Op. cit., 45, maggio 1979

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Topologia -e-�architettu�a - �a casa: norma e « deroga» _ - Artisti e ci :[lema--- _Lib-ri, riviste e mostre - -- - -edizioni « il centr-0 » :

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Op.cit. rivista quadrimestrale di selezione della critica d'arte contemporanea

Direttore: Segretaria di redazione: Redazione: Amministrazione:

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Edizioni e Il centro ,. di Arturo Carola


ANNA SGROSSO

Topologia e architettura

PASOUAUl DE MEX> La casa: nonna e ÂŤ deroga ,. STEFANO GALLO

s 26

Artisti e cinema

so

Libri, riviste e mostre

73

Alla redazione di questo numero hanno collaborato: Pasquale Bel.6ore,

Renato De Fusco, Fulvio Irace, Maria Luisa Scalvini, Sandro Sproccati.



Topologia e architettura ANNA SGROSSO

L'esigenza di nuove metodologie progettuali, che trovano ad un tempo stimolo e conforto nelle più recenti acquisizioni scientifiche, induce ad approfondire il senso di alcuni rife­ rimenti e a chiarire l'uso e il significato di una terminologia, passata ormai nel linguaggio dell'architettura, ma la cui in­ terpretazione non sempre corretta può indurre in equivoci. Ci riferiamo precisamente al rapporto tra l'architettura e le nuove geometrie, verso cui si manifesta oggi un cre­ scente interesse: con le presenti note ci proponiamo in par­ ticolare di fornire un contributo di carattere informativo sui concetti-base della topologia e sui modi e gli aspetti di possibili apporti metodologici. Riteniamo infatti che, nono­ stante i frequenti riferimenti teorici e la reale convergenz� di talune esperienze in campo operativo, perduri a livello di divulgazione un preconcetto distacco tra i due ambiti: la topologia resta oggetto di studio matematico, mentre le ci­ tazioni e i richiami presenti nella trattazione teorica del­ l'architettura, proprio a causa di una carenza di informa­ zioni, non sempre vengono recepì ti con la dovuta chiarezza. Appare allora necesario sgomberare il campo da una serie di equivoci che inducono a ritenere la geometria una scienza del tutto astratta, il cui possibile contributo sia limitato ai soli aspetti metrici, propri della geometria ele­ mentare. Ma se già da tempo i suoi confini erano stati am­ pliati con l'introduzione nello spazio euclideo degli enti a distanza infinita, i recenti sviluppi delle nuove teorie hanno inciso cosl profondamente sul mondo delle conoscenze da 5


modificare in modo rivoluzionario, nonché l'idea tradizio­ nale di spazio, il concetto stesso di geometria. Determina­ tasi infatti la rinuncia ad ogni definizione spaziale unica e · assoluta e ad ogni teoria vincolante, viene oggi affermata la coesistenza di concezioni diverse. · Questo nuovo atteggiamento scientifico subordina in cam­ po artistico una generale attitudine a recepire tutte le aper­ ture e tutti gli stimoli che quelle problematiche sottendono e suggeriscono. Ma, pur non potendosi riconoscere in ogni espressione artistica una reale congruenza con le nuove geo­ metrie, né un trasferimento acritico al loro interno di quei metodi, nel campo dell'architettura, proprio a causa del suo intrinseco carattere, è lecito individuare con esse un più intimo legame. Se dunque la geometria intesa in senso tradizionale esau­ riva la propria funzione nell'imporre una sintassi formale alla definizione del progetto (il quale peraltro veniva svilup­ pato secondo parametri di altra natura), arricchita di nuove risorse, viene oggi assunta come elemento-guida all'interno stesso della genesi progettuale. Attraverso lo studio dei rapporti di posizione si sono· in­ fatti rivelate nuove possibilità di individuare, interpretare e. rappresentare tutto un sistema di relazioni e di connessioni, vale a dire quelle proprietà più pregnanti che rendono par­ tecipe la stessa geometria del processo creativo. Le nuove concezioni di spazio architettonico, recuperan­ do il rapporto di interazione reciproca tra l'uomo e l'am­ biente, ne privilegiano infatti il peculiare carattere di « luo­ go »: il complesso di spazi funzionali è relazionali in cui la nuova problematica si traduce, è allora suscettibile di interpretazione topologica. Una tale ricerca, al cui interno ogni considerazione di carattere dimensionale e figurativo non svolge alcun ruolo, trascende e precorre dunque ogni definizione degli spazi oggettivi. La conseguente metodologia si traduce in un approccio meta-formale, volto ad astrarre dalla struttura architetto­ nica, mediante il superamento dei dati tangibili (che restano 6 . nell'ambito della geometria euclidea), la sua più vera e in-


tima essenza, che potremmo. definire appunto con il termi­ ne di « meta-forma ». Le geometrie non-euclidee Il rifiuto del concetto tradizionale di spazio cominciò a manifestarsi alla fine del XIX secolo, in una società la cui espansione dinamica trovava conferma nelle nuove e com­ plesse strutture dell'universo che la scienza veniva scopren­ do. Tale atteggiamento si rifletteva in campo artistico in un coerente rifiuto della rappresentazione prospettica, espres­ sione e interprete della concezione euclidea dello spazio; tuttavia gli impressionisti hanno intuito la possibilità di un'attitudine nuova di fronte ai problemi dello spazio, più che non abbiano cominciato tutt'a un tratto a rappresen­ tare il volto definitivo del mondo moderno 1• La rinuncia al metodo 1'igorosamente geometrico non comportava ancora un totale distacco della rappresentazio­ ne dall'ambito della visione euclidea; perdurava infatti an­ che in campo scientifico la generale adesione a un'unica geometria dello spazio, nonostante la precoce intuizione kan­ tiana di enti pluridimensionali: La scienza di tutte queste specie di spazio sarebbe senza alcun dubbio la geometria più afta che una mente umana potesse concepire 2• Il convincimento che la geometria euclidea non costi­ tuisse la sola interpretazione possibile dello spazio fisico si veniva delineando fin dagli inizi del secolo scorso, ma af­ fonda le radici nel dibattito sorto sin dall'epoca classica, intorno al quinto postulato di Euclide 3, che afferma, benché in maniera non esplicita, che per un punto di un piano posto al di fuori di una retta, passa una sola parallela alla retta data. Non rivelando tale ipotesi il carattere allora richiesto ai postulati di « verità palese » o comunque verificabile per via sperimentale, era sorto il sospetto che si trattasse piut­ tosto di un teorema. Ma il fallimento degli innumerevoli tentativi intrapresi dai geometri per formularne una dimo­ strazione, rese chiaro alla fine che l'affermazione dell'uni­ cità della parallela fosse da considerarsi effettivamente un 7


postulato, caratterizzante appunto la geometria euclidea; assumendo invece l'una o l'altra delle ipotesi scartate da Euclide ◄, fu possibile la formulazione di teorie diverse. Le nuove geometrie, definite perciò non-euclidee, insieme con l'abbandono del concetto tradizionale di retta e di pia­ no, comportarono l'ipotesi di una curvatura (positiva, ne­ gativa o nulla) dello spazio. Di questi possibili spazi quello euclideo, a curvatura milla, divenne un esempio tra gli al­ tri, più idoneo soltanto a risolvere determinati problemi. Inoltre con l'avvento della relatività e l'ampliamento del concetto cli dimensione, lo spazio matematico fu definito come una varietà generalmente enne-dimensionale, da cui lo spazio fisico tridimensionale si differenzia per la sola· pe­ culiarità, condivisa dagli spazi mono- e bidimensionali, di essere visivamente rappresentabile. Perduto il privilegio di unico strumento per lo studio dei fenomeni fisici, lo spazio euclideo risultò infatti' inadeguato a risolvere i nuovi pro­ blemi sorti nel campo della meccanica, che trovarono invece la chiave risolutiva nelle altre geometrie. D'altra parte la necessità di sistemare tutte le conoscenze geometriche in un quadro organico, pèrseguendo livelli di generalizzazione sempre più elevati, ha condotto alla sco­ perta di proprietà meno evidenti di quelle relative alla for­ ma e alle dimensioni ( di cui si occupa la geometria elemen­ tare), ma rispetto a queste più intime e profonde. A defi­ nire in tal senso i limiti di una teoria sta il concetto di «equivalenza»: due figure sono tra loro equivalenti se, ri­ spetto a un determinato tipo di trasformazione, conservano quelle proprietà assunte come invarianti dalla teoria stessa. Per la geometria elementare il concetto di equivalenza è costituito dalla «congruenza» e dalla «similitudine»: nel primo caso sono invarianti tutte le proprietà metriche; nel secondo soltanto quelle, come gli angoli, che conservano la forma ma non necessariamente le dimensioni. Proprietà di tipo diverso sono state scoperte dal Poin­ caré, ma la loro origine è molto più antica e deriva dall'os­ servazione delle deformazioni prospettiche nel fenomeno visivo: in questo processo sono invarianti quelle proprietà 8·


delle figure che persistono nell'immagine retinica, in cui co­ me è noto non si conservano le proprietà metriche. Infatti: quasi tutto l'universo non ci è noto che per mezzo della vista o per prospettiva, cioè per le sue proprietà proiettive s. La geometria proiettiva definisce dunque una equivalen­ za sulla base di proprietà invarianti per proiezione: due fi­ gure deducibili l'una dall'altra per trasformazioni di questo tipo, sono considerate equivalenti, anche dopo aver perduto in tutto o in parte le proprietà metriche 6• Questo tipo di equivalenza è tuttavia verificabile a livello percettivo in quanto la percezione visiva, per la compre­ senza di fattori psicologici, ci consente di percepire corret­ tamente le forme e valutare le grandezze, anche quando l'immagine retinica risulta deformata dalla prospettiva. Evolvendo verso più ampie generalizzazioni, vengono in­ fine individuate proprietà più intime sia di quelle metriche sia di quelle proiettive: sono le proprietà topologiche, sco­ perte verso la metà del XIX secolo e destinate ad imprimere un notevole sviluppo alla matematica moderna: Il nuovo argomento, detto « analysis situs » o topologia, ha come og­ getto lo studio delle proprietà geometriche che persistono anche quando le figure sono sottoposte a deformazioni· così profonde da perdere tutte le proprietà metriche e proiettive 7•

I concetti fondamentali della topologia Gli esempi più intuitivi di trasformazioni topologiche sono appunto le deformazioni: Immaginiamo che una figura sia copiata « a mano libera » da un disegnatore coscienzioso ma inesperto, che curvi le rette e alteri gli angoli, le distanze, le aree, allora pur andando perdute le proprietà metriche e proiettive della figura originale, le sue proprietà topologi­ che rimarranno le stesse 8• Più in generale, se due figure sono deducibili l'una dal­ l'altra per deformazione continua e senza strappi, son� to­ pologicamente equivalenti; se pensiamo un cubo, o un qua­ lunque poliedro semplice costruito in sottile tessuto ela­ stico, e supponiamo di imprimere una forte pressione sulle 9


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pareti interne (ad esempio gonfiandolo) esso finirà col tra­ sformarsi in una sfera: la sfera è dunque un'immagine to­ pologica del poliedro originale. Non sono invece topologica­ mente equivalenti la sfera e la superficie del toro (o « ciam­ bella ,.), non potendosi trasformare l'una nell'altra senza operare lacerazioni o saldature. Altrettanto intuitivo è il carattere di trasformazione topo• logica nelle proiezioni d'ombra di configurazioni bi- o tridi­ mensionali su una superficie curva: a differenza delle proie­ zioni su superfici piane (che conservano le rette), gli spigoli rettilinei e le facce piane si trasformano in linee e superfici . curve, e le curve piane in curve sghembe. Le proprietà topologiche sono presenti evidentemente an­ che nelle figure piane: poligoni, cerchio, ellisse, sono tra loro equivalenti, ma queste stesse figure non lo sono ad esempio rispetto alla corona circolare. ·L'interesse destato in campo artistico dal nuovo concetto di spazio topologico e dalle stupefacenti proprietà di partico­ lari configurazioni, si traduce in una sorta di attrazione che il loro intrinseco valore figurativo esercita sulla crea­ zione artistica. Dell'evidente fascino di tali configurazioni un esempio emblematico è la nota scultura di Max Bill, che interpreta e ripropone la più straordinaria di tutte, il nastro di Mobius. Questa superficie che porta il nome del suo scopritore, ha rivelato la sorprendente esistenza di superfici ad una sola faccia: le superfici tradizionali infatti, come il piano, la sfera, il cilindro, ecc. sono tutte bilatere o a due facce, la superiore e la inferiore, l'interna e l'esterna, e non è possibile passare dall'una all'altra faccia senza penetrare la superficie stessa o attraversarne il contorno. Il nastro di Mobius presenta invece la singolare caratteristica, condivisa dalle altre superfici a una banda (peraltro assai più complesse), di potersi percor­ rere all'interno e all'esterno con una linea continua che non ne attraversi il bordo. Un modello di questa superficie si può ottenere portando a coincidere due lati opposti di una striscia di carta rettangolare, come per la costruzione del cilindro, ma a differenza di questo, operando simultaneamente


una torsione di 180 ° ; la figura così ottenuta non è topologi­ camente equivalente al cilindro: operando un taglio lungo la linea mediana del rettangolo iniziale, il cilindro viene infatti separato in due parti, ·il nastro di Mobius resta connesso. E poiché le superfici a una banda non possono essere trasfor­ mate per deformazione continua in superfici a due bande, il nastro di Mobius non è equivalente neppure alla sfera, né al toro. Specifica peculiarità della topologia è l'ampliamento del concetto di «connessione», che in geometria elementare de­ finisce la possibilità di congiungere con una curva continua due punti qualunque di una superficie. La topologia assume e precisa tale concetto, rispetto al quale una superficie (e quindi ogni altra ad essa equivalente) può essere «semplice­ mente connessa», come la sfera, oppure non esserlo, come il toro. Il concetto di connessione, semplice o multipla, è lega­ to al numero di sezioni necessarie perché la superficie risulti non connessa, venga cioè divisa in due parti distinte. Per le superfici semplicemente connesse questo numero è l'unità: abbiamo visto come una qualunque sezione separi in due un cilindro (una sfera, un poliedro, ecc.); perché ciò si verifichi nel toro, ocorrono invece due sezioni: il toro è dunque una superficie doppiamente connessa. Se estendiamo il termine «ciambella » a superfici analoghe al toro, ma con un numero variabile di fori, osserviamo che la presenza di ciascun foro eleva di uno l'ordine di connessione: una ciambella con due, tre, quattro... fori sarà dunque tre, quattro, cinque ... volte connessa. Da questi brevi cenni appare evidente il carattere rivo­ luzionario della nuova teoria rispetto agli enti tradizionali: La topologia tratta di fatti geometrici che per essere stu­ diati non esigono nemmeno i concetti cli retta e di piano, ma unicamente l'esistenza di una connessione continua tra i punti di una figura 9• Ma se le proprietà topologiche sono una scoperta relati­ vamente recente, alcune tra le più rilevanti, come il concetto di connessione, si sono rivelate deducibili dalle proprietà dei poliedri, benché il loro tipico carattere sia divenuto evi-

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dente solo quando il Poincaré riconobbe nella formula di Eu­ lero uno dei problemi fondamentali della topologia. Tale for­ mula 10 , che stabilisce una relazione fissa tra il numero dei vertici, degli spigoli e delle facce dei poliedri regolari, è in­ fatti estendibile ad ogni poliedro semplice o costituito da facce e spigoli curvi o da qualunque superficie deducibile da queste per deformazione continua. Il nuovo spazio definito dalle proprietà topologiche assu­ me un carattere di universalità, prontamente rilevato dalla trattazione epistemologica. Secondo B. Russell: Perché lo spazio sia esente da contraddizioni, bisogna considerarlo esclusivamente come ordine spaziale, cioè come un insieme di relazioni tra gli atomi (urùtà) materiali inestesi 11• Il Poin­ caré vede in tale spazio il più generale di tutti quelli già po­ stulati, e che al suo interno si collocano: Il continuo amorfo onde emergono i diversi spazi possiede un certo numero di proprietà Indipendenti da ogni idea di misura, è uno spazio puramente qualitativo, come quello che è studiato dall'Ana­ lysis situs 12• Abbiamo visto come a un tale ampliamento si sia perve­ nuti mediante un graduale processo di estensione: dallo spa. zio tridimensionale ad uno più generalmente enne-dimensio­ nale; dallo spazio euclideo a uno spazio curvo; dallo spazio metrico a quello non metrico. Secondo il nuovo criterio è del tutto irrilevante la natura degli elementi che costituiscono un sistema spaziale, siano essi numeri, eventi, temperature oppure oggetti reali; ciò che interessa e vale a definire uno spazio è appunto l'esistenza di una serie di relazioni e la pos­ sibilità di eseguire le necessarie operazioni 13• Lo spazio vissuto e lo spazio topologico

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Se un generale ampliamento del concetto di spazio doveva trovare coerenti espressioni nel linguaggio dell'architettura (valga tra tutte l'introduzione della lettura in chiave quadri­ dimensionale), lo spazio topologico, recuperato nel suo signi­ ficato più pregnante di «luogo», rivela connotazioni particolarmente omogenee allo spazio architettonico.


Il concetto di luogo è infatti così pertinente agli spazi abi­ tativi, da non potersi ritenere casuale la coincidenza lingui­ stica insita nel doppio significato di spazio e di luogo che assume di volta in volta il termine tedesco Raum 14; basti pen­ sare che presso gli antichi filosofi non solo i termini ma gli stessi concetti erano intercambiabili. Osserva in proposito Einstein come anzi il concetto di spazio « sia stato prece­ duto dal concetto psicologicamente più semplice di luogo » 15 • Benché la nuova teoria sia venuta evolvendo in una pro­ blematica più vasta, la sua denominazione è legata a questo primitivo carattere. Il termine 'topologia' deriva dal greco -.61toc;, che significa luogo, spazio; la sua adozione si spiega col fatto che in un primo tempo ebbe per oggetto lo studio dei problemi di posizione, onde essa venne anche detta ' analysis situs' 16• Che la topologia riveli una precisa vocazione ad esprimere lo spazio architettonico nella più ampia dimensione umana, che si faccia cioè interprete dello spazio esistenziale è dimo­ strato da specifiche ricerche psicologiche nell'ambito delle teorie gestaltiche. K. Lewin, in particolare, si rese conto che il tracciamento di figure atte ad illustrare alcuni problemi di carattere psicologico, finiva per assumere il ruolo di una vera e propria rappresentazione di concetti, e che questa rappre­ sentazione era di natura geometrica. Bisogna tuttavia sottolineare che i disegni conducono a ma­ lintesi se il lettore li interpreta in tennini di usuale geome­ tria metrica invece che di topologia. Il disegno su carta è in­ fatti solo l'immagine di certe strutture che per parte loro possono servire come rappresentazione concettuale di fatti psicologici 17• Esistono inoltre situazioni non solo suscettibili di una tale rappresentazione, ma realmente strutturate in senso topo­ logico: il rapporto persona-ambiente e anche il concetto di « appartenenza ,. alla persona o all'ambiente, implicano cate­ gorie che in un certo senso possono essere caratterizzate co­ me spaziali... Lo spazio di vita è articolato nell'ambito di « regioni ,. che sono qualitativamente differenti l'una dall'altra e che sono separate da « frontiere ,. più o meno penetra- 13


bili... Molti esperimenti hanno mostrato quanto sia impor­ tante la maniera nella quale le diverse regioni sono « con­ nesse » e in qual maniera e grado esse sono « separate »... questi concetti che noi usiamo per rappresentare i fatti psi­ cologici, quali regioni... connessione e separazione, apparte­ nenza, etc. sono reali concetti spaziali in senso strettamente matematico 18•

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Il duplice concetto di chiusura e ad un tempo di relazione con l'esterno si avvale ancora di un'adeguata rappresenta­ zione matematica, sia ché si consideri nello spazio di vita la coesistenza di « punti di frontiera» e « punti interni» (quan­ do cioè esistano ambiti sottoposti a influenze esterne ed am­ biti esenti da tali influenze); e sia che l'intero spazio di vita sia costituito da soli punti di frontiera, ciò che si verifica se ogni sua parte può venire influenzata da fattori esterni. In questo secondo caso si tratta di immettere lo spazio psicolo­ gico, quali che ne siano le dimensioni, in uno spazio avente una dimensione in più: ad esempio la totalità dei punti interni a un disco è costituito da soli punti di frontiera rispetto allo spazio interno; analoga relazione hanno i punti di una linea, ispirato ai concetti fondamentali della topologia 211• Per lo studio delle relazioni tra comportamento umano e ambiente circostante, K. Koffka adotta un tipo di configura­ zione che sebbene non rigorosamente matematico, è tuttavia ispirato ai concetti fondamentali della topologia 20• Precisi legami di tipo psicologico sono stati individuati anche con lo spazio fisico dal Kohler, il quale ha reso suffi­ cientemente chiaro che lo stesso concetto di « totalità dina­ mica » o « Gestalt » può essere usato sia in fisica che in psi­ cologia e anche che le leggi fondamentali della Gestalt sono ugualmente valide per entrambe le scienze 21• Lo stesso Arnheim riconosce una stretta affinità tra le ·forze fisiche e certe sollecitazioni percettive, il cui comporta­ mento è di fatto perfettamente analogo: stabilità, instabilità, tensione, sono termini e concetti comuni ai due ambiti; vi è equilibrio in un pattern percettivo quando l'insieme delle forze esistenti al suo interno risulta bilanciato 22• Ancor più esaurientemente la topologia appare idonea a


definire in termini rigorosi la graduale appropriazione dei rapporti spaziali, nel processo della percezione visiva. Le im­ magini rappresentative infatti, benché di natura manifesta­ mente proiettiva, includono i caratteri più generali di vici­ nanza e separazione, di connessione e di chiusura. Questi concetti sono proprio quelli di cui i geometri ci mostrano il carattere primitivo e che caratterizzano quella parte della geo­ metria chiamata « topologia », che esclude il ricorso alle no­ zioni di forma rigida, di distanza, di retta, di angolo, etc., così come ai rapporti proiettivi e ad ogni operazione di mi­ sura. :I?: evidente che adottando l'ipotesi secondo la quale le costanze di forma e di grandezza non sono date fin dalla per­ cezione iniziale, si riconduce ' ipso facto ' lo spazio percettivo primitivo a quei rapporti che la topologia considera giusta­ mente come dati basilari della costruzione geometrica 23 • Queste osservazioni del Piaget, scaturite da specifiche esperienze condotte su bambini di età diverse, conducono alla conclusione che nello sviluppo percettivo infantile, la capacità di riconoscere le figure, nonostante le molteplici de­ formazioni prospettiche, implica un'invarianza di tipo topo­ logico. Fin dalle prime settimane di vita infatti il bambino riconosce un volto familiare, pur nei diversi rapporti posizio­ nali; egli rileva dunque una corrispondenza tra i vari pattern visivi, la cui struttura non è euclidea, perché non vi è tra essi costanza dimensionale, né proiettiva, perché il bambino non è ancora in grado di comprendere i mutamenti prospettici. La forma percepita può quindi venire paragonata a quelle strutture deformabili ed elastiche studiate dalla topologia, e la somiglianza della figura con se stessa è allora asslmlla. bile ad una specie di « omeomorfi.a •, ossia di semplice cor­ rispondenza topologica biunivoca e bicontinua, naturalmente del tutto intuitiva e senza alcuna operazione esatta, dato che si tratta di pure percezioni 24• Il riconoscimento di semplici figure geometriche avvie'ne in maniera graduale, non appena si sviluppa nel bambino la capacità di astrarre dalla figura percepita le qualità formali. Tuttavia quando inizia l'astrazione delle forme, il soggetto non giunge a oltrepassare il livello dei rapporti topologici per

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ricostruire le forme euclidee L'autore si chiede allora in che cosa consiste l'astrazione delle forme e perché le forme topo­ logiche sono psicologicamente più semplici delle forme eucli­ dee 25• La risposta al quesito emerge dalle stesse esperienze di Piaget: l'acquisizione delle qualità geometriche degli oggetti richiede, rispetto a quelle fisiche, una elaborazione più com­ plessa, proprio in quanto il necessario processo di astrazione è legato alla coordinazione delle azioni (tattili e motorie) che il soggetto compie per decifrarle: nel percorrere la superficie di un oggetto, penetrarla, attraversarla, egli ne percepisce la forma in maniera globale e non come somma degli elementi costitutivi. Le prime qualità geometriche, che scaturiscono dalla esplorazione delle forme, non sono infatti quelle tradi­ zionali, come il concetto di retta, di curva, di angolo, ma proprio quelle qualità che secondo l'analisi astratta del mate­ matici si sono rivelate più primitive, come quelle di chiu­ sura e di apertura, di allacciamento, etc. 26• L'importanza dei rapporti topologici dunque; oltrepassa le relazioni euclidee, anche molto semplici dal punto di vista percettivo. E per di più si comprende perché, dipendend� dalle coordinazioni elementari dell'azione... questi rapporti fondamentali siano sfuggiti per tanto tempo alla ricerca geo­ metrica, che è cominciata con la misura e non si è impegnata che molto tardi nella ricerca delle nozioni primitive n. Topologia e architettura

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Una concezione topologica dello spazio di vita è presente anche nel pensiero di Merleau-Ponty: Lo spazio non è l'am­ bito... in cui le cose si dispongono, ma il mezzo in virtù del quale diviene possibile la posizione delle cose. Ciò equivale a dire che, anziché immaginarlo come una specie di etere nel quale sono immerse tutte le cose o concepirlo astrattamente come un carattere che sia comune ad esse, dobbiamo pen­ sarlo come la potenza universale delle loro connessioni 28• Citando tale affermazione, C. Dardi aggiunge: Ma se è la potenza universale delle connessioni delle parti all'interno


dell'unità architettonica, e degli oggetti tra di loro all'interno dello spazio naturale il carattere che connota la struttura spaziale dell'oggetto, la ricerca architettonica deve tendere ad individuare e risolvere prioritariamente le relazioni figurali e i conflitti configurazionali interni al campo entro cui que­ sto si colloca. Per svolgere un tale compito la geometria eucli­ dea non è più il solo o il più appropriato strumento cui ci sia consentito ricorrere, ma una geometria più generale, di carattere qualitativo, capace di risolvere i rapporti spaziali non in funzione della forma degli oggetti analizzati, ma delle loro relazioni di posizione e connessione. Ecco allora la ' topo­ logia ' e I' ' analysis situs ' emergere come strumenti specifici d'indagine, capaci di illuminare secondo nuove angolature il problema dei rapporti interni di struttura dell'oggetto archi­ tettonico... II trattamento relazionale dello spazio trova in alcune aree culturali, condizioni particolarmente favorevoli al suo sviluppo: una di queste fu senz'altro quella brutalista... i brutalisti si accorsero ben presto che la coerente tradu­ zione del loro programma di promuovere « un'etica » e non « un'estetica » non poteva non implicare la rinuncia a privi­ legiare una scelta linguistica contro le altre... ; dopo alcune incertezze iniziali che parvero legittimare l'assunzione di una organizzazione informale dello spazio come risposta a tale quesito, l'attenzione si spostò sull'opportunità di ancorare il problema delle scelte configurazionali ad un concezione ma­ tematica più avanzata, quale quella offerta dalla t!)pologia ( « che considera un mattone. e una palla da biliardo come se avessero la stessa forma, e persino una tazza di tè e un disco») 29• Se nel mondo occidentale i rapporti con lo spazio eucli­ deo, per essere affermati o negati, hanno costantemente ma­ nifestato la propria presenza e il proprio peso, la concezione orientale, non identificando lo spazio con un fattore fisico, li ha invece tradizionalmente ignorati. II senso giapponese dello spazio è MA, cioè ' coscienza del sito '... il termine inglese ' piace ' potrebbe essere usato per implicare una éoscienza simultanea dei concetti di forma e non-forma, oggetto e spazio, accoppiati entro un'esperienza

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soggettiva... Questo senso giapponese del MA non è qualcosa che è creato da elementi compositivi, ma è ciò che occupa l'immaginazione e la mente dell'uomo, una volta che egli ab­ bia fatto esperienza di questi elementi 30• Al nostro spazio fisico tridimensionale, alla sua attitudine a contenere oggetti, si oppone quello buddista di «non-forma» (che tuttavia non differisce sostanzialmente dalla forma, cioè dal «posto» de­ gli oggetti materiali), in tal modo identificando nel MA i con­ cetti per noi distinti di luogo e di vuoto. Se tuttavia la concezione euclidea rimane estranea a quelle culture, la nuova sensibilità indotta dalle geometrie non-eucli­ dee lascia intuire nel pensiero orientale l'esistenza di un rapporto tra spazio e forma, che può essere spiegato nei ter­ mini delle nuove teorie. A differenza quindi della concezione della forma, quale proposta dalla cultura occidentale, per cui questa si costituisce come il principio ordinatore intellet­ tualisticamente sovrimposto alla dinamica dei processi vitali, nella cultura giapponese questa rappresenta un momento temporaneo e singolare, di" sospensione nell'universale ten­ denza di disordine... il disordine apparente, l'ordine geome­ trico e l'ordine sottile costituiscono le tappe di un diverso approdo alla forma, nel quale gli aspetti relazionali e i rap­ porti contestuali giocano un ruolo identico a quello delle scelte configurazionall e dei modelli spaziali assunti ..., cosic­ ché il rapporto tra il segno modellatore dello spazio e Io spa­ zio che struttura la forma si sposta decisamente a favore di quest'ultimo, nell'ambito di una concezione che possiamo an­ che in questo caso, definire di tipo topologico 31• Allora anche il concetto heideggeriano di « spazialità del­ l'esistenza», privilegiando gli aspetti relazionali dell'ambito vitale, è esprimibile in termini di spazio topologico... «gli spazi sono espressi dai luoghi e non dallo spazio» 32• Fatto proprio e sviluppato tale concetto, C. Norberg-Schulz aggiun­ ge: Le azioni infatti acquistano significato solo in relazione a luoghi precisi e riflettono il carattere particolare del luogo. II nostro linguaggio comunica tale situazione con l'espres­ sione: qualcosa « ha luogo » 33• 18 L'autore, riconoscendo una profonda analogia tra gli sche-


mi topologici e i concetti stabiliti da Heidegger, Schwarz e Bollnow 34, considera fondamentali, per la determinazione dei luoghi, i caratteri di chiusura e recinzione, direzione, centra­ lizzazione. Definisce poi come ambiti essenziali il « percorso» e il « dominio», proponendo il primo come luogo direzio­ nato, con spiccati caratteri di continuità (verso una meta) e di chiusura (rispetto alle adiacenze); il secondo come luogo dai confini più fluidi comprendente una rete più o meno fitta di percorsi. Il concetto di dominio si estende ancora ad altri ambiti, compresenti nello spazio esistenziale: i diversi do­ mini naturali si combinano infatti in vario modo, con i do­ mini politici, economici, sociali, climatici 35• Gli elementi dello spazio esistenziale si presentano su· li­ velli diversi, gerarchizzati, rispetto alle connotazioni topolo­ _ giche, in una serie crescente; il primo livello è quello del­ l'oggetto, seguono la casa e poi il livello urbano: ai nodi, percorsi e distretti definiti nel suo ambito, già K. Lynch attri­ buiva una dimensione esistenziale e non meramente visiva, mentri Lévi-Strauss ha dimostrato come nelle culture primi­ tive l'immagine del proprio villaggio sia basata su semplici re­ lazioni topologiche. Il massimo livello è infine quello del pae­ saggio (livello geografico), le cui proprietà strutturali pos­ sono esprimersi attraverso luoghi, territori, domini 36• Ancora in termini topologici la conclusione di Norberg-Schulz: � molto importante che i livelli possano rappresentarsi a vi­ cenda, il che è anche una conseguenza del fatto che gli og­ getti «accentrano» e la natura «contiene» ;i_ Se questo è dunque il significato e il valore fondamentale di uno spazio vissuto e interpretato in termini topologici, re­ sta da precisare il tipo di rapporto con la teoria matematica, per quanto riguarda in sede di progetto la determinazione degli spazi funzionali. L'assunzione di uno spazio così strutturato come prin­ cipio metodologico di una ricerca progettuale, emerge con chiarezza dalle enunciazioni teoriche e dalla prassi operativa di P. Portoghesi, nonostante l'assenza di una dichiarata ade­ sione e di una rigorosa terminologia.. Sostenitore di una architettura verificata continuamente

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nel suo farsi da una conoscenza critica della storia, egli pone l'accento sull'aspetto scientifico della disciplina che rende possibile l'accumularsi delle conquiste conoscitive e sul suo aspetto artistico che la costringe in rapporto alle vicende del­ la società a rimettere sempre in discussione i suoi principi e le sue leggi, a negarsi come istituzione stabile per rinascere costantemente dalle sue ceneri 38• Il concetto di « campo » assunto dalla terminologia rela­ tivistica, viene riproposto come elemento di tramite tra il pensiero architettonico e il suo concretarsi; si cerca allora un linguaggio intermedio tra la parola e l'architettura e cioè il disegno analitico interpretativo che partendo dalle forme classiche della rappresentazione architettonica (la pianta, le sezioni, gli alzati) ne estrapolasse in forma semplificata i campi architettonici... Questa ricerca ... è il punto di partenza di una serie di tentativi di rifondare un metodo razionale di costruzione dello spazio in cui l'analisi delle funzioni dive­ nisse immediatamente traducibile in termini omogenei alla disciplina architettonica, in cui i campi architettonici cioè, identificandosi con le aree elettive delle differenti funzioni e dei relativi comportamenti diventassero strumenti di media­ zione tra la forma e la necessità della forma 39• Il nuovo metodo per la costruzione dello spazio ha come obiettivo quello di sostituire alla griglia rinascimentale dello spazio prospettico, da cui discendono in linea diretta anche le più radicali alternative moderne..., uno strumento altret­ tanto chiaro ma capace di porsi in relazione diretta con i luoghi in cui l'intervento architettonico si esplica, con le funzioni che le strutture ospiteranno, con le possibilità di fruizione dello spazio che si realizzeranno nell'opera com­ piuta 40• Lo spazio, espresso in funzione dei luoghi, costitui­ sce anzi « un sistema indefinito di luoghi» all'interno del quale le funzioni sono rappresentate geometricamente me­ diante « famiglie di cerchi concentrici che si dilatano all'in­ finito, sovrapponendosi» come altrettanti sistemi di onde concentriche in uno stagno 41• 20

Dal confronto tra i grafici rappresentativi dei campi e quelli relativi alle piante di alcuni progetti elaborati dallo


stesso Portoghesi (ad es. della casa Andreis, della casa Papa­ nice e della chiesa della Sacra Famiglia) emerge il ruolo di stimolo esercitato, anche in senso figurativo, dai diagrammi funzionali sulla definitiva stesura del progetto. Ancora in chiave topologica si può interpretare il princi­ pio compositivo della sovrapposizione dei piani per rota­ zione, adottato dal Portoghesi: individuato un elemento abi­ tativo, lo stesso elemento viene riproposto al piano supe­ riore ma rnotato rispetto al primo di un determinato an­ golo; ciascuna cellula cémserva in tal modo identico rapporto con la precedente e con gli ambienti comuni, ad es. con l'elica centrale della scala (albergo a Chianciano, casa Baldi II). Oltre che nel progetto, lo spazio topologico si pone come metodo analitico anche nella lettura delle. opere realizzate: dall'analisi infatti, mediante il superamento dei dati figura­ tivi, emergono quelle proprietà che sono invarianti per tra­ sformazioni topologiche. Il concetto di equivalenza, tra figure pur formalmente dissimili, si traduce allora in uno strumento per l'individuazione di profonde analogie funzionali non im­ mediatamente percepibili. . All'interno di un discorso « sulle nuove metodologie della progettazione», L. March e P. Steadman pongono a confronto tre case progettate da F. LI. Wright: tutte le piante presen­ tano come caratteristica comune un'impostazione basata sulla ricerca di una semplice unità geometrica, che, diversamente combinata e dimensionata, costituisce la matrice geome­ trico-strutturale della configurazione degli spazi. Per la prima casa (Life, casa per famiglia media, 1938), concepita come le altre a pianta libera, l'elemento unitario è il quadrato; per la seconda (Jester House, 1938) tale elemento è un cerchio; per la terza infine (Sundt House, 1941) un triangolo equila­ tero. Ma l'identità strutturale dei tre progetti non risiede evidentemente nella scelta di unità geometriche, scelta che indica piuttosto un metodo di lavoro, ma emerge dalla con­ gruenza degli spazi funzionali: Se ogni spazio funzionale è rappresentato con un punto e se quando due spazi sono in­ terconnessi, si disegna una linea tra i loro punti rappresen­ tativi, realizziamo una rappresentazione nota come grafo 42• 21


Dall'esame dei grafi relativi ai tre progetti, ne scaturisce la perfetta equivalenza topologica (se si esclude la presenza in uno di essi di una camera supplementare): non soltanto cioè sono identiche le mutue posizioni degli spazi funzionali, ma l'intero sistema di interconnessioni (percorsi interni, rap­ porti con l'esterno, collegamenti diretti e indiretti) si man­ tiene invariato. Infatti: In tutte queste tre case vediamo che arriviamo sc;>tto un garage e possiamo passare attraverso un'area recintata, all'office e alla cucina, oppure procedere attraverso l'ingresso o loggia, dal quale si può raggiungere la cucina, o al tinello o patio coperto, a seconda del clima, in­ torno a cui si estendono il soggiorno, la sala da pranzo, la camera da letto e le terrazze � una delle quali aperta verso una piscina 43• Anche nella organizzazione degli spazi basata sull'uso del computer non si può tacere del rapporto con i nuovi principi. Rispetto a questa tendenza C. Dardi si pone in po­ sizione polemica denunciando il rischio che un tale metodo progettuale comporta: In assenza di validi parametri com­ positivi di riferimento, capaci di ordinare nell'ambito di una struttura figurativa la successione degli spazi e dei volumi, l'economia di spazio e di materia viene assunta come la coor­ dinata assoluta del progetto. Formule e relazioni tra i di­ versi ambienti, attraverso l'analisi di quelle linee di bordo che sanciscono il confine della figura, e i caratteri di questo, aperto o chiuso, . comunicabile o incomunicabile, a contatto o distaccato, determinano l'approccio certamente più rigo­ roso· dal punto di vista scientifico alla topologia, ma anche l'uso più agnostico che ci sia dato ipotizzare. Ne derivano, grazie alla complicazione necessariamente indotta dalla tra­ duzione del problemi spaziali in un linguaggio matematico che sia recepibile dal computer... schemi assai generali, nei quali la qualità della configurazione non gioca ruolo alcuno e l'assenza di principi-guida architettonici induce una sorta di spontaneismo formale che altro non è ·che la scontata as­ sunzione di modelli sorpas.sati e scontati 44• Di altro avviso è J. Cousin: egli ritiene infatti che il com22 puter, benché di non facile uso, possa rivelarsi un valido


strumento per la costruzione del progetto; rileva inoltre che l'intuizione e la logica mediante la quale gli architetti e gli urbanisti risolvono i relativi problemi, sono spesso carenti d'informazioni; infine le richieste malformulate da parte del committente comportano spesso la approssimazione del ri­ sultato. Tuttavia se il problema di organizzare gli spazi si rivela di notevole complessità, i diagrammi topologici pos­ sono costituire un elemento ordinatore nella raccolta dei dati. Ma la funzione del nuovo metodo non si· esaurisce in un freddo contributo tecnico: l'incredibile varietà di spazi, ri­ sultante dai diagrammi compositivi, può svolgere una fun­ zione di stimolo sulle menti creative, indirizzandole verso una vera e propria « arte topologica». Il Cousin conclude auspicando che il metodo, definito di «esperimento ed erro­ re», quale strumento logico e spedito di organizzazione spa­ ziale, possa divenire il mezzo più idoneo a cambiare il nostro presente 45• In modo analogo si esprime G. M. Kallman, che vede rea­ lizzarsi nelle « immagini fluide» della nuova architettura, le aspirazioni dei primi espressionisti e futuristi; e vede ancora la dichiarata adesione di Le Corbusier a questa tematica inverarsi nello spazio fluido della chiesa di Ronchamp; a questa generale tendenza non è senza dubbio estraneo il con­ tributo delle nuove teorie matematiche e topologiche. Il me­ todo citato da Kallman si avvale di imagini rappresentative delle condizioni di mobilità e cambiamento mediante la con­ centrazione di energia in «gruppi». La conclusione, simile a quella del Cousin, esprime la fiducia che il nuovo metodo possa fornire una risposta alla richiesta di « estetiche per cambiare» 46• L'aspirazione a radicali mutamenti, giustificata da una vi­ sione diversa dei problemi spaziali e avallata dalle nuove teorie geometriche, potrebbe indurre a porsi la domanda se le nuove metodologie debbano sostituirsi ai metodi classici della rappresentazione euclidea; tale dilemma è tuttavia privo di fondamento, non esistendo opposizione alcuna tra i due criteri, come le nuove posizioni scientifiche ammettono: 23


Il più importante risultato della fisica atomica è stato il ri­ conoscimento della possibilità di applicare diversissimi sche­ mi di leggi naturali agli stessi processi fisici, senza contrad­ dizioni 47 • Con la nascita della meccanica quantistica, il principio della causalità, che appariva alle menti positiviste come l'uni­ co accettabile, si trova disceso da principio valido in ogni caso a principio modellato... per rappresentare i processi del­ l'esistente sotto la specie della quantità 48 • Laddove .tuttavia intervengono elementi di natura quali­ tativa la problematica non può tradursi in termini di quan­ tità. Ma, si chiede C. Brandi: Che cos'è la qualità, se non una quantità che non si può misurare? 49 • E poiché il principio di causalità, che rende possibile la verifica sperimentale, non contraddice un altro principio (nel caso della fisica quantistica, quello di indeterminazione), la coesistenza di metodologie diverse, ugualmente gravitanti nel campo della logica 50, accettata in campo scientifico per la risoluzione dei problemi relativi allo spazio fisico, tanto più è legittima e certamente feconda nel campo dell'architettura in cui sono compresenti connotazioni di carattere fisico e di carattere emotivo.

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t P. FRANCASTEL, Lo spazio figurativo dal Rinascimento al cubismo, Einaudi, Torino 1960, p. 131. 2 Citato da M. JAMMER, Storia del concetto di spazio, Feltrinelli, Milano 1963, p. 167. J « Una retta che cade su due rette parallele fa gli angoli alterni uguali fra loro, l'angolo esterno uguale all'interno ed opposto, e gli angoli interni dalla stessa parte uguali a due retti» (EUCLIDE, De ele­ mentis, trad. it. Gli elementi, Roma 1925, p. 102). 4 Che cioè per il punto non passi alcuna parallela alla retta data, oppure che ve ne passi più di una. In questi assiomi evidentemente il concetto di retta non coincide con quello, per noi usuale, della geometria euclidea. s Citato da A. Au:orrA, La reazione idealistica contro la scienza, Li­ breria scientifica, Napoli 1970, p. 451. 6 Sono invarianti proiettivi la retta, il concetto di incidenza e di appartenenza, il birapporto. 7 R. CoURANT - H. RoBBINS, Che cos'� la matematica?, Boringhieri, Torino 1941, p. 353. s Ibidem, p. 362. 9 D. Hn.sERT - S. CoHN VossEN, Geometria intuitiva, Boringhieri, To­ rino 1960, p. 373.


10 Detto V il numero dei verticali, S quello degli spigoli, F quello delle facce, la relazione è: V - S + F = 2. 11 B. RussELL, Les éspaces géometriques, in « Revue philosophique "• voi. XXII, p. 242. 1 2 A. ALIOTTA, op. cit., p. 451. 13 Cfr. K. MENGER, Dimerzsionstheorie, Teubner, Leipzig 1928. 14 Cfr. P. CoLLINS, I mutevoli ideali dell'architettura moderna, Il Saggiatore, Milano 1973, p. 375. 15 A. EINSTEIN, Premessa a M. JAMMER, op. cit., p. 6. 16 E. M. PATTERSON, Topologia, Cremonese, Roma 1972, p. 1. 11 K. LEWIN, Principi di psicologia topologica, O. S. Firenze 1970, p. 82. 1s Ibidem, pp. 4546. 19 Ibidem, p. 77. 20 Cfr. K. KoFFKA, Principles of Gestalt Psychology, Harcourt, New York 1931, p. 40. 21 K. LEWIN, op. cit., p. 68. 22 R. ARNHEIM, Arte e percezione visiva, Feltrinelli, Milano 1962, pp. 3-5. 23 J. PIAGET • B. INHELOER, La rappresentazione dello spazio nel bambino, Giunti Barbera, Firenze 1976, p. 11. 2� Ibidem, p. 12. 25 Ibidem, p. 25. 26 Ibidem, p. 29. 21 Ibidem, p. 31. 28 M. MERLEAU - PoNTY, Fenomenologia della percezione, Il Saggiatore, Milano 1972, pp. 326-327. 29 C. DARDI, Il gioco sapiente, Marsilio, Padova 1971, p. 183. 30 Citato da C. DARDI, op. cit., p. 184. 31 Ibidem, p. 184. 32 M. HEIDEGGER, Vortriige und Aufsiitze, in « Bauen Wohnen Den­ ken », 1954. 33 C. NORBERG - ScHULZ, Esistenza, spazio e architettura, Officina, Roma 1975, p. 30. 34 Ibidem, p. 28. 35 Ibidem, pp. 38-39. 36 Ibidem, pp. 47-57. 37 Ibidem, p. 57. 38 P. PORTOGHESI, Le inibizioni dell'architettura moderna, Laterza, Bari 1974, p. 74. 39 Ibidem, p. 85. 40 Ibidem, p. 90. 41 Ibidem, pp. 90-91. 42 L. MARCH . P. STEADMAN, La geometria dell'ambiente, Mazzotta, Milano 1971, p. 28. 43 Ibidem, p. 28. 44 c. DARDI, op. cit., p. 184. 45 Cfr. J. CousIN, Topologica/ organization of architectural space, in « Architectural design ", ott. 1970. 46 Cfr. G. M. KALLMAN, The « actin » architecture of a new generation, in e Architectural Forum"• ott. 1959. 47 W. HEISENDERG, Mutamenti nelle basi della scienza, Torino 1960, p. 54. 48 C. BRANDI, Le due vie, Laterza, Bari 1970, p. 85. 49 Ibidem, p. 86.

so Ibidem

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La casa: norma e «deroga» PASQUALE DE MEO

Sul fenomeno vasto, che trae origine dal mutamento strutturale della società moderna, e che viene classificato sin­ teticamente con il termine di neo-urbanesimo, si sono inne­ stati molti complessi problemi. Tra essi, quello residenziale ha acquistato gradualmente una incidenza socio-politica di rilievo, e di conseguenza un interesse sempre più vasto nella cultura contemporanea. La accentuata rapidità con cui il fe­ nomeno nel suo complesso si svolge, non ha consentito una assimilazione dei diversi parametri in gioco, ed i modelli de­ rivati, di comportamento e formali, godono tuttora di una relativa instabilità. Le ragioni per cui l'auspicabile posizione di equilibrio non viene raggiunta, si fondano probabilmente sia sulla difficoltà di rendere congruenti aspirazioni e forme - argomenti quin­ di di ordine antropologico - sia sulla dimensione assunta dal problema stesso, che è invece argomento di ordine fisico, eco­ nomico, politico e sociale, nel quale la singolarità dell'uomo; fruitore del suo alloggio, diviene una particella infinitesimale. Per rendere conto dell'entità delle cifre in gioco, sono suf­ ficienti pochissimi dati: la popolazione nelle città milionarie sull'intero globo fra il 1950 e il 1985 è destinata più che a quadruplicarsi, con un fenomeno più accentuato nelle regioni poco sviluppate, in cui si decuplica, più contenuto in quelle già sviluppate. In particolare in Europa tale popolazione passerebbe da 60 milioni di abitanti nel 1950 a 112 milioni nel 1985 1• La costruzione degli alloggi per una massa tanto imponente di neo-urbanizzati è dunque un impegno di così 26 vaste proporzioni da costituire un fondamentale problema


politico in ogni paese, e soprattutto in quelli in cui molta parte degli interventi attuati negli ultimi decenni è stata ri­ volta alla ricostruzione del patrimonio edilizio, largamente distrutto nell'ultima guerra proprio nei centri urbani. Il punto di partenza è dunque quello dello status della ricerca e della prassi al momento in cui, al 1950, rabberciate le ferite più dolorose, si pose mano con un impegno più va­ sto al problema della casa. È largamente noto il merito che deve essere assegnato alla cultura architettonica di estrazio­ ne razionalista mitteleuropea perché i fondamenti metodolo­ gici fossero riesaminati attraverso un filtro che tenesse conto del momento storico. Il paradigma dell'Existenzminimum è coniugabile con coerenza solo a valle della presa di coscienza di taluni canoni prioritari, che partono dai problemi a scala territoriale delle unità complesse e giungono fino al livello dell'« unità minima funzionale » e dell'alloggio. Riguardano la prima sfera i lavori tesi ad individuare i limiti, anche in termini di ampiezza, del rapporto fra spazio interno - cioè privato - e spazio di pertinenza, in cui si collocano nell'in­ torno della residenza i servizi essenziali, non più ospitati . nella sfera familiare. Il graduale passaggio da una edilizia per episodi ad organizzazioni più complesse è perfettamente leggibile, nella tradizione del Movimento Moderno, in una serie di esempi paradigmatici: da quelli guidati da Loos a Vienna sul tema della casa popolare, a quelli di Berlage nella cintura urbana di Amsterdam, ed infine ai più noti ed emble­ matici esempi tedeschi quali il Torten, il Dammerstock, la Siemensstadt di matrice gropiusiana o l'Unité de grandeur conforme lecorbusiana. L'altra faccia del problema, quella della sfera intima del­ l'alloggio, ricercava nella dimensione minima il punto di con­ fluenza tra lo spazio necessario al nucleo familiare per esi­ stere, e quello che la società può concedergli. Gli studi di Klein rappresentano dunque con altrettanta emblematicità il. problema residenziale, all'estremo opposto rispetto alla di­ mensione territoriale, ed indicano nel fondo il parametro. economico di riferimento, cioè il modulo base concesso nel­ l'operazione. Resta la verifica della congruenza tra tale di- 27


sponibilità ed il ménage, con le sue attività. Riferendosi alle esperienze della Germania socialdemocratica tra le due guer­ re, il «tipo » per la casa a basso costo è strutturato per un modello di famiglia che è integralmente votata al lavoro di­ pendente: sancisce ... [la fissità] ... della famiglia operaia 2• Tut­ tavia, al di là delle possibili considerazioni sulla fissità del modello assunto, la fase tra le due guerre dimostra il defi­ nitivo passaggio del tipo residenziale della classe operaia da quello agrestiforme, di marca unifamiliare proto-ottocente­ sca, a quello multifamiliare metropolitano. L'alloggio, tipiz­ zato e modellato con equivalente rigidità, prende il posto di un cassetto, di una scatola nel volume edilizio. Restringendo infine il campo al caso italiano, il riferi­ mento allo stesso periodo è assai povero di citazioni di qual­ che interesse. Per il ridotto decollo industriale e per effetto delle leggi fasciste, costrittive della mobilità sul territorio nazionale, si innescò soltanto episodicamente la «corsa» alla città che è il movente principale per il rinnovamento del modello residenziale. L'attività italiana nell'edilizia po­ polare antecedente al 1950 fu dimensionalmente scarsa, e, sul filone dell'autarchia anche culturale, formalistica e ca­ rica di orpelli. Trascorsa la guerra, ricostruzione, decollo industriale di talune aree e mobilità vivacizzarono il panorama italiano. Agli inizi degli anni cinquanta, alla creazione dell'INA-Casa corrispose una feconda attività, inedita per le scene italiane. Sul piano operativo le iniziative, sebbene rilevanti, non rag­ giunsero in assoluto quote eclatanti; sul piano culturale, i progettisti, presi globalmente, furono stimolati a recuperare con rapidità la timida o mancata partecipazione al dibattito internazionale prebellico. Nacque così una categoria di ope­ ratori self-made, e tuttofare, al livello della città, del quar­ tiere residenziale, dell'alloggio. Essi per lo più agirono da soli, separati anche dagli sparuti gruppi di ricercatori che facevano della 'città', e cioè dell'urbano, il loro campo di applicazione scientifica. Studiosi di eterogenea provenienzà; che Guidicini qualifica come «transfughi » da altre discipli28 ne, per lo più di origine sociologico-ruralistica 3•


La citazione desta interesse per due ordini di fattori: un primo, in quanto dà conto di un approccio al problema della città, e per conseguenza a quello residenziale, caratterizzato da molta approssimazione non sullo specifico dell'edifièio o dell'alloggio bensì sull'inserimento nella più complessa strut­ tura urbana; un secondo, in quanto individua nella ruralità una matrice culturale assai diffusa in quegli anni. Al fiorente dibattito degli anni 'SO su città e campagna corrispose anche sul piano figurativo l'evasione dello strapaese, realizzata con cura in molti quartieri INA-Casa. Si innalzò in tal modo un onirico controaltare alla potente e spietata distruzione dei valori urbani, che la speculazione andava compiendo, in spe­ cie nelle aree di maggiore propulsione. Lo scollamento tra gli operatori comportò di fatto una buona dose di avventurismo e di ingenuità. Nel fondo, si pro­ poneva alla classe operaia non una immagine reale della sua condizione urbana, bensì una scena ridondante di remini­ scenze ancestrali. Di contro, instaurando una palese contrad­ dizione, l'alloggio che veniva imposto ristabiliva, con la di­ sponibilità ridotta di spazio, col difficile rapporto interno­ esterno, con la scarsa flessibilità, la più vera dimensione co­ strittiva dell'habitat metropolitano. Cogliendo, tuttavia, il disagio emergente nella città ormai dilatata, gli sforzi culturali e pragmatici furono per la gran parte rivolti a ridurre il danno che derivava sul singolo da una scorretta organizzazione al livello urbano, in quanto - possiamo oggi coglierlo - si ritenne erroneamente che al livello dell'alloggio si fosse raggiunto il più alto standard com­ patibile con le disponibilità obiettive. L'isolamento dei pro­ gettisti, architetti e urbanisti, non consentiva un rinnova­ mento. Sarà necessario, come nota lo stesso Guidicini, atten­ dere gli anni della contestazione perché vengano demolite le barriere fra gli « hortus conclusi » disciplinari, con una azio­ ne che se non altro ha avuto il merito di coinvolgere diverse forze sopite, risvegliando taluni ambiti culturali dal loro cul­ lante distacco dalla realtà ed imprimendo all'intero corpo so­ ciale e politico un maggiore interesse per la città e i suoi · problemi. Con ciò si è riproposto, e non risolto, l'interroga- 29


tivo sul modo di condurre il rinnovamento del modello inse­ diativo, in quanto in quel momento abbiamo toccato con mano come la nostra condizione esistenziale nel mélange urbano (nel senso del modus vivendi) sia profondamente e struttural­ mente mutata. Non basta infatti raggiungere un accettabile standard, ma è necessario constatare il mutamento e le dif­ formità che caratterizzano il comportamento individuale, per concludere che i rigidi modelli, anche plastici e formali, cui la tradizione ci ha abituati, devono al contrario essere dina­ mizzati _o almeno preordinati per le trasformazioni. In tale sconcertante panorama, chi progetta per questa società in• evoluzione ha pochi punti saldi su cui fondare. Esi­ stono infatti poche possibili risposte ad una ' domanda ' edile - e residenziale - che nel bene o nel male, negli alti e bassi delle recessioni ricorrenti, resta una esigenza primaria e rap­ presenta ancora un'aliquota apprezzabile dello sforzo produt­ tivo della collettività. Domanda, peraltro, che in Italia com'è noto è divenuta, negli anni recenti, pressante e drammatica. Questa ultima serie di argomenti, cui si è accennato per individuare i limiti del problema, esige un ulteriore chiari­ mento. La crisi abitativa italiana ha raggiunto stadi così avanzati da legittimare la posizione qualunquistica di chi ac­ cetterebbe qualsivoglia manufatto che possa essere definito casa, lasciando aux philosophes le elucubrazioni sul meglio e sul perché. Ci si chiede, cioè, con quale senso della realtà si può discutere sul modello, che non ci soddisfa più, quando quello da noi considerato obsoleto resta ancora un obiettivo da conquistare. La risposta non può essere che propositiva: allorquando la macchina dell'edilizia andrà al ritmo che au­ spichiamo, il mutamento del modello sarà una necessità im­ prescindibile ed urgente. È quindi utile preordinare i mezzi di approccio per una materia che è più vasta di quanto a prima vista possa apparire. Sono così nate ricerche per de­ scrivere ogni attività ed ogni momento della giornata di ciascun membro della famiglia... Le indagini differenti hanno concordemente dimostrato il condizionamento che l'alloggio, col suo stato, la sua articolazione e la dotazione di attrezza· 0 ture, opera su tali variabili psico-sociali 4• Di qui la necessità 3


di ampliare il campo di analisi anche a fattori eterodossi e talvolta effimeri, in quanto nei bisogni abitativi si trovano immagini dell'organizzazione architettonica ed urbanistica dell'habitat eterogenee e molteplici, diffuse dai canali infor­ mativi più diversi, e inoltre la loro obsolescenza e almeno il loro avvicendarsi è abbastanza rapido. In tali condizioni ci si può domandare se è possibile prevedere i bisogni futuri, e quindi se è possibile predisporre in anticipo le risposte. Sono quesiti estremamente pertinenti e rilevanti ai nostri fini, poi­ ché si può pensare che se si riesce a configurare i bisogni fu. turi (accanto a quelli attuali) anche le risposte abitative posso­ no essere studiate e progettate in modo da evitare di dare ri­ sposte solo a bisogni abitazionali attuali e che si dimostrino chiaramente insufficienti per quelli futuri 5• La stessa com­ plessità delle scelte giustificherebbe quindi uno studio an­ ticipato. Un secondo ordine di problemi sta nella necessità del con­ tributo pluridisciplinare per configurare tale modello resi, denziale. Le note precedenti danno un rendiconto abbastanza preciso per affermare come al progettista tradizionale non sia più lasciato un compito isolato. Se a titolo dialettico si può convenire infatti con Henri Lefebvre che l'arclùtettura ... può essere concepita solo come pratica sociale, che figura insieme ad altre ... nel complesso di attività pratiche che reggono e sostengono la società attuale ... in un rapporto che occorre analizzare 6, la formazione dello spazio dell'ha­ bitat passa attraverso un chiarimento dei problemi, che in­ teressano la generalità, ed una abilità tecnica che è specifica del progettista. Egli, esprimendosi con il disegno, organizza un filtro che è in grado di selezionare i contenuti, capace di eliminare questa o quella parte del 'reale', capace di inte­ grare e riempire a suo modo le lacune del testo. Circostanza aggravante: questa operazione di filtraggio va più in là di una specializzazione ideologica o di una ideologia di una specia­ lità. Essa risclùa di occultare la domanda sociale 7• La cui espressione, peraltro, è spesso criptica ed ambigua, per 1� più legata allo schematismo dell'esperienza trascorsa, priva di proiezioni immediatamente percepibili. Indubbiamente un 31


modo per rilevare la corrispondenza del bisogno abitativo (oggetto) al bisogno abitazionale (stato di tensione) che parta dall'assunzione, in qualità di indicatore dell'oggetto, dell'ha­ bitat esperito, è molto limitativo dell'aspetto dinamico dei bisogni, proprio perché parte da modelli abitativi già vissuti, e quindi secondo schemi statici, relativi all'esistente 8• Dalle diverse citazioni è possibile, a questo punto, trarre una sintetica conclusione, che è anche una ipotesi di lavoro. Il « filtro ideologizzato » del progettista contrasta, al livello dell'alloggio, con la libertà del singolo a darsi una forma au­ tonoma e non statica del proprio spazio e dei propri bisogni. Devono dunque intendersi tramontati termini e concetti con­ nessi al tipo, alla costanza del tipo e addirittura al tipo esem­ plare, che per decenni hanno costituito i cardini su cui si è fondato l'impalcato compositivo della casa. Il filtro è un vin­ colo a priori, tanto più costrittivo quanto più deformante, an­ che in senso progressista, esso sia stato preordinato. Fa te­ sto, quanto è stato già citato a proposito della fissità del mo­ dello familiare votato al lavoro dipendente e insediato nel­ l'alloggio razionalista tipo anni trenta. La casa è fortemente plasmata su tale modello, ed ammette poche deroghe dal tipo. Nell'Italia del dopoguerra, attraverso le esperienze INA-Casa e Gescal si confermò l'adesione a questo cliché, al massimo deformato nel senso borghese più che in quello autentica­ mente popolare 9• Formule alternative che, così come sono esposte, stanno ad indicare una scelta preordinata, anche se fondata su una lettura concreta della realtà. La casa popo. lare, soddisfacendo una aspirazione abbastanza generalizzata nel corpo sociale, fu dunque progettata ricopiando e banaliz­ zando il modello autentico della casa borghese - multipia­ no, multifamiliare, con ingresso, salotto-soggiorno, pranzo, eccetera - miniaturizzata però nello schema e nella dota­ zione di spazi del Klein.

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Non intendo con ciò in alcun modo criticare il valore ar­ chetipo della pianta razionalista, cui si rifanno queste espe­ rienze, ma semplicemente indicare il disagio che la sua pe­ dissequa ripetizione comporta allorché viene accettata acriticamente. Perdono altrettanto rigore referenziale taluni assio-


mi, quali le rigide suddivisioni zonali o taluni schematismi formali, tanto ripetuti da divenire lessico codificato. Trascorsi dunque i motivi polemici per cui erano stati originati, in opposizione alla prassi formalistica o evasiva del passato ottocentesco, potrebbe essere assunto che abbiano an­ che esaurito carica emblematica e attualità funzionale alcune tipologie che si rifacevano ad un modello statico del ménage. Nell'ambiguità, ci troviamo pertanto a poter contare su ben pochi parametri la cui generalità è indiscussa e che quindi è d'obbligo osservare. Fra questi, porrei al primo posto la mutata sfera di azione della famiglia ed il suo essere sempre più tributaria dell'esterno-intorno sociale ed infrastrutturato. Ne consegue che dovrà essere riprogettato sia lo spazio in­ terno, in cui si esplica, e deve essere adeguatamente favorita, la residua ed essenzializzata vita in comune del nucleo fami­ liare, sia il suo collegarsi con l'esterno. Tale è infatti il risul­ tato della graduale integrazione delle parti che costituiscono, a tutte le scale, il sistema urbano, a cui non si sottraggono gli stessi fattori apparentemente più personalizzati. Al livello delle strutture fisiche, dovranno pertanto essere nuovamente esaminate le unità più elementari - cioè le cellule abitative, ma come vedremo più in seguito con un sezionamento anche di queste, in quanto il grado di obsolescenza funzionale è probabilmente più parcellizzato di quanto si creda - e il loro complesso, aggregato in una forma che dovrebbe assumere una species priva di qualità assolute, in quanto esse sono va­ riabili con gli usi, le necessità, il lavoro e le relazioni che hic et nunc si instaurano. Al determinismo razionalista, come unico metro di interpretazione dello spazio, si è sostituita l'interpretazione antropologica e culturale, meno imperativa e più possibillsta 10, cui si affiancano i fattori propri della ci­ viltà attuale, tecnologica e dinamica. Se prendiamo atto di tali mutamenti, ci rendiamo conto immediatamente di come la casa attuale sia sfasata rispetto al nostro modus vivendi, con un ritardo stimabile in mezzo secolo, più o meno. Contro l'immobilismo del modello razionalista, accettato per conformismo o imposto per una valutazione grossolana­ mente economica, intervenne serrata e graffiante la requisì- 33


toria del gruppo costituitosi al Sigmund Freud Institut di Francoforte. Presentandosi come razionale rispetto allo scopo, scriveva Horn nel 1968 11, anche l'architettura funzionale è un fenomeno che reca l'impronta della società vigente e che non è immune dallo stigma di irrazionalità proprio delle tante relazioni tra fini e mezzi esistenti nella società borghese costi­ tuita. L'obiettivo iniziale era di dar vita ad una architettura autentica, degna dell'uomo, adeguata all'« età della ragione». ... L'architettura voleva diventare ingegneria, artigianato; l'economicità, la razionalizzazione, lo standard erano le nuo­ ve divinità, il cui avvento faceva sperare in un mondo mi­ gliore.

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Poiché il brano citato riporta una posizione polemica­ mente estremizzata, questa può considerarsi in gran parte ridimensionabile nel passaggio dalla ideologia alla prassi. Re­ sta tuttavia sostanziale il suggerimento a non considerare più oltre come postulati taluni approdi della ricerca razionalista - definita di marca socialdemocratica, e annettendo al ter­ mine significati più o meno riduttivi a seconda della angola­ zione ideologica da cui si guarda - in quanto il migliora­ mento dell'habitat non passa unicamente attraverso la acqui­ sizione di beni strumentali. Queste conquiste, pur se fonda­ mentali, non sono sufficienti � tuonano da Francoforte a riscattarci dal caos della metropoli. Bisogna quindi ripartire da capo, per inventare una tipologia residenziale che trovi proprio nell'ambiguità le sue valenze in positivo, in quanto sia in grado di offrire una quota di adattabilità più alta alla pluralità delle situazioni in fieri; tanto più urgenti e mute­ voli, giacché lo spazio disponibile è scarso, e non è possibile sprecarlo. Agli apocalittici di Francoforte il decennio trascorso sem­ bra aver dato sostanzialmente ragione, in specie se ritornia­ mo al caso italiano. Alla crisi perdurante non è stato opposto un nuovo progetto di residenza; anzi, ai più, non è stata neanche offerta una residenza qualsiasi, esasperando le attese e appiattendo le aspirazioni e lo spirito critico. Non si può in­ fatti non rilevare come la drammatica carenza residenziale abbia sostanzialmente bloccato la vocazione al miglioramento


da parte dei fruitori, pronti a recepire una casa, qualsiasi essa sia. Ma - ed è più grave - ha attutito anche lo spirito inno­ vatore dei progettisti, i quali soffrirebbero di un freudiano senso di colpa nel disperdere energie ricercando quella che potrebbe definirsi la luna architettonica nel pozzo delle ne­ cessità. La perdita dei valori simbolici legati alla produzione del bene casa, la mancanza di tensione ideale da parte di chi aspira ad acquisirla, la conseguente stasi delle proposte com­ positive - se escludiamo il graduale incremento di scala, fino alle macrostrutture - trovano un terreno fertile anche nella permanente assenza di mobilità e di trasformazione de­ gli alloggi che la crisi italiana comporta. Poiché - come cre­ do si possa trarre da tutto quanto è stato detto - mancano nel panorama attuale valori emergenti tanto prevalenti da assicurarci un indirizzo preciso, la strada per reimpostare il problema abitativo può partire proprio dell'analisi del di­ sagio attuale. Si tratta cioè di aCirontare l'argomento nella sua complessità, iniziando dai termini pragmatici, in quanto sono più oscuri quelli ideologici. Un primo dato, peraltro di interesse globale, riguarda la indisponibilità di abitazioni, particolarmente sentita nelle grandi città. Negli anni sessanta e nei primi anni del settanta si costruivano in Italia circa 300.000 abitazioni per anno; la cifra si è poi fortemente contratta negli anni più recenti. Il deficit abitativo 12 deriva pertanto sia da carenze iniziali, sia da una mancata equipollenza fra espansione demografica e costruzione di alloggi, nonché da una scarsa mobilità, tra­ sformazione e riutilizzo del patrimonio esistente, ed infine da una non corretta ubicazione sul territorio in relazione alle attività produttive. Confrontando i dati del censimento al 1971, il deficit in rapporto alla popolazione, calcolato sullo standard europeo 13, è di 17,1 miliorù di stanze 14, riducibile a 12,3 milioni di stanze secondo una stima, condotta sulla base di una ipotesi abbastanza congruente con la politica abi­ tativa italiana, non troppo liberista, né troppo coercitiva. Ipotizzando politiche abitative diverse per quanto riguarda la mobilità insediativa, l'utilizzazione delle case non occu­ pate, oppure trasformazioni dimensionali di case troppo pie- 35


cole o troppo grandi, i suddetti deficit possono progressiva• mente ridursi fino ad annullarsi completamente 15• Ipotesi va­ lida ovviamente sul piano globale, in quanto permarrebbe ancora un apprezzabile squilibrio regionale nelle aree a forte vocazione espansiva 16. Poiché è impensabile che il nostro paese - di fronte a tali cifre, e nell'attuale condizione economica - sia in grado di attenuare il disagio abitativo in tempi relativamente brevi con i modelli e gli standards consueti, l'analisi deve poter enucleare parametri più realistici. Il sistema peraltro è forte­ mente deformato: alla riduzione globale dell'impegno co­ struttivo corrisponde un graduale incremento della dimen­ sione degli alloggi. Fra il 1961 ed il 1973 il numero medio di stanze per unità abitativa sale progressivamente da 3,66 a 4,00, con un trend accrescitivo che rispecchia proprio l'atte­ nuarsi dell'impegno publico per le classi meno agiate. Amaramente constatiamo ·che con il perpetuarsi della prassi attuale si allontana sempre più per tali fasce di utenti la speranza nella correzione del disavanzo, se peraltro è vero che il bene-casa lievita continuamente, ben al di là delle pos­ l!ibilità di acquisizione dei singoli. L'intervento publico, pure sperato ad un livello più inci­ sivo di quanto oggi avvenga, può comportare, nei modi e con le strutture con cui si attua in Italia, un grigio appiattimento formale dell'habitat. Ciò deriva non solo da una miope buro­ cratizzazione del sistema normativo e produttivo, ma anche da motivi che investono lo scetticismò personale degli ope­ ratori, nel filone di quanto ho già detto a proposito del las­ sismo dei creatori della forma o delle frustrate speranze dei fruitori. Si teme, con molta attendibilità, che il dirigismo del­ l'intervento della mano pubblica, macroscopico e massiccio come la dimensione del programma dovrebbe comportare, connesso all'anonimato della destinazione ed alla sostanziale rigidità del sistema, possa di fatto estendere a macchia d'olio un'immagine costante ed appiattita della nostra vita asso­ ciata, ad ogni livello di percezione, sia urbano che nell'inter­ no dell'unità residenziale. Tralasciando in questa sede i problemi della sfera più 36


ampia, l'unità minore aggregativa, la cellula o il complesso di cellule, sono anch'esse compresse entro schematismi rigorosi. Non si tratta, a questo punto, soltanto della presa d'atto di una persistente incidenza del modello ideologico razionali­ sta, che è per sua scelta statico, in quanto perfezionista, né d'altra parte di rassegnarci all'anonimato, per il fatto che, come assume Horn, città funzionale e macchina per abitare mirano ad immobilizzare gli individui nei loro ruoli 17, e, per estensione, nelle loro strutture. Se al livello generale l'obiet­ tivo è di realizzare un'urbanistica nuova, che superi il funzio­ nalismo assorbendolo in sé 18 , anche al livello scalare minore non mi sembra percorribile altra via che quella del supera­ mento, e non ripudio, del citato approdo, strettamente razio­ nale ed oggettivo, introducendo nel sistema l'aleatorietà delle aspirazioni dei singoli. t:. abbastanza ovvio, a questo punto, concludere che tali aspirazioni, nella loro gran parte, si condensano nella richie­ sta di un più ampio margine di libertà individuale; nel con­ creto si aspirerebbe ad essere artefici del proprio· spazio pri­ vato (sincronico con la personale realtà storica e, ad esem­ pio, non più legato alla immagine - per così dire - ridut­ tiva e statica dello schema borghese) e della scelta del pro­ prio legame con l'esterno. A mano a mano che gli altri campi della vita e del lavoro si vanno sempre più distanziando dal controllo personale dell'individuo e si vanno spersonalizzan­ do, tale necessità va crescendo nelle case... Il metodo mi­ gliore, tanto da un punto di vista pragmatico che umano, sembra quello di descrivere quali siano le necessità elemen­ tari e eseguire il progetto partendo proprio di qui, in forma cosi aperta da dare spazio a tutte le preferenze e i cambia­ menti possibili... De Lauwe [in Des hommes, des villes, pp. 164-165] nota che le differenze basilari fra i progettisti ed i fruitori possono prendere diverse forme, incoscienti o co­ scienti, passive o attive. L'uomo si adatta alla sua casa in for­ ma analoga: in modo cosciente o incosciente, attivo o pas­ sivo. Lo schema preferibile per risolvere il conflitto... passa attraverso la partecipazione degli abitanti (cosciente, at37 tiva, creativa) 19•


Sono ormai molti anni che l'advocacy architecture gode della generale speranza. In Italia Giancarlo De Carlo ne ha discusso fra i primi in sede teorica 20, e l'ha sperimentata a Rimini per la redazione del piano regolatore, ed a Terni, al momento della costruzione di un quartiere, per utenti già prefissati. Le esperienze, in verità, non hanno dimostrato un radicale mutamento di rotta, ma sul piano innovativo, in specie nella espressione della volontà collettiva, rappresenta­ no un contributo di grande interesse. Se, come hanno tentato di dimostrare iperbolicamente da Francoforte i sociologi della contestazione, il Movimento Moderno architettonico si trova in posizione di stallo, avendo in pratica esaurito la ca­ pacità di proporre un nuovo immediatamente acquisibile, in questo momento è necessaria la linfa di nuovi attori nella reinvenzione della forma. Partecipazione, quindi, non solo per ragioni di ordine politico e sociale, di cui è ovvia l'esi­ genza democratica, bensì per vivificare il processo di for­ mazione di un rinnovato modello urbano, e quindi abitativo. Sul populismo, o meno, di tali posizioni - contrapponi­ bile peraltro al paternalismo che fino ad oggi ha caratteriz­ zato la costruzione della casa popolare - si potrebbe discu­ tere a lungo. Al di là, tuttavia, delle critiche aprioristiche che per lo più accompagnano gli argomenti polemici sulla parte­ cipazione, perché l'esperimento possa essere condotto più avanti si rendono necessarie talune puntualizzazioni. In pri­ mo luogo l'effettuazione dello screening di ogni mistifica­ zione sui ruoli assumibili. Realizzare la partecipazione dei cit­ tadini alla politica dell'habitat - scriveva da una sponda for­ temente impegnata in senso sociale Louis Houdeville 21 ...significa realizzare la democrazia in un settore egualmente importante quanto quello del lavoro , dell'orgaoizzazfooe eco­ nomica o delle istituzioni politiche. Bisogna, dunque, supe­ rare sia la pseudo-partecipazione prevista dalle leggi - in­ chieste pubbliche in materia di espropriazione o di piani ur­ banistici - sia l'azione di certe associazioni di utenti che pretendono di renderla reale. Dal nostro angolo visuale, ci si

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chiede se sia_possibile rendere fattiva la presenza della « fantasia popolare » in gran parte delle operazioni di tipo co•


struttivo, affiancando ad essa il pur aggiornato strumentario tecnologico, di cui sono necessariamente depositari i com­ petenti. Senza negare il ruolo e il posto del tecnico nella società moderna, e senza sottovalutare l'influenza e le responsabilità che devono essere sue, ci rifiutiamo tuttavia di farne un su­ per-cittadino che abbia il potere di decidere o di fare da ar­ bitro, in nome della collettività ed in ultima istanza... Per evitare l'era dei tecnocrati, la partecipazione dei cittadini alla creazione dell'habitat è fondamentale. Ma essa esige an­ che una competenza sicura per dominare con obiettività le scelte da realizzare e le loro conseguenze 22•

Se dunque possiamo concordare con l'obiettivo teso a ri­ durre la presenza imperativa dei tecnici, dobbiamo paralle­ lamente impegnarci, per entrambi i livelli di operatori, ad una tecnica partecipativa che, nella prospettiva attuale, appare fra le più sofisticate. Al limite ... vorremmo che le categorie a basso reddito, di cui ci preoccupano maggiormente le di­ stanze dalla possibilità di incidere sui problemi, potessero partecipare alla progettazione del loro ambiente umano ad alta densità, e in particolare dei loro alloggi 23, secondo un'

azione che si rende possibile non tanto con una prassi socio­ logica di tipo umanistico, quanto con un coinvolgimento di estrazione scientifica e tecnologica. Non si vuole, con ciò, proporre populisticamente un advocacy planning con l'uso del calcolatore nelle case di tutti, ma potenziare tutte le strutture che permettano la decodifica delle necessità polve­ rizzate e difformi dei vari partecipanti, dando alla fine ri­ sposte convincenti con un processo per quanto possibile og gettivabile sul piano generale, e lasciando fra le maglie di tali risposte il massimo di libertà individuale. Meditando su tali premesse, e tornando al dolente caso italiano, non possiamo discostarci, anche se con talune ridu­ zioni, dal modello prospettato, il più calzante anche per la nostra realtà. Analizziamo dunque in conclusione quali sono gli aspetti del problema, sui quali siamo chiamati a confron­ tarci per rilanciare con un pattern sicuramente accettabile e rinnovato la condizione residenziale italiana. Per grosse li- 39 0


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nee, tali problemi investono le sfere della normativa, quindi della tecnologia, ed infine della inventiva formale. La distin­ zione fra tali parametri, operata semplicemente a fini espli­ cativi, non annulla una fitta rete di intersezioni presenti nella realtà, secondo uno schema ovviamente 'a semilattice ', di ardua interpretazione nel caso specifico, ma del quale tutta­ via bisogna tener conto. A valle dell'esperienza Gescal e 167, superata la fase di chiarificazione degli standards residenziali 24, digerita la co­ cente delusione che la « legge sulla casa» (n. 865 del 1971) ha prodotto in chi sperava in una sferzata innovatrice, e con­ statata infine la palese inadeguatezza della struttura norma­ tiva italiana, gli ultimi cinque anni, in opposizione alla ri­ dotta attività costruttiva, si sono caratterizzati per un vivace lavoro legislativo. Fra i molti argomenti trattati, citerei in primo luogo la riduzione della dotazione di spazi e volumi abitabili pro capite, originata da un noto decreto del Mini­ stero della Sanità, più volte ripreso in leggi successive sulla residenza 25• La riduzione dello spazio, in verticale e nel piano, non comporterebbe una apprezzabile incisione riduttiva sul­ la libertà di plasmare la propria casa, se accompagnata da un'adeguata possibilità di trasformazione. Il discorso rasenta ovviamente i campi dell'utopia tecnologica, e viene qui citato per porre l'accento sul fatto che le normative, così come oggi ci vengono proposte, trascurano non soltanto l'argomento di fondo della libertà, ma neanche pongono le premesse perché un processo compatibile con essa venga comunque innescato. Pertanto non dovrebbe apparire fuori della realtà quella ri­ chiesta che vorrebbe vedere nelle disposizioni generali a ca­ rattere nazionale, e quindi nelle specificazioni e differenze regionali, almeno un segno di apertura. Nella realtà, bisogna ancora tener conto che all'Ammini­ strazione Centrale, attraverso il CER, viene oggi demandata solo l'emanazione di norme tecniche generali, mentre quelle di maggior dettaglio vengono rinviate a leggi regionali 26• La condizione normativa è peraltro assai fluida, in quanto tali meccanismi legislativi sono tuttora in fieri. Allo stato, mentre si attende il lavoro chiarificante da parte dell'apposito


comitato costituito in sede centrale, solo poche regioni hanno iniziato un lavoro legislativo in questo campo r1, né dalla let­ tura contestuale di tali documenti ·appare aperta la prospet­ tiva che ho auspicato. Le ragioni di tale indifferenza non ri­ siederebbero, tuttavia, in motivazioni di fondo, ma più pro­ priamente nella sfiducia circa la possibilità di realizzare effet­ tivamente una tale libertà. La flessibilità, commenta Paola Coppola Pignatelli, è stata la grande illusione degli anni cinquanta ia •••Tecnicamente di­ fatti il problema era ed è risolvibile facilmente 29; le difficoltà derivano dal fatto che la soluzione flessibile è purtroppo an­ tieconomica. Si tratterebbe quindi di recuperare una buona aliquota di fiducia nel lavoro già fatto 30 e di trarre un auspi­ cio di realizzazione per gradi sollecitando una tendenza già latente, verso un obiettivo di cui si riconosce peraltro inte­ ramente il valore concreto, anche se lontano. In tale prospettiva è dunque possibile recuperare molte proposte che hanno una evidente matrice utopica, troppo avanzate rispetto alla prassi odierna. Se scartiamo infatti dal termin� « utopico » ogni allusione alla irrazionalità, e indi­ viduiamo invece in queste proposte una indicazione di ten­ denza, notiamo come molti autori - anche su posizioni di­ verse, quali Habraken, sul piano del coinvolgimento compo­ sitivo-sociologico, oppure Oliveri, sul piano della razionalizza­ zione tecnologica 31 - indichino una strada coerente per avvi­ cinarsi alla libertà di configurare autonomamente il proprio spazio privato. Per quanto possano apparire a prima vista più vincolanti, nella condizione attuale non abbiamo alterna­ tive diverse dalla industrializzazione del prodotto edilizio, at­ traverso il processo « aperto » del componenting. Esso, poiché si esplica attraverso un sistema aleatorio, entro però regole fisse, necessariamente conduce a potenziare l'imprevisto, l'anomalo, il difforme, il personale. Ne consegue che, con la stessa angolazione, tutto il sistema edilizio, tradizionalmente statico, tende a dinamizzarsi, per cui le regole e le norme che lo sorreggono dovrebbero perdere, come ho già detto, fissità e prescrittività per divenire unicamente verifica di prestazioni. Dal muoversi in tale ottica deriva la necessità di tentare 41


il capovolgimento dei sistemi logico-razionalisti che usiamo nell'imporre standard e vincoli diffusi su ogni punto. Dob­ biamo tendere invece a fissare un limite prestazionale obbli­ gatorio e consentir.e nel suo interno la maggiore libertà pos­ sibile. Le verifiche che si possono effettuare senza ledere l'autonomia del campo privato dovrebbero fermarsi a quelle inerenti le relazioni con il contesto ambientale. Per realizzare ciò siamo probabilmente obbligati a rifondare la prassi at­ tuale, abbandonando gli schemi che ci legano ad una tradi­ zione accettata acriticamente. Per la casa, questo comporta di cancellare le superfetazioni imposte dall'esterno, per fis­ sare l'attenzione solo sulle necessità globali. Per raggiungere questo obiettivo, è d'obbligo scomporre il sistema-residenza nei suoi diversi attributi, analizzabili con tecniche adeguate 32• Etienne Grandjean 33 dà conto di una vasta inchiesta con­ dotta in cinque paesi europei per indicare, secondo una per­ centuale, le abitudini domestiche delle famiglie, e quindi le attività elementari. Sebbene le inchieste che generalizzino gli aspetti, ovviamente molto differenziati, delle domestic habits siano di difficile lettura per la complessa rete di azioni e rea­ zioni instaurate (domestic research as a feedback system), dalla stessa operazione di ritorno (feedback mechanism) pro­ viene la possibilità di un controllo della operazione. Nel sen­ so che la ricerca sulle attività domestiche dovrebbe analiz­ zare le influenze reciproche fra elementi della casa e reazioni umane e dovrebbe mirare all'accertamento del come l'edi­ ficio reagisce sugli occupanti 34• Attraverso analisi di questo tipo, in opposizione a quanto si assume da qualche parte, si dimostra che la standardizza­ zione tipologica è un abito che non si può far indossare in­ differentemente, senza forzature, ad una generalità di utenti. Ciò non significa annullare il valore complessivo, che è un dato importante per distribuire equitativamente il bene-casa, ma significa pervenire alla distribuzione di tale spazio abi­ tabile, ovviamente tridimensionale, pro capite e pro familia attraverso la sommatoria di fattori elementari, parcellizati per facilità operativa, ed immediatamente rifusi. Contemporanea42 . mente è forse anche possibile graduare la qualità degli spazi


analizzati, accettando ad esempio una sequenza che Heimsath propone fra archetypal activities ed archetypal spaces 15 , punti singolari della sommatoria che ci proponiamo di com­ piere, differenziati ed enfatizzati rispetto a quelli banali. Sono pertanto di grande interesse le ricerche che hanno seguito questa strada analitica, sul filone aperto agli inizi de­ gli anni sessanta presso il « Department of the Environment • del Governo inglese 36, e che in Italia hanno avuto alcune si­ gnificative risonanze. Trascurando in questo momento le im­ plicazioni compositive che comportano tali metodologie, si può trarre qualche indicazione per la controfaccia normativa che esse dovrebbero implicare, ancora abbastanza oscura nelle sue possibili esplicitazioni formali, al di là delle inten­ zioni, e pertanto lontana da una sua concreta applicabilità. La realistica constatazione di inattualità non dovrebbe tutta­ via comportare l'abbandono della tensione verso gli obiettivi individuati: resta, infatti, un margine per cui possono essere ricercate formule e norme tecniche che concedano un campo sempre più ampio alla libertà combinatoria e di trasfor­ mazione. II discorso sulle possibilità di attuare un tale disegno passa quindi attraverso il filtro della realtà tecnologica, con i suoi ovvi risvolti pratici ed economici. Poiché peraltro ci tro­ viamo in un momento caratterizzato da un forte trend inno­ vativo - per effetto del passaggio da una fase edilizia ar­ tigianale ad. un'altra industriale - emerge anche tutta una serie di punti di frizione che spesso implicano un non indif­ ferente condizionamento sul problema della libertà di pianta. Non basta infatti la speranza nella tecnologia della prefab­ bricazione aperta, già citata, per aprire automaticamente le porte del rinnovamento, in quanto essa non trova immediato riscontro nei processi in atto, tuttora fortemente rigidi sia per quanto attiene alle procedure progettuali, sia per quelle produttive. Inoltre, tutta una serie di recenti iniziative sem­ brano collocate nella scia di una codificazione delle cellule abitative. Mi riferisco, in particolare, al ben noto concorso per un « Repertorio dei progetti-tipo della Regione Lombar­ dia» 37, dal quale si coglie una chiara tendenza alla rigidità, 43


giustificata attraverso notazioni di ordine economico e pro­ cedurale. Sebbene l'occasione sia risultata assai utile per un confronto di metodi, l'operazione va fortemente ridimensio­ nata nei suoi risvolti operativi (cioè nel repertorio da appli­ care automaticamente), Premesso che non è pensabile una generalizzazione totale di questo tipo di meccanismo, l'impie­ go di progetti tipo, patrocinati da una o più imprese, pre­ senta notevoli vantaggi, soprattutto se sarà possibile rendere più omogenei le norme edilizie comunali e i capitolati dei vari Istituti per le Case Popolari ... 38, entro un tetto economi­ co abbastanza costrittivo, prefissato al momento del concor­ so, secondo le disposizione del CER, in L. 180.000 per metro quadrato. Al di là, poi, di considerazioni più ampie sulle libertà compositive, si constata che l'aspetto più interessante del concorso è costituito dal tema della razionalizzazione delle tecniche di costruzione 39• Carlo Guenzi riporta su « Casabel­ la" che una discreta aliquota dei progetti presentati (35 su 108) adottano per le strutture in elevazione sistemi a setti (a pannelli, a tunnel, o gettati in opera) che costituiscono per un verso un progresso tecnologico certamente auspicabile an­ che sotto il profilo della qualità e dei costi, ma per altro verso una affermazione radicale della rigidezza delle soluzioni. Si aggiungono ancora, da un lato sistemi più vincolanti (ad esempio a çellula: un progetto presentato) e dall'altro siste­ mi variamente rigidi, quali quelli a elementi tridimensionali (sei progetti). Procedimenti similari, vengono ripresi nelle « Direttive" della Regione Lazio 40, sulla base della considerazione per cui soluzioni più vincolanti, cioè a setti portanti trasversali, ese­ guiti in opera o prefabbricati, garantiscono l'applicabilità an­ che in soluzioni meno rigide. Posizione che potrebbe essere · integralmente accettata, se non implicasse di fatto una scelta preordinata e riduttiva delle libertà compositive. Bisogna an­ cora notare che, negli ultimi tempi, si vanno sperimentando soluzioni a setti verticali - specialmente a tunnel - con in­ terasse compreso fra sette ed otto metri e profondità pari a 44 · quella del corpo di fabbrica. Non si è quindi molto lontani


da dimensioni estese all'intera cellula abitativa, restituendo quindi una sensibile quota alla libertà della pianta. Si comportano al contrario con maggiore permissività i sistemi ad elementi puntuali portanti, del tipo Dom-Ino, an­ che se in chiave industrializzata. Le premesse, tuttavia, finora non sempre sono state integralmente verificate nella prassi 41 , per cui resta in essere l'interrogativo sull'entità della parte, allo stato utopica, con cui dobbiamo confrontarci, inseguen­ do l'obiettivo della libertà nell'ambito di un processo edili­ zio che va gradualmente industrializzandosi. Se dovessimo riguardare il problema a tempi brevi, la risposta sarebbe sen­ z'altro nello ' sbaraccare ' l'ipotesi; se al contrario dobbiamo affermare una nostra linea di tendenza, occorre perseverare, in quanto anche piccoli passi costituiscono un contributo da non perdere. Infatti, soltanto per iniziare un discorso sulle concrete possibilità consentite nella prassi, dovremmo par­ cellizzare il problema. Il sistema tecnologico della casa può essere diviso in diverse unità, semplici o complesse; tali unità possono essere scomposte in sub-sistemi omogenei, dei quali è possibile l'analisi dei gradi di libertà e trasformabilità tecni­ camente compatibili. Una volta verificata la loro rispondenza puntuale, può essere affrontato il problema nei suoi termini più generali 42• Per concludere in campo progettuale nella stessa chiave propositiva avanzata per la norma e per la tecnologia, dob­ biamo distinguere tra le tecniche operative, che in certo sen­ so rappresentano un binario tracciato e costrittivo, e le pos­ sibilità, che si offrono in ogni operazione compositiva, di af­ fermare un valore ideologico. Se ci rifacciamo alle usuali pro­ cedure della metodologia della progettazione, il sistema casa appare inizialmente un insieme non strutturato, con il quale costruire la struttura ambientale della casa, organizzata, con­ seguenziale 43• Al di là delle connotazioni linguistiche o di let­ tura, il metodo viene qui citato per definire i caratteri am­ bientali, le loro relazioni, la definizione dei termini di affi. nità e di intersezione, nell'insieme dei bisogni abitativi. La metodologia della progettazione tenderebbe quindi, in questo caso, a ridurre i gradi di libertà, a vantaggio della ogge�- 45


tività dell'operazione. Non mi sembra tuttavia che su tale re­ mora si possa costruire una fondata preoccupazione. Se in­ fatti la libertà è intesa in senso prevalentemente anarchico nella sua casualità, il metodo razionale è una severa costri­ zione; se al contrario è intesa nel senso della partecipazione alle scelte, la oggettività dell'operazione e la sua lettura si­ stemica consentono una sostanziale conquista della fetta decisionale. A mio parere, la metodologia della progettazione permette proprio uno spostamento in avanti delle scelte democratiche e della partecipazione al disegno dell'habitat, su fatti che vanno anche al di là della flessibilità del proprio spazio pri­ vato, comunque da ottenere. Essa pertanto, permettendo una libertà più ampia, sta a monte del problema specifico della casa, ma costituisce un paradigma di approccio poggiante sulla fiducia nei mezzi che la scienza oggi ci propone. Pur­ troppo, ...sempre più numerosa si va facendo la schiera di coloro che, delusi nelle speranze riposte nella ragione, rifug­ gono da questa per cercare la salvezza nella irrazionalità più sconcertante 44• La -richiesta della libertà non può quindi né sconfinare nei campi dell'irrazionale, né proporre uno stato banalmente li. bertario, che in campo architettonico non avrebbe nessun senso plausibile. Essa costituisce, rispetto alle norme della prassi, un tessuto ideologico su cui costruire il nostro spazio, e, oltre ciò, forse poco di più. Né va confusa con temi misti­ ficatori, come spesso è stato fatto per annulla�e quel residuo di libertà individuale, comunque da custodire. Mi riferisco, ad esempio, alle sei torri di Nanterre di Emile Aillaud, cia­ scuna dell'altezza di 105 metri, costruite con la tecnologia abbastanza avanzata delle casseforme scorrevoli 45: la super­ ficie esterna corrugata, la irregolarità degli spazi interni, la evidente ricerca della varietà nelle fantasiose pitture esterne, tentano di mascherare la sostanziale rigidità che l'involucro esterno a getto comporta. Esse sono, sotto questo aspetto, il monumento alle contraddizioni.

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1 Cfr. Nations Unies: Enquete sur la situation du logement dans le monde 1974, New York 1977, p. 170, Tavola 40, « Population des villes d'au moins un million d'habitants,. (tratta da « The world's million cities, 1950/1985 », Ed. N.U.s.d.). In particolare, la popolazione residente nelle città con più di un milione di abitanti, è valutata, al 1950, in 173,9 milioni sull'intero globo (162,2 milioni nelle regioni sviluppate, 47,6 milioni nelle regioni poco sviluppate); corrispondentemente essa si stima nel 1985 pari a 805,0, 340,4, 464,7 milioni di persone. 2 Cfr. E. BATTISTI, Architettura, ideologia e scienz;a, Feltrinelli, Mi­ lano 1975, p. 43. 3 Cfr. P. Gu101c1N1, Manuale di sociologia urbana e rurale, F. An­ geli, Milano 1977, p. 29 e segg. 4 A. GASPARINI, La casa ideale: indagine sociologica sul problema dell'abitare umano. Marsilio, Padova 1975, p. 24. s Ibidem, p. 45. 6 H. LEFEBVRE, Spaz;io e politica. Moizzi Ed., Milano 1976, p. 23. 1 Ibidem, p. 26. 8 A. GASPARINI, cit., p. 46. 9 E. BATTISTI, cit., p. 48, cap. Ili, " Tipologia della residenza e mo­ delli insediativi ". IO P. COPPOLA PIGNATELLI, I luoghi dell'abitare. Officina Ed., Roma 1977, p. 49. 11 K. HoRN, La razionalità rispetto allo scopo nell'architettura mo­ derna, in Ideologia dell'architettura, Laterza, Bari 1969, p. 121. u Cfr. G. DANDRI, Il deficit abitativo in Italia. Giuffré, Milano 1977. 13 Lo standard europeo è assunto nei termini seguenti, cosl come riportato in G. DANDRI, cit., p. 49: ménage di 1 persona: dotazione di stanze min. 1 max 2; ménage di 2 persone: dotazione di stanze min. 1 max 5; ménage di 3 persone: dotazione di stanze min. 2 max 8; mé­ nage di 4 persone: dotazione di stanze min. 2 max 11; ménage di 5 persone: dotazione di stanze min. 2 max 12; ecc. 14 Ibidem, p. 69. 15 Ibidem, p. 69. 16 Esistono tuttora taluni fenomeni che deformano fortemente il bilancio abitativo italiano. Dal citato studio di G. Dandri si trae che il 36% del patrimonio pubblico in affitto è occupato con un indice di affollamento inferiore a 0,75 ab/stanza, valore che cresce a circa il 40% se si tiene conto dell'intero patrimonio immobiliare in fitto. 11 K. KoRN, cit., p. 141. 18 Ibidem, p. 165. 19 A. RAPOPORT, The persona( element, in Housing: an argument for open-ended design. In « RIBA Journal », voi. 75, n. 7, luglio 1968. 20 Cfr. di G. DE CARLO (in L'architettura degli anni 70, Il Saggiatore, Milano 1973) il saggio L'architettura della partecipaz;ione, in cui con­ clude: e ..• La partecipazione implica la presenza degli utenti lungo tutto il corso dell'operazione. Questo fatto genera almeno tre fonda­ mentali conseguenze: ogni momento dell'operazione diventa una fase del progetto; anche l'uso diventa un momento dell'operazione e quindi una fase del progetto; i diversi momenti sfumano uno nell'altro e l'operazione cessa di essere lineare; a senso unico ed autosufficiente •· 21 L. HOUDEVILLB, Pour une civilisation de ·l'habitat. I.es éditions ouvrières, Paris 1969, p. 393. 22 Ibidem, p. 396. 23 N. NEGROPONTB, The Architecture Machine, MIT Press 1970, trad. it. « La macchina per l'architettura », Il Saggiatore, Milano 1974, p.. 186.

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24 « Norme tecniche sugli Standards residenziali •· Circolare Mini­ stero LL.PP. 20-1-1967, n. 425. zs Ci si riferisce all'art. 1 del D.M. della Sanità del 5-7-1975, nel quale per la prima volta in Italia si stabilisce per i locali di abita­ zione un'altezza netta interna di m. 2,70 nei vani abitabili e di 2,40 nei servizi. Nello stesso decreto (art. 2). fu assicurata una superficie abitabile non minore di mq 14 per i primi quattro abitanti di ciascun nucleo familiare, e di mq 10 per i successivi, specificando (con moti­ vazioni di ordine igienico, da intendersi tuttavia tendenti alla valuta­ zione di un minimo), quanto veniva già anticipato nella Circolare del Ministero LL.PP. del 20-1-1967 (« Standards residenziali») con cui si destinava una stanza abitabile per ciascun membro del nucleo fami­ liare. Le medesime dotazioni sono state infine ribadite nella Legge n. 513 dell' 8-8-1977. 26 Legge 5-8-1978 n. 457, « Norme sull'edilizia residenziale». Cfr. in particolare l'art. 3, sulle competenze del CER (Comitato per l'Edilizia Residenziale) e l'art. 42, relativo alle norme tecniche a carattere nazio­ nale e regionale. 'I7 Una utile sintesi (aggiornata al dicembre 1977) con raffronto fra la legislazione nazionale e quella di alcune regioni (Lombardia, Lazio, Campania) è riportata in « Prefabbricare, edilizia in evoluzione », luglio­ agosto 1978. In molte altre regioni un tale lavoro è solo embrionale. Peraltro la Legge 457, cit., impone iniziative al livello centrale e peri­ ferico, tutte ancora da elaborare e da estendere. 28 P. COPPOLA PIGNATELLI, cit., p. 143. 29 Ibidem, p. 148. 30 Il problema della flessibilità di pianta è una invariante della ri­ cerca architettonica, in stretta connessione con quella della prefabbri­ cazione, caratteristica dominante del Movimento Moderno, ad iniziare, fra le due guerre, dalla casa Dom-Ino lecorbusiana alle esperienze di Gropius, fino al recente impulso post-bellico. 31 N. HABRAKEN, in Strutture per una residenza alternativa, Il Saggia­ tore, Milano 1975, auspica una struttura tridimensionale in cui si collo­ cano le cellule dei fruitori, ipotizzando utopicamente una forma di cooperazione fra questi ed i progettisti per inventare una produzione di componenti di vasta accettabilità. Sono altresl note le posizioni di G. M. Oliveri (cfr. Prefabbricazione e metaprogetro edilizio, ETAS Kompass, Milano 1968) sulle tre libertà: flessibilità d'uso, di fabbrica­ zione aperta e di espressione. 32 Cfr. un ampio studio condotto già nel 1974 dall' ANIACAP e ri­ portl\to in Contributo metodologico allo studio della normativa per l'edilizia residenziale pubblica, a cura di E. Piroddi, Roma, 1974, nel quale è analizzata dettagliatamente la classificazione dei requisiti: 1) dimensionali; 2) d'uso; 3) ambientali; 4) morfologici; 5) meccanici; 6) di affidabilità; ed un primo approccio all'analisi delle prestazioni. Su questo stesso tema, e con successive e più approfondite ricerche, cfr. anche G. CAVAGLIA, G. CERAGI0LI, M. Fon, P. N. MAGGI, L. MATTEOu, F. Ossou, Industrializzazione per. programmi, Studi e ricerche della R.D.B., Milano 1975, in specie per la parte II, « Elementi per la defini­ zione del sistema ambientale», da p. 113 a 268. lJ E. GRANDJEAN, Ergonomics of the Home, Taylor and Francis, Lon­ don 1973, da p. 44 a p. 63 (titolo originale Wohnphysiologie, Zilrich, 1973). 34 Ibidem, p. 63. 35 C. HEIMSATH, Behaviorat' Architecture, McGraw-Hill Book Com­ pany, New York, 1977, p. 58�. « Archetypal activities possono essere de-


finite le attività generalizzate e ripetitive... , archetypal spaces sono spazi comunemente associati per le prestazioni cli tali attività•· .16 Cfr., Space in the Home, a cura del Department of the Environ­ ment, HMSO Books, London, 1961. 37 Questo concorso di qualificazione, che ha avuto un grande suc­ cesso di partecipanti (progettisti ed imprese), è stato largamente illu­ strato da varie riviste specializzate. Un'ampia rassegna è riportata nel volume Repertorio progetti-tipo Regione Lombardia 1978 (Ed. BEMA, Milano, 1978) ed in « Prefabbricare•• cit. Una utile sintesi delle pre­ messe e dei risultati è operata da C. GUENZI, Il concorso per l'istitu­ zione del repertorio dei progetti tipo della Lombardia, in « Casabella », n. 439, settembre 1978. 38 A. G. BERNSTEIN, A. PICCARRETA, Appalti e concorsi regionali di pre,. qualificazione per componenti e progetti tipo, in « Prefabbricare•, cit. 39 C. GUENZI, cit. 40 Direttive regionali per l'attuazione del programma di edilizia re­ sidenziale pubblica, Legge Regione Lazio 8-8-1977, nella quale sono ela­ borati da un gruppo di lavoro, costituito da P. Barucci, L. Passarelli, M. Vittorini, schemi planimetrici che, per la gran parte, suggeriscono sistemi a setti (cfr. la Relazione, cap. « Progettazione degli interventi•• p. 1, prg. « Tipologia degli alloggi in relazione ai sistemi costruttivi previsti »). 41 Sullo stesso tema del Concorso della Regione Lombardia, cfr. Una politica - un concorso • un progetto, Parma Ed., Bologna 1978, in cui gli autori (Baglioni, Buccolieri, Maccolini, Moretti, Simonelli, Zaffagnini) propongono un sistema con strutture puntuali e pannelli prefabbricati. II libro è dedicato a P. L. Spadolini, alla cui scuola è doveroso attribuire il merito di aver affermato, fra i primi, la neces­ sità delle analisi cli prestazione delle unità architettoniche, legate alla conoscenza puntuale dei bisogni (cfr. anche P. L. SrADOUNI ed altri, Design e tecnologia, Panna Ed., Bologna 1974); dall'esperimento pro­ posto si nota tuttavia come nel passaggio dalla proposizione teorica alla concreta progettazione molti canoni subiscano, cli fatto, una ap­ prezzabile costrizione e riduzione. 42 P. L. SPADOLINI, nel saggio Indirizzi operativi derivati da espe­ rienze di ricerca applicata, in « Prefabbricare», n. 5, settembre-ottobre 1977, affronta il problema dell'entità minima compatibile con gli aspetti della composizione degli spazi, dei requisiti e delle prestazioni richieste. « Tale entità, definita 'macromodulo ', e da intendersi quale unità mi­ nima di riferimento per la progettazione e la realizzazione tecnologica degli edifici, è il risultato dell'aggregazione cli più unità spaziali, tra loro omogenee, non solo sotto il profilo ambientale ma fondamental­ mente sotto quello tecnologico-produttivo... •, giungendo alla conclu­ sione che tale macromodulo sia, al livello produttivo, un sistema abba­ stanza chiuso, dotato, per la componibilità spaziale, cli sole regole aggregative. 43 P. COPPOLA PIGNATELLI, cit., p. 59, nota 22: e L'approccio introdotto nell'architettura dallo strutturalismo può dirsi rivoluzionario, in quanto tentativo di individuare in ogni soggetto un sistema cli relazioni tra gli elementi che operano nello spazio in funzione di un ordine o cli una forma. La struttura diventa il nucleo generatore· della forma ... •· 44 P. SCHEURER, L'ambiente umano come progetto sctenttflco, ID rn­ dividuo e ambiente, Seminari interdisciplinari della Fondazione Cini, II Mulino, Bologna, 1972, p. 294. 45 Per maggiori dettagli sui sistemi costruttivi, cfr., ad esempio « In­ 49 dustria italiana del cemento ,., n. 9, settembre 1978.


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Artisti e cinema STEFANO GALLO

È andato emergendo negli ultimi anni, da parte degli artisti che operano nell'ambito della produzione visiva, un rinnovato interesse per l'uso del «medium» cinematogra­ fico. È questo un fenomeno che si era manifestato con am. piezza negli anni '60 sotto l'influenza del cinema « under­ ground» americano e che si è arricchito poi delle ricerche legate alla sperimentazione «inter-media». Anche in Euro­ pa, inoltre, a partire dagli anni '50, così come in America fin dagli anni '40, è andata costituendosi una produzione cine­ inatografìca indipendente dai meccanismi industriali, quale opera dì artisti che sì dedicano, invece, esclusivamente a questa pratica significante. La ricerca «visiva», dunque, pre­ senta oggi una parte importante anche quantitativamente, delle sue realizzazioni in forma filmica. Si notano, certo, dif­ ferenze tra le opere di chi lavora solo con questo«medium», e che si suole definire film-maker, e quelle dell'artista che giunge al film portando i segni culturali di un « experiri » che vuole darsi mezzi eterogenei. Occorre considerare, tut­ tavia, che questo campo di ricerca si situa tutto sotto il se­ gno della differenza, per il programmatico rifiuto di codici comuni e che ciò costituisce, allo stesso tempo, il legame che unisce al fondo lavori molto diversi. Né va dimenticato, in­ fine, che nel modo di produzione artigianale, svincolato dalla organizzazione astratta del processo industriale, risiede un elemento materiale di omogeneità decisivo. La crescita di importanza di questa pratica è stata accompagnata dalla orSO ganizzazione di numerose, ampie rassegne dei film anche da


parte di organismi pubblici, che ha consentito la v1S1one cli opere per le quali non esistono stabili e diffuse strutture di­ stributive. Va ricordata, in primo luogo, la retrospettiva cu­ rata per il Centre G. Pompidou nel '76 da P. Kubelka, film­ maker e direttore dell'Oesterreichisches Filmmuseum di Vien­ na, delle opere che, a suo avviso, costituiscono «Une histoire du · cinéma » diversa, cioè la storia del cinema come arte, in-. dipendente dall'industria. Egli affermava: Questi film rap­ presentano ciò che il cinema stesso ha portato al pensiero umano e che nessuno degli altri mezzi articolanti ... aveva an­ cora espresso 1• In Italia, per fare alcuni esempi, a Genova, Torino, Firenze si è fatto promotore di queste rassegne l'Ente comunale 2• Ciò che differenzia tali iniziative è lo scegliere ad oggetto ora la produzione dei film-maker ora quella degli «artisti ». Ciò che le assimila è la presenza nella « sezione storica » dei medesimi film; cioè le opere di H. Richter, F. Léger, M. Duchamp, M. Ray ecc. Alle origini della ricerca artistica nel cinema fu, infatti, l'interesse che alcune tra le personalità più importanti dell'avanguardia dei primi decen­ ni del '900 ebbero per ·il nuovo «medium», per cui risulta arduo dividere film-maker e «artisti » in due linee separate. Noi ci proponiamo di ripercorrere lo svolgersi di questa ri­ cerca nei momenti più significativi del periodo dell'avan­ guardia storica e di giungere, poi, a dare un quadro gene­ rale dei diversi aspetti della produzione degli ultimi decenni, focalizzando il nostro intervento sulle opere degli artisti europei. Anni dieci È nella cerchia dei futuristi italiani che si manifesta il · più precoce interesse per il cinema. In un testo del 1912 dal titolo Musica cromatica, Io scrittore Bruno Corra parla degli esperimenti compiuti assieme al fratello, il pittore Arnaldo Ginna, per dare una espressione visiva alla musica. Essi rea­ lizzarono alcuni film, i cui colori erano dipinti direttamente sulla· pellicola, attendendosi dalla messa in movimento delle forme che parecchi colori si fondessero, nel nostro occhio, 51


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in una tinta sola - bastava per questo far passare davanti all'obbiettivo tutti i colori componenti in meno di un decimo di secondo; cosi... avremmo ottenuto gli innumerevoli e po­ tentissimi effetti delle grandi orchestre musicali, la vera sin• fonia cromatica 3• Questi film, di cui rimane solo la descri­ zione di Corra, furono, per quanto ci è dato di sapere, la . prima ricerca astratta della storia del cinema. Il problema del rapporto tra immagini e musica, che ne era alla base, ha costituito una tematica mai abbandonata nell'ambito della produzione filmica non referenziale che giunge, passando cer­ to per soluzioni molto diverse, fino alle opere contemporanee. L' l l settembre 1916 viene pubblicato Il" manifesto della ci­ nematografia futurista. Firmatari ne sono, oltre ai due fra­ telli Corra e Ginna, Marinetti, Settimelli, Balla, Chiti. :e. un documento teorico di rilevante importanza, perché contiene intuizioni formali che se non trovarono una adeguata realiz­ zazione nell'area futurista, furono tuttavia la prefigurazione di molte delle ricerche più avanzate condotte negli anni '20 e testimoniano la comprensione delle possibilità proprie al lin­ guaggio filmico. Il cinematografo è un'arte a sé. Il cinemato­ grafo non deve dunque mai copiare il palcoscenico. Il cinema­ tografo, essendo essenzialmente visivo, deve compiere anzitut• to l'evoluzione della pittura; distaccarsi dalla realtà, dalla fo­ tografia, dal grazioso, dal solenne 4• L'oggetto del film futuri• sta è inteso in connessione ai caratteri linguistici del « me• dium », esso si perde in quanto elemento reale per configu­ rarsi quale aspetto delle possibilità visive; varia, infatti, dal brano di vita reale alla chiazza di colore, dalla linea alle pa• role in libertà, dalla musica cromatica e plastica alla musica degli oggetti 5• Sono immaginati drammi d'oggetti... oggetti tolti dal loro ambiente abituale e posti in condizione anor• male, che fanno pensare, ad esempio, al film di Léger « Bal· let mécanique » ed equivalenze lineari, plastiche, cromati• che 6, che prefigurano in parte i successivi film grafici di Richter ed Eggeling. Durante lo stesso anno fu girato a Fi­ renze da Arnaldo Ginna il film « Vita Futurista », che ebbe la sua prima proiezione il 28 gennaio 1917 al teatro Niccolini di Firenze 7• Quest'opera, di cui rimangono pochi fotogramm i,


si componeva di otto parti, volutamente prive di nesso, in una delle quali comparivano gli stessi firmatari del manifesto. Essa, dunque, era in rapporto con le teorie affermate a settembre e sia i temi svolti che i fotogrammi visibili ce ne danno conferma. La quarta parte, ad esempio, presenta una sovraimpressione, la terza una immagine divisa in due, l'ot­ tava rientra nel dramma di oggetti, mostrando un personaggio alle prese con delle carote che pendono da una cordicella tesa tra le dita 8• Rispetto alla molteplicità delle indicazioni del manifesto, tuttavia, va rilevato che il film restò molto in­ dietro; ciò avvenne probabilmente, se si pensa anche che non ebbe alcun seguito, per un ridotto interesse specifico dei fu­ turisti. Un'analisi di estremo interesse della natura del mezzo cinematografico era stata svolta, inoltre, da A. G. Bragaglia nel suo testo Fotodinamismo futurista del 1911. L'artista, come è noto, aveva elaborato una tecnica fotografica funzio­ nale ad una rappresentazione assieme analitica e sintetica del movimento. Egli scriveva: Un grido, una pausa tragica, un gesto di terrore, in tutta la scena, in tutto Io svolgimento esteriore dell'intimo dramma può venire espresso in una sola opera. E non solo nei punti di partenza e nei punti di arrivo .... ma continuatamente dal principio alla fine, perché essa (la fotografia)... può evocare anche gli stati intermovimentall di un moto 9• Impegnato nella ricerca di tale resa del movi­ mento, critica duramente il cinema, sostenendo che è un mezzo inadeguato a darne una riproduzione elevata; nel fare ciò sviluppa, tuttavia, una penetrante analisi del reale mecca­ nismo di funzionamento del cinema, superando l'accecamento prodotto dall'illusività narrativa. Il cinematografo, scrive Bra­ gaglia, non segna la sagoma del movimento ma la suddivide, senza alcuna legge, con meccanico arbitrio, disintegrandolo e spezzettandolo, senza preoccupazioni estetiche di alcuna sorta per il ritmo: poiché non è nella sua potenza fredda• mente meccanica di poter soddisfare a tali preoccupazioni 10• Egli, certo, non comprende la possibilità di intervenire in questo meccanismo, ma vede il meccanismo, gli sfugge la fecondità del montaggio, ma ha compreso con lucidità ana­ litica che il cinema non è movimento, bensì successione di 53


unità, cioè di singoli fotogrammi. Occorre dire che è su que­ sta consapevolezza che sarà costruita grande parte della ri­ cerca cinematografica più avanzata. Un altro artista che si rivolse al cinema negli anni Dieci fu il pittore russo L. Sur­ vage, attivo a Parigi dal 1908. Svolgendo i temi formali del cubismo, egli avvertì la necessità di superare la staticità del quadro e di proiettare la pittura nella dimensione ritmica del movimento. Nel 1914 scriveva sulla rivista di Apollinaire « Les soirées de Paris »: Il ritmo colorato non .è affatto un'il­ lustrazione o un'interpretazione di un'opera musicale. :I:. un'arte autonoma, anche se si fonda sugli stessi dati psico­ logici su cui si fonda la musica... L'elemento fondamentale della mia arte dinamica è la forma visiva colorata, che ha funzione analoga a quella del suono nella musica. Questo ele­ mento è determinato da tre fattori: 1) la forma visiva pro­ priamente detta (astratta); 2) il ritmo, cioè il movimento e la trasformazione di questa forma; 3) il colore 11• Survage, tut­ tavia, non riuscì a realizzare più di alcune tavole, il suo la­ voro fu interrotto dalla guerra. Anni Venti

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Le opere che richiedono di essere poste di fatto all'inizio della ricerca « artistica » nel cinema, per compiutezza for­ male e per essere giunte ben visibili fino ad oggi, risalgono agli anni Venti. Esse si legano alla complessa e ricca artico­ lazione che la sperimentazione visiva assunse alla fine del secondo decennio del secolo con la nascita del Dada e gli esiti astratti del Futurismo e del Cubismo. In Germania due film rappresentano in modo molto significativo l'interesse dei pittori per il cinema: « Symphonie Diagonale » realizzato da Viking Eggeling tra il 1921 e il 1925 e « Rhythmus 21 » di Hans Richter, terminato probabilmente nel 1921. I due arti­ sti, conosciutisi a Zurigo nel 1918, lavorarono insieme per al­ cuni anni, uniti dalla medesima ricerca. Superato il rapporto che il cubismo manteneva con la realtà, in nome di un inte­ resse per le pure forme, essi si ponevano il problema di dare loro un ordine, indagandone le astratte possibilità relazio-


nali. Lo scopo di Eggeling, la cui ricerca era a uno stadio di definizione teorica più avanzata rispetto a quella di Richter, consisteva nella formalizzazione di un linguaggio visivo ca­ pace di funzionare come mezzo di comunicazione. Egli scri­ veva nel '21 sulla rivista d'avanguardia «MA»: L'arte non è l'esplosione soggettiva dell'individuale, ma diviene il linguaggio organico dell'umanità, che deve essere fondamentalmente libero da fraintendimenti, tagliato chiaro, così• che possa di­ venire un veicolo per la comunicazione 12• Eggeling si dedicò

ad elaborare una sintassi delle relazioni plastiche, istituendo tra le forme rapporti basati sul principio del contrasto e del­ l'analogia. Siamo informati da Richter sul lavoro compiuto in collaborazione tra il '19 e il '21: Le nostre ricerche ci in­

dussero a fare moltissimi disegni con trasformazioni di questo o quell'elemento formale, tanto una linea come una su­ perficie. Erano questi i nostri «temi » o « strumenti » come li chiamavamo per analogia con la musica, la forma d'arte che ci ispirava in modo particolare... Questo metodico contrasto­ analogia, l'« orchestrazione» di uno «strumento » attraverso differenti stadi, ci impose l'idea della continuità 13• Inizia- ·

rono nel '19 a sviluppare su rotolo i loro disegni, di lì nacque l'esigenza di visualizzare le trasformazioni formali e i rap­ porti ritmici mettendo le sequenze in movimento. Pur essendo il frutto di una lunga collaborazione, i due film sono molto diversi. In « Symphonie Diagonale » agisce l'articolazione di­ segnativa di una linea bianca sul fondo nero. Le forme si compongono e scompongono seco'ndo la sintassi di Egge­ ling, isolata dal contorno del fotogramma. Il movimento è interno allo svolgimento lineare e non coinvolge le qualità specifiche del cinema. L'opera è, in definitiva, uno studio sul valore ritmico connesso a determinate dinamiche di struttu­ razione delle forme, che utilizza il nuovo « medium » rima­ nendo tutto interno ai problemi del linguaggio pittorico. « Rhythmus 21 » denuncia l'influenza della astrazione neo-pla­ stica e suprematista nei quadrati e nei rettangoli, ma il loro apparire e sparire, l'alternanza di bianco e nero, il rapporto con lo schermo, il muoversi di piani contemporaneamente a varie velocità consente una espressione cinetica propria ai 55


caratteri del meccanismo cinematografico. Scrive Richter: Nel quadrato avevo una forma semplice che stabiliva per la propria natura un « rapporto » col quadrato dello schermo. Feci spuntare e scomparire, saltare e scivolare i miei qua­ drati di carta con un tempo ben controllato secondo un ritmo stabilito 14• Né l'una né l'altra opera fu, tuttavia, il primo film astratto visto in Germania. « Rhythmus 21 » fu proiettato a Parigi nel 1921 per iniziativa di Van Doesburg e solo nel 1925 a Berlino, ma composto assieme ai fotogrammi del film se­ guente - « Rhythmus 23 » - che presentavano l'uso delle li­ nee in aggiunta ai quadrati. Nel Maggio del '25 a Berlino si svolgeva, infatti, la prima mostra internazionale del film di avanguardia. In quell'occasione Eggeling mostrò pubbli­ mente « Symphonie Diagonale », la cui prima proiezio­ ne per gli amici artisti - tra questi Moholy Nagy - era avvenuta il 5 novembre 1924. All'aprile del '21 risale, invece, la visione pubblica del primo film astratto, che fu opera del pittore W. Ruttmann. Non ne rimane copia, ma dalla descri­ zione che ne fa Richter si desume che non doveva differire sostanzialmente dagli altri film astratti realizzati negli anni seguenti, tra il '21 e il '27; cioè Opus II, Opus III, e Opus IV, che è possibile vedere. Richter apprezza la superiore qualità tecnica dell'opera di Ruttmann, ma ne critica il risultato ar­ tistico. Facendo il confronto con le ricerche sue e di Egge­ ling, scrive: Le nostre forme i nostri ritmi avevano un « sen­ so », quelli di Ruttmann non ne avevano. Quelle che ci vedeva­ mo davanti erano improvvisazioni con le forme unite da un ritmo accidentale. Non c'era nulla che potesse far pensare a un linguaggio articolato... Impressionismo puro 15• Ruttmann utilizzava già una rudimentale apparecchiatura per animare con relativa rapidità le sue forme, che dai movimenti antro­ pomorfici di Opus II (una battaglia tra varie sagome), passan­ do per una accentuazione della meccanicità del ritmo in Opus III, giungono in Opus IV a soluzioni geometriche perse­ guenti puri effetti ottici. Ha ragione Richter nel sostenere l'assenza di una razionale strutturazione ritmica. Nei film di Ruttmann, come in quelli di altri, successivi artisti dediti al56 l'animazione, per esempio il canadese N. Mc. Laren, c'è la


tendenza a sottomettere l'articolazione formale più a ragioni ritmiche esterne al film (quale può essere una musica o, in generale, una esigenza di immediatezza espressiva) che a principi di organizzazione interni. Va rilevato, tuttavia, che a questa inclinazione non sfuggiva neanche Richter, mentre è solo Eggeling, per il suo rigore teorico, che ne rimane del tutto estraneo. È significativo ricordare che quando Richter realizzò « Rhythmus 21 », abbandonando le soluzioni lineari del suo rotolo ( « Preludium»), per le difficoltà tecniche con­ nesse alla loro animazione, e passando al quadrato, Eggeling ritenne che questo fosse un tradimento e ruppe la collabora­ zione 16• Si è osservato, tuttavia, come in questi primi esperi­ menti col nuovo «medium» la disponibilità ad adeguarsi alle sue caratteristiche desse risultati più interessanti, ri­ spetto all'indagine sul linguaggio cinematografico, di quelli legati ad una teoria pittorica molto precisata. A Berlino, agli inizi degli anni Venti, la presenza di rappresentanti degli svi­ luppi più recenti dell'avanguardia genera interesse e dibat­ tito riguardo le nuove possibilità artistiche connesse allo svi­ luppo tecnologico 17• Van Doesburg porta notizie del neopla­ sticismo e pubblica su «De Stijl » un articolo relativo agli esperimenti di Eggeling e Richter, che sono, in generale, al centro dell'attenzione. Eggeling enuncia sulla rivista «MA• i suoi principi teorici; anche Richter scriveva su « De Stijl» e dava vita nel '23 ad una rivista assieme a El Lisitskij. Que­ sti informava sulle ricerche costruttiviste e suprematiste ed era molto interessato ai problemi cinetici. Nel '22 a Weimar si tiene il congresso costruttivista, nel '27 giunge a Berlino Malevic per una mostra delle sue opere e lavora a un pro­ getto di film per Richter. Chi affrontò, però, la problematica arte-tecnologia con maggiore rigore teorico e apertura speri­ mentale fu L. Moholy Nagy, presente a Berlino dal '20 al '23 e poi insegnante al Bauhaus. Pubblica nel 1925 Pittura, Foto­ grafia, Film, in cui inizia l'analisi dei nuovi campi di ricerca che si aprono all'esperienza ottica, centrando l'interesse sul­ la conoscenza sperimentale dei mezzi tecnici adoperati. Gli era noto il lavoro di Eggeling e Richter, a cui fa riferimento (in particolare a quello di Eggeling), e vede un ulteriore svi- 57


luppo per il film nell'uso della tecnica di esposizione diretta del fotogramma, provata già nella fotografia. Ritiene che il cinema si è soprattuto limitato a liprodurre azioni dramma­ tiche, senza tuttavia sfruttare le possibilità creative della mac­ china fotografica 18 • Al Bauhaus diversi artisti erano impe­ gnati in questa ricerc�. Egli scrive circa le opere di Hirsch­ feld-Mack che la ricerca e la creazione di una nuova dimen· sione spazio-tempo della luce radiante e del movimento con­ trollato si rivela sempre più chiaramente nei... fasci di luce in rotazione e in movimento verso il basso 19• Moholy Nagy rivolse, durante l'intero arco della sua atlività, una atten­ zione analitica ai molteplici elementi che costituiscono il cinema. Lo schermo, il proiettore, il colore, il suono, il fotogramma, il montaggio furono oggetto della sua riflessione e di proposte di una originale utilizzazione, nella convinzio­ ne che il rapporto tra artista e « medium » tecnologico po­ tesse aprire nuovi spazi alla conoscenza visiva. In Pittura, Fotografia, Film proponeva due progetti: un copione per un film, elaborato nel '21-22 e il cinema simultaneo o policinema. Riflettendo sullo schermo, intuisce la possibilità di proietta­ re più film contemporaneamente e le varianti e gli effetti mol­ teplici che ne potrebbero nascere.· Una delle ipotesi è la se­ guente: Altre copie del film vengono proiettate sullo schermo mediante proiettori posti uno accanto all'altro, che incomin­ ciano sempre da capo. In questo modo si può presentare tante volte l'inizio di un movimento - nel suo graduale svi­ luppo - e realizzare con ciò effetti sempre nuovi 20• Alla fine del paragrafo commenta: Quando l'ottica e l'acustica moder­ ne sono usate come mezzi di rappresentazione artistica, pos­ -sono essere percepite solo da chi è aperto al mondo moderno e che potrà, in tal caso, trame profitto 21• Il copione risale ad un momento in cui la ricerca più avanzata era, ancora, solo su base grafica. Esso, invece, aveva per soggetto la rappre­ sentazione della città: il titolo era « Dinamica della Metro­ poli » e le immagini dovevano essere riprese dalla realtà. Vi è presentata una ,struttura di relazioni fondata su legami non narrativi, bensì visivi. Scrive Moholy Nagy: L'intento del film 58 non è quello di insegnare, di moralizzare o di raccontare una


storia. Il suo deve essere un effetto visivo, PURAMENTE vi• sivo. In questo film i vari elementi visivi non devono essere legati fra loro da un nesso logico, tuttavia le loro connessioni fotografiche e visive li collegano a un vitale contesto associa• tivo di spazio-tempo e rendono lo spettatore attivamente par­ tecipe della dinamica della città 22 • Il film non fu mai girato per la mancanza di finanziamenti, ma il progetto deve essere considerato avanzatissimo; il montaggio è sulla linea del « Ballet mécanique » di Léger e, ancor più, prefigura il cine­ ma di Dziga Vertov. Il copione, del resto, è un'opera che ha un autonomo valore e illustra con evidenza quale sarebbe stato l'aspetto del film. Presenta, infatti, esso stesso una for• · ma accentuatamente visiva, in quanto le parti verbali sono in­ serite fra fotografia, segni, scansioni lineari, visualizzazioni di parole. Moholy Nagy realizzò in seguito alcuni film, ma le circostanze che furono alla base della loro creazione inibi­ rono il conseguimento di risultati di particolare rilievo. A Parigi nel 1924 F. Léger, in collaborazione col tecnico D. Murphy, gira « Ballet mécanique» 23• Le immagini sono date sia da forme geometriche (triangolo, cer�hio) sia da riprese della realtà. L'opera si situa nell'ambito dell'interesse del pittore per gli oggetti, apprezzati per il loro valore plastico, che viene colto e messo · in· evidenza liberando il « signifi­ cante» dal «significato» ad essi connesso. L'oggetto perde l'identità, diviene un valore in sé, strettamente assoluto, indi­ pendente da ciò che rappresenta 24• L'uomo non fa eccezione, va spogliato dalla pregnanza esistenziale dell'«espressivo» e inserito, come elemento tra gli altri, nella nuova dimensione del «meccanico». Già parlando dell'attore di teatro Léger afferma la necessità di abolire la «profondità» del personaggio, per creare uno spettacolo che consista di luce, colore, im­ magine mobile, oggetto-spettacolo 25, scandito in base a tempi precisi: un movimento plastico che vale per dieci secondi, diviene cattivo se dura dodici 26• «Ballet mécanique» tra i due tratti iniziale e finale, che presentano la figura umana (una donna dondolante sull'altalena) come di consueto espressiva, carica di connotazioni sentimentali, in una azione a sviluppo lineare secondo un ritmo «naturale», si svolge con un mon- 59


· taggio che segmenta la pellicola in brevi piani, posti in se­ quenze discontinue, con un ritmo tutto interno al meccani­ smo complessivo. Il film è analizzabile solo individuando i segmenti e la struttura delle giunzioni e dei rimandi pura­ mente visivi di cui si compone. La successione, a volte rapi­ dissima, di fotogrammi diversi, che istituisce una percezione subliminare, i particolari angoli di ripresa degli oggetti e i loro movimenti, che appartengono solo alla «realtà» del film, così come quelli della macchina da presa, la ripetizione ad «anello» di un segmento, la presenza di strisce di film nero, tutto funziona, e non potrebbe essere diversamente, come ar­ ticolazione misurata di una struttura formale del tutto auto­ noma. Scrive Léger: Io ho preso degli oggetti molto usuali che ho trasposto sullo schermo dando loro una mobilità e un ritmo molto voluti e molto calcolati n. Le analogie con Mo­ holy Nagy sono di ordine generale: la consapevolezza della necessità del confronto dell'arte con la tecnologia e dello sta­ tuto, appunto, tecnologico del cinema. Sono, anche, specifi­ camente attinenti al film; il copione dell'artista ungherese prevedeva, infatti, tra l'altro tanto l'« anello» che la striscia di film nero. Dziga Vertov rappresenta in Russia (in particolare col film « L'uomo con la macchina da presa» del '29) l'apice della ricerca cinematografica fondata sull'esaltazione delle supe­ riori possibilità visive del «medium» meccanico, del « cine. occhio», e sulla formalizzazione di un linguaggio tutto risol­ to nell'uso dei suoi peculiari elementi significanti. Aboliti il dramma e l'attore, l'oggetto del cinema di Vertov è la realtà fattuale, ma il guardare è, subito, l'organizzazione visiva di es­ sa. Il materiale è la vita; l'occhio che vede, però, non è quello dell'uomo, è quello del cinema. L'opera cinematografica sarà, dunque, lo studio terminato della vista perfezionata, precisa e approfondita da tutti gli strumenti ottici esistenti ed in modo particolare la macchina da presa... 28• L'artista vedé, e realizza il suo prodotto, attraverso questo macchinario, arti­ colando in linguaggio la nuova, artificiale dotazione percetti­ va. Il principio ordinatore, formalizzante è il montaggio, che 60 non costituisce un momento della produzione del film, bensì


è, appunto, la forma sottostante alla totalità del suo processo Il montaggio è alla base della scelta del soggetto, della sua visione, della organizzazione del materiale filmato. Va osser­ vato, inoltre, che il linguaggio filmico di Vertov funziona se­ condo un ulteriore principio: quello dell'intervallo. Egli è consapevole che la scrittura del cinema è rapporto differen­ ziale tra unità, che il movimento, il ritmo è effetto di tale discontinuità. Elementi dell'arte del movimento si presenta­ no gli intervalli (passaggi da un movimento all'altro) e non i movimenti stessi. Proprio essi (gli intervalli) trascinano l'azione allo svolgimento cinetico 29• In conclusione si può no­ tare che il«contenuto» del film di Vertov è tutto interno al­ la organizzazione visiva e ai rapporti formali che costituisco­ no la struttura dell'opera, differendo dalla produzione di Ejzenstejn (fatta forse eccezione per«October »), il cui mon­ taggio risulta volto ad una finalità espressiva esterna. Messi in evidenza i tratti culturali che avvicinano l'opera di Moholy Nagy, di Léger e quella di Vertov, occorre, ora, chiarire quale era la situazione della ricerca in Francia. In che contesto si inseriva «Ballet mécanique »? Nel 1923 era stato realizzato da Man Ray un film, la radicalità del cui linguaggio era direttamente proporzionale e conseguenza della radicale negazione della intenzione formale sostenuta dal Dada. Il rifiuto di un approccio estetico, l'azzeramento della sua tradizione apre, di fatto, a una viva capacità sperimen­ tale. « Retour à la Raison », proiettato nella serata dadaista di «Le coeur à barbe » fu prodotto unendo alcuni metri di pellicola girata in riprese senza nesso logico (un prato di mar­ gherite, un torso femminile nudo in movimento, una scatola di cartone ruotante ecc.) con fotogrammi esposti direttamente alla luce e cosparsi a caso di spilli, puntine da disegno, pepe, sale. Oltre alla negazione della narratività tradizionale, per l'inesistenza di qualsiasi continuità tra le immagini, il film presenta - e qui è il suo notevole valore - la sua pro­ pria realtà materiale, attrae l'attenzione sulle sue proprietà «immediate », richiede un diverso atteggiamento percettivo allo spetatore, apre la strada alla sperimentazione sugli ele­ menti«reali» del cinema. Strada che sarà percorsa solo dopo 61


alcuni decenni, ma su cui « Retour à la Raison » si pone con chiara anticipazione. Nel '26 realizzò « Emak Bakia » in cui, abbandonato l'interesse per il materiale, si intrecciano aspetti puramente visivi con analogie simboliche dovute all'influenza del Surrealismo. I film seguenti vedranno emergere sempre più questo secondo aspetto, conservando in modo subalterno l'attenzione per l'innovazione formale. Nel '24 R. Clair aveva girato « Entr'acte » su sceneggiatura di F. Picabia. Il film, che doveva essere proiettato durante l'intervallo del provoca­ torio balletto « Relache » per cui Picabia e Satie scrissero il testo e la musica, è una tipica opera dadaista, che introduce nell'illusività tradizionale delle immagini, che viene mante­ nuta, il non-senso, l'irreale, l'assenza di qualsiasi logica. Gli anni Venti videro a Parigi lo sviluppo di una nutrita cinema­ tografia « d'avanguardia » da porre a fianco al film di Clair, non per la carica iconoclasta - che in alcuni è presente in altri no - bensì l'accettazione, di fondo, della narratività, pur se con finalità e modi diversi. Film che non perseguono una radicale sperimentazione sul cinema, ma che rappresen­ tano una ricerca d'alta qualità, che trova anche l'appoggio dell'industria. Si pensi, per esempio, a Renoir, Dreyer, a Ger­ maine Dulac e, poi, a Buiiuel e Cocteau. C'è da ricordare, in­ vece, nell'ambito della più stretta sperimentazione il film di Duchamp, « Anémic Cinéma » del 1926. Esso deriva dagli in­ teressi ottici dell'artista, che avevano già dato luogo ai roto­ rilievi. Duchamp riprende questi dischi rotanti che mettono in evidenza i meccanismi di percezione dell'occhio. Ciascun disco reca, impressa a spirale, una scritta che diviene leggi­ bile con la diminuzione della velocità di rotazione, ma che si rifiuta ad una immediata comprensione, come è sempre per le iscrizioni di Duchamp. Già il titolo del film, del resto, è co­ stituito dall'anagramma della parola cinema 30•

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In definitiva le opere considerate dimostrano che negli anni Venti prese corpo una ricerca artistica sul cinema, che seppe chiarire in concreto i termini di un diverso approccio a questa pratica significante. Occorre rilevare, tuttavia, che il fenomeno rimase entro confini limitati. Nel 1925 a Berlino si tenne, certo, la prima mostra del cinema d'avangua rdia e _


ciò fu, senza dubbio, un momento importante di informazio­ ne. Non riuscì a svilupparsi, però, un movimento, una pro­ duzione diffusa, un costante dibattito teorico. La ragione prin­ cipale fu la notevole spesa che la realizzazione di un film ri­ chiedeva. Come conseguenza ne venne sia l'abbandono della ricerca da parte di molti (Léger, Ray) sia la perdita di luci­ dità sperimentale di coloro i quali continuarono, isolati teo­ ricamente e, in parte, impegnati in lavori per l'industria per finanziare le proprie opere. Richter, ad esempio, dal '26 in poi, anche nei film che produce in autonomia, mostra un certo cedimento artistico al gusto degli effetti illusivi com­ missionatigli dall'industria cinematografica. Dagli anni Cinquanta agli sviluppi contemporanei Alle origini del movimento che oggi in Europa è rivolto alla indagine formale sul «medium ,. cinematografico, si pon­ gono verso la fine degli anni Cinquanta le prime opere di due film-maker austriaci, Peter Kubelka e Kurt Kren. La loro atti­ vità si caratterizzava subito per l'attenzione ai problemi lin­ guistici del cinema, maturata in assoluta autonomia rispetto alla produzione sperimentale americana, iniziata già negli an­ ni Quaranta. Tra Kubelka e Kren non c'è mai stato un rap­ porto di collaborazione e la loro ricerca nasce e si sviluppa con interessi e modi diversi. La filmografia di Kubelka comprende fino ad oggi solo sei film, per complessivi cinquanta minuti di proiezione. Ciò non senza significato, in quanto è in stretta relazione con gli in­ tenti e i mezzi formali dell'artista. In « Adebar » del '57 (1 min. 30' sec.) e «Schwechater,. del '58 (1 min.), il mate­ riale girato è manipolato da Kubelka per ottenere configura­ zioni visive volute e lontane dal referent.e naturale. Dopo questo intervento soggettivo sulla oggettiva presenza nella pellicola della realtà esterna, egli realizza la padronanza as­ soluta dell'artista sul suo «significante», ponendo alla base della costruzione del film la relazione tra singoli fotogrammi. L'opera è progettata con un controllo «infinitesimale » delle unità costitutive e· diviene una struttura calcolata in termini 63


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metrici. Il ritmo delle immagini è istituito stabilendo rapporti miltematici tra i fotogrammi, in analogia alla misurabilità del tempo della musica; da questa derivano alcune forme di organizzazione, quali il contrappunto, la permutazione, l'in­ tervallo ecc. Il lavoro di Kubelka era rivolto alla identifica­ zione degli elementi essenziali del cinema, per elaborarne un modo specifico di articolazione linguistica. Il film « Arnulf Rainer •, terminato nel '60 (6 min. 30 sec.), si presenta come una compiuta formalizzazione di linguaggio cinematografico. La pellicola, svincolata dalla riproduzione della realtà ester­ na, assunta come svolgimento metrico di fotogrammi, evi­ denzia l'articolazione dei due assi di opposizione del cinema: luce-non luce e suono-non suono. La struttura del film è de­ terminata dai rapporti metrici stabiliti tra questi quattro differenziali elementi significanti. Va osservato che non solo il visivo è ancorato al fotogramma, ma anche il sonoro. L'uni­ tà minima non significativa, dunque, è costituita da due ele­ menti diversi, a loro volta includenti una polarità. Il linguag­ gio del cinema di Kubelka si fonda sulla articolazione misu­ rabile di queste unità minime. Egli afferma: Il cinema non è movimento. Questa è la prima cosa. Il cinema è la veloce proiezione di unità immobili ... C'è un ritmo di base ... l'armo­ nia è diffusa dall'unità del fotogramma, dall'l/24 di secondo e io parto da questo ritmo fondamentale, dai ventiquattro fo­ togrammi. Il cinema parla tra i fotogrammi.. 31• Nel film se­ guente « Unsere Afrikareise,. (12 min. 30 sec.), realizzato tra il '61 e il '66, con questo linguaggio viene prodotta una strut­ tura di significazioni dotata di eccezionale complessità. Il ma­ teriale visivo, immagini di un soggiorno-safari di austriaci in Africa, è lasciato nelle condizioni di una naturalistica ri­ produzione della realtà (il film è a colori), ma suddiviso in fotogrammi va a costituire una sorta di vocabolario dell'ar­ tista. Lo stesso è per i suoni, catalogati secondo le varie carat­ teristiche. Inizia a questo punto l'articolazione linguistica degli elementi primari: il rapporto tra visivo e visivo, tra vi­ sivo e sonoro, tra sonoro e sonoro sulla base delle relazioni tra i fotogrammi. Questo linguaggio è una struttura autonoma della realtà, nel senso che non è referenziale, funziona se-


condo proprie, precise leggi, ha per fine una articolazione concentratissima di rapporti significanti. Il linguaggio, cioè, non presenta se stesso come struttura, modello, non svolge una funzione riflessiva, bensì costruisce rapporti che realiz­ zano, a molteplici livelli di associazione, un processo signi­ ficante. Provarsi ad esemplificare è, certo, riduttivo rispetto alla ricchezza del testo, poiché si isola un segmento dalla trama delle relazioni a breve e lunga distanza in cui è inse­ rito, ma può avere, ciò nonostante, una utilità. In pochi foto­ grammi, per una durata di circa un secondo, sono presentate le seguenti relazioni: il sonoro dà un colpo di fucile, il visivo la grande testa di un pesce tirata da un amo fuori dell'ac­ qua, attorno al pesce l'acqua disegna un movimento di ascesa - il visivo dà alte fiamme di un incendio della foresta, che riprendono il movimento ascendente dell'acqua, il sonoro il rumore del bruciare. C'è in questo segmento la condensazio­ ne di tre violenze separate, realizzata su ambedue gli assi di articolazione; tra le immagini è stabilita una relazione di for­ me che conferisce continuità alla sequenza e conferma, nello scatto verso l'alto, la sensazione di violenza. Padrone di una articolazione linguistica di precisione e concentrazione «in­ finitesimale», Kubelka organizza una struttura di relazioni autonome - un ordine del simbolico, dove può accadere ciò che mai potrebbe. nella realtà - che avvolge lo spetta­ tore in una rete di emozioni, sensazioni, osservazioni di una ricchezza che fa pensare alle possibilità della musica. Egli dice: Io non voglio fare una scena allegra o una triste. Io le voglio molto complesse, mai un solo sentimento, ma molti molti sentimenti sempre 32• Il film di Kubelka parla, vuole dire mol­ tissimo, ma è il linguaggio del suo cinema, nella totalità della struttura visiva, ritmica, sonora in cui è articolato, che parla e produce una originale conoscenza. La sua opera continua il lavoro di quegli artisti dell'avanguardia degli anni Venti, che ebbero un interesse «costruttivo• nei confronti del cinema: soprattutto occorre pensare a Vertov. Il salto che Kubelka fa fare all'elaborazione del linguaggio risiede nella definizione di un preciso, misurabile meccanismo di articolazione, che è la condizione della produzione di struttura di infinita com- 65


plessità, per la cui lettura entra in gioco necessariamente la memoria. Come l'ascolto di un pezzo di musica richiede il ricordo del suo intero svolgimento, così la visione di un suo film può essere adeguata solo avendone presente l'intera tra­ ma di relazioni. È un segno questo della nuova dimensione artistica aperta al cinema. L'opera di Kurt Kren è più numerosa e più varia; sem­ brerebbe, anche di maggiore influenza sugli sviluppi della ri­ cerca contemporanea. Di essa risulta interessante, in questo contesto, mettere in evidenza soprattutto il diverso ruolo as­ segnato alla « struttura » nella organizzazione del film. Pren­ deremo in considerazione, come esempi, « Baume im Herbst » del 1960 e «TV» del 1967. Malcom Le Grice, film-maker in­ glese e teorico della indagine formale sul cinema, che si è adoperato a rivalutare l'importanza del lavoro di Kren ri­ spetto a quello di Kubelka, considera « Baume im Herbst » come il primo film strutturale e l'altro come la prima opera interamente realizzata di cinema riflessivo che trasferisce il campo primario per l'attività strutturale allo spettatore dello

Tanto le realizzazioni di Kubelka quanto quelle di Kren si presentano come un sistema di rapporti formali, ma diversa è l'operazione con cui l'artista istituisce un ordi­ ne nel ·proprio materiale. Kubelka interviene sulla pellicola, si attribuisce, col montaggio dei fotogrammi, una libertà as­ soluta, si colloca in una dimensione tutta soggettiva, indipen­ dente dal rapporto con la realtà esterna. In « Baume im Herbst », come in altre opere, il sistema, invece, è un a priori che condiziona il processo percettivo del reale affidato alla macchina da presa. Questa agisce in base a condizioni pre­ determinate, il filmare è già un evento orientato. La struttu­ ra entra nella formazione dell'esperienza del reale; la cono­ scenza sensibile che si fa del mondo, i rapporti percettivi, sono ricondotti alla azione selettiva svolta da una attività di strutturazione dell'esperienza. «TV» presenta una organiz­ zazione seriale delle sequenze, che non persegue risultati ritmici, cinetici o, comunque, legati ad una percezione imme­ diata, psicofisica. Cinque segmenti, costituiti ognuno da otto fotogrammi, mostrano lungo l'asse di una finestra, la gente stesso film"·

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all'interno del bar dove è situata la m.d.p. e i movimenti al­ l'esterno; ciascun segmento è ripetuto nel film ventuno volte e collocato in rapporti sistematici con gli altri segmenti. II risultato è l'articolazione di una complessa struttura iterati­ va di relazioni, che attrae l'attenzione dello spettatore sulla sua propria organizzazione, sul suo processo di svolgimento e gli richiede un intervento attivo, a sua volta strutturante, per coglierne il sistema. Nella riflessività del film sul proprio ordine risiede, dunque, l'implicazione dello spettatore, che da esso è chiamato a decifrarne il testo. L'opera di Kubelka e di Kren continua a svolgersi tut­ t'oggi, ma a partire circa dal 1966 è stata affiancata da quella di numerosi giovani artisti. Attorno al '68 si è verificato in Europa il massimo interesse per il cinema come pratica in­ dipendente e sperimentale; negli anni seguenti molta parte di coloro i quali vi si erano dedicati ha abbandonato la ri­ cerca, o per passare all'interno delle istituzioni (televisione, cinema industriale, scuola) o per il non attribuirvi più le ori­ ginarie potenzialità comunicative. Ciò non significa, tuttavia, che vi sia una crisi nella ricerca formale sul cinema; essa, pur nella permanenza di difficoltà economiche e distributive, presenta oggi complessivamente, certo con differenze tra i vari paesi europei, una attività molto articolata che, soprat­ tutto in Inghilterra e Francia, sembra stia trovando forme organizzative relativamente stabili e diffuse e, di conseguen­ za, un pubblico più assiduo e interessato. Per dare un quadro delle ricerche più recenti non prenderemo in considerazione direttamente l'attività degli artisti maggiormente significativi: sono ormai un numero consistente e, inoltre, nell'opera di ciascuno è presente spesso una molteplicità di indirizzi; cer­ cheremo, invece, di tracciare le linee principali lungo cui l'in­ dagine formale si va svolgendo, fornendone alcuni esempi. Un'area di ricerca è costituita da quei film la cui organiz­ zazione formale è· funzionale ad un impatto diretto sul sistema nervoso autonomo dello spettatore. � questo il cinema «percettivo», di cui fu antesignano « Anémic Cinéma» di Duchamp. II film lavora sul rapporto tra determinati effetti ottici e il riflesso visivo e/o emozionale indotto dalla loro 67


percezione. Claudine Eizykman, interessata a sperimentare . le risonanze emozionali prodotte dalla stimolazione della pro­ pria percettività, realizza «Bruine Squamma» ('72-'78); un' opera fondata sulla iterazione e variazione di gruppi di im­ magini, montate secondo un ritmo intermittente, il cui effetto è l'esplosione di luci, dissolvenze, sovrapposizionL Ella scri­ ve: Dai miei film ho sempre cercato di ottenere delle espe­

rienze corporee e fisiche, di sentire l'irruzione lenta e vorti­ cosa di tremiti, trasalimenti, brividi che non fossero filtrati o indotti dalla sofferenza ma che scaturissero direttamente dagli oggetti, contemporaneamente alla mia percezione 34• I

coniugi Birgit e Wilhelm Hein in «Part 3 di Work in Pro­ gress reel A» (1969) scoprivano un interessante fenomeno visivo, mentre indagavano sull'effetto stroboscopico. Alter­ nando per dieci minuti tre fotogrammi con l'immagine di due ragazze, sedute a fianco, con uno spazio di film nero, accadeva che la permanenza della stessa percezione per lungo tempo induceva nella visione un meccanismo di modifica del­ l'oggetto: ad un dato momento sembrava di vedere una ragaz­ za avvicinarsi all'altra e le facce sorridere. Vi sono film co­ struiti sull'«anello » o sulla ripetizione delle immagini. E. questo un campo di indagine vasto, che presenta progetti di significazione diversi. L'artista, infatti, può servirsi del1'«anello» per istituire nell'opera così un ordine ritmico co­ me una struttura sistemica avente un'altra funzione. Peter Gidal, ad esempio, ha usato in molti film la ripetizione delle immagin� per produrre una forma riflessiva. In «Hall » (1968) egli ripete l'intero film, già congegnato in modo da pro­ vocare l'intervento di previsione dello spettatore, per indurre una diversa lettura sulla base della memoria. «Eisenbahn » (1967) di Lutz Mommartz è l'« anello» di una inquadratura di un paesaggio che scorre, visto attraverso la cornice del fine­ strino del treno, accompagnato dal rumore ritmico delle ruote sui binari. Qui l'attenzione di chi vede viene richiamata sul ti­ po di ripresa - è o non è ·un «anello»? - e sulla presenta­ zione della durata reale del tempo cinematografico; ovvero si persegue l'interrogazione sui mezzi di significazione del cine68 ma. Molti film, inoltre, mostrano un interesse· centrale per



sto operare immediato sulla proiezione è prefissato e deciso dai partner solo entro certi limiti, e lascia entro questi molte possibilità di variazione... Ciò vale per l'insieme della proie­ zione, che viene a mutarsi spontaneamente giusta la situazio­ ne. In tal modo il tempo reale della rappresentazione divie­ ne, in quanto irripetibile processo operativo, un'esperienza significativa per gli spettatori 36 • In « Adjoined Dislocations » (1973) dell'austriaca Valie Export, la multiproiezione consen­ te l'intreccio di interessi relativi sia al corpo dell'artista nelle sue relazioni con l'ambiente, sia ai modi di produzione delle immagini. La Export colloca due cineprese da 8mm una die­ tro le spalle, l'altra sul petto; quindi muove il proprio corpo assumendo varie posizioni, mentre è ripresa da una macchina da 16mm. I film da 8mm sono proiettati uno al di sopra del­ l'altro, quello da 16mm a fianco. Essi rendono assieme il pro­ cesso di relazione tra corpo e ambiente, la proiezione rÌello spazio dei movimenti del corpo e la evidenza dei modi con cui ciò avviene. In altre opere, l'attenzione per gli elementi «reali» del cinema si traduce in operazioni direttamente ri­ guardanti la materialità della pellicola. In definitiva si avverte la riduttività connessa all'identifi­ care alcune linee di ricerca in una produzione che dall'inda­ gine del «medium» deriva, come si è visto, soluzioni ca­ paci di abbracciare un'area di interessi complessa e molto articolata.

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1 P. KuBELKA, Une histoire du cinéma, catalogo della mostra omo­ nima, Centre G. Pompidou, Parigi, 1976, p. 7. 2 A Genova, Il Gergo Inquieto, convegno sul cinema sperimentale italiano (Ass. alla cultura del Comune) novembre 1977; Il Gergo In­ quieto, modi del cinema sperimentale europeo (Ass. alla cultura del Co­ mune) febbraio 1979. A Torino, L'Occhio dell'Immaginario, il cinema sperimentale e il cinema d'artista (Comune e Istituto di Storia dell'Arte dell'Università) maggio 1978. A Firenze, La Mano dell'Occhio, giornate internazionali del cinema d'artista (Ass. alla cultura del Comune) giugno 1978. 3 B. CoRRil., Musica cromatica, in Il pastore, il gregge e le zampogne, Bologna 1912 (ripr. in « Bianco e Nero• n. 10 - 11- 12, 1967). 4 F. T. MARlNEITI, B. CoRRA, E. SETTIMELLI, A. GINNA, G. BALLA, R.


Cmn, La cinematografia futurista, in Archivi del Futurismo, vol. I, De Luca Editore, Roma 1958, p. 97. s Ibidem. 6 Ibidem, p. 99.

7 Si veda M. FAGIOLO DELL'ARCO, Balla: Ricostruzione Futurista del­ l'Universo, Bulzoni, Roma, 1968. 8 Si vedano M. KIRBY, Futurist Performance, New York, E.· P. Dutton & Co, 1971; D. NOGUEZ, Du Futurism à l'Underground in Cinéma: Théorie, Lectures, Klincksieck, Parigi, 1978; C. BELUlLI, Poetiche e pra­ tiche del cinema d'avanguardia dalle origini agli armi Trenta in e La biennale di Venezia» n. 54, 1964. 9 A. G. BRAGAGLIA, Fotodinamismo futurista (1911), a cura del Centro

Studi Bragaglia, Einaudi, Torino, 1970, p. 29. 10

Ibidem, p. 27.

L. SURVAGI! in « Soirées de Paris » luglio-agosto 1914. t!. stato ri­ prodotto interamente da J. MITRY in Storia del Cinema Sperimentale, Mazzotta, 1977. p. 27. 12 V. EGGELING, Presentazioni teoretiche dell'arte del movimento in «MA», 1921. Riguardo a Eggeling si veda soprattutto L. O'KoN0R, Viking Eggeling 1880-1925. Artist and film-maker. Life and works, Almqvist & Wiksell. Stoccolma, 1971. 13 H. RICHITR, Dalla pittura moderna al cinema moderno in « La biennale di Venezia» n. 54, 1964. 14 H. RtcHTER, Il cinema d'avanguardia in Germania (1949) in Do­ cumenti del cinema dadaista e surrealista, a cura di G. RoNDOUNO, Mar­ tano, Torino, 1972, p. 94. .

tt

1s Ibidem. 16 Ibidem.

17 Per un'analisi del dibattito artistico sviluppatosi in Germania at­ torno a questo problema, si veda: G. RoNOOUNO, Laszlo Moholy Nagy. Pittura, Fotografia, Film, Martano, Torino 1975. 18 L. M0H0LY NAGY, Pittura, Fotografia, Film (1925), tradotto in Laszlo

Moholy Nagy . . ., cii., p. 102. 19 Ibidem, p. 94. 20 Ibidem, p. 109. 21 Ibidem, p. 110. 22 Ibidem, p. 184.

23 Per uno studio analitico di « Ballet Mécanique " si veda: R. Mal!, Il nuovo realismo di F. Uger in Studi sul Surrealismo, AA.VV., Of­

ficina Edizioni, Roma 1977. 24 F. I.EGER, Fonctions de la peinture (1923), Gouthier, Parigi 1965, p. 53.

25 F. LEGER, Le spectacle: lumière, couleur, image mobile, objet­ spectacle (1924), in Documenti del cinema dadaista e surrealista, cit., p. 117. 26 Ibidem, p. 120. n F. I.EGER, Autour du ballet mécanique (1927), in Documenti del cinema dadaista e surrealista, cit., p. 127. 28 D. VERTOV, L'importanza della cinematografia non recitata (1923), in Ejzenstejn, Feks, Vertov. Teoria del cinema rivoluzionario. Gli anni Venti in URSS, a cura di P. BERTETIO, Feltrinelli, Milano 1975, p. 80. 29 D. VERTOV, Noi. Variante del Manifesto (1922) in Ejzenstejn... , cit., p. 67. 30 Un'analisi articolata del film è svolta da K. MARnN, Marcel Du­ champ's Anémic Cinéma in e Studio Intemational" n. 973, gennaio/

febbraio 1975.


31 P. KUBl!LKA, Intervista a cura di J. MEKAs (1967) in Film Culture

reader, Praeger Publishers, New York 1970, p. 291. 32 Ibidem, p. 293. 33 M. LE GRICB, Kurt Kren in e Studio International

•• novembre/ dicembre 1975. 34 C. EIZYKMAN in Il Gergo Inquieto, modi del cinema sperimentale europeo, catalogo della rassegna omoi;ùma, cit., p. 40. 35 D. DYE in « Art and Artist,. dicembre 1972 ed anche in « Studio International,. novembre/dicembre 1975, David Dye Artist / Film-maker di A. SHERIDAN. 36 B. W. HEIN, in Il Gergo Inquieto..., cit., p. 60.

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