare consueto dell'operatore estetico, o artista che sia 17• In effetti, questa formulazione è avvalorata dal fatto che i multipli (e chiariamo che io questo caso si usa il termine « multiplo • per serigrafie, e cioè grafica, conseguentemente alla recente unificazione degli oggetti moltiplicati) non sono numerati, ma solo firmati; io questo senso vengono definiti illimitati. Si cerca cioè di ridurre il valore feticistico del­ l'oggetto, attraverso la sua vendita ad un « prezzo politico », completamente indipendente da quello che sarebbe il suo valore di mercato. E questo pone subito in evidenza due aspetti di possibile sviluppo: l'oggetto essendo un multiplo illimitato, cioè non privilegiablle per la sua rarità sotto il profilo mercantile, si sottrarrà decisamente ad ogni ipoteca di sua feticizzazione consumistica di oggetto artistico in quanto tale. Sarà invece una testimonianza e proposta di lavoro, il segno di una azione � operazione estetica, di un'indicazione culturale insomma, e sarà lo stimolante strumento di una possibilità di discus­ sione, cioè di una ulteriore sollecitazione culturale. Sarà insomma strumento e non fine. Permetterà quindi agevolmente un recupero del patrimonio « lavoro », cioè del patri·


monto del suo stesso processo di realizzazione, nel quale è Intervenuta la progettazione dell'operatore, ma anche una precisa capacità operativa 1a.

Ora, nonostante il sostanziale interesse di una proposta di questo genere, essa ci sembra conservare due limiti di fondo. In primo luogo, mette il pubblico a contatto con un'arte, in fin dei conti, di tipo « tradizionale»; lo mantiene cioè, forse giudicandolo incapace di « capire ,. le nuove avanguardie, in una condizione in cui il quadro è ancora necessariamente feticcio. Si conserva cioè all'oggetto d'arte l'« aura», indicata da Benjamin 19 , ignorando completamente la demolizione di questa concezione elitaria, compiuta dalle ultime avanguardie. In altri termini, ci pare che l'operazione risenta dei tradi­ zionali ritardi, nei fatti dell'arte, della sinistra italiana. Con­ quistata, a trent'anni di distanza, la dimensione « astratta» della pittura, si propone un discorso, quale quello della mol­ tiplicazione, datato, come abbiamo visto, al 1955; e abbiamo visto, oltretutto, quale sia stata la sua vicenda commerciale nella società capitalistica del dopoguerra. Ma la presenza di una contraddizione in termini è ancora più evidente quando si pensi che l'offerta di oggetti d'arte ad un prezzo molto più basso del solito, offerta fatta senza avviare contempora­ neamente un discorso chiaro e demistificatorio sugli attuali rapporti di produzione del mercato neocapitalistico dell'arte, rischia di avere come unico risultato la creazione di una nuova schiera di acquirenti d'oggetti d'arte, completamente impreparati, e cioè una nuova massificazione. Si rischia, chiarendo, di veder aumentare coloro che, acquistando un oggetto d'arte in generale, e tanto più un multiplo, pensano di portare a casa un « pezzo ,. di valore, di aver fatto insomma un investimento, tanto più quando l'opera sia offerta sotto­ costo. Ma questo risultato è esattamente il contrario di quanto auspicato dagli operatori di Ponticelli. Essi hanno evidente­ mente sottovalutato il rischio di ricadere nello stesso errore dei primi fautori della moltiplicazione, per il solo fatto di aver creato un circuito artistico-riproduttivo alternativo. Ad esorcizzare il pericolo di una rifagocitazione da parte del mercato, sarebbe molto più coerente se un'operazione che 51


ha l'ambizione di creare una capacità di più ampia commùca­ zione ( rispondendo ad una comnùttenza nuova, popolare, realmente alternativa: che finirà per essere naturalmente anche committenza di qualcosa di diverso dalla semplice produzione di «oggetti» artistici) 20, fosse inserita in un discorso organico, magari composto di mostre didattiche, e non si limitasse all'esposizione e vendita di una cartella di serigrafie. A questo punto, c'è da chiedersi se l'opera d'arte molti­ plicata abbia ancora in sé una positiva valenza, o se cor­ risponda, sia pure provvisoriamente ed in mancanza di meglio, ad una richiesta di avvicinare l'arte ad un pubblico non generico, ma identificabile nella classe operaia. Ci sembra che quest'ultima esigenza sia, nei limiti reali­ stici delle priorità dei valori-interessi delle classi subalterne, seriamente avvertita, e che la committenza alternativa sia altrettanto importante per gli operatori artistici; ma non ci sembra che la riproposta di schemi già rivelatisi fallimentari possa contribuire ad avviare a soluzione questi nodi del rap­ porto arte-società. D'altra parte, la riproposta del multiplo acquisterebbe un reale interesse qualora si riuscisse a chiarire criticamente se la caduta di quest'esperienza debba attribuirsi a sua congenita inconsistenza estetico-sociale, o ai modi in cui essa fu gestita.

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1 Si tratta della mostra itinerante Per una ipotesi di multiplo illimi­ tato, organizzato dal Gruppo arti figurative della Casa del popolo di Ponticelli (NA), composto da Coppola, Bianco, Rea, Picardi, e coordinata da E. Crispolti. Gli artisti partecipanti sono i seguenti: Avella, Barisani, Bifulco, Borghesi, Bugli, Carrino, Calligaris, Coppola, Dalisi, De Falco, De Sanctis, De Simone, Fumelli, Gatto, Giammarco, Morales, Panaro, Picardi, Remotti, Rezzuti, Ruotolo, Sartoris e Volo. L'itinerario della mostra ha toccato, fra le altre, le fabbriche: Angus di Casavatore, Lenza di Casoria, Alfa Romeo di Pomigliano d'Arco, e il centro arte « Incontro multiplo» di Nola. Per la documentazione, vedere E. CRI­ SPOLTI, Per una ipotesi di multiplo illimitato, 20 dicembre 1975-10 gennaio 1976;, e ancora E. CRISPOLTI, Multipli illimitati, in « La voce della Campania», a. IV. n. 2, 25-1-1976. M. ROCCASALVA, Mostra d'arte in fab­ brica, ne l'Unità, 25-1-1976. 2 E. CRISPOLTI, Multipli illimitati, cit. 3 La bibliografia sull'arte programmata, e sul lavoro di gruppo è vasta. Citiamo i testi più significativi, per un approccio generale ed un quadro delle adesioni della critica, con specifico riferimento alla pro­ blematica che qui ci interessa:


U. Eco, Arte programmata, catalogo. Milano, Olivetti, 1962. <?atalogo della mostra Nove tendencije, Galerija Suvremene, Umjet­ nosti, Zagreb, 1961. Catalogo della mostra Nove tendencije 2, Galerija Suvremene Umjetnosti, Zagreb, 1963. F. ME!<NA, Attualità ed utopia dell'arte programmata, in e Film­ selezione », n. 15-16, gennaio-aprile 1963, Roma; ora in La regola e il caso, ennesse editrice. F. MENNA, Tendenze confrontate, Napoli, Galleria il Centro, 1965. E. CRISPOLTI, Neoconcretismo, arte programmata, lavoro di gruppo, ne « Il Verri ", 1965; ora in Ricerche dopo l'informale, Officina Edizioni, 1968. Cfr. « Il Verri », 1967, intitolato all'Arte programmata, con scritti di Dorfles, Rickey, Bonaiuto, Menna. U. APOLL0NIO, Nuova tendenza-Arte programmata italiana, Modena, Sala di cultura, 1967. Per il lavoro di gruppo, vedere: L. FONTANA, Miriorama 10, Galleria La Salita, Roma 1961. Le problematiche artistiche di gruppo, in « Arte oggi"• 1963, con scritti di Apollonio, Argan, Assunto, Battisti, Crispolti, Dorfles, Garroni, Maltese, Menna, Montana, Pignotti, Raffa. La ricerca estetica di gruppo, in e Marcatrè ,., 1964, con interventi di Maltese, Massironi, Vedova, Argan, Mari, Portoghesi, Ricci. 4 V. VASARELY, Notes pour un Manifeste, 1955. 5 F. FORTINI, Arti e proposta umana, 1950; ora in Dieci inverni, De Donato, Bari, 1973, pp. 133-134. 6 Del gruppo T facevano parte Anceschi, Boriani, Colombo, De Vec­ chi e Varisco; va ancora ricordato, perché operante nello stesso ambito di ricerche, il Gruppo N, con Biasi, Chiggio, Costa, Landi e Massironi. 7 G. DoRFT..ES, Ultime tendenze dell'arte d'oggi, Feltrinelli 1963, p. 124. 8 P. C. SANTINI, Forme di Munari, ne e La Biennale di Venezia,., n. 55, dicembre 1964. 9 E. CRISPOLTI, Neoconcretismo..., cit., p. 353. 10 P. PRANDsTRALLER, Arte come professione, Marsilio 1974, p. 140. 11 lvi, p. 140. .12 E_. CRISPOLTI, Neoconçre_tismo,. .., cit., p. 348. 13 Pubblicazione della e Edizioni d'arte Due Torri '"· Bologna. Anche in Francia si è provveduto da tempo a tutelare il settore della grafica; ad esempio, prima il e Comité National de la gravure•, ed in seguito la « Charnbre Syndicale de l'Estampe et du Dessin• di Parigi, hanno adottato una precisa definizione di « stampa originale•• per cui sono da considerarsi Incisioni, stampe e litografie orlglnall le prove tirate In nero e a colori, da una o più lastre Interamente concepite e eseguite a mano dall'artista stesso, qualunque sia la tecnica impiegata, ma a esclusione dJ ogni processo meccanico o fotomeccanico (Edizioni Gian Alvise Salamon, Catalogo n. 18, 1975). 14 e Flash-Art », n. 43-49, October-November 1974, p. 42. 1s E. CRISPOLTI, Per una ipotesi ... , cit. 16 Intervista a G. Dorfles, di V. Fagone, in « NAC », n. 11, Novembre 1972. 11 E. CRJ;SPOLTI, Per una ipotesi... , cit. 1a lvi.

Cfr. W. BENJAMIN, L'opera d'arte nell'epoca della sua riproduciEinaudi, Torino, 1972. 20 E. CRISPOLTI, Per una ipotesi..., cit. 19

bilità tecnica,

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