op.cit. rivista quadrimestrale di selezione della critica d'arte contemporanea
Direttore: Renato De Fusco Segretaria di redazione: Maria Laura Astarita Redazione: 80123 Napoli, Via Vincenzo Padula, 2 - Tel. 7690783 Amministrazione: 80122 Napoli, Via Francesco Giordani, 32 . Tel. 684211
Un fascicolo separato L. 1.800 (compreso IVA) - Estero L. 2.400
Abbonamento annuale:
Italia L 4.500 - Estero L. 6.000 Un fascicolo arretrato L 2.000 - Estero L 2.500 Spedizione in abbonamento postale • Gruppo IV C/C/P n. 23997802 intestato a:
Edizioni e 11 centro Âť di Arturo Carola
R. De Fusco e M. L. SCALVINI A. GIANNETl'I
I quindici anni della nostra• rivista L'Architettura all'Ecole des Beaux-Arts
Una griglia che non sia una grata G. Fusco R. CIOFFI MARTINELLI La Storia dell'arte Einaudi
S 14
32
52
Quanto alla formula delle citazioni (che sin dal terzo nu mero, con la nuova rubrica « Libri, riviste e mostre », esten devamo anche alle recensioni e al repertorio bibliografico), possiamo dire che, per la sua efficacia, si è rivelata insostitui bile e come tale è stata fedelmente seguita. Peraltro, essa ha a tal punto permeato le nostre tecniche di lavoro, da essere utilizzata da parte di molti redattori anche per libri e ricerche indipendenti dalla pubblicazione della rivista. Inoltre, accan to alle rassegne, caratterizzate dalla «citazione», sono ap parsi - come previsto nello stesso editoriale-programma articoli di autori esterni, « per poter svolgere quelle ricerche non riconducibili alla formula .. del periodico»; in tal modo, come si voleva, la formula è rimasta « uno strumento e non un vincolo limitativo ». Quanto al discorso sui temi affrontati, esso è notevolmente più complesso, in quanto tali temi vanno anzitutto riferiti, per il programmatico legame con l'attualità, alla più vasta vicenda culturale di quegli anni. Un quindicennio che ha visto tra l'altro l'avvento della cultura di massa e dei suoi media; la fortuna della Scuola sociologica di Francoforte e dei libri di Marcuse; l'esplosione eversiva del '68; la conseguente crisi di molte strutture, prima fra tutte quella universitaria; il fallimento della politica urbanistica; il farsi e disfarsi di molte tendenze letterarie; il rapido succedersi, in arte, del l'informale, della pop art, dell'arte programmata, dell'arte povera e delle sue filiazioni, dell'iperrealismo, dell'arte con cettuale ecc. Di fronte a questo quadro culturale - peraltro sopra richiamato solo con pochi nomi più risonanti - per la nostra rivista è emersa la necessità di allargare fortemente l'arco tematico al di là di quello tradizionalmente connesso alla critica delle arti figurative; cosicché, oltre ai menzio nati- temi di estetica, di critica e di poetiche, e oltre ai set tori delle cosiddette arti maggiori, il periodico ha proposto, talora in anticipo, argomenti che vanno dall'urbanistica ai nuovi metodi scientifici di progettazione, dal design alla fenomenologia dei mass media, dai problemi della perce6 zione a quelli dell'istruzione artistica, dalla politica culturale
a quella editoriale, dal teatro alla letteratura. Temi tutti, ché non hanno dato luogo ad eclettici almanacchi ma, al contrario, sono stati costantemente riportati al nucleo dei dominanti interessi culturali di « Op. cit. ». Questa, in tal modo, ha rispecchiato il dilatarsi del concetto di arte, non ché la tendenza allo sconfinamento eterodisciplinare, tipici del dibattito artistico di questi ultimi anni. Un secondo aspetto problematico relativo al discorso sui temi è un interesse che, fin dall'inizio, la rivista ha mani festato e che via via è andato accentuandosi, al punto da apparire la sua linea dominante. Ci riferiamo alla tematica semiotico-strutturale. Questa, che già dal secondo numero (gennaio '65) affiancava il filone della selezione referenziale, della registrazione angolata dei più vari eventi e delle di verse tendenze artistiche, ossia in altri termini del reportage di un clima culturale, a partire dal n. 7 (settembre '66), con la rassegna Note per una semiologia figurativa, iniziava ad assumere un ruolo di crescente rilievo. Tale tematica è an data sviluppandosi sia con apporti esterni, sia con articoli e rassegne di collaboratori stabili della rivista, e con la carat teristica di una alternanza fra ipotesi di lavoro teoriche e riscontri applicativi: salvo errore, il saggio Significanti e significati della Rotonda palladiana (n. 16, settembre '69) è stato il primo tentativo di lettura semiotica di un edi ficio. Perché questo predominante interesse per la tematica se miologica in una rivista che, per il carattere di selezione e per dichiarato impegno programmatico, non voleva seguire un indirizzo di tendenza? Anzitutto, questo tipo di ricerca ha assunto negli anni della nostra pubblicazione un tale ri lievo, in Italia e fuori, da renderne obbligatoria la registra zione. Tuttavia, al di là di questo aspetto, va sottolineata la coincidenza tra il senso più profondo della ricerca semio logica e quello delle ragioni critiche della rivista stessa. In fatti, se strutturalismo e semiologia hanno costituito - e tuttora per noi costituiscono - una sfida della ragione al l'irrazionale in tutte le sue forme, ovvero il rifiuto dell'inef fabile, questa linea culturale è apparsa tanto congruente 7
con il disegno programmatico iniziale del periodico, da far risultare logica e « naturale» tale convergenza. Oltre a queste ragioni di interna congenialità - dall� quali peraltro non escludiamo un gusto derivante da sogget tive motivazioni - va detto che lo scandaglio semiotico strutturale ci è parso il più idoneo a far fronte, anche per la sua intrinseca tendenziale scientificità, alla caotica con gerie dei fatti artistico-culturali contemporanei, e soprattutto al patologico susseguirsi delle mode e dei relativi supera menti. Se altri hanno creduto di volta in volta che la feno menologia, il positivismo logico, il marxismo, il freudismo, lo strutturalismo ecc., fossero delle chiavi per spiegare tutto, ivi compresi i fatti dell'arte, e sono stati i primi ad abban donarli quando hanno capito che ciò non era vero, noi vice versa non abbiamo mai« superato» alcuna delle nostre scelte e preferenze culturali, perché non abbiamo mai attribuito loro il valore di un passe-partout. Ma, a parte i risultati della linea semiotico-strutturale - cui com'è chiaro attribuiamo valore strumentale, e che per primi riconosciamo provvisori e parziali, quindi aperti ad un lavoro ulteriore - analizzando più in particolare il campo tematico in cui la rivista si è maggiormente impegnata, quello del dibattito architettonico, ci sembra lecito chiedere quali altre proposte di natura teorica o metodologico operativa siano state formulate negli stessi anni. Gli ideali della pianificazione urbanistica alle varie scale, la poetica della grande dimensione, l'ipotesi di un'architet tura ex machina, i tentativi di coinvolgere l'utenza, i vari revivals, l'idea che l'architettura di carta possa sostituirsi a quella costruita ecc., hanno dato luogo o a fallimenti, ovvero, nel migliore dei casi, ad operazioni settoriali, co munque non incisive sulla realtà. Né, d'altra parte, sembra ancora lecito reggere un dibattito disciplinare su stanche od effimere dicotomie quali architettura/urbanistica, storia/ progettazione, continuità/crisi, forma/funzione, moderno/ post-moderno e simili, senza introdurre un terzo fattore, di natura teorica, in grado di determinare uno sbocco positivo. 8 Ma soprattutto, tali binomi sono così specifici del linguaggio
dei 'tecnici', da non consentire un discorso, non diciamo con il cosiddetto grosso pubblico, ma neanche con la commit tenza, sia essa pubblica o privata. Non è un caso, infatti, che la gran parte del dibattito attuale si concentri su di un feno meno - qual è la cosiddetta « tendenza » - che se pure non privo di intelligenti motivazioni appare francamente spropor zionato alla realtà da un lato, e all'attenzione richiamata dall'altro. Infine, la stessa più radicale e motivata ipotesi della « morte dell'architettura », quand'anche fosse vera, non para lizzerebbe un tipo di ricerca come la nostra, sia perché, fino a quando la gente avrà bisogno dell'architettura come ser vizio, sarà comunque necessaria un'operazione di lettura e di analisi di quest'ultimo; sia, ancora, perché l'eventuale morte dell'architettura (o meglio, dell'idea di essa che ave vamo fino a ieri), non ci impedirebbe di effettuare quelle stesse letture ed analisi sull'architettura del passato: para frasando Argan, non ci interessa tanto un metodo per stu diare l'architettura moderna, quanto un metodo moderno per studiare l'architettura. A conclusione di quanto detto circa le affinità della te matica semiotico-strutturale con gli interessi del nostro pe riodico, va precisato che questi non si esauriscono in quella: « Op. cit. » non è una rivista di semiologia, e molti che vi collaborano non condividono neanche tale orientamento. Un'altra linea che la nostra rivista ha sviluppato, prima come naturale ed implicito modo della sua redazione, poi come una vera e propria proposta di politica della cultura, è quella della « riduzione » culturale, cui è stato dedicato l'unico fascicolo monografico della rivista (n. 23, gennaio '72). Tale proposta può essere qui sintetizzata in due dei suoi principali enunciati: a) « riduzione come semplificazione », in vista di una utenza culturale di massa, e di un generaliz zato accesso alle istituzioni e alla fruizione dei beni cultu rali; b) « riduzione delle discipline alle loro strutture», in vista di una rifondazione dei vari campi disciplinari, oggi disordinatamente proliferanti come, per così dire, aggregati di cellule impazzite. Notiamo per inciso/che, in un momento culturale così povero di idee, una proposta come quella della 9
10
«riduzione» (poi sviluppata nell'omonimo volume), artico lata in una pluralità di aspetti in gran parte dominati da una angolazione pedagogica, non ha avuto l'attenzione che ragionevolmente era lecito attendersi. E ciò sia nell'ambito del dibattito sulla riforma della scuola e dell'università, sia nell'ambiente della critica; evidentemente nel primo attrag gono più gli apparati (contrabbandati per strutture) che non i contenuti disciplinari, e nel secondo il terrorismo cultu rale prevale sulla volontà di farsi capire. Ritornando ad « Op. cit. », la proposta della « riduzione» culturale - peraltro non priva di connessioni con le ricer che nella linea semiotico-strutturale - ha caratterizzato ul teriormente la redazione del periodico, e ciò essenzialmente sotto tre aspetti: il primo concernente la selezione dei temi, operata in base al criterio di un loro più diffuso interesse; il secondo riguardante la messa in evidenza dei principi-base ovvero, in altri casi, dei tratti più significativi dei temi affrontati; il terzo centrato sul tentativo - e su questo tor neremo - di una massima semplificazione del linguaggio adottato. Altre linee di ricerca hanno trovato ampio spazio nella rivista: la sociologia dell'arte, lo storicismo, le teorie della valutazione, la culturologia ecc. hanno costituito nuclei di aggregazione per molti temi indipendentemente dal modo della loro esposizione; detti filoni si ritrovano sia nel saggio dell'autore esterno, sia nelle rassegne redazionali, sia infine . in scritti articolati come raccolte di definizioni. A questo punto, va detto che proprio quanto, nell'ultimo paragrafo, vale a completare gli aspetti informativi e, rite niamo, positivi del lavoro fin qui svolto dalla rivista, al tempo stesso vale a introdurre gli aspetti problematici e ancora irrisolti. Infatti, la pluralità degli orientamenti e dei temi, se da un lato è indice della «apertura• della rivi sta, dall'altro riflette l'eterogeneità degli apporti; la tem pestività e talora l'anticipo nella trattazione di molti argo menti, si pagano in termini di rigore ed esattezza; l'aggancio con l'attualità comporta la rinuncia ad una programmazione a lungo termine; l'anticonformismo di talune rassegne (e
valgano per tutte La critica discorde, apparsa nel n. 4, set tembre '65 e Luoghi e luoghi comuni della recente critica d'arte, nel n. 43, settembre '78) non nasce sempre come deli berato intento - così come avremmo voluto - bensì talvolta come immediata reazione a momenti di acritico consenso; la scelta di una netta separazione tra politica e cultura, se costi tuisce per noi un fattore caratterizzante e irrinunciabile, al tempo stesso implica la perdita di più facili e diffuse connes sioni referenziali; la conduzione che abbiamo definito « in eco nomia», se da un lato ci affranca dai gruppi di potere, dai comitati redazionali, dalle indagini di mercato, dalle lentezze burocratiche e dai « ritardi tecnici», dall'altro ci costringe entro i limiti facilmente intuibili che le sono propri. In somma, questa rivista quadrimestrale che appare - e po trebbe essere - programmata con grande anticipo, in realtà assai spesso si chiude, come un quotidiano, al momento di andare in tipografia, e la sua puntualità - che in Italia appare pressoché svizzera - si deve talvolta al potere riso lutivo di una « trovata». Sarebbe facile far seguire a questo elenco di difficoltà una equivalente lista di giustificazioni. Ma poiché stiamo par lando di programmi e delle linee di sviluppo del nostro futuro lavoro, non intendiamo confondere le difficoltà con ciò che realmente sono, ossia delle vere e proprie contrad dizioni. La maggior parte di esse, se non tutte, sono ricon ducibili ad una aporia di fondo: il contrasto cioè fra l'ini ziale intento di produrre uno strumento di larga informa zione e facilmente utilizzabile - com'è proprio dell'idea di selezione - e il risultato che, soprattutto per la difficoltà di linguaggio - intendendo questo come comunicazione in senso ampio - di fatto smentisce quell'intento (e l'accusa di redigere una rivista e difficile » è quella che più ci ramma rica). La causa del contrasto sta nell'attuale organizzazione della rivista, che difetta di tutti quei mezzi e quelle tecniche che rendono più accessibili e comunicativi i prodotti edito riali, quali la specifica finalizzazione degli apporti (in « Op. cit. », viceversa, molti articoli mirano solo ad essere titoli universitari); una equilibrata presenza dei vari settori, rea- 11
12
lizzata con apposite rubriche; l'omogeneità garantita dal rewriting; il potere comunicativo delle immagini (la loro mancanza costituisce la carenza più grave per un periodico d'arte); la completezza dell'informazione, assicurata anche da inviati e corrispondenti; una capillare distribuzione. A que st'ultimo punto si connette anche il problema della diffusione all'estero, che molte riviste curano attraverso i sommari in lingua straniera, mentre la circolazione di « Op. cit. » è limi tata, se pure con fortuna, ai soli paesi di lingua latina. La soluzione del contrasto suddetto può trovarsi, ci pare, in due soli modi: o si cambia la struttura organizzativa del periodico, trasformandolo da prodotto artigianale in uno industriale, che si avvantaggi di tutte quelle possibilità ap pena elencate, ma ciò comporterebbe anche la perdita del più tipico carattere di « Op. cit. », o, per conservare questo, occorre ingegnarsi a trovare criteri riformatori che modifi chino la rivista senza snaturarla. Ad entrambe queste solu zioni è disponibile il concreto ed esperto apporto dell'amico Arturo Carola, che ne è l'editore; il che, se ci pone nella condizione di poter decidere liberamente, al tempo stesso ci impegna nell'assumere noi per intero la responsabilità della scelta. Allo stato attuale - e con l'esperienza di altre riviste che, esordendo con più ambiziosi programmi s<;>ste nuti da forti gruppi editoriali, alla iniziale regolarità hanno visto seguire l'intermittenza via via più discontinua e di stanziata di numeri doppi e tripli sino alla totale cessa zione - optiamo per la seconda alternativa. Che cosa intendiamo con l'espressione « ingegnarsi a tro vare criteri riformatori»? In linea generale, trarre indicazioni dal modo in cui i lettori hanno accolto il nostro lavoro - la scelta dei temi e la maniera della loro esposizione: di ciò possiamo avere esperienza diretta in quanto, grazie all'as senza di mediazioni tipica della nostra organizzazione, siamo in grado di misurare esattamente il maggiore o minore suc cesso di ogni singolo numero. Ma, più in particolare, con fermare in primo luogo il carattere originario della rivista, intensificando il ricorso alle rassegne che, assai meglio dei saggi, rispondono all'intento della selezione e dell'informa-
zione. In secondo luogo, senza rinunciare alla pluralità degli interessi finora toccati, dare più spazio a quei campi che, per un motivo o per l'altro, si sono dimostrati paradigmatici, ossia in grado di dar vita non a scritti episodici, bensl a filoni di ricerca. Ancora, sviluppare rapporti più stabili con istituzioni assunte non solo come fonti di informazione, ma soprattutto come punti di riferimento e parametri degli orien tamenti di più flagrante attualità. Infine, poter disporre di una maggiore quantità di materiale, il che ci consentirebbe di meglio programmare, selezionare, rivedere (e magari «riscrivere») i vari contributi. Quest'ultimo punto, compor tando comunque più intensi rapporti con l'esterno, si traduce anche in un invito alla diretta partecipazione dei nostri let tori, molti dei quali non sono solo fruitori, ma anche poten ziali produttori di cultura. Da tutto quanto precede appare chiaro che abbiamo molti problemi, alcuni dei quali forse insolubili; rifiutiamo però la confusione fra problemi e crisi. In un clima culturale che - segnatamente nel campo della storia e della critica delle arti - è dominato dalla noia, dalla stanchezza e dalla sfiducia, chi come noi trova ancora nel proprio lavoro il piacere di «inventare» continuamente temi e argomenti, di sperimentare ipotesi, di proporre idee e non di riproporre fatti di cronaca, non può, per definizione, considerarsi in crisi. Né « Op. cit. » è una rivista della crisi. Non ci sono con geniali i disegni totalizzanti, le grandi idee risolutive, i con sensi unanimi, le integrazioni proprie a più felici stagioni culturali, né quindi ci angoscia la loro assenza dall'orizzonte contemporaneo. Pertanto, pur avvertendo ogni difficoltà di un momento come l'attuale, riconosciamo in una linea di pensiero costruttivo l'unica ipotesi di scelta razionale, e ri vendichiamo quindi il nostro atteggiamento positivo e pro positivo come forse il solo possibile anticonformismo.
13
L' architettura all' Ecole des Beaux-Arts ANNA GIANNETTI
Su pochi argomenti, come sull'architettura delle Beaux Arts, è forte il peso di una tradizione critica avversa. L'or rore del termine « accademia • ha generato infatti malintesi e confusione che il più recente interesse per quella produ zione architettonica - ricordiamo tra le altre manifestazioni la mostra organizzata da A. Drex.ler al Museurn of Modem Art di New York nel 1975 e quella curata dall'Architectural Association di Londra nel maggio 1978 - ha solo in parte fugato. La stessa durata dell'Ecole si considera in genere avente inizio nel 1816, trascurando i due secoli precedenti di storia di questa istituzione che, con una continuità quasi ininterrotta, opera in Francia dal 1671 al 1968. Le note che seguono tentano di tracciare un profilo di questo organismo da un punto di vista didattico e istitu zionale per mettere in luce, accanto alle incontestabili ombre, anche quegli aspetti positivi che lo collegano alla parte più viva del pensiero architettonico francese. Lungi da noi lo schierarci dalla parte degli accademici, il nostro intento sarà es.elusivamente quello di evidenziare, per quanto possibile nell'economia di questa rassegna, quei nodi critici che, a nostro avviso, sollevano ancora dubbi e perplessità e che spiegano altresì l'interesse crescente per tale fenomeno da parte di storici, critici e architetti. Nel 1671 era stata fondata da Colbert l'Académie Royale 14 d'Architecture a conclusione dell'ampia riforma dell'insegna-
mento e dei mestieri, iniziata da Richelieu nel 1635 con la creazione della Académie Française e proseguita da Mazarino con quella, nel 1648, della Académie de Peinture et Sculp ture. L'accademia di architettura è un organismo composto di eminenti architetti di nomina reale che sviluppa la ricerca scientifica e che allo stesso tempo rappresenta una fase di rottura rispetto alla struttura corporativa medievale nella organizzazione del mercato del lavoro. L'Accademia d'Architettura ... offri a Colbert l mezzi per attaccare le corporazioni medievali che non erano sotto il diretto controllo regio. Le accademie attiravano architetti, pittori, scultori elevandoli nella gerarchia sociale dal rango di artigiani a quello di filosofi 1• Nascendo come istituzione regia e non come organismo autonomo, avrebbe aumentato in tal modo la gloria del re... cosi affinché l giovani archi tetti del reame potessero beneficiare dei suoi studi... furono date lezioni pubbliche, inizialmente due giorni alla setthnana, in teoria dell'architettura... ed anche in aritmetica, in geo metria, in meccanica, in architettura militare, in fortificazioni, in prospettiva ed in taglio delle pietre 2• Nel 1717 l'Académie riceve con le lettres patentes del Duca d'Antin il primo statuto avente valore legale e quella organizzazione interna e didattica che sarà conservata immu tata fino alla Rivoluzione. Essa era composta da due classi: la prima, costituita da dieci architetti, un professore e un segretario; la seconda, da dodici architetti. Nessuno degli accademici della prima classe doveva esercitare la profes sione. Quelli della seconda classe potevano svolgere la pro fessione, ma solamente per le costruzioni reali 3• La ragione di questa impedita professionalità va ricercata nel fatto che l'Accademia non era solamente un consesso di esperti, essa costituiva quello che noi chiamiamo oggi il consiglio del lavori pubblici, ed è per questo che gli ufficiali delle costru• zioni reali, intendenti e controllori generali, potevano assi stere alle sedute, e per· la stessa ragione il primo architetto del Re era il direttore dell'Académle 4• Quanto all'attività didattica dell'Académie, limitata fino al 1717 a lezioni e dibattiti pubblici, da questa data assume
15
16
forma compiuta come corso della durata dì due o tre anni da novembre a settembre, organizzandosi sulla base dì due principi fondamentali, conservati per più dì due secoli. Il primo consiste nella separazione dell'insegnamento pratico da quello teorico, impartiti rispettivamente negli ateliers e nell'Académie dagli stessi accademici. Questi continuarono ad avere apprendisti a cui insegnavano la loro arte; un allievo dell'Accademia di Architettura imparava a disegnare non ll ma nella bottega, l'atelier del suo maestro... all'Accademia le lezioni erano principalmente conferenze; ciò che veniva insegnato era materia comunicabile con le parole 5• Il secondo consiste nei concorsi mensili e finali che per due secoli e mezzo vennero ad essere la parte più importante dell'inse gnamento architettonico francese 6 e che iniziano regolarmen te nel 1720 con l'assegnazione delle prime medaglie premio. L'invio a Roma, che rappresenta la conclusione del ciclo didattico e la fase ulteriore di perfezionamento, non è an cora direttamente collegato alla vittoria del Grand Prix di architettura per tutto l'ancien régime, ma è solo un favore concesso dal re. Con l'avvento della Rivoluzione l'istituto suddetto entra in crisi e viene fortemente revocato in dubbio da critiche che ne investono le più profonde radici culturali. Nel 1793, a conclusione della dura battaglia condotta da David, tutte le accademie vengono soppresse e due anni dopo un de creto « sulla organizzazione della pubblica istruzione ,. ristrut tura tale settore della vita pubblica. In realtà questa sop pressione delle accademie non era il semplice risultato di idee politiche, ma la conseguenza delle teorie che, da più di cinquant'anni, si erano diffuse tra il pubblico. Se la sensi bilità è la facoltà padrona dell'artista, è anche quella dello spettatore. Ogni essere dotato di questa qualità, considera vano già Diderot e Rousseau, è dunque capace di formulare un giudizio estetico, vale a dire un giudizio di valore. L'opera d'arte non è più destinata ad una piccola élite, ad una ari stocrazia, ma a tutto il popolo... Da cui per quale motivo mantenere del corpi privilegiati che pretenderebbero di detenere ed insegnare la verità artistica, il buon gusto? 7
Inoltre si può dire, e vale la pena sottolinearlo, che l'Aca démie viene soppressa perché coinvolta in una polemica che la riguarda ben poco: da oltre un secolo, l'Académie d'Ar chitecture aveva reso servigi eminenti sia come scuola, che come consiglio dei lavòri pubblici, che come nucleo di esperti... Non aveva mai provocato contro di sé scontento grave; non era stata affatto ostile alle innovazioni, fossero queste tecniche o politiche: il 2 marzo 1789 dava come sog getto al Concours d'émulation: « un edificio per raccogliere gli Stati Generali di una grande nazione». L'Académle de Peinture et de Sculpture era al contrario l'oggetto delle ostilità. Era lei che organizzava i Salons, che aveva ottenuto da Angiviller la soppressione delle esposizioni rivali e della corporazione di San Luca. Era in se stessa divisa: David le rimproverava i metodi d'insegnamento e nutriva nei suoi confronti un rancore, le cui origini non erano tutte di ordine generale 8• Durante la fase rivoluzionaria però, nonostante le dichia razioni di principio di David, nulla cambia nell'insegnamento delle discipline artistiche: non gli uomini, non i metodi, non la struttura didattica. L'unico atto di riforma intrapreso è la separazione dell'insegnamento dalla ricerca, attraverso la scissione delle competenze della soppressa Académie: viene riaperta infatti la scuola nel 1795, col nome di Beole Spéciale d'Architecture, ed affidata al Leroy, buon amico di David e già docente durante l'ancien régime; mentre l'attività di ri cerca delle Beaux Arts e della Letteratura viene affidata alla terza classe del nuovo Institut National des Sciences et des Arts, in cui sono state raccolte le discipline artistiche dal decreto del 1795. I membri però di questa nuova istituzione e tutt'e sei gli architetti in essa presenti provengono dal corpo docente della soppressa accademia. Importante è an che la separazione del Grand Prue dal ciclo didattico gestito dall'Ecole; si affida cioè l'assegnazione dei premi dei concorsi finali, ovvero il momento conclusivo della lunga selezione operata fra gli allievi, ad un corpo estraneo alla scuola, anche se composto da architetti formatisi in essa ed in essa docenti. 17
La scuola, in realtà, durante il periodo rivoluzionario si può dire che riesca appena a sopravvivere; il numero degli allievi infatti scende a 37 e la situazione generale è sen z'altro complessivamente più grave di quella che si verifi cherà in Italia. Emigrati, nascosti, imprigionati, rovinati, s� spettati, tutti questi architetti smisero di lavorare e l'attività edilizia si può considerare bloccata fino all'avvento del Con solato. Essa fu frenata a partire dal 1791 dal numero delle vendite immobiliari e dall'inquietudine che provocavano gli avvenimenti. Dopo 1'8 Termidoro, allorché sembrava rista bilirsi la tranquillità, le ultime giornate popolari e la crisi finanziaria paralizzarono l'edilizia... Durante il Direttorio la perdita di valore della proprietà bloccò le imprese... solo i finanzieri, i « munitionnaires », fanno costruire dimore son tuose 9• Le trasformazioni politiche in atto e la scomparsa della committenza nobiliare e regia costringono gli archi tetti a cercare uno sbocco nell'attività statale, che però viene anch'essa ripresa in maniera continua ed organica solo con l'avvento di Napoleone. Come scriveva Dufourny nel suo rap porto sul completamento del Louvre che sottopose all'In -stitut il 13 Germinale Anno V (2 aprile 1797): « Disseccate da sette anni di sterilità, le arti del disegno hanno bisogno di lavori che le traggano prontamente fuori dallo stato di lan guore in cui sono cadute. Invano sl accumulerebbero con grande spesa nel nostri musei l capolavori della Grecia e dell'Italia, invano con studi assidui l nostri artisti arrive rebbero a possedere lo stile e lo spirito di questi grandi modelli se sono ridotti alla sterile contemplazione, se manca loro l'occasione di mettere in pratica quello che hanno ap preso... L'Italia trabocca di ricchezze artistiche ma non c� struisce più... La stessa sorte minaccia le nostre arti e l nostri prodotti, se il governo... non viene prontamente al loro soccorso, le risorse che offriva loro l'antico ordine delle cose sono quasi tutte esaurite. La corte non esiste più, il culto cattolico, spogliato delle sue ricchezze, non è in condizione di alimentarli; gli antichi ricchi trovano ap pena riparo nelle loro fortune, non possono più fare sacri• 18 fici in loro favore e I nuovi.;. sono molto lontani dal fare
della loro ricchezza sì nobile uso. La loro unica speranza è nel governo» •0• Gli stessi temi e la stessa richiesta di imme diato intervento statale compariranno nel discorso tenuto da Canova a Napoleone sullo stato delle arti in Italia 11• La situazione d'oltralpe però risulta più articolata. Da un lato, la riorganizzazione rivoluzionaria separa le Beaux Arts dai Bàtiments Civils: in virtù della legge del 12 Genni nale Anno Il, il servizio delle Beaux Arts dipendeva dal Comitato dell'Istruzione Pubblica, quello del Batiments dal Comitato dei Lavori Pubblici 12 • Il che consente la com pleta liberalizzazione della professione di architetto che poteva essere esercitata da chiunque previo il pagamento di una tassa. Nascevano in tal modo le prime difficoltà del secolo per regolare l'esercizio professionale degli ingegneri e degli architetti Il. Dall'altro lato, si avvia conseguentemente il processo di burocratizzazione dell'apparato amministrativo francese, as sumendo tecnici all'interno della struttura statale. L'orga nizzazione didattica non è però, al momento, in grado di fornire questa nuova figura di tecnico. La rivoluzione fran cese lasciò quindi, rispetto a ciò che aveva ereditato dal l'ancien régime, istituzioni molto ridotte di numero e tutte concentrate a Parigi: sostitul un quadro istituzionale, coe rente solo sulla carta ed in grave crisi, con organismi fun zionali, cui fosse affidata la didattica, l'educazione nazionale 14• Si effettuano vari tentativi; primo fra tutti si tenta di trasformare in tecnici gli artisti incaricati della direzione dei lavori pubblici, eliminando ogni espressione del genio individuale, come dimostra I'instruction che Rondelet (mem bro del Conseil des Bàtiments) è invitato a scrivere nel 1795 per gli artisti assunti nell'amministrazione: Per prima cosa impedire che si faccia qualunque opera relativa all'edilizia civile a spese della nazione, senza che preventivamente non ne siano state ben constatate l'utilità, la necessità, ed l vantaggi che ne possono risultare 15• Il testo continua richie dendo che sia controllata la qualità dell'esecuzione e che i costi siano contenuti nei termini dell'economia, e altresì che gli artisti siano utilizzati per controllare la legittimità di
19
20
tutte le richieste di pagamenti già in corso. t!. evidente da queste istruzioni quali profonde trasformazioni, per la figura dell'architetto, richieda la tanto auspicata collaborazione con lo stato rivoluzionario. Ma l'innovazione di gran lunga più significativa sta nella nascita dell'istituzione didattica più nuova e famosa, che realizza in concreto quelle esigenze che lo stato rivoluzionario e comunque la società moderna ave vano configurato: l'Ecole Polytechnique. Questa scuola, fondata nel 1795, prende il posto dell'Ecole Centrale des Travaux Publics, la quale, fondata nel 1794, aveva sostituito a sua volta sia la vecchia Ecole des Ponts et Chaussées del 1747, sia alcune piccole scuole reali d'in gegneria, sia l'Ecole du Génie a Mezières fondata già nel 1748, e sia, per un certo periodo, la scuola dell'abolita Aca démie. L'ipotesi dell'unificazione dell'insegnamento dell'archi tettura e dell'ingegneria all'interno di una nuova istituzione rispondente a tutti quei requisiti richiesti dalla amministra zione rivoluzionaria alla nuova figura di tecnico trova un certo seguito in personaggi come Rondelet. Questi, già nel 1789, al termine dell'indagine commissionatagli dalla Conven zione aveva suggerito l'istituzione di una scuola pratica per formare gli architetti e gli ingegneri necessari all'edilizia pubblica 16• L'Ecole Polytechnique è un'istituzione completamente ori ginale, sorta dalla collaborazione di alcuni membri del Comi tato di Salute Pubblica con un gruppo di savants di chiara fede repubblicana, e destinata alla formazione teorica degli allievi ingegneri che, dopo un corso di due anni, si sareb bero specializzati nelle altre Ecoles, des Ponts et Chaussées di Parigi, d'Application d'Artillerie et de Génie militaire di Metz, des Mines di Parigi e du Génie maritime di Brest. Sotto la direzione di Monge, coadiuvato da Carnot e La grange, si sostituisce alla vecchia tecnologia applicata uno studio teorico altamente qualitativo, che sia utilizzabile in tutti i campi della tecnica e quindi di base per ogni tipo d'insegnamento. Oltre alle nozioni generali comuni alle varie tecnologie s'insegna alta matematica, chimica, fisica e principi di architettura.
II rapporto fra ingegneri e architetti s'inverte rispetto all'ancien régime: se l'importanza culturale e amministra tiva dell'Académie (non va dimenticato infatti che da essa dipendeva il consiglio dei lavori pubblici) aveva oscurato il ruolo degli ingegneri e delle loro scuole, relegando la loro attività in alcuni settori secondari, ora l'unificazione degli insegnamenti ingegnereschi in un'unica scuola e con un unico metodo, ideati da Monge proprio col fine di porre la scienza al servizio dello stato repubblicano, dà uno scos sone definitivo alla già precaria condizione degli architetti. Inoltre la possibilità di utilizzazione da parte dello stato dell'élite degli ingegneri uscita dalla scuola si dilata venendo ad includere il settore dell'edilizia pubblica fino ad allora monopolio dell'Académie e dei suoi membri; e l'ingegnere anche durante il periodo napoleonico ed oltre, fino cioè alla riorganizzazione degli studi architettonici intorno al 1820, di venta l'elemento portante del sistema amministrativo fran cese fino nei più remoti dipartimenti. Anticipando una conclusione sul rapporto fra architetti e ingegneri, va detto che esso non fu così lineare e così decisamente a favore dei secondi, come sostiene la gran parte della critica. L'immensa influenza dell'Ecole Polytech nique nei primi trent'anni dell'Ottocento si può far risalire alla circostanza che la scuola si era proposto con piena con sapevolezza un compito immenso: il primo tentativo di sta bilire un vincolo fra scienza e vita, di immettere nell'industria le applicazioni pratiche delle scoperte in campo matematico e fisico [ ...]. Da quel tempo in poi l'ingegnere invade uno dopo l'altro i campi dell'architetto. Con assoluta inconsape volezza il costruttore, durante l'Ottocento, fece la parte del pioniere per conto dell'architetto. I nuovi mezzi che egli continuò ad imporre all'architetto forzarono questi ad avven turarsi in strade inesplorate. Egli infranse i formalismi rituali ed artificiosi dell'architetto, bussò con forza alla porta della sua torre d'avorio. E rimane una delle principali funzioni della tecnica costruttiva quella di arricchire l'architettura con stimoli ed incentivi a nuovi progressi 17• Assunti come questo risultano eccessivamente riduttivi della questione. In- 21
22
fatti, non è solo il loro maggiore legame con la realtà indu striale a segnare la prevalenza degli ingegneri, quanto piut tosto le idee scientifiche che erano alla base della loro metodologia didattica, l'unificazione degli insegnamenti, ma soprattutto la loro rigida organizzazione che si traduce addi rittura nella militarizzazione della scuola. Infatti, avendo gli allievi dell'Ecole Polytechnique accolto con aperta osti lità il colpo di stato di Napoleone, questi, con la legge del 9 Frimaio Anno VIII, li assimilò alle guardie nazionali in servizio attivo, trasformando la scuola in una caserma. Ma ritorniamo alle specifiche vicende di questa istituzione. Nonostante la diffidenza politica del Nuovo Console, la scuola non perse di vitalità e nel 1805 aveva 319 allievi in terni, 85 laureati annuali e 125 nuovi iscritti. L'esempio fran cese è seguito da molti altri Stati continentali; nel 1806 w1a scuola tecnica superiore è istituita a Praga, nel 1815 a Vienna, nel 1825 a Karlsruhe. L'ordine degli studi - in queste scuole come nelle altre che verranno - è sempre modellato su quello parigino 18• Nel 1811 si verifica la prima trasposizione dell'esperienza francese in Italia con la Scuola Politecnica e Militare di Napoli ad opera di Murat, la quale, dopo due anni di corso, fornisce gli allievi della Scuola di Applica zione del Corpo degli Ingegneri di Ponti e Strade aperta nello stesso anno. E veniamo all'insegnamento dell'architettura presso l'Ecole Polytechnique. Esso, nella logica di unitari principi teorici estendibili ad ogni caso pratico, si ispirava alla lezione di J. L. N. Durand, allievo di Boullée e autore di due famosi trattati, Recueil et Parallèle des Edifices de tout genre Anciens et Modernes (1800) e Précis des Leçons d'Architecture Doa nées à l'Ecole Polytechnique (1802-1805). Secondo gli indirizzi della Convenzione, Durand ripeteva che scopo dell'architet tura è l'utilità pubblica e privata; dettava regole semplici, grande motivo di successo per i peggiori trattati o manuali d'architettura, ma anche in sé tentativo ingenuo di « riduzione scientifica •: e quindi in fondo occasione, o meglio tentativo ancora oggi non ripreso, per delimitare il campo dell'analisi e del progetto a fini scientifici: metodo da insegnare in una
scuola d'ingegneria, dove l'architettura incominciava ad es sere non materia di particolare importanza o riguardo, ma tale da poter essere appresa in poco tempo 19 • Questo sinte tico giudizio sull'opera teorico-didattica di Durand va esteso per cogliere quelle valenze che nel brano citato vengono tra scurate o addirittura svalutate. La trattazione di Durand investe anzitutto la questione del « bello » architettonico, nel tentativo di sostituire alla bel lezza del modello di imitazione quella del prodotto stesso, o meglio, delle qualità che questo esprime; egli infatti scrive: Noi siamo lontani dal pensare che l'architettura non possa piacere; diciamo al contrario che è impossibile che non piaccia, quando è trattata secondo i suoi veri principi 20. L'architettura quindi ha le leggi della sua estetica in se stessa e sono le leggi stesse del suo realizzarsi. Le qualità della bellezza del modello antico appartengono ormai allo stesso passato che le ha prodotte; ma c'è bisogno di correre dietro a tutto ciò (grandiosità, magnificenza, varietà)? Se si dispone un edificio in maniera conveniente all'uso al quale Io si destina, non differirà sensibilmente da un altro edificio destinato ad un altro uso? Non avrà naturalmente un carat tere, e, in più, un suo proprio carattere? 21 Così la stessa piacevolezza della visione è assicurata dalla corrispondenza tra forma e funzione. A questo punto soltanto la definizione scientifica del processo architettonico può impedire il risor gere della questione dell'arbitrio della creazione. Liberata dalla capanna di Laugier come dal Partenone, l'architettura deve trovare nel suo farsi scienza la sicurezza della sua arte: l'architettura essendo fatta per l'uomo e dall'uomo, non può che trovare questi mezzi nella sua maniera di �ssere 22• La traduzione didattica del programma di una « scienza dell'architettura » può considerarsi incarnata nella cosiddetta grille polytechnique e nelle regole compositive che la ispi rano: lo studio degli elementi e del loro ordine combina torio. La composizione dell'insieme degli edifici non essendo che il risultato dell'assemblaggio delle loro parti, bisogna conoscere queste, prima di occuparsi del resto e • queste parti non essendo esse stesse che un composto del primi 23
24
elementi degli edifici, dopo lo studio dei principi generali da cui tutti I principi particolari devono derivare, questi primi elementi devono essere I primi oggetti dello studio di un architetto 23• Durand analizza quindi tali elementi partendo dagli aspetti morfologici fino a quelli statici, e tutte le loro combinazioni verticali ed orizzontali tra loro e rispetto al tutto, e come da tali combinazioni si possano derivare quelle complessive in base all'uso. La stessa maglia quadrata che permette di semplificare il problema della disposizione oriz zontale degli elementi diventa una fase di un processo com binatorio più complesso ed infinito. Così Durand descrive la sua grille: Dopo aver tracciato assi paralleli ed equidistanti e aver condotto attraverso di essi altri assi perpendicolari e distanziati In ugual misura, si pongono sugli assi i muri, alla distanza di tanti segmenti di asse quanti si giudica conveniente, e sulle Intersezioni degli assi le colonne, i pi lastri, ecc.; in seguito si dividono a metà I segmenti di asse e sul nuovi assi che risultano da questa divisione si pongono le porte, le crociere, le arcate, ecc. 24• Ma l'uso di tale maglia non esaurisce l'insegnamento di Durand, né si esaurisce in quello stereotipo ingenuo e meccanico che successivamente la gran parte della critica ha configurato. Che la linea di Durand sia per lui stesso problematica è dimostrato, tra l'altro, dalla distinzione di procedimento che egli effettua fra una fase didattica ed una di progettazione vera e propria: Combinare tra loro i diversi elementi, passare poi alle diffe renti parti degli edifici, e da queste parti all'insieme, questo è il cammino che si deve seguire, quando si vuol imparare a comporre; al contrario, quando si compone si deve co minciare dall'insieme, continuare con le parti, e finire con i dettagli 25• Questi cenni sull'insegnamento di Durand, nell'economia del • nostro discorso, chiudono la parentesi sull'Ecole Poly technique che, d'altra parte, fino agli _anni '40 non subi sce alcuna trasformazione né in campo didattico, né istitu zionale. I tradizionali studi di architettura intanto continuano presso l'Ecole Spéciale d'Architecture, filiazione, come s'è
detto, della soppressa Académie Royale, per tutto il periodo napoleonico. L'unico intervento del Bonaparte in favore del l'insegnamento artistico è la creazione della quarta classe dell'Institut, battezzata Académie des Beaux-Arts, che libe ra le arti del disegno dalla convivenza forzata con la lette ratura e che, articolata per Sections, garantisce uno spazio autonomo ad ognuna delle diverse discipline artistiche. Nel 1816 la suddetta Ecole Spéciale d'Architecture diventa l'Ecole Royale et Spéciale des Beaux-Arts che comprende, divise in sezioni, le tre discipline artistiche principali. Ed è a questa istituzione, soppressa soltanto nel 1968, che ci si riferisce solitamente quando si parla dell'architettura delle Beaux-Arts. Nel 1819 la sezione di architettura riacquista appieno la sua indipendenza, ma è nel 1823 che il curriculum degli studi viene definito in quella struttura che, tranne lievi riforme, rimarrà in vita fino al nostro secolo. Questo nuovo orga nismo rappresenta in fondo l'ulteriore affinamento e chiari ficazione di una stessa concezione della didattica che discende direttamente dall'Académie settecentesca: ripartizione del l'insegnamento teorico e di quello pratico fra l'Ecole e gli ateliers; uso dei concours come strumento di selezione pro gressiva fino al livello del Grand Prix; proclamazione di un solo vincitore annuale. A ciò va aggiunto che quella do manda di tecnici, che si era venuta configurando durante il periodo rivoluzionario e napoleonico, in risposta al processo di burocratizzazione avviato nell'amministrazione, continua almeno fino al 1848, spingendo la scuola ad elaborare un metodo di progettazione, ossia una « tecnologia », simile a quella creata da Monge nell'Ecole Polytechnique, basata cioè su principi generali. Questa impostazione consente all'Ecole di accettare al suo interno orientamenti progettuali diversi: tutte le correnti dell'attività architettonica francese - quelle capeggiate da Charles Percier, da Henry Labrouste, da Char les Garnier e per pochi mesi nel 1863/64, da Eugène Emmanuel Viollet-Le-Duc - cercarono uno spazio nel si stema. Le relazioni erano faticose ma ognuno cercò di lavo rare nella struttura esistente 26• 25
26
L'organizzazione didattica è simile ad una piramide com posta da quattro gradini, che rappresentano i differenti livelli di selezione che ogni studente supera senza scadenze precise. Il livello più basso è quello dell'esame di ammissione che vette sulle materie relative al disegno ed alle discipline tecnico-matematiche. Per parteciparvi lo studente deve esi bire una lettera di presentazione di un artista noto, cioè dev'essersi trovato un patron, nel cui atelier iniziare l'ap prendistato. La preparazione all'ammissione richiede in ge nere due anni. Superato questo primo livello, l'aspirant di venta élève ed entra nella seconda classe. A questa segue, dopo le prove previste, la prima. Il ritmo delle ammissioni passa dai sei allievi del 1803, ai . trentasette del 1820, ai novantasette del 1890. Le materie studiate nelle due classi sono sostanzialmente simili, muta solo il livello di appro fondimento. Il curriculum è formato da concours d'éniulation che rappresentano il momento del giudizio e della selezione per le materie compositive - mentre per quelle scientifiche sono previsti esami scritti ed orali - e da lezioni tenute dai docenti delle varie discipline. Per essere promosso alla prima classe lo studente deve aver superato quattro concours annuali, tre per i diversi materiali in uso (legno, ferro, pietra) e uno di constructions générales, più quelli di matematica, di prospettiva e di composizione. L'organizzazione della classe superiore, pur essendo del tutto simile, attribuisce maggior peso ai sei Esquisses e ai sei Projets rendus che rappresen tano i sei Concours per l'architettura. t:. questa infatti la fase preparatoria per l'ultimo livello, il Grand Prbc, che co stituisce lo scopo e la conclusione di tutto il corso di studi. La conquista del premio non solo comporta il diritto di soggiorno per quattro anni a Roma presso· l'Accademia di Francia, ma garantisce al ritorno la quasi automatica assun zione da parte del governo, come addetto a qualche edificio pubblico o nell'amministrazione. t:. questa l'organizzazione didattica all'interno della quale si viene ad esercitare il dominio teorico di A. C. Quatremère de Quincy. Questi, massimo esponente della linea classicista, aveva rappresentato all'Assemblea gli artisti non accademici
nel 1791, era stato l'ideatore di una scuola idéale-antique di impronta napoleonica durante la Convenzione e, dopo la nomina nel 1804 all'Institut, era diventato nel 1816 Secrétaire Perpétuel dell'Académie. Se il trasformismo di Quatremère bene simboleggia l'usura dell'idea rivoluzionarla durante li Consolato, l'Impero, la Restaurazione, nel campo della poli tica artistica 27 , il suo stesso neoclassicismo accademico, espresso nel Dizionario storico d'architettura (1792-1825), coesiste con i motivi romantici rintracciabili nel Saggio sulla natura, il fine ed i mezzi dell'imitazione nelle belle arti del 1823. Inoltre, può essere comprensibile pensare che la sua or todossia dottrinaria rifletta quella dell'Académie e della sua scuola per tutta la sua storia, ma in effetti, li regno di Quatremère de Quincy, sebbene molto lungo, non fu onni potente. Fu combattuto nella maniera la più implacabile e con molto successo da una serie di Laureati del Grand Prlx: Gilbert, Blouet, Labrouste, Due, Duban e Vaudoyer, tutti determinati a introdurre nuovi temi di realtà e di vitalità nell'architettura contemporanea 28• Ancora, se la separazione, avvenuta nel periodo rivoluzionario, della scuola dal mondo dell'edilizia, le fece perdere quella capacità di verifica della sua produzione teorica e didattica attraverso l'esperienza pra tica del costruire, sospingendola nel campo della pura teoria, il fermento culturale al suo interno non venne meno, come dimostra l'azione dei giovani architetti sopra citati e lo stesso allontanamento di Quatremère dall'Ecole nel 1830. A questa data, il clima culturale era impregnato di sansi monismo (la « Exposition de la doctrlne de Saint Simon • è del 1828-30) estremo « trait d'union • fra giovani architetti e giovani ingegneri: il fallimento di questa intesa dipese dal mutato clima culturale e politico, come aspetto di quella crisi del secondo romanticismo, che confusamente impron terà il resto del secolo XIX. All'ambiente sansimonista si collegarono le prime proposte del positivismo: A. Comte... pubblicò il suo « Cours de philosophie positive • tra il 1830 e Il 1842: da questo trarrà incoraggiamento il processo tecno logico (ad opera di Navier), la ricerca scientifica, l'indagine storica e quindi anche quella critico-architettonica, ad 27
opera del Taine... che può quindi essere considerato suo allievo 29• Personaggio emblematico di questo clima è H. Labrouste. Allievo dell'Ecole, ottenne nel 1825 il Grand Prix de Rome e fu, fino al 1830, pensionato dell'Accademia di Francia a Roma; di qui inviò quei famosi progetti di restauro che tanto scandalo suscitarono a Parigi dando inizio alla sua lunga polemica con l'istituzione accademica, ma che gli atti rarono le simpatie dei giovani allievi liberali. Nel 1823 fu chiamato da un gruppo di studenti a tenere un atelier libre, rapidamente diventato il più importante di tutta la scuola. Questi giovani, maestro e allievi, non esitarono a definirsi « ratlonalistes: l'architecture sera en meme temps l'expression de la raison, dont la science ne permet pas de nous éloigner aujourd'hui » (Due), ma il loro ardore romantico, non li distaccò dalla formazione classicista, nemmeno nei più tardi anni della professione 30• Tale atteggiamento, le sue idee poli tiche, il suo successo professionale rallentarono molto la carriera di Labrouste che non divenne mai membro del l'Académie ed entrò a far parte dell'Institut solo nel 1867. Intorno agli anni '40 entra nella scena della cultura archi tettonica francese il grande outsider E. E. Viollet-le-Duc, ra zionalista non classico ma goticista, teorico del moderno re stauro, autore di celebri opere divulgative ed irriducibile avversario dell'Ecole, di cui pure tuttavia propone una ri forma. Questa, presentata a Napoleone III, prevedeva il di stacco definitivo dell'Ecole dall'Académie des Beaux-Arts, la sostituzione di alcuni docenti, l'introduzione di corsi di cul tura generale con quattro cattedre in storia e archeologia, storia dell'arte ed estetica, storia dell'architettura e teoria dell'architettura, nonché cattedre di architettura greco romana, gotica, rinascimentale che, com'è stato osservato, avevano lo scopo di opporre fra loro le diverse scelte stili stiche, nella speranza che, attraverso questo urto, tutti gli indirizzi si sarebbero annullati reciprocamente e sarebbe poi sorto uno stile nuovo Jt. Ma a parte questa riforma rimasta inattuata, l'opera di 28 Viollet-le-Duc nel suo complesso esprime l'intero dibattito
di quegli anni e riassume sotto l'egida della razionalità molti degli orientamenti del tempo, dall'empirismo al positivismo, che s'intrecciano in fatto di gusto ora con quello classico ora con quello romantico. Né furono immuni da tale empi rismo eclettico gli stessi ingegneri dell'Ecole Polytechnique, sempre beninteso giustificandolo con l'etichetta della ragione. In tal senso l'immagine corrente dell'Académie come blocco monolitico, impermeabile alle trasformazioni sociali e arroccata unitariamente sull'ortodossia dottrinaria di Qua tremère de Quincy, ci sembra quanto meno da rimettere in discussione; non foss'altro che per il forte condiziona mento ancora presente della polemica romantica contro di essa, nonché per una certa confusione tra la metodologia didattica e progettuale adottata nella scuola e gli elementi iconografici in essa utilizzati. Che la maniera di progettare adottata alle Beaux-Arts sia basata, come quella di Durand e dell'Ecole Polytechnique - a questo punto conclusivo del nostro discorso la distin zione fra le due scuole si annulla all'interno della metodolo gia comune - sulla possibilità di stabilire certe regole di or ganizzazione sintattica o di « composizione », ci sembra fuori di discussione. La ricerca di forme fisse, di elementi primari che classificati sistematicamente formassero un codice da utilizzare nel processo compositivo liberati dal sostrato della pratica tradizionale - ed è questo uno dei principali aspetti di attualità di tale metodo - non implicava necessariamente l'impermeabilità di questo alle domande della società. Così i soggetti per i Prix de Rome, specchio fedele degli orienta menti accademici, passano intorno agli anni '30 dai grandi temi di tutto il periodo precedente, carichi di valori ideali e realizzabili soltanto da un governo monarchico o rivoluzio nario che sia, ad argomenti più pragmatici ed aderenti ai nuovi compiti che il capitalismo assegna all'architettura, come stazioni ferroviarie, casinò, edilizia di lusso, ecc. All'interno di tale logica compositiva, basata sulla predo minanza assoluta della pianta rispetto all'alzato - altro fattore d'interesse attuale, già ripreso a suo tempo da Le Cor busier - la stessa utilizzazione di elementi eclettici non pone
29
in discussione la validità del metodo. Se all'interno delle regole fissate si usano elementi cinesi, romani o gotici, pre scindendo dalle loro specifiche valenze semantiche, il sistema rimane immutato. Anche se a questo punto le figure dell'archi tetto e dell'ingegnere tendono pericolosamente a coincidere. Anche la polemica trentennale di Viollet-le-Duc contro l'Académie ci sembra che in questa ottica sollevi qualche dubbio, non essendo stati, a nostro avviso, chiariti sufficien temente i rapporti fra tale esigenza di un codice dell'archi tettura e la ricerca di Viollet-le-Duc di individuare una logica costruttiva gotica nei suoi elementi principali e decorativi. Trovandosi in ciò un profondo elemento di contatto con la metodologia Beaux-Arts e la novità della sua teoria: la sosti tuzione cioè di una logica nuova a quella di origine classica. Gli stessi raparti che legano strettamente il Movimento Moderno tanto alla tradizione accademica e politecnica (ma lo stiamo scoprendo solo oggi) quanto a Viollet-le-Duc, ci sembra che escludano una netta frattura tra i neogotici razionalisti e gli architetti delle Beaux-Arts. t!. stato recentemente affermato: La cosiddetta teoria ar chitettonica utilizzata per sostenere il movimento moderno non è niente di più che un pot-pourrl di nozioni e di slogans isolati ispirati da Viollet-le-Duc e dal suo discepolo molto più conciso, Auguste Choisy, ma non riconosciuti per la maggior parte /.../ Ora che la fabbrica di immagini visive elaborata da Frank Lloyd Wright, Le Corbusier, e altri pro feti del giorno d'oggi, non costituisce più un sostegno suffi ciente per gli architetti, essi si sono rivolti verso l'architet tura dell'Ecole des Beaux-Arts, evoluta nel tempo, per attin gervi la loro ispirazione /.../ Ma ciò non sarà niente di più di un esercizio di compravendita di stile perché essi non sono pronti a studiare con reale serietà le teorie e le idee alla radice di una tale architettura; perché l'architettura del I'Ecole des Beaux-Arts, quando ciò aveva senso, era fondata su un disegno intellettuale 32• Il brano citato si commenta da solo. Per parte nostra, così come abbiamo premesso, ci siamo limitati a chiarire 30 qualche dubbio e a sollevarne di nuovi con l'intento di dimo-
strare che il fenomeno Beaux-Arts, in quanto problematico e complesso, non può essere facilmente archiviato. Resta tuttavia un dubbio: perché ad ogni revisione storica gli archi tetti associano tanto ingenuamente la loro sempre viva .atti tudine imitativa? R. CHAFEE, The Teaching of Architecture at the Ecote des Beaux in A. DREXLER ed. The Architecture of the Ecote des Beaux-Arts, Secker & Warburg, London, 1977, p. 61. 2 Ibidem, p. 62. 3 L. HAUTECOEUR, Histoire de t'Archilecture Classique, Edition Picard, Paris, voi. III, p. 458. 1
Arts,
4 Ibidem.
5 R. CHAFEE, Op. cit., p. 61. 6 Ibidem, p. 64. 7 L. HAUTECOEUR, Op. cit., Voi. V, p. 96. 8 Ibidem, p. 103. 9 Ibidem, p. 109. 10 Ibidem. li Cfr. A. CANOVA, Discorso a Napoleone Bonaparte, in M. MISSIRINI, Memorie per servire atla storia detla Romana Accademia di San Luca fino alta morte di Antonio Canova, Stamp. De Romanis, Roma, 1826. 12 L. HAUTECOEUR, Op. cit., p. 110. 13 R. GABETTI - P. MARCONI, L'insegnamento delt'architettttra net siste• ma didattico franco-italiano (1789-1922), in e Controspazio" n. 3, marzo
1971.
14 Ibidem.
L. HAUTECOEUR, Op. cii., p. 110. R. CHAFEE, Op. cit., pp. 72-73. 17 S. GIEOION, Spazio, tempo ed architettura, Hoepli, Milano, 1954, pp. 204-205. 1s L. BENEVOLO, Storia detl'arcllitetura moderna, Laterza, Bari, 1973, p. 39. 19 R. GABETTI - P. MARCONI, Op. cit. 20 J. L. N. DURANO, Précis des Leçons d'Archilectttre Données à t'Ecole Potytechnique, Didot Firmin, Paris 1802-1805, voi. II, p. 19. 15
16
2_1 Ibidem.
22 Ibidem, p. 23 Ibidem, p.
7. 28.
24 Cit. in E. KAUFMANN, L'architettura detl'Ittuminismo, Einaudi, Torino, 1966, p. 258. 25 J. L. N. DURANO, Op. cii., p. 92. 26 D. VAN ZANTEN, Archilectural Composition at the Ecote des Beaux Arts from Chartes Percier to Chartes Garnier, in A. DREXLER ed., Op. cii., p. 111. 'ti R. GABETII - P. MARCONI, Op. cii., in e Controspazio" n. 6, giugno 1971. 23 R. Mmm.ErON, Introduzione al fascicolo e The Beaux-Arts"• numero monografico della rivista « Architectural Design"• n. 11-12, 1978. 29 R. GABETII - P. MARCONI, Op. cit. 30 Ibidem.
JI R. GABETII - P. MARCONI, bre 1971. 32 R. MlnDlEfON, Op. cit.
Op. cit.,
in
e
Controspazio" n.. 9, settem31
.
Una griglia che non sia una grata GIUSEPPE
Fusco
Dell'« oggetto architettonico», in quanto prodotto dalla nostra esperienza vissuta, non si possono fornire principi analitici né operare scomposizioni, ma solo concepire « in genue» descrizioni in una prospettiva fenomenologica. Pe raltro possiamo, anzi, dobbiamo, in quanto tecnici, rivolgerci all'organismo edilizio per costruirne modelli coerenti ed ade guati alla sua conoscenza ed al perfezionamento, in sede progettuale, delle sue prestazioni. L'organismo edilizio è altra cosa dall'« oggetto architettonico», e le rispettive esperienze differiscono quanto « la geografia nei confronti del paesaggio in cui originariamente abbiamo imparato che cos'è una fo resta, un prato o un fiume» 1; tuttavia, poiché nelle prime non vi è niente di « dato», ma tutto vi è « costruito», la cono scenza dell'organismo edilizio costituisce l'indispensabile presupposto per la realizzazione delle condizioni stesse che danno luogo all'esperienza dell'oggetto architettonico. Di un organismo edilizio, comunque individuato, possiamo costruire svariate famiglie di modelli, ciascuna fondata su un qualche isomorfismo più o meno rigoroso. Si tratta cioè di istituire volta a volta una corrispondenza biunivoca tra la « partizione» di un tale organismo rispetto a determinate « classi di equivalenza» ed un insieme di simboli atto a rappresentarne gli elementi e le relazioni; in virtù di questo isomorfismo, operando sui singoli elementi secondo certe leggi 32 relazionali, al conseguente risultato dovrà corrispondere biu-
nivocamente il risultato ottenuto operando sugli elementi cor rispondenti della partizione secondo leggi interne alla parti zione stessa. Fra queste famiglie di modelli giova distinguerne qui almeno due più diffusamente adottate nella progettazione e nella interpretazione: quella dei « modelli edilizi » e quella dei « modelli comportamentali». I modelli della prima fami glia presuppongono l'istituzione di un isomorfismo tra la par tizione dello spazio fisico pertinente l'organismo edilizio ri spetto alle classi individuate dalle relazioni di equivalenza di determinate caratteristiche fisiche (tali relazioni sono ad esempio la densità, che dà luogo alle classi dei « vuoti » e dei « pieni », la natura dei materiali, le sollecitazioni statiche e dinamiche, le connessioni, etc.) ed un insieme adeguata mente strutturato di figure geometriche. I modelli della se conda famiglia si fondano sull'istituzione di una corrispon denza biunivoca tra l'insieme dei comportamenti tipici degli uomini (standards comportamentali sono ad esempio i « percorsi», le « stazioni», nonché le varie « attività» ripe titive che gli uomini svolgono nell'organismo edilizio) e l'in sieme degli spazi d'uso desunti da un modello edilizio. In questa sede ci interessano particolarmente gli aspetti metrici di queste due famiglie di modelli; essi possono essere adeguatamente rappresentati da un unico modello volumetrico. Per costruirlo istituiamo un isomorfismo tra l'insieme delle proprietà indipendenti dal tempo, dal luo go e dalla natura dei materiali ed una regione finita dello spazio tridimensionale euclideo (R3). Otterremo un sistema di superfici capace di determinare una partizione, caratteristica dell'organismo, della regione euclidea in volumi pertinenti. In tale partizione adotteremo il criterio empirico di attribuire le superfici di separazione tra due volumi con nessi a quello la cui parte corrispondente dell'organismo edilizio ha una maggiore densità fisica. Sicché i volumi che convenzionalmente vengono considerati « vuoti» corrispon deranno agli spazi «aperti» (dal punto di vista topologico) della partizione e quelli che vengono considerati « pieni» ai « chiusi ». In tale rapporto di complementarità accade spesso che un « aperto» sia completamente delimitato da un 33
34
«chiuso». Una precisazione va fatta nella classe dei «vuoti » in relazione alle concrete condizioni di «accessibilità», di «stazione» e; più in generale, di «fruibilità» desunte dai modelli comportamentali, onde distinguere la sottoclasse degli «spazi d'uso» da quella degli «spazi strumentali ». Una ulteriore specificazione di carattere empirico scaturi sce dalla scelta di un «riferimento» della regione spaziale del modello: si tratta dell'opportunità, che motiveremo più avanti, della scelta di una direzione corrispondente a quella della forza di gravità del modello edilizio, e di un piano, comunque individuato, ortogonale a quella. In conformità a tale rife rimento spaziale chiamiamo « direttrici» le linee delle su perfici « caratteristiche» che appartengono ad un piano oriz zontale e «generatrici» quelle che appartengono ad un piano verticale. Le famiglie di «direttrici» (di «generatrici») con tenute in un medesimo piano orizzontale (verticale) determi nano in esso quelle rappresentazioni del modello volumetrico che prendono il nome di «piante» («sezioni»). Sono le direttrici (generatrici) infatti a determinare la partizione del loro piano in superfici «aperte» e «chiuse», corrispondenti rispettivamente agli « aperti» e ai « chiusi» del modello volumetrico e dunque ai vuoti e ai pieni del modello edi lizio. Come è noto, nella pratica, quelle rappresentazioni piane vengono arricchite dalle proiezionì ortogonali sul loro piano delle superfici «caratteristiche» appartenenti ad uno dei due semispazi da esso individuati. Ma, dopo aver garantito con tali definizioni la coerenza logica del nostro modello e delle sue rappresentazioni, è ne cessario sottolinearne, riservandoci di motivarla più avanti, la diversa pregnanza (contenuto informativo) rispetto all'or ganismo edilizio. In particolare ai fini della metrica che costi tuisce l'obiettivo del nostro discorso va richiamato il ruolo fondamentale delle configurazioni planimetriche. Da quanto premesso sarebbe ragionevole presumere: a) che le prestazioni metriche di un organismo edilizio sca turissero, al termine del processo progettuale, esclusivamente dalla coordinazione tra i requisiti spaziali dei modelli comportamentali e quelli dimensionali dei modelli edilizi; sicché:
b) l'unica disciplina metrica fosse quella necessaria a garan tire la coerenza e l'adeguatezza del suo modello volumetrico. In realtà è facile accertarsi che: a) salvo rare quanto signi ficative eccezioni, tale ragionevole presunzione viene siste maticamente disattesa nel corso della storia; di più, risulta in radicale contrasto con la· maggior parte delle tradizionali teorie della cosiddetta Architettura con la A maiuscola, e costituisce una acquisizione concettuale recente della meto dologia della progettazione, ancora molto spesso contraddetta nella prassi e malintesa da numerose normative vigenti; b) già nelle antiche civiltà egizie e babilonesi gli strumenti geometrici, originariamente ideati per disciplinare la peri metrazione delle aree agricole e seguire il percorso degli astri nel cielo, erano divenuti una sovrastruttura non solo della produzione edilizia ma anche di quella figurativa. Gioverà qui ricapitolare, dell'estesissima documentazione storica, gli aspetti più strettamente pertinenti uno specifico strumento di disciplina geometrica: le griglie modulari.
È noto che in Egitto alcuni monumenti della necropoli di Saqqarah, presso Menfi, attribuiti alla III Dinastia, conser vano le tracce di griglie quadrate graffite sulla superficie dei bassorilievi, con un preciso riferimento alle figure rappre sentate. Il fatto che queste griglie, che costituiscono il più antico reperto di un rigoroso apparato geometrico, parteci passero di una già evoluta tecnica figurativa, conferma l'ipo tesi che esse siano state concepite nell'ambito di tecniche diverse ove un carente rigore geometrico avrebbe avuto con segu enze operativamente più evidenti e rilevanti. Ci si può chiedere, tuttavia, se sia lecito parlare di esse, in tutti i casi, come di un medesimo strumento. È necessario infatti distingu ere almeno tre aspetti concettualmente diversi, se pur fusi nell'uso maturo di queste griglie: garanzia della « chiusura» geometrica delle superfici e dei volumi, nel ri spetto di una « aritmetica » delle misure lineari; invarianza dei rapporti metrici fra le parti di una figura nelle trasfor mazioni «continue» (similitudini) determinate dai concreti passaggi di scala, dagli schemi progettuali agli oggetti« reali»;
35
36
istituzione, mediante normative più o meno esplicite, di ca noni proporzionali per la « rappresentazione » delle figure stesse. Non v'è alcun dubbio, infatti, che le griglie graffite di Saqqarah, oltre ad essere adoperate per dei meccanici pas saggi dì scala, come dimostrano le numerose tavolette qua drettate per i disegni preparatori, attribuite ad un periodo di poco posteriore, erano destinate a garantire il rispetto grafico delle proporzioni fra le parti delle figure rappresen tate, in particolare delle figure antropomorfe. Analoghe griglie sembra fossero tracciate anche sulle facce squadrate dei bloc chi in cui venivano ricavate le sculture « a tutto tondo». Bisogna per altro escludere, in tutti i casi, che questo im pianto geometrico valesse ad istituire il coordinamento gene rale di un astratto « spazio » della rappresentazione nel quale fossero « immersi » i singoli oggetti, a ciascuno dei quali, viceversa, in virtù di quei rapporti canonici, sembra che le griglie venissero esclusivamente ed indipendentemente rife rite. Queste, pertanto, non vanno considerate teoricamente estensibili all'infinito, ma solo indefinitamente dilatabili in funzione della grandezza dell'oggetto. Nell'ambito delle motivazioni socio-politiche può apparire strettamente conseguenziale il fatto che, in un regime inve stito, come quello faraonico, di un potere tanto esteso da rendere l'impegno organizzativo ed economico della sua stessa « rappresentazione» uno dei principali strumenti di stabilità politica, quella « dilatazione » venisse spinta fino alle estreme possibilità della tecnica e della organizzazione. In questo senso, sarebbe essenzialmente il diverso rapporto di scala a farcì riconoscere, al di là degli stilemi, il mondo della rap presentazione delle democrazie greche da quello delle dinastie egiziane; un rapporto di scala che, per essere continuamente riferito alle specifiche condizioni di equilibrio sociale della « polis », piuttosto che indurre ad un illimitato gigantismo, stimolava a raffinare la percezione dei rapporti proporzionali, producendo nuovi valori con analoghi mezzi tecnici. Fra questi, le griglie geometriche, coerentemente inquadrate nella assiomatica struttura dello spazio euclideo, articolano il loro ruolo nel più comprensivo concetto di « simmetria ». Più tardi,
sformazioni topologiche, coinvolgendo coerentemente tutti gli oggetti e i concetti che in esso vengono « immersi ». Forse, ai sottili ricercatori di una continuità storico epistemologica, una così esasperata ricerca di trasformazioni proiettive e topologiche apparirà come il coerente preludio alle ulteriori « proprietà» che quello spazio doveva maturare in virtù delle successive sofisticate indagini sul « continuo» e sulla « dinamica», proprietà destinate a liberare, per così dire, la geometria, come l'architettura, dai « discreti », rigidi vincoli delle griglie. Sicché, la prima le « immerge » nel si stema continuo delle coordinate cartesiane; la seconda le relega, per un lungo periodo, nella più vieta manualistica, donde vengono tratte solo per il rozzo, quanto efficiente, impianto militaresco delle nuove città coloniali. Può, altresi, lasciare perplessi il fatto che, proprio in quella trattatistica della progettazione ispirata ai principi illu ministici di una logica « funzionale » dello spazio architetto nico, le griglie modulari riassumessero, sul finire del XVIII secolo, un ruolo determinante; perché, alla luce della nostra ragione, lo abbiamo già detto, nessun apparato geometrico si giustifica, nell� determinazione della forma e delle misure degli organismi edilizi, al di fuori di quello necessario a garantire la coerenza del rapporto spazio-funzione; e que st'ultimo, in una prospettiva « democratica» e grazie ad una consumata esperienza delle tecniche artigianali, avrebbe do vuto espungere ogni sovrastruttura geometrica. Bisogna ri cordare, tuttavia, quanto peso avesse, nella fideistica Ragione degli illuministi, l'« Esprit» di una Geometria ancora ignara dei suoi fondamenti logici e perciò orgogliosa della sua « oggettività». Di una tale nuova disciplina geometrica della progettazione edilizia, non più fondata sugli ordini classici o su una qualunque teoria delle proporzioni, bensì sulla pura correlazione di parametri dimensionali di ordine tecnologico e funzionale, furono autorevole propugnatrice !'�cole Poly technique (ricordiamo in particolare le « Ieçons» di Durand) e coerenti sperimentatori, nel secolo scorso, i cosiddetti « ingegneri del ferro », da Paxton a Hennebique a Le Baron 38 Jenney. La coerenza tecnologica e storica delle opere di questi
ultimi risiede nel non aver tentato di trasporre ad ogni cost0, acriticamente, nel processo edilizio, la«·logica» della nascente produzione industriale, il che avrebbe fatto di essi una volon taristica avanguardia, e nell'aver acquisito esclusivamente quegli strumenti metodologici più strettamente legati all'im piego nell'edilizia dei nuovi prodotti industriali. E fu proprio questa acquisizione a fornire una concreta motivazione per quella rigida disciplina geometrica propugnata dalla prece dente trattatistica. Infatti, ancor prima della introduzione dei processi di produzione in grande serie e delle catene di mon taggio, i prodotti industriali per l'edilizia, ghisa, ferro e vetro, si qualificavano, dal punto di vista economico e tecnologico, per la ripetitività delle loro caratteristiche formali e dimen sionali; ripetitività determinata dagli stampi e dalla mecca nizzazione dei processi di lavorazione. Sicché le griglie mo dulari diventano lo strumento di una coordinazione metrica dei modelli volumetrici, finalizzata all'adozione dei prodotti seriali dell'industria. Da ora in poi, al di fuori di questa finalizzazione, l'adozione, nella progettazione edilizia, di gri glie modulari rimane un ausilio puramente grafico e descrit tivo, ovvero,· se condiziona aprioristicamente la forma del modello volumetrico, diventa una sorta di rinuncia, pigra o polemica, ad una radicale, impregiudicata ricerca di coerenza formale fra i modelli comportamenti ed edilizi. Pertanto solo in sede critica, e quindi caso per caso, si può interpretare il senso dell'imposizione · di questa sovrastruttura geometrica a molti progetti non destinati ad utilizzare quella serialità. A non voler parlare delle troppo note esperienze dei Mae stri del Movimento Moderno, basti citare qui, fra le più recenti, quelle di Paolo Portoghesi 2, per il deliberato quanto ambiguo rilievo che assumono in esse le sovrastrutture geo metriche; le sue «esplorazioni», tuttavia, valgono a stimolare una più vasta e sistematica ricerca nel campo delle griglie. Nei casi più comuni si tratterà comunque di semplice imita. zione, di esibizione formale di «segni» ·che connotano, so prattutto in virtù dei ricchi materiali che li supportano, «modernità», « tecnologie sofisticate», «ordine», « effi cienza». 39
In realtà è solo da pochi anni che la tardiva diffusione dell'industrializzazione edilizia, in particolare nelle tecniche di produzione che si designano comunemente con il termine « prefabbricazione », va consolidando presso l'opinione pub blica, malgrado molte infelici esperienze architettoniche ed urbanistiche, una immagine «positiva» di sé 3• Abbiamo par lato di diffusione tardiva non solo perché, come è noto, avviene con molto ritardo rispetto ad altri settori della pro duzione, ma anche perché, in particolare per quanto riguarda la prefabbricazione per componenti, sembra probabile che, in un prossimo futuro, la messa a punto di nuovi materiali e lo sviluppo della automazione porteranno ad un supera mento di quella «aritmetica» degli oggetti edilizi imposta dagli aspetti seriali della attuale produzione industriale, e rispecchiata nei concetti di «modulo» e di «coordinazione modulare». Questa prospettiva non ci indurrà, peraltro, a comportarci come i kafkiani costruttori della Torre di Babele 4.
40
A proposito del concetto di «modulo» giova qui chiarire un equivoco terminologico che ha indotto qualche autorevole critico dell'architettura a trarre fantasiose conclusioni da alcune rigorose premesse tecnologiche. A questo concetto viene oggi attribuito un estesissimo quanto eterogeneo campo referenziale (Wachsmann elenca dodici diversi referenti stret tamente pertinenti la produzione edilizia) 5, solo in minima parte sovrapponibile a quello tradizionalmente corrispondente al concetto di « modulo» dei cosiddetti « ordini classici». Come infatti si è già accennato a proposito delle griglie, negli ordini classici, imprescindibilmente legati all'esistenza di « tratti pertinenti», caratteristicamente configurati, del l'oggetto edilizio (basamenti, colonne, trabeazioni, ecc.) non viene imposta ad un tratto singolo una misura determinata (del resto come sarebbe stato possibile in un'epoca in cui le unità di misura variavano da villaggio a villaggio!), ma solo, all'insieme delle loro misure, un insieme finito discreto e chiuso di rapporti numerici (« commodulatio»); sicché, ad una qualsiasi di esse (convenzionalmente il raggio della
colonna) si potesse attribuire un valore unitario (modulo). Il modulo, dunque, finiva per costituire una caratteristica distintiva di un edificio rispetto a tutti gli altri del mede simo ordine; infatti una variazione del suo valore, in sede di progetto, comportava una variazione proporzionale di tutto l'insieme dei tratti pertinenti. In altri termini, nell'insieme dei modelli volumetrici degli edifici di un medesimo ordine, il modulo costituiva una variabile, e la « commodulatio » la costante. Il fatto che questo antico «modulo» designasse un valore di « misura», la cui validità tuttavia si esauriva nell'ambito di un singolo oggetto edilizio, non giustifica a nostro avviso l'aggettivazione « modulo-misura» che è stata ad esso attribuita per contrapporlo ad un concreto « modulo oggetto», con funzioni di « componente universale» dello spazio architettonico, che costituirebbe l'obiettivo ideale del l'attuale ricerca tecnologica. Citiamo a questo proposito da un noto saggio di Argan: « Lo standard, infatti, non è un tipo di forma, ma un tipo di oggetto: utensile, macchina, suppellettile, cosa e, se si vuole, città. E, come tale, prende il posto che aveva nel processo della progettazione classica, il modulo: tanto da potersi affermare che la grande sco perta dell'architettura moderna è la sostituzione del modulo oggetto al modulo-misura. È questo il punto di partenza dei nuovi processi operativi, di una nuova valutazione della fun zione edilizia, di una nuova (ma a posteriori) concezione dello spazio: nonché, né occorre dirlo, dell'industrializzazione dei processi costruttivi. ... Si può obiettare, e giustamente, che l'industrializzazione edilizia non mira tanto a servirsi di og getti architettonici prefabbricati, come porte o infissi, quanto di elementi più semplici, ma tali da permettere il maggior numero possibile di combinazioni: il punto di arrivo di questa ricerca non è certamente il modular di Le Corbusier (che infine è uno strumento misuratore, utile soltanto nella fase progettistica) ma la composizione per elementi fissi e giunti multipli di Wachsmann. E poiché Wachsmann è stato per molto tempo il collaboratore diretto di Gropius e proprio nello studio dei problemi della prefabbricazione, è facile intuire dove e come sia stato affrontato e risolto il problema, 41
non più della assunzione del singolo oggetto-standard a mo dulo, ma della definizione teorica del modulo-oggetto, cioè di un principio ideativo che fosse anche il tratto-base della costruzione. È chiaro che questa ricerca portava ad una schematizzazione delle funzioni, al loro raggruppamento per categorie, infine alla traccia per quanto leggera ed elastica, di uno spazio della funzione; cioè, in senso lato, di uno spazio urbanistico e sociale; ma è anche chiaro che questa teorizzazione implicava il concetto che l'oggetto-modulo con tenesse in nuce tutte le possibilità costruttive e formali di una determinata civiltà artistica e fosse dunque, fin dal na scere, un oggetto architettonico desunto per via d'esperienza e di critica dalla storia, anzi dall'intera fenomenologia del l'architettura... Ritengo che le strutture di elementi semplici e costanti di Wachsmann rappresentino il raggiungimento almeno in fase sperimentale, in vitro, del punto di fusione di quantità e qualità: il punto in cui la qualità si quantifica e la quantità si qualifica» 6• Premettiamo che l'improponibilità di questo universale «modulo-oggetto», sintetico contenitore «di tutte le possi bilità costruttive e formali di una determinata civiltà arti stica », la nostra civiltà artistica, nulla toglie all'interesse che rivestono quelle esperienze tecnologiche che fanno capo alla « Mobilar Structure» di Wachsmann, un tipo di strut tura cioè su cui egli stesso così si esprime: «La premessa era di sviluppare un unico elemento universale prodotto indu strialmente, utilizzando un materiale non definito a priori, la cui natura sarebbe stata stabilita dallo sviluppo delle ana lisi delle esigenze e dalla tecnica di produzione. Esso avrebbe dovuto trovare applicazione in ogni campo dell'edilizia. So stanzialmente si supponeva che questo elemento avesse le caratteristiche di un prefabbricato semi-completo che, in combinazione con altri elementi, con i relativi rivestimenti ed impianti (o vani di impianto), potesse diventare un ele mento completo di costruzione» 7• È necessario precisare che l'equivoco di Argan scaturisce da una errata interpretazione di alcune coerenti premesse 42 teoriche e dalla ingenua convinzione che le ricerche di Wachs-
mann rappresentino la logica ed esaustiva conclusione, sia pure « in vitro», di quella interpretazione. In realtà lo stesso Wachsmann dopo aver descritto il modulo come «unità astratta fondamentale di un valore di misura che, con molti plicazioni, sottrazioni o divisioni, determina numericamente il sistema geometrico di un ordine modulare immaginato», e dopo aver riconosciuto che « siccome un'unità fondamentale modulare ha effetto in una sola direzione, si può rendere necessaria la scelta di altri valori di misura o moduli », a patto che se ciò si verifica nell'ambito di un medesimo «or dine immaginato» questo sia composto «di campi diversi e indipendenti », afferma che « se si riuscisse tuttavia a realizzare in modo equilibrato tutte le esigenze con i valori di misura spaziali unitari, il modulo fondamentale risultante sarebbe un corpo di ordine modulare». E conclude: «Solo una unità spaziale di misura può venire considerata il caso ideale che rende possibile determinare un sistema univer sale, in ogni momento, di ogni parte, in ogni direzione, sia in se stessa sia in rapporto alle altre parti. La definizione del modulo fondamentale, base di un sistema modulare fon dato su di esso, richiede esami in diversi campi e ciascuno di questi può portare a risultati indipendenti o diversi. Solo analisi delle approssimazioni, e la sincronizzazione di tutti i risultati dimensionali ad un denominatore comune, deter minano il modulo universale» 8• Si vede bene che questo «modulo universale» ipotizzato da Wachsmann, ben lungi dal costituire il « principio ideale» di un concreto « modulo oggetto», non è altro che una unità di misura, sia pure spaziale, e che il suo «elemento universale», pur nell'ambito del solo sistema strutturale, per il fatto che attende di essere definito, cioè di dipendere strettamente «dallo svi luppo delle analisi, delle esigenze e dalla tecnica di produ zione», non può portare ad altro che ad un «brevetto», la cui durata di validità coinciderà, come quella di ogni altro sistema di prefabbricazione, con la durata del valore di quelle analisi, di quelle esigenze, di quella tecnica di produzione. Nell'esaminare, dunque, i limiti metrici e formali che 43
discendono necessariamente dall'aritmetica degli oggetti edi lizi imposta dalla produzione in serie dei suoi componenti costruttivi, per distinguerli da quelli che derivano da insuf ficienze della ricerca e da equivoci culturali, riteniamo pre feribile, in quel vasto campo referenziale del concetto di modulo, privilegiare gli aspetti squisitamente geometrici, solo al livello dei quali è lecito costruire coerentemente quei modelli conoscitivi ed operativi indicati in principio. E non si creda che questa riduzione sia limitativa degli interessi progettuali dell'edilizia; al contrario solo il sostegno della coerenza di quei modelli rende possibile una indagine non pregiudiziale delle caratteristiche progettuali dei «compo nenti» e ancora degli organismi edilizi cui, volta a volta, il loro assemblaggio può dar corpo. Per valutare le proprietà delle prestazioni metriche di un ordine geometrico da imporre al modello volumetrico di un organismo edilizio indefinitamente estensibile (ovviamente nei limiti teorici di approssimazione in cui orizzontalità e verticalità di riferimento si possono far coincidere rispetti vamente con una regione della superficie terrestre e con la corrispondente direzione della forza di gravità), è neces sario procedere dall'analisi di tre requisiti: a) modularità delle «direttrici» delle configurazioni planimetriche; b) con gruenza modulare fra queste e le «generatrici»; c) minimiz zazione dei vincoli di forma. Va peraltro rilevato che l'ado zione di una tale disciplina metrica, pur coinvolgendo neces sariamente gli « aperti » del modello volumetrico, è rivolta nel suo massimo rigore ai «chiusi», o se si vuole ai «pieni» del modello edilizio; questo non perché i «vuoti», e in particolare quelli corrispondenti agli «spazi d'uso», siano il «mondo del pressappoco » 9, per dirla con Koyré, ma perché gli standard, e le relative relazioni, dei modelli compor tamentali cui essi altresì devono corrispondere, includono un concetto di «elasticità» molto più estensivo e «qualificante» di quello implicito, nostro malgrado, anche nei «pieni», e di cui nei modelli edilizi si tien conto, al pari dei possibili 44 errori, fra le cosiddette «tolleranze ».
Per quanto riguarda il primo requisito, se ci limitassimo a considerare perimetrazioni poligonali isolate, l'adozione di un modulo lineare imporrebbe alle definizioni plani metriche limiti solo di forma o solo di area. Viceversa se si vincolano le superfici perimetrabili alla combinabilità di determinati moduli-fi gura (configurazioni piane chiuse), si pongono limiti rigidi sia alla forma che all'area delle configurazioni planimetriche. Inoltre, qualora si voglia esten dere indefinitamente nel piano la combinabilità dei moduli figura, ad essi si dovrà richiedere la proprietà di saturare il piano, cioè di ricoprirlo senza sovrapposizioni né «buchi». In tal caso la rete dei contorni di tutti i moduli figura disposti nel piano diventa l'orditura di ogni possibile configurazione. Se infine una tale orditura deve contenere tracciati rettilinei, comunque estensibili, la rete dovrà di ventare una griglia modulare, e il modulo-figura che la determina essere capace di saturare il piano con una disposizione tale che i contorni allineati risultino anche connessi. Ne consegue che i moduli-figura potranno essere solo parallelogrammi o triangoli e le griglie corrispon denti, bidirezionali o tridirezionali. Fra le prime, quelle più frequentemente adottate, come abbiamo detto, sono le griglie quadrate. L'imposizione della bidirezionalità e della ortogonalità, caratteristiche degli allineamenti di questa griglia, è parsa spesso l'utile correttivo formale di un uso speculativo ed individuale del suolo, guidato dalle capricciose tassellature catastali, nonché degli arbitrari formalismi ispirati da una « malintesa» libertà espressiva. D'altra parte, bidirezionalità e ortogonalità negli sviluppi planimetrici si riscontrano tanto frequentemente nel corso della storia della produzione edilizia da indurre a ritenere che sottendano anche motivazioni estranee al rispetto di una normativa; e, di fatto, la scelta dell'angolo retto è ampiamente giustificata dai vantaggi pratici conseguenti le sue caratteristiche geome triche: simmetrie, componibilità, semplicità di tracciamento e di controllo. Fra le griglie tridirezionali, l'unica diffusa mente adottata è quella a maglie triangolari equilatere, costi tuita da tre fasci di rette parallele modularmente distanziate
45
e reciprocamente inclinate di angoli di 6()<>. L'uso di questa griglia, come tracciato regolatore, ha tradizioni molto più recenti di quelle della griglia quadrata, malgrado l'indubbio vantaggio della sua maggiore semplicità di tracciamento. Infatti la realizzazione di un triangolo equilatero, univoca mente determinato dalla connessione per gli estremi di tre elementi lineari di uguale lunghezza, è molto meno laboriosa di quellà di un comune squadro. Fra le ragioni della sua ado zione va annoverata certamente l'acquisizione di una terza direzione e la conseguente disponibilità di quella varietà di angolazioni che ha ispirato la progettazione di episodi edilizi ricchi di articolazioni funzionali e di suggestioni formali: basti solo pensare a F. Ll. Wright. Il secondo requisito, congruenza modulare delle direttrici e delle generatrici, riporta il discorso alla spazialità del mo dello volumetrico, e comporta la definizione di una disciplina geometrica tridimensionale. Infatti, se il privilegio di cui gode il piano orizzontale negli artefatti edilizi sembra giu stificare ampiamente la preminenza assunta dall'organizza zione planimetrica nella definizione di sistemi che pur si sviluppano e di cui si fruisce nello spazio e nel tempo, è comunque necessario, nell'esplicare gli aspetti operativi del modello volumetrico, reintegrare le griglie piane ai loro refe renti spaziali. In questo senso la pura coerenza geometrica richiederebbe che tale referenza si estrinsecasse in una griglia modulare spaziale da assumere come « tracé régulateur del modello volumetrico. Ma la griglia quadrata è l'unica griglia piana dotata di un referente spaziale, la griglia cubica, geo metricamente coerente ed adeguato, in virtù del fatto che il cubo è l'unico poliedro regolare capace di saturare lo spazio trimensionale. Di qui la tenacia con cui, da alcuni decenni, si persegue l'obiettivo di tradurre in una normativa formale per gli artefatti edilizi le rigide leggi geometriche della griglia cubica. Da tali tentativi, tuttavia, nulla di più è sortito che un meccanico impacchettamento dei volumi e degli spazi, con esiti insoddisfacenti anche in episodi poeti camente ispirati. Il poliedro regolare che rappresenta lo sviIuppo tridimensionale rigorosamente coerente con la maglia li)
46
della griglia triangolare equilatera, il tetraedro, non satura lo spazio tridimensionale; sicché si è ricorsi talvolta ad una griglia modulare tridimensionale i cui piani partiscono perio dicamente lo spazio in regioni costituite da tetraedri e ot taedri regolari, disposti in modo che ogni triangolo della griglia spaziale sia faccia tanto di un tetraedro che di un ottaedro. Tuttavia alla modularità degli spigoli ed alla co stanza degli angoli da essi formati in ogni nodo non corri sponde una analoga modularità delle distanze tra i piani, né la costanza dei rispettivi angoli diedri. In virtù delle sue caratteristiche, essa è stata adoperata nell'edilizia, in parti colare da Fuller, non co_me tracciato regolatore, bensi come orditura tridimensionale di strutture a traliccio delimitate nello spazio. Analoghe « ridotte » applicazioni trovano altri tipi di griglie spaziali, correlati alla griglia triangolare piana. Questa tuttavia, nella maggior parte dei casi, costituisce l'or ditura di piani orizzontali sovrapposti, distanziati modular mente in modo che i nodi si corrispondano verticalmente, dando luogo ad una orditura spaziale meno regolare, dal punto di vista geometrico, ma meglio rispondente ai requisiti di un modello volumetrico in cui la direzione verticale, come abbiamo detto, non costituisce un riferimento « neutrale ». Quanto al terzo requisito, minimizzazione dei vincoli di forma, esso risulta assolutamente insoddisfatto non solo, nel modello volumetrico, dalla griglia cubica, ma anche, come è facile constatare, nelle rappresentazioni planimetriche, dalla griglia quadrata. Le griglie triangolari, come si è detto, soddi sfano planimetricamente meglio della prima a questo requi sito, e, tuttavia, comportano la rinuncia alla realizzabilità dell'angolo retto, pena la perdita della modularità. Se infatti il recupero della perpendicolarità può essere attuato, nel modello volumetrico, coerentemente alla stratificazione oriz zontale determinata dai piani orizzontali, non altrettanto può esserlo al livello planimetrico. :È possibile peraltro rilevare che, se non si vincolano le configurazioni planimetriche ad un modulo-figura, ma si im pone ad esse solo la modularità dei perimetri e delle aree, si possono costruire griglie piane pluri-direzionali che, nel 47
rispetto dei primi due requisiti, e senza rinunciare alla realiz zabilità degli angoli retti, ampliano notevolmente la gamma delle possibili configurazioni. In una recente ricerca, svilup pata in collaborazione, è stato dato a queste griglie pluri direzionali, ideate, nel corso di una esperienza didattica, da chi scrive, il nome di « griglie pitagoriche». Esse, infatti, sono sottoinsiemi della totalità delle rette individuate nel piano dai punti di un reticolo quadrato e da questi scandite secondo i multipli del lato della maglia del reticolo stesso; sicché vengono individuate dall'unione di una griglia quadrata e delle sue immagini rispetto a ben determinate coppie di rotazioni complementari intorno ad un nodo. Applicando ad una griglia quadrata una sola coppia di rotazioni comple mentari, si ottiene un insieme di sei fasci di rette parallele, ciascuna delle quali risulta scandita dalle rette del fascio ad essa ortogonale secondo il modulo della griglia qua drata, e secondo multipli di questo dalle rette di tutti gli altri fasci. Qualsiasi configurazione poligonale chiusa non intrecciata, disegnata su questa griglia, racchiude un'area multipla di quella della maglia quadrata, e - quel che più interessa ai fini della minimizzazione dei vincoli di forma i suoi lati, opportunamente scelti, possono disporre di di ciotto diverse angolazioni, contro le due della griglia qua drata, e le tre della griglia triangolare equilatera. Se non è questa la sede per approfondire ulteriormente i termini di questa ricerca, dobbiamo tuttavia spendere an cora qualche parola per giustificare l'accento posto, fin dal principio, sulla disciplina geometrica del piano.
48
Nel dominio, cioè fra le parti di un organismo edilizio che trovano corrispondenza nel modello volumetrico, assume una connotazione preminente quella famiglia di superfici di separazione tra « pieni » e « vuoti » che, per curvatura, posi zione ed estensione, soddisfano i requisiti topologici e mec canici relativi alla accessibilità ed alla percorribilità, desunti dai modelli comportamentali ed edilizi. Tali superfici devono essere: approssimativamente piane ed orizzontali; estese almeno, e distanti al più da un'altra, un passo; interposte fra
un « pieno» inferiore, materiato e configurato in modo coe rente ed adeguato al modello edilizio, ed uno spazio d'uso capace almeno del corpo di un uomo eretto e gesticolante, nonché connesso, più o meno direttamente, ad ogni altro spazio d'uso. Nell'ambiente naturale, donde trae origine la preminenza di quella connotazione, questa famiglia di superfici si iden tifica col suolo. Ma il suolo, per quanto venga pavimentato, sopraelevato o scavato, rimane intimamente connaturato al « luogo» geografico; sicché ben s'addice alle pur mirabili operazioni edilizie degli antichissimi popoli una definizione che Hegel riferiva alla biblica Torre di Babele: « coltivazione architettonica della terra» 10• Di questa originaria identifi cazione col suolo e di questo suo radicamento ai « valori », spesso malintesi, del « luogo», permangono ancora tracce profonde in molte odierne concezioni dello spazio architet tonico, pur se, da svariati millenni, quelle superfici sono state, per così dire, sradicate e dotate di quella autonomia di struttura, di estensione e di ubicazione che ha reso possi bile ad alcune civiltà il graduale passaggio dalla « coltiva zione architettonica della terra » allo sviluppo delle città. La memoria persistente di quel radicamento contribuisce dunque ancora a rimandare una corretta formulazione, sia pure al livello tecnico, dell'ulteriore irrinunciabile passaggio dal concetto di « sviluppo delle città» (uno sviluppo che ha trasformato in « bene economico » financo l'aria che respi riamo), a quello di « produzione industriale dello spazio abi tativo». In questo senso le intuizioni più fertili ci sembrano quelle che, muovendo proprio da quello sradicamento, mirano alla invenzione di un continuum architettonico, . dove i sempre più rari spazi privilegiati, da accidenti geografici o da eventi storici, non siano solo oasi da reclamizzare a fini. turistici, ma modulazioni di un ambiente tutto progettato, per uomini liberati da quella sorta di peccato originale, o di grazia, che è il luogo di nascita, e da quella condanna, spesso a vita, che è il luogo di residenza. Tutto ciò può essere, al livello tecnico, reso possibile dalla istituzione di un evoluto ed 49
evolventesi esperanto industriale, in cui tutti possano espri mersi e comunicare, a dispetto di quello scherzo maligno che Qualcuno tirò ai malcapitati figli di Adamo. (Ricordate la Genesi?: « Ma il Signore discese a vedere la città e la torre che fabbricavano i figliuoli di Adamo; e disse: Ecco che questo è un solo popolo, ed hanno tutti la stessa lingua; ed han principiato a fare tal cosa, e non desisteranno dai loro disegni, fino che gli abbian di fatto condotti a termine. Venite dunque, scendiamo e confondiamo il loro linguaggio, sicché l'uno non capisca il parlare dell'altro» 11). Di questo spazio continuo e modulato, quella famiglia di superfici privilegiate costituisce l'aspetto più significativo. Rispetto ad essa lo spazio abitativo assume quella caratte ristica struttura stratificata, ordinata e articolata dalla por tata dei nostri gesti e dei nostri mezzi percettivi; ad essa fanno riferimento tutte le altre configurazioni superficiali che determinano il modello volumetrico, inviluppandolo, ri partendolo e penetrandolo; ad essa infine, come si rileva dai modelli comportamentali, si richiedono prestazioni me triche e relazionali ben distinte e, per certi aspetti, indipen denti da quelle richieste a tutte le altre superfici. Si spiega allora la particolare pregnanza delle « piante » nella defini- · zione degli organismi edilizi, malgrado le loro insufficienze descrittive; donde il celebre slogan di Le Corbusier, « Le plan est le générateur », che, ancor qui, sintetizza le ragioni e, se si vuole, i limiti della nostra ricerca.
so
1 Cfr. M. MERu!Au-PoN'IY, Fenomenologia della percezione. Il Sag giatore, Milano 1965, p. 15. 2 Cfr. P. PORTOGHESI, Le inibizioni dell'architettura moderna. Laterza, Bari 1974. J Purtroppo nell'opinione pubblica italiana il termine e prefabbri cato», ingiustamente legato, dal gergo giornalistico, alle squallide espe rienze dei « baraccati » di vari centri colpiti da calamità più o meno « naturali », ha assunto una connotazione decisamente negativa. 4 « ••• Infatti si ragionava così: l'essenziale in una simile impresa è l'idea di costruire una torre che tocchi il cielo. Accanto a questa idea tutto il resto è secondario. Una volta concepita nella sua gran dezza, l'idea non può più scomparire; finché ci saranno uomini, ci sarà il desiderio intenso di condurre a termine la costruzione. Sotto questo rispetto non bisogna avere alcun timore per l'avvenire, al con-
trario, la scienza umana s'accresce sempre più, l'architettura ha pro gredito e progredirà; un lavoro per il quale ora ci vuole un anno di tempo, fra cent'anni potrà forse essere eseguito in sei mesi, e inoltre sarà più solido, fatto meglio. Perché dunque affaticarsi oggi fino al limite delle proprie forze? Ciò avrebbe senso soltanto se fosse lecito sperare di costruire la torre nel giro di una generazione. Ma questo non era neppure immaginabile. C'era piuttosto da aspettarsi che la prossima generazione, con le sue cognizioni perfezionate, trovasse mal eseguito il lavoro della generazione precedente, e abbattesse il già fatto per ricominciare da capo. Tali pensieri paralizzavano le energie e più che della costruzione della torre ci si preoccupava della costruzione della città degli operai... •· Cfr. F. KAFKA, Lo stemma della città, in Il messaggio dell'imperatore, Frassinelli, Torino 1952, pp. 217-218. s Cfr. K. WACHSMANN, Una svolta nelle costruzioni. Il Saggiatore, Milano 1960. 6 Cfr. G. C. ARGAN, Modulo-misura e modulo-oggetto, in Progetto e destino. Il Saggiatore, Milano 1965, pp. 113-114. 7 Cfr. K. WACHSMANN, op. cit., p. 148. 8 Ibidem, pp. 55-57. 9 Cfr. A. KoYRil, Dal mondo del pressappoco all'universo della pre cisione. Einaudi, Torino 1967. 10 Cfr. G. W. F. HEGEL, Estetica. Einaudi, Torino 1967, p·. 717.
51
La Storia dell'arte Einaudi ROSANNA CIOFFI MARTINELLI
52
Una rassegna dei primi due volumi della Storia dell'arte italiana di Einaudi non vuole entrare nel polverone di pole miche sollevato dalla pubblicazione, soprattutto del primo volume Questioni e metodi; né, però, chi scrive crede nella neutralità di qualsiasi intervento «culturale», anche se di carattere espositivo e informativo, quale è quello proposto in questa sede. Perché, dunque, una rassegna di due libri? Il perché spero si evinca alla fine di questo intervento, ma già da ora si può premettere che non si tratta di discutere su due testi a tema unico o che offrono un'unica chiave di lettura; e, inoltre, la vasta eco suscitata da quest'opera rende opportuna un'informazione più dettagliata nel metodo e nel merito delle sue proposte - informazione che non vuole sostituirsi a una lettura diretta, ma piuttosto auspicarla nonché una riflessione su alcuni dei punti fondamentali dei volumi stessi. Si diceva della mancanza di una chiave omogenea di lettura, dovuta, essenzialmente, alla molteplicità degli interventi degli autori - non raggruppabili sotto l'eti chetta di un'unica «scuola » - e, soprattutto, dovuta al vasto margine di autonomia proprio di tutti i contributi, i quali, specie per quanto riguarda il primo volume, risultano, ad una attenta lettura, precisamente differenziati. Ma una chiave di lettura più o meno evidente che li accomuna è nel considerare la ricerca dello storico dell'arte in una di mensione, essenzialmente, sociologica, ovverosia nel ricorrere nella propria indagine all'ausilio di altre scienze: so-
prattutto storia e sociologia intese nel senso pm ampio del termine. È bene, però, aggiungere che anche la storia e la sociologia non sono considerate discipline positivisticamente quantitative, dove sono, indifferentemente, raccolti tutti gli eventi e i vari strumenti per l'interpretazione di essi; al contrario, ogni singolo saggio rivela una precisa concezione storiografica - nella maggior parte dei casi di matrice mar xiana ma, come vedremo, con sfumature, talora, diverse -, così come l'ausilio della sociologia non mi è sembrato ispi rato alla tradizione anglosassone, ovvero basato in termini, essenzialmente, di approccio microsociologico, bensì nei ter mini di un approccio macrosociologico, ovvero nel senso più vasto di una storia sociale dell'arte. Il primo volume si apre con un saggio di Giovanni Previtali, dedicato a un problema assai complesso e tut t'ora aperto: la periodizzazione della storia dell'arte italiana. Preso atto del vastissimo materiale artistico prodotto sul territorio nazionale, caratterizzato, in tutta la sua storia, da un'eterogeneità geografica, economica e politica, l'A. si pro pone di rilevare una continuità tra le varie forme d'arte manifestatesi in Italia, in rapporto all'esistenza di continuità culturali territorialmente localizzate tra sé collegate e che contribuiscono a determinare stati di coscienza permanenti, comportamenti, tradizioni tecniche, solidarietà e contrasti.
In analogia con parte della storiografia contemporanea che vede nella continuità - sia pure attraversata da trasforma zioni, mutazioni, crisi - un fenomeno fondamentale del processo storico, Previtali estende al campo storico-artistico la ricerca e il controllo di tale continuità: il che, in termini di periodizzazione, significa non limitarsi al problema delle origini ( o della eventuale fine) di un'arte italiana, ma allar• garlo alla articolazione interna, nel tempo e nello spazio, dell'oggetto storiografico scelto. Il confronto tra la storia dell'arte e le altre discipline storiche ( essenzialmente: eco nomia, politica, storia delle istituzioni) è l'elemento saliente di tutta l'analisi dove, però, !'A. non si limita a verificare le uguaglianze e le disparità fenomenologiche tra i singoli campi, bensì ne ricerca le possibili connessioni e influenze
53
reciproche, senza fare a meno di quella dimensione parti colare della produzione artistica che siamo soliti riassumere nel concetto di « stile » ... In altre parole, l'aver scelto coscien temente, di regredire dalla specificazione dei modi e delle forme artistiche delle opere d'arte in ciò che hanno di non confrontabile a ciò che invece le accomuna a tutti gli altri prodotti del lavoro, in modo da trovare un terreno comune di confronto (e, in particolare, punti di riferimento comuni per la periodizzazione) nori vuol dire rinuncia a recuperare, in seconda istanza, il livello specifico della cosiddetta figura tività per ricontrollare al suo interno le ripercussioni della più generale dinamica del divenire storico-sociale. La rinuncia temporanea e metodologicamente giustificata ad avvalersi dl -una distlnzlone non deve tradursi in obliterazione della distin zione stessa, in appiattimento dei livelli, nel trasferimento meccanico delle cesure constatate a livello strutturale su tutti gli altri. Rilevate le discontinuità e disomogeneità dell'Italia in gran parte del Medio Evo, - tra l'VIII e il XIII secolo il territorio nazionale è, per così dire, diviso in due sfere d'in fluenza: una romanza ed un'altra orientale-bizantina - risul terebbe ancora valida la tesi, secondo l'A., in base alla quale ciò che avviene in Toscana con Margarito, Nicola, Arnollo, e Giotto (in parallelo ai fatti letterari: Guittone, Cavalcanti e Dante) costituisce una sintesi diversa ed originale, costruita con elementi tratti da elementi diversi della tradizione (anti chi, paleocristiani e romanico-gotici) e da ambedue le aree culturali (romanza e bizantina), e che questo, quindi, e non altro, è da considerare il momento d'lnizlo della storia del l'arte « italiana •· Pur concordando con la scelta di tale mo mento di sintesi e rielaborazione originale di elementi etero genei, perché considerarli esclusivamente fenomeni d'impor tazione e non tener conto delle particolari elaborazioni che pure si ebbero ad opera di artisti e di maestranze italia.ne in epoca precedente? Del resto lo stesso Previtali afferma che la produzione figurativa sviluppatasi in Toscana nel magico trentennio tra il 1290 e il 1320 si determina nel momento 54 in cui la continuità classico-bizantina e l'innovazione barbari co-
a meno di notare una disparità dei diagrammi della storia economica e sociale e della storia artistica), nella seconda metà del '700, nonostante i moti di ripresa sul piano strut turale, l'Italia ha ceduto il posto all'Inghilterra e alla Francia. A cavallo tra l' '800 e il '900, ultima impennata dell'arte italiana con un tuffo nella modernità: grazie agli artisti del divisionismo, a Pellizza da Volpedo e alla parte migliore dell'architetura sintonizzata con le correnti europee, dal li berty inglese alla secessione austriaca. E, ancora una volta, tale rammodernamento è posto in relazione con il processo di rapida trasformazione economica del paese rilevato dagli storici dell'economia tra il 1861 e il 1894. Dopo il 1915 è ormai impensabile di scrivere una starla dell'arte italiana che non sia, insieme e sia pure per scorcio, almeno storia europea, e dopo il 1946, decisamente mondiale. Dati per scontati e, necessariamente, presupposti il ricorso all'«economico» e al «sociale», la ricerca di A. Emiliani, autore del saggio successivo, mi sembra orientata verso una riflessione più diretta sullo specifico storico-artistico, all'in terno del quale l'A. vuole analizzare il concetto di lavoro: ma non solo in quanto questo accomuni le opere d'arte agli altri prodotti dell'attività umana, ma, soprattutto, in quanto il concetto di lavoro risulti componente intrinseca e qualificante dello stesso prodotto artistico. Inoltre, ne I ma teriali e le istituzioni .:_ così si intitola lo studio dell'Emi liani - l'A. non si limita ad una analisi diacronica (sequen ziale-cronologica) di tale rapporto, ma entra nel merito di una sua definizione sincronica (sistematica) strettamente connessa con l'attuale dibattito sul problema dei centri storici e la nozione di materiale. Individuata come caratteristica peculiare del Manierismo la riflessione storicistica, anche � talora involutiva, su i modelli affermati nel brevissimo spazio aureo del Rinascimento, egli ne sottolinea la costante proie zione operativa della conservazione, strumento indispensabile a qualsiasi ricerca e meditazione sulle opere del passato. Infatti proprio per essere a queste date, cosi intima la con nessione tra l'oggetto e la storia, la sua conoscenza e la sua 56 salvezza camminano di pari passo. Si dovrebbe quindi af-
di portata contenutistica e il conseguente nùnimo di esplici tazione formale. Come si conviene ad eventi entro i quali si muovono interessi di natura largamente ideologica e politica. Ne viene di diretto 1iflesso che tutta la storia dell'arte sosti pressoché interdetta di fronte alle sostanziali variazioni del l'orizzonte formale (Barocci, i Carracci, Caravaggio) quasi costretta a ricercare altrove le cause e le motivazioni di quelle peraltro fondamentali verità. Ma questo richiamo alla materialità del prodotto artistico, donde la sua visibilità, non si risolve in un generico recupero del cosiddetto specifico, né si limita a proporre una semplice, sia pur fondamentale catalogazione. Ciò che maggiormente interessa all'Emiliani è lo studio dell'atto operativo, attra verso il quale i materiali assumono la loro forma, general mente trascurato da· un'interpretazione idealistica che annul lava ogni intervallo nell'appiattimento della diade intuizione/ espressione. Ma l'A. tiene a precisare: sollecitare una simile riflessione non vuol dire naturalmente trascurare l'ordine e l'ordito generale dei problemi incontrati sia sul fronte del l'economico che in quello del sociale, come oggi per lo più si fa, ricorrendo peraltro anche a grammatiche ormai logore; quanto piuttosto ripercorrere tracciati più interni, più in timi di una deliberazione - la deliberazione estetica? che è fatta in realtà di gesti fittissimi, in un succedersi quotidiano, le cui determinazioni ci appaiono quasi sempre oscure, ma che costituiscono invece il connettivo di una creazione continua: non necessariamente ricondotta e sempre ad una mente individua, ma certo scaturita da impulsi, deci sioni, .atti dell'uomo. Tale analisi, comunque, è necessario che proceda di pari passo con un'attenta riflessione sui materiali, dotati nella loro fisicità di una predeterminazione espressiva con la quale ogni «operatore» deve continuamente fare i conti. Appare evidente come una proposta di ricerca che metta in primo piano, nel rapporto materiali-forme, i tratta menti tecnici e le soluzioni che ne derivano, sia strettamente connessa ad un discorso relativo alla tutela, alla conserva zione ed al restauro di un patrimonio artistico inteso non 58 esclusivamente in senso museografico e monumentalistico.
eventi per intenderli meglio, ma di identificare e astrarre dal continuum storicistico i momenti traenti, tanto da poter giovarcene attivamente ai fini del possesso anch'esso critico del presente, senza soggiacere al cumulo soffocante del pas sato intero e indistinto. Ma su queste posizioni si dirà meglio in seg 1ito, allorché tratteremo, esplicitamente, della proposta metodologica dell'A. È patrimonio ormai acquisito dalla maggior parte degli storici dell'arte mettere in relazione il tentativo della trat tatistica cinquecentesca di elaborare una legittimazione teo rica della creazione artistica - in base al privilegiamento del suo significato ( e, dunque, della sua ideazione) - col momento socio-ideologico governato dalla restaurazione feu dale, congiunta alla restaurazione del magistero ecclesiastico cattolico. Ma ciò che interessa il Bologna è non solo rilevare tali connessioni, quanto ricostruire e mettere in evidenza quelle « forze » che tentarono, più o meno consapevolmente, di rovesciare i termini del problema (ad es. Michelangelo, Caravaggio, lo spirito « libertino » del Barocco in odore di eresia) delle quali, da questo punto di vista, le fonti stentano a parlare. La situazione si ribalta con lo spirito settecentesco fon dato sull'esperienza e al tempo stesso congiunto alla rivalu tazione sociale dell'individuo e del suo lavoro. In relazione con queste circostanze storiche, ma in proporzione diretta con il crescere della trasformazione socio-ideologica, il pro blema critico privilegiato è divenuto quello della specificità e autonomia estetica del linguaggio artistico, collegato salda mente alla rivalutazione dei processi operativi in quanto ga ranti della comunicazione e del controllo: finalmente il pro blema critico è divenuto un metodo per la costruzione della storia dell'arte e ha impostato il problema del nesso fra la produzione artistica e lo stato corrispondente della società. L'analisi di tali situazioni storiografiche, schematizzate in questa sede, è molto documentata e ricca di osservazioni non solo relative al piano sociologico, ma che, soprattutto, en trano nel merito delle stesse teorie prese in esame. Analo60 gamente si può dire sull'indagine relativa alle dottrine otto-
centesche: all'interno delle quali si rileva la sùddetta con trapposizione tra la preminenza del significato (Wackenroder, Rio, Selvatico, Camdeniani), legata essenzialmente a consi derazioni di misticismo sfrenato o pesantemente moralisti che e, viceversa, il ritorno in auge dell'autonomia e speci ficità del linguaggio, in quanto legate al riconoscimento del l'importanza dei mezzi espressivi. All'interno di questo avan zamento l'A. prende in esame la Francia (Baudelaire, Dela croix, Courbet, Daumier), l'Inghilterra (Pugin, Ruskin, Mor ris), la Germania (Semper), l'Italia (Morelli, Cavalcaselle), per arrivare allo storicismo di Burckhardt e, quindi, intro durre il discorso sul '900 a cominciare dalla pura visibilità; di questa sono accennati la genesi e lo sviluppo ma, pre supposta la conoscenza dell'approccio puro-visibilista all'ope ra d'arte, l'A. vuole confrontare le posizioni dei teorici te deschi rispetto al suddetto parametro del rapporto tra ideare e fare. Soprattutto nel Riegl egli osserva che il « Kunstwol len», cioè la speciale visione generale, intenzionata e crea tiva che prende forma nell'opera d'arte, « si afferma lottando con Io scopo utilitario, la materia prima e la tecnica»; tre elementi a cui il Semper affidava un ruolo materialistica mente condizionante, ma che devono essere recuperati -'- dice Riegl - anche sul piano della libera intenzione, In quanto « determinano per così dire i coefficienti di attrito nell'intimo del risultato complessivo...». Ma, scrive il Bologna, resta tuttavia innegabile che nelle concezioni estetiche degli stessi puro-visibilisti prevale il momento in cui la « visività » non è sensibile, ma pura ( « reine » ); kantianamente essa è la proiezione dell'attività sensibile nell'a priori teoretico e trascendentale della coscienza: un vedere c�scienziale , in somma. Resta il merito di questi teorici di non aver consi derato le loro categorie visive quali opposte categorie di giudizio escludentisi tra di loro, bensì tutte equivalenti nel l'operazione di sistematizzare lo specifico del materiale storico-artistico il quale, da questo punto di vista, era preso in esame senza pregiudizi di valore, donde la rivalutazione di Wolfllin del Barocco e di Riegl del Tardoantico. Legata, essenzialmente, al versante del significato di un'ope-
61
62
ra d'arte, è considerata l'iconologia e, senza nulla sottrarre ai meriti delle analisi panofskiane, l'A. prende le distanze da un'adesione tout-court a tale metodologia, la quale ha il limite di non porre il momento dello stile come condizio nante sugli altri due momenti - iconografico e iconolo gico - nella lettura di un'opera. Ma per Panofsky, come si evince dal suo scritto La storia dell'arte come disciplina uma nistica, il «significato» è « l'idea del concetto da esprimere», oppure « l'idea della funzione cui si deve adempiere»; e in quanto « idea », deve essere « separato », tenuto distinto dai « mezzi»: siano questi di espressione o addetti ad adempiere una funzione. E ciò resta vero « anche se » le idee si realiz• zano mediante questi mezzi. A proposito della storia sociale dell'arte di Antal, Hauser e Klingender, leggiamo tutto il bene sulle premesse di tale metodologia, ma alcune riserve sulle analisi condotte dai suddetti storici. Viene per prima l'obiezione fondamentale che, di fronte all'enorme varietà della produzione artistica e delle sue sfumature, è una pretesa dommatica voler ridurre ogni cosa alla bipolarità fondamentale della società divisa in classi... Ma questa è un'obiezione generalissima, a cui gli storici in questione sono stati in grado di rispondere, aggiu stando il tiro quando è parso loro necessario. Nel caso speci fico di Antal e Hauser, sorge invece un diverso appunto; ... la loro storiografia resta idealistica perché considera l'ope rare artistico come un'attività prevalentemente, se non esclu sivamente, « culturale». Deriva esattamente di qui il fatto di aver considerato piuttosto la genesi dell'opera, che non la sua funzione e la sua destinazione; e nella genesi di non aver considerato quasi mai, comunque mai abbastanza, il mo mento pragmatico, che mette in movimento tutta un'altra serie di rapporti sociali sin dall'inizio, e pone oggettivamente il problema del contatto col pubblico. In queste osserva zioni è già in nuce la proposta di metodo globale con la quale si chiude il saggio. Rifacendosi al Benjamin dell'eliminazione del concetto di genio, del problema dell'arte di massa, dell'attenzione ai momenti della distribuzione e della ricezione di un prodotto
artistico, il Bologna propone un metodo che parta innanzi tutto dalla realizzazione concreta di detto prodotto, la quale rappresenta oggettivamente l'unica cerniera su cui -il mes saggio ruota per raggiungere il pubblico, ma anche il vero deposito della dignità storica del lavoro artistico. È indispen sabile per quest'approccio iniziale, che lo storico si comporti, soprattutto, come un conoscitore-filologo. Ma fermandoci solamente a questo livello, tiene a precisare l'A., otter remmo solo una sistemazione catalografica. Il «filosofico» si guadagna nella sua interezza quando, ampliato al mas si.mo il campo d'osservazione, l'unità tra immagine orga• nizzata iconograficamente e sua concretazione nel linguaggio specifico, il tutto oggettivato nelle materie mediante il pr� cesso di realizzazione, viene rapportato all'artista o al gruppo operativo; non già o non solo come poeti, intellettuali o professionisti, ma in quanto parti e contemporaneamente interpreti della dialettica sociale loro contemporanea. E seb bene la proposta nasca su un campo di analisi così ampia mente articolato, egli tiene ancora a sottolineare l'impor tanza dell'uso delle testimonianze, sia oggettuali, sia scritte, le quali, spesso, tacciono o dicono poco di quelle forze traenti, nella maggior parte dei casi, disomogenee e, anzi, avverse al potere costituito. Così come, per quanto riguarda il problema della specificità del linguaggio artistico, si tratta di soppesare equilibratamente quali siano le possibilità reali e i limiti di una storia sociale di quella specificità. A questo proposito l'A. parla di un'« autonomia relativa» dello stile, mentre è necessario non sottovalutare il ruolo della perso nalità artistica nel gruppo e nella società. Lo studio di E. Castelnuovo e C. Ginzburg mette al centro uno degli aspetti peculiari del piano della Storia dell'arte italiana: l'equiparazione di alcuni campi d'indagine quali la periferia (in questo caso in particolare), le arti applicate, i cosiddetti petits maitres - pure strati fondamentali de1 connettivo storico-artistico - all'arte con l'a maiuscola, set tore tradizionalmente privilegiato dalla critica . Ricerche, forse, tra le più complesse: data la scarsità dei documenti - tutti per lo più tesi a riportare i fatti ufficiali - e dove 63
il ricorso all'ausilio di altre scienze (storia, antropologia, psicologia di massa, storia delle tecniche) diventa una com ponente determinante. Il tema affrontato dai suddetti autori è, dunque, uno di quelli maggiormente lasciati in ombra dalla storiografia tra dizionale: la quale ha sempre considerato il centro, per defi nizione, il luogo della creazione artistica e, viceversa, la periferia quello del suo ritardo. Proviamo invece ad acco gliere i termini « centro » e « periferia » (e i relativi rapporti) nella loro complessità: geografica, politica, economica, reli giosa - e artistica. Ci accorgeremo subito che ciò significa porre il nesso tra fenomeni artistici e fenomeni extrartistici sottraendosi al falso dilemma tra creatività in senso idea lista (lo spirito che soffia dove vuole) e sociologismo som mario. In polemica con Kenneth Clark che ha inteso il nesso in questione esclusivamente in termini di preminenza e di diffusione della « cultura artistica » del centro nei confronti della periferia, ribattono i nostri AA. che non di diffusione si tratta, ma di conflitto: un conflitto rintracciabile anche nelle situazioni in cui la periferia sembra limitarsi a seguire pedissequamente le indicazioni del centro. Il saggio si apre con una rilettura della « Storia • del Lanzi sul filo dei rap porti tra centro e periferia, dalla quale gli AA. rilevano due ordini di problemi irrisolti e, come si vedrà, interdipen denti. Dal punto di vista geografico, lo squilibrio tra la parte dedicata all'Italia centro-settentrionale e quella dedicata al l'Italia meridionale e alle isole. Dal punto di vista storico genetico, l'importanza decisiva attribuita alla concorrenza non solo tra artisti ma tra committenti - e quindi un nesso non chiarito tra centri di potere (politico, o di altro tipo) e centri di elaborazione artistica. Con questi problemi (anche se posti in termini inevitabilmente un po' diversi) ci tro viamo a fare i conti ancora oggi... Che la pittura del Regno e delle isole sia ancora in grandissima parte da scoprire, è indubbio. Altrettanto indubbio è che la perdurante trascu ratezza della storiografia artistica nei confronti di questa parte d'Italia vada ascritta ad una situazione riassumibile 64 nel termine « questione meridionale •· E tuttavia - per
anticipare una conclusione che apparirà ovvia - le auspi cabili ricerche sulla pittura meridionale non potranno porre in luce una rete di centri artistici paragonabile a quella del Centro e del Nord d'Italia. In questo senso è lecito dire che la distorsione presente nella « Storia pittorica ,. del Lanzi riflette, in sostanza, una distorsione, o meglio la distorsione che caratterizza la storia (non solo pittorica) d'Italia. Da C)_ueste osservazioni parte, dunque, l'analisi di tale squilibrio territoriale, la cui origine si fa risalire sin dal I secolo a. C. allorché cominciò a delinearsi un contrasto fondamentale tra i centri urbani della penisola. La storia della distribuzione geografica di tali centri, con tutte le sue contraddizioni di lungo periodo, va presa in esame per comprendere la dislo cazione dei vari centri artistici italiani. Infatti ciò che cl consente finalmente di decifrare le coordinate geografiche e cronologiche di questi è la decisiva contrapposizione tra le due Italie - quella comunale e quella feudale - ... La frontiera tra queste due ltalie artistiche - policentrica l'una, oligocentrica l'altra - ricalca quella emersa nel I secolo a. C. e mai cancellata dalle vicissitudini posteriori. In base a tali considerazioni, Castelnuovo·e Ginzburg mostrano, con alcuni esempi emblematici, quanto la storia dei manufatti artistici sia strettamente legata a quella dei suoi centri di produ zione, tenendo conto, parallelamente, dei momenti della distri buzione, ricezione e consumo di detti manufatti. Non si pensi, però, che la conclusione di questo saggio sfoci in un'acritica e populistica rivalutazione della cosid detta provincia: ché, anzi, nella maggior parte dei casi, si pone in rilievo la dipendenza di questa nei confronti dei centri maggiori; gli AA., però, si propongono di analizzare, dove si è verificato e in quali termini che la periferia ha potuto essere sede di elaborazioni alternative. A· tal fine co niano ·il termine periferia come scarto, laddove per ·scarto s'intende « lo spostamerito improvviso rispetto a una traiet toria data» (nel caso della storia dell'arte si può intendere per traiettoria data la lingua artistica corrente) e, dunque, l'uso di questo termine consente di evitare espressioni connotate negativamente quali « deviazioni» o si.mill. 65
Come per Castelnuovo e Ginzburg tra centro e periferia occorre parlare in-termini di conflitto, per Manieri Elia, au tore del saggio Città e lavoro intellettuale dal IX al XVIII secolo, anche la storia della città si configura essenzialmente, come campo di compresenza e di scontro di fenomeni e processi diversi, le cui radici si collocano in una complessa dinamica tra classi sociali. Parlare della città italiana dal IX al XVIII secolo significa per noi, in sostanza, parlare del modi di graduale appropriazione della città e del teni torio da parte della società borghese. Questa idea base ha assolto, nel discorso, alla funzione selettiva, volta a «codi ficare i messaggi in anivo in modo da eliminare le ridon danze, e permettere il flusso di un più forte volume di traffico utile• (Kubler). In realtà, però, il parametro «sviluppo borghese• ci ha fornito solo i «limiti»: «gli inizi • con il formarsi del «borgo nuovo»; la conclusione (provvisoria), con il pervenire a una gestione urbana ormai pienamente borghese; e il termine dialettico costante, ri spetto alle manifestazioni del potere signorile. Ma sono que ste ultime, in definitiva, che danno corpo al nostro «com mento• e al discorso sul lavoro intellettuale e sulle trasfor mazioni della città e del territorio, nel nostro paese, fino ali'«età dei lumi•. La griglia metodologica con la quale l'A. si appresta ad affrontare la discontinuità dei fenomeni ur bani, letti in sintonia o in contrapposizione con l'ideologia dominante, si riallaccia ad un preciso filone della storio grafia architettonica contemporanea (quello che va sotto il nome di critica dell'ideologia) con l'innesto di elementi fou caultiani( per quanto riguarda Io smontaggio critico delle teorie sotto l'impulso conservatore di· quella che Foucault definisce « volontà di verità•) e psicoanalitici (inseriti, forse, troppo superficialmente nella trattazione storica). All'interno dunque di tali premesse, il saggio si snoda con una messe di riferimenti storici (strutturali e sovra strutturali) tali da costituire il tessuto connettivo dell'intera analisi. Non si pensi, però, che dalla storia di tali conflitti tra forze reazionarie e spinte progressive, il riscontro nella 66 dinamica della configurazione urbana risulti meccanico o
male: donde, nell'analisi, l'individuazione di alcune immagini paradigmatiche manifestatesi, a partire dal Medio Evo, sia nella rappresentazione pittorica che in quella teatrale (ad es. la simultaneità della visione, la figurazione del monte, la scena a portico, la scena di città, l'idea del fiume, ecc.) delle quali l'A. vuole risalire alla genesi e verificare la rete di mediazioni storico-culturali attraverso cui avveniva lo scam bio tra i due campi specifici. Nel secondo volume, L'artista e il pubblico, il richiamo alla storia sociale dell'arte, sia pure con sfumature e a livelli diversi, si fa ancora più esplicito. Non di opere - campo, tra l'altro, dove risulta più problematico istituire un rapporto immediato col sociale - si parla in questo testo, bensì di artisti e di pubblico: settori dei quali, sinora, il primo è stato, tradizionalmente, poco indagato (s'intende da un punto di vista sociologico}, mentre il secondo è stato per lo pii1 circoscritto al pubblico dei committenti. Infatti, a parte l'attenzione diretta a questo fondamentale livello di utenza, i saggi della raccolta einaudiana mi sembrano orien tati verso un'accezione più ampia del termine pubblico; nonché rivolti all'esame dei principali canali di diffusione attraverso i quali si realizzano alcuni momenti della distri buzione, ricezione e consumo di un prodotto artistico. Il primo saggio è dedicato a due settori basilari nella rete di mediazioni produttori/fruitori (intesi, questa volta, soprattutto come committenti e mecenati), vale a dire: la storiografia e il collezionismo. Paola Barocchi ci presenta una sintesi documentatissima dei più importanti trattati d'arte dalle Vite del Vasari, fino alla Storia del Lanzi. t:. troppo nota la perizia dell'A. - specialista, del resto, in questo particolare settore della storia dell'arte -, per par lare ulteriormente della scientificità con la quale imposta il suo metodo di analisi, basato su di una conoscenza scrupo losa di tutti i trattati presi in esame e, quindi, interpretati alla luce dell'ambiente artistico dal quale nascevano e che essi stessi erano in grado di orientare. Dunque storiografia e, strettamente legato con essa, collezionismo, cartine di 68 tornasole dei rapporti tra artisti e « critici », questi ultimi,
dello stato sociale degli artisti, raramente sono state con dotte in modo convergente e siamo lontani da una tipologia sociologicamente fondata dei produttori e dei fruitori., come è stata proposta nella storia letteraria. L'artista: momenti e aspetti è il titolo dell'intervento del Burke, nel quale l'A. delinea un abbozzo per una storia so ciale dell'artista dalla fine del XII secolo fino ai nostri giorni, basato su di una tipologia, essenzialmente, dei produttori. Il Burke, infatti, individua cinque tipi o ruoli sociali, nei quali la maggior parte dei pittori e scultori (parlerà poco degli architetti) si sono identificati nell'arco di tempo preso . in esame: l'artista-artigiano; l'artista-cortigiano; l'artista im prenditore; l'artista-burocrate; l'artista-ribelle. Dobbiamo os servare, però, che l'analisi della suddetta tipologia non risulta esaustiva e allo stesso livello di altri interventi del Burke; solo il paragrafo dedicato all'artista-imprenditore ci è sem brato veramente nuovo: in quanto, parallelamente allo svi luppo di tale ruolo soci<;1le - precisamente documentato si fanno riferimenti al coevo problema del mercato del l'arte, e si accenna ad una sorta di storia della mostra in Italia, in rapporto, tra l'altro, alla formazione e successiva istituzionalizzazione della critica d'arte. Nel delineare la quarta figura, vale a dire l'artista-burocrate - considerato dall'A. l'evoluzione dell'artista-cortigiano, così come l'artista imprenditore sarebbe lo sviluppo successivo dell'artista artigiano - l'analisi è illuminante sul ruolo che i pittori coprirono a partire dal Seicento, ma emergono, purtroppo, nella trattazione dei vuoti cronologici gravi per un'appro fondita comprensione di tale vicenda. Di respiro molto più ampio il saggio di A. Conti, L'evolu zione dell'artista: il tentativo, mi sembra, di far convergere le due linee di ricerca individuate dal Castelnuovo. Anche se, però, l'approccio socio-strutturale relativo alle condizioni concrete del lavoro degli artisti (organizzazione del lavoro, sistemi di pagamento, etc.) e quello, diciamo genericamente, ideologico (emancipazione dell'artista rispetto all'artigiano, influsso della Controriforma, artisti-cortigiani/artisti-ribelli 70 etc.), fanno la parte del leone rispetto ad un approccio più
72
ad alcuni strumenti di analisi forniti dall'ambito semiologico. Il riferimento a Mukarovsky e, soprattutto, agli studi sulla tipologia della cultura di Lotman e Uspenskij risulta parti colarmente idoneo a tale prospettiva di ricerca la quale, sia pure ad un livello di esplorazione sommaria, affronta un tipo di riflessione sorvolata o superficialmente considerata dalla maggior parte della critica storica artistica. Né, del resto, l'A. fa un uso indiscriminato di « dispositivi codifi catori » o di « modelli », ché ella si propone di applicarli ad un dato momento storico (a seguito principalmente di quelle trasformazioni economiche di cui si parla generica mente come l'avvento della società industriale), nel quale la problematica del destinatario e/o consumatore assume la dimensione di un fenomeno storico determinato, che entra a far parte della storia dell'arte come fattore di mutamenti, con una sua evoluzione, e .un'incidenza non insignificante sugli operatori culturali e soprattutto sugli artisti: pesando sull'immagine che hanno di se stessi, su progetti e compor tamenti. Il merito del saggio risulta proprio sia nel fermarsi sul come la critica contemporanea studi i modi e i mezzi coi quali si realizza la fruizione estetica ( fotografia, cinema, museo, critica d'arte, mass-media), sia nell'esaminare dina micamente i concetti stessi di opera d'arte, artista e pub blico: ossia non considerati come entità prestabilite, delle quali si percorre l'evoluzione, bensì come « grandezze » non costanti, delle quali l'A. si propone di esplorare proprio i cambiamenti e le reciproche influenze. Nonostante, infatti, che l'impostazione della ricerca abbia come terreno privile giato il versante del pubblico, il riferimento alle opere e agli artisti è continuo, e tutti e tre i termini sono considerati inscindibili nel processo generale di comunicazione. A diffe renza, invece, del Burke e del Conti, per i quali, pur tenendo conte, che il loro piano di'ndagine è la storia sociale degli artisti, il discorso sulle opere e sul pubblico ci sembra troppo tenuto a margine. Viceversa, il momento della ricezione e dell'uso è tenuto presente dagli AA. dei due capitoli succes sivi, dedicati ai principali canali di diffusione di un'opera d'arte: la stampa figurativa, la critica e l'editoria.
ma, soprattutto, di evitare un sociologismo sommario. L'aver, infatti, riferito i poli del circuito della fruizione ad un campo nel quale i vari livelli di utenza a cui va soggetta una certa produzione artistica si restringono, fa sì che risulti più facilmente storicizzabile e interpretabile il significato che le stampe di traduzione, ad esempio, rappresentavano per i critici d'arte. In rapporto, però, ai modelli semiotici di Lotman - chiamati in causa dalla Mura - vorrei osservare che, nel suddetto caso, si prende in esame solo il modello scientifico di fruizione, mentre, come risulta in vari punti dello studio dello Spalletti, le stampe di traduzione erano lette anche in rapporto ad un modello estetico e certa mente avevano un circuito anche esterno agli addetti ai la vori. Una fruizione estetica percepita, del resto, dagli stessi critici costretti, come nota lo Spalletti, ad operare una sorta di taratura dell'arbitrarietà stilistica delle stesse stampe ri spetto agli originali. Tali osservazioni, però, sono ben lontane dal limitare la validità di questo saggio che risulta uno dei più rigorosi - ogni argomentazione è avvalorata da una significativa scelta di fonti documentarie e bibliografiche e più stimolanti; si pensi all'analisi del dibattito storico artistico all'indomani della scoperta della fotografia, quale tecnica privilegiata di documentazione figurativa per un pub blico anche di « addetti ai lavori ». Fare un bilancio dei primi due volumi di un'opera che ne prevede dodici ci sembra prematuro, tuttavia vorremmo an cora riflettere su qualche punto che ci è parso caratteriz zante. Dicevamo, in apertura, della mancanza di un'identica chiave di lettura per tutti i capitoli: ciò ci pare da confer mare in quanto, se il richiamo alla storia sociale dell'arte è il Leitmotiv di quasi tutti i saggi, alcuni ci sono sembrati basati su di una concezione della storia in termini, soprat tutto, economico-politici, considerando la storia dell'arte come ideologia strettamente connessa a condizioni socio-strutturali; altri hanno voluto intendere la storia in senso più lato, col ritenere campi d'indagine altrettanto fondamentali la geo grafia, l'antropologia, la psicologia collettiva, etc. e, dunque, 74 si sono proposti di esaminare anche i processi di lungo pe-
riodo, la mentalità, i comportamenti sociali. Si è trattato, comunque, soltanto, di un privilegiamento di piani di ricerca, in quanto tutti gli autori ci sono sembrati concordi nell'attin gere gli strumenti necessari per indagare i fatti artistici al più vasto campo di scienze « ausiliarie », anche se è bene sottolineare che ogni ricerca interdisciplinare richiede un richiamo costante alla specificità del proprio oggetto, come ha tenuto a dire Fernand Braudel: Un ritorno costante alla realtà concreta, alle cifre, alle carte ( diremmo noi: alle opere), alle cronologie precise, in una parola, alla verifica dei dati.
Direttore responsabile: Rmuro Da Fusco Autorizzazione del Tribunale di Napoli n. 4653 del 26 novembre 11175 Tipolito •
La
Buona Stampa • - Via Carlo Di Tocco, 76 • 80142 Napoli • Te!. 202169