Op. cit., 43, settembre 1978

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Op.cit. rivista quadrimestrale di selezione della critica d'arte contemporanea

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Edizioni e Il centro » di Arturo Carola


M. PICONE

PETRUSA

M.R. DE ROSA

e F.

IRACE

S. RAY

La. post-avanguardia

S

Luoghi e luoghi comuni della recente critica d'arte

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Narciso e I'ÂŤ altroÂť: note sul dibattito architettonico

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Libri, riviste e mostre

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Alla redazione di questo numero hanno collaborato: Antonio d'Avossa,

Daniela Del Pesco, Fulvio Irace, Maria Luisa Scalvini, Paola Serra Zanetti, Sandro Sproccati.




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Duchamp 6• La sua eredità non bisogna valutarla oggi dalla qualità degli oggetti - del tutto vanificata - quanto rispetto al procedimento critico che vi è dietro. Rendere inagibili le categorie artistiche fino al punto di fare un'opera che non sia un'opera d'arte: questo è lo scopo principale delle sue ricerche. E se dall'impressionismo, al postimpressionismo, ai fauves, al cubismo si era scardinato il sistema visivo di basi prospettiche, rimanendo però su un piano rigorosamente pit­ torico, Duchamp fa un balzo in avanti, spostando il discorso su un piano prevalentemente mentalistico. Sono note le sue ricorrenti affermazioni contro la pittura retinica, a favore, invece, di un'arte mentale. L'arte dunque, sposando le sorti dell'avanguardia, decreta la sua morte, rinuncia al suo statuto consolidatosi nei secoli, abolisce tutti i tipi di tabù e barriere, dilata la prospettiva estetica sconfinando in tutti i campi del reale, mentre paradossalmente è ·proprio dal reale che di­ vorzia definitivamente. A parte pochi e limitati episodi novecenteschi, l'intellet­ tuale « organico » è finito con le barricate della Comune. Da allora in forme diverse l'intellettuale è stato « disorganico », « disgregato » ( o se vogliamo « laterale » e « obliquo ») 7, un figlio scomodo e fastidioso della borghesia che alla scompo­ sizione in segmenti intercambiabili dei processi di divisione sociale del lavoro e all'organica marginalizzazione dell'artista, in quanto figura esemplare di lavoratore improduttivo, ... rea­ gisce attribuendo all'arte il compito specifico di una perce­ zione integrale della realtà 8• L'artista costituisce così la cat­ tiva coscienza della borghesia. Ma nel momento in cui si assume questo ruolo ratifica la propria improduttività e con­ dizione superflua ( eccezion fatta per la linea razionalistica che emerge in architettura e nel disegno industriale). L'emargi­ nazione, istituzionalizzata con la creazione nel 1863 del« Salon des refusés », da condanna si risolverà in privilegio e un pri­ vilegio che ben presto avrà i suoi risvolti nel successo eco­ nomico. Non senza contraddizione. Vivere contro il sistema e alle spalle del sistema sarà il nuovo contraddittorio statuto che alimenterà tutto il dibattito sulla mercificazione dell'arte. Le radici di questo problema coincidono con l'origine stessa


del fenomeno dell'avanguardia, che nasce al primo irrompere della società industriale 9 e precisamente da un diverso rap­ porto rispetto al passato fra lavoro intellettuale e divisione

Con l'esaurirsi della committenza (pri­ vata, pubblica e religiosa), con la cessazione di una funzione documentaria (ora affidata alla fotografia e al cinema), l'arte è lasciata in balia del mercato. Nel sistema economico liberi­ stico, tipicamente borghese, l'artista ha l'illusione di guada­ gnare la sua libertà, ma che ben presto si rivela come libertà di morire di fame 11• Altri e più insidiosi condizionamenti si profilano così per l'artista sottoposto alla dittatura del mer­ sociale del lavoro

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cato 12• Si potrebbe dire, paradossalmente, che la civiltà di massa costituisce per l'arte moderna, al tempo stesso, la garanzia di un incremento infinito delle proprie possibilità espressive e comunicative e la negazione ben definita, oppressiva e per­ fino demoniaca, del concetto stesso di fare arte come opera­ zione individuale, libera, formale ed autentica. L'arte trova il

« suo » mercato proprio in quanto rifiuta certe leggi domi­ nanti della produzione capitalistica...; però nella misura in cui si crea un « suo » mercato, accetta le regole del mercato capitalistico ed è perciò costretta ... ad accostarsi sempre di più agli umori, ai gusti, alle abitudini, alle tendenze e alle ri­ chieste delle masse che chiedono visioni di libertà e di riscatto ma impongono poi lo spessore delle proprie mediazioni intel­ lettuali e morali per accettarle ( e « comprarle ») 13• In queste

condizioni è dunque inevitabile che gli esiti dell'avanguardia siano due fatti apparentemente in contrasto: il consumo e la protesta; che, viceversa, sono fatti paralleli dello stesso siste­ ma capitalistico il quale, d'altra parte, non esita a metterli in relazione generando il consumo della protesta 14• Il mercato mercifica il rifiuto del mercato 15• Ed è proprio per questo che per sopravvivere l'avanguardia deve continuamente morire. Perché è solo nel breve spazio dello choc che trova la sua ragione di essere. Il successo la tramuta subito in accademia. Per sfuggire all'accademia bisogna rinascere dalle proprie ce­ neri con nuove istanze, nuove dissacrazioni, nuove barriere infrante 16• Se questa è la storia e il destino perenne dell'avan- 7


guardia, una svolta si è avuta nel secondo dopoguerra con le cosidette neo-avanguardie. È allora che si crea la nozione di « avanguardie storiche» a proposito delle esperienze dei primi tre decenni del secolo, sia per prendere le distanze che, all'opposto, per crearsi una genealogia, storica appunto. Que­ sta attitudine a rifare la propria storia - che, tra l'altro, negli ultimi tempi è molto aumentata - costituisce un elemento significativo di differenziazione dalle prime avanguardie che, viceversa, si presentavano volutamente sradicate e senza sto­ ria. In definitiva, diminuisce la carica negativa e aumenta quella sperimentale con l'intento di ridurre a nuovi linguaggi, e dunque di ribaltare in positivo, anche le negazioni delle avanguardie storiche (vedi il neo-dada, ad esempio). In questo, quindi, trovano qualche giustificazione le accuse, peraltro sommarie, di manierismo, accademismo e revivalismo che da taluni si rivolgono alle neo-avanguardie. In ogni caso è certo che la carica eversiva (velleitaria e utopistica quanto si vuole) delle prime avanguardie arriva molto smorzata alle seconde, che accantonano, o quanto meno pongono in secondo piano, l'obiettivo di palingenesi totale per concentrare la loro attenzione, e dunque la loro vocazione politica, sul poten­ ziamento della specificità, ossia sul linguaggio. Diverso si presenta così l'atteggiamento dell'operatore arti­ stico, ma non mutano, invece, le leggi del mercato, che anzi, in connessione con la nuova fase di espansione del capita­ lismo, inaspriscono i loro condizionamenti sulla ricerca arti­ stica creando dei cambi di guardia, veri o fittizi, a ogni pas­ saggio di stagione. Si innesta in tal modo un ritmo di suc­ cessione delle varie tendenze così forsennato da far apparire sempre più le sperimentazioni artistiche come una corsa ad ostacoli. Le avanguardie conoscono così la doppia e contrad­ dittoria situazione di un elitarismo sempre più narcisistico 17 e di una progressiva massificazione neutralizzante indotta dal mercato 18, senza che peraltro si istituiscano dei nuovi canali di rapporto diretto con il pubblico che non siano la galleria .e il suo inverso speculare, il museo t9. In questa situazione, secondo Asor Rosa, la negazione non 8 fu più un ponte gettato verso il futuro sull'infinito abisso del-


l'alienazione contemporanea ... bensì un calcolato e program­ mato elemento di una dialettica produttiva ormai ben nota e accettata. Da quel momento l'avanguardia entra nella sua fase manieristica 20 • Che l'orgia di etichette (veri e propri marchi

di fabbrica) non corrispondesse al ritmo reale, direi quasi biologico delle esperienze, è sempre stato chiaro agli artisti che hanno diffidato di queste più o meno forzate aggrega­ zioni, rivendicando un ruolo di ricercatori autonomi (e indi­ vidualisti). La situazione degli ultimi anni ha dato loro ragio­ ne. Dal '69 al '73-'74 c'è stata una grande espansione del mer­ cato d'avanguardia con una vera moltiplicazione dei prezzi. La parte del leone è stata fatta dall'America che ha imposto i suoi artisti, soprattutto pop, e ha giocato al rialzo, gonfian­ do i prezzi, come non si era mai visto, e penetrando con vero spirito colonizzatore in tutti i mercati europei. Nel momento in cui è venuta a mancare la spinta mercantile, per effetto dell'inflazione che ha contratto enormemente il mercato dei generi superflui 21 (e cosa è più superfluo dell'arte?), come per incanto le etichette sono sparite. Gli artisti restano, ma la ricerca ha subito senz'altro un rallentamento per effetto della concorrenza, più che mai spietata, che privilegia i valori assestati e taglia fuori i giovani. Dalla morte dell'arte stiamo passando così alla fine delle avanguardie, cioè alla fine della « fine dell'arte » 22• Ma questa volta non è solo la vocazione al suicidio tante volte preconiz­ zato, ma un'esecuzione capitale decretata dal mercato, il quale per sopravvivere deve incrementare tutti gli aspetti passatisti dell'avanguardia (è una contraddizione in termini, ma è così): Siamo all'antiquariato del moderno e del contemporaneo la­ menta Lea Vergine a proposito di Documenta a Kassel 23, con la complicità della critica sottolinea Bonito Oliva, che nella recensione alla mostra di Torino sull'« Arte Italiana 1960/77 » così si esprime: Come risponde la critica d'arte a questa crisi? Spesso con il progetto del riciclaggio e della storicizzazione, mettendosi di spalle al futuro e privilegiando il passato pros­ simo, scavalcando un presente seppure problematico in una posizione che oscilla tra « archeologia del presente » e « futu­ rologia del passato ». Sotto l'urgenza innegabile di una co- 9


scienza politica che comprenda ogni produzione materiale qual è anche l'arte, la critica si interroga sulla possibilità di un livellamento dei valori e di una « messa in orizzontale» delle presenze artistiche 24• Del resto di questa tendenza all'accademia da parte del­ l'avanguardia era già stato facile profeta Harold Rosemberg con il libro La tradizione del nuovo i.s del 1959, così come an­ cora prima nel 1949 Cesare Brandi aveva anticipato l'attuale dibattito con un saggio che si intitolava La 'fine dell'avanguar­ dia. E in realtà sempre più spesso si parla oggi di post-avan­ guardia. L'ultimo numero dei« Problemi di Ulisse» è dedicato a una raccolta di saggi dal titolo apocalittico (anche se atte­ nuato dal dubbio dell'interrogazione) Fine delle avanguardi e? Che cosa possa succedere dopo, ancora non lo sa bene nes­ suno. Qualcuno ipotizza, o crede già di intravedere, un ritorno al figurativo; e non è del tutto escluso, anche se più che di un ritorno si tratta di un rafforzamento di un settore del mercato già esistente e florido. Fra le lamentele generali Clau­ dia Gianferrari ha onestamente riconosciuto che il mercato del nostro settore (quello figurativo, appunto) non ha risen­ tito grosse crisi 26• Le ultime rassegne internazionali « Docu­ menta 6» a Kassel, la « Biennale dei giovani» a Parigi 27, le ultime edizioni della« Biennale» di Venezia, hanno registrato una battuta d'arresto. Nessuna novità di rilievo si è di fatto verificata nel panorama artistico degli ultimi tre o quattro anni. Leggendo alcune recensioni da parte di critici anche diversamente orientati tra loro, questo senso di fine, di caduta storica della parabola, di svuotamento appare in tutta evi­ denza; ne diamo qui qualche esempio: la cosidetta nuova avanguardia... divenuta fin dalla nascita una copertura ideo­ logica dell'efficientismo neo capitalistico è ormai pervenuta, e a parere quasi unanime, all'esaurimento 28; e ancora: ora tut­ ti, anche gli organizzatori - della Biennale di Venezia del '76 - sembrano concludere che non c'è niente di nuovo nel cam­ po dell'arte ma già si sapeva, e si poteva evitare una mostra ingombrante e « disfattista ,. come « Attualità '72-'76 ,. 29; o più recentemente: è evidente la caduta di punte di interesse avan10 guardistico, sperimentale, giovanilistico o di recupero storico


per oggetti, artisti, situazioni nuove inedite, o di rottura, e, di conseguenza, l'attestarsi dei prodotti esposti su una media che sta fra l'idea di qualità, il buon tono mondano e il pezzo da salotto, sia per i modelli « moderni » che per quelli « in stile» 30 • La sensazione è che si stia regredendo ad un clima

presessantottesco, e che nella fuga delle etichette e delle ten­ denze si torni, magari solo per finta, alle vecchie polemiche: astratto o figurativo? impegnato o disimpegnato? Un parere simile lo ha espresso Celant a proposito della Biennale di quest'anno: nell'antitesi tra astrattismo e realismo, tra «fi­ nestra interna » e « finestra esterna » ( « iconosfera urbana » ), tra «Natura e Antinat-ura » la critica attesta definizioni e me­ todologie da anni '50, dove l'arte era pensata e sentita come contrapposizione di movimenti di ottiche o di semantiche vi­ sive e non come « ricerca linguistica » 31 • Ma si deve aggiunge-

re, che, a differenza degli anni '50 quando quelle contrappo­ sizioni, magari grossolane, erano però reali ed anche dure, oggi, proprio puntando sull'autonomia linguistica - peraltro legittima ed autentica - delle varie sperimentazioni si tende ad un vero e proprio pareggiamento delle esperienze, con uno svuotamento ancora maggiore della carica negativa di cia­ scuna, ammesso che ci sia. Ciò che colpisce, e colpisce per il senso profondamente reazionario dell'operazione, non è tanto, ad esempio, la contrapposizione in sé realismo/ astrazione ma, viceversa, il loro sostanziale livellamento in nome della «grandezza» 32, la categoria più stantia e più equivoca che potesse rispolverarsi nella nostra storia dell'arte. Ed è proprio in nome ·della «grandezza», cioè della « qualità» che il mer­ cato cerca di rilanciarsi fingendo delle contrapposizioni. In mancanza di nuove tendenze si riciclano vecchi antagonismi, beninteso non per fare politica culturale attiva puntando al futuro, ma per rimestare fra i «valori consacrati», fra i « pro­ dotti di qualità », fra i «grandi». Di ciò aveva lucida consa­ pevolezza già nel '75 Gianfranco Pardi: La distinzione fittizia « astratto » - «figurativo » è il prodotto di un approccio ar­ caico, inadeguato e potremmo dire, sottoculturale ( cultura dei mass media) ai problemi attuali della ricerca estetica. Questa distinzione però è anche il risultato del processo mer-

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cantile di differenziazione del prodotto arte, che è uno dei meccanismi elementari del funzionamento del mercato . .. che cerca di mimare e riprodurre in questo modo il concetto di concorrenza delle merci 33• Con varie sfumature e intonazioni, sempre più frequenti e reiterati sono gli appelli alla « qua­ lità»; questi da un lato esprimono un giusto risentimento verso il mercato che ha gonfiato valori e favorito spesso pro­ duzio,ni scadenti 34, dall'altro però possono incoraggiare le attuali tendenze conservatrici del mercato che barricandosi dietro la « qualità» non vuole più scommettere sulle forze giovani 35 • Esemplari in proposito sono i pareri contrapposti di Guttuso da un lato e Baj e Nigro dall'altro. Dice Guttuso: Dipende solo da noi rendere questa crisi un fatto salutare per ricondurre il problema in termini di cultura, di giusto equili­ brio mercantile e di dibattito delle idee. E che dall'era dei « prezzi » sì passi all'era dei « valori» 36• Dissentendo dichiara­ tamente da Guttuso, Baj sostiene che: È vecchia teoria biblica attribuire a disgrazie, crisi e catastrofi pote1·e purificatore e catartico: a mio giudizio è vano pensare che tutte 'ste sfasa­ ture possono spingere a ripensamenti e alla scoperta di valori più veri 37• Ancora più puntuale e preciso è il giudizio di Nigro: Per me l'attuale crisi non cambia niente, anzi può addirittura essere pericolosa per una reazione di conservazione che oggi porta il mercato già in un orientamento di antiquariato 38• E in effetti non è un caso che tra gli stralci di interviste pubblicati da Caroli emerga la particolare soddisfazione per l'attuale crisi purificatrice da parte di Casimiro Porro, am­ ministratore delegato della Finarte e di Claudia Gianferrari gallerista nel settore figurativo, i quali si trovano d'accordo sul fatto che l'opera d'arte di qualità ha tenuto ottimamente 39• Se andiamo a riesaminare le sqrti del concetto di «qualità» nell'arte contemporanea osserviamo che esso, in quanto col-· legato alla bontà di manifattura, era stato messo in crisi so prattutto dal dadaismo, e in particolare da Duchamp. Questi aveva rifiutato il termine arte proprio perché le oscillazioni di qualità buono/cattivo erano del tutto relative e non spo­ stavanu il problema. Pertanto aveva coniato il termine di anarte e aveva creato la pittura meccanica e il ready made,


clue modi per mettere in ridicolo e quindi vanificare il con­ cetto stesso di qualità. Tuttavia il vizio idealistico-borghese del concetto di qualità non si sradicherà tanto presto e lo stesso Duchamp sposterà la ricerca di qualità dal campo ani­ male della pittura a quello intellettuale dell'elaborazione cri­ tica. Che cosa infatti, se non una nuova idea di qualità, gli faceva rifiutare di identificarsi nella figura del pittore, ormai da lui per sempre legata all'espressione bete comme un pein­ tre? 40 II mercato capitalistico attento a valorizzare come mer­ ce tutto quello che sia vendibile, e anche quello che sembre­ rebbe non esserlo, coglierà al volo quest'ultima contraddi­ zione dell'avanguardia per cui non potendosi valutare come beni il soggetto, l'armonia, il contenuto etc., saranno valutati come tali l'originalità, l'accostamento inconsueto di materiali, l'intensità dello choc, la capacità di produrre orrore, la rile­ vanza delle connessioni con taluni sentimenti alienati dello spirito contemporaneo ccc. 41 •

Se è vero che le neo-avaguardie sono profondamente debi­ trici a quelle storiche e in special modo a Duchamp, è anche vero che da questi precedenti hanno ereditato pure tutte le contraddizioni, compresa quella inerente il concetto di qua­ lità. La corsa attuale al recupero della «qualità» nell'ambito dell'avangu ardia 42 - e si badi non solo da parte dei critici ma anche da parte degli artisti preoccupati di trovarsi un posto al sole nella storia - rende del tutto fittizia almeno una delle finalità che si erano poste le neo-avanguardie, quella di spezzare l'esclusivismo della «creatività». Se osserviamo quanto è accaduto negli anni '60: da un Iato il filone dell'arte programmata (con la poetica dei gruppi), dall'altro le varie esperienze pop (fondate sull'obiettività della visione e sulla pittura meccanica); e se esaminiamo anche le novità degli anni '70, i vari esiti -dell'arte povera, della land art e del com­ portamento fino alla body art, sembrerebbe che il concetto di qualità sia stato, se non bandito del tutto, certamente messo da parte a favore di un'idea (del tutto utopistica) del­ l'arte che coinvolge lo spettatore, fino a contagiarlo e a indurlo a manifestare la sua creatività secondo un ideale di « creatività diffusa», non più prerogativa del genio isolato e qualita-

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tivamente eccezionale, l'artista appunto. E del resto il senso degli sconfinamenti successivi dell'arte quale altro era se non rompere (almeno velleitariamente) certe barriere e promuo­ vere la liberazione degli individui? A scapito, s'intende, della qualità che però, in questa prospettiva politicamente coin­ volgente ( nelle intenzioni), era davvero una misera ·cosa, roba da bottegai taccagni. Guardando indietro, in fondo già l'arte concettuale assume una funzione di 'rappel à l'ordre', al­ meno per quanto riguarda il ritorno dell'arte al concetto di autonomia e di specifico che però è ancora del tutto mentale. Mentre su due versanti opposti e inconciliabili qualità, auto­ nomia e specifico artistico, connessi all'idea recuperata della fattualità materiale, saranno alla base della nuova pittura e dell'iperrealismo: la prima, soprattutto in Europa, è rimasta legata alle attitudini riflessive del concettualismo e in base a questo legame cerca di esorcizzare attraverso più o meno copiosi attestati teorici la« materialità» della propria ricerca; l'altro, puntando sui virtuosismi mimetici più difficili, si è di nuovo trasformato in un nuovo trionfalistico pompierismo anni '70 che in area capitalistica fa da curioso pendant al realismo socialista 43• Il fenomeno di riscoperta del « reali­ smo » è stato da molti messo in connessione con l'attuale crisi, tuttavia non bisogna pensare che riguardi solo l'Ame­ rica se, ad esempio, all'ultima Biennale troviamo la retrospet­ tiva dell'iperrealista italiano ante litteram, Domenico Gnoli e nel padiglione della Francia un certo spazio è riservato alle ricerche, fra gli altri, di Gontard. Già nel 1973 « l'Espresso » dedicava il suo fascicolo speciale alla pittura di soggetto sto­ rico-politico 44 che stava tornando di moda. Da anticamera a questa forma di realismo ha fatto la pop ( che del resto ha aperto anche all'iperrealismo) oltre che la cultura dei fumetti e la cartellonistica cinese 45• Sempre dalla pop, o meglio dal « nouveau réalisme », sono poi derivate altre manifestazioni europee legate al problema del realismo con l'idea però di differenziazioni sia dall'iperrealismo che dal realismo politico e con l'ambizione (almeno a livello di giustificazione critica) di trovare una legittimazione nella sfera dell'avanguardia at14 traverso un'attitudine analitica di eredità concettuale. La pit-


tura di Proweller, di Gontard, di Morley, di Gasiorowsky ecc., non si limiterebbe quindi ad avere una funzione « rappresen­ tativa» o «narrativa» ma punterebbe ad un atteggiamento di riflessione sul processo stesso del montaggio pittorico, del la­ voro della pittura 46• Nel panorama di revivals realistici di discendenza pop vanno anche annoverate le esperienze che, senza pretendere di formare una nuova tendenza, si ricono­ scono nella formula di James Collins di romanticismo post­ concettuale 47 , con l'idea di rivalutare gli attributi romantici (bellezza, estetismo, sentimento, amore, mistero ecc.) filtrati attraverso le esperienze del minimalismo e del concettualismo e nello stesso tempo di contrapporsi nei suoi risvolti mate­ riali e intellettuali sia al minimalismo sia all'arte concettua­ le 48• Si tratta, tuttavia, di un romanticismo abbastanza disin­ cantato, ultima trovata pubblicitaria di un mercato stanco e in vena di restaurazione di vecchi valori appena un po' im­ bellettati. E di questo è spavaldamente consapevole lo stesso Collins che afferma: Il romanticismo per me non è che un cartellino, un'etichetta, trucco del mercato. Un vero roman­ tico quasi non esiste! ... fa appunto parte della mia strategia quinquennale per spandere arte e idee nel mondo con il mar­ chio « James Collins ». E come ogni prassi aziendale che si rispetti il riconoscimento del marchio di fabbrica arriva pri­ ma della diversificazione 49• Mentre dunque tutte le forme comportamentali e concet­ tuali si vanno esaurendo, si è registrato negli ultimi anni un ritorno ai quadri da cavalletto e alla pittura nel senso tradi­ zionale del termine. In questa prospettiva, come già in passato abbiamo avuto occasione di notare, anche la nuova pittura viene incontro alle esigenze del mercato fornendo oggetti più facilmente mercificabili 50• In proposito il parere di Fossati che abbiamo già citato 51 veniva a confermare quello che Rita Cirio l'anno scorso aveva espresso rispetto all'Arte Fiera: Molto sfoltito il reparto video tapes e concettuali, grande spazio alla pittura analitica e ancor più alla fotografia. .. I sin­ tomi, se davvero sono tali, sembrano indicare tutti un ritorno all'oggetto da appendere 52• Contemporaneamente si registra la crisi della grafica 53, 15


ma a questa supplisce la nascita di nuovi astri nell'universo mercatile: prima di tutto la fotografia, la quale sia a livello editoriale che di mostre sta avendo un vero e proprio boom, in secondo luogo il disegno, forma d'arte che sembrava de­ sueta e che invece sta vivendo una nuova giovinezza. È esem­ plare in proposito la mostra che si è tenuta alla Kunsthalle di Amburgo nel 1977 Il mondo disegnato, da Mantegna a Beuys, che sembrava proprio voler esprimere l'atto di rifondazione di un genere facendo appello agli antenati. Mentre solo recen­ temente il disegno ha guadagnato un suo posto nelle grandi mostre (vedi Documenta), si sta scoprendo che artisti d'avan guardia, che sembravano molto lontani da questa pratica, hanno avuto una loro ininterrotta, ma nascosta (finora), atti vità di disegnatori: è il caso, ad esempio, di Kounellis cht nell'inverno scorso ha tenuto a Roma alla Galleria di Pio Monti una mostra di disegni di inaspettata ascendenza espre1> sionista ma decantata in un suo personale intimismo. Al cor, fronto suscitano minore meravi�ia le gouaches, peraltro molto raffinate, di Burri, che però le tiene ancora seminascoste. Accanto alle fotografie e ai disegni sono comparsi da qualche tempo i progetti degli architetti che, non trovando altra ospi­ talità, sono approdati al mercato delle immagini, dove c'era ad accoglierli nientemeno che Leo Castelli. I vari sintomi che siamo andati esponendo finora ci atte­ stano che siamo in piena restaurazione. La confusione è gran­ de. Ed è aggravata dalla crisi globale che investe la nostra società. Ci si domanda allora: Che ruolo ha l'arte in questa crisi? In che modo i tentativi di restaurazione che stanno passando nella società (tregua sociale, strategia del consen­ so, esorcizzazione del '68, sì alle riforme ma sui programmi più arretrati ecc.) si fanno sentire anche nel campo artistico? Si ha l'impressione che proprio nel momento di massima disgregazione dei valori da ogni parte si stia correndo alla ricostituzione, magari artificiosa, dei valori, e proprio di quelli più sclerotizzati, con l'ansia di stabilire, comunque sia, dei punti fissi. In materia di restaurazione anche negli altri campi della cultura ci troviamo di fronte a fenomeni signifi16 cativi: ad esempio la ricomposizione di discipline che sem-


bravano volgere al tramonto, come la poesia (si pensi alla moda che si sta diffondendo delle serate di poesia, con la presenza del poeta, novello show-man) e la filosofia. Questa ultima dopo anni di ibridazioni con le scienze più varie del nostro secolo, torna alla sua specificità, alle questioni onto­ logiche di tipo universale: l'Essere, il Nulla... e magari la Storia, il Potere il cui ingresso negli universali è stato aperto dalle delusioni post-sessantottesche dei nouveaux philosophes. Ma non è un caso che, riducendo faticosamente i brandelli di questa crisi, dietro tutti i tentativi di restaurazione tro­ viamo sempre la stessa presenza incombente: quella del mer­ cato. Anche nel campo letterario e filosofico, infatti si è trat­ tato di una accurata strategia elaborata dalle case editrici che poi ha coinvolto programmaticamente anche i mezzi di comunicazione di massa. Tornando alle arti visive, sono in molti a intravedere lo spettro della restaurazione. Anche il modo in cui quest'anno è stata allestita la Biennale sembra avallare questa preoccu­ pazione. Secondo Pier Giovanni Castagnoli la presente edizio­ ne è l'atto ufficiale del ritorno alle formule e ai metodi preses­ santotteschi. C'è la grande mostra storica, le nazioni straniere, ci sono mostre personali, mancano solo i premi, mentre si è accentuato il potere ( e l'arbitrio) del critico. Tutti i dibattiti, le dichiarazioni, le intenzioni riformatrici e i migliori propositi sono rimasti lettera morta... Le si inventi un tema ad esem­ pio e tutto, come per incanto, riprenderà a funzionare 54• E in realtà questa del tema, a giudicare dal numero di mostre così congegnate negli ultimi anni, sembra essere l'ul­ tima panacea anti-crisi. Ma in questa situazione c'è anche chi, come Barilli, insospettabile sostenitore delle avanguardie e dei loro numerosi sconfinamenti, non ravvisa nell'organizzazio­ ne della Biennale una involuzione, ma piuttosto un sano ritor­ no alla tradizione 55• Intanto va aumentando il senso di noia e di stanchezza verso questa situazione di esaurimento, questo girare a vuoto. Secondo Quintavalle la gente da questi proble­ mi sembra lontana ed anche la « base » degli addetti ai lavori sembra più stanca, ironica, disincantata certo meno partecipe del solito 56. Secondo Briganti dai giardini della Biennale si 17


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esce con una grande depressione nel cuore, con un senso di noia, di disfacimento e di morte 57• E non è solo la Biennale che ha suscitato questa impressione così tetra e squallida; anche Documenta dello scorso anno non era da meno, se Lea Vergine ha potuto esprimersi in questo modo: Non c'è fulgore né profezie; ma neanche la drammaticità dell'apoca­ lisse; solo la noia prolifera 58• Contemporaneamente proprio partendo dalla considera­ zione della crisi e del disfacimento si è aperto un vero e pro­ prio processo alle avanguardie, e non solo alle seconde ma anche alle prime, per ricercare le origini di certi errori, di certe ambiguità, di certi fallimenti impliciti, ma anche di certe responsabilità storiche e di certe connivenze. Su questo fronte i pareri si dividono: da un lato ci sono le sconfessioni (ce ne sono da «destra» ma anche da « sinistra») che ten­ dono ad un giudizio globalmente negativo delle esperienze d'avanguardia e indurrebbero a cercare fuori di essa nuovi, inesplorati e magari più autentici «valori»; dall'altro c'è la critica che sostiene e ha sostenuto le avanguardie, ma nello stesso tempo cerca di individuare anche i limiti oggettivi che, storicamente, queste esperienze hanno dimostrato; vanno in­ vece sempre più diminuendo (e questo è significativo) i critici disposti a « sposare» le tesi dell'avanguardia in prima per­ sona, secondo una figura del critico militante in qualche modo esemplata su Apollinaire (ma se vogliamo anche Zola, Baudelaire ecc.), critico/artista per antonomasia, fino ad iden­ tificarsi con una determinata tendenza a « vivere » e a « mo­ rire», sul piano intellettuale, con essa 59• I punti centrali del dibattito, su cui si sono accese infinite polemiche, sono i se­ guenti: 1) c'è coerenza tra l'ipotesi globale estetico-politica delle avanguardie e il ruolo politico reale che svolgono nella società di oggi? 2) In che misura le avanguardie sono respon­ sabili, moralmente e politicamente, di certi aspetti preoccu.!" panti della situazione attuale e in definitiva che nesso c'è tra le loro esperienze e quelle, poniamo, degli indiani metro­ politani, degli autonomi, dei terroristi (IJ? Inutile dire che le critiche francamente reazionarie di Testori e Terranova vedono l'avanguardia perdente su entrambi i punti: rispetto al


primo perché alleata del potere, che però Testori identifica brutalmente con il PCI 61 , e rispetto al secondo, molto più ge­ nericamente, perché si sarebbe fatta interprete della crisi di valori e avrebbe favorito la diseducazione estetica ed etica del pubblico senza raggiungere alcun obiettivo di equilibrio o anche di benessere. Su questa via Terranova arriva fino a sta­ bilire, con scarso senso storico, una relazione tra i balconcini del Bauhaus o dell'architettura organica e quelli di tante pa­ lazzine della periferia romana; tra i prototipi dei quartieri razionalisti ed i ghetti di edilizia popolare della cintura ur­ bana-dormitorio, tra l'ambiguo macchinismo vitalistico dei futuristi ed il caos ambientale nel quale oggettivamente ci ha messi lo sviluppo « anarchico » del capitalismo industriale 6. Nei primi due casi, come giustamente ha fatto notare Menna, si confonde fra le premesse delle avanguardie ben diversa­ mente orientate 63 e gli usi sconsiderati e a fini speculativi di queste premesse da parte di precise forze sociali e politiche, mentre nell'ultimo accostamento si mettono in rapporto due fenomeni del tutto estranei fra loro (futurismo e speculazione ,elvaggia), sul filo del tutto esteriore dell'« anarchia» che, invece, ha connotazioni e significati ben diversi nei due feno­ meni in esame. Il pericolo di una posizione del genere è che può trovare (e di fatto sta trovando) facile consenso in quella fetta di pùbblico che, senza interrogarsi sulle ragioni e magari sulle contraddizioni dell'avanguardia, la rifiuta in blocco, nel timore che questa possa mettere in discussione anche mini­ mamente l'ordine stabilito. Ben diversa, anche se in qualche disattento e frettoloso lettore ha potuto generare confusione, è la posizione di chi, come Bologna, critica le « avanguardie da sinistra», cioè va­ lutandone le contraddizioni e imputando loro di non essere riuscite a sganciarsi sufficientemente dai condizionamenti del sistema capitalistico, così da compromettersi troppo con que­ st'ultimo, fornendogli in definitiva una copertura ideologica 64• Tuttavia, come in parte abbiamo già visto attraverso le citazioni precedenti, anche la critica che più ha cercato di penetrare le tendenze dell'avanguardia, negli ultimi tempi ha cominciato a manifestare preoccupazioni, lamentazioni, o 19


speranze di « purificaz1.one » affidate alla catastrofe finale. Non sono rari gli atteggiamenti da esami di coscienza 65 o le tempestive separazioni di responsabilità come nel caso esem­ plare di Calvesi che ne fa una questione di distaccata pro­ fessionalità, in questi termini: Vero è che l'arte si difende male; col sospetto di anarchismo, di misticismo, di sbandante fumosità che espande dal proprio corpo quasi ormai a folate intermittenti .un lezzo di putrefazione: ma ammesso e non concesso che di cadavere sl tratti sia consentito almeno di fame con calma l'autopsia 66• E in realtà, proprio col tono di chi vuole fare l'autopsia al cadavere, nel saggio che si inti­ tola Avanguardia di massa pone a fuoco il problema scottante della possibile relazione tra le avanguardie e la cosiddetta ala creativa del movimento del '77. Non siamo per carità alle generiche accuse di Terranova di fomentare il caos, ma vice­ versa, a un tentativo di storicizzazione più ampia del feno­ meno dell'avanguardia. Provandoci a riassumere al massimo, la tesi di Calvesi si incentra sull'ipotesi che il Beaubourg a Parigi e gli indiani metropolitani siano due aspetti comple­ mentari della massificazione di una cultura e che entrambi si siano serviti come modello dell'avanguardia rispettivamente nei due opposti risvolti del consumo e della protesta. Mentre quindi finora l'avanguardia si è posta sempre come modello a se stessa, ora fa da modello a qualcos'altro da sé e questo qualcos'altro adotta nei suoi confronti la stessa tecnica as­ sunta da ciascuna avanguardia rispetto alla precedente, cioè quella che Calvesi chiama la logica dello « spossessamento e sorpasso•· A partire dal '68 le avanguardie sono state rinne­ gate, in quanto residuo di cultura borghese, ma nello stesso tempo sono state spossessate sia della carica provocatoria, che di tutta una serie di modelli di comportamento, oltre che di precisi costumi linguistici. Sono noti i numerosi slogans di origine futurista e surrealista (il più famoso è l'immaginazio­ ne al potere), così come sempre più frequente diviene l'uso di una scrittura trasgressiva che spezza l'unità della parola (A/ traverso, di/mostra/azione) anzi è proprio sul piano lingui­ stico che Calvesi, sulla scia di Eco, ravvisa i nessi più strin20 genti fra futur-dada-surrealismo e indiani metropolitani. Come


sia potuto accadere questa, per molti versi imprevista e im­ prevedibile, moltiplicazione del messaggio delle avanguardie si è chiarito da Eco, Kristeva 67 e Calvesi stesso che puntano molto sul ruolo primario giuocato dai mezzi di comunicazione di massa, che avrebbero fatto a distanza di parecchi anni dalle prime avanguardie, da vera e propria cassa di risonanza. In tal modo quelle che erano operazioni di laboratorio, tendenti a focalizzare attraverso la disgregazione del linguaggio la di­ sgregazione dell'intellettuale, ma più in generale dell'uomo nell'attuale società, verranno tradotte, diluite e massificate dalla cultura hippy, pop e underground fino alle canzoni dei vari cantautori. A questo quadro sostanzialmente condividi­ bile - ricco di molte altre sfumature e precisazioni che qui non si possono ripetere - bisogna aggiungere qualche con­ siderazione: in primo luogo si deve ben distinguere tra prime e seconde avanguardie. Mentre dal nostro punto di vista c'è un nesso stringente con le prime (anche attraverso i canali culturali che hanno fatto i conti con le avanguardie storiche e cioè gli esiti moderni della linea negativa approdata ai filo­ sofi del « desiderio liberante » Deleuze e Guattari, o anche Foucault ecc.) 68, non c'è invece un rapporto diretto con le se­ conde, se non in modo del tutto episodico e casuale. E, dove c'è, non si tratta tanto di una comunicazione diretta tra i due fenomeni quanto di una derivazione da prototipi comuni, cioè le avanguardie storiche. L'attuale neo avanguardia, come abbiamo già notato, a differenza dei suoi precedenti storici ha molto ridimensionato l'aspetto di progettazione socio-politica generale 69 per dele­ gare la propria presenza nella società al linguaggio, cioè al suo campo specifico; con un atteggiamento da un lato più maturo - in quanto cerca di sfuggire al velleitarismo - dal­ l'altro più incline alla separatezza elitaria che ben conosciamo. Stando così le cose, la spirale di violenza, più o meno accom­ pagnata da una pioggia di discorsi dis/aggregati, ha vera­ mente spiazzato la neo-avanguardia che o ha rifiutato addi­ rittura di riconoscersi nel fenomeno « avanguardia » 7() o sta cercando, per ora solo episodicamente, di cavalcare la tigre, ripetendo l'esper-ienza del '68 71•

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Una seconda considerazione cerca poi di entrare nelle ragioni di questo collegamento con il movimento studentesco. Perché prendere a modello le avanguardie? A queste lo ap­ parenta oltre che la condizione di emarginazione-separatezza fino ai limiti della disoccupazione, l'accentuazione dell'aspetto individualistico dell'opposizione e la volontà di superare lo status quo attraverso un progetto che non rispetta i tempi reali della politica ma viceversa vuole «tutto e subito». Su questo terreno è facile che alligni la tematica della violenza di soreliana memoria (che però andrebbe indagata più a fondo), ora come sogno (avanguardie) ora purtroppo, come tentativi reali (autonomi). Su questo piano avviene il divorzio dal marxismo 72 in quanto questo gioco tra individualità e uni­ .versalltà ... non può essere tradotto in linguaggio politico dal momento che questa operazione richiederebbe dalla politica una sua totale deistituzionalizzazione, ovvero una realizzazio­ ne, sic et simpliciter e seduta stante del comunismo 73• Sia nelle avanguardie che nel movimento dunque ci allontaniamo dal campo della «politica» per approdare a quello più gene­ rale dell'«etica» proiettando alla fine anche l'etica nella di­ mensione « estetica » 74• A questo punto la differenza di fondo, ma sostanziale, tra avanguardie e movimento è che, mentre le prime hanno accet­ tato di riportare il loro discorso nel ghetto, il movimento non lo ha accettato e con tutta la carica di ribellismo narci­ sistico ed estetizzante che si porta addosso sta tentando il momento della prassi. In questa situazione, che purtroppo sembra avere precedenti poco confortanti nella nostra storia (per un verso il momento che precedette l'avvento del fa­ scismo e per un altro quello che preparò l'avvento del na­ zismo con il fallimento della socialdemocrazia di Weimar) 75, la responsabilità delle avanguardie non è da sottovalutare. Se è vero che non hanno prodotto il movimento, è vero pure che costituendosi come una delle matrici culturali, ne hanno per così dire provocato l'accelerazione 76• Ma in questo caso devono allora dividere la responsabilità con tutto l'enorme, e per molti versi contraddittorio, filone di pensiero che chia22 miamo «negativo» 77• Non a caso uno dei -temi centrali del


dibattito attuale è su razionalità e/o irrazionalità. Un tema attuale perché scottante ma che rischia anche facili schema­ tizzazioni. Se dalla confusione dei tempi è emersa una cer­ tezza questa consiste nell'avere acquisito una volta per tutte che come esistono vari tipi di razionalità così ne esistono altrettanti di irrazionalità. Le facili accoppiate capitalismo/ irrazionale, rivoluzione/razionale o anche borghesia/razionale, rivoluzione/irrazionale, sembrano ormai definitivamente tra­ montate. Come sempre, la storia richiede distinzioni ma an­ che scelte difficili.

I F. FORTINI, voce Avang11ardia, Enciclopedia Europea Garzanti, ri­ pubblicato in A.A.V.V., Fine delle Avang11ardie?, in « I problemi di Ulisse», Sansoni, Firenze 1978. 2 W. PEDULI.À, Le avanguardie con la morte ci campano, ibidem. J Si segnala la recente riedizione di Hegel, Estetica, Laterza, Bari 1978. 4 G. C. ARGAN, L'artistico e l'estetico, conferenza introduttiva al ciclo delle attività didattiche della Galleria Nazionale d'Arte Moderna di Roma per l'anno 1972-73, tenuta il 3/12/1972 e pubblicata in « Arte e società» n. 6, 1973; IDEM, I d11e stadi della critica in « Dove va l'arte», della serie « I problemi di Ulisse», Sansoni, Firenze 1973. 5 Cfr. anche A. AsoR ROSA, voce Avanguardia, Enciclopedia Einaudi, voi. Il, Torino 1977. 6 Ibidem: « Dalla stessa radice da cui nasce la vocazione sociale e politica dell'avanguardia, nasce la sua vocazione autodistruttiva, la sua interpretazione moderna e autentica del motivo romantico della 'fine dell'arte' ... Il punto di maggior consapevolezza del carattere necessaria­ mente autodistruttivo dell'opera d'arte d'avanguardia è raggiunto dal dadaismo...». 7 Sono i termini usati da A. BONITO OLIVA per definire l'atteggiamento dell'artista nei confronti della società; il primo ricorre in L'ideologic; del traditore, Feltrinelli, Milano, 1977, e il secondo in Passi dello stra­ bismo. Sulle arti, Feltrinelli, Milano 1978. 8 A. AsOR ROSA, op. cii. 9 M. CALVESI, Avanguardia di massa, Feltrinelli, Milano 1978, p. St.. IO A. ASOR ROSA, op. cii. 11 K. TEIGE, li mercato dell'arte, Einaudi 1973, p. 14. 12 Ibidem, p. 24. 13 A. AsoR ROSA, op. cit. 14 Cfr. M. CALVESI, op. cit., p. 56: « •.• è proprio nell'improduttività, o meglio in una sorta di parassitismo privilegiato, che consumo e pro­ testa potevano ordire un sistema apparentemente irrelato al contesto sociale, tale da poter essere giudicato ... un'improbabile stranezza. Ovvero una manifestazione della 'stravaganza' propria degli artisti•· 15 A. AsoR ROSA, op. cit. 16 Bisogna tuttavia precisare che non tutte le avanguardie si pre­ sentano con questa volontà dissacrante: si deve distinguere infatti la linea razionale-costruttivista, che esprime nel Bauhaus il massimo sforzo

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di collegamento in positivo con la realtà, dalla linea più dichiarata­ mente « negativa» che passa attraverso il futurismo, il dada e il surrea­ lismo e si prolunga nelle neo avanguardie con l'informale e successi­ vamente con le varie forme di comportamentismo, body art ecc .. Una volta operata questa doverosa distinzione di massima si deve però anche sottolineare che frequenti sono stati gli scambi fra le due linee a partire dalle comuni istanze di partenza fondate sul rifiuto dello status quo attraverso il rifiuto delle categorie artistiche consacrate. l:. proprio questa comunicazione sotterranea (a volte neanche tanto sotterranea) che consente a I. Tomassoni (in O Grande, Bulzoni, Roma 1977) di impostare un discorso che scelga a campioni Mondrian, Duchamp e l'arte concettuale in quanto tutti « hanno sostituito la pratica dell'arte come teoria del testo generale dell'arte». 11 F. M. FERRO, Avanguardie e impegno politico, in « I problemi di Ulisse», cit. 1978: «Le avanguardie hanno ancora caricato la maschera, inacidito il narcicismo, isterizzato la pretesa di stupire ma la loro sepa­ razione dal pubblico e dal suo consenso si è scavata in modo irrecupe­ rabile. Di qui la loro inconcludenza 'politica ', la loro difficoltà a trovare una partecipazione. Se ne è forse scoperto definitivamente il vizio elitario, l'origine individualista e idealista ». 1s A. AsoR RosA, op. cit.: « ... la società capitalistica, raggiunti certi livelli di sviluppo, conosce la· massificazione anche degli elementi anta­ gonistici che sono al suo interno ». 19 F. FORTINI, op. cit. 20 A. AsOR ROSA, op. cit. 21 D. FROMENTIN, in un'intervista in « Art press» n. 2, Nov. 1976, dice: « La crisi esiste da due anni per tutti, per tutti i commerci di lusso. Non resterà gran che dell'arte attuale, l'avvenire dell'arte è nella fotografia e nel video». 22 Di « fine dell'arte come morte,. e di « morte della morte dell'arte» parlano rispettivamente G. C. ARGAN, E la critica restò sola, in «L'Espresso», 11/6/1978 e I. TOMASSONI, op. cit. 21 L. VERGINE, Documenta: manierismo e collaborazionismo, in « I problemi di Ulisse,. cit. 1978. 24 A. BONITO OLIVA, Il passato prossimo della pittura italiana, nel « Corriere della sera», 5/6/1977. La stessa espressione di « Archeologia del presente», ma in senso positivo e relativamente ai vari problemi del reale si trova anche in B. H. LM, La barbarie dal volto umano, Marsilio, Padova 1978. 25 Con lo stesso titolo, tra l'altro, sta uscendo già da un anno una rivista che si interessa di arte contemporanea ed è edita dalla Pinacoteca Comunale di Ravenna. 2h Dichiarazione cit. in F. CAROLI, La crisi ha chiarito i valori, nel « Corriere della sera», 18/5/1975;, più recentemente Casimiro Porro in­ tervistato da T. TRINI conferma: « Questo ritorno al 'figurativo' ... è generale e internazionale,. e precisa che parallelamente c'è un vero e proprio boom dell'antico, in Parliamo del mercato dell'arte, «Data,. n. 30, Gen/feb 1978. Z1 Cfr. A. BONITO OLIVA, Questi giovani ripetono tante vecchie novità, nel « Corriere della sera», 2/10/1977: «La Biennale di Parigi si pone spesso come 'pratica dell'eco', in quanto la selezione dei 'giovani' artisti è avvenuta tenendo. come parametro gli ' adulti' e i loro lin­ guaggi». i.a F. BOI..DGNA, Un dubbio sulla Biennale, in « Il Mattino», 18/7/1976. 29 M. CALVESI, Discutiamo co,i calma della Biennale, nel « Corriere della sera», 18/7/1976. 24 30 P. FOSSATI, Bologna. Arte Fiefa 78, in « La Stampa., 9/6/1978.


Jt G. CELANT, Sono come le stazioni del vecchio Gioco dell'Oca, in « La Repubblica », Lug. 1978. JZ La prima « stazione» della mostra storica alla Biennale, si inti­ tola Grande astrazione/grande realismo, espressione tratta da uno scrit­ to di Kandinsky del 1912. JJ Dichiarazione in F. CAROLI, La paura spinge verso i figurativi• nel « Corriere della sera "• 23/11/1975. }I G. GHIRJNGHELLI nell'inchiesta di F. CAROU, op. cit., 18/5/1975, di­ chiara: « La critica esisteva già prima della crisi. Voglio dire che molti valori gonfiati da un certo tipo di mercato stavano rovinando il ' vero • mercato dell'arte, e fortunatamente è subentrata la seconda crisi, quella contingente e generale ...»; secondo ARll.tAN, intervista in « Art press », n. 2, cit.: « essa [la crisi] ha liquidato una gran parte di mercanti, collezionisti e non pochi artisti-bidoni»; secondo A. BONITO OLIVA, op. cit., 5/6/1977, si tratta di « una crisi anche utile per depurare il mercato ed individuare i valori portanti dell'arte italiana che esistono e regge­ rebbero benissimo un confronto internazionale». 35 C. PORRO, dichiarazione cit. in F. CAROLI, op. cit., l8/5jl975: « Mag­ giori flessioni si sono verificate per l'avanguardia e per alcuni artisti criticamente non definiti». 36 R. Gurruso, La differenza tra collezionista e speculatore, nel « Corriere della sera», 18/5/1975. 37 E. BAJ, Venne la crisi e fu la Catastrofe, nel e Corriere della sera», 25/5/1975. 38 M. NIGRO, dichiarazione in F. CAROLI, op. cit., 23/11/1975. J9 c. PORRO, op. cit. 40 M. DucHAMP, The great trouble with art in this country, intervista con J. J. SWEENEY in The essential writings of Marce! Duchamp, a cura di M. SANOUILLET e E. PETERSON, Thames and Hudson, Londra 1975. 41 A. ASOR ROSA, op. cit. 42 A. BONITO OLIVA, op. cit., 5/6/1977: « ... l'arte è 'intransitiva ' in quanto proposta di modelli alternativi, produzione non gregaria che fonda il proprio valore sull'autonomia e la qualità"· 43 Cfr. F. CALEFFI, Arte e consumo, Guaraldi, Firenze 1973; e M. PrCONE, Alcune opinioni sull'iperrealismo, in « Op. cit. • n. 30, 1974. 44 G. MARMORI, Falce e pennello, in e L'Espresso», 16/9/1973. 45 Ibidem. 46 Y. PAVIE, Celte figuration autre que l'on dirait analytique, in « Opus International • n. 59, Mag. 1976; questo numero dedica un ampio servizio, a cura di vari autori ai Jeunes peintres figuratifs. 47 J. COLLINS, dichiarazione in « Flash Art • n. 56/57, Giu. 1975. 48 H. KONTOVÀ • G. POLITI, Romanticismo post concettuale, in « Flash Art,. n. 78/79, Nov.-Dic. 1977; in questo numero compaiono le dichiara­ zioni di vari artisti che si riconoscono in questa formula: J. Collins, R. Welch, B. Beckley, P. Hutchinson, M. Adams, C. Carpi, L. Ontani, S. Brogger, A. Messager, B. e M. Leisgen, N. Gravier, J. Setzer, C. Boltanski, J. Le Gac, A. Smith, Colette. 49 J. CoLLINS, Ibidem. 50 M. PICONE • R. RICCINI, Il ' ritorno ' alla pittura, in « Op. cit." n. 33, Mag. 1975. Bisogna dire però che, rispetto alle previsioni di allora, la nuova pittura ha sì conquistato subito un posto di rilievo nel mer­ cato, soprattutto in Francia, ma non ha scatenato particolari �umenti nei prezzi. Anzi, per la verità, le quotazioni si sono mantenute piuttosto basse anche per pittori ormai affermati. :E possibile che questo sia in diretto rapporto con i riflessi negativi che ha avuto sul mercato del­ l'arte l'inflazione. 51 P. FosSATI, op. cit., aveva rilevato « l'attestarsi dei prodotti esposti

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su una media che sta fra l:'idea di qualità, il buon tono mondano, e il pezzo da salotto sia per i modelli ' moderni • che per quelli ' in stile •». 52 R. CIRIO, Arte Fiera a Bologna. Che pittore sembra proprio un attore, in «L'Espresso», 19/6/1977. s1 I motivi della crisi sono stati chiariti da un convegno sul tema Grafica moltiplicata: ricerca e mercato, in occasione dell'« Arte Fiera» '78 di Bologna. Brevemente i motivi della crisi sono stati riassunti da A. DRAGONE, La grafica è in crisi, in « La Stampa», 28/7/1978: oltre la generale recessione economica bisogna tener conto della presenza sul mercato di molti falsi e riproduzioni fotomeccaniche vendute come originali, le numerazioni doppie (o multiple), la produzione tecnica­ mente scadente, l'IVA al 35% invece che al 14% per un errore materiale sfuggito ai legislatori, e infine le quotazioni irreali. 54 P. G. CASTAGNOLI, La Biennale dei capricci. Non basta l'assalto al viale d'ingresso, in « La Repubblica », Lug. 1978. Dello stesso avviso è N. PONENTE in L'ordine regna a Venezia, « Paese sera», 6/8/78. 55 R. BARILLI, Non è una mostra è un piatto d'insalata, in « L'Espresso •• 2/7/1978. Senza voler entrare nel merito del giudizio sulla presente e sulle passate organizzazioni della Biennale, non si può non rilevare che certe accuse di demagogia (cfr. anche M. CALVESI, op. cit., 18/7/1976) rivolte al principio di decentramento così come era stato realizzato nelle scorse edizioni non possono restringersi all'episodio della Biennale ma vanno generalizzate e quindi rivolte alla stessa avanguardia, per il modo in cui ha impostato o non impostato i rapporti con il pubblico, con la città, con il territorio. Non solo i coinvolgimenti delle passate edizioni della Biennale sono falliti, ma tutti i tentativi di coin­ volgimento. Non a caso il dibattito sul decentramento culturale è finito nel nulla; ad un certo punto si era perfino coniata l'etichetta di « provinciart», ennesimo trucco mercantile, una specie di colonizza­ zione in subappalto. 56 A. C. QuINTAVALLE, La Biennale di Aristotele, in « Paese Sera», 2/7/1978. � G. BRIGANTI, Hanno nascosto l'arte nel labirinto dei maghi, in « La Repubblica», Lug. 1978. 58 L. VERGill.'E, Kassel, colosso che crolla, in « Paese Sera», 3/7/1977. 59 Mentre sugli atteggiamenti dei primi due tipi di critica torneremo nel discorso, qui preme fare qualche considerazione sull'ultimo che invece tralasceremo. Alla critica « creativa» è approdato con molto ritardo, per la verità, anche I. TOMASSONI con O Grande cit., per farsi portavoce delle tendenze autoriflessive dell'arte, mentre significativa­ mente un critico come Celant dopo aver sostenuto e vissuto con « l'arte povera» la militanza diretta è ora passato ad un più cauto e per la ve­ rità attento e documentato storicismo di cui ha dato prova tra l'altro in un settore della Biennale del 76 dedicata all'ambiente. Una posi­ zione quanto mai ambigua sta assumendo invece A. Bonito Oliva il quale, dopo essersi fatto paladino dell'avanguardia in prima persona e aver fatte sue certe trovate dadaiste unite alle teorie ma anche ai modi della schizo-analisi di Guattari, sta ora giocando sul doppio bi­ nario dell'intellettuale obliquo e disgregato (ma solo di facciata) e dell'intellettuale non tanto « organico», quanto integrato nelle strut­ ture di potere, cioè di mercato. Già mostre come « Vitalità del nega­ tivo ,. e « Contemporanea» avevano sollevato un discreto polverone, oggi il modo con cui ha organizzato (insieme a Menna, Amman e Del Guercio) la sezione storica della Biennale, non lascia meno per­ plessi; anche perché dopo aver tanto criticato gli « archeologi del presente» in nome della « qualità» (op. cit., 5/6/1977) è ricaduto anche lui in una operazione antiquariale ma senza salvare né la storia né la


qualità, e facendo al massimo opera di fiancheggimento del mercato proprio nel recupero dei relitti archeologici di seconda mano. Questo forse è il vero senso di un'altra sua ricorrente frase: « va sfatato il luogo comune dell'arte come incessante novità... » ibidem. 60 Questi tre fenomeni spesso si mandano insieme, mentre sono accomunati solo dall'aspetto importante, ma non esclusivo, della vio­ l�n�a. �ias�uno meriterebbe un'analisi. Giustamente M. CALVESI, op. cii., hm1ta 11 discorso del rapporto con le avanguardie agli indiani metro­ politani e al movimento di Bologna del 1977. 61 G. TESTORI, articolo di apertura della sua collaborazione al « Cor­ riere della sera», 4/12/1977; sull'argomento è tornato varie volte anche nei mesi successivi, ricordiamo, ad es. Sono queste le • arti visive '?' 9/4/1978. · 62 TERR.\NOVA, nota n. 144 di • Italia nostra », 1977. 63 F. MENNA, Tritlico per una restaurazione, in « Paese sera•, 8/1/ 1978. M F. BOLOGNA, op, cii. 65 Cfr. M. VOLPI ORIANDINI, Fine dell'avanguardia o fine della critica? in « I problemi di Ulisse» cit.: « Una specie di esame di coscienza mi induce a riconoscere che ho omesso in questi anni di 'avanguardia', la presenza di altri grandi artisti da Otto Dix a Bacon, a Beckmann a Ben Shahn». 66 M. CALVESI, op. cii., 18/7/1976. 67 U.· Eco, Come parlano i' nuovi barbari'. C'è un'altra lingua l'italo­ indiano, in « L'Espresso», 10/4/1978; ibidem, intervista a J. Kristeva. s In proposito mi sembra molto pertinente l'osservazione di M. CALVESI, op. cit., p, 64: « Mentre i precedenti (cioè di volta in volta Marx, Freud, Nietzsche), restano come tali distaccati e relativamente a sé stanti, gli sviluppi di pensiero enunciato risultano non più sepa­ rabili dalla logica e dal corpo· delle avanguardie e delle esperienze artistico letterarie, o comportamentali, grazie proprio alla premessa o radice surrealista ... Freud non si riconobbe nel surrealismo ... Deleuze e Guattari introducono L'anti-Edipo con un capitolo su 'le macchine desideranti ' che ... parafrasa le cosiddette 'macchine celibi' di Miche! Carroudes ... •· 69 II discorso naturalmente è molto sommario e non tiene conto delle pur numerose eccezioni. Fra queste basti ricordare la figura di J. Beuys che ha mantenuto il ruolo dell'artista-demiurgo, dotato di carisma e capace di imporre una visione totalizzante. 10 Di questo tipo è stata la reazione ad esempio di Gianni Kou­ nellis alla presentazione di M. Calvesi, che riferiva questa tesi, alla mostra tenuta a Napoli a Villa Pignatelli nell'inverno scorso. 11 C'è poi tra gli artisti anche chi riconosce che l'avanguardia è stata spiazzata nel suo ruolo sia provocatorio che creativo, come Fer­ nando Di Filippi che in Arte e comunicazione 'diversa', in «Tra» n. 4/5, Mar.-Mag. 1978, dice: « La Creatività di massa ha di fatto esau­ torato le arti e gli artisti intesi nel senso più stretto da quella funzione di provocazione che per anni hanno avuto da Dada a Warhol •· L'inter­ vento di Di Filippi, ma anche la proposta di dibattito Percorsi nelle teorie negative-laterali, e il tono generale della rivista rivelano interesse per un eventuale collegamento con le masse che ci riporta alla memoria l'atmosfera, peraltro più viva e bruciante, della contestazione del ses­ santotto. Le arti questa volta sono arrivate veramente tardi. E suona quasi ironica la breve puntata del tutto esteriore di Bonito Oliva in direzione del movimento del settantasette in Passi dello strabismo cit., p. 8. . 72 Quasi uniche eccezioni sono state il futurismo russo e il surrea- 27


lismo, che però hanno significato soprattutto il fallimento di questa collaborazione con il suicidio di Majakowski all'avvento dello stalinismo e il distacco del surrealismo dal Partito Comunista Francese per piegare verso il trotzkismo da un lato e l'esoterismo alchemico dall'altro. Contro le mitizzazioni correnti del surrealismo, cfr. F. FORTINI - L. B1NNJ, li movimento surrealista, Garzanti, Milano 1978. 73 A. AsoR ROSA, op. cit. 74 Il confluire di politica, etica ed estetica in una dimensione comune cui non è estraneo l'elemento ludico è chiarito dalla lapidaria espres­ sione di un indiano metropolitano intervistato da F. STJNCHELLI, Parola di Geronimo, nel « Messaggero», '15/2/1977: « La rivoluzione è una festa•· 75 Non a caso in questo dopoguerra in tempi successivi le sorti e le responsabilità del futurismo e della socialdemocrazia di Weimar sono state al centro delle discussioni e delle varie tesi storiografiche. Negli ultimissimi tempi si sono moltiplicati gli studi (Rusconi, Laqueur, Gay) e le mostre sul periodo di Weimar. Ricordiamo Tendenze dell'arte degli anni venti alla Kunsthalle di Berlino nel 1977, Erwin Piscator e li teatro di Weimar al Palazzo delle Esposizioni a Roma nel corso di quest'anno. 76 Giustamente M. CALVESI, op. cit., p. 71, parla di « ' contagio' degli atteggiamenti •· TI Uso qui il termine « negativo " in senso estensivo e non solo in riferimento alla dialettica negativa della scuola di Francoforte. t;: nota !'àttitudine dell'avanguardia a solidarizzare di volta in volta ora con filosofie vitalistiche e superomistiche (Sorel, Nietzsche, Bergson) ora spiritualistico-esoteriche (teosofia, zen, alchimia) ora negative (scuola di Francoforte) ora individualistiche (esistenzialismo, freudismo fino alla schizo-analisi di Deleuze e Guattari e ora ai nouveaux philosophes). Si tratta è vero di filoni di pensiero diversi e a volte anche in contrasto (si pensi all'opposizione Deleuze-Lévy), tuttavia c'è un sottile filo che corre tra questi vari orientamenti ed è l'attenzione pressoché esclusiva ai problemi dell'individuo in opposizione al sistema dominante e fa. cendo leva sui suoi lati per lo più irrazionali.

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Luoghi e luoghi comuni della recente critica d'arte MARIA ROSARIA DE ROSA - FULVIO IRACE

Un anno fertile questo, e anche burrascoso, per la critica d'arte in Italia. Infatti in occasione di importanti, e anche spettacolari, esposizioni (la Metafisica del Quotidiano, la Biennale '78, etc. 1), del Convegno europeo della critica d'arte (Critica O 2), e della pubblicazione di alcuni libri sull'argo­ mento 3, si è sviluppato un ampio dibattito, che talora è ri­ masto confinato nei limiti di una trattazione specialistica. Riteniamo che tale dibattito risulti eterogeneo, coinvol­ gendo ora assunti generali ora piccole questioni di critica militante; che esso rispolveri vecchie questioni databili da oltre un decennio senza apportarvi, quasi sempre, alcun apprezzabile contributo; che derivi in gran parte da dispute e schieramenti occasionali, e talora da evidenti personalismi. Nella linea che informa la gran parte delle rassegne di questa rivista, non vogliamo tanto aggiungere giudizi a giu­ dizi, ma piuttosto stenderne una « cronaca » che registri le affermazioni più sintomatiche, che indichi le date e i luoghi dove queste sono state pronunziate, e ricostruisca - laddove sia possibile - i dialoghi a distanza, lasciando al lettore la possibilità di stabilire se quei luog;hi non si sono spesso tra­ sformati in luoghi comuni. Ha cominciato Argan che, recensendo tre volumi sull'at­ tuale condizione della critica, ha scritto sulle pagine della rubrica d'arte de « l'Espresso » 4: Oltre la morte dell'arte la critica d'arte, finalmente sciolta dal proprio oggetto, procede più spedita, ancorché in direzioni diverse. Non è, in realtà,

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che si sia sciolta dal proprio oggetto, se l'è incorporato[ ... ] La critica, essendo linguaggio..., è mediazione dialettica: mo­ rendo nella critica, l'arte muore hegelianamente nella filo­ sofia. Leggendo la critica come testo letterario, niente di più facile che tr_ovarci dentro l'arte come Giona nello stomaco della balena [ ... ]. Il cauto inoltrarsi della giovane critica nel terreno dell'irrazionale metodico può significare che la di­ sciplina critica, a�endo incorporato l'artistica, si illude di poterla conservare ad un altro linguaggio, ad altre tecniche, ad un'altra cultura, a un'altra società. Gli ha prontamente risposto Briganti che, prendendo spunto dalla polemica mostra organizzata da F. Solmi alla Galleria Comunale d'arte moderna di Bologna, la « Metafi­ sica del Quotidiano », sintetizzava sulle pagine de « La Re­ pubblica » 5, il suo dissenso nei confronti della tesi di Argan. Se è vero che la critica, come scrive Argan,... si è finalmente sciolta dal proprio oggetto, cioè l'arte, e quindi procede più spedita... non credo ci sia molto da rallegrarsi ( ... ) . Le attuali velleità dei critici, vecchi e nuovi, di incorporare l'arte, cioè l'oggetto delle proprie considerazioni, di appropriarsene iden­ tificando il proprio fare, ed essere, con il fare ed essere dell'artista... si realizzano quasi sempre... in imprese mac­ chinose, spettacolari, pubblicizzate [ ... ]. La cosiddetta critica militante, dietro la maschera dell'irrazionale metodico che incorpora la propria disciplina entro la disciplina artistica sembra soprattutto mirare ad accrescere e ad organizzare la propria sfera in iniluenza, anche a scapito degli artisti stessi (... ). t:. stata subito polemica, riecheggiata sulle pagine di noti settimanali, inasprita da vecchie liti (lo scontro avvenuto verso la fine del '77, tra Calvesi, ex-critico del « Corriere della Sera », difensore delle avanguardie, e G. Testori, nuovo criti­ co del giornale milanese, sostenitore di un concetto più tra­ dizionale d'arte) e premature contese sulla non ancora inau­ gurata Biennale '78. I critici, dunque, con un inatteso aumento di popolarità, hanno cominciato ad occupare· le pagine dei giornali, e non 30 solo le tradizionali pagine d'arte dei quotidiani, ma anche


quelle dei più venduti settimanali. La situazione è critica, titolavano, su « Panorama » del 9 maggio, M. L. Agnese e C. Sottocorona un servizio sulle movimentate e alterne vicende e le iniziative che caratterizzano l'insolito scenario dei no­ stri critici. Tanto insolito e particolare che lo stesso servizio forniva un albero genealogico (capostipiti riconosciuti Lon­ ghi e Venturi) della critica d'arte in Italia a tutti i let­ tori eventualmente decisi a raccapezzarsi in quel gine­ praio di ascendenze ed eredità degli attuali alterni schie­ ramenti. È passata, così, in un relativo silenzio, quella che poteva essere la più qualificata iniziativa dell'anno intesa a fare il punto sulla situazione e sullo stato di salute della critica: il convegno « Critica O», patrocinato dal Comune di Monteca­ tini, ed ivi tenutosi dal 25 al 29 maggio. Tra i primi a richia­ mare l'attenzione del pubblico sull'iniziativa, e sia pure per stigmatizzarne gli aspetti negativi e deludenti, è stato E. Bat­ tisti che, sulle pagine di « Paese Sera» 6, l'ha ricordata come una specie di De Profundis. Infatti: « Bene vixit qui bene la­ tuit». Il motto, decisamente disperato, di Cartesio poteva stare sullo schermo al posto delle diapositive della sala di Montecatini dove si è svolto giorni fa, un convegno sulla situazione della critica e della storia dell'arte. Sembrava di trovarci non fra artisti, o militanti ma all'accademia [ ... ]. Pochi sono venuti a Montecatini: c'eravamo solo noi, l de­ funti del 1963.

Gli risponderà più tardi, con il suo consueto ottimismo progettuale, F. Menna che sulle pagine dello stesso giornale 7, accuserà Battisti di esser rimasto troppo attaccato alla sta­ gione eroica del glorioso « Marcatré», e di non essersi ,ac­ corto, di conseguenza, del nuovo che c'è stato da allora e dei legami assai stretti che questo nuovo intrattiene con il lavoro compiuto nel decennio scorso. Molto lavoro in particolare sarebbe stato fatto, sostiene Menna, nello sviluppare alcune premesse teoriche già poste negli anni sessanta all'incontro tra storia e critica d'arte, da un lato, e scienze umane, dal­ l'altro. Ed è anche su queste premesse che la critica Italiana è venuta consolidando il proprio statuto acquistando, in

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maniera sempre più franca, la funzione di « disciplina auto­ noma e specialistica » ( .•• ) • Ma, già prima, si era incaricato di segnalare i nuclei teo­ rici più densi proposti a Montecatini V. Fagone che, con un tono piacevolmente pacato rispetto alle tante frecce avvele­ nate che contemporaneamente correvano tra i critici, sulle pagine di « Paese Sera » 8 ha cercato di rispecchiare, in una sorta di riflessiva reciprocità, le molte spinte contrarie che hanno animato il Convegno. « Critica O » è stato uno specchio fedele delle condizioni di reale difficoltà in cui oggi opera la critica e che non possono essere superate da un'ulteriore divaricazione tra teoria e frequenza della pratica quotidiana del mondo dell'arte. Il ripiegamento sulle metodologie e sulle analisi, le complessioni del discorso critico possono essere considerate, anche, a questo punto, una risposta reattiva. Il lavoro artistico che salta ogni mediazione punta a una diretta semplificazione ed evidenza; il discorso critico lo di­ stanzia restituendogli definibilità e dimensione di comples­ sità, stabilisce una serie di riconoscibili referenze. Non sono mancati d'altra parte, a Montecatini, le sortite polemiche o gli attacchi a sorpresa; anzi, una pur breve oc­ chiata ad alcune delle relazioni lette o presentate al Conve­ gno rivelava come molte di queste si inserissero diretta­ mente nel dibattito in corso sui giovani, mentre contribuiva a tenerle a distanza il carattere specialistico e « iniziatico » quasi, nei confronti del più succulento piatto della Biennale. Nella sua relazione ( « Critica O ») E. Migliorini così sin­ tetizzava la controversa questione dei rapporti tra arte e critica: Grava sull'atteggiamento del critico un forte presup­ posto realistico... L'arte, l'oggetto d'arte, c'è, è lì, esiste real• mente dinanzi a noi qui... e al critico spetta di scoprirne la esistenza, di separarlo dagli altri oggetti ( krlnein), di penetrarlo, di indicarlo, di illustrarlo ( ...) . Ma l'arte contemporanea ha sconvolto queste certezze ( ... ) in quanto sottrae la res che è necessaria al realismo della critica ( ... ) . Quando si è vista l'oggetto-cosa alla mano in dissoluzione, la critica non ha saputo mantenere fermi i suol diritti. Si è rifiutata di 32 giudicare, di valutare. E con la cosa alla mano, sottratta dagli


artisti, si è sottratta da sé il suo oggetto, l'oggetto della cri­ tica, l'oggetto di valutazione critica. Lo sfaldamento dell'an• tico realismo della critica, corrispondente ad una condizione in cui l'opera d'arte era reale... si poteva vedere, toccare, continuava, era tecnicamente riproducibile, produrrebbe co­ sì, secondo Migliarini, un collasso del sistema critico, spo­ gliato di ogni sua certezza, ridotto al nudo delle sue strut­ ture argomentative. Accade, in tal modo, che la teoria sia sostituita da quello che potremmo chiamare il discorso spe• cialistico della critica che è fatto di topoi, di termini, ma anche di uno stile ( ... ). La critica è stata persino costretta ad uscire dal proprio terreno; ad abbandonare la sua speci­ ficità materiale, per acquisire topoi, argomenti, terminolo­ gie... provenienti da altrove ( ... ). Quale, dunque, la strategia per uscire da questo stato di stallo? Certo è che, per avere di nuovo qualcosa, per ritro­ vare un oggetto di cui parlare, ...occorrerà ricostituire un si­ stema, una mira sistematica, una credenza ambigua, una cre­ denza assiologica, .una posizionalità ( ... ). Sulla questione del giudizio critico ( e su di una inattesa ricollocazione dell'opera), ha pure polemicamente insistito la relazione introduttiva di G. Dorfles: («È ancora possibile un giudizio assiologico? »). Nell'arte di tutti i tempi si è data la presenza di un fattore isolante, di una pausa estensiva, di alone semantico, di fase intervallare tra spettatore e opera d'arte... Questo fattore isolante... è stato negli ultimi anni indubbiamente scalzato, frantumato, messo in non cale. Pro­ babilmente.. è andata perduta quella « zona di rispetto» che costituiva una delle basi per quella che possiamo definire... « sacralità dell'opera» ( ... ). Solo restituendo all'assaporamen• to di una determinata opera questo alone· isolante... potremmo forse raggiungere ancora una volta quella particolare condizione ... che ci pennetta di «vivere» l'opera in base a quegli elementi di valore che altrimenti cl sfuggirebbero o passerebbero inosservati ( ...) . Occorre, dunque,... ristabilire, ripristinare... l'eccezionalità del messaggio artistico; ottenere la re-introduzione della « pausa •.. per poter riottenere una equa possibilità valutativa e quindi un recupero del nostro 33


autentico giudizio assiologico che non sia più basato sopra un gusto estemporaneo o sopra un mero fattore di moda. Anche per L. Pignotti («Critica come verifica interdisci­ plinare ») c'è da recuperare il significato ( depurato dalle in­ crostazioni mistificanti) per poter operare scelte di valore. Anzi, la possibilità di un giudizio di valore sulla produzione artistica attuale può certamente essere rintracciata con l'au­ silio di nuovi strumenti di indagine. Quella polemica che passa ormai sotto l'espressione « morte dell'arte » e con la quale si designa il prevalere. della poetica e del discorso in­ torno all'arte sull'arte stessa, non è che un luogo comune. Secondo Dorfles, dunque, successivamente invitato da « Mondoperaio » 9 a chiarire le sue polemiche asserzioni, oggi per colpa anche dei mezzi di comunicazione di massa, si è arrivati a una trasmissione indistinta del messaggio artistico, che non viene più recepito come qualcosa di diverso dalla informazione quotidiana. Quintavalle, invece, per il quale una maniglia o la Pietà Rondanini di Michelangelo sono diverse sì, ma solo quanti­ tativamente, sostiene, in un intervista concessa al settima­ nale « Panorama » 10, che si potrebbe addirittura fare a meno della parola arte, concetto ormai consumato storicamente, esaltato dall'idealismo, ma che oggi può tranquillamente es­ sere sostituito dalla parola comunicazione ( ... ) . L'arte è co­ municazione, è linguaggio, e quindi si può spiegare fino in fondo, senza lasciare zone oscure. Meno perentorio, invece, Calvesi rivendica ai critici il di­ ritto di non essere chiari, e rispondendo ad una serie di do­ mande su « Panorama » 11 sostiene che se il rischio della cri­ tica d'arte è l'oscurità, bisogna però riconoscere che è l'og­ getto stesso della critica, cioè l'arte, a essere profondamente « oscuro », in quanto prodotto della psiche, anche se nell'ap­ parente chiarezza che è suggerita dall'unità dello stile. La critica, quando tenta le sue difficili e spesso discutibili « tra­ duzioni » in parole, si trova a dover fare i conti con questa sostanziale ambiguità e oscurità, direi a subirla, non sempre riuscendo a contrapporle un segno luminoso di razionalità. 34 Mentre a Montecatini si tenta una verifica relativa allo


statuto delle varie pratiche critiche, ed emergono temi di carattere più squisitamente teorico (la ricostruzione di una linea non più solo interpretativa, ma anche valutativa della critica; la ricollocazione dell'opera artistica in un ruolo pri­ vilegiato; la denuncia delle difficoltà e dei limiti di un ap­ proccio semiotico alle arti visive; etc.) sulle pagine dei gior­ nali la critica è al centro di più pesanti, e meno disinteres­ sati, attacchi, in occasione dell'imminente apertura della Biennale. A un mese, infatti, dalla sua apertura accende la miccia, sulle pagine de « La Repubblica» 12, G. Celant che, accusando la manifestazione internazionale di oscillare tra il mercatino rlelle pulci e la fiera dell'antiquariato locale, rileva come i decenni non sembrano essere trascorsi, quasi si fosse fer­ mata la storia della critica nonché dell'arte. A questo punto, più che fine dell'arte sarebbe opportuno parlare di « morte della critica» un settore composto, in generale, di guru pae­ sani (...). Su questo stesso giudizio Celant ritornerà ad inau­ gurazione avvenuta e, dalle colonne dello stesso giornale 23, rileverà - a proposito della mostra storica - ( « Sei stazioni per arte natura / La natura dell'arte») - come la critica at­ testa definizioni e metodologie da anni cinquanta, dove l'arte era pensata e sentita come contrapposizione di movimenti, di ottiche o di tematiche visive e non come « ricerca lingui­ stica». La polemica si allarga: è di questi giorni il « pronuncia­ mento» di artisti ed uomini di cultura che inviano una acce­ sa dichiarazione ai giornali, sottoscritta - tra gli altri - da P. Dorazio, M. Rotella, A. Zanzotto, G. Briganti; G. Celant e G. Dorfles 14; l'attuale situazione, tuona il testo, registra un progressivo e non più nemmeno tanto furtivo occultamento dell'opera d'arte autentica, organizzato da critici, da intel­ lett.uali e da politici, che le sostituiscono messaggi in codice dei mass media oppure esercitazioni lessicali e semiotiche orientate secondo il vento dei giochi di potere. Celant 15 carica la dose: Se la critica d'arte tenta -un'autoanalisi e cerca di identificare la propria posizione nel mondo della produzione dell'arte e della cultura, è costretta ad accorgersi di 35


essere rispetto all'arte una pratica secondaria, da quando gli artisti hanno deciso di gestire in proprio il lavoro e la sua scrittura. La riflessione sulla propria funzione rivela allora alla critica di essere una « cornice»... Questa cornice.. si è trasformata da elemento accessorio in protagonista. La critica, che nella lettura di Celant è indicata come indifferente all'analisi storica e filologica, sarebbe dunque mistificante rispetto all'autenticità dell'opera e prevaricante nei confronti dell'autonomia del lavoro artistico, risolven­ dosi spesso in azioni meramente spettacolari. Ma A. Bonito Oliva, coordinatore della mostra storica, ribatte prontamente tutte le accuse rispondendo alle domande prima de « Il Mes­ saggero» e poi di «Modo» 16• Infatti... Bisogna avere il co­ raggio di affermare che una mostra d'arte è sempre anche una mostra della critica d'arte. Celant, additato da Bonito Oliva come una sorta di novella Maria Goretti, viene accusato di compiere un lavoro statistico e notarile sul già fatto, senza pensare che la critica oggi deve affrontare l'opera con un rapporto non di antagonismo, ma almeno dialettico. A. Bo­ nito Oliva, a suo tempo sostenitore de « l'ideologia del tradi­ tore», in sostanza accusa Celant di praticare l'ideologia della neutralità. In definitiva, precisa Bonito Oliva, si tratterebbe di un confronto tra due linee di lavoro, una squallidamente catalo­ gatrice e filologica (precedentemente identificata come destra longhiana), l'altra ideologica ed interpretativa, che va da Argan e Calvesi fino alla mia generazione. Ma il critico, sostiene Calvesi - intervenendo tra gli ul­ timi in questo insolito dibattito sulle pagine de « L'Espres­ so» 17 - non è un regista nè un« mister», perché la funzione • « interpretativa » non può esercitarsi con margini di arbitrio « creativo » ma deve essere necesariamente ricondotta alla concretezza della filologia: la quale, benché in sé e per sé sia sterile, o per alcuni costituisca un alibi alla mediocrità, resta comunque imprescindibile, e della quale potrà fare a meno l'artista, non lo storico. Opera e critica: la mostra storica della Biennale ha invo36 lontariamente focalizzato l'attenzione non solo sulla definì-


zione delle rispettive autonomie, ma anche sui presunti nessi di reciprocità o di dipendenza. Se l'arte non può fare a meno della critica, la critica non può fare a meno dell'arte - sostiene F. Menna 18• Tanto più che l'arte stessa, osservata da un'angolazione linguistica, è un discorso su un altro discorso dal momento che in ognJ caso, essa interviene su un codice acquisito e lo modifica in maniera più o meno radicale. A questo punto la distinzio­ ne tra arte e critica sembra assottigliarsi, ma non scompare in quanto il discorso critico è di ordine più propriamente referenziale, transitivo... mentre il discorso artistico si col­ loca preventivamente sul piano intransitivo e autoreferen­ ziale chiarito da Jakobson. Tale reciprocità, invece, secondo Briganti 19, è tendenzial­ mente «falsa», in quanto si ridurrebbe solo a reciprocità di sfruttamento e di violenza, la cui vera vittima è l'arte. E in­ calza: l'impostazione e la struttura della maggior parte delle mostre odierne ... sono sempre tali da raggiungere il risultato peculiare di rendere le opere invisibili. Non sono mostre di opere o storie di artisti, ma esibizioni di una forma ormai convenzionale di asservimento e di controllo esercitata da una critica che pensa solo a se stessa ( ...). Criticando la moda attribuzionista (quella, cioè, che no­ mina non gli artisti, ma i critici che li sostengono) Calvesi 21l, d'altra parte, sottolinea che il critico non « allena» gli artisti né li imbecca, e se è loro antagonista, non lo è certo sul piano della creatività, ma semmai dei conti con la storia. L'artista che tenta di svincolarsi dalla forza gravitazionale della storia, il critico, cioè lo storico, che Io incalza continuamente con la storia, come con quello sgabello su cui prima o poi dovrà mettersi a sedere. Sulla fisicità dell'opera e sull'astrattezza del pensiero teorico, ha insistito pure M. Fagiolo sulle pagine de « Il Messag­ gero» 21: � compito specifico del critico tracciare mappe di situazioni anche servendosi di voli pindarici, anche stabilendo connessioni a distanza di secoli. Per esempio si potrebbe teorizzare una linea politica dell'arte allineando in un libro David e Delacroix, Courbet e Cézanne ... Benissimo in un li-

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bro; ma vi immaginate in -una mostra come sarebbero as­ surde le tele di Cézanne vicino alle Sabine di David ( ... ). Ammettendo che libri del genere si possano fare, sono le mostre del genere ad essere assurde. E questo proprio per­ ché il retino tipografico e la linea di piombo risultano per annullare i rapporti, mentre l'oggetto-opera esposto sul muro rifiuta gli accostamenti casuali ( ... ). Quintavalle 22, prendendo le distanze dal « jeu de massacre » condotto dai giovani banditori della prima contro giovani banditori della seconda « vogue», avanza una drastica pro­ posta: abolire le mostre. Le mostre, infatti, sono l'esposi­ zione non di serie ricerche ma dei critici, cioè dei critici­ critici e dei critici-artisti che sono la stessa cosa. Le accuse e gli scambi di invettive, che hanno bruciato talune pur interessanti questioni teoriche trasformandole in una sterile « querelle », combattuta, senza esclusione di colpi, fin sul piano personale, si sono protratte con toni accesi per tutto il mese di luglio, smorzandosi alle soglie dell'incipiente canicola. Tra il serio e il serioso, l'autoriflessione e l'esalta­ zione (Ora il bastone è nelle mani dei critici, rivendica Car­ luccio dalle pagine de « Il Giorno» 23), la guerriglia sembra aver lasciato sull'asfalto un solo agonizzante: l'attenzione del pubblico. Dopo la pausa estiva, che ha concesso ai pochi ferrago­ stani in città il « divertissement » di insoliti accostamenti (per esempio la squadra italiana dei tennisti della coppa Davis, paragonata da C. De Seta - su « Paese Sera» 24 - al Comitato organizzatore della Biennale), la discussione, se­ condo la promessa dei direttori delle rubriche d'arte dei vari quotidiani, è destinata a riprendere. Speriamo con maggiore distacco.

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1 Metafisica del Quotidiano, a cura di F. Solmi, Galleria d'arte moderna, Bologna giugno-settembre. La Biennale, quest'anno, si è data un tema - il rapporto arte/ natura - e su questo argomento è stata chiesta la collaborazione delle altre nazioni. La mostra storica, curata da J. CH. AMMANN, A. BONITO OLIVA A. DEL GUERCIO, F. MENNA, e coordinata da A. BoNTTO OLIVA, ha rilett� il tema ridefinendolo come Sei stazioni per arte/natura - La


natura dell'arte. Le sei stazioni hanno ricevuto i seguenti nomi: Grande astrazione/Grande realismo, La Finestra sull'interno; L'iconosfera ur­ bana; La convenzione della visione; L'entropia dell'arte; Natura/anti­ natura. 2 Il Convegno internazionale Critica O, organizzato per sezioni (tra

le altre quella di semiologia e quella di iconologia), si è svolto a Monte­ J Soprattutto A. BONITO OLIVA, Passo dello strabismo, Milano 1978 e M. CALVESI, Avanguardia di massa, Milano 1978. 4 C. G. ARGAN, E la critica restò sola, «L'Espresso,., n. 23, 11 giugno 1978.

s G. BRIGANTI, Critici d'arte o teste tagliate, « La Repubblica», 11-12 giugno. 6 E. BATTISTI, Il regresso della critica, « Paese Sera•, 11 giugno. 7 F. MENNA, La calda estate della critica, « Paese Sera», 30 luglio. 8 F. FAGONll, Le difficoltà della critica, « Paese Sera•, 18 giugno. 9 L'arte e la critica, Intervista con G. Dorfies a cura di M. Accolti Gil., « Mondoperaio• n. 7/8, luglio/agosto '78. 10 A. C. QUINTAVALLE, Anche una maniglia, « Panorama" n. 629, 9 maggio. li M. CALVESI, Il diritto di non essere chiari, Op. cit. 12 G. CEI .. ANT, Se la Biennale diventa il mercato delle pulci, « La Repubblica •• 28 maggio. Il G. CEI...ANT, Sono come le stazioni del vecchio gioco dell'oca, « La. Repubblica, 2-3 luglio. 14 Sul futuro della Biennale, « Paese Sera», 25 giugno. 1s G. CEUNT, / potenti della Biennale, « La Repubblica•. 27 giugno. 16 Chi ha paura del mercato, intervista con A. Bonito Oliva, « Il Messaggero», 15 luglio. Dalla critica d'arte all'arte della critica, intervista con A. Bonito Oliva a cura di F. Raggi, « Modo » n. 11, luglio-agosto 1978.

17 M. CALVESI, Mister critico superstar, •L'Espresso• n. 32, 15 ago­ sto '78. 18 F. MENNI, Op. cit. 19 G. BRIGANTI, Hanno nascosto l'arte nel labirinto dei maghi, « La Repubblica•, 2-3 luglio. 20 M. CALVESI, Op. cii. 21 M. FAGIOLO, Arte / Biennale Veneziana, • Il Messaggero», 1 luglio. 22 A. C. QUINTAVALLE, La Biennale di Aristotele, « Paese Sera•, 2 luglio. 2l L. CARLUCCIO, Cosl rispondo ai critici, • Il Giorno"• 2 luglio. 24 C. DE SETA, Buoni atleti ma poco in forma, • Paese Sera", 23 agosto.

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Narciso e l' "altro,,: note sul dibattito architettonico STEFANO RAY « Ma se io invaghirò della facoltà medesima della interpretazione, che altro mi verrà fatto se non che io diventerò un grammatico anzi che un filosofo?•· EPITTETO, Manuale, XIXL, tr. di Gia­ como Leopardi.

Rinchiuso in una sfera estenuata, cristallizzato intorno a uno sfuggente alter ego, il dibattito architettonico si trova in una condizione che - emblematizzando - può essere definita la « condizione di Narciso». « Iste ego sum!... uror amor mei », è, nelle Metamorfosi, l'esclamazione di Narciso di fronte alla sua immagine. Nel Paradiso, per spiegare di aver confuso anime con immagini, Dante si serve di un paragone: « Dentro all'errar contrario corsi / a quel ch'accese amor tra l'omo e il fonte» 1• Secondo la tradizione classica, dunque, Narciso è consa­ pevole di amare se stesso. In quella medioevale crede di vedere un altro, del quale si innamora. Nel primo caso la situazione è una condanna (per aver rifiutato l'amore di Eco), nel secondo conseguenza di un errore. Ebbene, il dibattito architettonico, afflitto oggi appunto dall'essere concentrato su un irridente sé/altro, si direbbe svilupparsi proprio nell'intreccio tra gli effetti di una « con­ danna » - derivata da un « rifiuto " - e di un « errore». Una costellazione di aporie, in un labile equilibrio di con­ tinuo sull'orlo di una condizione di collasso, insieme alimen40 tata e scongiurata da precarie tensioni.


Prima di entrare nel vivo del discorso - prima, cioè, di passare a individuare la «condanna», il «rifiuto» e l'«er­ rore» cui si è accennato - occorre ricordare che (di recente Io ha sottolineato anche Tafuri) non si possono nutrire illu­ sioni circa il «potere demistificante dell'analisi storica in sé», perché essa non gode in realtà di alcuna effettiva auto­ omnia nel suo «rimescolare le carte» e nei suoi «tentativi di mutare le regole dei giochi». In quanto «pratica socia­ lizzata», « obbligata a entrare in una lotta che mette in questione i suoi stessi connotati», l'analisi storica (e con essa, più in generale, la riflessione critica e, in senso Iato, ciò che ancora si può, e si deve, intendere per cultura) rimane comunque fruttuosa ed efficace, purché sia «disposta a ri­ schiare, al limite, una provvisoria inattualità ,. 2• Vale a dire, purché si abbia coscienza che sciogliendo alcuni nodi se ne stringono altri, e che il processo culturale esce da ogni espe­ rienza diverso e modificato nei metodi, nei temi e nei fini, così come l'esperienza oggetto del processo culturale risulta a sua volta diversa e modificata in seguito a tale intervento. L'« analisi interminabile» di Freud, in sostanza: che non è . solo terapeutica, ma pure, e forse principalmente, produ­ zione di significati e di problemi ulteriori all'atto di rimuo­ vere quelli dati e costituiti. In determinate circostanze rischiare l'inattualità può an­ che voler dire porsi consapevolmente in una posizione «esterna» rispetto a campi disciplinari convenuti; sebbene, in assoluto, sia chiaro che non esiste nessun «fuori» e nessun «dentro» ma soltanto una disseminazione di fenomeni e di intersezioni dell'accadere, né, a fortiori, in senso proprio nessun «campo disciplinare». Se, allora, si traguarda empiricamente la globalità del dibattito architettonico da una stazione che coincide con il punto di vista corrente dei «non specializzati», esso appare senza dubbio quale lo si è còlto nella metafora di Narciso: confuso, contorto, chino su di sé, eppure bizzarramente com­ piaciuto; mentre alla ragione comune sembrerebbe naturale che dovesse dipanarsi in forme trasparenti e concrete, come incisive e concrete sono, nel « quotidiano», le questioni che

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lo occupano. In effetti, la produzione, l'organizzazione e il disegno dello spazio fisico e degli oggetti (nonché le con­ nesse interferenze sui piani dell'ideologia, del potere, del dominio, del significato e del godimento) appaiono agli occhi « ingenui» di chi vi è coinvolto pur non appartenendo alla cerchia degli specializzati istituzionali come un ben preciso e chiaro insieme di fenomeni, che, per essere compresi, ri­ chiedono spiegazioni semplici e dirette dei meccanismi e della dinamica che comportano e che li regolano. Questo ragionamento deve essere tenuto nella debita con­ siderazione, ma, se non tiene a sua volta conto dei motivi profondi che determinano la complessità e la difficoltà del dibattito sull'architettura (anche sfrondato da ogni elemento dettato dalla moda, dall'astrattezza fine a se stessa, dal desi­ derio di evasione e dal gusto perverso di un simulato auto­ annientamento), è un ragionamento troppo facile, e, in una parola, semplicistico. Detto altrimenti, altro è sottoporre il dibattito architettonico al vaglio della critica, altro è liqui­ darlo in blocco come futile e assurdo. Poiché il nucleo del problema è esattamente qui: il confronto tra la presenza materiale deg,li oggetti e delle forme nello spazio, da una parte, e ciò che se ne pensa, se ne dice e se ne scrive (nel duplice medium della scrittura verbale e progettuale), dal­ l'altra, non può essere rimosso annientando tout court il secondo termine; né, simmetricamente, confinando il pri­ mo - con l'insieme di influssi che capta e che irradia nella sfera degli epifenomeni, privi di realtà autonoma e de­ stinati ad un'effimera consistenza solo se dati, per così dire, alla vita (anche storica) dal nerbo del pensiero, della parola e della scrittura. Ancora una volta è necessario rendersi conto che la condizione è di natura dialettica; e che, per pa­ droneggiarla correttamente, non è d'obbligo tendere unica­ mente alla sintesi (la quale non sarà che perennemente pro tempore, subito bruciata nel comporsi); al contrario, in un apparente capovolgimento di obiettivi, può spesso essere opportuno puntare alla maggior divaricazione dei termini, al fine di fame scoccare nella massima forza costruttrice e 42 dirimente la rapida, intensa scintilla oltre cui il procedimento


inizia di nuovo da capo. Ammesso - secondo l'espressione di Wittgenstein - che «la totalità dei fatti determina tutto ciò che accade, ed anche tutto ciò che non accade» 3• Bloccando, dunque, in una cosciente «sospensione » iwit­ tuale, un estremo della dinamica dialettica (che, oltre al rapporto tra l'architettura e il relativo dibattito, include anche il rapporto tra questo dibattito e il «pubblico»), e dirigendo l'obiettivo dal termine «esterno » su quello «disciplinare», guardando con gli occhi «ingenui » al lavoro « specializzato », non vi è dubbio che l'impressione di insieme suscitata dal dibattito sull'architettura è un'impressione di profondo di­ stacco rispetto alla realtà correntemente esperibile in con­ creto e da chiunque. Il dato più eclatante, ciò che più di ogni altra cosa caratterizza una simile spaccatura è senza dubbio la sensazione che il dibattito abbia soprattutto per o�etto se medesimo. L'amore di Narciso, quindi. Non è in discus­ sione se tale sensazione sia giusta o meno; nell'uno e nel­ l'altro caso è imperativo registrarla, e prenderne atto, perché partecipa - e in via non secondaria - della «totalità dei fatti » che determina non solo «tutto ciò che accade », ma, anche, «tutto ciò che non accade»: corresponsabile pertan­ to, insieme agli altri fattori in gioco, della formazione dello spazio fisico e delle sue differenti e molteplici correlazioni. Amor sui. A cosa attribuire questa condizione, della cui effettiva esistenza all'interno del dibattito architettonico fa fede la percezione che se ne ha dal « di fuori»? Quali ne sono, o si ritiene che ne siano, le cause? Si è detto di una «condanna » conseguente a un «rifiuto» e di un «errore». Di essi, agli occhi «ingenui», la natura sembra anche troppo evidente: rifiutando all'architettura il ruolo che le spetta, ci si è condannati a crearne uno fittizio, che si fa soggetto/ oggetto di se stesso; in secondo luogo, e parallelamente, an­ che negli aspetti nei quali l'architettura ha conservato il suo ruolo, si è commesso l'errore di recidere i legami immediati con la semplicità delle esigenze, finendo pure qui in un ri­ chiudersi su di sé, in un mondo separato ed estraneo. Insomma, schematizzando al massimo, il dibattito archi­ tettonico si trova ad essere sotto accusa per un duplice mo- 43


tivo. Da un lato, per aver distratto l'esercizio dell'architet­ tura dal suo compito primario (e, insieme, per averle sot­ tratto il suo titolo di le�ttimità a esistere): dal conferire vitruvianamente - agli edifici e alla città l'opportuna dota­ zione di utilitas, firmitas e venustas; dall'altro, per aver pre­ teso di elaborare nel proprio interno, fuori da ogni controllo o confronto, modelli astratti di utilitas, firmitas e venustas definiti a priori aderenti e rispondenti ai « tempi nuovi » (ma, viene fatto di chiedersi, non sono forse tutti i tempi, appunto, « tempi nuovi»?). Benché conservato il più vicino possibile al concreto, già a questo punto è inevitabile che il ventaglio del discorso si apra, lasciando intravvedere una estensione inquietante, ricca di intrecciate ramificazioni e particolarmente complicata. Le questoni che si profilano so­ no numerose e sottilmente intricate. Sintetizzando si tratta almeno delle seguenti: 1. natura e caratteri del rapporto tra la riflessione sull'architettura e la produzione di architettura; 2. natura e caratteri del rapporto tra il « pubblico » e la riflessione sull'architettura; 3. natura e caratteri del rap­ porto tra il « pubblico » e la produzione di architettura; 4. reciproche interferenze tra questi rapporti; 5. collocazione di tale problematica nel quadro della produzione culturale in genere; 6. costruzione storica dei fenomeni coinvolti e decifrazione delle relative strutture, sia intrinseche che di relazione; Questo breve elenco di temi, che si è imposto, per così dire, da sé, pur muovendo da un'estrema riduzione del di­ scorso, mentre fa trasparire quale sia l'ineliminabile com­ plessità del dibattito architettonico, dimostra al contempo che tale complessità non è frutto di un'esasperata ricerca di intellettualizzazione; ma, che al contrario, essa nasce dal seno stesso della materia - e che, di conseguenza, non esistono scappatoie capaci di condurre verso consolanti e liberatorie semplificazioni. Il che è ovvio che accada ogni volta che nell'ambito di un processo di produzione sia implicato un processo di scrittura (testuale o traslato) e di formazione, con tutto ciò che necessariamente ne segue e ne deriva. 44 Per quanto qui interessa, i problemi indicati rinviano


tutti ad una questione specifica: la sclerosi che investe dal­ l'interno il dibattito architettonico; l'ingombrante «altro» che, occupandone in pratica per intero lo spazio, restringe non soltanto la possibilità di comunicare con l'«esterno», ma altresì, in misura preoccupante, le possibilità di alimen­ tare un dialogo «interno,. per lo meno chiaro ed esplicito circa l'oggetto (gli oggetti) in discussione. Di fatto, è esperienza comune a chiunque si interessi ex professo di architettura, risulta quasi introvabile un testo che usi la parola «architettura» intendendo indicare un si­ gnificato uguale a quello che la parola assume in ogni altro testo. Ciascuno presuppone un preciso retroterra, una serie più o meno ampia di allusioni e di rinvii, per essere com­ preso; e non basta: anche all'interno di uno stesso testo la parola cambia spesso il valore che le viene attribuito. Il che, se pure non sorprende, poiché è in certa misura tipico dei fenomeni dell'informazione, della comunicazione e della si­ gnificazione, costituisce tuttavia uno stato-limite, tanto in­ stabile da sfuggire a qualsiasi controllo, per quanto provvi­ sorio, ipotetico e convenzionale - in ciò si evidenzia, insom­ ma, l'assenza di quel minimo di accordo tacito, di conven­ zione stabilita e accettata, in mancanza di cui nessun genere di procedimento culturale può sussistere e avere luogo. Si arriva dunque così alla constatazione centrale. Il senso di un esasperante distacco, nell'addensarsi di una condizione che ruota intorno a un sé continuamente altro, che l'espe­ rienza pragmatica del « pubblico » coglie nei contorni del dibattito architettonico è sostanzialmente lo specchio di un'instabilità generale dei processi della cultura; instabilità che diviene particolarmente acuta - fino a toccare gli estre­ mi di una diswegazione in apparenza irreversibile - nel campo dell'elaborazione concettuale e materiale dello spazio fisico. Un fenomeno più volte e da più parti posto in luce, e lar­ gamente analizzato, che invita, abbastanza ovviamente, a presumere l'avvento di una mutazione di carattere stretta­ mente storico nelle strutture di base della produzione, del comportamento e della riflessione; mutazione di portata suf- 45


ficientemente vasta da alterare in modo radicale qualunque precedente stabile e noto, al punto di suggerire che si possa revocare in dubbio non una funzione, ma la funzione mede­ sima (ogni funzione) della cultura, e, nel caso specifico, del­ l'esercizio dell'architettura. Gli sforzi e i tentativi compiuti dalle avanguardie e dai recuperi, dalle rifondazioni e dalle riduzioni - in atto ormai almeno da un secolo - non sembrano essere approdati ad altro che ad una sconsolante e glaciale chiarezza: nel setaccio dove si è filtrato un simile lungo, minuzioso e fervido lavoro nulla si è depositato di positivo, e di pro-positivo, che abbia resistito al vaglio del tempo e al confronto della realtà in movimento. La vanità del « problema architettura » si di­ rebbe pertanto una volta per sempre acclarata. Se così è si dovrebbe davvero concludere che l'architettura è « morta»; che, per ciò che riguarda l'architettura, la storia ha decisa­ mente voltato pagina. Tuttavia, due osservazioni non consentono di abbando­ narsi ad una posizione come questa, in un certo senso a conti fatti pacificante, e indicano che la questione risulta ancora lontana dall'essere matura per l'archivio. In primo luogo, si va facendo strada in maniera mano a mano vieppiù persuasiva il dubbio - e la consapevolezza che la chiave storicistica, benché opportunamente corretta e integrata dagli apporti di tipo fenomenologico, semiotico, strutturalistico, psicoanalitico e neo-illuministico, non è in grado di esaurire in realtà la spiegazione degli eventi, né di individuare un soddisfacente itinerario operativo; al contra­ rio, lo si è veduto, essa finisce per diventare a sua volta una tra le diverse componenti attive e incisive di un accadere sempre slegato rispetto a precedenti e a conseguenze, e sem­ pre in procinto di dissolversi nel verificarsi e realizzarsi. In seconda istanza, e sotto un profilo « inattuale » proprio perché immediato e irriflesso, dal punto di vista di un « es­ serci » oggettivamente glaciale, niente e nessuno può modi­ ficare il dato, ingombrante ma inconfutabile, che il fenomeno architettura c'è, esiste. Di giorno in giorno, in modi e sotto 46 specie mutevoli, ma non meno consistente e massiccia, la


triade vitruviana ripropone una monotona pressione: rias­ sunta nel decor, meno rozzamente di quanto verrebbe a tutta prima fatto di pensare vi si può riconoscere un. bisogno tutt'ora insopprimibile di qualità, una necessità estetica sia nella sfera del « personale » sia nell'ambito del « politico ». Le condizioni per seppellire l'architettura non sono, dun­ que, ancora maturate. Bisogna quindi riprendere da capo a intessere i fili della riflessione, a elaborare un'opera della quale si sa che non è destinata a produrre soluzioni e analisi nette e definite, nemmeno sul breve periodo; ma che, co­ munque, è, e resta, inevitabile, indifferibile e necessaria immersa, certo, in una rarefatta atmosfera di autoesame, e sempre sul limite di una piatta descrittività; eppure coinci­ dente con un'esigenza assoluta, e, al di fuori di ogni illusione, a suo modo ancora efficiente e « costruttiva ». In questa direzione, nei confini del sistema di coordinate di riferimento complessivo che si è venuto tracciando, un contributo di non secondario interesse, e di qualche impor­ tanza al fine di indirizzare il dibattito oltre le secche in cui si trova ristretto, può essere costituito dal tentativo di rin­ tracciare - per sommi capi e nelle linee essenziali - la pre-esistenza e la persistenza, a livello sia concettuale che di linguaggio, di alcuni modi, tutt'ora vigenti, di circoscrivere il carattere fondamentale e i criteri base di giudizio assunti e adottati per l'architettura. Un lavoro del genere consentirebbe di cogliere ciò che si potrebbe definire il momento statico del dibattito architet­ tonico; e di rendersi probabilmente conto di come tale mo­ mento, al di là delle apparenze (che vorrebbero il dibattito in continuo, drammatico travaglio), risulti essere, al tirar delle somme, se non prevalente, almeno altrettanto decisivo del momento dinamico, del rinnovamento e del ribaltamento delle idee e dei criteri. Una storia della terminologia e del corpus concettuale sui quali il dibattito architettonico si innesta, dunque. Meglio: la decifrazione dei concetti e dei termini lungo un filo rosso che attraversa la continuità/discontinuità, la « simul­ taneità casuale » eppure ferreamente « necessitata », del so- 47


vrapporsi e giustapporsi dei fenomeni nelle linee di tendenza via via prescelte e costruite nella vicenda della « scrittura disciplinare ». Un lavoro, è evidente, lungo e complesso, di continuo in equilibrio su un difficile crinale di autocontrollo e di co­ scenza della parzialità, della natura tendenziosa che non può non essergli propria. Ma un lavoro promettente, che varrebbe la pena di essere intrapreso in modo sistematico, operando in profondità sulle fonti e individuando con cura l'arco di tempo (nonché i limiti di spazio) entro cui svolgerlo. Un semplice assaggiio compiuto in questo senso, appena in superficie e assai sommariamente, su qualche ben co­ nosciuto testo medioevale, può dare immediatamente la misura delle virtualità che tale ricerca possiede e reca in sé. Il memoriale composto dopo il 790 da Angilberto e dedi­ cato a Centula •. La lettera di Eginardo intestata « Karissimo filio Vussin » 5• Le Gesta abbatum fontanellensium, dell'807833 6• I versi di Valfrido Strabone, precedenti 1'849, sulla sta­ tua di Teodorico in Aquisgrana 7• La cronaca, redatta intorno al 990, relativa all'abbazia di Reichenau 8• E, infine - data­ bile tra il X e il XII secolo, ma in prevalenza collocato in­ torno al Mille - il Dìver.sarium artium schedula, attribuito al greco Teofilo, probabilmente monaco, trapiantato e itine­ rante presso i centri del potere in Occidente 9• Nel memoriale di Angilberto l'interesse è assorbito quasi per intero dall'elencazione delle materie rare e preziose ap­ partenenti in qualche maniera al complesso edificato: oro, argento, gemme, perle, avori, bronzo, marmo, porpora, tes­ suti particolari. Da questo interesse, addirittura ossessivo, si deduce, confrontandolo con quello per gli ulteriori aspetti dell'edificio, che agli occhi di Angilberto l'idea di architet­ tura, ciò che fa l'edilizia corrente « diversa », « altra », che le conferisce una particolare e riconoscibile qualità, è qualche cosa che non dipende tanto dalla forma, quanto da differenti fattori, in parte concettuali e in parte fisici. Angilberto, in­ fatti, oltre all'elenco delle materie preziose, rivolge una spe48 ciale attenzione al prestigio derivante dal patrocinio impe-


riale, dall'importanza clcllc dccllchc (Ccnlulu ò dcdicula ul Salvatore e a « tutti i suoi sunti n, ullu Vcr�lnc e ugll Apo• stoli, a San Benedello e « agli nitri ulmtl •), e dulie reliquie. In altre parole il giudizio si fondu sul « 1dgnllicuto idcolo• gico » e sulla « funzione sociale », come dimostra li peso con­ ferito al simbolo religioso, politico e storico, e al vulore eco­ nomico intrinseco. Termini, è chiaro, e lo si nota facilmente, familiari al bagaglio concettuale del dihattito architettonico attuale; il che implica la constatazione, in verità non troppo banale, che per giungere alla coscienza della natura ideolo­ gica e sociale della produzione architettonica non era ne­ cessario, se non ai fini di una riorgani27.azione teleologica della sequenza degli eventi, attendere che si producesse la « frattura» dell'era industriale e che si mettesse in movi:. mento la tumultuosa macchina della civiltà cli massa.. Nella sua lettera Eginardo cita Vitruvio e ne discute « [e­ locuzioni e i termini oscuri». E' ovvio che questa) ridriamo1 si iscrive nel clima di revival dell'antichità r©mana\, lli.pfum della politica culturale carolingia. Ma la ,-olo!mcai a§i tmavm:e;, per mezzo della �usta interpretazione dei e: u� �»> di Vitruvio, le leggi costanti che dovrebbero � ali riconoscimento delle radici invariabili donde i.Ì"mÌT'ì\ffi!iiUvB trarrebbe la propria legittimità, è tutt'ora p�ite mdl ciìn­ plice sforzo che la cultura architettonica comµ;� è l!!lll �, per darsi un «codice», e, dall'altro, per so� ai. ci0 cdie ritiene essere la pericolosa soggettività dei ,c:imltl,àNm:"il>!rii � quali il tempo e le circostanze la sottopongono.. Nella trattazione che, nelle Gesta, sì riferiS><..--e � � stero di St. Wandrille, si sottolineano, ancora um ,x._,,n, rii.,, chezza e pregio venale dei materiali; ma. ìn Q\lè'Sto .:aso,, a differenza di ciò che si ricava dalle pagine dì A�"Ìlbt-no.. ,i è una sfumatura diversa: la ricchezza esaltata r4,_"U3nh b decorazione musiva e le pavimentazioni, el�llt.'lltì ... �non solo vi sono contenuti, ma che fanno corpo con l'�ifido, e non possono esserne fisicamente sepamti. In nu..�. skunì elementi chiave della teorizzazione in senso Ol��k:o del-­ l'unità/molteplicità del prodotto architettonico. Anche se qui. naturalmente, si riscontra più che un'eco dc.Un vìtruvìnna 49


idea del decor come risultato della concorrenza non modi­ ficabile delle parti nel tutto. I versi di Valfrido Strabone introducono, sebbene sotto una forma decisamente medioevale, e cioè sotto l'angolazione della « storiografia moralizzata », all'analisi dei significati simbolici. Anche senza azzardare il termine di « iconolog,ia », il rapporto che Valfrido Strabone istituisce tra l'immagine di Teodorico, i vizi del re goto, l'imponenza del palazzo im­ periale di Aquisgrana e le virtù dell'imperatore in carica, disegnano in filigrana un procedimento di decifrazione il cui riaffiorare in tempi e luoghi diversi dovrebbe offrire più di un motivo di attenta riflessione. Il testo su Reichenau testimonia di qualche cosa della quale ci si viene ormai sempre con maggiore evidenza ren­ dendo conto. Del fatto, cioè, che l'architettura, lungi dal configurarsi come il prodotto spontaneo dell'incontro tra le diverse istanze che interagiscono nell'ambiente abitato, è, nel pieno significato della parola, un'istituzione. In esso in­ fatti si rileva una puntuale e significativa corrispondenza con la condizione dell'istituzione per eccellenza, l'istituzione poli­ tica. Dopo che per circa un secolo la letteratura non aveva offerto se non scarsissimi e frammentari esempi di testi de­ dicati, sia pure indirettamente, all'architettura, è proprio quando, al chiudersi di ciò che è stata chiamata « l'anarchia politica », le istituzioni riprendono a configurarsi con chia­ rezza, che la cronaca di Reichenau ripropone una medita­ zione estesa e consapevole dei concetti e dei criteri in base a cui è possibile ristabilire una gerarchia di valori tra gli edifici, e ridefinire pertanto una specifica idea di architettura. Il Diver,sarium artium schedula è certamente, come ha scritto Rosario Assunto « una traduzione sul terreno della cultura dell'omnia quae sunt Iumina sunt di Scoto Eriugena, e della concezione della bellezza di questo mondo come immagine della bellezza invisibile; nonché del riferire a lode del Creatore le bellezze che cadono sotto i nostri sensi » •0• Va aggiunto tuttavia che un simile connettivo ideologico si dimostra nella situazione medioevale qualche cosa di più e 50 di diverso che non una paura e semplice copertura di parti-


colari e inconfessati interessi. La fede innerva profondamen­ te la produzione, e i due momenti non possono essere né pensati né letti separatamente. In realtà essi compongono un blocco compatto, che certo può, e deve, venire studiato nelle parti che lo formano, ma che, qualora non si intenda proce­ dere ad una pretestuosa manipolazione, è necessario assu­ mere nella sua poliedrica integrità. Come in un diagramma, insomma, la vexata quaestio delle relazioni tra momenti strutturali e momenti sovrastrutturali, nonché del loro con­ fluire e rendersi concreti nella popolarità significato-signifi­ cante. Anche qui è superfluo notare la presenza di simili questioni nel dibattito contemporaneo; così come, d'altro canto, è parimenti superfluo avvertire che non si può certo procedere trasferendo acriticamente una tematica da un con­ testo ad un altro, dal quale lo separa una distanza di avve­ nimenti protratta in circa un millennio. Pochi esempi, appena accennati. Un'indicazione, è da rite­ nersi, anche in base alle rapide suggestioni che ne sono sca- · turite, che sarebbe forse uno spreco lasciar cadere.

I OVIDIO, Metamorfosi, III, 345 sg.; DANTE, Paradiso, III, 2 M. TAFURI, Il « progetto» storico, in • Casabella •,

17-18. 429 (1977),

p. 97 sg. J L. W11TGENSTEIN, Tractatus logico-philosophicus, tr. it., Torino 1964, p. 5, I. 12. • Angilberti de ecclesia centulensi libellus, Mon. Germ., SS., XV, I, 173. s Mon. Germ., SS., Epistolarum , V; ed. Berlin 1899, p. 138. 6 Mon. Germ., SS. , Il, 270. 1 Walafridi Strabonis versus ecc., Mon. Germ., Poetae Latini, 11, 370. a Purchardi gesta Witigowonis, Mon. Germ., SS., IV, 621. 9 Ed. crit. w. THEOBAI.D, Berlin 1937. 10 La critica d'arte nel pensiero medioevale, Milano 1961, p. 84.

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