Op.cit. rivista quadrimestrale di selezione della critica d'arte contemporanea
Direttore: Renato De Fusco Segretaria di redazione: Maria Laura Astarita Redazione: 80123 Napoli, Via Vincenzo Padula, 2 - Tel. 7690783 Amministrazione: 80122 Napoli, Via Francesco Giordani, 32 - Tel. 684211
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Edizioni e Il centro ,. di Arturo Carola
c. DARDI,
Dipartimento e «architettura»
L. AilEGRI,
La « rappresentazione • tra storia del teatro e semiotica
A. TECCE
La critica. d'arte in
GALLO,
e Tel
Libri, riviste e mostre
Quel»
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Alla redazione di questo numero hanno collaborato: Maria Laura Astarita, Urbano Cardarelli, Antonio d'Avossa, Fulvio Irace, Maurizio Martinelli, Tommaso Mottola, Valeria Pezza, Mariella Utili.
Dipartimento e «architettura» COSTANTINO DARDI
Un paradossale cartello dei no presiede e fiancheggia il dibattito sull'introduzione del dipartimento nell'ordinamento dell'università italiana. In generale il discorso appare abbastanza impreciso nei fini ed indefinito nei mezzi, ma assai de terminata risulta invece la volontà di rimuovere, attivando un organismo comunque diverso, il complesso delle distorsioni e dei guasti provocati dal tradizionale ordinamento per facoltà, cattedre, istituti, dalla rigida titolarità delle discipline, dall'assenza di un momento organico di programmazione e di coordinamento dell'attività di insegnamento e di ricerca. (G. CHIARANTE, Due decenni di mancata riforma, in G. CHIA· RANTE, A. TORTORELLA, Per la riforma universitaria, p. 24, Roma, 1976). Di fatto la parola dipartimento è credibile soltanto in quanto consente di rimuovere un termine così profonda mente screditato nell'immagine pubblica come quello di isti tuto, che ormai quasi automaticamente viene collegato con il termine barone, carriera, profitto. In realtà l'elemento uni ficatore dell'iniziativa dipartimentale è sostanzialmente la cri tica dello stato di de�omposizione raggiunto dalla vecchia struttura. Esso compare regolarmente, da quindici anni a questa parte, in tutte le proposte di riforma ed in tutti i di segni di legge, come l'unico strumento capace di candidarsi credibilmente ad affrontare in uno i problemi della didattica,
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i compiti della ricerca e le attività di servizio dell'università italiana. Ma sono evidenti, ad esempio, nella relazione intro duttiva al più recente disegno di legge ministeriale ( disegno di legge Malfatti n. 663 del 1977) i limiti nominalistici della proposizione innovatrice. Poiché se è vero che vi si afferma chiaramente che l'istituzione dei dipartimenti rappresenterà una sorta di fase costituente della nuova Università, s} che tutti coloro che aspirano alla realizzazione di una riforma che incida nella realtà esistente e prepari l'assetto stabile per un lungo arco di tempo hanno occasione per vivere l'impegno presente al più alto livello di creatività e di responsabilità culturale, scientifica, didattica immediatamente dopo, preoc cupati di una interpretazione conseguente di tale afferma zione, si garantisce che l'ampiezza delle innovazioni propo ste, la novità dei cambiamenti prefigurati, la ricerca della nuova immagine e della nuova identità dell'Università non sarebbero proponibili o, quanto meno, non potrebbero rea lizzarsi in concreto, senza il concorso dei docenti vecchi e nuovi. E nel testo di legge, definite le competenze del Consi glio di dipartimento, ci si affretta a chiarire, nello stesso ar ticolo 24: Nessun docente può comunque essere distolto, senza il suo consenso, dall'insegnamento della disciplina o del grup po di discipline per cui è stato chiamato. Provvedendo quindi assai rapidamente a rimuovere e neutralizzare gli effetti della riforma che si finge di aver introdotto. E evidente che la for mazione di questa nuova struttura deve ridurre al minimo i rischi dell'assemblearismo velleitario, demagogico ·e pastic cione nel quale da troppo tempo vive immersa l'università ita• liana, ma è anche necessario che, per raggiungere obiettivi effetti di rinnovamento sia contentita un'oggettiva condi zione di confronto, sia attivato un reale dibattito sui ruoli sul lavoro culturale e sulla produzione scientifica di tutti i componenti dell'università, al di fuori delle malintese trin cee della libertà di insegnamento e al di fuori dell'ambigua identificazione tra diritti connessi con lo statuto dei lavoratori e inamovibilità dei ruoli. Nell'ambito di tale confronto dovrà essere salvaguardata la possibilità di chiunque di avviarsi ad 6 esplorare territori di ricerca che forse non coincidono con
quelli battuti dalla maggioranza dei ricercatori: ciò è indispen sabile perché l'autonomia dell'elaborazione intellettuale ha un senso proprio in quanto sollecita nuovi inediti apporti non preventivamente programmabili. t:. tuttavia indispensabile che ciò si risolva in un dibattito scientifico pubblico e non in un'opzione privata, resa possibile grazie ai pochi strumenti concessi all'interno dell'università italiana. Tuttavia proget tare una riforma nella quale istituzioni nuove coesistono ac canto a quelle vecchie, la cattedra accanto al dipartimento, l'istituto accanto alla materia, significa aver deliberatamente deciso di sollevare un grande polverone per impedire per qual che tempo una visibilità pur minima e rendersi conto soltanto alla fine che il più è rimasto al suo posto e pochissimo è cam biato. Giampaolo Bonani ha scritto un intero volume a dimo strare come il «problema» del dipartimento, dei suoi attri buti e delle sue competenze, è secondario o sostanzialmente improponibile al di fuori di una concezione rinnovata dell'uni versità, che attribuisca a quest'ultima una funzione di diretto giudizio sulla realtà sociale (G. BoNANI, Il dipartimento uni versitario, p. 12, Roma, 1974). Al di fuori di quest'ottica il dipartimento .rimane un'ipo tesi fortemente condizionata dall'ambito culturale e dal qua dro socio-politico-istituzionale entro il quale si colloca. La segmentazione e la ridefinizione dei campi disciplinari che esso produce appare infatti solo in parte dissimile da quello delle facoltà di origine centro-europea. Nel mondo anglo-sas sone il dipartimento nasce insomma come istituzionalizza zione di un indirizzo di studio, inteso in senso attivo e pas sivo (ricerca e docenza), corrispondente ad una precisa pos sibilità di riprodurre a stadi sempre più avanzati un limitato numero di figure professionali (p. 19). La e dipartimentallz zazione • è così il risultato negativo (anche se provvisorio) del conflitto implicito fra campi di ricerca e fra ricercatori. Chi si sente superato per difendere la propria integrità, chi avverte la propria creatività per affermarla: ciascuno tende a e definire• il proprio terreno operativo. (Ibidem, p. 20). Ma anche se è vero che i dipartimenti entro i quali si or- 7
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ganizza l'insegnamento universitario nei paesi europei già appaiono logori e spesso inadatti al programma di riforma (F. SPIRITO, C. AJROLDI, Gli ultimi 10 anni di « esperimenta zione » nelle facoltà di architettura in Italia, in Il dipartimento nelle facoltà di architettura, p. 47, Palermo, 1976) è proprio attraverso il modo particolare e concreto con cui si è mani festato e realizzato tutto questo processo di trasformazione che l'istituzione dei dipartimenti, anche se già in declino in altri paesi, può acquistare termini di originalità e di aggior namento in una possibile formulazione da fare per l'Univer sità italiana (F. SPIRITO, op. cit., p. 48). I traguardi cui questa nuova formulazione deve necessa riamente fare riferimento sono da un lato il quadro struttu rale dell'assetto economico-produttivo del paese, dall'altro il rapporto tra organizzazione della cultura e profili professio nali emergenti. Ludovico Quaroni è partito dall'analisi del ciclo storico dell'istituzione universitaria, dal Medioevo ad oggi, per porre alcuni quesiti assai precisi: - perché la quantità di laureati che l'Università produce è in eccedenza crescente rispetto alla domanda di lavoro in tellettuale? . - non varrebbe la pena di riesaminare tutto il program ma della specializzazione disciplinare e professionale, dato come obiettivo per produrre i quadri tecnici e organizzativi di una società impegnata soprattutto nella produzione? - non bisognerebbe esplorare gli effetti del distacco tra attività intellettuale e attività manuale, della divisione del la voro come espediente di efficienza, della specializzazione come scorciatoia e surrogazione della competenza? (L. QUARONI, L'i.5tituzione Università: che farne?, in Spazio e società, pp. 6-7, n. 4, 1976). In effetti se noi esaminiamo l'intero arco quindicennale delle proposte legislative sull'università italiana, dai lavori della commissione d'indagine « sullo stato e sui bisogni » della Pubblica Istruzione in Italia, del 1962, attraverso i nu meri ormai celebri dei diversi disegni di legge governativi, vi leggiamo la storia di un tentativo contraddittorio, impe-
gnato nella ricerca e nell'elaborazione di nuovi strumenti per la formazione dei quadri tecnico-professionali ma contempo raneamente incapace di cogliere la crisi che investiva la struttura produttiva del paese. Il ruolo marginale che è stato assegnato ai problemi dello sviluppo culturale e scientifico si colloca in una logica che ha sacrificato le prospettive di un più ampio sviluppo economico, culturale e civile nel qua dro di un'espansione produttiva ristretta e squilibrata e di -un ruolo nettamente subordinato dell'Italia nell'ambito della divisione internazionale del lavoro fra i paesi capitalistici più sviluppati (G. CHIARANTE, op. cit., p. 16, Roma, 1976). Il dipartimento nasce (forse) in Italia per l'evidente ina deguatezza delle attuali strutture a svolgere un qualsiasi ruolo credibile in materia di programmi didattici, di con fronto culturale, di elaborazione scientifica. Se alcuni corsi ancora mantengono dignità accademica, se alcune elabora zioni suscitano un qualche interesse culturale, ciò avviene no nostante e al di fuori della struttura istituzionale e della sua articolazione funzionale in facoltà, cattedre ed istituti. Dalla carenza di un corretto ambito di d'ibattito culturale esce ridi mensionato il contenuto scientifico della produzione universi taria sia nel campo della didattica che in quello della ricerca: lo stesso dibattito politico, che ha assorbito tanta parte dei l'area del confronto, ne uscirebbe potenziato ed approfondito qualora si realizzasse entro una tonalità più accentuatamente culturale. Sarebbe inutile, infatti, condurre ed anche vincere alcune battaglie per la democratizzazione dell'università, e ri sultare assenti, se non addirittura perdenti, appena il discorso si sposta su temi specifici, sui contenuti o sugli orientamenti, oppure non essere in grado di formulare che generici dis sensi di fronte a precise elaborazioni, risultati scientifici, pro grammi di ricerca. · Il dipartimento nasce (forse) anche per affrontare la spi nosa questione delle materie di insegnamento e della loro denominazione, che assai spesso è vuota cosa e rivela una scollatura pressoché insanabile tra quello che viene dichiarato sull'etichetta ed i contenuti culturali di corsi che ormai da anni hanno consolidato una loro precisa area di lavoro ed 9
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una determinazione sufficientemente chiara di campo. � que sto il caso non soltanto di discipline la cui denominazione sollecita immediatamente il vago sentimento di nostalgia che si prova per le cose del tempo andato (arte dei giardini, ca ratteri stilistici e costruttivi, disegno dal vero, plastica, sce nografia etc.) ma anche delle discipline che vantano ben più solidi titoli di credibilità accademica, ma il cui insegnamento è stato molte volte piegato ad un'interpretazione interes sante ma cosi singolare da renderle non omogenee e soprat tutto non confrontabili didatticamente rispetto ad insegna menti affini, a sdoppiamenti, a situazioni assai prossime. In questi casi non si tratta tanto di richiamare il docente al l'ordine, di contenere l'originalità della sua impostazione, di limitare la libertà del suo insegnamento, quanto di collocare il suo spazio legittimo di ricerca accanto agli altri, entro un quadro sufficientemente chiaro, attraverso un dibattito cor rettamente svolto. Bien qu'on en parie depuis plusieurs an nées, « la finalité profonde» ·qu'on lui attribue n'est pas en core très claire, dans quelle mesure en effet constitue-t-ll un élément d'innovatlon - non pas tellement au niveau de l'or ganisation mais dans la finalité meme - dans la structure universitaire actuelle. L'élément d'innovation serait « l'unité entre recherche et enseignement», refusant l'hypothèse gou vernementale du département comme lleu prlvilégié pour l'obtention d'un « doctorat en recherche», diplòme nécessaire pour amorcer une carrière universitaire... L'organisation en départements ne prendra une signification positive et con crète que si elle s'associe étroitement à toutes les actions en vernementale du département comme lleu prlvilégé pour · une utilisation différente de la science et de la technique. (C. AYMONINO, Pour une Université de masse, in L'architecture d'Aujourd'hui, n. 181, p. 66, septembre/octobre 1975). Ecco perché, nonostante i limiti e le vaghezze, le contraddizioni e gli ammiccamenti, i calcoli corporativi ed i disegni gattopar deschi, è indilazionabile, nell'università italiana, l'istituzione del dipartimento inteso come momento di ricomposizione del l'insegnamento e della ricerca e di superamento della frantumazione disciplinare, come organo di programmazione e di
coordinamento dell'attività didattica e scientifica in connes sione con la realtà del Paese, come elemento di base per una struttura democratica nell'università (G. CHIARANTE, op. cit., p. 24). Attraverso la didattica, la ricerca applicata e le attivitvà di servizio sui temi territoriali, l'università di massa può diven tare il luogo di formazione di una « intelligenza » e una « ma nodopera » ad alto livello in grado di non sottostare, ma di analizzare, dirigere o contestare le linee di crescita ( o di cri si), e di esigere una estrema qualificazione scientifica, l'autono mia dell'università come livello della società che, lungi dal vivere nell'empireo di una corporazione di dotti, dà le sue risposte ai problemi della società, ed in questo modo forma un tipo di uomo che è anche un intellettuale libero, come affermava Rossana Rossanda, relatrice comunista di mino ranza della VIII Commissione della Camera, sul disegno di legge n. 2314, spazzato poi via nel Paese dalla contestazione e dalle lotte studentesche del '67-'68. Contro la proposta che vorrebbe riservare ai dipartimenti la sola funzione della ricerca altamente specializzata sostiene Guido Canella l'inopportunità di scindere, tra le funzioni da attribuire ad essi, quelle scientifiche da quelle didattiche, e, in aggiunta, l'opportunità di considerare i dipartimenti come luogo, oltre che di ricerca, di preparazione scientifica avente come funzione, non secondaria né occasionale, la preparazione professionale di massa... Il dipartimento universitario potreb be anche agire da « vaso di troppo pieno » per quei corsi di st-udl per i quali, forse troppo precipitosamente, si vorreb bero creare nuovi centri universitari accanto a quelli esistenti. Naturalmente, per poter operare in questo senso, è necessaria una concezione quanto mai flessibile del concetto e della fun. zione del dipartimento, tale, per esempio, da poter impegnare all'occorrenza nell'attività didattica il personale dedito alla ricerca e, in casi di emergenza, personale appositamente re c].utato. Il dipartimento da una attività di quadri passerebbe, in tal caso occupando opportune sedi, ad un'attività di massa, verificando concretamente quell'auspicabile unità tra ricerca e didattica. La stessa costituzione di nuovi corsi di studi o la 11
suddivisione di quelli esistenti troverebbe, in una provvisoria gestione dipartimentale, un'attendibile base di sperimenta zione (G. CANELLA, Un'ipote,si sul futuro del sistema teatrale a Milano, in Il sistema teatrale a Milano, pagg. 169-170, Bari 1973). E cita a tal proposito Chombart de Lauwe: Questi di partimenti dovranno corrispondere a bisogni espressi da un'epoca e non dovranno assumere necessariamente carat• teri d'istituzione di lunga durata. Si dovranno prevedere continui aggiustamenti fondati sul ritmo di sviluppo delle scienze. Egualmente, dovranno essere largamente facilitati collegamenti e facoltà di trasferimento fra un dipartimento e l'altro (P.-H. CHOMBART DE LAUWE, Pour l'université • Avant pendant et après mai 1968 • Payot, Paris 1968 citato in G. CA NELLA e L. S. D'ANGIOLINI, Università - ragione contesto tipo, p. 178). La riflessione che caratterizza i più recenti interventi sul dipartimento apre questo problema ad un'area di relazioni più vaste: mentre per un decennio esso è stato visto essen zialmente come la condizione istituzionale per il rinnovamento culturale. dell'università e per una nuova partizione del sa pere a partire dalla crisi connessa con i processi inflazioni stici del 1973 si è posto l'accento sull'esigenza che attraverso il dipartimento passi un nuovo rapporto tra università e so cietà, riagganciando la proposta dipartimentale alla domanda sociale collegandola ai ruoli professionali e non solo alle esi genze della ricerca (L. BERLINGUER, Dipartimenti e revisione dei profili professionali, in La città futura, n. 24, 9 novembre 1977). Con un pericolo tuttavia affiorante: ed è quello di rin correrci tutti all'interno di un circolo vizioso. Per cui la crisi dell'università richiede l'individuazione di nuove strutture, le nuove strutture si devono adeguare al modificare della do manda sociale, questa è conseguente alla crisi strutturale del paese, che richiede un intervento riformatore delle sue strut ture in crisi: tra le quali, appunto, l'università. Questa università sudicia, con i muri imbrattati e le seg giole rotte, non è la conseguenza amministrativa dei danni sessantotteschi, ma il risultato politico di trent'anni di ab12 bandono, inefficienza, imperizia, calcolato sabotaggio. Prevar-
ranno domani, entro questa struttura debilitata, la burocra tizzazione e la cultura delle fotocopie? Tali nuovi Diparti menti debbono rendere istituzionale quel mutamento dell'in• segnamento, dei programmi, della stessa formazione, che fi. nora è stato prodotto, mediante la sperimentazione, solo da alcune avanguardie, con un processo che ha quindi creato una progressiva e anche caotica differenziazione nei program mi e negli insegnamenti, generando anche fatalmente perico lose sacche di arretratezza e di resistenza. Il Dipartimento deve rispondere alla duplice funzione di organizzazione del sapere e sviluppo della ricerca e di formazione di nuovi pro fili professionali (L. BERLINGUER, op. cit.). Solo traguardando in continuazione a questi obiettivi generali potremo avviarci al confronto sulla questione centrale del dipartimento; con determinazione ma anche con grande capacità di critica ed autocritica. Tre sono i modelli di dipartimento a cui si pensa: un di• partimento per discipline; un dipartimento per problemi; un dipartimento per problemi a termine. Tuttavia dai progetti di legge è anche arguibile che in sostanza il modello cui si pensa è esclusivamente quello disciplinare. Il progetto socia lista è il più esplicito in questo senso, seguito dalla bozza go vernativa. La proposta del Pci lascia aperta un'ambigua pos sibilità, quando parla di organizzazione di settori aventi « fi. nalità ,. comuni. Più aperta infine sembra la piattaforma sin dacale, o almeno il commento che se ne fa sull'organo della Cgil-scuola, in cui si prospetta la convivenza dei primi due modelli. Il progetto più vago e concettualmente confuso resta quello di Malfatti, che parla di iscrizione degli studenti ai di partimenti, dando prova così di incompetenza (il diparti mento è infatti struttura organizzativa « servente » i corsi di laurea, che soli hanno dei piani di studio e dunque iscri zioni di studenti) o della recondita intenzione di lasciare le cose come stanno, e cioè di rendere i dipartimenti delle mini facoltà o dei maxi-istituti (0. CALABRESE, M. MAYER, Univer sità: progettare il mutamento, in Casabella, n. 423, p. 2, marzo
1977).
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Il modello organizzativo imperniato sulla doppia articola zione in dipartimenti disciplinari e dipartimenti funzionali aggira l'impasse della rigidità tassonomica presente nell'as setto disciplinare, corrispondente ad una partizione del sa pere le cui categorie sono entrate profondamente in crisi, ma anche quella della temporaneità e della parzialità di una struttura motivata da estemporanei programmi di ricerca, o di tematiche di non ampio respiro. Il doppio regime disci plinare-funzionale fa sì che i due tipi di dipartimento si integrano vicendevolmente. Tutt'e due i tipi di dipartimento sono finalizzati alla didattica e alla ricerca, ma con accenti diversi: il dipartimento disciplinare più alla didattica, il di partimento funzionale più alla ricerca (T. MALDONADO, in Ca sabella, n. cit., p. 9). Quanto all'articolazione del sistema in dipartimenti mono disciplinari, in forza dell'assoluta omogeneità e coerenza in terna del settore di studio, oppure interdisciplinari, nei quali forze eterogenee si confrontano su programmi di ricerca, prestazione di servizi e conduzione di corsi di laurea, Qua roni osserva che programmazioni, pianificazioni, progettazioni d'ogni specie hanno bisogno di apporti differenti, e in certi casi non è possibile separare, senza ledere la funzionalità del dipartimento stesso, le ricerche pure da quelle applicate o addirittura dal servizio (L. QUARONI, op. cit., p. 31). � naturale che la preoccupazione più grossa, la battaglia sotterranea che già si viene combattendo da parecchi anni al l'interno delle strutture esistenti, concerne i criteri ed i modi attraverso i quali si procederà nel frazionamento e nel suc cessivo nuovo accorpamento delle discipline, delle cattedre, degli istituti e delle facoltà. Se la critica più ampia ha inve stito la natura monodisciplinare degli istituti, l'attesa più aperta riguarda l'organizzazione tematica dell'interdisciplina rità dei dipartimenti. Ma senza una riflessione corretta sul significato di tale interdisciplinarità, si finirà per scadere nel più rozzo pragmatismo accorpando le discipline sulla base di obiettivi operativi temporanei e parziali. Nota Luigi Ber liguer che è vero che l'introduzione del dipartimento può por14 tare ad una riduzione dell'area del confronto e ad un isola-
mento scientifico di settore: gli storici non hanno rapporti istituzionali con i filosofi o i letterati, i fisici con i chimici, i giuristi privatisti con i pubblicisti, i medici con i biologi, e così via. In fondo, in origine, le facoltà avevano non solo una dimensione didattica ma anche un'ambizione interdiscipli• nare. Ma oggi di fatto non ce l'hanno più, e da qui occorre partire (L. BERLINGUER, Il significato del dipartimento, in Ca sabella, n. 243, p. 12, marzo 1977). Il rischio della « departmentalization », indicato da Maldo nado è diffuso nei paesi anglosassoni, ove il dipartimento ha già una sua storia consolidata: esso riguarda la tendenza all'ipertrofia riscontrabile nei contatti tra cultori di disci pline che appartengono ad un medesimo dipartimento; e, per converso, l'atrofia verificata nei. contatti tra cultori di di scipline afferenti a dipartimenti diversi. Potremmo condurre un test si�nifìcativo in proposito ana lizzando la proposta formulata da Manfredo Tafuri per il di partimento di storia. L'analisi dalla quale Tafuri parte af ferma che un lavoro intellettuale effettivamente incidente, og gi, è quello che si colloca all'altezza dei più avanzati rapporti di produzione, quello capace di « trasformarli », di « operarne la crisi », di introdurre concretamente e costantemente nuovi bisogni e nuove soluzioni tecniche. (M. TAFURI, L'unità della storia, in Casabella, p. 35, n. cit.). Ma per un tale obiettivo occorre superare vecchie dia tribe, ripensare radicalmente il ruolo delle singole discipline e affermare vigorosamente l'unità della storia - storia po litica, economica, delle religioni, dell'arte, dell'architettura, del l'urbanistica, delle tecniche, ecc. Solo attraverso questa co lossale operazione di fusione sarà seriamente possibile fare storia « per » le città, produrre conoscenza « per trasformare »: si tratta di far scontrare, in una dialettica spietata, di scipline che da tale scontro salutare dovranno uscire ri dimensionate (Ibidem). Ma già il compito di prevedere in terventi atti a connettere beni culturali mobili ed immobili a una politica di sviluppo affidato come compito storico allo storico dentro le organizzazioni pubbliche di piani ficazione e di gestione si apre ad una dimensione progettuale 15
che comporta non poche conseguenze per l'unità della storia: e se ciò non si dà, l'apertura non è alla trasformazione, ma alla conservazione. Quando, come nella proposta Tafuri, per recuperare tutta la storia, si abbandonano per strada i caratteri peculiari del lavoro storico applicato al campo dell'architettura, i mate riali d'analisi e le tecniche d'intervento specifiche, in tema d'organizzazione dei fatti fisici e delle relazioni spaziali, rimane· il dubbio che il residuo irrisolto lasciato libero dalla nuova proposizione finisca per corrispondere ponderalmente al contenuto rinnovatore del lucido disegno razionale. Vale la controprova: è possibile che anche in un campo così pros simo all'architettura come quello della storia dell'arte e della critica d'arte, qualificatissimi operatori non riescano ad ela borare originalmente un giudizio sui fatti dell'architettura, cogliendone i caratteri specifici ed implicandone la storia di sciplinare? e che poi, nel mare dell'oggettività della storia, tutto questo patrimonio finisca con l'annegare, anonimo e privo di caratteri, in nome della circolarità del pensiero che coinvolge non solo storia urbanistica e storia econo mica, ma anche filosofia e sociologia, letteratura e poesia, musica e... Ma anche l'articolazione proposta da Ludovico Quaroni, distinguendo dipartimenti disciplinari per l'area della storia e della critica, della tecnica e della matematica, e diparti menti pluridisciplinari per tutte le altre aree, può risultare solo in apparenza chiara, ma non in realtà convincente. In fatti chi, tra gli studiosi dell'area tecnica o dell'area scienti fico-matematica, si candiderebbe oggi paladino di un'autosuf ficienza disciplinare, indifferente e sorda alle problematiche culturali ed al coinvolgimento sociale che proprio le discipline progettuali hanno loro suggerito? Le proposte e le formulazioni, le articolazioni e gli schemi, gli orientamenti, le bozze e le note, i raggruppamenti e le agglomerazioni si succedono in questi anni: ognuno si inge gna a trovare una soluzione più comprensiva della precedente ed una strutturazione più sofisticata. Alberto Samonà ne ha 16 individuati (al settembre 1976) mezza dozzina, e li ha sotto-
posti ad analisi complessiva: non credo sia qui il caso di riprendere una tale riflessione, e riverifìcare ancora una volta se l'area della storia sia più ampia a Torino oppure a Palermo, pesare l'incidenza della componente tecnica a Firenze in rela zione a quella di Napoli. Anzi è assai positivo che le diverse proposte si differenzino, manifestando quindi non ossequio ad un'astratta norma di unificazione ma alla realtà plastica dei di versi assetti ed indirizzi locali. Forse il merito dell'esperienza veneziana è proprio quello di aver assai realisticamente preso atto e restituito organizzativamente la realtà della sua articola zione culturale, con i diversi interessi ed indirizzi variamente intersecati, con le sue aree di lavoro, le sue attenzioni esterne e le sue aggregazioni interne. Soltanto percorrendo questa strada fino in fondo, esibendo coraggiosamente i dati caratte ristici della propria identità didattica e scientifica, ogni sede potrà candidarsi come centro autonomo di elaborazione cul turale, e la sperimentazione non significherà genericamente alcuni anni di carte al vento, ma una meditata preso di co scienza della propria collocazione e del proprio ruolo cul turale. Questo atteggiamento non presuppone né rinuncia all'ela borazione di un quadro problematico più ampio, né miopia nei confronti dei problemi a scala nazionale o internazionale della cultura architettonica contemporanea: vuole soltanto costruire responsabilmente una situazione più avanzata non attraverso astratte fughe in avanti, ma approfondendo i ca ratteri delle struture esistenti. Solo così sarà possibile sot toporre a radicale revisione i ruoli presenti ed i prodotti for niti dalle facoltà di architettura. Nell'ambito dei contributi che ho sopra citato, e senza l'.igorosamente vagliare quali afferiscano all'organizzazione di partimentale, e quali ad un'articolazione per indirizzi diversi dei corsi di laurea, vorrei sottolineare alcune proposte che si pongono come pregiudiziale il problema di una diversa ag gregazione ·degli ambiti disciplinari presenti nella struttura della facoltà di architettura. Alberto Samonà osserva che i quattro filoni classici delle discipline (architettura, urbanistica, storia, scienza/tecniche) 17
autonomamente presi non costituiscono condizioni minima mente idonee all'avvio di qualsiasi processo serio di studio, ricerca, didattica. Qualsiasi intervento nello spazio fisico si presenta come esperienza unitaria nella quale il ruolo dei quattro filoni risulta strettamente intrecciato: soltanto una concezione aristocratica della scuola poteva ipotizzare che la sintesi tra i diversi fosse un processo intellettualmente pra ticabile e didatticamente fertile: appunto, si afferma con una vena di populismo, perché sostanzialmente élitario. In al ternativa vengono proposti tre nuovi modi di affrontare l'in .tervento · sulla realtà, tre assetti operativi, nei quali tutti e quattro i filoni sono presenti: a) la conformazione •delle trasformazioni fisiche di città e territorio; b) la tecnica delle trasformazioni fisiche di città e ter ritorio;
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e) la programmazione/strumentazione delle trasforma zioni fisiche di cui sopra. Claudio Dall'Olio rileva che il quadrinomio urbanistica architettura-tecnica-storia in paragone alla essenzialità e con catenazione necessaria del trinomio vitruvlano, ha un fonda mento epistemologico eterogeneo, confuso e ridondante, fatto di enucleazioni terminologiche arbitrarie, scissioni o smem bramenti di unità. Ma se intendiamo garantire alcune matura zioni culturali come l'unità di architettura ed urbanistica, la inscindibilità del momento « formativo » e di quello tecnico nella progettazione architettonica, la coesione tra coscienza storica e linguaggio architettonico si propone un'articolazione di « indirizzi ,. che salvi, per quanto possibile, l'unità del di scorso che è sotteso a quelle quattro fatidiche parole, mal scel te, che non si deve scollare: urbanistica, architettura, tecnica, storia spostando l'analisi sui tre momenti nei quali si articola l'attività di trasformazione fisica dell'ambiente: la programma zione, la progettazione, la realizzazione. Ne derivano tre indi rizzi che si individuano come : indirizzo metaprogettuale relazionato al momento della programmazione; indirizzo pro-
gettuale tecnico-morfologico/linguistico; indirizzo progettuale tecnico-attuativo/gestionale. Nell'ambito dell'ottica della riforma istituzionale si muove anche l'osservazione di Renato De Fusco, che imposta il pro blema delle discipline da ampliare, ridurre o addirittura sop primere, in concomitanza con l'attivazione del dipartimento ed entro la logica di un'operazione di riduzione culturale che commisuri strumenti e mezzi alle concrete condizioni opera tive offerte dall'università italiana. Distinto l'intero corpus disciplinare in un gruppo a carattere spiccatamente profes sionale (progettazione architettonica, urbanistica, arredamen to, design) ed uno avente una finalità più teorica di più ge nerale fondazione critica, storica, di impronta sperimentale, mirante a fornire agli studenti un più ampio quadro episte mologico, egli avanza una proposta paradossale solo in appa renza: le già esistenti discipline teoriche, e le nuove sorte dalle più recenti ricerche, dovrebbero svilupparsi grazie ad un ridimensionamento di quelle professionali. Infatti, men tre la pratica professionale, costretta continuamente ad aggior narsi, a misurarsi con la domanda reale della società, sarà sempre più completa dell'insegnamento ricevuto nei pochi anni del corso di laurea ... o le materie professionali sapranno darsi un proprio fondamento epistemologico, ovvero conqui starsi una loro autonoma e dignitosa dimensione sia teorica che pratica ( e in tal caso le discipline non professionali an drebbero staccate e raggruppate in un loro altrettanto auto nomo « spazio », quello appunto di un dipartimento) oppure ...dovranno essere integrate dall'altro gruppo di insegnamenti - e in tal caso questo dovrà avere più tempo e spazio dispo nibili (R. DE Fusco, Materie «diverse» per formare gli archi tetti, Il Messaggero, 21 novembre 1977). Tutto questo fiorire di iniziative e proposte implica in vario grado un processo di revisione istituzionale degli ambiti disciplinari entro i quali si collocano le materie d'inse gnamento delle facoltà di architettura, senza tuttavia operare una riflessione sui rapporti intercorrenti tra l'area della ri cerca scientifica e quella della progettualità creativa che stanno alla base dell'originario connubio e che non infruttuo- 19
samente potrebbero essere riverificati oggi sulla base di tec niche, procedimenti ed acquisizioni recenti nel campo del la voro scientifico e della ricerca estetica. Un altro problema capace di incidere in maniera determi nante sulla configurazione futura del dipartimento concerne il numero dei dipartimenti da attivare: uno o più diparti menti per ciascuna sede universitaria su temi affini? Conside riamo il caso dell'ateneo romano: gli studenti attualmente iscritti ai corsi di laurea delle facoltà di architettura e di ingegneria, sottosezione civile/edile, si aggirano. intorno al numero di 20.000. Assunto lo standard medio di 2.500/3.000 studenti per realizzare una dimensione conforme dell'orga nizzazione dipartimentale, nell'area della progettazione archi tettonico-urbanistica si presenta la necessità di attivare al meno sei dipartimenti. Come regolarci? Dovremo ricorrere ad una pretestuosa diversificazione di etichette per frazionare il corpus unitario delle discipline progettuali entro dimen sioni tecnicamente congruenti? Basta scorrere l'elenco degli attuali Istituti dell'ateneo romano (Progettazione, Fondamen ti, Critica Operativa, Disegno industriale, Edilizia, Metodolo gia, Tecnologia, Architettura ed Urbanistica) per capire quali mostri della ragione può partorire la logica baronale, pur di dotarsi di un paio di locali, con annessa segreteria, telefono, moquette, servizi e qualche libro. Perché non riconoscere, in vece più lealmente, che esistono oggi una serie sufficiente mente ampia di ipotesi culturali, di tendenze diversamente gravitanti intorno all'area disciplinare della progettazione ar chitettonico-urbanistica, e conseguentemente decidere che su di esse va impostata l'articolazione delle diverse organizza zioni dipartimentali? Riconoscendo la positiva instabilità dot trinale dell'architettura e la molteplice complessità degli ap procci e delle metodologie, non finiremo con l'operare scelte più motivate, sulla base dell'idoneità globale di una linea cul turale di candidarsi alla gestione di una sezione dell'attività didattica, all'elaborazione di un progetto di ricerca, alla_ rea lizzazione di una ricerca di progetto? :t:: in parte questo discorso analogo a quello che fa Quaroni, quando osserva che è necessario tener conto delle ideo20
logie, che non sono soltanto politiche ma più generalmente d'impostazione filosofica e di « tendenza» culturale, di meto dologia didattica (in stretta relazione colle finalità ideologiche che la sottendono), ideologie che raggruppano spesso insieme docenti di «progettazione» (in senso lato), contro altri do centi, afferenti ad altre ideologie (L. QUARONI, Dipartimento e progettazione, in Casabella, n. 423, p. 32, marzo 1977). Le riflessioni svolte da Carlo Aymonino a proposito del rapporto tra università ed ente locale sembrano assai oppor tunamente delineare quello che può esser un corretto rap porto di ricerca e di servizio tra dipartimento e territorio. Certamente l'ente locale ha obiettivi immediati ben più con sistenti di quelli universitari e un ruolo, anche se in via di arricchimento verso una maggiore complessità, ben più col laudato dalla pratica operativa e istituzionale. Tuttavia gli obiettivi immediati; molto spesso improcrastinabili, hanno bisogno di una loro verifica nel passato ( come si sono for mati) e di un loro aggancio nel futuro ( cosa vogliono risol vere). E l'ente locale non è attrezzato, nei suoi organi tecnici ma anche in quelli politici, per nessuna delle due verifiche. Quando Novelli parla, per Torino, di una nuova « invenzione » della città, del suo uso e della sua forma, non pensa ad una delibera da presentare in Consiglio comunale; dà un'indica zione politica che nasce dalla realtà urbana che è stato chia mato a dirigere; indicazione che investe le struttura politica, sociale, economica della città nelle sue varie istanze esistenti e, forse, in altre nuove da creare... E gli enti locali non hanno né possono avere al loro interno settori scientifici politiciz zati. Né hanno - e invece dovrebbero avere - fondi, anche limitati, per la ricerca scientifica. Ecco allora che il « rispar mio» di affidare settori cli ricerca all'università diviene poli tica cli rinnovamento delle due istituzioni (C. AYMONINO, Ri flessioni oltre l'esperienza veneziana, in Casabella, n. 423, p. 37, marzo 1977). Vogliamo riflettere sul fatto che, in campo architettonico, i contributi culturali più interessanti, le nuove tesi e le teorie emergenti non sono il prodotto automatico della cultura delle fotocopie, ma il risultato di lavori che quasi sempre derivano 21
da una originaria istanza di natura didattica? Possiamo dimo strare il primato della riflessione ovviamente non contrappo sto alle motivazioni strutturali che l'hanno determinata, in vario modo. L'intervento alla scala urbana si è sicuramente sviluppato, nel contributo delle avanguardie storiche del Mo . vimento Moderno, in termini ideologici e non politici, sulla base di un progetto privato o di gruppo, non come proposizione fondata sulle contraddizioni del reale e dialetticamente intersecata con questo. Ciononostante questa attenzione alla città ha determinato la crescita e la formazione di una capa cità di pensare in termini diversi, di adeguare gli strumenti progettuali ad una nuova scala, di organizzare una strumen tazione tecnica idonea ad affrontare i nuovi problemi. Lo scacco quotidianamente subìto nel riscontro che l'og gettiva emarginazione della proposta d'intervento alla scala urbana, con la verifica, continuamente operata, che i processi di crescita escludono sistematicamente il contributo della cul tura achitettonica, assumendone al massimo alcune valenze tecniche minori, ha trasformato la città in un grande campo di germinazione e sviluppo di desideri repressi, entro il quale la maturazione tecnica dell'intervento e la capacità di pro getto si scontra regolarmente con l'ineffettualità del disegno. Un dipartimento strutturato per l'organizzazione di un'au tentica ricerca progettuale, capace di rinnovare i rapporti tra analisi .e progetto attraverso un metodo che intende proget tare per conoscere e conoscere per trasformare può aspirare a trovare uno spazio all'interno dell'università riformata? Nell'università del tempo perduto e delle assemblee aggres sive, riusciremo a ritrovare i silenzi e la concentrazione ne cessari per pensare, progettare e studiare?
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La « rappresentazione» tra storia del teatro e semiotica LUIGI ALLEGRI
1. Tra « rappresentazione » e testo. Nel discorso teorico e critico sulla storia del teatro o, più recentemente, sulla semiotica ·del teatro, esiste una sorta di problema rimosso, una nozione sempre utilizzata, spesso im piegata nei momenti teorici chiave, in quelli determinanti a creare una linea discriminante tra un certo tipo di teatro e un altro, tra il teatro di un momento storico e un altro, e che risulta invece del tutto non definita, assolutamente non approfondita, intendo la nozione di « rappresentazione». Si tratta, come in genere tutte le rimozioni, di una rimo zione curiosa ma significativa, apparentemente inspiegabile vi sta la rilevanza teorica del problema e in grado invece, ove colta nel suo senso più profondo, di farci intendere molto sulle concezioni dominanti del teatro (e del cinema) e della produzione estetica in genere. Ed è appunto riguardo al pro blema della «rappresentazione » che vorrei qui estrapolare alcune considerazioni, da vedere peraltro come risultati par ziali di una ricerca più ampia ancora in corso.· Vorrei partire dall'inizio (metodologico): «che cosa» rap presenta il teatro, «chi » rappresenta l'attore? Il testo, si ri sponde nella maggioranza dei casi, e il personaggio. Oppure: la realtà. O ma�ri: la realtà tramite la mediazione del testo. In tutti i casi, comunque, si· conviene sul fatto che il teatro (intendendo cmi ciò il fatto teatrale, quello che avviene sul palcoscenico) rimanda sempre, cioè «rappresenta», qualcosa 23
di altro da sé, sia esso il testo scritto o la «realtà», e al con fronto con quale demanda anzi il compimento del suo «signi ficato», del suo senso per lo spettatore. Esaminiamo innanzi tutto il rapporto tra fatto teatrale e testo scritto, che è il rapporto sentito come primario, fonda mentale e spesso fondatore del teatro come «rappresenta zione», con l'avvertenza tuttavia di intendere che i termini di tale rapporto restano immutati anche nel caso in cui il testo non sia esplicitamente «scritto» ma sia comunque dato (sia pur virtualmente) a priori, come è il caso dei personaggi e delle situazioni tipo della Commedia dell'Arte. Questo pro blema, della «specificità» teatrale del testo scritto è una que stione capitale perché a seconda della assunzione o meno di quest'ultimo a fattore fondante del fatto teatrale, o comunque a unico fattore indagabile in maniera non empirica, l'indagine imboccherà strade radicalmente diverse. In un caso, quello della preminenza del testo, ci si indirizzerà in sostanza verso i domini di una critica, o di una storia, o di una semiotica, so stanzialmente letteraria o al più narratologica, di indagine delle st1utture narrative, delle funzioni e delle articolazioni del rac conto, con ciò trattando il teatro non diversamente da ogni altra narrazione letteraria e usufruendo perciò anche dei sus sidi critici e metodologici di una disciplina di rassicurante tradizione e stratificazione. Nell'altro caso, quello della « non pertinenza teatrale» del testo o almeno della sua equiparazione agli altri elementi del fatto teatrale, la strada imboccata sarà quella di una critica, una storia o una semiotica dell'atto tea trale, o del teatro in atto, di quella che si potrebbe chiamare la «scrittura scenica» 1, in un ambito di ricerca, perciò, ad assai min_ore stratificazione di indagine e perciò in sostanza a minor definizione metodologica, soggetta a tutti i rischi della «novità », sia pur relativa. La bibliografia sul rapporto tra testo e rappresentazione, sondata del resto di recente in modo esemplare da alcuni studi 2, fornisce un venta�lio assai ampio di posizioni. Tra queste, vorrei qui trattare brevemente di alcune che mi sem_. brano per qualche verso «esemplari», da quella precoce di 24 Carlo Ludovico Ragghianti sulla distinzione tra «teatro di
parola» e « teatro di immagine» e sulla nozione di teatro (e di cinema) come « arte figurativa» 3 a quella assai perso nale e stimolante di Cesare Brandi, che sovrappone la triade del noto triangolo di Ogden e Richards alla triade «realtà testo-messa in scena» 4; da quella di Paola Gullì Pugliatti che riporta l'indagine al testo anche se attraverso una metodolo gia rovesciata che lo postula come unico oggetto di indagine non in quanto atto primario ma in quanto traduzione « meta linguistica» di un progetto scenico che è pre-testuale ma che nel testo stesso si fissa 5, a quella di Umberto Artioli, che vede nella prevalenza accordata correntemente al testo rispetto alla messa in scena la medesima operazione di iscrizione ideologica metafisica che a livello filosofico porta al privile�iamento dello « spirito» rispetto alla « materia », del «dentro» rispetto al «fuori», dell'«anima» rispetto al «corpo» 6, a quella, infine, di Ferruccio Rossi-Landi, che vede nella sopravvalutazione del testo scritto il riflesso di una concezione capitalistica di chi pretende «plusvalore artistico» solo per aver messo il « ca pitale» (il testo, appunto), con la conseguenza di considerare tutti gli altri lavoratori dello spettacolo come subalterni 7• Vediamo di analizzarle, in rapida sintesi, queste cinque po sizioni, che naturalmente intenderei assumere come emblema tiche e non certo esaustive dei contributi al problema 8• Carlo Ludovico Ragghianti, nel saggio Cinema e teatro (1934), richiama il proprio saggio, dell'anno precedente, Cine matografo rigoroso, per coinvolgere nel discorso che va fa cendo sul teatro tutte le argomentazioni addotte a dimostrare come il cinema sia «arte figurativa ». Perché, dice l'autore, non si può distinguere tra cinematografo e teatro, ma solo tra teatro e teatro (p. 114). Attraverso un'analisi delle posi zioni dei vari « rinnovatori » del teatro moderno, Crai�, Appia, Bragaglia, Tairov, ecc., Ragghianti porta il proprio discorso a concludere che, una volta distinti il teatro come spettacolo (che è inteso come il «vero» teatro) e il teatro come dizione dell'opera poetica in sé compiuta, «il linguaggio espressivo caratteristico dell'arte del teatro-spettacolo, in quelle forme in cui la siamo andati indagando, è di natura essenzialmente '. visiva '», per cui « è proprio dire di questo linguaggio, in 25
quanto anch'esso processo costruttivo della visibilità, che è anch'esso un linguaggio 'figurativo'» (p. 124 ). Riunificati quindi il cinema e il teatro-spettacolo alle arti tradizional mente intese come «figurative», come la pittura, Ragghianti sostiene poi che in sostanza il cinema non è che la continua zione del teatro-spettacolo, essendo essi «nelle premesse, come nel percorso e nelle conclusioni, 'identici', assoluta mente della stessa natura» (p. 125). Evidentemente non si tratta qui di accettare le conclusioni del discorso di Ragghianti, né di assumerne le premesse me todologiche, idealisticamente intese a ricercare comunque l'«arte» e a negare perciò ogni differenziazione «tecnica» (con la conseguenza-dell'abbandono di ogni problematica ine rente al fatto linguistico, che qui si ritiene invece come fon dante), ma va comunque rimarcata la considerazione precoce e isolata, del testo letterario solo come uno degli elementi costitutivi dell'opera teatrale (e tanto meglio se esso viene violentato, ·dice l'autore): solo nella «realizzazione scenica» risiede «il reale, autentico valore dell'arte dello spettacolo» (p. 129). Certo, la posizione di Ragghianti risulta alla fine vi -ziata dalla pretesa di ricondurre tutto alla «visività», e da qui alla dimensione dell'« arte figurativa» (come si trattasse dei due termini di un'u�aglianza), ma possiede d'altra parte il merito delle posizioni estreme, di sondare fino in fondo le pos sibilità di una certa ottica di indagine, di una certa ipotesi metodologica, e di sottrarre credibilità alla posizione opposta, in questo caso alla concezione «letteraria» del teatro. La concezione che Cesare Brandi ha del teatro è evidente mente strutturata in modo inscindibile in quel completo si stema estetico generale che l'autore è andato costruendo nel - corso del suo lavoro fino a culminare nella sintesi teorica della Teoria generale della critica, e perciò mal si giustifica un intervento diretto e ristretto sulle poche pagine dedicate specificamente, in quest'opera, al teatro. Ma il mio intento è giustamente quello di tralasciare la sostanza vera del discorso brandiano, tutto giocato sul riconoscimento della particolare natura del teatro, nel quale la «flagranza» della persona è 26 supporto stesso dell'« astanza» dell'opera (per usare la carat-
teristica terminologia brandiana), in cui cioè l'«opacità» fi.. sica, materiale dell'attore si fa in certo senso «trasparente», per dar campo al personaggio portatore di senso in quanto agente a livello di trama. Una volta indicata la fecondità di certe problematiche brandiane, non ancora del tutto intese, mi pare, nella loro utilizzabilità, come quella appunto della preminenza accordata alla trama e a.I personaggio nei con fronti del testo (p. 217) o quella del teatro che «è in atto e solo in quanto è in atto è teatro» (p. 216), il mio intento è solo quello di indicare il rapporto che l'autore vuole instau rare tra testo e rappresentazione. Da un lato Brandi imma gina tra «rappresentazione di un dramma» e «dramma scrit to» la medesima relazione che intercorre tra parole e langue nella dicotomia saussuriana (p. 222): e per questo verso sem bra accordare una certa preminenza statutaria al testo scritto, in quanto langue, cioè in quanto universo di riferimento che, per quanto astratto, è logicamente e .cronologicamente pree sistente all'attualizzazione della parole, qui della rappresenta zione. Ma dall'altro lato, e proprio nell'articolazione del me desimo discorso, con la «subordinazione del testo all'attore», egli rileva un sostanziale spostamento rispetto alla condizione tipica del rapporto langue/parole, ·in quanto nega ogni «con tenuto» a quell'atto di parole specifico che è la rappresenta zione, poiché «quel che conta è la realizzazione a vista della vicenda nella persona dell'attore »: e qui, giusta la sua impo stazione fenomenologica, Brandi pare negare ogni «profon dità» semantica all'atto drammatico, e quindi ogni potenzia lità di rimando sostanziale al testo scritto, «appunto perché la funzione dell'attore non è di portare un messaggio ma di impersonare una vicenda» 9• La sostanza fenomenologica del discorso brandiano, in ul tima analisi, sembra porlo in certo senso al riparo dai traboc chetti in cui l'equazione «testo: rappresentazione = langue: parole» e il successivo parallelismo triadico tra «referente/ significato/significante» e «azione scenica/testo/rappresenta zione» (p. 225) potrebbero farlo cadere. Non è un caso, allora, che Brandi sottoponga, nel corso di tutto il testo, a una critica rigorosa ogni progetto «realistico» di teatro (dal natura- 27
lismo di ascendenza ottocentesca alle operazioni di tante avan guardie), proprio perché il «realismo », nelle accezioni cor renti e anche le meno volgari 10, è sempre un'operazione di retta di rimando alla «realtà», il luogo della apparentemente più immediata « referenzialità» (cioè appunto del rinvio di retto alla realtà esterna all'operazione estetica che si viene compiendo), o almeno della referenzialitàprogrammaticamente perseguita. Proclamare che il teatro «è » (è tale solo quando è «in atto ») in luogo di sostenere che il teatro «si�nifica », cioè esprime contenuti che come tali devono sempre essere paragonati e verificati in rapporto al testo o alla «realtà», vuol già dire in buona misura negare quella sostanziale di pendenza logica che è propria del rapporto langue/ parole. Che il discorso di Brandi passi direttamente attraverso la fenome nologia è evidentemente un fatto non secondario, ma non do vrebbe apparire una forzatura indicare nel ruolo che Brandi assegna al personaggio, nella priorità che gli assegna rispetto al testo, la risoluzione della dicotomia langue/parole, nel senso di indicare nell'agente, nel portatore di un discorso che non è pura attualizzazione di potenzialità preesistenti (così il rap porto langue/parole) e neppure pura entità se�nica, «signi· ficante » di un significato che è da reperire altrove, nel testo o nella realtà, il fulcro dell'attività teatrale e in genere di ogni attività estetica (ed è una problematica che più avanti cer cherò di approfondire e di meglio definire). Anche delle tesi di Paola Gullì Pugliatti sfiorerò appena la diretta pertinenza, che è da un lato in uno studio sul King Lear e dall'altro nel reperimento delle virtualità rappresenta tive, nelle indicazioni di messa in scena, che già sarebbero pre senti nella scrittura stessa del testo, e non solo evidentemente nel King Lear. Per l'autrice, l'analisi anche semiotica del tea tro non può darsi se non sul testo (v. le sue critiche alle varie ipotesi di trascrizione dell'evento teatrale per mezzo di pelli cola o nastro, pp. 34-36), non visto però come oggetto lettera rio bensì proprio come «oggetto semiotico privilegiato» (p. 80), che riesce ad essere esaustivo per la sua condizione che è, sì, di fatto anteriore all'accadimento teatrale, ma in sostanza di 28 « trascrizione metalinguistica di un progetto di scrittura sce-
nica» (p. 58) preesistente ad esso: il testo perciò non sarebbe che la traduzione verbale di un progetto di rappresentazione che l'autore non ha potuto in altro modo fissare, «scrivere» durevolmente. Anche nel caso della Gullì Pugliatti, le tre no zioni messe in gioco: sintesi pretestuale (cioè progetto origi nario di rappresentazione), trascrizione metalinguistica di quella sintesi (cioè testo scritto) e ricezione della trascrizione della sintesi nella sua concreta realizzazione scenica (cioè ope razione di rappresentazione vera e propria, in teatro), intrat tengono un rapporto che è analogo a quello della tripartizione di Ogden e Richards 11, soprattutto per il rapporto di implica zione diretta che si dà tra il progetto originario e il testo e tra quest'ultimo e la rappresentazione, che è rapporto che po stula appunto il vertice alto del triangolo (il testo, qui, come presso Ogden e Richards il «pensiero o riferimento », cioè il significato) come tramite necessario dell'attività di comunica zione. L'autrice non cita il triangolo di Ogden e Richards a pre cedente metodologico del proprio, che tuttavia è, anche grafi camente, identico, ma appare evidente che l'iscrizione ideologica entro cui le due posizioni si situano è la medesima, all'in terno dunque di un idealismo di fondo che contrappone spirito e materia, privilegiando in senso logico il primo termine e facendone comunque l'ineliminabile e l'indispensabile pre supposto per qualsiasi accostamento al secondo. La riprova di questa iscrizione ideologica precisa si ha quando (p. 25) la Gullì Pugliatti, esponendo e commentando la posizione di Souriau 12, dopo aver constatato che per l'autore francese l'open\ letteraria scritta per la scena ha bisogno, per vivere, della «materializzazione scenica, limitata proprio in quanto mate riale, ma che può sollevarsi dalla sua imperfezione in quanto essa suggerisce (o può suggerire?) ciò che può essere (o deve essere?) immaginato», conclude che «è dunque la possibilità allusiva della scena a guarire la propria materialità, e a riman dare a ciò che tale materialità sottende, e che ha bisogno di un tramite per essere ricomposto mentalmente» (i corsivi sono dell'autrice, ma sottolineano proprio i punti chiave per indicare l'iscrizione ideolo�ica). Pur con la riserva che la Gullì Pugliatti sta esponendo posizioni altrui, mi pare, e tutto il 29
contesto del resto induce a confermarlo, che l'autrice sostan zialmente conforti questa interpretazione, questa concezione della materialità come malattia da«guarire» e correlatamente del testo (inteso quindi come non materiale) indispensabile «tramite» per una·«ricomposizione mentale», quindi ancora non materiale, dell'unità e della non-limitatezza che con la rea lizzazione era andata perduta. D'altra parte mi pare, ma non vorrei forzare eccessiva mente una posizione che l'autrice appena sfiora, che la Gullì Pugliatti privilegi in modo eccessivo l'asse «narrativo » del te sto � dell'avvenimento teatrale, da un lato quando (p. 55) af ferma che la lettura di ogni opera drammatica, «come qual siasi opera genericamente narrativa», è in gran parte orien tata dal récit filmico, e dall'altro quando (p. 77) indica i con notati dell'«azione drammatica» in un «progresso senza so luzione di continuità», pur con l'avvertenza che «progresso» non è da intendersi in senso temporale ma come una «strut tura di causalità e di interrelazione (asse paradigmatico)». Come se, in un caso, il film dovesse essere passibile solo di una lettura « narrativa» 13, e, nell'altro, il piano paradigma tico di un evento teatrale (contrapposto all'asse sintagmatico, dato dal « meccanico progredire della trama», p. 76) potesse darsi solo come«motivazione funzionale della saldatura entro la trama strutturata dei significati» (p. 76): e qui parrebbe di capire che per l'autrice, sul piano narrativo, l'asse sintagma tico va posto al livello dell'intreccio e l'asse paradigmatico va posto a livello della «fabula», per seguire la terminologia di Tomasevskij 14• Ma, naturalmente, al di là di queste impostazioni metodo logicamente non accettabili 15, il discorso della studiosa è ricco di implicazioni interessanti in vista di ricerche future, come rilevava anche Umberto Eco in ·una recensione al libro 16, e che risiedono soprattutto, a mio avviso, nell'ipotesi del testo scritto da vedersi non come « monodico o lineare», ma ap punto come « messaggio in quanto ipotesi di azione» (p. 80), che già possiede, a livello latente (come infatti sottolinea il titolo del saggio), indicazioni, seppur trascritte in un codice 30 letterario, che implicano codici non letterari.
Umberto Artioli analizza direttamente e teoricamente i rap porti tra teatro e letteratura, impostando lucidamente il pro blema in termini ideologici che denunciano un immediato de bito nei confronti delle teorizzazioni di Jacques Derrida 17 , pur stranamente non citato nel saggio. Il discorso di Artioli, infat ti, già dall'inizio, nel dar conto della « priorità assiologica » (p. 570), cioè in termini di valore, attribuita correntemente al testo drammaturgico rispetto alla sua spettacolarizzazione, ricalca da vicino quello derrideiano sul rapporto tra signifi cante e significato nella tradizione saussuriana e sul rapporto derivato tra lingua verbale e scrittura. Dice anche Artioli: « so stenere la sovranità del Logos - tanto più pura quanto meno incrostata di materialità... - significa accreditare il teatro del vecchio apriori occidentale secondo cui lo Spirituale sarebbe statutariamente superiore al Fisico, l'Anima al Corpo, il Con cetto e l'Idea all'apparato percettivo-sensoriale », il che « vuol dire in definitiva far solidarizzare una certa concezione del tea tro con i presupposti della metafisica d'occidente». E paralle lamente, nella concezione di Derrida, la scrittura viene comu nemente intesa dalla filosofia come una sorta di .perversione della parola, e in Artioli la visività della rappresentazione è intesa, per la corrente concezione del teatro, non solo come qualcosa di accidentale e di aggiuntivo, « ma addirittura come la perversione del vero teatro » (p. 573 ). E questo proprio per ché la parola, come già Derrida aveva derivato da Platone e da tutta la filosofia occidentale, è sentita come entità la meno compromessa con la materialità dal « qua giù» sensibile, e per questo più vicina all'Idea, allo Spirito. A questa « visione letteraria del teatro », criticata analiti camente sulla base di questi postulati metodologici, l'autore contrappone evidentemente la teorizzazione e la prassi di certo teatro contemporaneo, soprattutto del filone che parte da Ar taud, inteso come punto di discrimine per il capovolgimento dell'opposizione idea/sensorialità, come punto di partenza di una concezione che privilegi « l'hic et nunc della presenza vi vente contro l'ossessione della distanza e della separatezza » (p. 577), i valori della presentificazione contro quelli dell'eter31 nità.
Pur nei limiti programmatici di una breve e puramente « teorica» analisi del rapporto tra teatro e letteratura, o, me glio, tra teatralità e letterarietà, tra materialità della rappre sentazione (o della«presentificazione», com'e�li. mi pare, sug gerisce) ed idealità del testo, il discorso di Artioli ci interessa proprio per la esemplarità con cui indica l'iscrizione ideolo gica della concezione tradizionale, ed ancora corrente, della priorità, o comunque della «esemplarità» a livello di analisi, del testo scritto 18• L'autore non misura in specifico la propria trattazione con le varie posizioni sul problema, che d'altro canto ingloba indistintamente e in certo senso non corretta mente nella « visione letteraria del teatro», ma le sue consi derazioni possono porsi a contraddittorio delle concezioni che qui si sono volute rappresentare, pur se il saggio ha una sua specificità particolare, in Paola Gullì Pugliatti. La mediazione, l'opera di«tramite» che si vuole assegnare al testo scritto nei confronti della materialità troppo scoperta dell'atto teatrale, di quella «corporeità» teatrale cui fu dedicato nel 1970 un importante numero de Il portico 19, rivela evidente la sua ma trice nel logocentrismo della nostra tradizione culturale, nella posizione di centralità appunto assegnata in essa alla parola, e si segna ideologicamente all'interno di questo campo. Ma c'è un altro punto che mi pare fondamentale nel sag gio di Artioli, cui vorrei qui solo accennare in vista di un mag gior approfondimento più avanti, e cioè l'introduzione, in luogo del consueto concetto di «rappresentazione», della nozione di «presentificazione », come egli la chiama (p. 578), che meglio serve a sfuggire a quella dipendenza, cronologica ma anche in certo senso statutaria, nei confronti di un testo o comunque di qualcosa di preesistente che si rappresenta (ri-presenta). Il breve testo di Ferruccio Rossi-Landi su cui vorrei pun tare infine l'attenzione mi pare di rilevanza fondamentale, pur nella sua relativa asistematicità, proprio nell'indagine dei rap porti tra testo e «procedimento teatrale ,., come egli lo chia ma. Proprio per questa importanza del saggio, stupisce non poco il non vederlo incluso nelle bibliografie ragionate cui si è fatto cenno ed il saperlo quasi assente dal contesto del di32 battito specifico sulla semiotica del teatro: la Gullì Pugliatti,
ad esempio, lo cita brevemente ma senza coglierne, credo, le sollecitazioni più pertinenti. Da un lato, ma non è questo l'aspetto che specificamente qui interessa, Rossi-Landi opera una interessante applicazione del metodo dialettico alle teorizzazioni e alla pratica del teatro d'avanguardia; dall'altro tenta una brevissima formulazione delle modalità di articolazione del «procedimento teatrale», cioè delle diverse azioni, interessanti codici diversi, che diven gono fatto teatrale. L'intento è, anche in questo caso, quello di contestare la supremazia, in qualsiasi modo intesa, del testo scritto, e il metodo è quello di rinunciare a tutti gli «ele menti» che costituiscono l'atto teatrale, elementi comune mente pensati come esistenti in modo autonomo nella realtà sociale e quindi come preesistenti all'evento teatrale stesso. Questi «elementi» sono naturalmente il «testo scritto», la «scena», il « teatro », gli «attori », il «regista», i vari «tec nici», il « pubblico », la « platea », per cui fare teatro, nella concezione corrente, non vuol dire altro che mettere assieme, assemblare questi elementi (e nelle diversità delle metodo logie di assemblamento, nelle «riduzioni » che subiranno al cuni elementi a scapito di altri, saranno da vedere i fattori discriminanti di un certo teatro rispetto ad un altro: così il teatro di traduzione potrà privilegiare gli attori e la nuova avanguardia il regista, un teatro naturalistico la scena e un teatro didattico il pubblico, ecc.). Questa concezione, scrive Rossi-Landi, è completamente da rigettare proprio in quanto presuppone questi «elementi», relegando il «procedimento» alla funzione secondaria e sostanzialmente ancillare dell'as semblaggio, il quale, al più, può svolgere un ruolo «vivifica tore», tale da porre quegli elementi, da potenziali, in atto. Mentre invece è proprio il «procedimento» che è primario, costitutivo, ed è a quel livello e a quel momento che occorre evidenziare l'attività di produzione di senso: solo secondaria mente (secondariamente a livello di analisi, evidentemente) si può articolare il procedimento in «momenti tecnologici»; cui possiamo, volendo, dare la medesima denominazione che la concezione tradizionale dà agli «elementi» (testo, scena, attori, reg.ista, ecc.), ma la cui funzione, in questa prospettiva, 33
si rivela del tutto diversa, nel procedimento, da quelle che si presupponeva essi avessero come elementi preesistenti ad esso (p. 52). Pur se le matrici culturali sono evidentemente diverse, nel senso almeno che Rossi-Landi non passa attraverso la trami tazione della scuola francese intorno a Derrida e Sollers, par di avvertire un'affinità metodologica di fondo col discorso di Umberto Artioli, soprattutto nel ruolo attribuito alla « scrit tura scenica» (la « presentificazione » dell'uno e il « procedi mento» dell'altro), che è ruolo attivo di produzione di senso e non puramente veicolatore, di trascrizione, è luogo effettivo dell'accadimento e non luogo della rappresentazione-ripresen tazione di qualcosa che possiede il suo senso pieno prima o comunque « altrove •· E, in più, in Rossi-Landi si trova un esplicito dimensionamento del discorso in senso marxista, che gli consente di collocare a livello più generale la sua conce zione sul teatro, in un passo che mi pare utile riportare in tegralmente: « In talune sopravvalutazioni letterarie del co pione-come-testo-scritto si esprime oggi ancora una conce zione borghese e meritocratica del ruolo dello scrittore. Dello scrittore, cioè associato alla classe dominante nel diritto di adoperare strumentalmente il lavoro altrui, di pretendere che una macchina sociale si metta a funzionare e gli frutti un plus valore artistico solo perché lui arreca il capitale del suo scritto. Secondo questa concezione, tutti gli altri lavoratori dello spet tacolo apparterrebbero a classi subalterne» (p. 50). La fecondità metodologica di questo passo mi pare assai ri levante. Da un lato la formulazione del problema nei termini dell'economia politica, in una direzione di ricerca di cui tra l'altro Rossi-Landi è uno dei pionieri e verso la quale si sono indirizzate alcune delle recenti ricerche francesi 20, contribui sce notevolmente a disvelare l'ambito ideologico entro cui le concezioni correnti del teatro si iscrivono: il capitale, il de naro, come sostiene Goux 21 , non può che essere il linguaggio verbale, perché è questo, esattamente come il ·denaro, che è istituito a misura di valore, in quanto è inteso come traduci bile in ogni altro linguaggio (o meglio : ogni altro linguaggio 34 è traducibile in linguaggio verbale), ed è perciò, in sostanza,
garante del « valore di scambio semantico,. de�li altri codici, permette cioè che essi « abbiano corso» a livello di comuni cazione, di produzione di significato. Dall'altro lato, poi, è sen z'altro possibile allargare il campo dell' indicazione di Rossi Landi, per intendere che non solo tutti gli altri lavoratori dello spettacolo sono subalterni ali'« autore» del testo, ma è ogni altra forma di spettacolo che non sia quella costituita da una preminenza del testo scritto ad essere considerata su balterna: e si pensi solo a quanto è inteso nella storia del teatro, come « teatro popolare» (cioè quindi, in questa acce• zione, subalterno), dal teatro di maschere al teatro di bu rattini. 2. La
«
rappresenta-i.ione
»
come senso differito.
A questo punto del discorso si impone evidentemente una formulazione meno episodica e meno indiretta del problema della« rappresentazione», un problema che evidentemente tra scende l'ambito specifico del teatro, per interessare almeno anche il cinema, la letteratura, l'arte figurativa, sia pure con modalità differenti. , Come già si è accennato, la nozione di « rappresentazio ne », che non si discosta troppo dal rapporto tra testo e rea lizzazione, sin qui analizzato, ma che naturalmente non vi si sovrappone, implica un valore connotato di ri-presentazione, di atto ripetitivo (ricostitutivo) e cronologicamente succes sivo ad un altro, che è· inteso come originario e dotato di quel « senso pieno» che, per così dire, trapassa nella ri-pre sentazione. Consideriamo brevemente che cosa significhi, nel senso comune ma anche nelle teorizzazioni coscienti, « rap presentare» un'azione, un personaggio, un gesto. Prendiamo un esempio anche non teatrale, esemplifichiamo sulla pittura, su• David che dipinge Il giuramento degli Orazi oppure Dela croix che dipinge La libertà guida il popolo. La dimensione « rappresentativa» dei due quadri è diversa (per non parlare della diversità della dimensione storica, culturale o linguisti ca): nel primo caso è un momento storico, o supposto tale, che viene raffigurato, mentre nel secondo è una condizione, al-
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legorica, che viene significata. Ma le modalità generali del fun zionamento della comunicazione sono le medesime: figure che ricevono significazioni aggiuntive dall'opera di contestua lizzazione e di connotazione di elementi quali il vestiario, l'am biente, gli atteggiamenti, la posizione reciproca degli agenti. Così il quadro di David, che a quel livello che Panofsky defi nisce pre-iconografico 22, designa solo un gruppo di tre uomini a sinistra, un uomo con tre spade al centro e un gruppo di tre donne con bambini a destra, si precisa iconograficamente co me una scena di ambientazione romana e iconologicamente come una scena di giuramento (le braccia tese dei tre guerrie,. ri) congiunta a una scena di dolore (l'atteggiamento delle don ne a destra, le famiglie degli Orazi). Così anche il quadro di De lacroix si dimensiona e si specifica storicamente e iconologica mente per opera di elementi come la foggia degli abiti e delle divise, il tricolore impugnato dalla figura di donna, il suo at teggiamento perentorio e battagliero. Dove sta allora il « sen so» delle due opere? Non sta forse nella pretesa di aver «fer mato» due attimi (due «istanti pregnanti», come dice Bar thes 23) e di averli « restituiti», «riportati», «riprodotti », cioè «prodotti di nuovo», a somiglianza dei primi? Se è que sto il funzionamento della « rappresentazione» di tipo pitto rico (e ho qui scelto appositamente due quadri «realistici» perché il discorso risultasse più agevolmente comprensibile, ma la metodologia potrebbe applicarsi anche, almeno per l'aspetto che qui ci interessa, ad un quadro cubista, ad esem pio), è necessario allora provare a smontarlo, ad indagarlo. Da un lato si è visto come i quadri acquistino «significati» da elementi che, pur ovviamente interni ad essi, ne portano, per così dire, la significazione al di fuori : gli elmi romani o il copricapo a cilindro, che sono elementi di contestualizza zione storica (ed eventualmente anche di caratterizzazione so ciale) e che quindi acquistano senso pieno, per poi «ripor tarlo» nel quadro, solo se confrontati, verificati, con le imma gini che abbiamo o crediamo di avere di quegli stessi capi di vestiario nella realtà storica; oppure le braccia tese («se�o» del giuramento) o l'abbigliamento e l'atteggiamento della don• 36 na-libertà (atteggiamento «retorico» in contrasto con quello
«realistico» degli altri personaggi, e perciò concettualmente e iconologicamente significante un'entità astratta e non sto ricamente determinata come la «Libertà»), che rendono que sta volta pertinenti elementi «culturali» ma anch'essi ugual mente esterni al quadro e in esso appunto «riportati», «rap presentati». Dall'altro lato, fondamentalmente, costitutiva mente direi, la rappresentazione abdica ad una propria pie nezza di senso e rimanda ad un evento precedente, che sia storico o puramente concettuale poco importa, nel quale trova la propria significazione. Il «senso ,. di una rappresentazione sta in sostanza «altrove», un altrove che si dà anche come « prima » e che si situa nella dimensione storica o in quella concettuale, o anche in quella del «futuribile» (come nelle opere di fantascienza) o dell'inconscio (come in tanta produ zione surrealistica). I due quadri che forniscono il nostro esem pio, allora, acquistano senso perché sono pensati come sovrap posti a questa situazione analoga, che si è data altrove e che, sola, li dimensiona, li rende « credibili», li fornisce di senso (e non è qui. naturalmente, questione di verisimi�anza o di «realismo», ma proprio di costituzione di senso). Facciamo brevemente anche il caso della letteratura, di una letteratura sempre «rappresentativa » come il romanzo di tra dizione «naturalistica », per notare come il processo di fonda zione del senso sia il medesimo: I promessi sposi riproduce, nella propria strutturazione narrativa, eventi e situazioni sto riche ed effettive che acquistano senso solo se pensati altrove, nella dimensione storica seicentesca, nella dimensione della dipendenza sodale nei rapporti tra le classi, nella dimensione cristiana della considerazione della vita, nella dimensione te leologica della considerazione delle vicende umane e dei rap porti interpersonali. Anche nel caso di un'opera non «reali stica», o meglio non referenziale, la pienezza di senso può stare ugualmente «altrove », sul piano dell'immaginario poniamo, come nei romanzi di Calvino, ma ancora non nella scrittura. E questo proprio perché, nel momento in cui la scrittura sce glie di «rappresentare», di farsi cioè riproduttrice di «altro», allontana con ciò stesso il proprio senso e si costituisce solo come rimando.
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È ora il caso, prima di misurare la nozione di rappresen tazione all'ambito che ci è pertinente, quello del teatro, di sot toporre a critica le considerazioni sin qui svolte. Innanzi tutto bisogna naturalmente intendere che, anche se si è parlato di teatro, cinema, letteratura, pittura come banchi di prova della nozione di « rappresentazione», non necessariamente ogni uso di questi mezzi deve essere necessariamente « rappresenta tivo», al più potendosi sostenere che, storicamente, lo è stato per gran parte delle manifestazioni pittoriche, letterarie, tea trali, cinematografiche. Ma soprattutto è da considerare che la nozione di «rappresentazione» assunta ad esaurire il fun zionamento linguistico e le valenze culturali di un'opera pit torica o letteraria è con tutta evidenza assai carente. Si provi solo a pensare che nelle brevi analisi fatte dei quadri di De lacroix e di David e del romanzo di Manzoni non ha trovato assolutamente posto ogni considerazione di carattere lata mente estetico, linguistico, formale, strutturale. Quel che la nozione di «rappresentazione» riusciva solo ad abbracciare era la hjelmsleviana sostanza del contenuto 24, e il « senso» che essa appunto differiva era solo da intendersi in questa accezione macro-semantica. Quel che si perdeva era esatta mente la pertinenza estetica e linguistica delle opere, l'opera zione specifica e strutturante della «messa in forma» di que sta sostanza, il lavoro, specifico, n.on suscettibile di differi mento ad «altro», della produzione linguistica, della produ• zione di segni che, nella loro materialità, non possono essere rimossi. E infatti, nel campo delle arti figurative o della let teratura, mai si sono proposte letture sulla base della sola « rappresentazione», se non in un'ottica volgarmente conte nutistica, ed anche in questi casi in maniera solo parziale. Ma allora perché, verrebbe da chiedersi, questa nozione che ha così scarso peso in altri. ambiti estetici, dove pure, come si è visto, sarebbe a pieno diritto applicabile ed anzi potrebbe- indicare il funzionamento strutturante di gran parte delle operazioni, trova nel campo del teatro un così fertile terreno di applicazione? Bisogna forse concludere che il mec canismo di produzione di senso del teatro (e del cinema) è 38 statutariamente diverso da quello della pittura e della lettera-
tura? Oppure è più pertinente ipotizzare un « ritardo teo rico» della critica e della teoria teatrale? Roland Barthes, nel saggio cui già si è fatto cenno, acco muna teatro, cinema, letteratura e pittura (contrapposte alla musica) nella definizione di « arti diottriche», dove chiara mente quell'aggettivo, « diottriche», va ricondotto alla sua matrice etimologica di « vedere attraverso ». Con. la pittura, la letteratura, il teatro e il cinema, dunque, « si vede attra verso», cioè si vede in trasparenza, al di là dell'opera, qual cosa d'altro, cioè il fatto, il gesto, il personaggio che viene rap presentato. Ed è questo « rappresentato», anzi, che si dà pri mariamente, ed è in sua funzione che si costituisce anzi l'ope ra, il cui funzionamento è ridotto a quello di vetro traspa rente, o di lente, « attraverso cui» si vede. Naturalmente, an che per Barthes, l'operazione che costituisce questa opera-vetro attraverso cui si guarda è esattamente un'operazione di « rap presentazione », che appunto nel momento in cui si istituisce come strumento trasparente, attraverso cui far vedere, si nega. essa stessa alla visibilità, tenta di nascondere e di rimuovere la propria materialità: il vetro della finestra permette di ve dere fuori solo se non si fa vedere esso stesso, perché nel mo mento in cui si percepisce il vetro, si «vede» la sua mate rialità (perché vetro smeri!?iliato, o appannato, o sporco, ecc.), non si può più vedere fuori. D'altra parte la metafora implicita nell'aggettivo « diottrico » è la medesima che presiede alla concezione tradizionale del cinema come finestra aperta sul (o specchio del) mondo, che fonda cioè l'operazione linguistica sulla transitività, servita da un mezzo che sia appunto il più invisibile possibile (come il vetro o la lente) proprio per per mettere e ancor più indurre a vedere oltre 25• Allora, se è accettabile il discorso di Barthes (e mi pare che, in questa prospettiva, Io sia), e cioè se è vero che, sotto l'aspetto del fondamento primario della propria costituzione, la pittura, la letteratura, il teatro e il cinema sono perfetta mente accomunabili, che cosa costituisce la differenza del teatro e del cinema, dove è la specificità che ne fa le «arti» o le espressioni estetiche più« rappresentative»? Potrebbe essere la questione spesso dibattuta del «tempo», ma il tempo, 39
sia come durata sia come estrinsecazione oggettivata di un processo o di un itinerario, è fattore comune anche alla lettera tura e per certi aspetti anche alla pittura, né basta a farne un fattore determinante il fatto che in questi ambiti è con cessa al fruitore una maggiore libertà di regolarsi i propri ritmi di lettura di fronte al procedere rigido e predetermi nato del teatro e del cinema. E neppure può essere la discri minante la narratività, la struttura di racconto (e il racconto· è sempre, infatti, rappresentazione) che quasi sempre informa il film o l'opera teatrale, dato che questo è fattore comune anche all'opera letteraria narrativa ed anche, per certi versi, alla pittura, nel senso almeno che anche un quadro, quanto rappresenta, insieme anche racconta. Assai più pertinente mi pare invece l'ambito di discorso in cui ci porta Christian Metz con le sue considerazioni sulla sensazione di realtà al cinema, considerazioni che credo pos sano estendersi anche al teatro. Indagando appunto su questa « impressione di realtà », che al cinema è assai maggiore che non di fronte a una fotografia (che pure è già un mezzo di solito inteso come fortemente «realistico"• e che per di più è il precedente e la base tecnica del film), Metz arriva alla conclusione che l'elemento discriminante e determinante è il movimento: la fotografia, cioè, è sempre intesa come la traccia di qualcosa che « c'è stato ", come il � resto », il se�o di un ,passato, mentre il movimento è sempre avvertito come pre sente, ed è perciò il movimento che rende presente e dunque più « realistico ,. il cinema :u._ La rappresentaziane del movi mento, al cinema e a teatro, è movimento essa stessa, e già questa è una condizione che lega in maniera assai più stretta la rappresentazione e il rappresentato. Ma ancor più rilevante è il fatto che a teatro e al cinema l'universo diegetico, cioè il mondo rappresentato, assume un ruolo assai più invadente che in qualsiasi altro linguaggio, sia appunto per questa presentificazione che il movimento (e, a teatro, la fisicità stessa degli attori e delle scene) gli forni sce, sia perché la strutturazione stessa, anche linguistica, del l'opera è in misura massiccia indotta dal ritmo e dalla strut40 tura del piano diegetico: è la storia che si racconta, è il gesto
che si rappresenta, a imporre i ritmi dell'azione, il tempo (du rata e itinerario) della rappresentazione, assai più di quanto il soggetto non comporti costrizioni ai mezzi linguistici del pit tore o un'azione da descrivere a quelli dello scrittore. C'è tuttavia anche un'altra connotazione nella nozione di «rappresentazione», ed è quella che del resto Barthes pone a elemento costitutivo della rappresentazione in sé, cioè il fatto che essa presupponga sempre un punto di vista. Scrive Barthes: «Le théatre est bien en effet cette pratique qui cal cule la piace regardée des choses : si je mets le spectacle ici, le spectateur verra cela; ... la scène est bien cette ligne qui vient barrer le faisceau optique, dessinant le terme et camme le front de son épanouissement» (p. 185). La linea della ri balta costituisce appunto una linea di demarcazione, un punto da cui si innalza un diaframma (trasparente) che separa il soggetto che vede, il «per cui » e « in funzione di cui » è stata approntata la rappresentazione, da quelli che agiscono e che «rappresentano» n_ Con l'avvertenza che si tratta di una me• tafora, si potrebbe tranquillamente dire che tutto quanto av viene sulla scena, tutti i « gesti» prodotti in essa, sono come destinati ad essere proiettati su questo schermo che occupa il boccascena. Si ottiene così una sorta di e neutralizzazione » di ogni produttività, di ogni atto di produzione di senso che si è dato e si è reso visibile sulla scena, di quella presentifica zione che pur si è prodotta davanti agli spettatori, per dar luogo invece, con questa «proiezione » smaterializzante, alla costituzione di pure entità segniche, che entrano così nel gioco di quel rimando ad «altrove» che costituisce appunto la rap presentazione e di cui già si è parlato. In _questa accezione, dunque, la rappresentazione presuppone due momenti e due processi: da un lato la costituzione ad artificialità della realtà da riprodurre e del proprio procedimento stesso di riprodu zione, in vista di una visione «piazzata», e découpée • nella terminologia barthesiana (il «mettere in posa• il modello del pittore o del fotografo, la e messa in scena• del teatro e del cinema); dall'altro la «neutralizzazione• di questa artifi• cialità (artificialità presuppone produzione di senso, proprio perché presuppone un intervento codificatore, il ricorso ap- 41
punto ad un codice) con una sorta di proiezione che rimuova il lavoro che l'ha prodotta e si renda invece trasparente, puro schermo «diottrico» verso un piano diegetico; verso una realtà rappresentata che come tale non è appunto in scena ma « al trove». E siamo qui al nodo, mi pare, della rappresentazione come differimento, come «différance» nella terminologia derrideia na 28, cioè in sostanza come rimozione e come alienazione del lavoro, specifico, di produzione 29• Per chiarire ulteriormente, consideriamo ciò che mi pare primario, a teatro, e cioè il ge sto, con l'avvertenza di intendere che per me, in questa acce zione, tutto quanto si dà sulla scena è «gesto», anche le bat tute di dialogo, anche i colpi di luce, anche lo spostamento o addirittura l'immobilità degli oggetti di scena 30• E in questa dimensione mi pare utile analizzare brevemente un interes sante contributo di Julia Kristeva, Le geste, pratique ou com� munication? 31• All'analisi della gestualità, scrive l'autrice, non è possibile accostarsi con gli stessi strumenti della linguistica o comunque di una semiotica di derivazione linguistica, perché il gesto sfugge sostanzialmente a determinazioni in termini di «significazione », con le correlate dicotomie che questa nozione comporta, significante/significato, idea/parola, ecc.; ed anzi una corretta valutazione del funzionamento della gestualità po trebbe riverberare le proprie conclusioni anche a livello di se miotica generale, per rifondarla su altre basi. Evidentemente, ammette la Kristeva, anche il gesto trasmette un messaggio, almeno all'interno dì un contesto dato, ma più che questo messaggio già costituito, il gesto «è» l'elaborazione di questo messaggio, è il lavoro che determina la costituzione del se�o e del senso della comunicazione. Il gesto, assai più della pa rola e dell'immagine, è suscettibile di analisi come «producti vi té antérieure au produit, donc antérieure à la représenta tion comme phénomène de signification dans le circuit com municatif ... comme un activité antérieure au message repré senté et représentable» (p. 93). E ciò anche in considerazione del fatto che prima (spazialmente e logicamente, non �erto cronologicamente) di porsi eventualmente come significazione, 42 il gesto è operatore di una pratica di «designazione», cioè è
un gesto che «mostra» non per significare ma per inglo bare nel medesimo spazio, quindi nel medesimo «testo se miotico», sia il «soggetto» che l'«oggetto» che la «pratica», di modo che la sua funzione di base, anziché significativa, è appunto «anaforica» (pp. 95-96). Naturalmente ho vistosa mente semplificato il discorso della Kristeva 32, ma l'intento era solo quello di assumerne elementi metodologici utili alla trat tazione che si va qui facendo. E il punto, ora, mi sembra suf ficientemente chiaro: è possibile (necessario, dice la stuffiosa francese) analizzare il gesto indipendentemente o comunque anteriormente alla sua opera eventuale di significazione, ed accostarlo invece come «produzione», come «lavoro». Ogni altra attività discorsiva, anzi, implicitamente suggerisce l'au• trice, dovrebbe essere considerata sotto questo riguardo 33• Ma limitiamoci qui al gesto, al gesto in senso lato come si diceva, quale si dà nella pratica teatrale. Intendere questo ge sto come «rappresentativo», ripetitivo nei confronti di un «altro» gesto pensato nella realtà, vuol dire esattamente ren derlo trasparente, privarlo della propria materialità per farne un segno, non materiale, che entra in un processo di circola zione segnica che censura, rimuove ogni attività di produ zione. Ed è da intendere che l'accezione in cui vanno presi ter mini come «lavoro », «produzione», «alienazione», è esatta mente quella marxiana. Si ipotizza cioè che esista una solida rietà sostanziale tra l'organizzazione capitalistica del lavoro, coi fenomeni di alienazione e di rimozione del «lavoro» dal manufatto finito, che deve porsi solo in senso transitivo per il valore di scambio che viene ad assumere, e la concezione tra dizionale del teatro (e del cinema e della pittura e della lette ratura) come «rappresentazione», cioè come operazione che censura la propria produzione per farsi solo rimando ad altro, in modo che su questo «altro» (cioè qui sul referente reale) si costituisca il suo «valore», così come avviene nel rapporto della merce col denaro. Ma, come già accennavo, altrove ho trattato con sufficiente ampiezza questo punto, sia pur con specifico riguardo al cinema, per cui non mi pare utile dilun garmi in questa sede.
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3. Dalla « rappresentazione » alla produzione di senso. Apparirà ancor più chiaramente ora come non si possa assolutamente ammettere una dipendenza dell'azione scenica dal testo scritto, e come anzi questa dipendenza, quando venga postulata, si inserisca in una costellazione solidale di nozioni e di processi che inglobano la concezione metafisica della no stra tradizione culturale (opposizione tra spirito e materia, tra '5:nima e corpo, tra intelligibile e sensibile), la struttura capitalistica dell'economia (alienazione del lavoro, rimozione dell'attività di produzione, divaricazione tra valore d'uso e valore di scambio 34) e la subo.rdinazione di ogni discorso, di ogni attività comunicativa al linguaggio verbale. In quest'ul tima prospettiva, e rimando qui ai lavori di Jean-Joseph Goux 35, il linguaggio verbale ha sempre costituito, anche se a livello spesso non cosciente, una sorta di equivalente di ciò che il denaro è in economia, cioè unità di misura, schema astratto, non materiale (anche se ovviamente materiale nella sua fisicità, ma di fatto non materiale come modello di rife rimento}, su cui fondare il « valore di scambio», cioè la pos sibilità di scambio comunicativo degli altri codici. I valori, i messaggi strutturati in codici diversi da quello linguistico en trano in circolazione, « hanno corso», solo in quanto sono pen sati come traducibili in linguaggio verbale, che è privHegiato proprio per il suo statuto, rilevato in chiaro da Derrida, so stanzialmente solidale alla visione metafisica della tradizione occidentale perché fondato dall'opposizione dentro/fuori, ani ma/corpo, intelligibile/sensibile e, proprio per questo, con uno scarto logico a favore del primo termine. Ed è appunto in questo universo di discorso, qui d'altro canto appena trat teggiato, che si colloca la concezione della dipendenza della realizzazione teatrale dal testo scritto, dei codici non lingui stici che si manifestano neH'accadimento teatrale dal codice lin�stico 36• Ma, come si diceva, la problematica che. si incentra sulla nozione di « rappresentazione » non si esaurisce evidentemente nel rimando da realizzazione a testo, e si gioca ancora al di 44 qua di quel rimando, nel rapporto tra « rappresentazione» e
«rappresentato ». Impostato il problema in questi termini, il rapporto tra « rappresentazione » e « rappresentato » non può che configurarsi come analogo a quello tra significante e significato, con la conseguenza di far rientrare il discorso nella iscrizione ideologica che sopra si sottoponeva a critica. Ve• dere insomma l'atto che sulla scena si produce come rimando. segno,«espressione » dell'universo diegetico che gli sta dietro e che in sostanza lo costituisce, significa cristallizzare e impo verire notevolmente la concezione stessa di «teatro», perché alla fine significa acquisire come pertinente solo il piano se mantico, solo il piano del significato narrativo (e per di più sovrapponendolo e misurandolo spesso a quello del testo scrit to). Anche a teatro (e al cinema), così come in letteratura e in pittura, quel che la nozione di «rappresentazione» riesce ad abbracciare è esclusivamente la sostanza del contenuto, che d'altra parte, infatti, è la sola che rimane inalterata nel tra passo dal testo alla realizzazione sulla scena. Naturalmente, per non essere sterile, la critica portata avanti in queste pagine deve contrapporre alla nozione di «rappresentazione » una nozione alternativa, che non si iscriva nel medesimo ambito ideologico. E questa nozione mi pare possa essere strumentalmente quella di«presentazione» (che successivamente potrà precisarsi me�io con la nozione di «scrittura scenica», se si vuole, purché la «scrittura,. sia in• tesa come produttrice e non come veicolo .di significati), con una mutilazione rispetto alla nozione precedente che individua in quel«rap-» iniziale l'indice di una concezione falsante. Con l'eliminazione del senso di ripetizione, di raddoppiamento che la nozione di «rappresentazione» (ri-presentazione) com porta, si vuole eliminare anche lo scarto logico e cronologico tra«rappresentato» (senso pieno) e«rappresentazione» (vei colo, tramite di significazione, significante). Né d'altro canto è possibile dimensionare in questo stesso ambito di discorso le nozioni di«presentazione» e di «presentato», proprio per ché tra di esse non esiste divaricazione, non esiste la disgiun zione del tipo significato/significante, essendo inclusa nella « presentazione» anche la produzione, la nozione di lavoro che si dà, sensibilmente, nell'atto di presentare. Proprio per- 45
ché non si tratta di un ri-presentare, di un ri-produrre, cioè un proporre di nuovo ciò che è stato già prodotto, il « presen tare,. è necessariamente un « produrre », che si nega ad ogni rimando. E vorrei qui richiamare, a definire il discorso, le con siderazioni kristeviane sul gesto, sul suo dimensionamento come produzione avanti che come comunicazione 37• Ma non si tratta ovviamente solo di cambiare termini, so stituendo « presentazioi:ie,. e derivati a « rappresentazione», né d'altro canto il discorso che si va facendo vuole essere pre scrittivo o programmatico, nel senso di suggerire o di difen dere una certa pratica del teatro nei confronti di un'altra (an che se questo ultimo aspetto può essere una conseguenza di un cambiamento di ottica nella considerazione del teatro). Il problema è naturalmente quello di indicare la dimensione ideologica di una concezione del teatro ed eventualmente di proporne un'altra dimensionata ideologicamente in modo di verso, e soprattutto perciò di cambiare, di concorrere a cam biare, l'atteggiamento critico e teorico nei confronti del fatto teatrale, di mutare i parametri di azione e di giudizio di quanto avviene sulla scena (o in qualsiasi altro luogo deputato al l'azione teatrale) e che è compreso sotto l'etichetta onnicom prensiva di « teatro •, assieme ai testi scritti, assieme agli edi fici in sé. Il teatro, dunque, in questa accezione, non solo « è » quando è in atto e non quando è sulla pagina del testo, e non solo nella realizzazione non ha alcuna dipendenza statutaria nei con fronti del testo, ma deve qualificarsi anche come il luogo della produzione di un lavoro, · specifico 38, di una produzione che non rimuova la materialità in cui si costituisce per istituirsi come rimando ad altro. Il « senso » dell'azione teatrale non è quindi nell'universo diegetico che essa fa vedere in traspa renza, ma esattamente nel prodursi e nel costituirsi dei «ge sti ,. teatrali, il cui significato non sarà preesistente e perciò non potrà essere riprodotto o rappresentato. Il «gesto,. di Amleto che uccide Claudio non può assolutamente vedersi come la rappresentazione di un identico gesto pensato nella realtà, se primariamente non è inteso come produzione di quel · 46 gesto di quell'attore di quella sera, che si dà nella materialità
di un lavoro gestuale che l'ha prodotto; e cosl anche il «gesto vocale» dell'« essere o non essere» non può solo significare quel che significano le parole di cui è composto, non può so vrapporre il proprio senso a quello del testo di Shakespeare. Già solo nella banale e tradizionale considerazione di «qua lità» è implicita una nozione di«diversità» tra una e un'altra attuazione di quel gesto, diversità che la nozione di rappre sentazione non riesce per nulla ad indicare. Ed ancor meno può, questa nozione, noi confronti di gesti che consapevol mente si discostano dal referente (testo scritto o «realtà») ed agiscono su un piano di produzione di senso che si dà come proprio significato primario questa stessa opera di pro duzione, come è il caso di certi spettacoli dell'avanguardia recente in cui difficilmente si riuscirebbe a discernere un«rap presentato » (si pensi, per restare in Italia, al Locus solus di Peri ini, ad esempio). Del resto è solo la tradizione, ormai lar gamente accettata, della linguistica saussuriana, in questo fi glia, come si è visto, della metafisica occidentale, che ci co stringe ad appiattire la realtà del segno sulla doppia faccia della langue e della parole, considerandolo in un caso come entità completamente astratta e solo in questo caso sociale e nell'altro come fatto completamente individuale e soggiacente ad un rapporto come da atto a potenza, da imperfetta e limitata riproduzione a «idea» perfetta e a senso pieno. Di identico tipo è il meccanismo ideologico che regola la nozione di rappresentazione e il rapporto tra realizzazione di un'opera e testo scritto. Ma è ormai sempre più evidente che, così come l'appiattimento del valore di un atto di parole nel senso che esso ha nel sistema astratto della lingua impoverisce l'atto di scorsivo di valenze che si danno «solo» in quell'atto, un « ge sto» teatrale, che è l'unica realtà fenomenica con cui entrano in contatto gli spettatori, gioca solo per le valenze di senso che riesce a produrre, indipendentemente dall'azione di rimando ad altro cui può prestarsi: un «essere o non essere» urlato o sommesso, interiorizzato o ironizzato (pur se il «si�ificato» delle parole rimane identico), non solo significa via via cose differenti e magari opposte, ma soprattutto produce senso al momento del proprio costituirsi come atto materiale (con 47
l'intonazione, con l'intensità della voce, con l'atteggiamento, ecc.) e non rimanda per questi significati che al loro atto di costituzione, lì, in quel momento 39• Concludiamo. Come si diceva, il si�ificato ultimo di que sta analisi non vuol essere di carattere normativo, e neppure di carattere settario, nel senso di privilegiare criticamente, di separare, previa apposizione del segno più, un settore, un am bito della storia e della pratica teatrale (quello della « presen tazione », magari da individuare nel teatro di Artaud o del l'avanguardia contemporanea dal Living a Grotowski a Wilson, passando tangenzialmente per la nozione di straniamento di Brecht e la pratica del suo teatro epico), da contrapporsi alla massa del teatro della «rappresentazione» (segno meno). Le nozioni che mi pare di poter proporre devono necessaria mente operare anche all'interno e nei confronti del teatro della «rappresentazione »: la materialità del «discorso » tea trale, la pratica testuale è operante (anche se in ogni modo occultata) in ogni tipo di teatro, in ogni «messa in scena», in ogni «rappresentazione», e non solo teatrale. Le difficoltà maggiori si palesano allora non a livello cri tico, di riconoscimento delle modalità di funzionamento del di scorso teatrale, ma a livello invece di fruizione, di cristallizza zione dei modelli percettivi dell'opera teatrale da parte del pubblico. Anche se in maniera meno marcata che nel cinema, anche nel teatro la fruizione è ,per il solito quasi assoluta mente orientata dall'asse orizzontale, nel senso dello scorri mento di quello che viene assunto come codice dominante; quello narrativo, della storia. Solo la lettura «trasversale», in profondità si potrebbe dire, quale Richard Demarcy ipotizza analizzando soprattutto l'opera di Brecht e di Eisenstein 40, potrebbe rivelare la complessità, la pluricodicità, la non uni vocità di una «presentazione» teatrale, evidenziando con ciò stesso l'attività, il lavoro significante che l'ha prodotta. Se Brecht o Eisenstein (o Godard, aggiungerei) favoriscono co scientemente e spesso impongono questa ipotesi di lettura, questo non deve significare, assolutamente, che tutto il re sto debba essere lasciato al dominio della «rappresenta48
zione ».
J i:. stato Giuseppe Bartolucci a divulgare e a far accettare questa nozione (G. BARTOLUCCI, La scrittura scenica, Roma 1968), ma si consideri che questo termine, e l'impostazione metodologica che vi sta sotto, era comune a tutto un gruppo di operatori culturali e di critici militanti anche in precedenza: si veda ad esempio il documento elaborato per il convegno di Ivrea del 1967, firmato da Bartolucci, Capriolo, Fadini e Quadri, recentemente pubblicato anche in F. QuADRI, L'avanguardia teatrale in Italia, Torino 1977, pp. 138-148. 2 Intendo soprattutto M. DE MARINIS · P. MAGU, Materiali bibliografici per una semiotica del teatro, in «VS•, n. 11, 1975, pp. 53-128 e M. DE MARINIS, Saggio bibliografico, in G. BElTETINI - M. DE MARINIS, Teatro e comunicazione, Rimini-Firenze 1977, pp. 33-131. Entrambi gli studi nascono come «bibliografie critiche» o «ragionate» e dedicano una scheda spesso assai interessante e pertinente ad ogni lavoro esaminato. Da considerare anche un intervento che si articola in maniera differente, saggistica, ma che è ugualmente interessante e cioè F. RUFFINI, Semiotica del teatro: ricognizione degli studi, in « Biblioteca teatrale», n. 9, 1974, pp. 34-81. 3 C. L. R,\GGHIANTI, Cinema arte figurativa, Torino 1952 (la sezione « Cinema e teatro» e soprattutto il saggio che le dà il nome, pp. 113-132). 4 C. BRANDI, Teoria generale della critica, Torino 1974 ( « L'astanza attraverso il segno linguistico correlato alla datità ottica: il teatro•• pp. 215-246). s P. GuLLl PuGLIATTI, I segni latenti. Scrittura come virtualità scenica in 'King Lear ', Messina-Firenze 1976: si vedano soprattutto la e Intro duzione • e la sezione A ( «Questioni teoriche e soluzioni possibili •), pp. 7-81. 6 U. ARTIOLI, Teatro e letteratura, in Letteratura (a cura di Gabriele Scaramuzza), Enciclopedia Feltrinelli-Fischer, Milano 1976, voi. Il, pp. 569-584. 7 F. Ross1-LANDI, Semiotica e ideologia, Milano 1972, cap. 5: e Azione sociale e procedimento dialettico nel teatro», pp. 47-60. Il breve testo è costituito da tre paragrafi che riproducono articoli apparsi in riviste e giornali nel periodo 1966-1968. 8 Si vedano almeno M. PAGNINI, Per una semiologia del teatro clas sico, in «Strumenti critici •, n. 12, 1970, pp. 121-140; E. SouRIAu, Les 200.000 sil!lations dramatiques, Paris 1950; S. JANSEN, Esquisse d'une théorie de la forme dramatique, in « Langages», n. 12, 1968, pp. 71-93; R. INGARDEN, Les fonctions du langage au théatre, in e Poetique •, n. 8, 1971, pp. 531-538. 9 A maggiormente fondare la sostanza fenomenologica del discorso brandiano, è forse il caso di citare l'analogia di quanto Brandi dice nei confronti dell'attore teatrale, che appunto non comunica ma e impersona• e perciò, alla fine, fa leggere su di sé, sul proprio corpo, i «segni• del proprio discorso, con la posizione di Merleau-Ponty rispetto al cinema (Il cinema e la nuova psicologia, in Senso e non senso, Paris 1948, Milano 1962, pp. 69-83, conferenza tenuta a Parigi nel 1945). Merleau-Ponty vede appunto nella materialità dell'iscrizione cor porea la specificità del e segno» cinematografico: perciò « c'è sempre in un film una storia ... ma la funzione del film non consiste nel farci conoscere i fatti o l'idea ... Vale a dire: l'idea o i fatti prosaici vi figurano solo per dare al creatore l'occasione di cercare loro emblemi sensibili e tracciarne un monogramma visibile e sonoro. Il senso di un film è incorporato al suo ritmo come il senso di un gesto è imme diatamente leggibile nel gesto, e il film non vuol dire nient'altro che 49 se stesso » (p. 79).
10 Naturalmente si accetta la nozione di «realismo,. come dato del senso comune, ben coscienti della inutilizzabilità a livello metodologico di questo termine e delle categorie che ne derivano. E si veda a questo riguardo il fondamentale intervento di R. JAKOBSON, Il realismo nel l'arte, in I fomzalisti russi (a cura di Tzvetan Todorov), Torino 1968, pp. 96-107 (il saggio è del 1921), che denuncia appunto l'ambiguità e la inutilizzabilità sostanziale del termine «realismo», la cui definizione si fa infatti discendere da disparati e spesso opposti presupposti. Il c. K. OGDEN. I. A. RICHARDS, Il significato del significato, London 1923, Milano 1966. Il triangolo grafico di cui si parla, ormai largamente noto, è a pag. 37 dell'edizione italiana e designa agli angoli bassi il e simbolo" («segno" nella terminologia saussuriana, ormai accettata) e il «riferente» («referente», cioè l'oggetto della realtà non linguistica cui il segno si applica, cui il segno si riferisce), mentre all'angolo alto colloca il «pensiero o riferimento" (cioè il «significato», l'« immagine mentale" sempre secondo Saussure). La particolarità di questo triangolo è che disegna la linea continua tra «simbolo,. e «pensiero» e tra e pensiero,. e e riferente"• mentre tratteggia quella tra «simbolo» e e riferente», a significare che non esiste alcun rapporto diretto tra segno e oggetto e che la significazione passa sempre attraverso la mediazione dell'angolo alto, cioè del «pensiero•· 12 Il citato Les 200.000 situations dramatiques, che costituisce infatti un testo base e di fatto utilizzatissimo, soprattutto nella cosiddetta analisi «attanziale•· Si veda sotto questo aspetto A. GREIMAS, Semantica strutturale, Paris 1966, Milano 1968; IDEM, Del senso, Paris 1970, Milano 1976; A. UBERSFELD, Lire le thélltre, Paris 1977 (in specie il cap. II: « Le modèle actantiel au théàtre », pp, 58-151). 13 Già altrove, in una relazione al convegno su «Cinema popolare italiano", nell'ambito degli «Incontri cinematografici di Monticelli Terme", Parma, marzo 1977 (atti in corso di stampa), ho cercato di dimostrare come le modalità di fruizione esclusivamente narrativa del cinema dipendano da una cristallizzazione dei modelli percettivi indotti, e come quindi la «narratività » non sia nella «natura» del cinema ma in una modalità formale privilegiata dall'industria culturale in quanto maggiormente permeabile di altre agli elementi mitici e condizionanti. 14 B. TOMASEVSKIJ, La costruzione dell'intreccio, in I formalisti russi, cit., pp. 305-350· (il saggio è del 1925). La «fabula", per l'autore russo, indica il piano generale, ancora non linguistico, della determinazione ·della storia da raccontare, della definizione psicologica dei personaggi, della definizione dell'ambiente socio-culturale in cui agiscono, ecc., mentre l'«intreccio" è l'opera di determinazione specifica di questi fattori, la «messa in forma"• entro una struttura di racconto con le sue articolazioni e il suo sviluppo regolato, della fabula. Il rapporto che Tomasevskij istituisce tra fabula ed intreccio è in sostanza, a livello narrativo, del medesimo tipo di quello istituito da Hjelmslev tra «sostanza» e «forma" del contenuto, cioè tra una materia non ancora linguistica e la codificazione di questa materia nella «forma», appunto, che la istituisce come fatto linguistico: si veda (con l'avvertenza che i termini del discorso dell'autore sono stati qui assai semplificati) L. H.JEI..MsLEV, I fondamenti della teoria del linguaggio, Torino 1968 dall'edizione inglese del 1961. 15 Si veda anche la scheda che dedica al lavoro Marco De Marinis nel citato Teatro e comunicazione, pp. 41-43, in cui soprattutto si nota che, paradossalmente, la distinzione tra testi drammatici e testi non drammatici, cui la Gullì Pugliatti fa cenno, ha valore solo a patto di SO rimanere all'interno dell'universo letterario, in quanto, da un punto
di vista « teatrale•, qualsiasi testo può essere, e di fatto spesso è stato' messo in scena. 16 U. Eco, I segni a teatro, in « Corriere della Sera», 7/9/1976. 17 J. DERRIDA, La voce e il fenomeno, Paris 1967, Milano 1968, e soprattutto Della ?rammatologia, Paris 1967, Milano 1969 (in specie la ?ar_te I: « La . scr! ttura prima della lettera», pp. 5-111). Cercherò di md1care alcuni dei temi di Derrida, desumendoli soprattutto da Della grammatologia, anche se evidentemente l'esposizione condensata ne imp�verisce notevoll'!1ente le valenze. Che cosa significa, dice dunque Dernda, fondare la lmguistica, e questo assai prima di Saussure sulla su� sostanza f�nica, se non presupporre, come dice esempJa(mente Aristotele, che 1 suoni emessi con la voce sono i simboli degli stati dell'anima? (pp. 14-15). Il significante fonico sarebbe quindi l'unico significante « innocente•• « trasparente», l'unico abilitato a trasmettere in modo quasi-diretto il significato, che è sempre visto come ciò che sta « dentro » al significante. Da sempre, cioè, il significante e il signi ficato risultano, sia pur lievemente, sfalsati, dato che un piano, quello del « significato», è sempre precedente, sia pure « il tempo di un soffio», al piano del significante, che viene cosi ad acquisire un puro valore strumentale (pp. 16 e 22). Ma accettare questo fatto, accettare la distinzione tra signans e signatum, tra portatore di significato e significato stesso, vuol dire anche accettare un intero sistema solidale di pensiero, di cui queste categorie non sono che un aspetto. La distin zione tra significante e sign ificato accetta ad esempio anche la distin zione, che è precedente a livello logico, tra sensibile e intelligibile, ma soprattutto accetta « più profondamente e più implicitamente, il riferi mento a un significato che può 'aver luogo', nella sua intelligibilità, prima della sua 'caduta ', prima di ogni espulsione nell'esteriorità del quaggiù sensibile», il che equivale ad ammettere che occorre che vi sia un significato trascendente che fondi questa differenza: la faccia intel ligibile del segno, il significato cioè, « resta rivolto dalla parte del verbo e dalla parte di Dio»: « il segno e la divinità hanno lo stesso luogo e tempo di nascita» (p. 17). Anche a livello più immediato, del resto, la distinzione significato/significante, con l'implicita attribuzione parallela dei concetti di dentro/fuori e la quasi-necessaria implicazione di prima/ dopo, si mostra assai vicina a quella anima/corpo. Su queste basi metodologiche e soprattutto sottoponendo a critica il capitolo VI del Corso di linguistica generale di Ferdinand de Saussurre, Derrida vuole dimostrare la solidarietà delle concezioni saussuriane e in genere della linguistica che si basa sul linguaggio verbale con la tradizione della metafisica occidentale, opponendo metodologicamente la nozione di « scrittura», intesa (semplificando molto) come processo di costituzione e di produzione di senso e non come veicolo di significato, il che gli permette di eliminare la distanza tra significante e significato e perciò tutte le conseguenze ideologiche che ne derivano. 1s Altre osservazioni pertinenti, del resto, sono rivolte alla consi derazione dello spazio scenico (pp. 579 segg.), cioè della conformazione dello spazio scenico e del teatro, che non possono assolutamente essere puri contenitori, neutri ricettori, e che invece entrano dialetticamente . nel gioco della rappresentazione, condizionandola in modo globale. A questo proposito, anche se Artioli non lo cita, è assai importante A. N1coLL, Lo· spazio scenico. Storia dell'arte teatrale, London 1927, Roma 1971. 19 « Il portico», n. 15, agosto 1970, numero speciale « Teatro e corporeità». A parte la prima traduzione italiana di un notevole saggio di G. MouNIN, La comunicazione teatrale (successivamente ritradotto
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in Introduzione alla semiologia, Roma 1972), è interessante notare come una buona parte del fàscicolo sia dedicata al rapporto tra teatro e interpretazione fenomenologica (F. BASSANI, Il linguaggio corporeo di Merleau-Ponty; F. TREBBI, La riduzione corporea: teatro e fenome nologia) ad indicare appunto, come già si sottolineava a proposito della posizione di Cesare Brandi, una «via fenomenologica» all'accet· tazione del fatto teatrale come fenomeno non-letterario. 20 F. Ross1-LANDI, Il linguaggio come lavoro e come mercato, Milano 1968; J.-J. Goux, Marx e l'iscrizione del lavoro, in AA.VV., Scrittura e rivoluzione, Paris 1968, Milano 1974; IDEM, Freud, Marx, Paris 1973, Milano 1976; J. B/\UDRILURD, Per una critica dell'economia politica del segno, Paris 1972, Milano 1974. 21 Si veda soprattutto il citato Marx e l'iscrizione del lavoro. 22 E. PAN0FSKY, /1 significato delle arti visive, Torino 1962 (il saggio Iconografia e iconologia) e La prospettiva come forma simbolica e altri scritti, Milano 1961 (il saggio Sul problema della descrizione e del l'interpretazione del contenuto di opere d'arte figurativa). Sui problemi suscitati da Panofsky si veda anche la discussione di A. C. QuINTAVALLE, Prospettiva e ideologia, Parma 1967 (il cap. I: «Storia della prospettiva come storia della cultura»). Sostanzialmente Panofsky distingue un livello pre-iconografico, un livello iconografico e un livello iconologico nell'interpretazione del contenuto delle opere figurative, corrispondenti grosso modo il primo al riconoscimento degli oggetti raffigurati (una donna con un bambino in braccio), il secondo al riconoscimento del «tipo» (Madonna con Bambino), il terzo al riconoscimento della con cezione del mondo in esso espressa (Madonna con Bambino che esprime significati precisi, collegabili a quel momento storico e dipendenti appunto da quella visione del mondo). 23 R. BARTHES, Diderot, Brecht, Eisenstein, in Cinéma: tltéorie, lectures, numero speciale della «Revue d'Esthétique », Paris 1973, pp. 187-191. 24 V. nota 14. 25 Per Barthes, in più, la rappresentazione si definisce, al di là di ogni nozione di «reale», di «verosimile», di «copia», per il fatto che esiste un «soggetto» (autore, lettore, spettatore o «voyeur») che porta il proprio sguardo verso un orizzonte su cui ritaglia ( «decoupe») la base di un triangolo di cui il suo occhio e il suo spirito è il vertice (p. 185). Sono appunto la scena, il quadro, l'inquadratura, il rettangolo ritagliato che permettono di definire e di pensare le arti «diottriche» rispetto alla musica, nel cui testo non è possibile rintracciare il minimo «quadro», quindi la minima trasparenza rappresentativa (p. 186). Occorre appena rilevare che il discorso di Barthes è per buona misura metaforico, nel senso almeno che non pare fare questione di «natura » o di «essenza» o di «specifico·» delle varie arti, ma esclusivamente di uso, ipotizzando chiaramente un uso «musicale», cioè non rap presentativo, anche degli altri linguaggi, pur se relegato in un futuro utopico (p. 191). Sul problema della rappresentazione e sulla contesta zione di ogni sua utilizzazione in senso volgarmente referenziale, si veda N. GoooMAN, I linguaggi dell'arte, Milano 1976 (ed. or. 1968), soprat tutto il primo capitolo, pp. 9-42. 26 C. M.Erz, Semiologia del cinema, Paris 1968, Milano 1972, il saggio A proposito dell'impressione di realtà al cinema, pp. 31-45. Per qualche indicazione di critica e di discussione al volume, si veda la mia recen sione in «NAC», n. 11, pp. 34-35. V Lo stesso discorso vale a maggior ragione, credo, per il cinema , 52 anche se in questo caso la proiezione (e si tratta di proiezione in
senso anche fisico) viene fatta da davanti allo schermo, il quale quindi _ !1°n s1 fa trasparente in senso materiale ma lo rimane in ogni caso m senso metaforico. Ed anzi, la immaterialità dell'immagine cinema togr afica favorisce direttamente l'apertura sul mondo diegetico, come _ . ano testimoni anche i casi di più marcata identificazione psicologica, o�tacolati invece a teatro, come già notava A. BAZIN (Qu'est-ce que le cméma, Paris 1958, il saggio Théatre et cinéma), proprio dalla fisicità non sopprimi bile e non facilmente rimuovibile dell'attore e della scena. 28 Jacques Derrida teorizza la separazione grafica e concettuale delle nozioni di « différence » e di « différance » (la diversità è percepibile solo nella scrittura e non nel verbale, giusta appunto la contestazione che l'autore compie della supremazia storica, nella nostra civiltà, della phoné), con l'implicazione, nella seconda, anche della connotazione por tata dal verbo « differire », cioè allontanare, separare anche temporal mente. Si vedano La scriltura e la differenza, Paris 1967, Torino 1971; Della grammatologia, cit.; e soprattutto, a questo riguardo, La differanza, in AA.VV., Scrittura e rivoluzione, cit., PPt- 7-38. 29 Mi sia consentito rimandare al mio Ideologia e linguaggio nel cinema contemporaneo: Jean-Luc Godard, Panna 1976, al cap. IV, pp. 189235, dove appunto è sondato analiticamente questo problema sulla scorta delle indicazioni della teoria marxiana, delle riflessioni di Derrida, di Goux, di Sollers, di Julia Kristeva e in genere del gruppo di teorici raccolti intorno alla rivista parigina « Te! Quel •· Il mio discorso era puntato naturalmente sul cinema, partendo appunto dalla posizione godardiana, ma i termini dell'impostazione non cambiano, a livello generale, se trasfcri ti al teatro. 30 Tutto il problema della pluricodicità del teatro, dei modelli di interrelazione dei codici teatrali e della produzione di senso attraverso questi elementi, è evidentemente l'altra faccia del discorso sul teatro come significazione. In questo saggio non se ne è fatto che qualche cenno in quanto si tratta dell'argomento di uno studio specifico al quale mi sto dedicando e che sarà pubblicato prossimamente. 31 In Semeoitiké. Reclzerches pour une sémanalyse, Paris 1969, pp. 90-112 (il saggio è del 1968). l2 Oltre tutto è qui analizzata solo la prima parte del saggio della Kristeva, essendo tutto il secondo paragrafo (pp. 100-112) dedicato ad un'analisi attenta della cinesica americana. II saggio della Kristeva non ha molto influenzato il dibattito sul teatro (almeno non quanto avrebbe dovuto), ma ha provocato almeno una intelligente risposta di F. MARorn, Per un'analisi dei• teatri orien
ta/i: la codifìcabilità del «gestuale• (la gestualità tra «significazione» e «pratica»), in Lelteratura e Critica. Studi in onore di Natalino Sapegno, III, Roma 1974, che ribatte considerand<? valida la pos_izione
kristeviana solo all'interno della nostra cultura e nscontrandone mvece la debolezza nei confronti di una gestualità fortemente codificata quale si riscontra nel teatro classico orientale (Nò, Kabuki, ecc.). Debitori, per loro stessa ammissione, dell'analisi della Kristeva sono invece M. DB M,\RINIS - P. MAGLI, Pour une approche sémiotique du thééìtre camme message multilinéaire, in « Degrés ••, 1975 (c�e riprodu�e la comunicazione presentata al I Congresso dell IASS, Milano, 2-6 giugno
1974).
33 Particolarmente significativa dovrebbe risultare, proprio in questa direzione la pubblicazione di un'opera di M. BACHTIN, Marxismo e filosofia del linguaggio, Bari 1976, che lo stud_ioso aveva pub?licato nel 1929 sotto il nome del suo allievo V. N. Volos1nov, e che era nmasta sino ad ora quasi dimenticata. Ormai pare sicuro che l'opera è appunto
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di Bachtin, tanto che in Francia è stata pubblicata (Paris 1977) sotto il suo nome (si veda anche, a testimoniare il nascente interesse per Bachtin, il recentissimo volume collettivo Michail Bachtin. Semiotica, teoria della letteratura e marxismo, Bari 1977). Dico che Bachtin potrebbe risultare criticamente assai utile proprio perché in Marxismo e filosofia del linguaggio, sottopone ad una critica serratissima la linguistica di Saussure, contestandone soprattutto le categorie di langue e parole (che attribuiscono tutta la generalità e la socialità alla langue e tutta la particolarità e l'individualità alle parole), e opponendovi la nozione di e enunciazione», atto individuale ma anch'esso sociale, costitutivo di senso e non rinviante alla compiutezza astratta della langue. 34 Su questo aspetto della utilizzazione, a livello di semiotica, delle nozioni marxiane di valore d'uso e di valore di scambio, si veda soprat tutto il citato J. BAUDRILLARD, Per una critica dell'economia politica del segno. Baudrillard, peraltro, mette in guardia soprattutto contro la nozione di valore d'uso, di cui contesta, anche con qualche ragione parziale, l'utilizzabilità anche nel campo dell'economia politica. 3S Mi riferisco soprattutto al già citato Marx e l'iscrizione del lavoro, essendo i successivi studi, come Valeur d'échange et histoire du sym bolique, in • Cahiers d'économie politique», n. 4; Sul modo di simbo lizzare capitalistico, in Follia e società segregativa, Milano 1974; Il simbolo insensato, in Psicanalisi e semiotica, Milano 1975, oltre al già citato Freud, Marx, piuttosto puntati in direzione psicoanalitica, ad indagare i rapporti tra simbolizzazione psichica ed organizzazione della società. 36 Discorso analogo può valere anche per il cinema, anche se eviden• temente non possono paragonarsi testo teatrale e sceneggiatura. Tuttavia la narratività cinematografica (e più: il fatto stesso che il, cinema si sia piegato verso la narratività come forma larghissimamente preva lente) discende essenzialmente dai modelli letterari ottocenteschi, dal naturalismo e dal e realismo• del romanzo ottocentesco classico e dalla sua declinazione successiva del romanzo d'appendice, del « romanzo popolare•· Le modalità di strutturazione correnti del racconto cinema• tografico sono tutte debitrici di modelli letterari, ma, quel che più conta, è la fruizione del pubblico, cristallizzata sulla percezione del solo registro narrativo, che determina, con un andamento circolare del processo, la produzione di film solo suscettibili di letture « narrative» . e perciò, in fondo, conformi a modelli letterari. 37 Non si tratta evidentemente dello stesso ambito di discorso, tuttavia non mi pare inutile citare qui la posizione di G. MouNIN, La comunicazione teatrale, in Introduzione alla semiologia, cit., pp. 89-98 (il saggio è del 1969), secondo cui non si dà e comunicazione», almeno nel senso proprio della parola, nel fatto teatrale. Parlare di teatro come linguaggio, cosl, aprioristicamente, dice Mounin, significa dare per scontati e risolti problemi che sono invece ancora tutti da affrontare; ed anzi, dato che per l'autore (ed è questo, mi pare, il limite del suo discorso) il e linguaggio ,. in senso proprio non può darsi che sullo schema della lingua verbale, di linguaggio teatrale sarebbe il caso di non parlare per nulla. Mounin sostiene che quanto avviene a teatro si spieghi meglio in termini di « stimolo• che non in termini di comu nicazione: « autore e regista, decoratore, attori, costumista, scenografo, sono tutti intenti non a ' dire' qualcosa agli spettatori, come pensano generalmente con termine improprio, ma ad agire su di essi. Il circuito che si stabilisce tra la scena e la sala è essenzialmente un circuito (molto complesso) di tipo stimolo-risposta. Gli spettatori sono agiti - o almeno a questo si tende ,. (p. 95). E. evidente che questa posi -
zione di Mounin si colloca nello stesso contesto ideologico che si è già criticato, che assume il « dire» come unico linguaggio, come unica, o primitiva, possibilità di comunicazione, e non può evidentemente vedere linguaggi a teatro perché in esso troppi elementi ostentano la loro materialità e non si lasciano ridurre a parola. Certo, regista, attori, scenografo, ecc. non « dicono », ma in certo senso « scrivono » per lo spettatore, iscrivono il proprio lavoro specifico nella materialità di un discorso non riducibile a phoné. 38 Quando parlo di lavoro « specifico » intendo evidentemente il lavoro che costituisce l'oggetto estetico come atto di discorso, linguistico, prescindendo cioè dal lavoro (pure «specifico» ma in altro ambito) dei vari tecnici e di tutte le persone che lavorano nel teatro. 39 Si veda quanto si diceva nella nota 33 a proposito di Bachtin. Non è certo questa la sede per approfondire la questione, che del resto è non secondaria anche !lella nostra prospettiva, ma occorre sottolineare che la tendenza a relegare nel dominio dello spurio e dell'accidentale tutto quanto, nella produzione materiale del segno, eccede il suo campo semantico, cioè il suo significato « diretto», risulta particolarmente falsante in una semiotica teatrale, nello studio cioè di un fatto in cui tutto è « gesto», nel senso lato cui si accennava, in cui tutto, statutaria mcnte, si produce e si spende nel presente. 40 R. DE�L\RCY, Eléments d'une sociologie du spectacle, Paris 1973 (soprattutto il capitolo 5: « Les modes de réception du spectacle», pp. 329-406). Indicazioni assai utili in questa prospettiva possono venire anche dalla nozione di « messa in scena», e dalle derivazioni metodo logiche che l'autore ne desume, teorizzata in G. BETIETINI, Produzione di senso e messa in scena, Milano 1975, oltre che dall'importante trat• tazione di E. GARRoNI, Progetto di semiotica, Bari 1972.
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La critica d'arte in "Tel Quel,, ANGELA TECCE GALLO
Nel 1960 si forma in Francia attorno alla rivista « Tel Quel» un movimento di ricerca teorica che, identificando nel materialismo dialettico il suo primo punto di riferimento, avrà per peculiarità metodologica lo sviluppo di interventi di analisi e di originale elaborazione in molteplici campi del sapere: filosofia, psicoanalisi, linguistica, critica della lettera tura, critica d'arte, ecc. Per alcuni degli aspetti suddetti ri mandiamo alla rassegna di Angelo Trimarco su questa rivi sta 1• Esula dal tema di questo articolo un'esposizione com plessiva del lavoro di riflessione svolto dal gruppo di intellet tuali che ha dato vita alla rivista; esposizione che sarebbe, inoltre, di ardua realizzazione per l'ampiezza della problema tica teorica affrontata e, allo stesso tempo, per la coesionè di tutta la ricerca, la capacità o, forse, la necessità di calare in ogni campo di intervento le acquisizioni raggiunte in altri settori. Tuttavia sarà per noi indispensabile, a conferma di questa interrelazione, fare riferimento ai risultati di carattere generale conseguiti dalla ricerca di « Tel Quel » per compren dere il lavoro di rifondazione della problematica relativa alla pittura e alla sua storia che viene compiuto da Marcelin Pley net. :e. questo lavoro che occorre seguire nel suo sviluppo perché esso costituisce il nucleo centrale da cui deriva l'at teggiamento critico di Pleynet nei confronti della molteplice fenomenologia artistica. . 56 Prendiamo, dunque, le mosse dai suoi primi interventi
d'analisi. Nel 1967 la rivista «Les lettres françaises» pubblica una serie di suoi articoli sulla pittura americana nei quali viene iniziata una riconsiderazione critica della storia della pittura. Pleynet pone il problema del ruolo svolto dalla fi. gura. Egli scrive: La storia della figura si divide nettamente in due epoche che si può da ora definire: Medievale e Mo derna; due epoche praticate da due dimensioni: Simbolica e Rappresentativa, da due tipi di economia: Feudale e Capitali stica. Nel Medioevo la sua funzione non è rappresentativa ma analogica, essa è analogicamente al suo posto l'immagine della divinità. Nell'età moderna la figura si individualizza e perde la sua funzione di scritto, di vocabolario simbolico, per quella di rappresentazione... Il fiore, la casa, la donna, la funzione che il pittore rappresenta (re-présente) non sono vi• sibili che per colui che li possiede o che si trova preso nel l'economia di questo possesso... La figura tale quale oggi an cora noi la riconosciamo, tale che noi non domandiamo mai a suo riguardo « cosa vuol dire?», la figura detta «realista» è ben giustamente quella di questa economia: figura della pro prietà privata ... Io voglio vedere lì la logica dell'evoluzione della pittura di prospettiva che, dal '400 ai nostri giorni, da Ambrogio Lorenzetti a Picasso, condiziona la nostra cultura 2• Alla luce di questa prima approssimazione al problema di una riconsiderazione della pittura e della sua storia, Pleynet ha il criterio per operare un taglio critico nell'ambito dell'arte con temporanea. Io vorrei ritornare brevemente su questa pro blematica della figura nell'opera di Cézanne... Si guardi un po' più da vicino e si noterà la sua insistenza a dipingere i me desimi oggetti (il vaso impagliato), la sua insistenza in di verse tele a riprodurle esattamente nella stessa maniera fa. cendo apparire l'eguale (il vaso) non più nella sua identità, nella sua particolarità fenomenologica, ma... nell'anonimato obiettivo di una serie formale. Se cessiamo di proiettare sul l'impresa Cézanniana la nostra visione monoculare noi la ve dremo articolare, e per la prima volta, un linguaggio che non smette dopo di lui di riprendere e interrogare la pittura... In effetti a partire da Cézanne è questione di una scrittura che legge una scrittura 3. Pleynet introduceva, nell'articolo citato, 57
il giudizio di Cézanne riportando un passo di Jacques Derrida, intellettuale il cui lavoro prevalentemente filosofico si è svolto in rapporto alla rivista: Se si rimpiazza... la parola arte o let• teratura con la parola scrittura che si estenderà a tutte le arti bisognerà dire allora che l'ordine del sapere sarà inter pretato come una scrittura da una scrittura 4• Il concetto di
scrittura, tuttavia, non ne risulta ancora spiegato. Occorre sa pere che cosa significa questo rimpiazzamento e quale esi genza vi è dietro. Una prima chiarificazione può venire dal seguente passo di Julia Kristeva: la problematica specifica della scrittura si libera massivamente dal mito e dalla rap• presentazione per pensarsi nella propria letteralità e nel pro prio spazio 5• Da esso sappiamo quale obiettivo è perseguito
mediante tale operazione, ma rimane ancora oscura la dimen sione concettuale di fondo in cui si situa l'esigenza di libe rarsi dalla «rappresentazione» e la nozione stessa di scrit tura. Per sciogliere questi nodi è necessario esporre alcune analisi cardine sviluppate da «Tel Quel».
Alcuni elementi teorici Julia Kristeva nel sa�gio La .semiologia: scienza critica e/o critica della scienza enuncia il programma della sua ricerca: Ci sembra che tutti i problemi della semiologia attuale siano qui: continuare a formalizzare i sistemi semiotici dal punto di vista della comunicazione ( rischiamo un paragone azzar dato: come Ricardo considerava il plusvalore dal punto di vista della distribuzione e del consumo), oppure aprire all'ln· temo della problematica della comunicazione ( alla quale è riconducibile ogni problematica sociale) quest'altra scena che è la produzione del senso anteriore al senso... nel secondo caso si tratterà di costruire una nuova« scienza», dopo che si sia definito un nuovo oggetto: il lavoro come pratica semio tica diversa dallo scambio 6• Tutta la ricerca di «Tel Quel»
si muove attorno a questo problema: definire ed analizzare nei vari campi del sapere uno spazio altro di significazione, quello della «produzione del senso anteriore al senso». I ri58 ferimenti teorici principali in tale lavoro sono Marx e Freud,
appartenga per se stesso alla lingua. Per questo non è che un elemento secondario, una materia che essa mette in opera. Tutti i valori convenzionali presentano il carattere di non confondersi con l'elemento tangibile che serve loro di sup porto» 8• Tuttavia il modello d'analisi di Marx non aiuta chi si interroga sul funzionamento del processo di produzione della significazione anteriore alla comunicazione. Se in Marx la produzione viene posta come problematica e come combi natoria che determina il sociale (o valore), essa è studiata unicamente dal punto di vista sociale (del valore) e non da quello interno alla produzione stessa 9• È a questo punto della riflessione che avviene l'inserimento della psicoanalisi freu diana, ovvero di quel pensiero che, per la prima volta, ha in dagato nello studio del sogno un modo di produzione del senso anteriore alla comunicazione; allo scambio. Intitolando uno dei capitoli dcli'« Interpretazione dei sogni», « Il lavoro oni rico» Freud - scrive J. Kristeva - alza il velo sulla produ zione stessa in quanto processo non già dl scambio ( o d'uso) di un senso (di un valore) bensì gioco permutativo che mo della la produzione stessa. Freud apre in questo modo la pro blematica del lavoro come sistema semiotico particolare, di stinto da quello di scambio 10• Chiarito con questo excursus lungo i testi più centralmente legati all'iniziativa di « Tel Quel» l'obiettivo e il modo della revisione semiologica im postata, occorre vtderne la· congiunzione teorica con i pro blemi propri della critica della letteratura e della critica d'arte; cioè quale nuovo approccio agli oggetti di questi due
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campi del sapere viene definito o, più precisamente, in quale prospettiva questi oggetti ed il sapere ad essi connesso ven gono ridefiniti. Al problema è data da J. Kristeva una chiara risposta programmatica: Per la semiologia la letteratura non esiste. Non esiste in quanto parola come le altre e ancor meno come oggetto estetico. Essa è una pratica semiotica partico lare che ha il vantaggio di rendere più comprensibile di altre questa problematica della produzione dl senso che una nuova semiologia si pone, e di conseguenza non riveste alcun inte resse se non nella misura in cui essa (la « letteratura») è considerata nella sua irriducibilità all'oggetto della linguistica
normativa (della parola codificata e denotativa). Così, si po• trebbe assumere il termine scrittura allorché si tratta di un testo visto come produzione per differenziarlo dai concetti di «letteratura» e di «parole »... Ogni testo «letterario» può essere considerato come produttività 11• Pleynet, a sua volta, affermando che da Cézanne è questione di una scrittura che legge una scrittura 12, opera un taglio critico nella storia della pittura che, poggiando sul tentativo di revisione di fondo del funzionamento delle pratiche significanti che abbiamo espo sto, conduce ad un cambiamento sostanziale della nozione stessa di pittura; di essa interessa la dimensione della «scrit tura», ovvero della «produttività» di un testo che va a col locarsi, a «iscriversi» tra altri testi. Dice Jean-Louis Baudry, membro del comitato di redazione di «Tel Quel»: Lo spazio testuale di lettura, di scrittura ... che cerchiamo di definire avrebbe per modello una superficie alla quale sarebbe impos sibile assegnare un limite - superficie non chiusa - tutta enunciato, tutto testo che comprende sé attraverso i rapporti che stabilisce con gli altri enunciati, con gli altri testi della superficie, caricata essa stessa di tutti gli enunciati che pos sono ritagliarla 13• Prima elaborazione teorica della pittura Gli scritti di Pleynet anteriori al '68 sono caratterizzati dall'assenza dello strumento psicoanalitico; la problematica svolta, in cui è centrale la nozione di scrittura, rimane per conseguenza segnata da una certa riduzione formalista. Egli si muove sul doppio terreno della critica della concezione speculare dell'arte e della proposta di una nuova concezione. Tutti gli indirizzi critici (strutturale, sociologico, psicoanali tico ecc.) sono accomunati in quanto attribuiscono all'arte una funzione altra rispetto al suo proprio processo di pro duzione. Quel che Pleynet vede emergere sempre sotto ogni ipotesi di interpretazione critica è il dualismo hegeliano per cui l'arte è il primo anello di conciliazione tra ciò che è sem plicemente esterno... e il puro pensiero... tra la realtà finita e l'infinita libertà del pensiero concettuale 14• Fin quando si 61
penserà che l'arte si costituisce in questa funzione di « con ciliazione» tra due poli, sarà propria -al suo essere una si tuazione di ·dualismo ed essa di conseguenza avrà da conte nere in se stessa un « altro »; non fa poi differenza se sia l'altro della critica strutturale o di quella sociologica e così via. Ciò di cui è programmaticamente negatrice la nozione di scrittura è proprio tale dualismo. Dalla « letteratura », dalla « pittura », dai prodotti di ogni pratica significante è « l'al tro» dal processo produttivo stesso che viene eliminato. L'og getto reale pittura, dunque, non va considerato in rapporto con la realtà, bensì solo con il modo della sua produzione. Nel saggio Pittura e « realtà» Pleynet fa riferimento al la voro teorico di Althusser per l'ipotesi della rottura episte mologica operata da Marx e ne cita il seguente passo: Quando Marx ci dice che il processo di produzione della conoscenza, dunque il suo oggetto, distinto dall'oggetto reale di cui essa si vuole appropriare sul modo della conoscenza, si sviluppa interamente nella conoscenza, nella mente o nel pensiero, egli non cade nemmeno per un istante in un idealismo della co scienza, perché il pensiero di cui si tratta non è la facoltà di un soggetto trascendentale 15• È su questa separazione del l'oggetto di conoscenza dall'oggetto reale che si fonda il su peramento della concezione speculare della pittura e l'aper tura di un terreno teorico nuovo in cui collocarne la produ zione. Il problema che allora si pone a proposito di una pos sibile teorizzazione della pittura... deve essere considerato... nella forza produttrice della pittura come « oggetto di cono scenza » e nei suol effetti sulla propria materia prima 16• In questa fase, tuttavia, la ricerca riesce piuttosto a ridefinire in modo alquanto formale che cosa è UI) dipinto in quanto scrittura e oggetto di conoscenza, individuando il vocabolario proprio della pittura, ovvero gli elementi di cui dispone; l'as senza del pensiero psicoanalitico impedisce l'analisi di ciò che è in gioco in essa come « forza produttrice». Pittura è ovvia mente considerata la superficie dipinta e in questo nulla di nuovo, risalendo già a Maurice Denis questa consapevolezza; lo scarto è costituito dal problema dell'iscrizione. In fondo 62 sostenere che un quadro è una superficie ricoperta da colori
disposti in un certo ordine significa semplicemente riflettere, a livello critico, un'apparenza messa in evidenza dalla pittura in un determinato momento storico; si tratta piuttosto di pensare il recupero alla pittura degli elementi che la fanno, definendo con quali mezzi e come una pittura su una super ficie faccia iscrivere questa superficie come tale, ovvervo non alieni i suoi elementi; ritornando all'analogia di J. J. Goux si potrebbe dire, parafrasando, come non perdere in semplici segni i materiali della pittura, semplici significanti di un senso eterno, trascendente, negando loro ogni carattere operativo, cioè il loro proprio lavoro. Per Pleynet la superficie dipinta per giustamente iscriversi come. tale deve giustamente gio care degli altri elementi del vocabolario che la determina, dapprima come superficie (il punto, la linea, la normalità del vocabolario geometrico) in seguito come superficie inscritta (e per questo, come per ogni modo di iscrizione, bisognerà fare appello ad un tipo di enunciazione che trasgredisce la normalità obiettiva, finita del vocabolario formale (geometri• co) come infinità del codice: il colore) 17• La conoscenza del contesto teoricÒ in cui si situa questo enunciato del critico francese deve valere a sgombrare il campo da due sue letture altrimenti possibili, ma erronee. Né il richiamo al colore va inteso come ritorno ad una dimensione estetica in cui valo rizzare il ruolo del pigmento cromatico, né l'individuazione di alcuni elementi - punto, linea, colore - quali compo nenti della pittura deve indurre a credere che si sia di fronte ad un'altra riduzione formalista dell'arte 18• Certo Pleynet sta enunciando il funzionamento di un linguaggio, non solo, ma usa ancora concetti di tipo formale; tuttavia occorre com pensare questo scarto della sua elaborazione teorica - che sarà colmato negli scritti posteriori alla fine del '68 - rispetto alla riflessione su Freud già iniziata da J. Kristeva, facendo· ad essa riferimento. Bisogna aver presente, cioè, che il lin guaggio di cui Pleynet parla è non quello della « comunica zione ,., bensì quello della « produzione •; egli cerca di de. finire ciò che è in atto nello specifico modo di produzione della pittura e dunque si cadrebbe in errore a leggere le sue affermazioni immediatamente come prescrizioni estetiche o 63
formali di un critico. Pleynet tiene, infatti, a precisare: Che mi si intenda bene, il colore non basta ad iscrivere la super ficie... la tela monocroma come il quadro di genere rinvia e non rinvia finalmente che a questo fondo metafisico sul quale si staccano le figure della pittura detta realista e che non è in effetti che iUusiorusta. La superficie non si iscrive come tale che a partire dal momento in cui essa comprende e gioca ciò che trasgredisce la finitezza del suo codice: il colore nella molteplicità dei suoi rapporti con la forma che esso inscrive trasgredendola 19.
Sviluppi della teoria della pittura
Con i testi posteriori al '.68, Pleynet articola in modo più complessivo la sua analisi. L'elaborazione di una teoria della pittura come pratica semiotica ed una nuova interpretazione della sua storia avranno per condizione necessaria la capacità di calarne il processo nei molteplici nessi con la storia reale e quella ideologica delle forme, ritrovandone la dimensione di oggetto di conoscenza. Egli scrive: Se prendiamo in consi derazione i diversi modi di iscrizione di una pratica signifi cante e la collochiamo nell'ordine della contraddizione princi pale, ci troviamo di fronte alla possibilità di: 1) ridefinirla, in questo ordine, nel suo ruolo oggettivo e nel momento sto rico in cui è presa in considerazione; cioè 2) mettere in atto un ritorno sulla sua struttura specifica di veicolo ideologico (nel caso della storia della pittura, le determinazioni specu lari del significante), 3) analizzare le forme nevrotiche (reli• giose) assunte da queste determinazioni all'interno di diversi tipi di contraddizione specifica, 4) infine, rifondare questa pra tica nella sua complessità operaia, come oggetto di conoscenza all'interno di altre pratiche sociali 20• Occorre ora chiarire un aspetto dell'impostazione critica di M. Pleynet che, del resto, si è fatto già notare nei passi fin'ora riportati. La sua riflessione su una realtà tanto varia qual è oggi la produzione artistica taglia in essa con determi64 nazione un preciso settore, quello della pittura. ti:. ad una teo-
ria e ad una storia della pittura che egli lavora. A monte c'è un'analisi base da cui deriva il netto taglio critico che è pro prio ai suoi interventi. Come abbiamo visto, Pleynet indivi dua nell'opera di Cézanne una cesura rispetto alla tradizione della pittura in quanto la critica implicita nella pratica di Cézanne si fonda sulla specificità differenziale del codice pit torico e non può essere ridotta ai suoi aspetti formali, dato che limitarsi a questo solo carattere formale significa rista bilire di fatto un nuovo codice della rappresentazione ( della specularità) come descrizione fenomenologica ( descrizione dei fenomeni della luce, ad esempio, come la vediamo perfet tamente messa in atto in alcune tele di Gris), cioè sostituire allo spazio convenzionale della prospettiva cosiddetta scien tifica un'altra convenzione, destinata come la prima a rappre sentare decorativamente il raddoppiamento della struttura ideologica dominante 21• Pleynet riconosce, dunque, a Cézanne di avere per primo praticato la pittura quale specifico pro cesso produttivo che, solo in quanto tale, intrattiene un rap porto profondo con gli altri processi in atto nella società o, a dirla in generale, con la realtà. L'importanza attribuita ai singoli artisti nella storia della pittura e non ai movimenti, da cui discende la critica alle avanguardie ed alla molteplicità delle « scuole » che nascono oggi di continuo, affonda le radici nella convinzione che, a causa dell'empirismo che con diziona le pratiche significanti, gli effetti massicci della lotta di classe sono costretti a limitarsi soltanto a individui 22• Que• sto comporta che in un primo momento le contraddizioni ma nifestate dall'« individuo» in questa o quella disciplina sono assimilate all'anormalità, alla nevrosi; mentre, in un secondo momento, la loro irriducibilità ( sotto forma ora di originalità, di scoperta, di « sublime anomalia») finisce proprio per esaltare il soggetto (in antitesi alla massa), l'individuo come genio, come precursore. È in questo modo che tutto ciò che faceva ricorso alla scienza, definendo un campo di forze anta gonistiche irriducibili, si trova nuovamente (inevitabilmente) messo in conto all'ideologia 23• Ed è sul terreno dell'ideologia che si svolge, per Pleynet, il lavoro dell'avanguardia che per l'impossibilità... di ritornare sulle proprie contraddizioni si 65
costituisce come una tradizione all'interno della dissoluzione borghese 24• Nel campo della pittura, la rimozione dell'emer genza contraddittoria delle forze sociali nella pratica di un individuo si traduce in un rivoluzionarismo formale e rende impossibile ogni approccio dialettico all'aspetto principale della contraddizione relativa a questa pratica 25• Da questa ana lisi discende la visione complessiva che egli ha dei fenomeni artistici degli ultimi cento anni: la fine del XIX secolo e l'ini zio del XX presentano un'infinità di formazioni gruppusco larl di questo tipo ( del tipo, cioè, della riproduzione accade• mica), sia che si tratti dei nabis, dei puntinisti, della scuola di Pont-Aven, dei fauves, dei cubisti, del Bauhaus, dei surrea listi ( ... si potrebbe continuare all'infinito). Del resto, questa tradizione non si interrompe all'inizio del secolo, proseguendo invece, sia pure in modo sempre più parodistico, fino ad oggi: se ne trovano gli esempi più clamorosi negli Stati Uniti, nel secondo dopoguerra, sotto la denominazione di action painting ( qui, più che altrove, la tradizione della dissoluzione borghese assume un carattere di precipitazione quasi ufficiale, tanto da dar luogo ad una scuola o ad una accademia ogni anno: hard edge, pop-art, color-field painting, minimal art, op art, earth· works, ecc.) 26• La teoria elaborata sembra, dunque, consen tire all'intervento. critico di Pleynet una positiva distanza ri spetto alla varie tendenze dell'arte moderna e/o alle più o meno forzate ipotesi di sempre nuove tendenze. L'analisi della rottura operata da Cézanne, ad esempio, non venendo arre stata al solo dato formale del passaggio dalla figurazione al l'astrazione, consentirà una articolata valutazione del debito contratto verso questi da Matisse, che pure non fu pittore astratto. Facendo un rapido excursus vedremo che, assumendo una storia che rinvia, a suo avviso, alla problematica di Cé zanne, Pleynet ne individua l'alternarsi di momenti più o meno produttivi. Questa storia .passa per i cubisti che operano, però, sulla complessità del lavoro cézanniano una riduzione ai soli aspetti formali della trasformazione spaziale, per riacqui stare la sua complessità nella ricerca sul colore di Matisse e nella decostruzione formale di Mondrian. Egli ritiene, inve66 ce, che la teologia negativa di Duchamp ha solo creduto di
rivoluzionare la pittura ponendo per esempio il materiale bruto o l'oggetto prefabbricato come e al posto della sua tra sformazione, dando così all'ideologia dominante la possibilità
di riappropriarsi, con l'acquisto, delle proprie contraddizioni trasformate in feticci ri, Le neo-avanguardie, poi, che discen dono da tale tradizione utilizzando alcune il concetto per re
primere ogni logica formale dell'oggetto reale· (storia delle forme) e altre l'oggetto per reprimere ogni logica di sviluppo della conoscenza ( storia delle idee) 28• Critica, inoltre, Breton e il movimento surrealista in generale perché non fa quasi che mettere al posto della specificità pittorica un discorso let terario 29• Tuttavia riconosce l'importanza da attribuire a parte della pittura cosiddetta surrealista... certi quadri di Matta negli anni quaranta e, per certi aspetti, al lavoro di A. Masson e di Mirò 30• Scrive inoltre che in alcuni, come per esempio Mirò, l'interesse soggettivo che li lega alla specificità pittorica permetterà loro di utilizzare come veicolo ciò che era loro proposto come fine, mentre in altri, Magritte, il fine resterà sempre confuso con l'illustrazione dei mezzi 31• Agli esiti mi
gliori del surrealismo Pleynet attribuisce un effetto non tra scurabile sulla tendenza più specificamente pittorica e pro duttiva che si sviluppa negli Stati Uniti a partire dalla fine degli anni trenta, a cui appartengono personalità come Pol lock, Motherwell e altri, in stretto contatto con gli artisti e gli intellettuali europei emigrati in quegli anni a causa del fa scismo. A questo primo momento succede l'accademizzazione operata dai vari movimenti già nominati, tra i quali quello della generazione di Noland e Stella, di cui Pleynet scrive che,_ benché ci si poteva aspettare un'interessante evoluzione for•
male, sono ormai caduti nell'arabesco decorativo-32•
Fondamentali nel lavoro del critico francese sono i due saggi su Matisse e Mondrian 33• Per due ragioni: perché l'opera di questi artisti è d'importanza centrale nella storia della pit• _tura che egli individua e perché l'analisi di essa si costituisce insieme ad un notevole approfondimento della problematica teorica connessa alla pittura quale processo semiotico. Nel considerare l'apporto di conoscenza fornito da questi saggi sarà da noi privilegiato questo secondo aspetto, né potendo
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ripercorrere l'articolato itinerario della ricostruzione critica svolta da Pleynet, né corrispondendo al nostro tema un'at tenzione primaria di merito ai contributi più propriamente storico-artistici. Occorre, tuttavia, osservare che le produzioni di Matisse e di Mondrian occupano, per l'intellettuale fran cese, posti cardine nella storia della pittura moderna, in quanto si ricollegano, ciascuno in modo originale, all'or dine di problemi posti da Cézanne. Lo studio della pra tica semiotica pittura è così condotto da Pleynet nell'ana lisi di testi che egli ritiene possano dar conto di essa, pur se, com'è ovvio, sotto rispetti diversi. Il linguaggio di Ma tisse è centralmente segnato dalla problematic'a del colore e del disegno; a riguardo il pittore si è espresso con due osservazioni che costituiscono il filo conduttore del sag gio. Esse sono: la rivelazione della vita nello studio del ritratto mi è venuta pensando a mia madre 34 e i quadri, che sono delle raffinate digradazioni penetranti, delle dis solvenze senza energia, richiedono dei bei blu, bei rossi, bei gialli, materie che smuovono il fondo sensuale degli uo mini 35• In questo lavoro, abbandonata la strumentazione con cettuale formalista, il critico si serve a fondo della teoria freudiana. Le trasgressioni che la pratica pittorica si per mette alla fine dell'ottocento rispetto alla normatività specu lare vengono collocate in una dimensione fortemente segnata dalla psicoanalisi, poiché per Pleynet esse finiscono per porla di fronte alla lingua interdetta che essa ha il compito di ma scherare e di spostare sempre altrove 36• Lo studio della pro• duzione di Matisse si incentra appunto sull'analisi del rap porto tra lingua codificata e lingua interdetta e dei problemi implicati, in quanto costituente profondo del processo semio tico pittura. Egli imposta tale relazione nel seguente passo: Materia (che il materiale finisce per occultare), corpo rimosso (spezzettato), lingua interdetta, forza, desiderio spostato a effetti sommari ... La lingua e il sesso caratterizzano la com• plessità di questa posta (censurata), di cui le arti danno al massimo la struttura rappresentativa. Non lhnitarsi a questa produzione superficiale (significato/fantasma) significa pro68 gredire nell'analisi dello stesso materiale che deve rendere
conto, in un modo o in un altro, al di là del codice che lo giustifica, della propria articolazione significante con il sesso e con la lingua, articolazione che prescrive la messinscena multidimensionale dei segni 37• Pleynet cerca di individuare il ruolo svolto nella pratica di Matisse da questa lingua in terdetta ovvero, come si esprime l'artista, dalla forza che sento oggi estranea alla mia vita di uomo normale 38• Dalle osservazioni sulle opere egli passa alla riflessione teorica se condo il metodo di ricerca freudiano e si prova a mettere in evidenza alcuni elementi produttivi che determinano, nel campo della pittura, questo fondo materiale, facendo riferi mento alla nozione di sapore di Democrito e alla sua connes sione con le nozioni di forma e di colore e ponendo questa no zione in rapporto all'effetto e alle pulsioni distruttive del neo nato nei confronti della madre 39• Egli cita i seguenti passi: Secondo Democrito in natura non esiste affatto il colore, giacché gli elementi sono privi di qualità, sia i corpuscoli solidi che il vuoto; nei composti da essi risultanti il colore derive rebbe dal contatto reciproco, dalla misura, dalla direzione, che corrispondono rispettivamente a ordine, figura, posizione. Democrito afferma che il nero corrisponde all'aspro, il bianco al liscio, e riconduce i sapori agli atomi. Democrito assegna una determinata forma atomica a ciascun sapore, fa derivare il dolce dagli atomi rotondi... ecc. In conclusione Pleynet commenta: ordine degli elementi, loro figura, loro posizione. Non è forse questa la struttura analitica più adeguata alla de scrizione degli istinti del neonato allo stadio orale? 40• Rifa cendosi ad un pensiero materialista, egli ha, dunque, cercato di ridefinire il ruolo del colore nella pittura quale elemento materiale in cui sono raccolte energie pulsionali che agiscono nella pratica produttiva di un soggetto. Non gli resta ora che inquadrare l'intera pratica pittorica nel complesso della teoria psicoanalitica delle pulsioni e delle rimozioni. Egli riporta il seguente passo di M. Klein: Tutta la capacità di amore come il sentimento di persecuzione hanno delle profonde radici nei primi processi mentali del bambino e si concentrano in primo luogo nella madre. Gli impulsi distruttivi e i loro elementi concomitanti - risentimento per la frustrazione, l'odio che 69
questa suscita, l'incapacità di riconciliarsi e l'invidia verso l'oggetto onnipotente, la madre dalla quale dipendono la sua vita e il suo benessere - queste varie emozioni risvegliano ansie persecutorie nel bambino. Mutatis mutandis, dette emo zioni rimangono operanti più tardi nella vita. Pleynet com menta: In questo risveglio, il campo materiale delle pulsioni (che continueranno, distribuendosi, a farvi ritorno e ad evo carlo attraverso le reti multiple dei segni e la struttura della scelta oggettuale che caratterizza la difesa contro l'incesto) si costituisce come suo spostamento e cita Freud: quando l'og getto originario di un moto di desiderio è andato perduto in seguito a rimozione, spesso esso viene sostituito da una serie interminabile di oggetti sostitutivi, nessuno dei quali tuttavia soddisfa pienamente 41• La pratica pittorica, in definitiva, as sumerebbe, per Pleynet, nella propria lingua ciò che Freud definisce come un divieto che non si riferisce soltanto al con· tatto diretto col corpo, ma a tutte le azioni che noi definiamo con il modo di dire figurato 42 e in essa occorrerebbe, dunque, riconoscere l'attività di questo fondo materiale 43 rimosso. Questa elaborazione teorica si incrocia strettamente con l'ana lisi dell'opera e degli scritti di Matisse in modo che non può darsi un prima e un dopo. Pleynet riconosce alla pratica del l'artista di avere svelato il fondo materiale connesso alla pro duzione pittorica che la tradizione speculare aveva nascosto: Matisse, connettendo la pratica del proprio disegno al rap porto con l'immagine materna e quella del colore al « fondo sensuale degli uomini », ci inizia all'unico segreto della du plice articolazione surdeterminante: stadio orale-conflitto edi pico 44• Nel concludere la nostra esposizione dei contributi principali offerti da questo saggio può essere utile riportare ancora un altro passo in cui egli sintetizza l'insegnamento critico derivante dalla sua lettura dell'opera di Matisse: Il « fondo » materiale che Matisse mette in evidenza è un fondo comune, ma l'ordine dei rapporti produttivi relativi a questo fondo non può in alcun caso spostarsi, estendersi inalterato da un pittore all'altro (non dimentichiamo che quest'ordine è appunto l'ordine istintuale) 45• 70 Nel saggio su Mondrian il critico francese analizza lo svi-
luppo di una pratica che vede ricollegarsi alla problematica cézanniana, in modo ben altrimenti produttivo di quanto fac ciano i cubisti, riguardo al superamento della cultura matu rata dalla forma 46• Egli individua, anche nei dipinti più vi cini agli stilemi cubisti, una sostanziale diversità di ricerca: Ciò che emerge soprattutto da questa serie di superfici dipinte nello «stile» cubista ( 1913-'14) è l'impossibilità di accettare la convenzione (sia pure moderna, cubista) di una rappresen tazione fittizia dello spazio nel « riquadro ,. del quadro 41_ La pratica di Mondrian viene a costituire nella storia della pit tura tracciata dal critico un momento avanzato in quanto per segue un'alternativa appunto alla cultura maturata dalla forma che per Pleynet determina, nella teoria della produzione pittorica, un oggetto di conoscenza che, non essendo più «sot tomesso allo sguardo», è finalmente in grado di pensarsi nella propria scomparsa, nel proprio annullamento produttivo 48• Nel contesto di questa ricerca vengono considerate le posi zioni critiche riguardo l'individuale, il particolare, l'espressi vità tragica e le complesse teorie simboliche della linea e del colore. I limiti della teorizzazione di Mondrian derivano da una « rivoluzione» logica che il pittore non è in grado di for mulare e che è quindi costretto ad esprimere attraverso con cetti metafisici. Tutte le contraddizioni che si evidenziano nei testi di Mondrian sono proprio determinate da questa in capacità di formulare questa logica «diversa » (non più ari stotelica), che egli si sforza di mettere in pratica, e dalla espressività che tende a sostituirsi (a occupare il posto) al modello logico. Questa espressività finisce così per riprodurre in massa tutti i concetti che la pratica e le annotazioni teoriche sembravano (sembrano) voler rovesciare 49• La ricerca del pit tore dagli anni venti in poi si svolge per il critico nell'ambito di un preciso meccanismo tendente a realizzare un processo di decostruzione formale; una volta messo in atto il dispositivo simbolico . colore/materia, bianco/vuoto, Mondrian ten• derà a farne giocare tutte le possibilità, fino a quell'apertura della tela su uno spazio in rapporto al quale essa non si darà più come oggetto (d'arte) reale, ma come oggetto di cono scenza (il bianco della tela corrisponde al bianco, a,. vuoto 71
di un'architettura generale, a sua volta attratta dalla mate ria/colore come sua determinazione) 50•
Riflessi nella pittura francese Parallelamente all'inizio dell'attività teorica nel campo della pittura di M. Pleynet si sviluppano in Francia le pra tiche di diversi giovani artisti della provincia e parigini che hanno come punto di contatto un insieme di problemi legati al quadro e alle sue componenti materiali: tela, telaio, co lore. Non si tratta qui di ripercorrere la travagliata storia di unioni e scissioni all'interno di questo gruppo che nel pe riodo tra il '69 e il '70 giunge ad una serie di esposizioni co muni sotto la denominazione di Supports-Surfaces 51• Ciò che interessa è notare che l'elaborazione della teoria di Pleynet produce in molti di questi artisti l'esigenzà di· uscire dalla sola operatività materiale del loro lavoro. Si tratta, scrive uno di essi, Dezeuze, di trasformare attraverso la pratica teorica il prodotto ideologico delle pratiche empiriche esistenti in conoscenza 52• È cioè il problema della trasformazione del l'oggetto reale in oggetto di conoscenza, che abbiamo poc'anzi analizzato, che viene posto come centrale. Sotto il rispetto della pratica teorica è soprattutto la figura del pittore Mare Devade che emerge. Il suo lavoro è un contributo alla pro blematica impostata da Pleynet, che si situa necessariamente in una diversa ottica. Infatti, in quanto pittore non può col locarsi all'esterno dei conflitti delle avanguardie e la sua pra tica ·entra subito in connessione con gli ultimi aspetti del l'astrattismo americano, per quanto ne individui i limiti di formalismo. Noland, Olitski e Stella, scrive, sono stati, per quel che riguarda il mio lavoro, i punti decisivi della mia atti vità pittorica ( decisivi ma non primi, questi essendo Pollock e Newman) ... Storia quella della pittura americana che sola si era preoccupata della storia reale della pittura dopo la pro blematica di Cézanne e Matisse, del cubismo e del post-cubi smo 53• Il linguaggio formale elaborato dagli americani costi tuisce dunque all'inizio la base del suo intervento pittorico, 72 all'interno del quale egli ricerca una decostruzione. Nei suoi
primi quadri, scrive Pleynet, si tende all'annullamento della «forma» nel rapporto colore/superficie, quadro nel quadro, inquadratura, ripetizione aperta della superficie 54• Le contrad dizioni ricercate sono, dunque, in questo momento, ancora interne al codice geometrico che si intende sovvertire: La svolta prodotta, invece, dai quadri del '72, segnata dal passag gio dall'uso dei piatti acrilici degli americani agli inchiostri che, per la loro trasparenza, permettono un lavoro all'interno del colore stesso, è in connessione col concetto di colore come infinità del codice indicato da Pleynet a proposito di Cézanne. Il gesto del colore - scrive Devade - consiste nel far risalire dalla tela, della superficie, una profondità che la co stituisce come forma-pittura 55• Quando egli afferma che l'in conscio non è materia di rappresentazione, ma materia che la vora il processo pittorico stesso attraverso... il colore 56, si rife risce alla nozione di lavoro definita da J. Kristeva. È soprattutto, però, nelle affermazioni legate alla sua pratica specifica che riesce a dar conto di tutto ciò con originalità, cercando di mostrare il modo di produzione della sua pittura: Puntual mente, serie dopo serie, con lunghi intervalli di assorbimento di letture e riproduzioni - « l'idea deve precedere il pennello» - fino a scoppiare e che dal cervello e dall'occhio passi attraverso tutto il corpo ed il braccio, la mano, il polso contro la tela tesa - tesa da spaccarsi sul telaio - lavoro di sondaggio nella realtà dei significati acquisiti - «sondare i significati» - compiuta una serie, segue un lungo periodo di ricarica fino al limite della mia resistenza, e allora di nuovo una scarica più o meno lunga... Raggiungere un tale punto del « sapere» che cosa fare, che, di fronte al passaggio all'atto, faccia saltare qualsiasi sapere, qualsiasi controllo; quando dipingo, non so più dipingere, non so più cosa faccio, dove sono - danza sessuale - specie di tetrafonia del qua drato, del rettangolo, pas de deux, è davanti a me, sotto, a piatto, sempre a piatto, ma fluttua - io posso sempre orche strare prima, davanti, quando passo il colore ciò non ha più senso, io non ho più senso; il colore mi avvolge, io sono av volto dal colore, nel colore, è in fondo abbastanza angosciante questo processo - essere in balia del colore - «la pittura 73
migliore è quella che viene fatta in tutta spontaneità. Quando si raggiunge questa perfezione, si ottengono le tre Meraviglie. Ma è ancora, in fin dei conti, il frutto della riflessione, come la forma dell'acqua è quella del canale » - quale gioia non sen tirsi più, non avere più senso 57•
I A. TRIM,\RCO, Bataille e la 'svolta ' di « Tel Quel", in « Op. cit. •• n. 40, 1977. 2 M. PLEYNET, De la peinture I, in « Les lettres françaises», n. 1175. La serie è completata dagli articoli De la peinture aux Etats-Unis II, · III, IV, nella stessa rivista n. 1176, n. 1177, n. 1178, marzo-aprile 1967. J Ibidem. 4 Ibidem. Pleynet trae il passo di J. DERRIDA da Autonomie de l'art et dissolution du concept d'art, testo letto a l'O.R.T.F. e rinvia, inoltre, ai libri del filosofo De la grammatologie, Ed. de Minuit (Ed. It. Jaca Book, 1969) e L'écriture et la différence, Ed. du Seui! coli. « Te! Quel» (Ed. It. Einaudi, 1971). 5 J. KRISTEVA, La semiologia: scienza critica e/o critica della scienza, in AA.VV., Scrittura e rivoluzione, Mazzotta, Milano, 1974, p. 69. 6 Ibidem, p. 66. 1 Ibidem, p. 62. Il passo di K. MARx è tratto da Per la critica del l'economia politica, tr. it. di E. Cantimori Mezzamonti, Editori Riuniti, Roma, 1969, terza ed. 8 J. J. Goux, Marx et l'inscriptio_n du travail, in « Te! Quel», n. 33, 1968;, trad. it. in AA.VV., Scrittura e rivoluzione, cit., p. 103. Il passo di K. MARX è tratto da Il Capitale, libro I, cap. III, Editori Riuniti, Roma, 1970, settima ed. e quello di F. DE SAUSSURE dal Corso di linguistica generale, a cura di T. De Mauro, Laterza, Bari, 1968. 9 J. KRISTEVA, op. cit., p. (:3. 10 Ibidem, p. 65. 11 Ibidem, p. 69. 12 M. PLEYNET, op. cit. IJ J. L. BAUDRY, Scrittura, finzione, ideologia, in AA.VV., Scrittura e rivoluzione, cit.; p. 81. 14 M. PLEYNET, Pittura e ·« realtà», in L'insegnamento della pittura, Mazzotta, Milano, 1974, p. 199. Il passo di HEGa è tratto da Estetica, ed.. it. a cura di N. Merker, Einaudi, Torino, 1972, p. 12. 1 5 M. PLEYNET, op. cit., p. 203. Il passo di L. ALTHUSSER è tratto da Leggere il Capitale, Feltrinelli, Milano, 1971, p. 42. I& M. PLEYNET, op. cit., p. 205. 11 M. PLBYNET, De la peinture aux Etats-Unis, in « Les lettres fran çaises ", cit. 18 :e utile leggere quanto scrive Pleynet riguardo alla ricerca semio logica svolta da J. L. Schefer sul sistema quadro. Pur valutando posi tivamente il suo lavoro - si veda il saggio Pittura e «strutturalismo•, ,in L'insegnamento della pittura, cit., p. 228 - Pleynet ritiene che un'analisi di questo tipo, tendente a mettere In evidenza, nella loro forza, tutte le determinazioni del sistema del quadro, non potrà comunque prendere In considerazione la forza del sistema slgnlftcante, 74 in Pittura e e realtà», sempre ne L'insegnamento della pittura, p. 197.
Di J. L. SCHEFER è tradotto in Italia Scenografia di un quadro, Casa ed. Astrolabio-Ubaldini Editore, Roma, 1974. 19 M. PLEYNET, De la peinture aux Etats-Unis, in « Les lettres fran çaises », cit. 20 M. PLEYNET, Contraddizione principale, contraddizione specifica. L'imitazione della pittura, in L'insegnamento della pittura, cit., p. 24. 21 M. PLEYNET, Mondrian venticinque anni dopo, in L'insegnamento della pittura, cit., p. 132. 22 M. PLEYNET, Contraddizione principale, contraddizione specifica... , cit., p. 17. 23 Ibidem, p. 18. 24 Ibidem. 25 Ibidem, pp. 19 e 21. 26 Ibidem, p. 22. 'I1 C. MILLET, Le fétiche Duchamp, intervista a M. Pleynet, in � Art press », n. 1, dicembre-gennaio 1973. 28 Ibidem. 29 M. PLEYNET, La peinture et le surréalisme et la peinture, in Art et Littérature, Edition du Seuil coli. • Te! Quel•• Paris, 19n, p. 380. 30 M. PLEYNET, Contraddizione principale, contraddizione specifica... , cit., p. 26. JI M. PLEYNET, La peinture et le surréalisme et la peinture, cit., p. 385. 32 M. PLEYNET, Appendice; in L'insegnamento della pittura, cit., p. 193. 33 M. PLEYNET, Il sistema di Matisse e Mondrian venticinque anni dopo, entrambi in L'insegnamento della pittura, cit. 34 M. PLEYNET, Il sistema di Matisse, cit., p. 74. Il passo di H. MATISSE è tratto da Portraits, Sauret, Montecarlo, 1954. 35 M. PLEYNET, op. cit., p. rn. Il passo di H. MATISSE è tratto da De la couleur, Ed. Verve, Parigi, 1945. 36 M. PLEYNET, op. cit., p. 84. 37 Ibidem, p. 84. 38 Ibidem, p. 82. Il passo di H. MAnssl! è tratto da un messaggio inviato ai concittadini di Chateau-Cambrésis. 39 M. PLEYNET, op. cii., p. 85. 40 Ibidem, pp. 86-87-88. Le citazioni sono tratte da 1 presocratici, Laterza, Bari, 1'171. 41 M. PLEYNET, op. cit., pp. 84-85. Il passo di M. KLEIN è tratto da Il nostro mondo adulto, Martinelli, Firenze, 1972, p. 10 e quello di S. FREUD da Contributi alla psicologia della vita amorosa, in La vita sessuale, Boringhieri, Torino, 1'170, p. 181. 42 M. PLEYNET, op. cii., p. 85. Il passo di S. FREUD è tratto da Totem e Tabù, Laterza, Bari, 1946, p. 29. 43 M. PLEYNET, op. cit., p. 85. 44 Ibidem, pp. 89-90. ◄5 Ibidem, p. 96. ◄6 M. PLEYNET, Mondrian venticinque anni dopo, cit., p. 145. Il passo di P. MoNDRIAN è tratto da Réalité naturelle et réalité abstraite, trad. it. in M. SEUPHOR, Piet Mondrian, Il Saggiatore, Milano. 47 M. PLEYNET, op. cit., p. 137. 48 Ibidem, p. 152. ◄9 Ibidem, p. 149. so Ibidem, p. 140. 51 Per tale esposizione rimandiamo alla rassegna Il « ritorno • alla pittura di M. PICONE e R. RICCINI, in e Op. cit, •• n. 33, 1'175.
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52 D. DEZEUZE, Situation et travail du groupe Supports-Surfaces, in « VH 101 », n. 5, Paris, 1971. 53 M. DEVADB, Histoire-critique d'une peinture, Editions Gerald Piltzer, 1975. 54 M. PLEYNET, Rites de passage, nel catalogo Mare Devade-peintures novembre '67-avril 70, trad. it. in L'insegnamento della pittura, cit., p. 255. ss C. MILLET, intervista a M. Devade, in « Flash art », nn. 54--55, 1975. 56 C. Mil.LET, intervista a M. Devade, in « Art press •, n. 9, 1974. 57 M. DEVADE, catalogo della mostra Cronaca. Percorso didattico attraverso la pittura americana degli anni 60 e la pittura europea degli anni 70, Modena, 18 marzo-2 maggio 1976.
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